martedì 15 ottobre 2019


LA PAURA
Anne Holt

Parte prima

Natale 2008

       La bambina invisibile

Era la ventesima notte di dicembre.
Uno di quei sabato sera che promettono tanto e poi non mantengono era scivolato in modo impercettibile nell’ultima domenica prima del Natale. La gente stava ancora facendo baldoria in ristoranti e locali notturni mentre malediceva la violenta nevicata che si era inaspettatamente abbattuta su Oslo alcune ore prima. La temperatura si era poi innalzata fino a tre gradi sopra lo zero e dell’atmosfera natalizia non restavano altro che una grigia fanghiglia sui cumuli di ghiaccio e pozze di neve sciolta.
Una bambina era ferma al centro alla strada, nel bel mezzo di Stortingsgaten.
A piedi nudi.
− Quando le notti si fanno lunghe, − cantava piano, − e il freddo si fa pungente…
Indossava una camicia da notte color giallo pallido con delle coccinelle ricamate sulla pettorina. Dal vestito spuntavano due gambette sottili come bacchette cinesi e affondate fino alle caviglie nella neve fangosa. La gracile bambina seminuda era cosí fuori luogo in quel quadro notturno che nessuno si era ancora accorto di lei. L’ondata dei festeggiamenti prenatalizi stava per raggiungere il suo apice e tutti avevano il loro bel daffare. Una bambina seminuda che canticchiava nel bel mezzo di una via della capitale in piena notte diventava invisibile, proprio come gli entusiasmanti animali africani in uno dei libri che aveva a casa: erano stati ingegnosamente nascosti nei disegni di paesaggi norvegesi come ghirigori sulla corteccia e nel fogliame, quasi impossibili da scoprire tanto erano fuori luogo.
− … allora la piccola mamma topo dice
Erano usciti tutti a divertirsi, anche se in realtà erano ben pochi quelli che si stavano divertendo. Una donna, appoggiata al vetro blindato della gioielleria Langgaard, fissava il proprio vomito. Un rivolo rosso scuro di salsa di lamponi non ancora digerita scorreva fra i resti di costolette, polpette di maiale, neve fangosa e sabbia mista a sale. Sull’altro lato della strada una banda di giovani schiamazzanti stonava canzonacce rivolte a lei, trascinandosi dietro un compagno sfinito verso il teatro nazionale, senza curarsi del fatto che aveva perso una scarpa. Davanti a ogni locale erano assiepati capannelli di fumatori che tremavano per il forte vento. Raffiche salate provenienti dal fiordo spazzavano le vie e si mescolavano alle esalazioni di tabacco bruciato, superalcolici e profumi nauseanti: l’odore di una notte metropolitana norvegese in prossimità del Natale.
Ma nessuno faceva caso alla bambina che canticchiava immobile nel bel mezzo della strada, fra due argentei binari del tram.
− … e la piccola mamma topo… e la piccola mamma topo
Si era incantata.
− … e la piccola mamma topo
Il tram numero 19 partí dalla fermata cento metri piú in su, vicino al palazzo reale. Quasi fosse una slitta pesante come il piombo e carica di persone che non sapevano bene dov’erano dirette, accelerò appena lungo la lieve discesa verso l’Hotel Continental. Alcuni sapevano a malapena dov’erano stati. Altri dormivano. Altri farfugliavano di ulteriori festeggiamenti, alcolici e nuove donne con cui provarci prima che fosse troppo tardi. Altri ancora avevano lo sguardo perso nel vuoto di quel tepore denso che si adagiava sui vetri come grigia e umida opacità.
Un uomo all’ingresso del Theatercaféen alzò lo sguardo dalle costose scarpe che aveva scelto per la serata confidando che la neve si sarebbe fatta attendere ancora. Aveva i piedi fradici e sarebbe stato difficile togliere il sale che gli striava le calzature, una volta asciutte.
Fu lui il primo ad accorgersi della bambina.
Spalancò la bocca in un grido di avvertimento. Ma prima che potesse prender fiato qualcuno lo spintonò da dietro e fu già tanto se riuscí a tenersi in piedi.
− Kristiane! Kristiane!
Una donna vestita con il bunad, l’abito tradizionale, inciampò nella voluminosa gonna. D’istinto si aggrappò all’uomo con le scarpe Enzo Poli rovinate, che non aveva ancora recuperato del tutto l’equilibrio. Caddero a terra tutti e due.
− Kristiane, − piangeva la donna cercando di alzarsi.
Il tram avanzava sferragliando.
Il conducente, in procinto di concludere uno spossante doppio turno, si accorse finalmente della bambina. Si udí lo stridio del metallo contro il metallo quando frenò con tutte le sue forze sulle rotaie bagnate e coperte di ghiaccio.
− … allora la piccola mamma topo dice ai suoi piccolini, − canticchiava Kristiane.
Il tram era a sei metri da lei e ancora proseguiva la sua marcia, quando la madre riuscí a tirarsi in piedi e gridò di nuovo: − Kristiane!
In seguito qualcuno avrebbe detto che l’uomo che era sbucato dal nulla sembrava Batman. Sarà stato per via dell’ampio mantello, poiché in effetti era basso, leggermente sovrappeso e calvo, per di piú. Dal momento che tutti gli occhi erano fissi sulla bambina e sulla sua disperata madre, nessuno capí bene come fece quel tizio, con una agilità degna di nota, a infilarsi davanti al tram cigolante e, senza rallentare, ad afferrare con un braccio e stringere a sé la piccola. Si era appena allontanato dalle rotaie quando il tram scivolò piano sopra le orme seminvisibili della bambina e si fermò. Un lembo strappato dall’orlo del mantello scuro sventolava appena, impigliato nel paraurti del tram.
La città tirò un sospiro di sollievo.
Non si sentiva nessuna automobile, schiamazzi e risate si erano spenti. Le campanelle del tram erano mute. Erano rimasti tutti in silenzio, come se non riuscissero a credere fino in fondo che fosse andata bene. Il conducente del tram sedeva immobile al posto di guida, con le mani tra i capelli e gli occhi spalancati. Perfino la madre se ne stava impietrita ad alcuni metri di distanza dalla figlia, nel suo bunad ormai rovinato e con le braccia inerti lungo i fianchi.
− Se nessuno cade in trappola, − continuava a canticchiare Kristiane, senza guardare l’uomo che la teneva in braccio.
Qualcuno iniziò timidamente a battere le mani, altri si unirono, gli applausi si levarono alti e allora fu come se la donna con il bunad si risvegliasse all’improvviso.
− Tesoro, − gridò. Fece di corsa i pochi passi che la separavano dalla bambina, la tirò a sé e se la strinse forte al petto. – Non fare mai piú una cosa del genere! Promettilo alla mamma, mai, mai piú!
Johanne Vik sollevò un braccio, senza pensare e senza lasciar andare la figlia. L’uomo rimase impassibile quando il palmo di lei gli diede un violento schiaffo. Senza nemmeno sfiorare il bruciante segno rosso che gli era rimasto sulla guancia, sorrise obliquo, fece un cenno del capo lungo e profondo, come un addio all’antica, si girò e se ne andò.
− … ma fa’ bene attenzione, − cantava la ragazzina, − fra poco tutti insieme festeggerem di nuovo il Natale!
− Tutto bene? È tutto a posto?
Sempre piú persone vestite a festa si precipitavano fuori dall’Hotel Continental. Parlavano tutte contemporaneamente, tutte sapevano che era successo qualcosa, ma solo pochissime che cosa. Alcune parlavano di un investimento, altre del tentativo di rapire la piccola Kristiane, la strana figlia della sorella della sposa.
− Tesoro mio, − piangeva la madre. – Non devi fare cosí!
− La signora era morta, − disse Kristiane. – Ho tanto freddo.
− Ma certo che hai freddo!
La madre cominciò a camminare in direzione dell’hotel, a piccoli passi rigidi per non cadere. Davanti alle porte c’era la sposa. Il corpetto dell’abito nuziale, senza spalline, era ornato di paillette dai riflessi bianchi; la seta spessa ricadeva in pesanti pieghe sui fianchi stretti scendendo fino ai piedi calzati da un paio di scarpe ornate di perle anch’esse di un bianco splendente. La regina della serata era bella proprio come si conviene, truccata alla perfezione e con i capelli ancora impeccabilmente acconciati come all’inizio del pranzo di nozze, molte ore prima. Dal colorito della pelle al di sopra delle spalle nude si sarebbe detto che avesse fatto la luna di miele in anticipo. Sembrava non avere nemmeno freddo.
− Come va? − chiese alla nipotina con un sorriso, accarezzandole la guancia mentre la sorella le passava accanto.
− Zietta! − disse Kristiane, anche lei con un sorriso. – La zia sposa! Come sei bella!
− Non si può certo dire lo stesso di tua madre, − borbottò la sposa.
Solo Kristiane la sentí. Johanne non degnò la sorella di un’occhiata. Arrancò oltre, verso il tepore. Avrebbe tanto voluto salire nella sua stanza d’albergo, infilarsi a letto sotto il piumino con la figlia, magari farsi un bagno, un bel bagno caldo. La sua bambina era gelata e andava riscaldata il piú in fretta possibile. Anche se Kristiane, che fra poco avrebbe compiuto quattordici anni, pesava come se ne avesse dieci, Johanne stava quasi per collassare sotto il suo peso. E un passo sí e uno no calpestava la gonna del bunad, che le pendeva ancora tutta sbilenca. I capelli, che aveva raccolto intrecciandoli a corona, si erano tutti scomposti. Quell’acconciatura era stata un’idea di Yngvar e realizzarla le era costato un bel po’ di stress nelle ore precedenti il matrimonio. La festa non era cominciata che da pochi minuti e lei già si sentiva come Brunilde in uno spettacolo del periodo fra le due guerre.
Un uomo grande e grosso arrivò di corsa dal piano di sopra.
− Che cosa è successo? Che cosa… Kristiane sta bene? E tu?
Yngvar Stubø cercò di fermare la moglie, ma lei lo allontanò sibilando a denti stretti: − Che idea stupida! Siamo a dieci minuti di taxi da casa. Dieci minuti!
− Ma quale idea? Ma cosa… La porto io, Johanne, dài. Ti si è rovinato il vestito, e sarebbe…
− Non è un vestito! È un bunad! Ed è stata una tua idea! Questa orrenda acconciatura e questo albergo e portare Kristiane con noi! Poteva morire!
Fu sopraffatta dal pianto e lentamente lasciò andare la figlia, che l’uomo sollevò con delicatezza tra le braccia possenti. Insieme salirono la scalinata, senza aggiungere altro. Kristiane continuava a canticchiare con quella sua voce sottile e argentina: − Ciao, ciao, salta qui e salta lí, trallallerollerollà, ma che bel Natale sarà!a
− Kristiane si è addormentata, Johanne. Il medico ha detto che sta bene. Non c’è motivo di tornare a casa adesso. Sono già le…
L’uomo lanciò un’occhiata al televisore muto. Sullo schermo, l’Hotel Continental dava ancora il benvenuto alla signora e al signor Yngvar Stubø.
− … le tre e un quarto. Sono le tre di notte passate, Johanne.
− Voglio tornare a casa.
− Ma…
− Non avremmo mai dovuto accettare questo invito. Kristiane è ancora troppo piccola.
− Ha quasi quattordici anni, − ribatté Yngvar stropicciandosi il viso con le mani. – Permettere a una quattordicenne di partecipare al matrimonio di sua zia non è di sicuro da irresponsabili. E a dire il vero è stata molto generosa tua sorella a offrirci la suite e la baby-sitter.
− E che baby-sitter! − esclamò Johanne a denti stretti, sputando fuori l’ultima parola in una nuvola di goccioline di saliva.
− Albertine si è addormentata, − disse Yngvar rassegnato. – Si è addormentata sul divano dopo che anche Kristiane si era addormentata, finalmente. E cos’altro avrebbe dovuto fare? È venuta per questo, Johanne, perché Kristiane la conosce bene. Non potevamo aspettarci di piú da lei, se non che facesse quel che le era stato detto di fare, e infatti è scesa a prendere Kristiane dopo la torta e l’ha accompagnata qui in camera. È stata una disgrazia imprevedibile! Una disgrazia imprevedibile, solo questo. E tu lo devi accettare.
− Una disgrazia? E tu chiami disgrazia il fatto che una ragazzina come… come Kristiane riesca a uscire dalle porte chiuse a chiave di un albergo senza che nessuno se ne accorga? Che la baby-sitter dorma tanto profondamente da sembrare morta a Kristiane? Che fra l’altro la conosce cosí bene da chiamarla ancora «signora»! È una disgrazia, che quella bambina si metta a gironzolare per un edificio pieno di gente? Gente ubriaca! E che poi finisca nel bel mezzo di una strada, in piena notte, seminuda e scalza e…
Si portò le mani al viso ed esalò un singhiozzo profondo. Yngvar si alzò dalla sedia e si lasciò cadere pesantemente accanto a lei sul bordo del letto.
− Perché non ce ne andiamo a dormire? − le mormorò. – Domani ci sembrerà tutto meno brutto. In fondo è andata bene, dovremmo esserne contenti, no? Cerchiamo di riposare un po’, adesso.
Lei non rispose. La sua schiena curva sobbalzava a ogni respiro.
− Mamma.
Johanne si asciugò in fretta la faccia e si girò verso la figlia con un gran sorriso.
− Sí, tesoro?
− A volte sono proprio invisibile.
Dal corridoio arrivavano risatine soffocate e sghignazzi. Qualcuno propose un brindisi, una voce d’uomo esigeva di sapere dove si trovava la macchina per il ghiaccio a cubetti.
Johanne si infilò a letto silenziosamente. Accarezzando con lentezza i sottili capelli biondi della ragazzina accostò le labbra al suo orecchio.
− Non per me, Kristiane. Tu non sei mai invisibile per me.
− Oh, sí, − disse la figlia con una risatina. – Anche per te. Io sono la bambina invisibile.
E prima che la madre riuscisse a ribattere, nel momento stesso in cui le campane del municipio annunciavano che un’altra mezz’ora di quella ventesima notte di dicembre era passata, Kristiane si addormentò.
a. Le citazioni sono tratte dalla canzone tradizionale Musevisa (Alf Prøysen) [NdT.].

Camera con vista

Nell’istante in cui le campane del municipio batterono le tre e trenta decise che ne aveva abbastanza.
In piedi davanti alla finestra guardava quel che si riusciva a vedere.
E non era un granché.
Dieci ore prima una fitta nevicata aveva ricoperto Oslo, rendendola immacolata e luminosa. Nel silenzio vuoto dell’ufficio si era immerso cosí profondamente nel lavoro da non accorgersi nemmeno che il tempo era cambiato. Ora la città si stendeva scura e informe sotto di lui. Non pioveva, ma il tasso di umidità era cosí elevato che la condensa formava dei rivoli sul vetro della finestra. La fortezza di Akershus si intravedeva a stento, una vaga ombra dall’altra parte della darsena. Le onde grigie e indolenti erano l’unico segno che la scura superficie tra il molo di Rådhuskaia e Nesodden, fino alla penisola di Hurumlandet, fosse in effetti mare e fiordo.
Le luci però erano molto belle: le lanterne delle navi e i lampioni attraverso il vetro bagnato si trasformavano in piccole stelle scintillanti.
Sulla scrivania era tutto pronto.
I regali di Natale.
Una crociera ai Caraibi per suo fratello, sua sorella e le loro famiglie. È vero che si trattava di una delle navi della sua compagnia, ma era comunque un’offerta generosa.
Un gioiello per la madre, che avrebbe compiuto sessantanove anni il giorno della vigilia e che di ricevere diamanti non si stancava mai.
Un elicottero telecomandato e una tavola da snowboard nuova per il figlio.
Niente per Rolf, proprio come avevano deciso e come decidevano ogni volta, salvo poi pentirsene sempre.
E venti milioni di corone in opere di bene.
Era tutto.
Con i regali se l’era cavata in fretta. Gli erano bastati poco meno di un’ora dal suo gioielliere di fiducia ad Amsterdam in novembre, un giretto in un centro commerciale di Boston la stessa settimana e venti minuti davanti al computer per comporre un biglietto d’auguri simpatico per le famiglie dei parenti quella notte. Di immagini allettanti della Martinica e di Aruba ce n’erano in abbondanza nel sito della sua compagnia armatrice. Il biglietto era venuto bene ed era anche personalizzato: un ritocco ed ecco tutti i parenti schierati lungo il parapetto della MS Princess Ingrid Alexandra nella brezza marina.
A richiedere molto tempo erano stati i soldi da dare in beneficenza.
Marcus Koll jr ci metteva l’anima in ogni singola donazione. Disseminare tutt’intorno a sé doni caritatevoli era il regalo che si concedeva a ogni Natale. Lo faceva sentire bene e gli riportava alla mente il nonno. Quell’anziano signore, che rappresentava quanto di piú prossimo a Dio il piccolo Marcus fosse mai riuscito a immaginare, una volta gli aveva posto una domanda: un uomo aiuta dieci persone in difficoltà e se ne attribuisce il merito, un altro aiuta una sola persona in difficoltà e lo tiene per sé, nessuno mai lo ringrazierà; quale dei due è migliore?
Quel ragazzino di dieci anni aveva detto il primo, e si era poi trovato a dover lottare per difendere la sua idea. A lungo Marcus jr aveva sostenuto che l’intenzione del benefattore non era determinante: quel che contava erano i risultati, e dieci era meglio di uno. L’anziano signore aveva a lungo argomentato l’opposto. Fino a quando il ragazzo, a quindici anni, non aveva cambiato idea. Il nonno aveva fatto lo stesso, e cosí la discussione era andata avanti. Poi, all’età di novantatre anni, Marcus Koll sr era morto, affidando a una cartelletta grigio-verde con il logo delle ferrovie dello Stato un’esistenza elegantemente ordinata. Quei fogli dimostravano che per tutta la sua vita di adulto aveva elargito in beneficenza il venti per cento dei suoi guadagni; non il dieci come voleva una certa tradizione del sindacato dei lavoratori, ma il venti per cento. Un quinto dei guadagni della sua intera vita il nonno lo aveva donato a chi se la passava peggio di lui.
Marcus jr aveva sfogliato il contenuto della cartelletta il giorno delle esequie. Era stato come compiere un viaggio nel tempo, attraverso gli eventi bui del XX secolo. C’erano le ricevute dei trasferimenti di denaro alle vedove indigenti prima della guerra e ai bambini ebrei dopo. Ai profughi ungheresi nel 1956. Save the Children aveva ricevuto una piccola somma ogni mese a partire dal 1959 e il nonno aveva dato il suo generoso contributo anche a diverse organizzazioni umanitarie dopo ogni catastrofe o quasi a partire dal 1920: dai naufragi nel periodo fra le due guerre, attraverso le carestie nel Biafra, fino allo tsunami nel Sudest asiatico. Era morto solo cinque giorni dopo l’ondata di maremoto del 2004, ma era riuscito a trascinarsi all’ufficio postale di Tøyen e a inviare cinquemila corone a Medici senza frontiere.
Come macchinista con una moglie casalinga, cinque figli e, col tempo, quattordici nipoti, non doveva essere stato molto facile per lui ridursi la busta paga prima e la pensione poi, anno dopo anno. E senza mai arrogarsene il merito. Le somme erano state pagate in vari uffici postali, tutti sufficientemente lontani dal suo appartamento in una palazzina di Vålerenga perché nessuno lo riconoscesse. Il benefattore aveva sempre un nome fittizio, ma la calligrafia rivelava che era lui.
Il nonno non aveva aiutato una persona senza attribuirsene il merito, ne aveva aiutate a migliaia.
Proprio come suo nipote.
A dire il vero il contributo di Marcus Koll jr alle organizzazioni umanitarie e alla ricerca era di un ordine di grandezza ben diverso. Ci sarebbe mancato altro. In poche settimane lui guadagnava piú di suo nonno in un’intera vita. Ma immaginava che la gioia di donare fosse esattamente la stessa per entrambi e che non esistesse una vera risposta al quesito morale del nonno. Condividere non era una questione di nobiltà per nessuno dei due Marcus Koll: era solo questione di sentirsi soddisfatti della propria vita. E come il nonno si era concesso quel pizzico di vanità lasciando che il nipote venisse a conoscenza delle sue azioni una volta che tutto era finito e la discussione era morta e sepolta, in ogni senso, cosí anche il nipote teneva un accurato resoconto delle donazioni. Venivano effettuate con la massima discrezione, tramite numerosi passaggi che rendevano impossibile al ricevente identificare il vero benefattore. Quei soldi li donava a titolo personale, non coinvolgevano le sue aziende; il denaro proveniva dal suo reddito e ci pagava le tasse prima di devolverlo attraverso una serie di giri noti a lui solo. E nessuno al di fuori del Marcus Koll piú giovane, o Lillemarcus come tutti lo chiamavano, otto anni di lí a due mesi, sarebbe mai venuto a sapere che cosa facesse il padre ogni notte tra l’ultimo sabato e l’ultima domenica prima di Natale da quando aveva compiuto trentacinque anni.
Gli dava sempre una grande tranquillità, una tranquillità di cui aveva davvero bisogno.
Il cuore gli batteva troppo forte nel petto.
Passeggiava avanti e indietro. Non era una stanza particolarmente grande e non lasciava certo indovinare l’ingente quantità di denaro che si produceva dietro quella vecchia scrivania in rovere. La sede di lavoro di Marcus Koll jr era ad Aker Brygge, una zona molto ben quotata un paio di crisi finanziarie prima, anche se ora aveva perso valore. A lui però andava bene.
Si posò una mano sul petto sforzandosi di respirare lentamente. Era come se i polmoni fossero indipendenti dalla sua volontà, annaspavano alla ricerca di aria, troppo in fretta, troppo a fondo. Era lí, inchiodato al pavimento. Non riusciva a muoversi: stava morendo. Gli formicolavano le punte delle dita delle mani. Le labbra gli si erano gonfiate e una sensazione di intorpidimento alla bocca gli dava l’impressione che la lingua si fosse inspessita e seccata. Avrebbe potuto respirare solo dal naso, che però era tappato. Non respirava piú. Sarebbe morto nel giro di pochi secondi.
Si vide dal di fuori, come aveva letto che poteva accadere e come gli era già accaduto molte altre volte. Era all’esterno del suo corpo, leggermente di traverso, con una prospettiva quasi a volo d’uccello, e vedeva un quarantaquattrenne tracagnotto con le borse sotto agli occhi. Riusciva a fiutare la propria paura.
Una violenta ondata di calore lo investí e gli permise di tornare in sé. Barcollando raggiunse la scrivania, afferrò un sacchetto di carta dal primo cassetto in alto. Con l’indice e il pollice destri arricciò l’apertura, la carta gli sfuggí di mano, poi riuscí ad avvicinare il sacchetto alle labbra e iniziò a respirare il piú a fondo e il piú regolarmente possibile.
Quel sapore metallico non accennava a svanire.
Gettò lontano da sé il sacchetto di carta e appoggiò la fronte alla finestra.
No, no. Non era malato. Il cuore era a posto, anche se, a farci caso, sentiva delle fitte sotto la scapola e al braccio, al braccio sinistro. No. No, nessun dolore lí.
Non farci caso.
Respira.
Gli sembrava di avere le mani coperte di insetti, ma non aveva il coraggio di muoverle per scuoterli via. Si sentiva la testa leggera e assente, come se non fosse la sua. I pensieri si rincorrevano con una rapidità tale da renderli indistinguibili. Frammenti di immagini e frasi sconnesse turbinavano sempre piú in fretta, una giostra che lo fece vacillare. Cercò di farsi venire in mente una ricetta, la ricetta di una pizza, una pizza broccoli e feta, una pizza americana che aveva preparato migliaia di volte e di cui non si ricordava piú.
Non era malato. Nessuna emorragia cerebrale. Niente nausea. Stava bene.
Che si trattasse di un tumore? Sentiva una fitta alla parte destra del corpo, la parte del fegato, del pancreas, la parte per i tumori e la malattia e la morte.
Lentamente aprí gli occhi. Un angolo della sua coscienza sapeva che non era malato. Doveva concentrare l’attenzione su quello, non su una vecchia ricetta e sulla morte. L’umidità del vetro della finestra gli aveva lasciato la sua impronta gelida sulla fronte, facendogli lacrimare gli occhi.
Il respiro era piú leggero. Quel pulsare martellante che fino ad allora aveva sentito contro i timpani, allo sterno, nelle punte delle dita e all’inguine con una intensità dolorosa, adesso andava affievolendosi.
La città di Oslo era ancora lí, oltre il vetro, fuori da quella stanza con vista sulla darsena, sul fiordo e sulle isole. Marcus Koll jr aveva appena donato una fortuna in opere di bene e avrebbe proprio voluto sentire il calore che quella particolare notte prima di Natale gli dava sempre, una appagante felicità legata alle feste, ai regali, alla gioia del figlio per le vacanze, alla madre che era ancora viva, sbraitante e intrattabile come sempre, all’aver pagato ciò che era suo dovere pagare e al fatto che tutto era come doveva essere. Avrebbe voluto pensare alla vita che ancora non era finita, se solo fosse riuscito a respirare adagio.
A calmarsi. A calmarsi del tutto.
Il suo sguardo cadde su un nottambulo, uno dei pochi che ancora vagabondavano sulla banchina apparentemente senza scopo né ragione. Erano quasi le cinque di una domenica mattina. I locali erano ormai chiusi. L’uomo là sotto era da solo. Ondeggiava e aveva dei problemi a tenersi in equilibrio sulla pavimentazione sdrucciolevole.
A un tratto si esibí in un paio di disperati passi di danza, aggrappato al berretto come fosse un punto saldo, e scomparve oltre il bordo della banchina.
Di colpo tutto cambiò. Il cuore tornò a essere quello di sempre, la pressione sul petto si affievolí. Marcus Koll jr raddrizzò la schiena e aguzzò la vista. Era come se all’improvviso le mucose fossero tornate lisce, la lingua si reidratò, la bocca si inumidí di nuovo. I pensieri finalmente si riallinearono e ripresero a susseguirsi secondo un ordine logico. Calcolò in fretta quanto tempo gli sarebbe servito per uscire dall’ufficio, scendere le scale e raggiungere il molo. Ma ancor prima che il calcolo fosse terminato, vide accorrere delle persone. Erano cinque o sei uomini, tra cui un vigilante della Securitas, e gridavano a voce cosí alta che riusciva a sentirli perfino lui, cinque piani piú in alto e al di là di una finestra a triplo vetro. L’uomo in uniforme si stava già calando verso l’acqua.
Marcus Koll jr si voltò e decise di tornare a casa.
Si rendeva conto solo in quel momento di sentirsi stanchissimo.
Se si fosse sbrigato sarebbe riuscito a dormire almeno tre ore prima che il ragazzino reclamasse quel che gli spettava. In fondo era domenica e il Natale era vicino. Sulle alture che circondavano la città forse era rimasta un po’ della neve caduta il giorno prima. Potevano andare in slitta. E magari anche sciare, se si fossero addentrati nel bosco.
L’ultima cosa che fece Marcus Koll jr prima di uscire fu aprire un barattolino che teneva nel primo cassetto in alto e in cui conservava delle pillole ovali, bianche. Probabilmente erano scadute. Era passato cosí tanto tempo. Ne fece rotolare una sul palmo della mano. Un attimo dopo la rimise nel barattolino, riavvitò il tappo, infilò il barattolino nel cassetto della scrivania e lo chiuse a chiave.
Era tutto finito, per questa volta.
Si sentivano già le sirene in arrivo.
− Arriva la polizia? Sono loro? Qualcuno ha chiamato l’ambulanza? Queste sirene sono della polizia, cazzo! Chiamate un’ambulanza! Aiutatemi!
Il vigilante della Securitas era appeso per un braccio al bordo del molo. Aveva una gamba posata su una viscida traversa a meno di mezzo metro dalla superficie dell’acqua, mentre l’altra dondolava avanti e indietro in un disperato tentativo di mantenere l’equilibrio di quel pesante corpo ben allenato.
− Attaccati a me, su! Afferrati alla giacca!
Un ragazzo si sdraiò di pancia sulla fanghiglia di neve sciolta e afferrò il vigilante per la manica della giacca con entrambe le mani. Aveva gli occhi che brillavano. Gli mancavano ancora due mesi per diventare maggiorenne, ma una benedetta barba scura gli aveva permesso di girare di locale in locale senza che nessuno gli domandasse quanti anni aveva. Essendo squattrinato si era piú che altro dovuto accontentare dei resti di birra che riusciva a rubare. Adesso si sentiva perfettamente sobrio.
− Non è questo qui, − ansimò afferrando meglio la manica. − Quello che è caduto in acqua è molto piú in là!
− Eh? Cosa?
Il vigilante della Securitas fissava il corpo che stava disperatamente cercando di tirare fuori dall’acqua. Teneva ben saldo fra le dita il bavero della giacca a vento, ma la persona dentro quei vestiti ciondolava nell’acqua, inerte e pesante come il piombo, con il cappuccio che galleggiando si apriva e si chiudeva.
− Aiuto, − gridò una voce in quell’acqua nera, molto piú al largo. − Aiutatemi, sto...
La voce affogò.
Il ragazzo dalla barba corta e ispida lasciò andare il vigilante.
− Resisti! − gridò. − Ci penso io all’altro!
Si alzò, si tolse le scarpe, si sfilò il bomber e si tuffò senza alcuna esitazione in quelle acque scure. Riemerse pressappoco nel punto in cui aveva visto dibattersi l’ubriaco.
− Sono due? Sono caduti in due? Li hai visti? Li avete visti? − ruggí il vigilante ancora appeso al molo per un braccio. Con l’altra mano teneva stretto quello che senza ombra di dubbio era un corpo: una testa girata dalla parte opposta, due braccia e una giacca a vento scura. Era molto pesante. Pesantissimo. Gli facevano male le braccia e non si sentiva piú le dita.
Però non mollava.
Il ragazzo che si era appena tuffato boccheggiava e ansimava. Il primo scioccante impatto con il freddo si era trasformato in un dolore formicolante, cosí violento e intenso che i polmoni minacciavano lo sciopero. Il ragazzo si teneva a galla muovendosi con tanta frenesia che il busto emergeva per intero dall’acqua. Sotto di lui un abisso buio e incolore.
− Là, − gridò dalla banchina un poliziotto senza fiato. − Proprio dietro di te!
Il ragazzo si girò. Piú di riflesso che per aver visto davvero chissà che allungò la mano. Le sue dita trovarono qualcosa intorno a cui stringersi e tirarono. L’uomo mezzo annegato riemerse con un ruggito, come se avesse iniziato a gridare già sott’acqua. Il suo soccorritore lo teneva saldamente per i capelli. Il nottambulo ubriaco tentò di liberarsi dalla presa e al tempo stesso di aggrapparsi al ragazzo. Scomparvero entrambi. Quando riemersero, pochi secondi dopo, il piú vecchio era sdraiato di schiena con le braccia aperte e le gambe a fior d’acqua. Urlava di dolore visto che il soccorritore non gli mollava i capelli, anzi li stringeva ancora di piú mentre si avvolgeva una fune intorno all’altro braccio, senza nemmeno domandarsi da dove arrivasse.
− Ce l’hai? − gridò il poliziotto. − L’hai presa?
Il ragazzo tentò di rispondere, ma la bocca gli si riempí d’acqua, allora fece un cenno con il braccio intorno a cui aveva dato quattro giri di fune.
− Tira! − ansimò con voce quasi impercettibile, inghiottendo altra acqua. − Tira...
Mai avrebbe immaginato che il freddo potesse essere cosí intenso. L’acqua penetrava in ogni singolo poro della pelle. Gelidi aghi lo trafiggevano in tutto il corpo. Aveva male alle tempie, come se qualcuno stesse cercando di fargliele penetrare nel cervello, e gli sembrava di avere i seni frontali pieni zeppi di ghiaccio. Non si sentiva piú le mani e in un istante di puro terrore arrivò a credere che i testicoli fossero scomparsi. L’inguine gli bruciava, un paradossale e cocente calore che si diffondeva fin dentro le cosce.
Era rallentato nei movimenti. Si accorse che i suoi occhi erano morti, come se qualcuno li avesse spenti. Tutto era bagnato, freddo e scuro. Non poteva essere passato piú di un minuto da quando si era tuffato, ma lo sfiorò l’idea che quella potesse essere l’ultima cosa che avrebbe sperimentato in vita sua: perdere le palle nelle profondità di un mare dicembrino per colpa di un idiota ubriaco ad Aker Brygge.
A un tratto era fuori.
Sdraiato per terra, su una coperta che sembrava di carta stagnola, e qualcuno stava cercando di spogliarlo.
Lui aveva afferrato i pantaloni e se li teneva ben stretti.
− Rilassati, − gli disse un poliziotto, doveva essere lo stesso che gli aveva lanciato la fune. − Dobbiamo solo toglierti questi vestiti bagnati. Fra poco arriva il personale sanitario.
− Le mie palle, − gemette il ragazzo. − Le dita... sono...
Girò la testa dall’altra parte. C’erano poliziotti ovunque, adesso, a pochi metri di distanza due di loro stavano posando a terra un corpo da cui usciva acqua a fiumi. I poliziotti facevano una gran fatica e quello non dava alcun cenno di vita.
Non appena ebbero adagiato il corpo, arrivò di corsa un portantino con una barella su ruote. Il piú anziano dei due poliziotti lo allontanò risoluto vedendo che voleva aiutarli a spostare di nuovo il cadavere.
− È morto. Pensa ai vivi.
− Merda, − si lagnò il ragazzo tentando di alzarsi. − È morto? Non ce l’ha fatta?
− Non è quello che hai salvato tu, − gli rispose tranquillo il poliziotto mentre cercava a fatica di svestirlo. − Sarebbe stato comunque troppo tardi. Il tuo uomo è quello laggiú, si è appena rimesso il berretto.
Sghignazzò e scosse la testa. I suoi movimenti erano rapidi e il giovane temerario, che aveva finalmente ritrovato la certezza di possedere ancora gli organi genitali, rimase lí, inerte, a farsi spogliare. C’erano tre poliziotti che stavano finendo di circoscrivere la zona con il nastro segnaletico bianco e rosso, poi uno di loro coprí il cadavere sulla barella con un telo impermeabile.
− Tu-tu-tu-tu, − disse l’uomo con il berretto avvicinandosi. − Vo-vo-volevi fo-forse sco-sco-te-tennarmi? Eh?
Lui i vestiti li aveva ancora addosso, qualcuno gli aveva gettato una coperta di lana sulle spalle. Batteva i denti, ma non solo: tutto il corpo tremava al punto che l’acqua gli schizzava via dalle ciocche di capelli che spuntavano dal berretto fradicio.
Il ragazzo, sdraiato a terra, non ricordava alcun berretto.
− Ho sa-sa-salvato il be-berretto, − ridacchiò l’altro. − L’ho te-tenuto stre-stretto!
− Via, − gli disse il poliziotto con espressione rassegnata. – Va’ lí!
Indicò un’ambulanza parcheggiata di traverso sul molo che gettava fasci intermittenti di luce blu su tutti quegli uomini in uniforme.
− Chi-chi-chi è que-quello là? − domandò invece l’uomo sbirciando interessato in direzione del corpo senza vita sulla barella. − No-no-non l’ho mica vi-visto io in a-acqua!
− Adesso smettila... Arne! Arne, porta questo tizio all’ambulanza, tanto non ci capisce granché.
Con modi decisi l’uomo intirizzito venne condotto all’ambulanza.
− Avrebbe anche potuto ringraziarti, − disse il poliziotto, e fece cenno di avvicinarsi a uno dei soccorritori. − Sei stato coraggioso a buttarti in acqua. Non è una cosa che avrebbero fatto in molti. Ecco qui!
Si alzò e posò una mano sulla spalla di un uomo in uniforme giallo fosforescente.
− Bada tu al nostro eroe, − gli disse con un sorriso. − È tutto infreddolito.
− Prendo un’altra barella. Due secondi e...
Il ragazzo scosse la testa e tentò di alzarsi in piedi. Era nudo sotto quella pesante coperta e qualcuno gli aveva messo ai piedi delle scarpe da ginnastica troppo grandi senza che lui se ne accorgesse. L’autista dell’ambulanza lo afferrò per un braccio quando vide che barcollava.
− Sto bene, − borbottò il ragazzo stringendosi ancora di piú la coperta addosso. − Ma ho un freddo, cazzo…
− Forse è meglio se mi procuro una barella, − disse esitante l’autista dell’ambulanza. − Solo…
− No, no…
Il ragazzo si diresse a passi incerti verso l’ambulanza. Arrivato quasi al bordo della banchina si fermò un attimo. Le folate di vento salato provenienti dal fiordo gli fecero realizzare all’improvviso quanto fosse stato vicino alla morte. Gli venne da piangere: imbarazzato, si tirò la coperta fin sugli occhi. Poi, facendo un piccolo passo di lato, pestò la coperta e inciampò. Per non perdere del tutto l’equilibrio afferrò la prima cosa che gli capitò fra le mani. Era il telo che copriva il cadavere.
Le cose si mettevano davvero male.
Non potevano essere passati piú di cinque minuti da quando stava gironzolando lungo la banchina di Aker Brygge, da solo, insoddisfatto e senza i soldi per prendere un taxi che lo riportasse a casa. Nel giro di quei trecento secondi scarsi aveva nuotato in acque gelide, aveva avuto la certezza di essere sul punto di morire, aveva salvato un uomo che stava per annegare, aveva ricevuto elogi dalla polizia, aveva rischiato di congelarsi le palle. Nello stesso lasso di tempo due autopattuglie con in totale sei agenti in uniforme e due ambulanze perfettamente equipaggiate erano giunte sul posto. Il che era piuttosto incredibile, considerato il poco tempo a disposizione. Inoltre il vigilante della Securitas, non appena risalito sul molo e dopo che la polizia si era presa carico del corpo senza vita che lui aveva tenuto stretto, aveva fatto arrivare lí dagli edifici commerciali della zona ben cinque dei suoi colleghi.
E nel mezzo della baraonda di uomini in uniforme, oltre a una donna solitaria, una trentina di persone piú o meno alticce vagabondavano qua e là senza dare troppa importanza allo sbarramento provvisorio. Quel drammatico tableau attraeva come carta moschicida chiunque si trovasse nei dintorni quella domenica mattina all’alba. E dato che non erano passati nemmeno cinque minuti da quando la banchina di Aker Brygge era pressoché inanimata, la polizia non era ancora riuscita a capire esattamente quale fosse il legame fra il vigilante, il giovane nuotatore, l’ubriaco e il cadavere che due agenti avevano fatto grandi sforzi per tirare fuori dall’acqua. Le forze dell’ordine seguivano una loro routine, questo è vero, ma era notte, regnava il caos ed era stata data priorità assoluta al salvataggio dei vivi. Per questo motivo, o forse perché un agente era caduto in acqua nel tentativo di portare in secco il cadavere, fino a quel momento erano stati soltanto in due a vedere da vicino il corpo morto. Uno, piuttosto giovane, se ne stava chino a vomitare dieci o quindici metri al di là del nastro bianco e rosso, senza che nessuno se ne fosse accorto, l’altro invece aveva coperto il cadavere e a bassa voce stava ragguagliando il coordinatore dell’operazione sui fatti, quand’ecco che il ragazzo con la barba corta e ispida perse l’equilibrio per lo sfinimento.
Cadde all’indietro. La coperta gli scivolò di dosso. Per un attimo si preoccupò piú di non mostrarsi nudo che di mettere le mani avanti e cosí mentre cadeva finí per aggrapparsi al telo impermeabile che copriva il cadavere. Il telo restò impigliato all’altra estremità della barella, che quindi cominciò a inclinarsi. Per un breve istante sembrò quasi che il peso del cadavere potesse bastare a impedire la catastrofe totale, ma il ragazzo non mollò la presa. Capitombolò a terra senza niente altro addosso se non quelle grosse scarpe da ginnastica. Si sentí nitidamente il colpo dell’occipite che sbatteva sul terreno ghiacciato e lui gridò di dolore prima di perdere conoscenza per un secondo o forse tre.
La prima cosa che lo colpí quando rinvenne fu l’odore.
C’era qualcosa sopra di lui, qualcosa che lo stava soffocando, che gli toglieva il respiro con quella esalazione marcescente di carne andata a male e liquame. Qualcuno gridò e il ragazzo aprí gli occhi. Il cadavere si era adagiato su di lui in modo perfettamente simmetrico rispetto al suo corpo, come un bacio della morte, e i suoi occhi guardavano dritto all’interno del cappuccio della giacca a vento.
Là dentro c’era qualcosa che a rigor di logica avrebbe dovuto essere una testa.
In fondo si trovava all’interno del cappuccio di un bomber.
A quanto sarebbe poi risultato dal rapporto di polizia scritto alcune ore piú tardi, si ipotizzava che il corpo si trovasse in mare da circa un mese; quelle stesse pagine avrebbero sottolineato il fatto che probabilmente erano stati i vestiti a tenerlo insieme. Da un punto di vista clinico il cadavere sarebbe stato definito come «molto gonfio, parzialmente decomposto»; l’estensore del referto avrebbe quindi concluso che non si era potuto stabilire con certezza se il defunto fosse maschio o femmina. I vestiti facevano però pensare che si trattasse di una persona di sesso maschile.
Il ragazzo che aveva trascorso il sabato sera a intrufolarsi in questo o quel locale a caccia di birra e di donne e che impavido si era gettato nelle acque del fiordo in pieno inverno per salvare un’altra vita, svenne per la seconda volta. E questa volta il suo stato di incoscienza durò piú a lungo: quando riaprí gli occhi era sdraiato in un letto dell’ospedale di Ullevål e sua madre era seduta accanto a lui. Non appena la vide il ragazzo scoppiò a piangere. Singhiozzava come un bambino aggrappandosi al caldo e rassicurante abbraccio della madre e intanto cercava di cancellare l’ultima cosa che aveva visto e vissuto prima che una benedetta oscurità lo allontanasse dal mostro del fiordo.
Da una cavità in quella massa informe, all’incirca là dove un tempo doveva esserci stato un occhio, all’improvviso aveva fatto capolino un pesce, un minuscolo pesce argentato, non piú grande di un’acciuga, che aveva gli occhi neri e muoveva rapido le pinne; si erano fissati, il ragazzo e il pesce, poi quest’ultimo aveva fatto un guizzo, era saltato fuori dalla testa del morto e si era infilato nella bocca del ragazzo spalancata in un grido.

Andando da un amico

− D’ora in poi al cenone della vigilia di Natale mangeremo sempre pesce!
Yngvar Stubø prese dal piatto con le dita la testa di merluzzo, poi ne succhiò fuori l’occhio e lo masticò con aria pensierosa. La suocera, che sedeva proprio di fronte a lui al tavolo ovale, strinse le labbra e sollevò il volto, distogliendo lo sguardo con le sopracciglia inarcate. Suo marito, che aveva già bevuto un bicchierino di troppo, indicò il genero con coltello e forchetta.
− Ma bravo! I veri uomini del pesce mangiano proprio tutto!
− A dire il vero, − ribatté la moglie, − nella nostra famiglia le costolette di maiale alla vigilia sono una tradizione che va avanti ininterrottamente da quando…
− Mi dispiace, mamma!
Johanne Vik sospirò appoggiando le posate sul tavolo.
− È stato uno sbaglio, va bene? Uno sbaglio stupido e piuttosto insignificante, a essere sincera! Perché non la pianti e basta, con la storia delle costolette? Il Medio Oriente è in fiamme, c’è una crisi finanziaria devastante e tu devi fare tutto questo casino solo perché Strøm-Larsen si è confuso e ha scordato la mia ordinazione? Cristo, mamma, a tutti quelli seduti a tavola il merluzzo piace, non è poi cosí…
− Non ti si addice affatto questo modo di esprimerti, tesoro. E comunque posso dirti per esperienza che Strøm-Larsen non dimentica niente. È da prima che tu nascessi che mi servo dal miglior macellaio della città e…
− Mamma, non potresti limitarti a…
Johanne si azzittí, esibí un sorriso forzato e guardò la figlia minore, Ragnhild. Fra poco avrebbe compiuto cinque anni e fissava incuriosita il padre, intento a divorare l’altro occhio del pesce.
− È buono, papà?
− Mmm… strano e interessante e buono.
− Di che cosa sa?
− Sa di occhio di pesce, − rispose Kristiane battendo ritmicamente la forchetta sul piatto. – Lo dice anche il nome. Occhio di pesce, coda che cresce.
− Non fare cosí, dài, − la richiamò la nonna materna in tono gentile. – Fai la brava bambina della nonna e smettila con tutto quel rumore.
− Per certe persone il pesce è buono da mangiare, − disse Ragnhild. – E per certi pesci le persone sono buone da mangiare. Cosí siamo pari. Gli squali, per esempio. Gli squali festeggiano la vigilia di Natale, papà? Mangiano bambine per cena, prima di aprire i regali?
Rise di cuore.
− Non sono solo gli squali a mangiare le persone, − aggiunse Kristiane, a cui come sempre sfuggiva il senso dell’umorismo della sorellina.
Gli avvenimenti del sabato notte sembravano miracolosamente non aver avuto ripercussioni fisiche su di lei, solo il naso che colava un po’ e un lieve raffreddore. Che effetto avessero avuto sul piano psicologico era invece difficile stabilirlo. Fino a quel momento Kristiane non aveva detto una parola sull’accaduto. L’unico, piccolo cambiamento che a Johanne pareva di intravedere era che, nei quattro giorni seguiti al matrimonio della sorella, i momenti in cui la figlia snocciolava testi imparati a memoria duravano piú a lungo.
Come al solito Yngvar considerava positivo anche quello: la ragazzina era in una fase in cui faceva piú domande, ragionava, era curiosa e non solo ripetitiva.
− Molte specie di pesci hanno una alimentazione mista, − disse Kristiane lentamente, con lo sguardo fisso nel vuoto, in lontananza. – In determinate condizioni mangerebbero anche carne umana, se potessero.
− Adesso parliamo di cose piú piacevoli, − suggerí la nonna. – Cos’è che desiderate piú di tutto?
− Ma lo sai, nonna. Ti abbiamo dato la lista dei nostri desideri un sacco di tempo fa. E l’uomo morto che hanno tirato su dalla darsena nel fine settimana, per esempio, la sera in cui mamma si è arrabbiata tantissimo con me perché io…
Johanne lanciò un’occhiata implorante a Yngvar.
− La nonna ha ragione, − si affrettò a dire, visto che lui non l’aveva notata. – È la vigilia di Natale e quindi possiamo parlare di cose…
− Era rimasto a mollo nell’acqua per tantissimo tempo, − proseguí Kristiane e finí di inghiottire quel che aveva in bocca prima di ricaricare la forchetta. – L’hanno scritto sul giornale. Per questo si è gonfiato. Proprio come un pallone. Perché il corpo umano è salato e risucchia l’acqua che lo circonda. Si chiama osmosi. Quando due liquidi con diversa pressione osmotica, e cioè diverso equilibrio idrico-salino, sono separati da una membrana semipermeabile, ad esempio le pareti cellulari in un corpo umano, l’acqua penetra all’interno per compensare…
La nonna era visibilmente impallidita. Il nonno, che se ne stava lí a bocca aperta, a un tratto la richiuse con un colpo secco che tutti sentirono.
− Questa bambina, − sghignazzò. – Anzi, ormai sei una ragazza, Kristiane.
− Sai davvero un sacco di cose, bravissima, − commentò tranquillo Yngvar e si pulí la bocca con un enorme tovagliolo bianco. – Nonna e mamma, però, hanno ragione: la morte non è proprio l’argomento che di solito…
− Ma Yngvar, – lo interruppe la figliastra, − questo significa che un cadavere si gonfia ancora di piú quando è in acqua dolce anziché in mare, vero?
− Mamma, che cos’è un cadavere?
Ragnhild aveva preso dal piatto del padre quel che rimaneva della testa di pesce, se l’era messo sul naso e sbirciava attraverso le cavità oculari vuote.
− Buuuhh, − gridava ridendo. − Che cos’è un cadavere?
− Un cadavere è una persona morta, − rispose Kristiane. − E quando le persone morte restano in mare per tanto, tanto tempo, allora i pesci e i granchi se le mangiano.
− E anche gli squali, − aggiunse la sorellina. – Soprattutto gli squali.
− Il cadavere era stato divorato? – chiese il nonno con evidente curiosità. – Sul giornale non c’era scritto. È uno dei tuoi casi? Su, Yngvar, racconta! Da quello che ho letto sull’«Aftenposten» oggi, non si conosce ancora l’identità.
− Il caso è del distretto di Oslo e io non ne so piú dei giornali. Lavoro per la polizia criminale, no? − rispose il genero con un sorriso a denti stretti. – Noi della Kripos collaboriamo raramente con il distretto di polizia di Oslo, e quando lo facciamo diamo solo assistenza tecnica. Scambiamo informazioni sulle persone scomparse. Collaboriamo a livello internazionale. Cose del genere. Come ho già spiegato piú di una volta, fra l’altro. E adesso dico che è ora di cambiare argomento, va bene?
Yngvar si alzò risoluto e iniziò a sparecchiare. Intorno alla tavola scese il silenzio. Si sentiva solo il rumore di piatti e posate che venivano sistemati in lavastoviglie misto al canto attutito delle voci bianche del coro dei Sølvguttene proveniente dal televisore nell’appartamento al piano di sotto. Johanne si sorprese a provare disgusto per gli avanzi di pesce che buttava nella pattumiera man mano che ripuliva i piatti.
Come al solito aveva aspettato fino all’ultimo per andare a prendere le tipiche costolette natalizie. Quando era arrivata dal macellaio, quella stessa mattina verso le dieci, Strøm-Larsen le aveva già vendute tutte. Dell’ordinazione che lei giurava di aver fatto per telefono oltre due settimane prima nessuno sapeva niente. La commessa si era scusata, dicendosi dispiaciutissima per la situazione a dir poco incresciosa che si era creata, ma di costolette, comunque, non ne avevano piú. Il titolare non era riuscito a trattenersi dal farle un velato rimprovero, sottolineando che gli ingredienti del cenone di Natale andrebbero presi per tempo, ben prima della vigilia. Il pensiero di servire alla madre in quell’occasione delle costolette da quattro soldi comprate in un supermercato come Rimi o Maxi le era sembrato ancora piú remoto dell’idea di servire del merluzzo.
− Avrei dovuto prendere quel maledetto maiale da Rimi e poi giurare che era di Strøm-Larsen, − bisbigliò al marito infilando l’ultimo piatto in lavastoviglie. – Non ha mangiato praticamente niente!
− Peggio per lei, − le bisbigliò Yngvar di rimando. – Rilassati, dài.
− Che ne dite di arieggiare un po’? – chiese a un tratto la nonna a voce alta. – Non per il merluzzo, ovviamente, che è sano e anche buono… Solo che il profumo delle costolette di maiale arrosto è l’atmosfera stessa del Natale, ecco!
− Fra poco si sentirà il profumo del caffè, − ribatté Yngvar allegro. – Lo beviamo il caffè con il dolce, vero?
Al piano di sotto i Sølvguttene stavano cantando il salmo natalizio Deilig er jorden. Ragnhild si uní al coro e andò di corsa al televisore per accenderlo.
− Niente Tv adesso, Ragnhild!
Johanne cercò di sorridere quando fece capolino da dietro la parete corta della cucina aperta.
− Non guardiamo la televisione la vigilia di Natale, lo sai. E tanto meno mentre siamo a tavola.
− Veramente, a me sembra un’ottima idea, − protestò la nonna. – Tanto ci siamo seduti a tavola troppo presto. Sarebbe bello ascoltare un po’ i Sølvguttene. Sono cosí natalizie, quelle splendide voci. I ragazzi soprano sono una delle cose piú belle in assoluto, secondo me. Vieni, Ragnhild, che cerchiamo il canale giusto, io e te.
Un bicchiere di vino rosso si infranse sul pavimento con un colpo secco.
− Non importa, non importa!
Yngvar gridava e rideva e faceva un gran baccano.
Johanne si affrettò verso il bagno.
− L’anima pesa ventun grammi, − disse Kristiane.
− Ah, davvero?
Il nonno si riempí il bicchiere di acquavite fino all’orlo per la quinta volta.
− Sí, − gli rispose seria Kristiane. – Quando qualcuno muore il suo peso diminuisce di ventuno grammi. Ma è una cosa che non si vede. Non si vede e non si ride e non si…
− Non si vede?
− L’anima. Non si vede che se ne va via.
− Kristiane, − chiamò Yngvar dalla cucina. – Adesso dico sul serio: basta. Basta parlare di morte e decomposizione, va bene? E poi questa cosa del peso dell’anima è una stupidaggine. L’anima non esiste. È solo un concetto religioso. Vuoi un po’ di tè con il miele per dessert?
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane in tono monotono.
− Oh, no…
Johanne era tornata dal bagno. Si sedette sui calcagni accanto alla figlia.
− Guardami, tesoro mio. Guarda la mamma.
Con delicatezza le sollevò il mento con una mano.
− Yngvar ti ha chiesto se vuoi del tè. Tè con il miele. Ne vuoi?
− Dam-di-rum-ram.
− Non credo proprio che sia una buona idea dare del tè alla bambina quando si trova in questo… stato, no? Vieni dalla nonna, dài, che ascoltiamo questi ragazzi che cantano cosí bene! Vieni qui dalla nonna, tesoro.
Yngvar era in cucina, nascosto alla vista della suocera. Fece un cenno a Johanne e le disse muovendo le labbra senza voce: − Lascia perdereeee! Fai finta di non sentirla.
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane.
− Avrai proprio il regalo che desideri, − le bisbigliò Johanne. – Quello che desideri di piú, vedrai.
Johanne sapeva che non sarebbe servito. Era Kristiane a decidere dove voleva stare. Nei quattordici anni che aveva trascorso a strettissimo contatto con lei, tanto da far fatica certe volte a distinguere sé stessa dalla figlia, non era ancora riuscita a capire che cosa la portasse da uno stato all’altro. Alcuni schemi li avevano imparati, sia lei che Yngvar che Isak, il padre di Kristiane. Routine e consuetudini, alimenti che era meglio evitare o che potevano farle effetto, medicine che avevano provato per poi trovarsi d’accordo sulla loro inefficacia. Alcune delle strade imboccate avevano reso un po’ piú facile la vita con Kristiane, ma quasi sempre la figlia vagava in un mondo tutto suo, seguendo un percorso tutto suo, e lo faceva a proprio, incomprensibile piacimento.
− Mamma ti vuole un bene dell’anima, − le bisbigliò Johanne. Con le labbra le fece il solletico all’orecchio, e Kristiane sorrise.
− Adesso arriva papà, − disse.
− Papà arriva fra poco. Quando avrà finito di mangiare con il nonno e la nonna verrà qui dalla sua bambina.
Lo sguardo di Kristiane era del tutto privo di espressione. Era come se i suoi occhi si muovessero indipendentemente l’uno dall’altro, e questo spaventò Johanne. Di solito si limitavano a fissare qualcosa che gli altri non potevano vedere.
− La signora era…
− Si chiama Albertine, − la interruppe Johanne. – Albertine stava dormendo.
− Faceva un freddo terribile. Non riuscivo a trovarti, mamma.
− Ma ti ho trovato io. Alla fine.
Johanne era cosí concentrata sulla figlia da non accorgersi di sua madre. Per prima cosa sentí il suo profumo, un profumo che le aveva regalato la sorella e che costava piú di quanto lei spendesse in cosmetici e igiene personale in un anno intero.
Vattene, cercò di dirle con tutta sé stessa. Inarcò la schiena e fece un minuscolo passo di lato, sempre restando seduta sui calcagni.
− Kristiane, − disse la madre di Johanne in tono fermo e tranquillo. – Vieni qui dalla nonna. Per prima cosa andiamo ad aprire il pacco rosso con il nastro rosa. È il tuo regalo. Dentro il pacco c’è una scatola con un coperchio. Quando avrai aperto la scatola e tolto anche l’altro coperchio, troverai un microscopio. Proprio quello che desideravi. Adesso mi dài la mano e…
Allungò una mano verso di lei.
Johanne era ancora accovacciata, con i palmi posati sulle esili cosce di Kristiane.
− Microscopio, − disse Kristiane. – Dal greco micrón, «piccolo», e skopéin, «guardare».
− Proprio cosí, − disse la nonna. – Ora vieni, su.
I Sølvguttene avevano finito di cantare. Ragnhild spense il televisore. Anche al piano di sotto fecero lo stesso. Dalla cucina si diffondeva il profumo del caffè e il mondo fuori era silenzioso come lo è solo in quest’unica sera dell’anno, quando le chiese sono vuote e le campane tacciono e piú nessuno va e viene.
La mano lunga e sottile della nonna si infilò in quella di Kristiane.
− Nonna, − disse la ragazzina con un sorriso. – Voglio il mio microscopio.
Ma era Johanne che guardava, e i suoi occhi restarono fissi sulla madre finché non si decise a seguire la nonna sino al divano per aprire un regalo che sapeva già cos’era.
Johanne si alzò, tutta indolenzita, e rimase ferma lí, in piedi.
Una strana ondata di felicità la attraversò per poi svanire ancor prima che fosse riuscita a intuire di cosa si trattasse.
Per Eva Karin Lysgaard la felicità era un concetto solidissimo.
La felicità consisteva nella fede in Gesú Cristo. Ogni singolo giorno da quando, a sedici anni, aveva incontrato il Redentore durante un’escursione aveva provato la gioiosa sensazione data dalla Sua vicinanza. Parlava con Lui di continuo, e le capitava spesso di ottenere anche delle risposte. Perfino nei momenti di dolore, e una donna di sessantadue anni di momenti simili ne aveva sperimentati, Gesú era con lei, come consolazione e sostegno e infinito amore.
Erano quasi le undici di sera della vigilia del Suo compleanno.
Eva Karin Lysgaard aveva un appuntamento con Gesú: un patto stretto con suo marito, Erik, e il Signore. Quando tutto nella loro vita era sembrato buio e senza via d’uscita, ecco che avevano trovato una soluzione alle difficoltà. Non era stata la strada piú facile quella che avevano scelto di imboccare, ce n’era voluto di tempo per individuarla, e sarebbe per sempre rimasta una questione fra loro tre, fra lei, Erik e il Redentore.
E adesso Eva Karin Lysgaard era in cammino.
La pioggia che il vento sospingeva dalla baia di Vågen sapeva di sale. Dietro molte finestre di quel pittoresco complesso di case in legno si intravedevano ancora delle deboli luci: per molti la vigilia di Natale non era ancora finita. Eva Karin inciampò in un cubetto di porfido nel momento in cui svoltò l’angolo di Forstandersmauet ma ritrovò subito l’equilibrio. Aveva gli occhiali appannati e bagnati e non ci vedeva bene. Ma non importava. Quella era la sua via, l’aveva percorsa infinite volte prima di allora.
Stupita, si fermò per un breve istante.
Erano proprio dei passi che sentiva alle sue spalle.
Camminava ormai da piú di venti minuti e non aveva incontrato altri esseri viventi, a parte un gatto da cortile e degli uccelli marini che gridavano lamentosi sopra la baia.
− Vescovo Lysgaard?
Lei si girò verso la voce.
− Sí? – rispose con un sorriso.
C’era qualcosa di strano nella voce dell’uomo, qualcosa di forestiero. Era dura, forse. Diversa, in ogni caso.
− Chi sei? Come posso aiutarti?
Nell’istante in cui la colpí con il coltello lei si rese conto di essersi sbagliata. Nei sedici secondi che intercorsero fra l’attimo in cui comprese che sarebbe morta e l’attimo in cui cessò di vivere, non oppose alcuna resistenza. Non disse una parola e si lasciò cadere a terra, in strada, con quell’uomo sopra di lei, l’uomo con il coltello: di lui non le importava. Era lei che aveva sbagliato. Per tanti lunghi anni aveva creduto che Gesú fosse al suo fianco e, nella presuntuosa convinzione che Lui avesse perdonato e accettato, aveva vissuto in una menzogna che era troppo grande per poter continuare a reggerla.
Nell’istante in cui morí, quando non c’era piú nulla da vedere e tutte le sensazioni dell’esistenza erano svanite, si domandò che cosa Lui, che era la vita eterna, non avesse accettato, se la menzogna o il peccato.
«Sarà stato lo stesso», pensò.
E morí.
− Gesú Bambino non può avere duemila e otto anni, − disse Ragnhild e sbadigliò. – Nessuno vive in eterno!
− No, − le disse Yngvar. – Gesú in effetti è morto piuttosto giovane. A Natale festeggiamo il giorno in cui è nato.
− Allora dovremmo avere dei palloncini. Non è un vero compleanno senza i palloncini. Tu credi che a Gesú Bambino piacessero i palloncini?
− A quei tempi i palloncini non esistevano. Adesso però è ora di fare la nanna, bambina mia. È quasi l’una! È già Natale, a dire il vero.
− Ho battuto il mio record! – esultò Ragnhild. – L’una è piú tardi delle undici?
Yngvar annuí rimboccandole il piumino per la quarta volta in due ore.
− Adesso è ora di fare la nanna.
− Perché l’una è piú tardi delle undici, se una è un numero piccolo e undici è un numero grande? Posso restare alzata cosí tanto anche a capodanno?
− Vedremo. Nanna!
Le diede un bacio sul naso e andò alla porta.
− Papà…
− È ora di fare la nanna. Guarda che papà si arrabbia se non ti sdrai e ti metti a dormire. Capito?
Premette l’interruttore della luce e la stanza rimase immersa nel bagliore rossastro proveniente da una catena di cuoricini luminosi appesa tutt’intorno a una delle finestre.
− Ma papà… solo una cosa…
− Che cosa?
− A dire il vero è un po’ stupido regalare un microscopio a Kristiane, tanto lo rovina e basta.
− Può darsi. Ma era il regalo che desiderava.
− Perché non regalarlo a me il microsc…
− Ragnhild! Adesso mi sto arrabbiando! Sdraiati subito, altrimenti…
Il fruscio del piumino lo azzittí.
− Notte papà, ti voglio bene.
Yngvar sorrise chiudendo la porta.
− Anch’io ti voglio bene. A domani!
S’incamminò silenziosamente lungo il corridoio. Kristiane dormiva già da un pezzo, ma era capace di svegliarsi per una piuma di pollo che cadeva sul pavimento. Trattenne il respiro quando passò davanti alla sua porta. Poi trasalí.
Il telefono? All’una di notte della vigilia di Natale?
In due balzi raggiunse la porta del soggiorno per far cessare quel frastuono il piú in fretta possibile. Per fortuna Johanne lo aveva preceduto: parlava a bassa voce, in piedi accanto all’albero di Natale, che versava in uno stato miserevole da quando Jack, il bastardino color marrone-giallognolo di Kristiane, si era scatenato come una furia rovesciandolo in un caos di ghirlande e luci elettriche. La suocera aveva deposto fra i regali, ben impacchettato, un osso: al cane non c’era nulla da rimproverare.
− Arriva, − sentí che diceva Johanne subito prima di passargli il telefono.
Aveva quell’espressione rassegnata che gli dava sempre una fitta al cuore. Allargò le braccia come per scusarsi ancora prima di afferrare il cellulare.
− Stubø.
Johanne si mise a vagare senza meta per la stanza. Raccoglieva un gioco qua e un libro là, per poi posarli dove non avrebbero dovuto stare. Spostò una stella di Natale sporcando di terra la tovaglia. A furia di girare si ritrovò in cucina, ma non aveva nessuna voglia di vuotare la lavastoviglie e infilarci dentro quel che restava della pila di piatti sporchi. Era molto stanca e decise invece di bersi l’ultimo rimasuglio in fondo alla bottiglia ormai quasi vuota di vino rosso che le aveva regalato la sorella. A detta della madre costava piú di tremila corone, il che avrebbe palesemente significato gettare perle ai porci, quindi Johanne finí di riempirsi il bicchiere con del vino italiano da poco in un cartone posato sul piano della cucina.
− Bene, − sentí dire al marito. – A dopo, allora. Passa a prendermi alle sei.
La telefonata si concluse cosí.
− Alle sei, − gemette Johanne. – Ci capiterà mai di dormire un po’ di piú?
Bevve un gran sorso di vino e si sedette sul divano.
− È stata proprio una bella serata, − disse Yngvar lasciandosi sprofondare accanto a lei. – Tuo padre, come al solito, è stato dolce e snervante allo stesso tempo, e tua madre… tua madre…
− È stata terribile con me, buona con Ragnhild, brava con Kristiane e condiscendente con te. E incantevole con Isak, quando finalmente è arrivato. Come sempre. Chi è morto?
− Eh?
− Lavoro.
Johanne fece un cenno del capo al cellulare appoggiato sul tavolino da salotto.
− Ah. Un caso delicato.
− Quando ti chiamano per lavoro la vigilia di Natale suppongo che sí, sia proprio un caso delicato. Di cosa si tratta?
Yngvar prese il bicchiere e se lo portò alle labbra con tale impeto che quando lo posò gli erano rimasti dei baffi rossi. Poi si bloccò, guardò l’orologio e corse in cucina. Johanne lo sentí sputare nel lavandino.
− Può darsi che debba guidare, − disse asciugandosi con la manica mentre tornava indietro. – E comunque devo essere in grado di pensare lucidamente.
− Tu pensi sempre lucidamente.
Lui sorrise e ritonfò accanto a lei. Il tavolino da salotto era ancora ricoperto di carta da pacchi, bicchieri, tazzine da caffè e bottiglie di bibite. Con una grazia di cui nessuno lo avrebbe creduto capace quell’omone posò i piedi in mezzo al caos e accavallò le gambe.
− Eva Karin Lysgaard, − disse sorseggiando acqua da una bottiglietta di marca Farris che aveva preso in cucina. – È morta.
− Eva Karin Lysgaard? Il vescovo? Il vescovo Lysgaard?
Lui annuí.
− E come è morta? Voglio dire, dal momento che telefonano a te si tratta di un crimine, no? È stata assassinata? Un vescovo assassinato? Come? E quando?
Yngvar bevve un altro po’ d’acqua e si stropicciò il volto come se quel gesto potesse renderlo piú lucido.
− Ne so pochissimo. Dev’essere successo soltanto…
Lanciò una rapida occhiata all’orologio.
− Poco piú di due ore fa. È stata accoltellata, è tutto quello che so. A dire il vero, non si sa con certezza se è stata uccisa con un coltello, ma per ora sembrerebbe che la causa di morte sia una profonda ferita da taglio nella regione del cuore. E l’hanno uccisa per strada. All’aperto, quindi. Non so altro. Il distretto dell’Hordaland normalmente non ci chiederebbe assistenza in un caso del genere, per lo meno non cosí in fretta. Ma questo… be’… A ogni modo, io e Sigmund Berli partiamo domani.
Johanne si tirò su e posò il bicchiere di vino. Dopo un attimo lo spinse con risolutezza piú in là, verso il centro del tavolo.
− Accidenti, − fu tutto quello che riuscí a dire.
Rimasero seduti in silenzio. Johanne si sentí attraversare da un brivido freddo e le venne la pelle d’oca. Eva Karin Lysgaard. Il vescovo di Bjørgvin, una donna indulgente e sempre in primo piano. Assassinata. La sera della vigilia di Natale. Johanne cercava di dare un senso ai propri pensieri, ma era come se la mente girasse a vuoto.
Proprio il sabato prima, il giorno di quel dannato matrimonio, il «Magasinet», il supplemento settimanale del «Dagbladet», aveva dedicato al vescovo Lysgaard un servizio di oltre quattro pagine. Johanne non avrebbe avuto nemmeno il tempo di sfogliarlo, ma quando aveva visto quella storia in copertina si era comprata il quotidiano con l’intenzione di leggere l’articolo piú avanti. Ancora non era riuscita a trovare l’occasione per farlo.
All’improvviso si allungò sopra al bracciolo e si mise a frugare nel portariviste.
− Ecco qui, − disse appoggiandosi il «Magasinet» sulle ginocchia. − Il vescovo senza frusta.
Yngvar le cinse le spalle con un braccio e insieme si chinarono sulla rivista. In copertina c’era la foto di una donna di una certa età. Aveva gli occhi a mandorla, ma tagliati in giú, che le conferivano un’aria triste anche quando sorrideva. Le iridi erano di un marrone intenso, quasi nere, le sopracciglia spesse e scure; le ciglia sembravano ancora incredibilmente lunghe nonostante le rughe intorno agli occhi.
− Una bella donna, − mormorò Yngvar e fece per girare pagina.
− Non bella, a dire il vero. Particolare. Caratteristica. Con quest’aria da persona buona, come in effetti era… da viva.
Johanne continuava a fissare la foto. Yngvar fece un lungo sbadiglio.
− Scusa, − disse scuotendo rapido il capo. – Ma è meglio se cerco di dormire il piú possibile. Anzi, dovremmo dare una sistemata qui prima di andarcene a letto, altrimenti ti toccherà fare tutto da sola domani e potrebbe…
− Per strada, − lo interruppe lei. – Hai detto che è stata uccisa per strada? La sera della vigilia di Natale?
− E quasi per miracolo l’ha trovata una pattuglia della polizia, una delle poche in circolazione. Era lí, sdraiata per terra. Da un certo punto di vista abbiamo un grosso vantaggio: per una volta, a quanto pare la stampa non è riuscita a mettere le grinfie su un omicidio nel giro di due minuti. Senza contare che domani i quotidiani non escono.
− Non che la stampa online sia meglio, − borbottò Johanne, lo sguardo ancora inchiodato alla fotografia del vescovo di Bjørgvin. – Anzi, è anche peggio. Per non parlare di radio e televisione. Di fronte a un caso del genere non conta proprio nulla che siano tutti in vacanza. Ma perché devi partire? La polizia di Bergen non è perfettamente in grado di sbrigarsela da sola?
Yngvar sorrise.
In verità la Kripos non era piú quella di una volta. Per cinquant’anni era stata una sorta di gruppetto elitario di investigatori comunemente soprannominato Commissione omicidi, poi aveva sviluppato, a poco a poco, un’organizzazione piú complessa con competenze di spicco in indagini di tipo tattico e soprattutto tecnico. Alla polizia criminale era stato assegnato un numero sempre piú elevato di incarichi a livello sia nazionale sia internazionale. Per l’opinione pubblica, fino al nuovo millennio era rimasta un organo di sostegno alle inchieste della polizia ordinaria sui casi piú importanti. In modo particolare sui casi di omicidio. Ma i tempi cambiano e la criminalità si evolve. Nel 2005 la Kripos in realtà aveva cessato di esistere e lasciato il posto a un ente chiamato Unità nazionale per la lotta al crimine organizzato e d’altro genere, il cui acronimo sarebbe stato Unlcoag. Contro questo nuovo nome si erano levate violente proteste ed era stato fatto notare, senza troppi giri di parole, che suonava come una poco appetibile onomatopea del vomito. Alla fine i dipendenti l’avevano avuta vinta e la Kripos aveva potuto prepararsi a festeggiare i suoi cinquant’anni nel febbraio del 2009 con il nome antico e armonioso che aveva sempre avuto. I compiti invece erano cambiati e tali erano rimasti, in linea con il nome respinto.
Le unità di polizia dispiegate sul territorio erano diventate piú grandi, piú forti e molto piú competenti. Il grande paradosso della lotta al crimine era che una criminalità crescente e piú professionale aveva dato vita a strutture di polizia piú ampie e con maggiori competenze. Se la cavavano. Almeno per quanto riguardava la parte tattica delle indagini.
Yngvar accostò la bocca all’orecchio di Johanne.
− È che sono bravissimo, sai…
Lei sorrise controvoglia.
− Oltretutto farà uno scalpore tremendo, − aggiunse lui e sbadigliò. – Secondo me quelli di Bergen ne hanno paura. E se è me che vogliono, è me che avranno.
Si alzò e si guardò intorno con aria scoraggiata.
− Sistemiamo il grosso?
Johanne scosse la testa.
− Che cosa ci faceva in giro? – chiese lentamente.
− Eh?
− Che cosa aveva da fare fuori, di sera tardi, la vigilia di Natale?
− Non ne ho idea. Forse stava andando da qualche amico.
− Ma…
− Johanne. È tardi. Non ne so niente, del caso, a parte il fatto che devo prepararmi ad andare a Bergen decisamente troppo presto domani mattina. Non ha davvero senso star qui a rimuginare sulla base delle scarne informazioni che abbiamo, lo sai bene anche tu. Mettiamo un po’ in ordine, oppure andiamo a letto.
− Andiamo a letto, − disse Johanne alzandosi.
Entrò in cucina, prese una bottiglietta di acqua minerale Farris e decise di portarsi in camera anche il «Magasinet». A quel che restava da fare ci avrebbe pensato l’indomani.
− C’è qualcosa che non va? – le chiese all’improvviso Yngvar, visto che si era fermata in mezzo alla stanza senza dar cenno di volersi muovere in una direzione o nell’altra.
− No, niente. È solo che… mi sento cosí… triste.
Stupita, alzò gli occhi.
− Hai ragione, è una notizia che fa dispiacere, − disse Yngvar e le posò una mano sulla guancia.
− No, non proprio. Ecco… È che di solito non mi coinvolgono… preferisco non lasciarmi coinvolgere dai tuoi casi. Ma lei, il vescovo, aveva sempre quell’aria cosí… buona.
Yngvar sorrise e la baciò con delicatezza.
− È una cosa che sappiamo solo io e te, − le disse prendendole una mano. – E poi… anche i buoni vengono uccisi. Andiamo, su…
Fu una notte insonne per Johanne. Quando alla fine il giorno la reclamò, aveva letto l’articolo sul vescovo Eva Karin Lysgaard cosí tante volte da saperlo a memoria.
Senza però ricavarne il minimo aiuto.


Un uomo

Niente gli era di aiuto.
Niente lo avrebbe mai potuto aiutare. Si erano offerti di restare con lui, ovviamente. Come se fosse di loro che aveva bisogno. Come se la vita per un attimo potesse tornare a essere sopportabile solo perché degli estranei gli sedevano vicino, sulla poltrona di lei: quella poltrona gialla e consunta, con il poggiatesta, messa di traverso davanti al televisore, con un lavoro a maglia non ancora finito in una cesta di vimini lí accanto.
Gli avevano chiesto se aveva qualcosa.
Una volta sí che aveva qualcosa. O meglio, qualcuno. Alcune ore prima aveva Eva Karin. Per una vita intera aveva avuto Eva Karin e adesso non aveva piú nessuno.
Suo figlio, avevano detto loro. Gli avevano chiesto di suo figlio. Se volesse avvisarlo lui, suo figlio Lukas, altrimenti potevano occuparsi loro della faccenda. Erano state proprio queste le parole usate dalla donna che si era seduta sulla poltrona di Eva Karin. Occuparsi della faccenda. Come se si trattasse di una faccenda. Come se ci fosse ancora alcunché di cui occuparsi.
Lui non provava alcun dolore.
Il dolore faceva male. Il dolore provocava dolore. Ma tutto quello che lui percepiva adesso era una mancanza di esistenza. Un vuoto che lo portava a fissarsi le mani come se appartenessero a qualcun altro. Strinse a pugno la destra, con una veemenza tale da conficcarsi le unghie nel palmo. Nessun dolore, da nessuna parte, nessuna esistenza, solo un grande e incolore nulla dove Eva Karin non c’era piú.
Anche Dio lo aveva abbandonato. Questo lo aveva capito.
Il tempo aveva smesso di scorrere.
Il suo orologio si era fermato. Scosse irritata il braccio e capí di essere molto piú in ritardo del previsto. Doveva far rientrare le bambine e vestirle con gli abiti della festa cercando di non indispettire Kristiane.
Andò alla finestra.
Sul prato davanti a casa, all’interno della recinzione che dava su Hauges Vei, Ragnhild e Kristiane avevano racimolato una quantità di brina sufficiente a costruire il pupazzo di neve piú piccolo del mondo. Era alto appena dieci centimetri, ma anche dal primo piano lei ne vedeva il berretto fatto con una foglia di quercia ingiallita e la bocca formata da minuscoli sassolini.
Johanne incrociò le braccia e si appoggiò al davanzale. Come al solito era Ragnhild quella che costruiva e dirigeva, mentre Kristiane si limitava a starsene lí, perfettamente immobile. Anche se lei non riusciva a distinguere le parole della figlia piú piccola da lassú, la sentiva comunque chiacchierare ininterrottamente, come se ad ascoltarla ci fosse la persona piú interessata del mondo.
E forse era proprio cosí.
Johanne sorrise quando Ragnhild si alzò di colpo, si allontanò dal piccolo capolavoro e si mise a cantare a squarciagola. Adesso la sua voce arrivava fino a lei. Å leva det er å elska risuonava per tutto il vicinato, chissà poi dove lo aveva imparato quel canto religioso. Che accompagnasse la costruzione di un pupazzo di neve, però, doveva essere stata un’idea di Kristiane.
Una figura catturò l’attenzione di Johanne. Un uomo, forse, che lei non aveva proprio idea da dove fosse sbucato. Dava l’impressione di non sapere bene nemmeno lui dove andare. Per qualche strano motivo la inquietò. Sí, c’erano dei ragazzi del quartiere che ogni tanto saltavano fuori dal nulla, ma gli adulti che percorrevano le vie di un’area residenziale avevano sempre una meta. Molti lei li riconosceva, dopo tanti anni passati in quel mozzicone di strada.
L’uomo continuò il suo vagabondare con le mani in tasca. Aveva il berretto calato fin sopra gli occhi e la sciarpa ben avvolta intorno al collo, tanto che gli nascondeva la parte inferiore del volto. E qualcosa nella sua andatura le fece pensare che non fosse poi cosí giovane.
Scosse di nuovo la mano sinistra. L’orologio era ancora fermo, forse aveva la pila scarica. Probabilmente erano in ritardo. Stava per allontanarsi dalla finestra quando l’uomo si fermò accanto ai bidoni dell’immondizia.
I loro bidoni dell’immondizia.
Johanne sentí la paura esploderle dentro, come sempre le capitava quando non aveva il pieno controllo su Kristiane. Per un istante rimase immobile senza sapere bene se correre giú o seguire la scena dalla finestra. Senza aver proprio scelto restò ferma dov’era.
Forse l’uomo aveva chiamato le bambine.
Fatto sta che tutte e due lo guardarono, e anche se Ragnhild era girata di spalle i movimenti delle sue braccia rivelavano che gli stava parlando. Lui le rispose qualcosa e le fece cenno di avvicinarsi. Ma nessuna delle due si avvicinò, anzi, Ragnhild arretrò di un passo.
Johanne corse via.
Sfrecciò attraverso tutto l’appartamento, nel soggiorno, nel corridoio, e raggiunse l’annesso che era diventato la stanza dei giochi delle bambine; quasi ruzzolò precipitandosi giú per le scale, e poi corse fuori nel freddo gelido, senza scarpe né pantofole ai piedi.
− Kristiane, − gridò cercando di conferire alla propria voce un tono di quotidianità. – Ragnhild! Dove siete?
E nell’istante stesso in cui girò l’angolo della casa vide le bambine.
Ragnhild se ne stava di nuovo accovacciata davanti al piccolo pupazzo di neve. Kristiane stava guardando un uccello o un aeroplano, a ogni modo aveva gli occhi rivolti al cielo e, senza curarsi della madre, tirò fuori la lingua per catturare qualcuno dei fiocchi leggeri che avevano iniziato a cadere.
Dell’uomo, nessuna traccia.
− Mamma! − esclamò Ragnhild severa. – Non si può uscire scalzi.
Johanne abbassò gli occhi sui propri piedi.
− Oh, no! – disse con un sorriso. – Ma dove ce l’ha la testa la mamma?
Ragnhild rise di gusto e la indicò con una spada giocattolo rossa.
Kristiane continuò la sua caccia ai fiocchi di neve.
− Quell’uomo chi era? – chiese amichevolmente Johanne.
− Quale uomo?
Ragnhild si leccò il moccio che le colava in abbondanza da tutte e due le narici.
− Quello che parlava con voi. Quello che…
− Io non lo conosco, − rispose Ragnhild. – Guarda che bel pupazzo di neve abbiamo fatto! E senza neve!
− Bellissimo. Adesso però dovete tornare a casa, tutte e due. Dobbiamo prepararci per il pranzo di Natale. Che cosa vi ha chiesto quell’uomo?
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane sorridendo verso il cielo.
− Niente, − rispose Ragnhild. – Andiamo al pranzo di Natale? E papà viene con noi?
− No, papà è a Bergen, lo sai. Però quell’uomo vi avrà detto qualcosa, no? Ho visto che…
− Ci ha solo chiesto se avevamo passato un bel Natale, − rispose Ragnhild. – Ma tu non hai molto freddo ai piedi, mamma?
− Sí. Venite, dài. Tutte e due. Su, andiamo!
Stranamente, fu Kristiane a incamminarsi. Johanne prese Ragnhild per mano e la seguirono.
− E tu che cosa gli hai risposto?
− Gli ho detto che è stato un Natale superfantastico con la panna!
− Voleva… Ha cercato di convincerti ad andare da lui?
Raggiunsero il sentiero di ghiaia e costeggiando la parete della casa arrivarono alle scale. Kristiane parlava fra sé e sé, ma aveva un’aria felice e soddisfatta.
− Sííí… − rispose Ragnhild esitante. − Ma lo sappiamo bene, mamma, che non dobbiamo mai avvicinarci a qualcuno che non conosciamo. O andare via con lui o cose cosí.
− Esatto! Brava, tesoro!
Johanne si stava congelando le dita e fece una smorfia quando, sollevato il piede dalla ghiaia, lo posò sulla gelida scalinata di pietra.
− Mi ha chiesto se avevo ricevuto dei bei regali, − disse a un tratto Kristiane prima di aprire la porta di casa, che si era richiusa sbattendo con un colpo secco alle spalle di Johanne. – Solo a me. A Ragnhild no.
− Eh? E tu come lo sai che l’ha chiesto solo a te?
− Lo so perché lo ha detto lui. Ha detto…
Tutte e tre si fermarono. A Kristiane era venuto quello sguardo strano, come rivolto verso l’interno, come se stesse cercando in un archivio dentro la sua testa.
− «Ehi, ragazze! Ciao! Avete passato un bel Natale? E tu, Kristiane, hai ricevuto dei bei regali?»
Lo disse con una voce piatta. Poi scese il silenzio.
− Eh già, − disse alla fine Johanne con un sorriso forzato. – Gentile da parte sua. E ora dobbiamo metterci i vestiti della festa, su, in fretta. Dobbiamo andare dal nonno e dalla nonna, Kristiane. Papà passa a prenderci fra poco.
− Ah…
Di colpo Ragnhild si lasciò cadere a terra e iniziò a piagnucolare: − Perché Kristiane può avere il suo papà e io no?!
− Papà deve lavorare, te l’ho già detto. E poi tu ti diverti sempre dai nonni di Kristiane.
− Non voglio! Non voglio!
La bambina indietreggiò e cominciò a scivolare giú per i gradini di testa con le braccia tese, come se stesse nuotando. Johanne la afferrò per un braccio e la tirò su, usando un po’ piú forza di quanto avesse effettivamente intenzione. Ragnhild urlò.
L’unica cosa a cui Johanne riusciva a pensare in quel momento era che Kristiane doveva essersi sbagliata.
− Voglio il mio papà, − gridava Ragnhild. Cercò di divincolarsi dalla presa materna. – Papà! Il mio papà! Non quello stupido del papà di Kristiane!
− Guai a te se ti sento dire ancora queste cose, − sbottò Johanne dando una spintarella a Kristiane per farla entrare e al tempo stesso trascinandosi dietro la figlia minore. – Sono stata chiara?
Di colpo Ragnhild smise di piangere, sbalordita dalla rabbia della madre. E scoppiò invece a ridere.
Ma Johanne continuava a pensare una sola cosa: Kristiane non si sbagliava mai. Mai.
− Capita a tutti di sbagliare. Non devi arrabbiarti.
Marcus Koll jr sorrideva al figlio che stava scuotendo rabbiosamente il libretto di istruzioni.
− Vieni qui, dài. Proviamo a farlo insieme.
Il ragazzino tenne il broncio per un attimo, poi, controvoglia, andò da lui e sbatté il libretto sul tavolino del soggiorno. L’elicottero era rimasto sul tavolo della sala da pranzo, montato solo in parte.
− Rolf aveva promesso di aiutarmi, − disse sporgendo il labbro inferiore.
− Lo sai come sono i clienti di Rolf, a volte.
− Ricchi, tonti e con dei cagnolini bruttissimi!
Il padre tentò di nascondere un sorriso.
− Su, su. Se una bulldog inglese decide di partorire il giorno di Natale, i cuccioli nasceranno il giorno di Natale, belli o brutti che siano.
− Rolf dice che i bulldog li creano in allevamenti superselettivi. Che non sono nemmeno in grado di pratorire.
− Partorire.
− Dovrebbero vietarlo. È maltrattamento di animali.
− Sono d’accordo. Fa’ vedere.
Prese il libretto di istruzioni e cominciò a sfogliarlo mentre andava verso il sontuoso tavolo da pranzo. Aveva fatto tradurre il testo da un professionista per facilitare il montaggio, ma il modellino davanti ai suoi occhi era talmente grande che per un attimo si pentí. Anche se il figlio dimostrava di avere un insolito talento per la meccanica, forse questo era davvero un po’ troppo. Il commesso del negozio di Boston aveva precisato che l’età consigliata per quel giocattolo era sedici anni, visto e considerato tra l’altro che l’elicottero pesava un chilo: avrebbe potuto costituire un pericolo, una volta in volo.
− Mhm… − disse il padre grattandosi la barba incolta. – Non è che ci capisca molto.
− Il problema è il rotore, − gli spiegò il ragazzino. – Guarda qui, papà!
Le sue abili dita cercavano di mettere insieme le pale, ma c’era qualcosa che non andava e dopo un po’ lui si stufò e posò il rotore smontato con un sospiro. Il padre gli arruffò i capelli.
− Un po’ piú di pazienza, Lillemarcus! Pazienza! Quello sarebbe stato il regalo di Natale giusto per te!
− Non chiamarmi Lillemarcus, te l’ho già detto. E poi non sono io che sbaglio, c’è qualcosa che non va nelle istruzioni.
Marcus Koll jr prese una sedia, si accomodò ed estrasse gli occhiali dal taschino. Il figlio si sedette accanto a lui e il padre sentí i suoi riccioli biondi solleticargli il volto quando si chinò in avanti, verso il libretto. Un delicato profumo di sapone e biscotti allo zenzero lo fece sorridere, e dovette trattenersi dal desiderio di abbracciarlo, di stringerlo forte a sé, di percepire il calore che avere un figlio gli dava, nonostante tutto e tutti.
− Sei la cosa piú bella che mi sia capitata, − gli disse sottovoce.
− Sí, sí. Uffa. Che cosa significa questo? «Passare la barra d’acciaio piú lunga nell’anello sganciato alla base della pala numero 4 del rotore». Ma di barra d’acciaio ce n’è una sola! Allora perché c’è scritto «piú lunga»? E questo stupido anello quale sarebbe?
Il sole dicembrino inondava di una silenziosa luce bianca il soggiorno. Fuori l’aria era limpida e fredda. Cristalli di brina ricoprivano completamente gli alberi, come se qualcuno li avesse laccati con uno spray in occasione del Natale. Fra i rami bianchi al di là delle finestre, laggiú in basso, si intravedeva il fiordo di Oslo, grigio-blu e immobile, senza alcun segno di vita. Il crepitio del fuoco nel caminetto si mescolava al russare dei due setter inglesi accoccolati in una grande cesta di vimini accanto alla porta. Dalla cucina cominciava a diffondersi il profumo del tacchino, una tradizione su cui Rolf aveva insistito parecchio quando finalmente, cinque anni prima, si era lasciato convincere a trasferirsi lí.
Marcus Koll jr viveva la sua vita in un cliché e gli piaceva.
Quando, nove anni prima, suo padre era morto, a lui non mancava molto a compiere trentacinque anni e aveva rifiutato l’eredità paterna. Georg Koll non aveva mai dato niente al figlio, se non un bel nome. Il nome era quello del nonno e gli aveva permesso di far finta che suo padre non esistesse per tutto il periodo in cui lui, bambino, non capiva perché non avesse mai tempo per vederlo, se non ogni tanto nel fine settimana. A dodici anni si era reso conto che la madre non riceveva nemmeno il minimo a cui per legge aveva diritto per mantenere lui e i suoi due fratelli minori, a quindici aveva deciso di non rivolgere mai piú la parola a suo padre. Quell’uomo si era giocato tutte le carte che aveva avuto a disposizione. Era stato proprio per il suo quindicesimo compleanno che gli erano arrivate cento corone in un biglietto di auguri, mandato per posta e con cinque parole scritte in una calligrafia che lui sapeva non essere quella del padre. Era diventato adulto nel momento stesso in cui aveva riposto i soldi nella busta e rispedito il tutto al mittente.
Troncare quel rapporto era stato sorprendentemente facile. Si vedevano cosí di rado che quei due, tre incontri all’anno potevano anche essere evitati senza troppi problemi. Nel suo cuore lui aveva eletto a padre un altro: Marcus Koll sr. E quando era riuscito ad ammettere con sé stesso che il suo vero padre non desiderava affatto esserlo e non sarebbe mai cambiato, si era sentito sollevato. Libero. Pronto per qualcosa di meglio.
E la sua eredità non la voleva.
Era un’eredità consistente.
Georg Koll aveva fatto un sacco di quattrini con l’edilizia negli anni Sessanta e Settanta. Ben prima del grande crollo immobiliare durante l’ultima crisi finanziaria novecentesca, la maggior parte delle sue fortune era stata trasformata in altri e piú sicuri investimenti. Georg compensava abbondantemente il talento di padre e sostegno familiare, di cui era cosí dolorosamente sprovvisto, con la sua bravura nel far fruttare i soldi. A differenza di altri aveva approfittato degli anni in cui spopolavano gli yuppie per consolidare i propri investimenti, anziché metterli a rischio puntando su potenziali guadagni a breve termine.
Quando Georg Koll morí, lasciò un patrimonio costituito da una compagnia armatrice di navi da crociera di media grandezza, sei remunerativi palazzi in centro e un portafoglio di azioni che negli ultimi cinque anni aveva giocato un ruolo primario nel complesso dei suoi cospicui introiti. La morte lo aveva chiaramente colto di sorpresa: aveva appena cinquantotto anni, era snello e in forma, quando un violento ictus lo aveva colpito mentre tornava a casa dal lavoro un giorno di fine agosto. Dal momento che non si era risposato e che non era stato trovato nessun testamento, l’intero patrimonio era andato in eredità a Marcus Koll jr, a sua sorella Anine e al fratello minore Mathias.
Un patrimonio di cui Marcus non voleva neanche un centesimo.
A quindici anni aveva rispedito al padre il suo sporco denaro, a venti aveva ricevuto la risposta. Una lettera. Alle orecchie dell’uomo era arrivata la diceria che il piú grande dei suoi figli fosse omosessuale. Marcus aveva scorso con gli occhi il foglio e capito fin troppo in fretta dove il padre voleva andare a parare. Un conto era che prendesse risolutamente le distanze dalla condotta di vita del figlio, riflettendo una mentalità non insolita nel 1984. Ma che un non credente inveterato gli prospettasse una visione del futuro perfettamente allineata alle piú cupe rappresentazioni di Sodoma e Gomorra, era davvero troppo. Per di piú gli rammentava la nuova e tremenda pestilenza proveniente dall’America che colpiva esclusivamente gli omosessuali e li faceva morire di una morte dolorosa, con vesciche e pus come una vera e propria peste bubbonica. Georg Koll non credeva si trattasse di una punizione divina, certo che no: era la natura stessa a intervenire. Quella malattia mortale era il risultato di una selezione naturale; nel giro di qualche generazione chiunque fosse come il figlio sarebbe stato sterminato. A meno che lui non scegliesse di rigare dritto. Una vita da omosessuale sarebbe stata una vita senza famiglia, senza certezze, senza legami né doveri, né quella particolare felicità che derivava dall’essere buoni cittadini e persone utili alla società. Fino a che il figlio non fosse arrivato ad ammettere tutto questo e non avesse garantito di aver cambiato idea, poteva considerarsi diseredato.
Dal momento che la legittima per i figli risultava davvero insignificante in rapporto all’intero patrimonio di Georg Koll, quella minaccia aveva una sua consistenza. A Marcus però non importava granché. Bruciò la lettera e cercò di dimenticarsela. E quando nel 1999, quindici anni piú tardi, l’eredità arrivò fu chiaro che il padre, confidando nella propria immortalità, aveva tralasciato di fare testamento.
Marcus rimase caparbiamente sulle sue: i soldi del padre non li voleva comunque.
Solo quando il nonno, che fra l’altro non parlava mai del figlio maggiore, riuscí a convincerlo che lui era l’unico dei tre fratelli a possedere le competenze professionali per occuparsi del patrimonio di famiglia, Marcus jr cominciò a dubitare della decisione presa. Suo fratello insegnava, sua sorella faceva la commessa in una libreria. Lui invece era laureato in Economia aziendale; visto che fratello e sorella insistevano sul fatto che la soluzione migliore sarebbe stata costituire una nuova società che includesse tutti i beni del loro defunto padre, di cui loro tre fossero comproprietari e che avesse Marcus a capo e come amministratore, alla fine lui cedette.
«Prendila come uno scherzo del destino, − gli aveva detto Mathias sghignazzando. – Quello stronzo si è tenuto stretto i soldi che spettavano alla mamma e anche a noi per tutta la vita… e poi… lui si è dato tanto da fare per tenerci lontano dai suoi quattrini, ed ecco che siamo proprio noi a poterli spendere per goderci la vita».
Ironia del destino, aveva pensato Marcus alla fine.
− Papà, − disse Lillemarcus impaziente. – E qui che cosa c’è? Che significa?
Marcus Koll jr sorrise con aria assente e distolse a fatica lo sguardo dal panorama della collina, del fiordo e del cielo bianco. Si accorse di avere fame.
− Ecco, − disse mettendo al suo posto una minuscola vite. – Adesso il rotore è pronto, abbiamo finito. Non resta che fare cosí… Mi aiuti?
Il ragazzino annuí e posizionò le quattro pale.
− Ce l’abbiamo fatta! Ci siamo riusciti! Andiamo fuori a provarlo? Adesso? Subito? Dài…
Con una mano afferrò il telecomando e con l’altra l’elicottero finalmente montato, con grande delicatezza, come se non riuscisse a credere fino in fondo che stesse insieme.
− Fa troppo freddo. Troppo freddo. Te l’ho detto ieri, può darsi che ci vogliano anche un paio di settimane per poter uscire con l’elicottero.
− Ma papà…
− Hai promesso, Lillemarcus. Hai promesso che non avresti insistito. Piuttosto, perché non chiami Rolf? E senti se torna a casa in tempo per il pranzo di Natale?
Il ragazzino esitò un attimo, poi posò tutto quello che aveva in mano senza una parola. Un repentino sorriso gli illuminò il volto.
− Arrivano la nonna e tutti gli altri! – gridò correndo fuori.
La porta sbatté alle sue spalle. Quel colpo risuonò nelle orecchie di Marcus Koll jr per poi svanire; a riempire l’ampio soggiorno non rimasero che il debole russare dei due cani, impassibili, e il crepitio del camino. Gli occhi di Marcus si posarono sul fuoco, poi iniziarono a vagare rapidi per l’intera stanza.
Viveva proprio in un cliché.
La casa a Åsen.
Grande, ma in posizione discreta, arretrata rispetto alla strada, solo il piano superiore risultava visibile ai passanti. I ridicoli pannelli in legno che ricoprivano le pareti esterne lui aveva deciso di eliminarli non appena acquistata la proprietà, cosí come la torba sul tetto e il portale davanti al garage con il motto «Casa dolce casa», inciso nel legno grezzo con teste di drago alle estremità. Subito prima che iniziassero i lavori, però, Rolf era entrato nella sua vita e in quella di Lillemarcus. Rolf aveva riso a crepapelle la prima volta che aveva visto quel capolavoro e in tutta serietà si era rifiutato di trasferircisi se Marcus Koll jr non gli prometteva di conservare quel tocco originale e a dir poco rustico che contraddistingueva l’abitazione.
Siamo una famiglia tipica con un pizzico di eccentricità, diceva Rolf della loro quotidianità, con un sorriso.
Un po’ piú ricchi della maggior parte delle persone, pensava sempre Marcus, ma non lo diceva mai.
Rolf non pensava ai soldi. Pensava alla vita familiare, con Lillemarcus al centro di una nutrita cerchia di zie e zii, cugini e cugine, una nonna e tanti amici che andavano e venivano e quasi sempre si riunivano lí, nella casa di Åsen, pensava ai cani e all’annuale settimana di caccia in autunno con gli amici, i vecchi amici, i ragazzi con cui Marcus era cresciuto e che non aveva mai smesso di frequentare; Rolf rideva sempre di cuore per la vita felice, convenzionale e onesta che conducevano.
Rolf era sempre cosí contento.
Tutto era esattamente come Marcus aveva desiderato.
Era riuscito a trasformare in qualcosa di buono persino il denaro del padre. Georg Koll aveva condannato il figlio alla perdizione, credendolo spacciato: cancellando il suo futuro, invece, gliene aveva paradossalmente donato uno. I primi, turbolenti anni erano ormai acqua passata e Marcus aveva evitato la malattia che si era brutalmente portata via molti di quelli che conosceva, nel dolore e nella vergogna e spesso anche in solitudine. Ringraziava che non fosse capitato a lui, e quando aveva bruciato la lettera aveva deciso che Georg Koll si stava sbagliando, si stava profondamente e clamorosamente sbagliando. Lui sarebbe diventato quello che il padre non era mai stato: un uomo.
− Papà!
Il ragazzino entrò di corsa nel soggiorno e spalancò le braccia.
− Stanno arrivando tutti! Rolf ha detto che la bastardina ha fatto tre cuccioli e che è andato tutto bene e che sta tornando a casa e che non vede l’ora di…
− Okay, okay.
Marcus rise e si alzò per seguire il figlio nell’ingresso.
Sentí il rumore di diverse automobili nel cortile, gli ospiti stavano arrivando.
Sulla porta del soggiorno si fermò un attimo e si voltò.
Il dubbio che lo aveva roso e tormentato per diverse settimane si era finalmente dissolto. Aveva un istinto molto sviluppato e, fidandosene, aveva guadagnato una fortuna. All’inizio dell’estate 2007 aveva lottato per settimane contro un irrefrenabile bisogno di vendere tutto e uscire dal mercato azionario. Era rimasto sveglio notte dopo notte per studiare analisi e rapporti, ma aveva trovato un unico segno che qualcosa non andasse: la stagnazione del mercato immobiliare americano. Quando, piú tardi quella stessa estate, era arrivato il primo declassamento di pacchetti obbligazionari legato agli incerti prestiti subprime, dalla sera alla mattina si era deciso. Nell’arco di tre mesi aveva incassato piú di un miliardo in azioni americane, con un profitto enorme. Qualche mese piú tardi gli era capitato di svegliarsi in piena notte per puro e semplice sollievo. Il patrimonio era stato in deposito alla DnB NOR fino a che gli interessi non avevano iniziato a diminuire.
Allora Marcus Koll jr si era messo a investire in beni immobili, in un periodo in cui avevano dei prezzi molto convenienti.
Nel giro di qualche anno gli introiti delle vendite sarebbero stati formidabili.
Marcus doveva proteggere sé stesso e i suoi cari.
Ne aveva il diritto. Era suo dovere.
Georg Koll ci aveva messo lo zampino dall’aldilà, per tentare ancora una volta di rovinargli la vita, ma Marcus Koll jr non glielo avrebbe permesso, assolutamente no.
− Posso?
Yngvar Stubø accennò con il capo a una poltrona gialla davanti al televisore. Erik Lysgaard non ebbe nessuna reazione. Rimase semplicemente seduto lí, in una poltrona dello stesso tipo ma di colore piú scuro, con lo sguardo fisso davanti a sé e le mani posate in grembo.
Solo allora Yngvar si accorse del lavoro a maglia e dei lunghi e quasi invisibili capelli grigi rimasti attaccati al poggiatesta sopra lo schienale. Prese una delle sedie disposte intorno al tavolo da pranzo e si sedette lí.
Respirava affannosamente. I lievi postumi di una sbronza lo affliggevano fin da quando si era alzato alle cinque e mezza del mattino, e poi aveva sete. Il volo da Gardermoen a Bergen era stato tutt’altro che piacevole. È vero che l’aereo era quasi vuoto, non erano in molti a smaniare per andare da Oslo a Bergen alle sette e venticinque della mattina di Natale, ma c’erano state forti turbolenze e lui aveva dormito troppo poco.
− Non si tratta di un interrogatorio, − esordí, non essendogli venuto in mente niente di meglio da dire. – Quello lo faremo poi, alla centrale. Quando ti sentirai…
Quando ti sentirai meglio, stava per dire, ma si trattenne.
Il soggiorno era luminoso e accogliente. Non era né in stile moderno né in stile antico. Alcuni mobili erano chiaramente molto usati, come le due poltrone con lo schienale alto davanti al televisore. Anche l’arredamento della sala da pranzo sembrava ereditato. Il divano, invece, dietro l’angolo della stanza a forma di l, era color crema, con la seduta profonda e dei cuscini colorati. Yngvar ne aveva visto uno identico in una brochure di Bohus che Kristiane a tutti i costi aveva voluto leggere a letto. La parete piú lunga era interamente occupata da una libreria, con scaffali anche intorno alle finestre; i titoli lasciavano intuire che i coniugi Lysgaard avevano interessi molteplici e conoscevano diverse lingue. Un grosso volume con caratteri cirillici sulla copertina era posato sul tavolinetto da caffè tra le due poltrone. I quadri alle pareti erano cosí fitti che risultava assai difficile farsi un’idea della singola opera. L’unica ad attirare immediatamente l’attenzione era una copia del Kristus di Henrik Sørensen, raffigurante un messia biondo e con le braccia aperte in gesto di accoglienza. Forse non era nemmeno una copia, sembrava piuttosto un dipinto originale; forse si trattava di uno dei molti schizzi che l’artista aveva fatto in vista del quadro vero e proprio, conservato nella chiesa di Lillestrøm.
L’oggetto che risaltava di piú in assoluto era un imponente presepio sulla credenza. Doveva essere largo piú di un metro per circa cinquanta centimetri in altezza e in profondità. Era racchiuso in una sorta di teca con un vetro sul davanti, come un tableau. Fra angeli, minuscoli pastori, pecore e i Re Magi ecco Gesú Bambino su un giaciglio di paglia. All’interno della misera stalla risplendeva un lume nascosto con tale accuratezza da dare l’impressione che Gesú avesse l’aureola.
− Viene da Salisburgo, − disse Erik Lysgaard, cosí inaspettatamente che Yngvar sobbalzò.
Poi si azzittí di nuovo.
− Non intendevo mettermi a fissarlo cosí, − spiegò Yngvar con un sorriso discreto. – È solo che… è davvero… incantevole.
Per la prima volta il vedovo alzò gli occhi.
− Eva Karin lo dice sempre. Incantevole, cosí dice sempre del presepe.
Emise una sorta di sbuffo lamentoso, come se si stesse sforzando di non piangere. Yngvar spostò appena la sedia verso di lui.
− Molti, − disse piano, fermandosi poi a riflettere per un momento. – Molti nei prossimi giorni verranno a dirti che sanno come ci si sente. Anche se in realtà sono davvero pochi quelli che lo sanno davvero. Certo, di solito le persone della nostra età…
Yngvar avrà avuto una decina d’anni meno di Erik Lysgaard.
− … hanno vissuto sulla propria pelle che cosa significa perdere qualcuno, ma quando c’è di mezzo un crimine è ben diverso. Non solo una persona ci viene portata via all’improvviso, ma per di piú rimaniamo con molte domande senza risposta. Un crimine del genere…
«Non ho la piú pallida idea di che genere di crimine sia questo qui», pensò mentre parlava. A rigor di termini non era ancora stato accertato un bel niente.
− … è un oltraggio non solo alla vittima, ma a molti altri. È una cosa che sfinirebbe chiunque. È…
− Scusa…
Il figlio di Erik, Lukas Lysgaard, aprí bocca per la prima volta da quando aveva accolto Yngvar e lo aveva fatto accomodare in soggiorno. Sembrava che avesse pianto molto e aveva un’aria esausta, ma composta. Fino ad allora era rimasto silenzioso e immobile accanto alla finestra che dava sul giardino, la piú lontana; in quel momento, però, aggrottò la fronte e avanzò di qualche passo verso il centro della stanza.
− A essere sincero, non credo che mio padre abbia bisogno di essere consolato. Non da te, in ogni caso. Con tutto il rispetto. Preferiremmo essere lasciati soli. Se abbiamo acconsentito a questo interrogatorio… – si corresse subito, − a fare questa conversazione, che non è un interrogatorio, è stato ovviamente perché vorremmo aiutare la polizia, per quanto ci è possibile. Viste e considerate le circostanze. Come sai, io sono disponibile a sottopormi a un interrogatorio in centrale quando volete, ma riguardo a mio padre…
Il padre, seduto in poltrona, si sollevò visibilmente, raddrizzò la schiena, batté le palpebre e alzò il mento.
− Cos’è che vuoi sapere? – chiese a Yngvar fissandolo dritto negli occhi.
«Sono stato un idiota», pensò lui.
− Mi dispiace, − disse. – Certo che avrei dovuto lasciarvi in pace. È solo che… una volta tanto non abbiamo il fiato dei giornalisti sul collo. Una volta tanto, forse, sarebbe possibile avere un minuscolo vantaggio su quelli là fuori.
Con il pollice indicò alle proprie spalle, come se ci fosse già una folla di giornalisti in attesa sui gradini.
− Ma avrei dovuto pensarci meglio. Vi lascerò in pace, oggi. Certo.
Si alzò e prese il cappotto appoggiato a una delle sedie intorno al tavolo in sala da pranzo. Erik Lysgaard lo guardava stupefatto, con la bocca semiaperta e una ruga sulla fronte, subito sopra le lenti spesse incorniciate da una pesante montatura nera.
− Non hai nessuna domanda da farci? – chiese cortesemente.
− Oh, sí. Innumerevoli. Ma come ho appena detto: possono aspettare. Ti dispiace se uso un attimo il bagno prima di andarmene?
L’ultima domanda era rivolta al figlio.
− In corridoio, seconda porta sulla sinistra, − borbottò Lukas.
Yngvar fece un leggero cenno del capo a Erik Lysgaard e si avviò alla porta. Arrivato al centro della stanza si girò.
Esitava.
− Solo una cosa, − disse grattandosi una guancia. – Potrei sapere che cosa ci faceva il vescovo Lysgaard fuori da sola alle undici di sera la vigilia di Natale?
Seguí uno strano silenzio.
Il figlio guardò il padre, ma a dire il vero il suo sguardo non aveva nulla di interrogativo. Era sospeso, inespressivo, come se Lukas non sapesse la risposta o trovasse la domanda poco interessante. Da parte sua, Erik Lysgaard appoggiò le mani sui braccioli, si adagiò contro lo schienale e inspirò a fondo prima di guardare Yngvar dritto negli occhi.
− Non è cosa che ti riguardi.
− Come?
A Yngvar venne piuttosto inopportunamente da ridere.
− Come hai detto, scusa?
− Ho detto che non è cosa che ti riguardi.
− No, certo. Credo proprio che saremo costretti a…
Di nuovo scese il silenzio.
− Ne riparleremo, − concluse infine. Salutò il vedovo sollevando una mano e uscí dalla stanza.
Quella risposta cosí stupefacente e assurda gli aveva fatto dimenticare per un attimo la sua urgenza, ma quando si chiuse la porta alle spalle, si rese conto che avrebbe dovuto fare in fretta.
− Nel corridoio, la seconda porta a destra, − borbottò fra sé e sé. Appoggiò la mano sulla maniglia e aprí.
Una camera da letto. Non grande, sui dieci metri quadri. Rettangolare, con una finestra sulla parete corta di fronte alla soglia. Sotto la finestra c’era un letto singolo, rifatto con cura, con un copriletto lilla. Vicino alla testata, sopra al cuscino, erano posati degli abiti piegati. Indumenti da notte, suppose Yngvar, e inspirò a fondo dal naso.
Decisamente non era la stanza degli ospiti.
Odore dolciastro di sonno misto a un debole, quasi impercettibile profumo.
La porta non si apriva del tutto, sbatteva contro un armadio all’interno della camera.
Doveva chiuderla e cercare il bagno.
In quella piccola stanza non c’era nessuna scrivania, solo un largo comodino con una pila di libri sopra e una lampada sotto una mensola con quattro foto incorniciate, ritratti di famiglia. Yngvar riconobbe subito Erik e Lukas, c’era anche una vecchia immagine in bianco e nero che doveva rappresentare la famigliola molti anni prima, quando Lukas era piccolo, in barca, d’estate.
Sulla parete fra l’armadio e il letto era appeso un dipinto nei toni vivaci del rosso e sullo schienale di una sedia in legno ai piedi del letto erano adagiati dei vestiti. Le tende erano spesse, scure e tirate.
Nient’altro.
− Ehi! Hai sbagliato porta!
Yngvar balzò indietro nel corridoio. Lukas Lysgaard gli stava venendo incontro rapido, agitando le mani.
− Ma che fai? Ficchi il naso in giro per casa? Chi ti dà il diritto di…
− Nel corridoio, seconda porta a destra. Me lo hai detto tu! Stavo solo…
− Seconda porta a sinistra! Qui!
Lukas indicò stizzito la porta di fronte a Yngvar.
− Oh. Mi dispiace. Non volevo…
− Cerca di fare in fretta, per favore. Vorrei restare solo con mio padre il prima possibile.
Lukas Lysgaard era sui trentacinque anni. Un uomo ordinario con le spalle larghissime. Aveva i capelli scuri, con una abbondante stempiatura, e gli occhi azzurri. Probabilmente. Era difficile a dirsi, erano piccoli e nascosti da occhiali che riflettevano la luce del lampadario.
− Mia madre soffriva di insonnia, di tanto in tanto, − disse mentre Yngvar apriva la porta giusta. – E allora si metteva a leggere. Cosí, per non disturbare mio padre…
Fece un cenno del capo in direzione della piccola camera da letto.
− Eh già, − disse Yngvar entrando in bagno.
Fece con tutta calma.
Avrebbe dato chissà cosa per rivedere quella stanza. Si arrabbiò per non essere stato piú sveglio, per non aver notato altri particolari. Per esempio non riusciva a ricordare come fossero i vestiti appoggiati sullo schienale della sedia: da festa, rimasti lí dalla sera della vigilia, o da tutti i giorni? Non aveva neanche fatto caso ai titoli dei libri impilati sul comodino. Non c’era assolutamente ragione di credere che un membro della famiglia c’entrasse con l’omicidio di quella che pareva essere stata una moglie e una madre molto amata. Yngvar Stubø però sapeva meglio di chiunque altro che per risolvere un omicidio di strada il piú delle volte bisognava cercare un legame con la vittima. Poteva trattarsi di qualcosa che la famiglia ignorava. O forse c’era qualche dettaglio a cui né lui né altri avevano fatto caso.
Ma che forse aveva una certa importanza.
A ogni modo una cosa era sicura, pensò Yngvar mentre si chiudeva la patta e tirava l’acqua: Eva Karin Lysgaard doveva avere enormi problemi di insonnia, se cercava rifugio nella cameretta della domestica ogni volta che non riusciva a dormire. Una spiegazione piú plausibile era che i coniugi dormissero effettivamente ognuno per conto proprio.
Si lavò le mani, se le asciugò con cura e tornò in corridoio.
Lukas Lysgaard lo stava aspettando. Senza una parola gli aprí la porta di casa.
− Allora… immagino vi farete risentire, − disse senza porgergli la mano per salutarlo.
− Ovvio.
Yngvar si mise il cappotto e uscí sulla piccola veranda. Stava per augurare buon Natale, ma per fortuna proprio all’ultimo riuscí a trattenersi.

Lo sconosciuto

− Buon Natale, allora! Divertiti!
Mentre l’ispettore capo Silje Sørensen saliva a passo rapido la scalinata, salutò con un gesto della mano un collega che si era fermato per farsi quattro chiacchiere uscendo dal grande edificio che ospitava la centrale di polizia, ormai semivuota. Tutti i servizi al pubblico erano chiusi eccetto la guardiola, dove un assonnato poliziotto l’aveva salutata con un cenno del capo attraverso la parete di vetro nel momento in cui era entrata di corsa dall’ingresso di Grønlandsleiret 44, che ricordava tanto una sorta di chiusa.
− I ragazzi mi stanno aspettando in macchina, – gli gridò come spiegazione. – Sono solo passata a prendere gli sci, sono rimasti in ufficio perché…
Il collega era già uscito. Silje Sørensen era arrivata al piano giusto, ansimando girò l’angolo del corridoio e rallentò in prossimità del suo ufficio. Armeggiò con le chiavi, che dopo un giorno e una notte in auto erano gelide. Oltretutto in quel mazzo ce n’erano fin troppe, almeno la metà apriva porte che lei da tempo aveva dimenticato quali fossero. Finalmente trovò quella giusta ed entrò.
L’architetto che aveva progettato la centrale aveva vinto un premio, ma si stentava a crederci. Proseguendo oltre lo stretto ingresso ci si illudeva di trovarsi in un ambiente arioso e luminoso. Il gigantesco atrio si allungava in altezza per molti piani, circondato da gallerie a ferro di cavallo. Gli uffici, invece, erano piccoli alveari collegati da corridoi lunghi e opprimenti. Per Silje Sørensen restava un posto dall’atmosfera pesante, indipendentemente da quanto lo si arieggiasse.
Dall’esterno la centrale sembrava un edificio che avesse mal sopportato il succedersi delle stagioni, sbilenco e storto com’era, aggrappato all’altura fra la prigione di Oslo e la chiesa del quartiere di Grønland. Nel corso dei suoi quindici anni in polizia Silje Sørensen aveva visto il comune, lo Stato e parecchi cittadini ottimisti ed entusiasti cercare lentamente di riqualificare la zona, ma il bel Middelalderparken era troppo lontano per dar lustro alla logora centrale, e dal suo ufficio il teatro dell’opera era soltanto un obliquo tetto bianco che si intravedeva appena, sopra palazzine sporche e sotto una cappa di gas di scarico.
Silje Sørensen si trattenne dall’aprire la finestra, perché aveva fretta.
Il suo sguardo si posò sulla scrivania. In ufficio teneva tutto meticolosamente in ordine, a differenza che in qualunque altro posto. Il cumulo delle pratiche inevase al lato opposto della scrivania le aveva fatto rimordere la coscienza quando aveva smontato il venerdí prima di Natale. Il contenitore di quelle già sbrigate, invece, era vuoto, e le venne male al pensiero dello stress che l’avrebbe assalita quando fosse tornata al lavoro.
Al centro della scrivania vide un fascicolo che non riconobbe.
Si chinò e lesse il post-it giallo che ci avevano attaccato sopra.
All’ispettore capo Silje Sørensen.
Qui di seguito allego documenti riguardanti Hawre Ghani, data presunta di nascita 16/12/1991. Ti pregherei di metterti in contatto con il sottoscritto il piú presto possibile.
Ispettore Harald Bull,
tel. 937***** / 231*****
I ragazzi si sarebbero arrabbiati e sarebbero diventati intrattabili se si fosse trattenuta troppo in ufficio. Era anche vero però che, quando li aveva lasciati nell’auto parcheggiata in divieto di sosta e con il motore acceso, se ne stavano silenziosamente seduti dietro, ognuno con il proprio Nintendo Ds in mano. Dal momento che avevano ricevuto i giochi il giorno prima e che l’interesse per la novità era ancora vivo, non sarebbe stato forse cosí grave farli aspettare un po’.
Si sedette e senza nemmeno togliersi la giacca aprí il fascicolo.
In cima c’era una fotografia. Era in bianco e nero, a grana grossa e con ombre molto nette. Poteva essere l’ingrandimento di una foto tessera, ma difficilmente avrebbe soddisfatto i nuovi requisiti richiesti per un passaporto. Il ragazzo, perché piú che di un adulto pareva proprio si trattasse di un ragazzo, aveva gli occhi socchiusi e la bocca aperta. A volte capitava che i soggetti in arresto facessero delle smorfie mentre venivano fotografati in modo da rendersi meno riconoscibili; per qualche ragione, però, lei non credeva che il ragazzo stesse facendo quel giochino. Le passò per la mente che la fotografia fosse stata scattata in fretta e furia e che il fotografo non avesse avuto voglia di farne un’altra.
Hawre Ghani non doveva contare molto.
Non doveva essere abbastanza importante.
Quella fotografia la commosse.
Le labbra del ragazzo erano umide, quasi ci avesse passato la lingua subito prima. Il labbro superiore cosí pieno e l’arco di Cupido cosí pronunciato avevano qualcosa di infantile e vulnerabile. La pelle intorno agli occhi era liscia e le guance non mostravano tracce di barba. L’accenno di un paio di baffi sotto un naso talmente pronunciato da nascondere quasi il resto del volto era l’unico indizio del fatto che si trattasse di un ragazzo in avanzata pubertà. Quel viso aveva qualcosa di sproporzionato, tipico degli adolescenti, qualcosa che ricordava un cucciolo. Con un rapido calcolo a mente Silje stabilí che Hawre Ghani doveva aver appena compiuto diciassette anni.
Continuando a sfogliare i documenti capí anche che non aveva vissuto molto di piú.
Nonostante lei avesse lavorato per molti anni di seguito nella sezione Crimini violenti e a sfondo sessuale e nonostante avesse visto piú di quanto da giovane studentessa della scuola di polizia avesse mai immaginato possibile, alla fotografia successiva fece un balzo indietro. Qualcosa che doveva essere un volto era racchiuso da un cappuccio scuro. Tutti i tratti del viso erano stati cancellati, la pelle era di un colore innaturale e orribilmente rigonfia. Una delle orbite era grossa e vuota, l’altra appena visibile. Il labbro superiore del cadavere era in parte scomparso, lasciando il posto a una fenditura irregolare che scopriva quattro denti bianchi e uno d’argento. Che fosse d’argento era solo una supposizione: in fotografia appariva come un contrasto scuro e illogico in una fila di denti di un bianco abbagliante.
Continuò a scorrere rapidamente la documentazione.
Il penultimo foglio di quel sottile fascicolo era un rapporto scritto in prima persona da un poliziotto dell’ufficio immigrazione che lei non aveva mai sentito nominare. Il rapporto in questione portava la data del 23 dicembre 2008.
Due giorni prima.
Il sottoscritto si trovava in centrale la mattina odierna in concomitanza con il trasferimento di due immigrati con permesso di soggiorno non valido arrestati nel dormitorio per stranieri di Trandum. Durante il fermo ho avuto occasione di ascoltare una conversazione fra due colleghi su un cadavere non identificato rinvenuto nella darsena di Oslo alle prime ore di domenica 21 dicembre. Uno di loro ha accennato al fatto che il cadavere, parzialmente decomposto, aveva un dente d’argento nell’arcata superiore. La mia reazione è stata immediata, dal momento che per sei settimane ho tentato invano di rintracciare il minorenne curdo richiedente asilo politico Hawre Ghani in seguito alla sua richiesta di soggiorno in Norvegia. Durante una rissa fra bande al centro commerciale Oslo City in settembre (per altro registrata come episodio a sé stante, caso numero 98***** 37***/08), Hawre Ghani perse l’incisivo destro superiore. Dopo il fatto fu incarcerato e io stesso quel medesimo giorno lo accompagnai sotto scorta dal dentista. Lo scortato espresse il desiderio di un dente d’argento anziché di una capsula bianca e, per quanto si sa, il dente d’argento gli fu poi impiantato grazie alla collaborazione fra il Centro di tutela dei minori, il Centro di accoglienza profughi e il suddetto dentista.
Dal momento che finora non è stata registrata alcuna richiesta fra quelle di persone scomparse che possa dare riscontro positivo in merito al cadavere rinvenuto nella darsena di Oslo, pregherei il responsabile del caso di contattare il medico dentista dottor Dag Brå, Tåsen Senter, tel. 2229****, per un confronto tra le radiografie del suo archivio e la dentatura del defunto.
Silje Sørensen prese in mano l’ultimo foglio del fascicolo.
Era la copia di un messaggio manoscritto indirizzato a Harald Bull:
Ciao, Harald!
A causa delle festività natalizie ho fatto un controllo molto rapido e molto poco scientifico delle indicazioni fornite dall’ufficio immigrazione oggi, vigilia di Natale. Il dottor Brå è stato disponibile a ricevermi nel suo ambulatorio stamattina. Gli ho sottoposto alcune fotografie della dentatura del cadavere che io stesso avevo scattato (le ho fatte ad Aker Brygge domenica mattina, non di qualità, ma valeva la pena di tentare). Lui le ha confrontate con gli appunti e le radiografie in suo possesso e alla luce del materiale tenderebbe a concludere che il defunto sia il già citato minorenne curdo in cerca di asilo politico. Tutti i documenti inerenti al caso sono stati inviati in copia all’istituto di Medicina legale. Suppongo che una conferma/smentita ufficiale arriverà subito dopo capodanno. Forse addirittura nei giorni feriali tra Natale e capodanno, se le circostanze saranno favorevoli. Stilerò personalmente un rapporto in merito non appena tornerò in ufficio. E adesso… FERIE!
Buon Natale!
Bengt
Ps.: Ho parlato con l’istituto di Medicina legale ieri. Alcuni elementi indicherebbero che il ragazzo sarebbe stato ucciso con un oggetto simile a una garrotta. La testa è rimasta attaccata per miracolo, mi ha detto la persona con cui ho parlato. Si dovrebbe valutare se sia il caso di informare fin da ora la sezione Crimini violenti e a sfondo sessuale.
Silje Sørensen chiuse il fascicolo e si appoggiò allo schienale della sedia. Sudava. Il buon umore di quando aveva messo piede in ufficio si era come volatilizzato e si pentí di non aver lasciato lí quel fascicolo senza nemmeno toccarlo.
Sentiva un intenso bisogno di aprirlo di nuovo, solo per rivedere il viso di quel ragazzo, il giovane curdo senza genitori, senza radici, senza casa, con un dente d’argento e le guance glabre. Le era capitato innumerevoli volte di imbattersi in quei ragazzini, Dio solo sapeva se non capitava anche troppo spesso, ciononostante non era mai stata capace di prendere le distanze da casi del genere. Di tanto in tanto la sera, quando faceva un salto in camera dei suoi due figli – che ormai ritenevano di essere troppo grandi per il bacio della buonanotte, ma che non si addormentavano mai prima che lei avesse rimboccato ben bene il loro piumino –, le succedeva di provare qualcosa di simile al senso di colpa.
Forse vergogna, addirittura.
Un colpo di clacson squarciò il silenzio e le fece balzare il cuore in gola. Sbirciò dalla finestra e guardò giú, verso la rotonda davanti all’ingresso e alla guardiola.
− Mamma! Mammaaa, arrivi o nooo?
Il piú giovane dei suoi figli gridava sporgendosi dal finestrino, e Silje Sørensen sentí un’irritazione improvvisa. Con rapidi gesti mise il fascicolo di Hawre Ghani in cima alle pratiche da sbrigare, poi staccò il post-it con il numero di Harald Bull e se lo ficcò in tasca.
Quando si chiuse la porta alle spalle e si precipitò verso l’atrio nella speranza di arrivare in tempo per evitare che il figlio ricominciasse a urlare, si era completamente dimenticata del motivo per cui era passata dal Grønlandsleiret nelle prime ore del pomeriggio di Natale, facendo una tappa sulla strada per andare a cena dai suoceri.
Gli sci.
Erano ancora là, dietro la porta dell’ufficio. E quando Silje Sørensen finalmente si ricordò di averli dimenticati, era già troppo tardi.
Non era ancora troppo tardi, concluse il caporedattore. La sigla sarebbe partita nel giro di due minuti, ma dal momento che la notizia era ben lontana dall’essere di prim’ordine, sarebbero senza dubbio riusciti a far leggere due righe in studio con una foto del vescovo sullo sfondo verso la fine della trasmissione. Batté fulmineo sui tasti una richiesta al direttore di produzione e la inviò.
− Scrivi subito un testo per Christian, − tuonò rivolto alla giovane assistente. – Brevissimo. E fai anche un controllo incrociato con l’agenzia Ntb per verificare che sia tutto corretto. Un necrologio sbagliato non è esattamente quello che ci serve, nemmeno in una giornata cosí povera di notizie.
− Che sta succedendo? – domandò Mark Holden, una delle massime autorità in fatto di politica interna nell’intera Nrk. – Chi è morto?
Prese il foglio che l’assistente teneva in mano, lo lesse in un secondo e mezzo e poi lo cacciò di nuovo in mano alla ragazza, che non aveva fatto quasi in tempo ad accorgersi che glielo aveva tolto.
− Come mi dispiace, − disse Mark Holden senza un briciolo di empatia nella voce. – Non era vecchia, che io sappia. Quanti anni aveva? Sessanta? Sessantadue? Suppergiú. Di che cosa è morta?
− Non hanno scritto niente in proposito, − rispose con aria assente il caporedattore. – Non ricordo di aver sentito che fosse malata. In questo momento però devo concentrarmi sulla trasmissione. Se tu potessi…
Con un gesto allontanò il giornalista, ben piú anziano di lui, e inchiodò lo sguardo su uno dei molti monitor presenti in quell’enorme stanzone. Partí la sigla, i titoli erano proprio come dovevano essere e i presentatori piú eleganti del solito, in un giorno di festa.
Il caporedattore si appoggiò allo schienale e mise i piedi sul tavolo.
− Ancora lí? – chiese all’assistente. – L’annuncio che il vescovo è morto va dato oggi, sai, non la settimana prossima!
Solo in quel momento si rese conto che la ragazza aveva gli occhi traboccanti di lacrime e le mani che tremavano. Lei fece un bel respiro e si impose di sorridere.
− Certo, − mormorò. – Subito.
− Ma la conoscevi?
Anche questa volta la voce di Mark Holden era priva di qualsiasi calore, denotava solo una curiosità ormai profondamente radicata, un bisogno quasi automatico di fare domande su tutto e tutti.
− Sí. Lei e il marito sono amici dei miei genitori. Ma è anche che lei era…
La voce le si incrinò.
− Sí, lei era… molto amata dalla gente, − disse il caporedattore esitante. Si infilò la matita fra i denti e tornò con i piedi ben piantati per terra. – Lascia, − disse allungando una mano verso il foglietto con gli appunti. – Ci penso io all’annuncio. Tu invece comincia invece a scrivere un pezzo da mandare in onda con le foto d’archivio nel notiziario delle nove. Un minuto circa. Okay?
La ragazza annuí.
− «Il vescovo di Bjørgvin, Eva Karin Lysgaard, ci ha lasciato improvvisamente ieri, la vigilia di Natale, all’età di sessantadue anni».
Il caporedattore parlava ad alta voce, mentre le sue dita sfrecciavano sulla tastiera.
− «Eva Karin Lysgaard era originaria di Bergen, dove aveva esercitato come pastore per gli studenti universitari prima di ricoprire la stessa funzione in carcere. Per un lungo periodo aveva lavorato nella parrocchia di Tjensvoll a Stavanger. Nel 2001 era stata nominata vescovo e si era distinta come… – schioccò le labbra esitante, poi di colpo ricominciò a scrivere, − mediatrice all’interno della Chiesa, soprattutto fra i due schieramenti opposti nell’accesa discussione sulla questione dell’omosessualità. Eva Karin Lysgaard era una figura molto amata nella sua città natale e questo è emerso in modo evidente quando ha celebrato una funzione allo stadio di Brann dopo che la squadra locale, nel 2007, ha vinto il suo primo scudetto in quarantaquattro anni. Il vescovo Lysgaard lascia il marito, un figlio e tre nipoti».
− È proprio necessario citare questa cosa della partita di calcio? – gli chiese Mark Holden. – Non è poco serio, dato il contesto?
− Ma no, − sghignazzò il caporedattore, e con un clic inviò il pezzo al direttore di produzione. – Si può fare. Senti un po’, Mark…
Mark Holden stava frugando in un’enorme ciotola piena di dolciumi.
− Mmm…
− Di che cosa si può morire a quell’età?
− Smettila, dài. Di qualunque cosa, naturalmente. Non ne ho idea. Strano che non abbiano scritto niente in merito. Nessun «dopo una lunga malattia» o simili. Sarà stato un ictus. Un infarto. Roba del genere.
− Aveva solo sessantadue anni…
− E allora? La gente muore anche molto prima. Io stesso benedico ogni giorno in piú che passo su questa Terra! Per lo meno se posso mangiarmi un po’ di cioccolato ogni tanto.
Mark Holden non riusciva a trovare niente che gli piacesse. Accanto alla ciotola c’erano tre dolcetti alla liquirizia e due cioccolatini al cocco che aveva scartato.
− I piú buoni te li sei mangiati tutti tu, − borbottò acido.
Il caporedattore non rispose. Qualcosa lo aveva fatto ammutolire, e mordicchiava la matita con tale energia che la spezzò. Aveva gli occhi fissi sul monitor davanti a sé, ma non sembrava prestarvi molta attenzione.
− Ehi! – gridò di colpo alla giovane assistente. – Beate! Vieni qui!
Lei esitò un attimo, poi si alzò e lasciò la postazione di lavoro per fare come aveva detto lui.
− Quando avrai finito il pezzo per il notiziario delle nove, − le disse il caporedattore indicandola con il mozzicone di matita, − mettiti a fare qualche telefonata, va bene? Scopri di cosa è morta la signora. Sento puzza di…
Arricciò il naso come fosse un coniglio.
− … di una storia. Chissà…
− Fare qualche telefonata? A quest’ora? La mattina di Natale?
Il caporedattore sospirò rumorosamente.
− Vuoi diventare una giornalista o no? Su, è ora di rimboccarsi le maniche!
Beate Krohn rimase impassibile.
− Non hai detto che i tuoi genitori la conoscevano? – insistette lui. – E allora chiamali! Forza! Chiama chi diavolo ti pare, ma scopri di cosa è morta Eva Karin Lysgaard! Okay?
− Okay, − mormorò la ragazza, già intimorita al solo pensiero di quelle telefonate.
Non era mai accaduto che Johanne si tirasse indietro. Faceva solo molta fatica a iniziare. Dopo il dottorato in Criminologia nel 2000, aveva portato a termine altri due progetti. Aveva discusso una tesi, Violenza sessualizzata: uno studio comparato delle condizioni di vita e delle esperienze precoci su colpevoli di reati a sfondo sessuale e contro il patrimonio, con cui si era guadagnata una borsa di studio che le aveva dato modo di compiere un esame altrettanto approfondito sugli errori giudiziari in Norvegia. Verso la fine di quel secondo lavoro era nata Ragnhild. Yngvar e Johanne si erano trovati d’accordo sul fatto che lei sarebbe rimasta a casa finché la bambina non avesse compiuto due anni, ma mentre era ancora in maternità lei si era lanciata in un nuovo progetto, uno studio sulle prostitute minorenni, sul loro background, sulle loro condizioni e reali possibilità di riabilitazione.
Quell’estate aveva ricevuto un incarico dalla Direzione nazionale della polizia.
Era stata Ingelin Killengreen in persona a contattarla. Il direttore generale della polizia aveva ricevuto inequivocabili pressioni politiche per mettere in agenda i cosiddetti crimini d’odio.
Il problema era che quei crimini non esistevano.
O meglio, esistevano.
Ma non da un punto di vista puramente numerico. Non da un punto di vista statistico. La Direzione nazionale della polizia, in collaborazione con il distretto di Oslo, aveva già avviato una mappatura di tutte le denunce fatte nel 2007 per reati il cui movente fosse riconducibile alla razza, all’appartenenza etnica, alla religione o alle inclinazioni sessuali. Il rapporto conclusivo era proprio dietro l’angolo e Johanne aveva già visionato la maggior parte del materiale.
Si trattava di cifre molto basse.
Nell’intera Norvegia nel 2007 erano stati schedati trecentonovantanove crimini d’odio. Di tutti questi, piú del trentacinque per cento erano casi erroneamente classificati negli Strasak, i registri della polizia riguardanti le cause penali. In altre parole c’erano stati poco piú di duecentocinquanta reati per i quali si potesse parlare di crimini d’odio.
In un intero anno. In un Paese di quasi cinque milioni di abitanti.
Se paragonati al numero complessivo di denunce fatte alla polizia, 256 casi erano talmente pochi da risultare di per sé ben poco interessanti.
Alla politica, però, interessavano eccome. Poiché ogni singolo attacco motivato da odio era indubbiamente uno di troppo, poiché i numeri del sommerso in quel genere di criminalità dovevano essere grandi, e poiché il secondo governo Stoltenberg – la cosiddetta coalizione rosso-verde – avrebbe preferito presentarsi alle elezioni nell’autunno del 2009 con un asso nella manica da offrire a qualunque minoranza gridasse sdegnata ogni volta che un omosessuale veniva picchiato in centro o che dei vandali imbrattavano e danneggiavano la sinagoga ebraica vicino a St Hanshaugen, a Johanne era stato assegnato l’incarico di studiare il fenomeno piú da vicino.
L’incarico era stato formulato in modo cosí vago che lei aveva passato l’intero autunno a cercare di definire e circostanziare il lavoro che la aspettava. Inoltre, aveva iniziato a raccogliere una quantità piuttosto ampia di dati dagli altri Paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Anche diverse nazioni europee avevano da tempo sistematizzato e in parte rielaborato quei particolari reati. Il materiale era cresciuto senza che lei fosse ancora riuscita a decidere esattamente come e in che direzione muoversi.
Poi era arrivata la crisi finanziaria.
E tutti quei miliardi pubblici.
Diversi settori di ricerca norvegesi erano stati rinvigoriti da una pioggia di risorse, e dato che anche alla polizia erano stati dati forti incentivi purché contribuisse a tenere oliate le ruote dello Stato e a evitare il collasso economico, Johanne si era ritrovata per le mani una cifra che era il quadruplo di quella a sua disposizione fino a poche settimane prima. Le si era cosí aperto un ventaglio di nuove possibilità, fra cui poter approfittare di un maggior numero di giovani ricercatori e assistenti scientifici. Al tempo stesso, i nuovi mezzi avevano creato nuovi problemi: Johanne era prossima alla stesura definitiva del progetto quando le carte in tavola erano cambiate.
Non era semplice e lei faceva fatica a iniziare.
Ma l’idea la stimolava.
Era sera. Kristiane si era mostrata insolitamente accomodante dai genitori di Isak e Ragnhild aveva ritrovato tutta la sua vivacità non appena avevano ricevuto ognuna il proprio sacchettino di dolci natalizi. Visto che Kristiane sarebbe rimasta dai nonni per trascorrere tre giorni delle feste natalizie con suo padre, anche Ragnhild aveva insistito per rimanere. Isak aveva sorriso compiaciuto, come sempre, e detto che andava bene. Probabilmente si era reso conto da tempo di quello che anche Yngvar e Johanne avevano realizzato, e cioè che Kristiane era piú tranquilla, dormiva meglio ed era piú felice se aveva Ragnhild accanto.
La casa era silenziosa. I vicini del piano di sotto dovevano essere partiti. Quando Johanne era rientrata, verso le otto, le loro finestre erano tutte buie. Lei invece era andata di stanza in stanza ad accendere tutte le luci e aprire tutte le porte: di sera Jack, il cane, aveva l’abitudine di vagare per casa, se non lo chiudevano in camera di Kristiane, e il suo zampettio strascicato e il tonfo sordo di quando si sdraiava facevano sentire Johanne un po’ meno sola, le rare volte in cui in effetti era da sola. Alla fine prese il portatile e andò in soggiorno, si accomodò sul divano con il laptop sulle ginocchia e si mise a navigare in Internet sorseggiando un bicchiere di vino, senza concentrarsi piú di tanto. Aveva appena deciso di andare su ordspill.no per giocare a una specie di scarabeo quando squillò il telefono.
− Ciao, sono io.
Ne era passato di tempo dall’ultima volta che sentire la sua voce l’aveva resa cosí felice.
− Ciao, amore mio. Come va laggiú?
Yngvar rise.
− Praticamente ho intralciato la polizia di Bergen, mi sono reso ridicolo andando a trovare il vedovo in casa sua poche ore dopo che aveva saputo della morte della moglie, ho già litigato con il figlio della vittima, credo, e per finire ho mangiato cosí tanto a cena che adesso mi sento male.
Rise anche lei.
− Però! Dove ti sei sistemato?
− Al Sas Hotel che c’è a Bryggen. Una bella stanza, mi hanno innalzato di rango e dato la suite quando hanno capito da dove arrivavo. Non che sia proprio sovraffollato, qui, a Natale.
− Allora sapevano perché ti trovi lí?
− No. Davvero incredibile. Sono passate quasi ventiquattr’ore esatte da quando hanno trovato morta la Lysgaard e neanche un giornalista che abbia già iniziato a ficcanasare. Tutti questi pranzi e cene di Natale devono averli proprio sfiniti.
− O forse è stata l’acquavite. O forse, semplicemente, è che la polizia di Bergen è piú brava a tenere la bocca chiusa dei colleghi di Oslo. Fra l’altro, ho appena visto il telegiornale. Le hanno dedicato un breve servizio, ma hanno detto solo che era morta, niente di piú.
All’altro capo sentí dei rumori da cui dedusse che Yngvar si stava allentando il nodo alla cravatta. Tutt’a un tratto si commosse: lo conosceva talmente bene da captare addirittura cose del genere mentre era al telefono con lui.
− Scusa un attimo, − disse Yngvar. – Il tempo di sfilarmi le scarpe e togliermi questo maledetto cappio al collo. Ecco. E da voi come va? È stata dura riordinare tutto da sola stamattina, con le bambine intorno? Devi essere stanchissima. Mi dispiace aver…
− È andato tutto bene. Come vedi me la cavo anche con una notte insonne alle spalle. Le bambine sono scese in giardino a giocare per un paio d’ore, l’unica cosa è stata che…
Era riuscita ad allontanare il pensiero dell’estraneo per tutto il pomeriggio e tutta la sera, ma in quel momento una fiammata d’ansia le attraversò il corpo e la fece ammutolire.
− Pronto? Johanne?
− Sí, sí. Ci sono.
− Tutto bene, tesoro?
Yngvar avrebbe sicuramente minimizzato l’accaduto, avrebbe sospirato con rassegnazione e l’avrebbe esortata a non avere sempre tutta quella tremenda paura per le bambine. Non avrebbe mostrato la minima comprensione, se lei gli avesse detto che non riusciva a smettere di pensare al fatto che un esimio sconosciuto sapeva il nome della sua figlia maggiore. Senza contare poi che quel tizio era cosí ben imbacuccato, con tanto di berretto e sciarpa, che avrebbe potuto benissimo essere un vicino, avrebbe ribattuto Yngvar se lei gli avesse raccontato quell’episodio; e cosí un po’ di gelo, lieve ma spiacevole, sarebbe sceso fra loro e le avrebbe reso difficile prendere sonno piú tardi, da sola, senza altri rumori intorno che l’ansimare e le continue flatulenze di Jack.
− No, niente, − rispose cercando di mettere un sorriso in quelle parole. – Sarà che non ci sei. Siamo soli, Jack e io. Ragnhild è voluta restare dai genitori di Isak.
− Ma che bello! Isak è proprio generoso. Lui…
− Come se tu non lo fossi con sua figlia! Come se…
− Va bene, va bene. Non intendevo… Sono contento che sia stata una bella giornata per tutti voi e che tu abbia l’intera serata solo per te. Non è certo una cosa che capita spesso, no?
Johanne spostò il portatile sul tavolino da salotto e si avvolse meglio nella coperta.
− Hai ragione, − disse, sorridendo per davvero. – In effetti è anche piacevole starsene un po’ da soli ogni tanto. Fatta eccezione per Jack, certo. A proposito, dev’esserci qualcosa che non va nella sua pappa. Fa delle scorregge orrende.
Yngvar rise.
− Che cosa stai facendo?
− Un po’ lavoro, un po’ vado su Internet. Bevo del vino. Mi manchi da impazzire.
− Ottimo. Tutto quanto. Tranne il lavoro. È Natale! Io ho intenzione di prendermi la serata libera. Sono stanco morto. Domani spero di riuscire a interrogare il figlio del vescovo. Dio solo sa come andrà a finire, già non mi sopporta…
− Scommetto che non è vero. Tu piaci a tutti, Yngvar. E visto che sei il piú bravo bravissimo poliziotto del mondo andrà sicuramente tutto bene.
Yngvar rise di nuovo.
− Devi smetterla di fare questo giochino con le bambine! Poco prima di Natale eravamo in coda alla cassa al supermercato quando Ragnhild all’improvviso si è alzata in piedi nel carrello e ha strombazzato a gran voce che il suo papà era il piú piú piú… credo che abbia detto «piú» almeno dieci volte… il piú bravo bravissimo poliziotto del mondo! Che imbarazzo. La gente rideva.
− Ha ragione Ragnhild, − disse Johanne, sorridendo ancora. – Sei il piú bravo del mondo, anzi di piú.
− Sí, sí… Buonanotte…
− Buonanotte, amore.
La voce di Yngvar svaní. Johanne fissò il telefono per un po’, come nella speranza che lui fosse ancora all’altro capo e che potesse consolarla e rassicurarla sul fatto che quell’uomo al di là della staccionata non era pericoloso. Poi si alzò lentamente, posò il telefono e si avvicinò alla finestra. La luna nuova splendeva obliqua sopra la casa dei vicini. C’era ancora un freddo secco. Il gelo attanagliava Oslo, ma il cielo era limpido da giorni e in settimana c’erano stati dei tramonti spettacolari. I pochi fiocchi sparsi di neve che erano scesi la mattina si erano posati sull’erba in uno strato trasparente, come una garza. Il cielo era di nuovo limpido, era buio e Johanne si sentí finalmente pronta per andare a dormire.
Una donna guardava dalla finestra senza sapere se sarebbe mai piú riuscita ad addormentarsi. Forse stava già dormendo. Tutto le pareva irreale ed estraneo come in un sogno. In quella casa ci era nata, in quella stessa stanza; abitava lí da sempre e da sempre guardava da quella finestra con i listelli di legno che formavano una croce, dividendo cosí il panorama in quattro angoli di mondo, come le aveva raccontato il padre quando lei era piccola e credeva a qualunque cosa gli uscisse di bocca. Al momento, però, era tutto contorto e alterato. Alla pioggia sul vetro era abituata; pioveva spesso, quasi sempre, a Bergen, e lei stava piangendo e non aveva idea di cosa fosse ciò che vedeva. La sua vita era stata distrutta: ciò che vedeva dalla piccola casa non le apparteneva piú.
Aveva aspettato ventiquattr’ore, era stata una lunga notte e il giorno era trascorso ancor piú lentamente, in un’incertezza di cui non riusciva a liberarsi. Come nella vita aveva seguito dei binari determinati da circostanze al di fuori del suo controllo, cosí si era dovuta rassegnare anche a quelle lunghe, eterne ore di attesa. Non aveva avuto alternative, per lo meno non prima che la donna alla televisione raccontasse ciò che lei aveva già capito da esattamente ventiquattr’ore, e cioè da quando, seduta in poltrona davanti allo schermo, si era svegliata all’improvviso con l’angoscia che le serrava la gola e le faceva tremare le mani.
Aveva aspettato tante altre volte.
Aveva aspettato una vita intera e si era abituata a farlo.
Ma stavolta era stato diverso. Aveva avuto la netta sensazione di qualcosa che non poteva essere vero, che non doveva essere vero, ma che lei comunque sapeva perché era cosí che aveva vissuto molto a lungo: completamente sola.
Suonarono alla porta. La donna fu colta cosí alla sprovvista – era tardissimo – che si lasciò sfuggire un gridolino.
Aprí la porta e lo riconobbe. Era passata un’eternità dall’ultima volta che si erano visti, ma i suoi occhi erano rimasti uguali. Lui piangeva, come lei, e le chiese se poteva entrare. Lei avrebbe preferito di no. Non era lui che voleva vedere. Non voleva vedere nessuno.
Quando lo fece accomodare e chiuse la porta alle sue spalle implorò Dio di svegliarla.
Ti prego, buon Dio, ti prego. Ti supplico.
Svegliami adesso.
− Ma non c’è nessuno sveglio a quest’ora!
Beate Krohn fissava rassegnata il caporedattore. Era quasi mezzanotte. I due erano soli in redazione, fra monitor muti e sfarfallanti e il ronzio dei computer e del sistema di aerazione. Qua e là qualcuno aveva appeso delle decorazioni natalizie: un festone rosso scintillante, una ghirlanda fatta di bandierine della Norvegia. In un angolo c’era uno spelacchiato albero di Natale con in cima una stella messa di sbieco. La maggior parte dei cioccolatini e dei dolcetti che erano stati lasciati lí per consolare chi avrebbe dovuto lavorare a Natale era già stata mangiata. Fogli di carta e vecchi giornali erano sparsi un po’ ovunque.
− E i tuoi genitori?
Non demordeva. Si era acceso una sigaretta: una violazione alle regole cosí eclatante che, anche senza volerlo, lei ne era rimasta davvero impressionata.
− A quest’ora anche loro stanno dormendo, − rispose. – Oltretutto li spaventerei a morte se chiamassi cosí tardi. Abbiamo delle regole per le telefonate, nella nostra famiglia. Non prima delle sette e mezza del mattino e non dopo le dieci di sera. A meno che non sia morto qualcuno.
− Appunto! È morto qualcuno.
− Intendevo dire che…
Lui la interruppe con una profonda boccata e un impaziente cenno della mano.
− Adesso ti faccio vedere io come si fa in certe occasioni, − sghignazzò con la sigaretta fra le labbra. – Guarda e impara!
Smanettò sul cellulare, poi se lo appoggiò all’orecchio destro.
− Pronto? Ehi, Jonas! Ciao! Sono Sølve…
Tre secondi di silenzio.
−Sølve Borre, cazzo! Dell’Nrk! Dove sei?
Beate Krohn una volta aveva letto che, in qualunque parte del mondo, la frase di apertura piú frequente di un dialogo al cellulare era finalizzata a chiarire dove si trovasse l’interlocutore. Da quel momento era stata molto attenta a non chiederlo mai.
− Senti un po’, Jonas. Il vescovo Lysgaard è morto ieri sera, lo sai di sicuro. È che…
Evidentemente fu interrotto e ne approfittò per fare un altro tiro di sigaretta.
− Certo… certo… Ma... volevo solo controllare la causa del decesso. Solo per curiosità. Ho una sensazione, capito…
Pausa.
− Ma allora, non potresti chiamare uno di loro? Ci sarà pur qualcuno laggiú che ti deve un favore. Non potresti…
Fu di nuovo interrotto. Una densa nuvola di fumo lo avvolgeva e Beate Krohn cominciò a temere che sarebbe scattato l’allarme antincendio. Fece un passo indietro per non impregnarsi di fumo i vestiti.
− Va bene, Jonas! Va benissimo! Aspetto la tua chiamata! E fottitene dell’orario…
Interruppe la comunicazione.
− Fatto, − disse, le dita che correvano sulla tastiera. − Vieni qui che ti insegno una cosa. Guarda un po’ questo comunicato.
Beate si chinò esitante sopra la sua spalla e lesse l’agenzia della Ntb che annunciava la morte del vescovo Lysgaard. Il contenuto non era cambiato da quando lo aveva letto l’ultima volta.
− Vedi qualcosa di strano? − le chiese il caporedattore.
− No.
La ragazza tossí discretamente e si girò dall’altra parte.
− Non so quanti comunicati del genere ho letto in vita mia, − disse lui, impassibile. – Un’infinità, non c’è dubbio. Alla fine sono tutti uguali. Abbastanza solenni sul piano formale, per il resto piuttosto banali. Però… dicono quasi sempre qualcosa in piú del semplice fatto che una persona è morta. «Il signor Tal dei tali è morto inaspettatamente nella sua casa… », «Pinco Pallino ci ha lasciato dopo una breve degenza in ospedale… », «Mister X è deceduto in un incidente d’auto a Drammen ieri sera». Cose del genere.
Le sue dita disegnarono cosí tanti punti di domanda nell’aria che la cenere si sparse su tutta la tastiera, già molto consumata: le lettere quasi non si leggevano piú.
− E invece qui, − indicò lui, − qui c’è scritto solo che «il vescovo Eva Karin Lysgaard è morto ieri sera. Aveva sessantadue anni… » E bla bla bla.
− Non è detto che debba per forza significare qualcosa… − ribatté lei.
− No, certo, − disse il caporedattore con un ampio sorriso. – Probabilmente non significa nulla. Ma dovremmo controllare, questo sí. Sai come mai un tizio come me è diventato giornalista alla Nrk ad appena ventun anni e senza aver studiato?
Con un gesto eloquente si indicò il naso.
− Ce l’ho dentro, sai.
Il telefono squillò. Beate Krohn lo guardò piena di stupore, come se il caporedattore le avesse appena fatto un gioco di prestigio.
− Sølve, − sbraitò lui infilando il mozzicone di sigaretta in una bottiglietta di acqua Farris. – Sí, appunto.
Per alcuni secondi restò in silenzio. Quella sua espressione sfacciata svaní, gli occhi si assottigliarono. Si allungò a prendere una penna e scrisse alcuni illeggibili appunti sul margine di un giornale.
− Grazie, − disse infine. − Grazie mille, Jonas. Sono in debito con te, okay?
Per un attimo rimase seduto con lo sguardo fisso sul telefono, poi di colpo lo rialzò su di lei. Era come trasfigurato.
− Eva Karin Lysgaard è stata uccisa, − disse adagio. – È stata uccisa la vigilia di Natale, cazzo!
− Come… − iniziò Beate Krohn afflosciandosi su una sedia. – Come fai a sapere… Ma con chi hai parlato?
Il caporedattore si appoggiò allo schienale della sua poltrona da ufficio e la guardò dritto negli occhi.
− Spero che tu abbia imparato qualcosa stasera, − le disse a bassa voce. – E la cosa piú importante, la piú importante in assoluto che dovresti aver imparato è la seguente: come giornalista vali zero, se non hai delle buone fonti. Spaccati la schiena per tutto il tempo che serve a trovarle e non infischiartene mai. Mai.
Beate Krohn cercò invano di non arrossire.
− E adesso, − disse lui con un sorriso disarmante mentre si accendeva un’altra sigaretta, − adesso è ora di iniziare a telefonare per davvero. Adesso sí che è ora di svegliare la gente!

Piccole chiavi, grandi stanze

− Mi spiace… – esclamò Yngvar Stubø fermandosi di colpo sulla porta. – Ti ho svegliato?
Lukas Lysgaard batté le palpebre e scuotendo la testa mormorò: − No, no… Anzi, a dire il vero sí, − rettificò. − Non ho praticamente chiuso occhio questa notte, e cosí quando mi sono seduto qua…
Sollevò il viso pallido e sorrise. Yngvar quasi non lo riconosceva. Le ampie spalle erano incurvate, i capelli unti e sotto gli occhi c’erano due borse scure. Nell’occhio sinistro un capillare si era rotto e lo sguardo era rosso sangue.
− Capisco, − disse Yngvar tirando fuori da sotto la scrivania un’altra sedia.
Lukas Lysgaard si strinse nelle spalle. Yngvar non capí se quel gesto stesse a significare che non gli importava molto di cosa capiva o non capiva lui, o se fosse invece un modo di scusarsi perché si era addormentato.
− I lupi sono già in azione, − disse mentre si sedeva. – Per la stampa è stata solo una questione di tempo.
L’altro annuí.
− Vi hanno già cercati? – gli chiese Yngvar dando un’occhiata all’orologio. Quasi le nove e mezza.
Lukas Lysgaard annuí ancora, lentamente.
− E comunque grazie di essere venuto, − gli disse Yngvar con un gesto della mano. – Vedo che il mio collega ha già sbrigato tutte le formalità. Ti hanno offerto qualcosa da bere? Caffè? Acqua?
− No, grazie. E tu qui che cosa ci fai?
− Io?
− Sí, tu.
− In che senso?
Lukas Lysgaard si sporse in avanti e puntò i gomiti sulla scrivania.
− Tu lavori per la Kripos, la polizia criminale.
Yngvar annuí.
− La Kripos non è piú quella di una volta.
− No…
Yngvar non capiva dove quell’uomo volesse andare a parare.
− Per quanto ne so io, adesso la Kripos è innanzitutto un’unità che opera a livello nazionale nella lotta alla criminalità organizzata. Pensate che sia stata la mafia a uccidere mia madre?
− No, no, no!
Per un attimo Yngvar ebbe l’impressione che Lukas Lysgaard ci credesse veramente, ma un sorriso senza gioia e quasi impercettibile gli fece cambiare idea.
− Per risolvere questo caso sono state messe in campo le forze migliori, − gli spiegò, e si versò del caffè da un thermos. – E secondo qualcuno anch’io ne faccio parte. Tuo padre come sta?
Nessuna risposta.
− A ogni modo, ho pensato che fosse il caso di informare te per primo, − proseguí Yngvar spingendo un fascicolo verso di lui.
Lukas Lysgaard non accennò neanche ad aprirlo.
− Tua madre è morta per una ferita d’arma da taglio. L’hanno colpita al cuore. Quindi è morta molto in fretta.
Yngvar scrutò il volto dell’altro alla ricerca di segnali che gli indicassero se fermarsi o proseguire.
− Non ha altre ferite, eccetto un paio di scorticature che molto probabilmente sono da attribuire alla caduta. A quanto pare, quindi, non ha opposto resistenza.
− Lei era…
Lukas si portò la mano stretta a pugno davanti alle labbra e tossí.
− Era una donna di sessantadue anni. Non ci si può certo aspettare che avesse molte risorse per opporsi a un assassino.
Tossí di nuovo, poi aggiunse rapido: − O a un’assassina. Suppongo che esistano anche assassini donne.
− Assolutamente sí.
Yngvar annuí e si passò una mano sulla guancia mentre valutava se fosse il caso di riprendersi il fascicolo che l’altro non aveva nemmeno toccato. Il silenzio fra loro durò un po’ troppo a lungo. La situazione si stava facendo imbarazzante, e Yngvar si rendeva sempre piú conto che l’atteggiamento poco amichevole di Lukas Lysgaard non era affatto cambiato nelle ultime ventiquattr’ore. L’altro fissava il piano della scrivania, a braccia conserte.
− Mia moglie è una criminologa, − disse Yngvar a un tratto. – Si è laureata in Giurisprudenza. E ha studiato anche Psicologia.
Per lo meno Lukas aveva alzato gli occhi. Una ruga di stupore gli si palesò sopra la radice del naso.
− È molto piú giovane di me, − aggiunse Yngvar.
Nemmeno i piú ostinati fra i testimoni o i piú ostili fra gli arrestati riuscivano a restare impassibili quando Yngvar senza preavviso cominciava a parlare della propria famiglia. Sembrava un comportamento cosí poco professionale che l’interrogato finiva per irritarsi, o stupirsi, o mostrare un sincero interesse.
− A volte lei dice che…
Yngvar sollevò la tazza e bevve un lungo sorso di caffè, lentamente e rumorosamente.
− Che preferirebbe che i suoi cari morissero di una lunga e dolorosa malattia piuttosto che saperli vittime di un crimine, anche se questo implicasse una morte piú rapida.
Non appena lo ebbe detto, come sempre si sentí la coscienza sporca per aver abusato di Johanne attribuendole convinzioni che non aveva. Ma quella punta di rimorso svaní quando vide la reazione di Lukas Lysgaard.
− Che cosa… Che cosa intendi dire? Mi sembra terribile augurare una cosa del genere a una persona a cui si vuol bene, e…
− Già, non è vero? Io sono d’accordo con te. Ma quello che sostiene mia moglie è che la famiglia della vittima di un crimine si ritrova inevitabilmente al centro di indagini anche molto dettagliate, e questo può trasformarsi in un peso terribile. Se si muore per altre ragioni, invece…
Yngvar sollevò le mani con il palmo rivolto verso l’alto.
− È tutto finito. La famiglia viene sommersa dalla solidarietà altrui e nessuno fa domande. Mia moglie si ostina a sostenere che morire per cause naturali ha l’effetto di sigillare i segreti di una famiglia, mentre se si è vittime di un crimine, ecco che…
Yngvar scosse bonariamente la testa e infilò una chiave immaginaria in una invisibile serratura.
− Tutto deve venire fuori ed essere messo in bella vista. È questo che sostiene. Non che io sia d’accordo con lei, ripeto, ma è anche vero che non ha tutti i torti. Non trovi?
Lukas Lysgaard lo guardava di sottecchi, senza mostrare alcun segno di accordo o disaccordo in merito. Yngvar non gli staccava gli occhi di dosso.
− Suppongo, − disse all’improvviso Lukas sporgendosi sulla scrivania che li separava, − che quello che stai cercando di raccontarmi in realtà è che esisterebbero dei segreti nella mia famiglia. Segreti che potrebbero spiegare perché mia madre sia stata pugnalata e uccisa per strada! – Verso la fine della frase la sua voce divenne stridula.
− Come se la colpa fosse sua, no? Di mia madre, la piú gentile, la piú premurosa…
La voce gli si incrinò del tutto e Lukas scoppiò a piangere. Yngvar restò in perfetto silenzio, con la tazza di caffè nella mano destra e una penna in bilico fra l’indice e il medio della sinistra.
− Mia madre di segreti non ne aveva, − aggiunse Lukas Lysgaard in tono disperato mentre si asciugava le lacrime con il dorso della mano. – Non mia madre, no. Lei proprio no.
Yngvar continuava a tacere.
− Mia madre e mio padre si amavano sopra ogni altra cosa, − proseguí. – Avranno sicuramente passato dei brutti momenti, avranno litigato come tutti, ma erano sposati da quando avevano diciannove anni, e cioè…
Singhiozzò mentre contava a mente.
− Da piú di quarant’anni! Sono stati sposati per piú di quarant’anni e tu adesso vieni a dirmi che tra di loro c’erano dei segreti! Una cosa davvero… davvero…
Yngvar prese qualche rapido appunto sul blocchetto che aveva davanti, poi lo allontanò da sé facendolo cadere per terra. Dopo averlo raccolto lo riappoggiò sulla scrivania con il foglio su cui aveva scritto girato verso il basso.
− Che sfacciataggine, − concluse Lukas Lysgaard con voce piatta, – insinuare che mia madre avesse…
− Mi dispiace molto se ti sono sembrato sfacciato, − lo interruppe Yngvar Stubø. – Non volevo proprio. Ma è interessante che ti scaldi tanto sul matrimonio dei tuoi quando io stavo solo dicendo che ognuno di noi ha delle esperienze personali che non desidera condividere con altri. Cose che ha fatto. Cose che ha evitato di fare. Cose, magari, che hanno finito per procurargli dei nemici. Cose che hanno ferito qualcuno. Questo naturalmente non significa che…
Lasciò apposta la frase in sospeso, nella speranza che il suo contenuto risultasse ambiguo al punto giusto.
− Mia madre e mio padre di nemici non ne hanno, − ribadí Lukas Lysgaard cercando palesemente di ricomporsi. – Anzi, mia madre veniva considerata una negoziatrice, una paladina della negoziazione. Sia per quanto riguarda la sua vocazione, sia nella vita privata. Non ha mai neanche accennato al fatto che qualcuno potesse volerla morta. È davvero…
Deglutí, si passò piú volte una mano fra i capelli.
− Quanto a mio padre, ecco…
Inspirò a fondo, come un rantolo.
− Mio padre ha sempre vissuto all’ombra di mia madre.
Espirò, lentamente, e in quell’attimo cambiò tono. Come se a un tratto si fosse rassegnato. Come se parlasse a sé stesso.
− Logico, in effetti. Mia madre con la sua carriera e mio padre che non è mai andato oltre la laurea breve. A quanto pare non voleva…
Si bloccò di nuovo.
− Come si erano conosciuti? – gli chiese Yngvar con grande tranquillità.
− Alle superiori. Erano in classe insieme.
− I tipici fidanzatini del liceo, − disse Yngvar con un sorriso contenuto.
− Mia madre sentí la vocazione a sedici anni. Proveniva da una normalissima famiglia di operai, suo padre lavorava alla Bmv.
− In Germania?
Yngvar si mise a sfogliare stupito il fascicolo che aveva davanti.
− Alla Bmv, non alla Bmw. La Bergens Mekaniske Verksted, le officine meccaniche di Bergen. Era membro dell’Nkp, il Partito comunista, e ateo convinto. Mia madre è stata la prima della sua stirpe ad andare alle scuole superiori. È stata dura per mio nonno vedere la propria figlia studiare Teologia, ma al tempo stesso era… orgogliosissimo di lei. Purtroppo non è vissuto abbastanza da vederla diventare vescovo. Sarebbe stato…
Si strinse nelle spalle.
− Mio padre, invece, proviene dall’ambiente accademico. Mio nonno… mio nonno paterno, intendo, era professore di Storia all’università di Oslo. Poi, quando mio padre aveva otto, dieci anni si trasferirono a Bergen. Anche mia nonna insegnava, a quei tempi era una cosa piuttosto insolita per una donna…
Si interruppe di nuovo.
− Sai com’è, − sospirò infine. − Mio padre per molti versi è considerato… come dire… un debole?
Singhiozzò nel pronunciare quella parola e le lacrime ricominciarono a scendere copiose.
− Ma non lo è affatto. È un padre fantastico. Intelligente e colto. Molto premuroso. Solo che non è mai riuscito a… a fare tutto… a diventare come… Sai, i suoi genitori avevano riposto grandi speranze in lui. Avevano molte aspettative.
Singhiozzò e si passò una mano sulla bocca.
− Mio padre è un tipo piú riflessivo rispetto a mia madre. Da un punto di vista religioso… è piú rigido, in un certo senso. Lo ha sempre affascinato il cattolicesimo. Non fosse stato per la posizione e il ruolo di mia madre, probabilmente si sarebbe convertito molto tempo fa. In autunno mia madre ha partecipato a un convegno a Boston e lui l’ha accompagnata. Ha visitato ogni chiesa cattolica della città.
Lukas Lysgaard esitò un istante.
− Oltretutto lui è piú severo con sé stesso di quanto non lo fosse mia madre. Probabilmente non ha mai superato del tutto il fatto di aver deluso i suoi genitori. È figlio unico, sai.
Aggiunse l’ultima frase come se bastasse da sola a spiegare ogni cosa, o quasi.
− Anche tu sei figlio unico, se non sbaglio.
Yngvar sbirciò di nuovo le carte che aveva davanti, girò il blocco e scarabocchiò rapido un paio di frasi.
− Sí.
− E hai… ventinove anni?
Yngvar aveva appena letto la data di nascita di quell’uomo e ne era stupito: il giorno prima gli aveva dato sui trentacinque anni.
− Sí.
− I tuoi genitori quindi erano sposati già da quattordici anni quando sei nato.
− Hanno studiato a lungo. Per lo meno mia madre.
− E non hanno avuto altri figli?
− Non che io sappia.
La circospezione sarcastica era tornata e Yngvar gli chiese con un sorriso disarmante: − Per affermare che i tuoi si amavano molto, su cosa ti basi?
L’altro lo guardò con aria sinceramente stupita.
− Su cosa... In che senso, scusa? – E senza aspettare risposta proseguí: − Lo dimostravano centinaia di volte al giorno! Il modo in cui si parlavano, le esperienze che condividevano, tutto quanto… santo cielo, ma che razza di domanda è?
Aveva uno sguardo che incuteva quasi paura, con quell’occhio rosso sangue spalancato. D’un tratto si irrigidí e smise di respirare.
− Qualcosa non va? − gli chiese Yngvar dopo qualche secondo. – Signor Lysgaard! È tutto a posto?
L’uomo espirò adagio.
− Emicrania, − rispose a bassa voce. – Ultimamente ho dei disturbi alla vista.
Lo disse con voce piatta e monotona, continuando a sbattere le ciglia.
− Ho come un baluginio in una metà della…
Sollevò una mano e la tenne a mo’ di divisorio fra l’occhio destro e il sinistro.
− Questo significa che fra venticinque minuti praticamente esatti avrò un mal di testa cosí tremendo da non riuscire nemmeno a descrivertelo. Devo andare. Devo tornare a casa.
Si alzò talmente di slancio da rovesciare la sedia. Per un attimo perse l’equilibrio e dovette appoggiarsi alla parete. Yngvar guardò l’orologio. Aveva riservato l’intera giornata a un colloquio che, ora come ora, era appena agli inizi. A dire il vero, ciò che aveva saputo era già sufficiente per qualche riflessione, ma il fastidio che quella interruzione forzata gli procurava era difficile da nascondere. Poco importava. Lukas Lysgaard sembrava del tutto smarrito.
− Ti faccio riaccompagnare a casa, – disse Yngvar a bassa voce. – C’è qualcos’altro che posso fare per te?
− No. A casa. Subito.
Yngvar Stubø prese il cappotto che Lukas Lysgaard aveva appeso a un gancio sulla parete e glielo porse, ma l’altro non fece nemmeno il gesto di volerselo infilare. Si limitò ad afferrarlo e a trascinarselo dietro mentre si muoveva a scatti verso la porta. Yngvar fece qualche rapido passo e lo precedette.
− Vedo che non ti senti bene, − gli disse con la mano sulla maniglia. – Perciò rimandiamo il resto della conversazione a un momento migliore. Ma c’è una domanda che purtroppo non posso non farti subito. La stessa che hai sentito ieri.
L’uomo di fronte a lui non cambiò minimamente espressione; pareva quasi non sapere nemmeno che Yngvar si trovava ancora in quella stanza.
− Che cosa ci faceva tua madre da sola fuori, a piedi, di sera tardi, la vigilia di Natale?
Lukas Lysgaard sollevò il capo. Guardò Yngvar dritto negli occhi, si umettò le labbra e deglutí sonoramente. Era evidente che gli costava un’enorme fatica raccogliere le forze in vista del dolore che sarebbe arrivato.
− Non lo so, − rispose. – Non ho la piú pallida idea del perché fosse uscita da sola a quell’ora.
− Le piaceva fare una passeggiata la sera? Prima di andare a letto? Voglio dire, era sua abitudine…
Lukas continuava a fissarlo.
− Devo andare, − disse con voce roca. – Adesso. Non ho idea di dove stesse andando mia madre e di cosa dovesse fare. Lasciami tornare a casa. Ti prego.
«Stai mentendo, – pensò Yngvar, e gli aprí la porta. – Te lo leggo in faccia che mi stai mentendo».
− È la verità, − disse Lukas Lysgaard, poi uscí barcollando nel corridoio.
− Tu non saresti in grado di mentire neanche se ti pagassero per farlo –. Line Skytter rise raccogliendo le gambe sotto di sé sul divano.
− Ma smettila, − ribatté Johanne, stupendosi di sentirsi leggermente offesa. − Io sono una specialista in fatto di menzogne!
− Menzogne degli altri, sí. Ma non tue. Se avessi comprato le costolette di maiale al supermercato e avessi detto a tua madre che venivano da qualche negozio figo tipo Strøm-Larsen, il tuo naso sarebbe diventato lungo un chilometro. Buon per te che hai deciso di comprare il merluzzo.
− Che però non era abbastanza buono per mia madre, − borbottò Johanne nel suo bicchiere di vino.
− Dài, fregatene, − le disse Line rassegnata. – Tua madre è dolcissima. È brava con le bambine e buona come il pane. Solo un po’… incontinente a livello emotivo, tutto qui. È come se dovesse dare fiato per forza a tutto quello che pensa. Lascia perdere! Cin cin!
Johanne sollevò appena il bicchiere e rannicchiò le gambe. La sua migliore amica, nonché quella di piú vecchia data, si era inaspettatamente presentata alla porta un’ora prima con due bottiglie di vino e tre Dvd in un sacchetto di plastica. Un lieve fastidio aveva tormentato Johanne per i primi minuti: non vedeva l’ora di passare un’altra serata in solitudine davanti allo schermo del suo portatile. Ma ora che erano lí, sedute ai due estremi del grande divano, non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era sentita cosí distesa.
− Sono davvero stanchissima, − disse con un sorriso, prima di soffocare un prolungato sbadiglio. − È solo quando mi rilasso che me ne accorgo.
− Non puoi dormire! Dobbiamo vederci…
Scorse rapidamente i Dvd sparsi sul tavolino.
− Notte brava a Las Vegas prima di tutto. Ashton Kutcher è troppo dolce. E non sono ammesse critiche. Adesso dobbiamo solo divertirci.
Diede un finto calcio a Johanne, che scosse rassegnata la testa.
− Ma quanto tempo butti via a guardare questa roba, eh? – le chiese.
− Non fare tanto la sofisticata. Questa roba piace anche a te!
− Posso almeno guardarmi il telegiornale, prima? Sai, solo per avere un minimo ancoraggio alla realtà. Poi ci tuffiamo in quelle melensaggini…
Line rise e sollevò di nuovo il bicchiere, come in un gesto di approvazione.
Johanne accese il televisore con il telecomando, giusto in tempo per vedere gli ultimi secondi dei titoli di apertura. La prima riga, come ci si poteva aspettare, era: «Ucciso per strada il vescovo Eva Karin Lysgaard: la polizia ancora senza tracce».
− Che cosa? – esclamò Line a bocca aperta, tirandosi su sul divano. – Uccisa la Lysgaard? Ma che…
Riappoggiò i piedi per terra, posò il bicchiere e si sporse in avanti con i gomiti puntati sulle ginocchia.
− Lo hanno scritto su tutti i giornali in rete e lo hanno ripetuto alla radio tutto il giorno, − disse Johanne alzando il volume. – Ma tu dov’eri?
− A sciare, − rispose Line. – Ieri sera ho sentito che era morta, ma non sapevo che la avessero… ssst!
Christian Borch indossava un abito scuro e aveva una espressione grave in volto.
«Oggi la polizia ha confermato che il vescovo di Bjørgvin, Eva Karin Lysgaard, è stato ucciso la sera del 24 dicembre. Ieri ne era stato comunicato il decesso, ma le circostanze della sua morte sono state rese note solamente questa mattina».
L’immagine dello studio lasciò il posto a quella di una piovosa Bergen con un giornalista che presentò brevemente il caso: in pratica, due minuti sul nulla.
− È per questo che Yngvar è partito? – chiese Line di colpo girandosi verso Johanne.
Lei assentí con un lieve cenno del capo.
«Per quanto ci è dato sapere, gli inquirenti non hanno ancora nessuna pista utile alla soluzione del caso».
− Cioè hanno un sacco di piste, − commentò Johanne, − ma non hanno idea di dove li porteranno.
Line la azzittí. Rimasero sedute in silenzio a guardare l’intero servizio, che durò all’incirca dodici minuti. L’incredibile lunghezza non era dovuta soltanto alla scarsità di notizie tipica del periodo natalizio: si trattava di un fatto molto speciale. Lo si vedeva dalle interviste ai poliziotti e ai membri della Chiesa, ai politici e alla gente comune fermata a caso per strada: tutti erano visibilmente toccati dall’accaduto, cosa piuttosto inconsueta per dei norvegesi. A molti si incrinava la voce, alcuni scoppiavano a piangere davanti alle telecamere.
− Quasi come quando è morto re Olav, − disse Line spegnendo la televisione.
− Be’… lui è morto di vecchiaia, bello tranquillo nel suo letto.
− Sí, certo. Mi riferivo… all’atmosfera, ecco. Ma chi mai può aver pensato di ammazzare una donna del genere? Era cosí… come dire… cosí gentile… Cosí buona!
Johanne si ricordò di aver reagito nello stesso identico modo quando lo aveva saputo, quasi due giorni prima. Eva Karin Lysgaard non solo sembrava una brava persona, ma era anche dotata di buone capacità diplomatiche. Teologicamente parlando si trovava piú o meno al centro di quel frammentato paesaggio che costituiva la Chiesa di Norvegia. Non era una radicale, ma nemmeno una conservatrice. Per quanto riguardava la questione dell’omosessualità, che aveva imperversato per molti anni nell’ambiente ecclesiastico e avvicinato sempre piú la Norvegia a una costituzione laica, Eva Karin Lysgaard era stata la principale artefice del fragile trattato di pace: ci sarebbe stato spazio per entrambi i punti di vista. Personalmente lei non avrebbe avuto nulla in contrario alla consacrazione di un’unione omosessuale, ma al tempo stesso aveva lottato duramente affinché i suoi oppositori potessero godere appieno del diritto di rifiutarla. Il vescovo Eva Karin Lysgaard si era dimostrato aperto e di ampie vedute: un tipico rappresentante, insomma, degli appartenenti a una Chiesa di Stato molto diffusa e popolare. Anche se lei in realtà non lo era affatto. Nutriva, anzi, forti dubbi di principio sull’insufficiente autogoverno della Chiesa e non si faceva sfuggire occasione per difendere il suo punto di vista.
Sempre amichevole. Sempre tranquilla e con quel sorrisetto scaltro sulle labbra in grado di smorzare i toni di qualche espressione tagliente che le capitava di lasciarsi sfuggire le rare volte in cui si faceva coinvolgere troppo.
Di solito capitava a proposito dell’aborto.
Eva Karin Lysgaard aveva posizioni estremiste riguardo a un unico argomento: era contraria all’aborto. Sempre e assolutamente e in qualunque circostanza. Nemmeno dopo una violenza sessuale, nemmeno se la madre rischiava la vita era disposta ad accettare che si potesse intervenire per recidere un’esistenza: per il vescovo Eva Karin Lysgaard quanto creato da Dio era inviolabile, le sue strade erano imperscrutabili e un uovo fecondato aveva diritto alla vita se era cosí che il Signore aveva voluto.
Strano ma vero, Eva Karin Lysgaard veniva rispettata per questa sua convinzione in un Paese in cui le discussioni sull’aborto si erano comunque concluse già nel 1978. I pochi che ancora portavano avanti la lotta contro la legge che contemplava la possibilità di abortire venivano solitamente considerati come dei conservatori ridicoli e anche piuttosto estremisti, per lo meno agli occhi dell’opinione pubblica. Perfino le attiviste donne moderavano i toni durante gli incontri con Eva Karin Lysgaard. Avendo una motivazione cosí squisitamente di principio, lei prendeva le distanze da chi collegava la causa dell’aborto all’emancipazione femminile.
L’aborto era per lei una questione di sacralità della vita, non di sesso.
− Mi domando che cosa abbia provato, nel bosco, − disse Johanne all’improvviso.
− Nel bosco? Credevo l’avessero uccisa per strada.
− Non mi riferivo all’omicidio, ma a quella volta che… Le hanno dedicato un intero servizio sul «Magasinet» di sabato scorso, non lo hai letto?
Line scosse la testa e si versò altro vino.
− Siamo andati su alla baita nel fine settimana. Ho sciato davvero tantissimo, ma non ho letto neanche un giornale.
«Non lo fai mai, indipendentemente da dove sei», pensò Johanne, e sorrise mentre le diceva: − La Lysgaard raccontava di aver incontrato Dio in un bosco a sedici anni. Raccontava che era successo qualcosa di molto speciale, ma senza entrare nel dettaglio.
− Non è Gesú che incontrano?
− Eh?
− Credevo, − disse Line, − che si usasse l’espressione «incontrare Gesú» quando qualcuno si converte.
− Dio o Gesú, − mormorò Johanne. – Non saprei…
Si alzò di scatto e andò in camera da letto; quando tornò aveva il «Magasinet» in mano, e cominciò a sfogliarlo mentre si sedeva.
− Trovato, − disse, e prese un bel respiro. – «Ero in una situazione molto difficile. A noi esseri umani capita spesso durante l’adolescenza. Le cose ci appaiono molto piú grandi di quanto non siano in realtà. È capitato anche a me. È stato allora che ho incontrato Gesú».
− Visto? – esclamò Line. – Avevo ragione io!
− Sst! «Che cosa è successo?» È la giornalista a fare questa domanda.
Johanne lanciò una rapida occhiata a Line al di sopra degli occhiali e proseguí la lettura: − «È una questione fra me e Dio, – ha riso il vescovo mostrando delle fossette in cui ci si sarebbe potuti nascondere. – Tutti noi abbiamo delle stanze segrete. È cosí che stanno le cose. È cosí che staranno sempre».
Ripiegò lentamente il giornale.
− E adesso è ora di guardare il film, − disse Line.
− Tutti noi abbiamo delle stanze segrete, − ribadí Johanne fissando il ritratto di Eva Karin Lysgaard in copertina.
− Io no, − commentò Line con leggerezza. – Ci guardiamo Notte brava a Las Vegas prima, oppure passiamo direttamente a Il diavolo veste Prada? A dire il vero io non l’ho ancora visto e Meryl Streep la guardo sempre con piacere.
− Anche tu hai un paio di stanze segrete, Line.
Johanne si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi prima di proseguire: − È solo che hai perso le chiavi.
− Può darsi, − rispose Line senza perdere il sorriso. – Ma quello che non sappiamo male non ci fa!
− In questo ti sbagli di grosso, − ribatté Johanne indicando con gesto pigro Il diavolo veste Prada. – È proprio quello che non sappiamo a farci male.

Il mercato delle vanità

La cosa peggiore in assoluto era stata che non lo sapeva, pensò Niclas Winter. Aveva vissuto per cosí tanto tempo sull’orlo del collasso economico che quando aveva saputo che l’acquirente non era piú interessato aveva ricominciato a bere un po’ troppo e un po’ troppo spesso. Per non parlare poi di tutto il resto che buttava giú per calmarsi i nervi. E dire che aveva smesso da un pezzo di prendere quella robaccia. L’ottundimento dei sensi lo rendeva indolente. Piatto. Improduttivo.
Non era cosí che voleva sentirsi.
Quando la crisi finanziaria aveva cominciato a imperversare in ogni settore, nell’autunno del 2008, in Norvegia non aveva sortito gli stessi effetti che in molti altri Paesi. Con diverse migliaia di miliardi di corone in banca e una «cassetta degli attrezzi» molto ben fornita, politicamente parlando, la coalizione rosso-verde era riuscita a mettere in atto delle contromisure talmente solide, costose ed efficaci che nessuno se lo sarebbe mai neanche potuto immaginare qualche mese prima. La nazione norvegese aveva pompato oro nero dal Mare del Nord per cosí tanto tempo che, nonostante il terremoto economico degli Stati Uniti, almeno nell’immediato era risultata invulnerabile. È vero che il mercato immobiliare norvegese, gonfio da scoppiare, aveva subito un tracollo all’inizio dell’autunno, ma sarebbe accaduto comunque nel breve periodo. A ogni modo, segni di ripresa ce n’erano già. Il numero dei fallimenti si era moltiplicato negli ultimi mesi e, a detta di molti, quel che era accaduto andava considerato come un salutare repulisti di imprese che comunque non avrebbero saputo sopravvivere. Nell’edilizia la disoccupazione era aumentata, ma la questione era stata affrontata con grande serietà. Non andava dimenticato che quel settore si reggeva soprattutto su una forza lavoro «di importazione». Polacchi, baltici e svedesi avevano la simpatica prerogativa di tornarsene volentieri in patria quando di lavoro non ce n’era piú, per lo meno chi non aveva afferrato bene che avrebbe potuto ricevere dei bei soldini grazie all’assistenza sociale norvegese. Inoltre c’era un numero piuttosto consistente di economisti pronti a sostenere, per lo meno nella loro cerchia e senza farlo trapelare, che un tasso di disoccupazione intorno al quattro per cento avrebbe giovato alla flessibilità della manodopera nel suo complesso.
Tutto sommato l’azienda Norvegia andava avanti, se non come prima comunque senza grandi e catastrofiche conseguenze per il Paese e i suoi abitanti. Le persone compravano ancora da mangiare, avevano ancora bisogno di vestiti per sé e per i propri figli, si concedevano come sempre una buona bottiglia di vino nel fine settimana e continuavano ad andare al cinema esattamente come prima.
Erano i generi di lusso a non avere piú abbondanza di acquirenti.
E per qualche motivo l’arte veniva considerata un genere di lusso.
Niclas Winter tolse la carta argentata alla bottiglia di champagne che aveva comprato il giorno in cui sua madre era morta. Si sforzò di ricordare se gli fosse mai capitato di aprirne una, ma quando si mise ad armeggiare con la gabbia metallica ogni dubbio svaní. Sí, aveva bevuto una considerevole quantità di quella nobile bevanda francese, soprattutto negli ultimi anni, ma sempre offerta da qualcun altro.
Lo champagne sgorgò a getto e lui rise fra sé e sé mentre versava il vino spumeggiante e frizzante in un bicchiere di plastica posato sul bordo dell’ingombro tavolo da lavoro. Appoggiò la bottiglia a terra, per sicurezza, e si portò il bicchiere alle labbra.
I trecento metri quadrati dell’atelier, in origine un magazzino, erano inondati di luce naturale. Agli estranei il caos doveva sembrare totale in quell’enorme stanzone con i lucernai sul soffitto e grandi finestre ad arco lungo la parete di sudest, ma Niclas Winter aveva tutto sotto controllo. Saldatrice e saldatoio, il computer e dei vecchi water, i cavi provenienti dal Mare del Nord e una mezza carcassa di automobile. L’atelier sarebbe stato un paradiso per qualunque undicenne curioso, che comunque non sarebbe mai riuscito a intrufolarcisi. Niclas Winter aveva tre fobie: i grandi uccelli, i lombrichi e i bambini. A malapena era riuscito a sopravvivere alla propria infanzia e detestava doversene ricordare ogni volta che gli capitava di vedere dei ragazzini giocare e urlare e divertirsi. Il fatto che l’atelier si trovasse a soli duecento metri da una scuola elementare costituiva una triste realtà con cui a stento aveva imparato a convivere. Per il resto il locale era davvero perfetto, l’affitto era basso e i bambini per lo piú si tenevano a debita distanza da quando lui aveva appeso sulla porta il cartello «Attenzione – cane libero» e la figura di un dobermann.
Il locale aveva all’incirca la forma di un rettangolo, sedici metri abbondanti per diciotto. Il caos era concentrato tutto lungo le pareti: una cornice di cianfrusaglie e beni di prima necessità circondava un ampio spazio centrale. Quello spazio era sempre pulito e vuoto, fatta eccezione per l’installazione a cui Niclas Winter stava lavorando al momento. Contro uno dei muri corti erano schierate quattro installazioni già finite, ma che lui non aveva ancora mostrato a nessuno.
Sorseggiò lo champagne, era leggermente troppo dolce e non abbastanza freddo.
Quella era la cosa migliore che avesse mai fatto.
L’opera era intitolata I was thinking of something blue and maybe grey, darling ed era stata acquistata da StatoilHydro.
Al centro dell’installazione si ergeva un monolito alto sei metri di manichini aggrovigliati gli uni agli altri, un evidente riferimento al monolito del parco di Vigeland. A causa della rigidità che caratterizzava i manichini, fatta eccezione per ginocchia, gomiti, anche e spalle, la figura che formavano risultava per cosí dire irta di aculei. Teste su colli quasi spezzati, dita rigide e piedi con lo smalto sulle unghie puntavano morti in ogni direzione. Ad avvolgerli c’era un luccicante filo spinato in argento. Argento vero, naturalmente: solo il filo spinato gli era costato una piccola fortuna. Avvicinandosi ci si accorgeva che quei nudi manichini senza vita avevano ai polsi orologi preziosi e intorno al collo, quasi tutti, delle collane. Quando lui li aveva presi, i manichini erano letteralmente asessuati: solo le spalle larghe e la mancanza di seni distinguevano gli uomini dalle donne, oltre a una indefinita prominenza sull’inguine. Niclas Winter era stato costretto a rimediare: aveva acquistato talmente tanti peni artificiali su un sito porno da ottenere un significativo sconto sulla quantità e li aveva poi montati sui manichini castrati. I peni finti venivano pubblicizzati come «naturali», una palese falsità. Erano giganteschi. Decise di laccarli con degli spray di colori fluo per renderli ancora piú evidenti.
− Perfetto, − mormorò dopo fra sé e sé, e svuotò il bicchiere in un sorso.
Fece alcuni passi indietro e inclinò la testa da una parte.
La sua ultima mostra era stata un successo fenomenale. Tre installazioni da esterno erano rimaste esposte su Rådhuskaia, il molo nella zona centrale di Oslo, per quattro settimane. La gente era entusiasta. I critici anche. Aveva venduto tutto. Per la prima volta nella sua vita era stato a un passo dal liberarsi dei debiti. E ancor meglio: StatoilHydro, che già aveva acquistato Vanity Fair, reconstruction, aveva ordinato I was thinking of something blue and maybe grey, darling sulla base di uno schizzo preparatorio. Il prezzo stabilito era di due milioni di corone. Mezzo milione gli era stato versato come anticipo, ma quei soldi, e molti altri ancora, erano già stati spesi per il materiale.
Poi quei maledetti avevano cambiato idea.
Niclas Winter di contratti non ne capiva molto e quando, furente, si era presentato dall’avvocato mostrandogli la lettera che era arrivata in ottobre, aveva capito che era giunto il momento di procurarsi un agente. StatoilHydro infatti era nel suo pieno diritto: il contratto aveva una clausola di disdetta. Peccato che lui quel documento lo avesse letto solo di sfuggita prima di firmarlo, stordito di felicità com’era.
«Nell’attuale clima finanziario, – scrivevano nella lettera, per scusarsi, – il segnale veicolato avrebbe effetti controproducenti per dipendenti e proprietari». Farfugliavano di «una certa prudenza per quanto riguarda i consumi superflui».
Bla bla bla. Andate a farvi fottere!
Quella maledetta lettera era arrivata quattro giorni prima che sua madre morisse.
Mentre lui le sedeva accanto nelle sue ultime ore, piú per salvare le apparenze che per un dolore autentico, tutto si era ribaltato. Niclas Winter era uscito dalla stanza dell’Hospice Lovisenberg in cui sua madre era morta con un sorriso sulle labbra, una nuova speranza e un mistero da risolvere.
E ce l’aveva fatta.
C’era voluto del tempo, naturalmente. Sua madre era stata cosí nebulosa che Niclas aveva passato molte settimane a cercare lo studio giusto, si era stressato parecchio e aveva preso diverse cantonate strada facendo, ma adesso aveva risolto tutto. L’incontro era fissato per il primo giorno feriale dopo capodanno, e l’uomo che avrebbe visto lo avrebbe reso ricco sfondato.
Si versò altro champagne e bevve.
Quella lieve ebbrezza lo faceva sentire decisamente meglio. La sua ultima opera era terminata: se StatoilHydro non aveva saputo approfittare di un’occasione simile, ci avrebbe pensato qualche altro acquirente. Con i soldi che adesso sarebbero diventati suoi, Niclas avrebbe potuto accettare l’invito ad allestire una mostra a New York in autunno. E l’avrebbe fatta finita con quegli insensati lavoretti extra che gli risucchiavano forze e creatività. E avrebbe dato un taglio netto anche alla droga, finalmente. E all’alcol. Avrebbe lavorato giorno e notte, senza preoccupazioni.
Niclas Winter era quasi felice.
Un rumore, gli sembrò di sentire un rumore. Un clic quasi impercettibile.
Si girò a metà. Un gatto sul tetto, probabilmente. Alzò gli occhi.
Qualcuno lo afferrò. Niclas non capí neanche cosa stesse succedendo quando due mani gli si strinsero intorno al volto costringendolo ad aprire la bocca. Quando gli piantarono una siringa nella guancia sinistra, piú che spaventarsi si meravigliò. L’ago gli si conficcò e svuotò nella lingua, e il dolore che provò in quell’istante fu cosí intenso da strappargli un grido. L’uomo dietro di lui gli immobilizzò le mani. Un calore intenso cominciò a diffondersi fulmineo dalla bocca, Niclas faticava a respirare. Lo sconosciuto lo afferrò quando cadde. Lui sorrise e cercò di allontanare il velo che gli oscurava la vista battendo ripetutamente le palpebre. Non riusciva a respirare. I polmoni non ce la facevano piú.
Si accorse a malapena che qualcuno gli stava rimboccando la manica sinistra del maglione. Questa volta l’ago si conficcò nella vena blu all’interno del gomito.
Era il 27 dicembre 2008 e le undici e trenta del mattino erano passate da tre minuti. Quando Niclas Winter morí, all’età di trentadue anni, subito prima del suo debutto internazionale in campo artistico, sorrideva ancora di stupore.
Ragnhild Vik Stubø se la rideva proprio di cuore. Johanne le sorrise, raccolse i dadi e li lanciò di nuovo.
− Non sei tanto brava a Yahtzee, mamma.
− Sfortunata al gioco, fortunata in amore, sai. Mi consolo cosí.
I dadi si fermarono mostrando due 1, un 3, un 4 e un 5. Johanne esitò un istante, poi lasciò in tavola i due 1 e fece l’ultimo tiro che aveva a disposizione.
Squillò il telefono.
− Non imbrogliare mentre non ci sono, − ordinò alla figlia con simulata severità e si alzò.
Il cellulare era in cucina. Premette il tasto verde.
− Johanne, − disse concisa.
− Ciao, sono io.
Sentí una punta di irritazione: Isak non si presentava mai. Avrebbe dovuto essere un privilegio di Yngvar quello di dare per scontato che lei riconoscesse immediatamente la sua voce. In fondo erano passati piú di dieci anni da quando lei e Isak si erano separati. Lui era il padre della sua figlia maggiore, certo, ed era una fortuna per tutti che loro due riuscissero a collaborare. Allo stesso tempo, però, Isak non era piú un membro stretto della famiglia, anche se si comportava come tale.
− Ciao, − gli rispose con voce piatta. – Grazie ancora per aver riaccompagnato Ragnhild a casa. Kristiane come sta?
− Sí… È per questo che ti ho chiamata. Ecco, adesso tu non… Prometti di non…
Johanne sentí un brivido correrle giú per la schiena, proprio fra le scapole.
− Che cosa? – gli chiese sentendolo esitare.
− Ecco, allora… Sono al Sandvika Storsenter. Dovevo cambiare dei regali e cosí… io e Kristiane… Ora, il problema è che… Se ti arrabbi però è inutile.
Johanne cercò di deglutire.
− Che cosa è successo a Kristiane? – gli chiese, costringendosi a non alzare il tono di voce.
Sentiva Ragnhild in soggiorno che continuava a lanciare i dadi.
− È sparita. Cioè, non è che è sparita. È che… non la trovo piú. Volevo solo…
− Hai… Hai perso Kristiane? Al Sandvika Storsenter?
Ebbe davanti agli occhi quell’enorme centro commerciale, il piú grande dell’intera Scandinavia, su tre piani, con piú di cento negozi e talmente tante uscite che si sentí mancare e dovette appoggiarsi al bancone della cucina.
− Rilassati, Johanne. Ho avvisato la direzione, la stanno già cercando. Hai presente quanti bambini ci sono che si perdono qua dentro ogni giorno? Un sacco! Starà gironzolando in qualche negozio per i fatti suoi, sicuro. Ti telefono solo per sapere se c’è qualche negozio in particolare qui dentro che le piace…
− Hai perso mia figlia, cazzo!
Aveva gridato, senza pensare a Ragnhild. La bambina scoppiò a piangere e Johanne cercò di consolarla a distanza mentre proseguiva la conversazione.
− A dire il vero è nostra figlia, − ribatté Isak all’altro capo del telefono. – E non è…
− Ragnhild, non preoccuparti. Mamma si è solo spaventata un po’. Un attimo che arrivo…
Ma la bambina non si tranquillizzò, anzi.
− Non voglio che qualcuno mi perda, mamma! – gridò lanciando i dadi per terra.
− Prova nella boutique del pupazzo, − sibilò Johanne a Isak. – È quel negozio dove uno si costruisce il suo orsetto come vuole. È in fondo al corridoio che unisce la parte vecchia alla parte nuova del centro commerciale.
− Mamma! Mamma! Chi è che mi ha perso?
− Sst, tesoro! Mamma arriva subito. Nessuno ti ha perso, non preoccuparti. Arrivo!
Johanne ringhiò nel microfono del telefono: − Tieni acceso il cellulare. Fra venti minuti sono lí. Telefonami subito se ci sono novità.
Interruppe la conversazione, si infilò il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni, corse in soggiorno, prese in braccio la figlia minore e la consolò come poté mentre attraversava rapida l’appartamento, verso le scale che scendevano alla porta d’ingresso.
− Io non ti perdo di sicuro, tesoro. Non c’è niente di cui preoccuparsi. La mamma è qui con te!
− Perché hai detto che qualcuno mi ha pe-pe-perso?
Ragnhild singhiozzava, ma per lo meno si era tranquillizzata un po’.
− Hai capito male, tesoro. A volte capita, sai.
Quando arrivò alle scale rallentò e cominciò a scendere tranquillamente.
− Adesso ci facciamo un bel giro. Andiamo al Sandvika Storsenter.
− Davvero? – chiese Ragnhild sorridendo fra le lacrime.
− Proprio cosí.
− E che cosa mi compri?
− Niente, tesoro. Dobbiamo solo… dobbiamo solo passare a prendere Kristiane, sai.
− Kristiane torna domani, − protestò la bambina. – Questa sera io e te giochiamo al cinema con i popcorn, sul divano.
− Mettiti gli stivali. In fretta, per favore…
Il cuore le batteva come un tamburo. Boccheggiando, Johanne si infilò la giacca, poi si stampò un bel sorriso sulla faccia e disse alla figlia: − La tua giacca ce la portiamo dietro. Vieni.
− Io voglio il berretto! E i guanti! Fa freddo fuori, mamma!
− Ecco qui, − le rispose Johanne afferrando qualcosa da una mensola, − puoi vestirti in macchina.
Senza nemmeno chiudere a chiave la porta di casa prese la bambina per mano e scese di corsa la scala esterna, poi proseguí lungo il vialetto di ghiaia per raggiungere l’auto che, fortunatamente, aveva lasciato parcheggiata davanti al portone.
− Mi fai male, − protestò Ragnhild. – Mamma, mi stringi troppo la mano!
Johanne si sentiva mancare. Provava la stessa paura di quando aveva tenuto fra le braccia Kristiane per la prima volta. Molto bene, aveva detto l’ostetrica. Bella e sana, aveva detto Isak. Ma lei sapeva che non era cosí. Aveva chinato lo sguardo su quella figlioletta che aveva appena mezz’ora di vita: era troppo silenziosa, e c’era qualcosa in lei che per poco non aveva mandato in pezzi Johanne.
− Salta su, − disse un po’ troppo duramente a Ragnhild mentre apriva la portiera posteriore, – che ti allaccio la cintura di sicurezza.
Squillò il telefono. Non ricordava dove lo aveva cacciato e continuava a palparsi le tasche della giacca.
− Ti suona il sedere, − disse Ragnhild mentre si infilava in macchina.
− Pronto! – esclamò Johanne ansimando nel cellulare dopo averlo ripescato nella tasca dei pantaloni.
− L’ho trovata! – rise Isak, con quella sua voce lontana. – Era nel negozio degli orsetti, proprio come dicevi tu, e sta benissimo. Un signore si è preso cura di lei, erano lí che chiacchieravano tutti tranquilli quando sono arrivato io!
− Che signore?
− Che signore? Ma come? Ti telefono per dirti che Kristiane è qui con me, sana e salva, esattamente come immaginavo, e tu ti metti a questionare su…
− Lo sai, no, che i centri commerciali sono un eldorado per i pedofili?
Le sue parole rimasero sospese nell’aria gelida come nuvolette di vapore grigio.
− Mamma, non mi allacci la cintura di sicurezza?
− Un attimo, tesoro. Ma che razza…
− Eh, no. Sinceramente, Johanne, questo è davvero troppo!
Isak Aanonsen si arrabbiava molto di rado.
Perfino quando, un’eternità prima, Johanne una sera tardi si era alzata dal divano e gli aveva detto chiaro e tondo che non vedeva come il loro matrimonio si potesse salvare, aggiungendo anche che si era già procurata i moduli necessari per metterci una definitiva riga sopra, perfino allora Isak aveva cercato di essere positivo. Era rimasto seduto in salotto ancora un po’, mentre Johanne in lacrime se n’era andata a letto. Un’ora dopo aveva bussato alla porta della loro camera, già nell’ottica che non fossero piú cosí intimi. La cosa piú importante era Kristiane, le aveva detto. Kristiane sarebbe stata sempre la cosa piú importante per tutti e due e lui desiderava che, prima di provare a dormire, affrontassero le questioni pratiche riguardanti la figlia. Allo spuntar del giorno avevano raggiunto un accordo e da allora in poi Isak vi si era attenuto fedelmente. Johanne poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui negli anni seguenti lui aveva mostrato qualche minimo segno di irritazione.
In quell’esatto istante era furibondo.
− La tua è isteria pura! L’uomo che stava parlando con Kristiane era solo un tizio qualunque che evidentemente si era accorto di… di che tipo di bambina è. Era gentile e Kristiane gli ha sorriso e lo ha salutato con la mano quando ce ne siamo andati. Adesso lei è qui che…
Johanne sentiva il consueto «dam-di-rum-ram» di Kristiane in sottofondo. Si mise a piangere, silenziosamente, per non spaventare Ragnhild piú di quanto non avesse già fatto.
− Mi dispiace, − bisbigliò nel microfono. – Mi dispiace, Isak, scusami. Davvero. È solo che mi sono spaventata a morte…
− Ci siamo spaventati tutti e due, − le rispose lui dopo un attimo di esitazione. La sua voce era quella di sempre, il tono di nuovo amichevole. – L’importante è che sia andato tutto bene. Credo che sarebbe meglio per te se la riportassi a casa vostra già oggi. Che ne dici?
− Grazie. Grazie mille, Isak. Credo proprio che sarebbe molto bello averla qui con me.
− Ci starò insieme un’altra volta, io.
− Perché non resti anche tu? − scappò detto a Johanne.
− Lí da voi? Ma certo! Va bene!
In un lampo Johanne ebbe davanti i suoi occhi blu scuro, che in quel volto mai sbarbato si assottigliavano in due fessure quando lui sorrideva. Quello strano sorriso sbieco di cui un tempo lei era cosí innamorata.
− Una mezz’oretta e arriviamo, − aggiunse Isak. – Devo comprare qualcosa, già che siamo qui?
− No, grazie. Venite e basta. Vi aspetto.
La conversazione si interruppe.
Una violenta stanchezza si impossessò di Johanne. Posò le braccia sul tetto dell’auto. Il metallo era cosí freddo che rabbrividí. Forse avrebbe potuto raccontare a Isak dell’uomo in giardino il giorno di Natale, spiegargli che la sua paura non era campata per aria, che lei aveva dei validi motivi per essere ansiosa, che l’uomo sapeva come si chiamava Kristiane, nonostante le bambine non lo conoscessero, se lei…
No.
Lentamente si raddrizzò e si asciugò le lacrime con il dorso della mano.
− Vieni, − disse a Ragnhild, chinandosi sulla figlia con un sorriso. – Al centro commerciale non ci andiamo piú. Isak e Kristiane ci stanno raggiungendo qui.
− Ma noi dovevamo vedere un film e giocare al cinema, − protestò Ragnhild. – Tu e io! Da sole!
− Possiamo giocare al cinema con Isak e Kristiane. Ci divertiremo un sacco, vedrai. Vieni, su.
Controvoglia la bambina scese dal seggiolino e uscí dall’auto.
Mentre percorrevano a ritroso il vialetto di ghiaia, Ragnhild si fermò all’improvviso e con le mani sulle anche disse in tono severo: − Mamma! Prima avevamo una fretta terribile di andare al centro commerciale. Adesso dobbiamo tornare a casa. Prima dovevamo giocare al cinema, solo tu e io, e adesso invece ci sono anche Isak e Kristiane. Papà ha proprio ragione…
− Ha proprio ragione? Su cosa? – le chiese Johanne con un sorriso, accarezzandole la testa.
− Che ci sono delle volte che tu proprio non ti sai decidere. Ma sei la mamma piú brava del mondo lo stesso. La piú brava supermamma del mondo con la panna montata.
Silje Sørensen, ispettore capo della sezione Crimini violenti e a sfondo sessuale del distretto di polizia di Oslo, aveva bevuto due tazze di cioccolata con la panna montata e aveva la nausea.
Le fotografie che aveva davanti non contribuivano certo a migliorare le cose.
La sera di Natale quell’anno cadeva in un giorno feriale: l’ideale per chi desiderava farsi delle lunghe vacanze. L’antivigilia di Natale capitava di martedí e quindi erano stati in molti a prendersi il lunedí libero, per quanto in realtà sarebbe stato un giorno lavorativo, sentendosi cosí autorizzati a starsene a casa poi anche il 23. Il 24, il 25 e il 26 dicembre erano festivi per tutti, mentre il 27, un sabato, era lavorativo per il solo settore terziario: per i meno ligi al dovere, quindi, il Natale del 2008 si era trasformato in un’occasione per farsi due settimane ininterrotte di ferie, dal momento che non avrebbe avuto molto senso ricominciare a lavorare il lunedí 29: capodanno cadeva a metà della settimana seguente.
La Norvegia funzionava solo per un quarto, ma non Silje Sørensen.
La vista di quell’ingente mole di pratiche da sbrigare sotto Natale l’aveva messa di cattivo umore. Alla fine era stato piuttosto facile convincere la famiglia che la cosa migliore per tutti sarebbe stata che lei tornasse a lavorare per un giorno.
O forse era il pensiero di Hawre Ghani a distrarla di continuo, qualunque cosa stesse cercando di fare.
Sfogliò rapidamente le immagini del cadavere, tirò fuori la fotografia scattata quando il ragazzo era vivo e un documento che lei non aveva ancora visto, poi richiuse il fascicolo.
Il pomeriggio del 25 dicembre aveva telefonato all’ispettore di polizia Harald Bull, come da richiesta. L’interesse che quell’uomo aveva dimostrato per discutere di lavoro il giorno di Natale le era sembrato piuttosto scarso: con «il piú presto possibile» intendeva infatti il 5 gennaio. Nonostante il budget a disposizione per gli straordinari fosse stato sforato già da tempo a quel punto dell’anno, decisero comunque di ricorrere all’agente Knut Bork, incaricandolo di indagare sul rifugiato curdo in cerca di asilo politico. Bork era giovane, single e ambizioso, e Silje Sørensen era rimasta molto colpita dal rapporto che aveva finito di scrivere e lasciato sulla sua scrivania quella mattina stessa.
Diede una scorsa alle pagine.
Hawre Ghani era arrivato in Norvegia un anno e mezzo prima, probabilmente a quindici anni. Senza genitori. Siccome non era in possesso di alcun documento utile alla sua identificazione, la sua età era stata subito messa in dubbio dalle autorità norvegesi.
Nonostante le dispute sulla sua data di nascita, Hawre era stato mandato in un centro di accoglienza a Ringebu. Lí di ragazzi come lui ce n’erano molti, minorenni solitari che speravano nell’asilo politico. Era scappato dopo tre giorni e da allora era stato piú o meno costantemente in fuga, fatta eccezione per alcuni giorni passati in cella ogni volta che quel furbo ragazzo di strada non era stato furbo abbastanza.
Aveva cominciato a prostituirsi l’anno prima.
A quanto si apprendeva dai tanti verbali stesi su di lui, si vendeva a caro prezzo, spesso e a chiunque.
Almeno in una occasione Hawre Ghani aveva rapinato un cliente, circostanza questa che era venuta alla luce per puro caso.
Aveva rubato un paio di Nike Shox nere nello Sportshuset, un negozio dello Storo Storsenter, un centro commerciale di Oslo. Uno dei vigilantes aveva bloccato il ragazzo e lo aveva costretto a rimanere sdraiato per terra fino all’arrivo della polizia tre quarti d’ora dopo. Durante la perquisizione seguita all’arresto, tra gli effetti personali di Hawre Ghani era saltato fuori un portafoglio beige di marca Montblanc contenente carta di credito, documenti e ricevute intestati a un noto giornalista sportivo. L’uomo non era affatto interessato a denunciare l’accaduto, si leggeva nell’asciutto rapporto dell’agente Knut Bork, ma diversi colleghi che conoscevano l’ambiente della prostituzione avevano confermato che sia il ragazzo sia la vittima della rapina ne erano abituali frequentatori.
A un certo punto si era tentato di mettere in contatto Hawre Ghani con un cosiddetto mufer, un curdo nordiracheno in possesso di un Midlertidig opphold Uten rett til Familiegjenforening, il permesso di soggiorno provvisorio senza diritto al ricongiungimento familiare. L’uomo, che in Norvegia aveva vissuto di carità per piú di dieci anni e parlava bene il norvegese, lavorava part time come leader di un’associazione giovanile nel quartiere di Gamlebyen. Si occupava di giovani profughi problematici e, fino a quel momento, aveva ottenuto eccellenti risultati con loro, ma con Hawre le cose non erano andate cosí bene. Dopo tre settimane il ragazzo aveva coinvolto altri quattro del gruppo in una serie di furti negli scantinati dei quartieri bene di Oslo, in un tentativo di svuotare un bancomat con l’aiuto di un piede di porco e nell’impresa di rubare e distruggere una Audi TT di quattro anni.
Silje Sørensen fissò la fotografia di quel ragazzino immaturo. Aveva il naso molto pronunciato, mentre le labbra sembravano quelle di un bambino di dieci anni. La pelle era liscia.
Forse lei era un’ingenua.
Ma certo che era un’ingenua, nonostante tutti quegli anni in polizia durante i quali le illusioni erano scoppiate come bolle di sapone man mano che saliva di grado nella gerarchia.
Hawre, però, era giovane. Se avesse quindici piuttosto che diciassette anni era ovviamente impossibile dirlo, ma la fotografia era stata scattata al suo arrivo in Norvegia e lei avrebbe giurato che il giorno della maggiore età per lui fosse ancora ben lontano.
E, comunque, ora tutto questo non aveva piú grande importanza.
Posò lentamente la fotografia, proprio sul bordo nell’angolo della scrivania.
E lí sarebbe rimasta fino a che non avrebbe risolto il caso. Se davvero qualcuno aveva ucciso Hawre Ghani, come per altro gli indizi al momento sembravano indicare, lei avrebbe trovato il suo assassino.
Hawre Ghani era stato ammazzato e se nessuno si era occupato di lui quand’era in vita, qualcuno si sarebbe occupato di lui almeno da morto.
− Non darti tanto da fare per me, − gli disse Yngvar Stubø con un significativo gesto della mano. – Ho già bevuto tre caffè oggi e berne un altro non mi fa certo bene.
Lukas Lysgaard si strinse appena nelle spalle e si sedette in una delle due poltrone gialle. Quella del padre. Anche stavolta Yngvar si trattenne dall’accomodarsi al posto di Eva Karin e optò invece per andare a prendersi una delle sedie intorno al tavolo da pranzo.
− Come procedono le indagini? Avete fatto dei passi avanti? – chiese Lukas con un tono che non tradiva certo un interesse degno di nota.
− E il mal di testa come va? – chiese Yngvar.
Il giovane si strinse di nuovo nelle spalle, poi si passò una mano fra i capelli e chiuse gli occhi.
− Un po’ meglio adesso, grazie. Va e viene.
− È tipico dell’emicrania, dicono.
Una pendola batté lentamente due colpi. Yngvar resistette alla tentazione di controllare sul suo orologio: era sicuro che le due fossero già passate. Sentiva una leggera corrente sul collo, come se ci fosse una finestra socchiusa. Nell’aria c’era odore di bacon e di qualcos’altro che lui non riusciva a identificare.
− Purtroppo non ci sono grandi novità.
Si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sulle ginocchia.
− Abbiamo parecchio materiale che verrà sottoposto a indagini piú accurate. Ci sono buone probabilità di trovare tracce biologiche sulla scena del crimine. Dal momento che è stata la polizia stessa a trovare il corpo, e per di piú poco dopo l’omicidio, o almeno cosí pare, confidiamo nel fatto che le prove raccolte siano il piú possibile incontaminate.
− Ma non avete idea di chi sia stato?
Yngvar non poté fare a meno di inarcare le sopracciglia.
− No. Certo che no. Rimangono ancora…
− I giornalisti speculano in tutte le direzioni. Sostengono di avere delle fonti in polizia, e secondo queste fonti si starebbe dando la caccia a un pazzo. Una di quelle «bombe a orologeria»… − disse, sottolineando il concetto con un esplicito gesto della mano, − che gli psichiatri rimettono in libertà un po’ troppo presto. Rifugiati in cerca di asilo politico, per esempio. Somali. O altri del genere.
− Ovviamente è possibile che quella che stiamo cercando sia una persona malata. Tutto è possibile. A questo punto delle indagini, però, la cosa davvero importante è non fossilizzarsi procedendo solo in una direzione.
− Dal momento che la pattuglia è arrivata cosí in fretta, l’omicida non può certo essere andato molto lontano. Ho letto oggi sul giornale che si ipotizza siano passati dieci, quindici minuti da quando mia madre è morta a quando è stata trovata. La vigilia di Natale non ci saranno poi cosí tanti indiziati fra cui scegliere. Che se ne vanno a zonzo per le strade la sera tardi, voglio dire.
Evidentemente si pentí subito di aver pronunciato quelle parole e afferrò un bicchiere contenente del liquido giallo che Yngvar suppose fosse succo di arancia.
– No, − commentò lui. – A parte tua madre, per esempio.
– Senti, − ribatté Lukas e vuotò il bicchiere prima di proseguire. – Io capisco come può apparire la situazione, ovviamente. Darei qualunque cosa per sapere che ci facesse mia madre fuori a quell’ora la vigilia di Natale. Ma non lo so. Okay? Non lo so! Noi… cioè, io, mia moglie e i nostri tre figli trascorriamo il Natale una volta con i suoi e una volta con i miei. Quest’anno i miei suoceri erano nostri ospiti. Mia madre e mio padre erano a casa da soli. Io l’ho chiesto a mio padre, certo che gliel’ho chiesto, santo cielo…
Fece una smorfia.
− Io gliel’ho chiesto, ma lui si è rifiutato di rispondermi.
− Capisco, − gli disse Yngvar accondiscendente. – Capisco. È proprio per questo che vorrei farti alcune domande in proposito.
Lukas allargò le braccia, rassegnato.
− Prego! Chiedi pure.
− A tua madre piaceva fare passeggiate?
− Eh?
− Le piaceva camminare?
− E a chi non piace… Sí. Sí, le piaceva camminare.
− Anche la sera? Molti hanno l’abitudine di prendere una boccata d’aria prima di coricarsi. Anche tua madre ce l’aveva?
Per la prima volta da quando Yngvar Stubø aveva incontrato Lukas Lysgaard tre giorni prima, gli sembrò che stesse effettivamente riflettendo sulla risposta da dare.
− Sono passati molti anni da quando abitavo con i miei, − disse alla fine. – Io… Il primo figlio ci è nato quando avevamo vent’anni, mia moglie e io. Ci siamo sposati l’estate in cui abbiamo finito le superiori e…
Si interruppe e un sorriso gli illuminò il volto segnato dal pianto.
− Eravate molto giovani, − disse Yngvar. – Non credevo che ci si sposasse ancora cosí giovani.
− Mia madre e mio padre, mio padre soprattutto, avevano mosso forti obiezioni all’eventualità che andassimo a vivere insieme senza essere sposati. E dal momento che noi eravamo convinti del nostro… Ma tu mi hai chiesto se mia madre aveva l’abitudine di uscire la sera per fare quattro passi.
Yngvar annuí appena, e con la maggior discrezione possibile tirò fuori dal taschino il blocchetto per gli appunti.
− In effetti, sí. Per lo meno aveva quest’abitudine quando io abitavo con i miei. Al tempo in cui era ancora un semplice pastore andava spesso a trovare i membri della comunità dopo l’orario di lavoro. Era uno di quei pastori che fanno volentieri qualche visita a domicilio, mia madre. Capitava piuttosto spesso che uscisse la sera e non tornasse a casa prima che io mi fossi addormentato. Ma non è mai successo che andasse a trovare qualcuno… la vigilia di Natale.
Si strinse nelle spalle.
− A dire il vero era una gran bella cosa da parte sua andare da chi aveva bisogno di lei a quell’ora, perché… Aveva paura del buio.
− Aveva paura del buio, − ripeté Yngvar. – E comunque, le piaceva fare quattro passi la sera. Qui a Bergen, se non ho capito male. Dopo che vi siete ritrasferiti qui, giusto?
− No… cioè… Quando mia madre è stata nominata vescovo, io ero già adulto. Non sono sicuro che andasse ancora a trovare molte persone. Da vescovo, voglio dire.
Fece un profondo respiro e afferrò il bicchiere. Quando si accorse che era vuoto rimase seduto a rigirarselo fra le dita. Agitava il ginocchio sinistro, come se la gamba gli formicolasse.
− A dire il vero quando ero ragazzo non è che mi interessasse molto cosa facevano i miei la sera. Al contrario, erano loro a voler sapere che cosa facevo io.
Il sorriso era sincero, questa volta.
− Ero un ragazzo come tutti gli altri. Andavo oltre i limiti. Avevo la fidanzata. In effetti non ci ho mai pensato, ma forse mia madre ce l’aveva questa abitudine di uscire a camminare la sera. Anche a Stavanger. Ma quando siamo tutti qui, con mia moglie e i miei figli, lei non esce, ovviamente.
− Voi abitate a Os, è esatto?
− Sí. A una mezz’oretta da qui. A meno che non sia l’ora di punta, perché allora ci vuole davvero un’eternità. Veniamo a trovarli spesso. E anche loro vengono spesso da noi. Visto che mia madre non esce mai a passeggiare la sera quando è da noi o quando noi siamo qui…
− Scusami se ti interrompo, significa che vi fermate qui a dormire? Quando venite dai tuoi?
− Ogni tanto. Di norma, no. I ragazzi si fermano spesso qua per la notte, loro sí. I miei sono dei nonni in gamba. Alla vigilia di Natale o in occasione di qualche festività pernottiamo sempre qui. Ci fa piacere bere un bicchierino…
− Non sono astemi, i tuoi genitori?
− No, per niente.
− Che cosa intendi con «per niente»?
− Eh? Che cosa intendo… Un bicchiere di vino rosso per accompagnare il pasto lo bevono volentieri. A mio padre piace bere un bicchierino di whisky quando si festeggia. Sono persone assolutamente normali, questo intendevo dire.
− È capitato che tua madre bevesse alcolici prima di queste passeggiate serali?
Lukas Lysgaard fece un sospiro eloquente.
− Senti… − disse stizzito. – Ti ho già spiegato che è qualcosa che mi sfugge! Ricordo, è vero, che a mia madre piaceva fare quattro passi la sera, ma allo stesso tempo so che aveva paura del buio. Aveva molta paura del buio. La prendevano tutti in giro per questa sua fobia, perché proprio lei, piú di chiunque altro, avrebbe dovuto sentirsi sicura visto che il Signore le era vicino. E il Signore ti è vicino in ogni momento…
Queste ultime parole furono accompagnate da una lieve smorfia, poi Lukas Lysgaard si appoggiò allo schienale della poltrona e posò il bicchiere.
− Posso dare un’occhiata all’appartamento? – chiese Yngvar.
− Eh… sí. No, voglio dire… Mio padre è a casa mia. A rigor di termini mi sembrerebbe piuttosto inappropriato che ti mettessi a ficcanasare nelle sue cose senza il suo permesso.
− Non ho nessuna intenzione di ficcanasare, − ribatté Yngvar con un sorriso mostrandogli il palmo delle mani. – Figuriamoci. Vorrei solo dare un’occhiata superficiale. Come ti ho già spiegato diverse volte, ritengo fondamentale riuscire a farmi l’impressione piú precisa possibile delle vittime su cui indago. È per questo che mi trovo qui. Qui a Bergen, intendo. Cerco di farmi un’idea completa di tua madre. Vedere la casa dove abitava può essermi utile. Non credo sia un problema, no?
Lukas si strinse di nuovo nelle spalle. Yngvar lo prese come un segno del fatto che fosse d’accordo con lui e si alzò. Mentre si infilava il blocchetto per gli appunti in tasca chiese a Lukas di fargli strada.
− Cosí questa volta mi evito figuracce, − gli disse con un sorriso.
La casa di Nubbebakken era vecchia ma ben tenuta. La scala che portava al piano di sopra era incredibilmente stretta e poco vistosa in confronto al resto dell’abitazione. Lukas lo precedette mettendolo in guardia da una sporgenza del soffitto.
− Questa è la loro camera da letto, – disse aprendo una porta.
Rimase fermo con la mano sulla maniglia, ostruendo cosí parzialmente l’ingresso alla stanza. Yngvar raccolse il messaggio implicito e si limitò a fare capolino dentro.
Un letto matrimoniale, rifatto.
Il copriletto patchwork, formato da pezze di stoffa dei piú svariati colori, conferiva luce e calore a quella stanza grande e piuttosto vuota. Sui comodini erano impilati dei libri e c’era un quotidiano piegato sul pavimento accanto al letto dal lato piú vicino alla porta. A Yngvar sembrò si trattasse del «Bergens Tidende». Un grande quadro era appeso sopra il letto, una rappresentazione astratta nei colori del blu e del lilla. Dietro la porta c’era un armadio spazioso che Yngvar riuscí a vedere riflesso nello specchio fra le due grandi finestre.
− Grazie, − disse a Lukas accompagnando la parola con un cenno del capo, poi si spostò.
Il resto del piano era occupato da un bagno ristrutturato di recente, da due camere da letto piuttosto impersonali, una delle quali era la stanza da ragazzo di Lukas, e da un grande studio dove i coniugi avevano ognuno la propria ampia scrivania. Yngvar smaniava dalla voglia di poter osservare piú da vicino le scartoffie, ma la disponibilità di Lukas sembrava essersi già quasi esaurita e cosí optò per indicare le scale. Nel raggiungerle passarono davanti a una stretta porta con una chiave in ferro battuto infilata nella serratura e lui suppose che da lí si prendesse la scala per andare in soffitta.
− Perché abitano qui? – chiese mentre scendevano al piano terra.
− Che cosa?
− Perché non abitano nella residenza vescovile? Per quanto ne so io, del vescovato di Bjørgvin fa parte anche la residenza vescovile di Landåslien.
− Questa è la casa dove mio padre ha passato l’infanzia: quando sono tornati a Bergen i miei hanno scelto di viverci. E quando mia madre è stata nominata vescovo, mio padre ha insistito per trasferirsi di nuovo qui, credo fosse una condizione che aveva imposto lui in cambio del suo consenso. Al fatto che lei diventasse vescovo, voglio dire.
Mentre percorrevano il lungo corridoio che portava al soggiorno Yngvar chiese: − Ma non è statuito per legge? Per quanto ne so io si ha il dovere di…
− Senti, − lo interruppe Lukas, premendosi gli occhi con pollice e indice. – Ricordo che c’è stato grande scompiglio, ma hanno ottenuto quello che volevano, di piú non saprei dirti. Sono stanchissimo. Non potresti domandarlo a qualcun altro? Per favore…
− Ma certo, − si affrettò a rispondere Yngvar. – Ti lascio in pace. L’unica cosa è che avrei bisogno di dare un’occhiata a quella stanza.
Indicò la piccola camera da letto in cui era entrato per sbaglio un paio di giorni prima.
− Fa’ pure, − mormorò Lukas indicando la porta con il braccio teso.
Fu solamente dopo aver varcato la soglia che Stubø si rese conto che Lukas non si era messo di mezzo. Al contrario, il figlio del vescovo era tornato in soggiorno lasciandolo da solo. Si diede un rapido sguardo intorno.
Le tende erano aperte e non si sentiva piú quell’odore dolciastro di sonno. La stanza era piú fresca di come se la ricordava e i vestiti che aveva visto posati sulla sedia adesso non c’erano piú.
Per il resto sembrava tutto come prima.
Si chinò a leggere i titoli sui dorsi dei libri impilati sul comodino: una voluminosa biografia sull’eroe di guerra Jens Christian Hauge, un giallo di Unni Lindell e un vecchio e consunto esemplare de I frutti della terra di Knut Hamsun rilegato in pelle.
Yngvar Stubø restò immobile, zitto, con i sensi all’erta. In quella camera Eva Karin Lysgaard aveva vissuto le sue notti, ne era certo. Aprí con circospezione l’anta dell’armadio. Gonne e vestiti appesi accanto a camicie e camicette stirate occupavano una metà, mentre l’altra era suddivisa da ripiani. Un ripiano per la biancheria intima, un ripiano per le calze. Un ripiano per i pantaloni e un ripiano per cinture e borsette eleganti. Il ripiano piú in basso era per tutto quello che non aveva un ripiano specifico.
Non si conservano gli abiti di tutti i giorni nella stanza degli ospiti, pensò lui richiudendo silenziosamente l’armadio.
Fu sopraffatto da un sentimento di avversione, come spesso gli accadeva quando si immergeva nella vita di altre persone sulla scia di una tragedia.
− Hai finito? − sentí che gridava Lukas.
− Sí, certo, − gli rispose lui, lasciando correre per un’ultima volta lo sguardo sulla stanza prima di uscire in corridoio. – Grazie.
Arrivato alla porta d’ingresso Yngvar si voltò e tese la mano per salutare.
− Mi domando quando finirà tutto questo, − disse Lukas, senza stringergli la mano. – Tutto questo dolore.
− Non finirà mai, − disse Yngvar lasciando cadere la mano. – Mai.
Lukas Lysgaard si lasciò scappare un singhiozzo.
− Ho perso la mia prima moglie e una figlia già adulta, − aggiunse Yngvar a bassa voce, − piú di dieci anni fa. Uno stupido, banale incidente domestico. Non credevo fosse possibile provare cosí tanto dolore.
Il volto di Lukas cambiò: l’espressione di rifiuto e di difesa che aveva sempre avuto svaní, e lui si portò le mani dietro la nuca in un gesto disperato.
− Scusami, − bisbigliò. – Scusami. Perdere una figlia… mi dispiace. Io me ne sto qui a…
− Non c’è niente di cui doversi dispiacere, − gli disse Yngvar. – Il dolore non è qualcosa di relativo. Il tuo dolore è grande abbastanza di per sé. Fra un po’ imparerai a conviverci. Andrà meglio, Lukas, vedrai. La vita ha la sacrosanta tendenza a curare sé stessa.
− Era solo mia madre. Ma tu hai perso…
− Mi capita ancora di svegliarmi in piena notte credendo che Elisabeth e Trine siano vive. Mi ci vuole un secondo, forse due, per capire dove mi trovo nel tempo. E il dolore che provo in quel momento è esattamente lo stesso del giorno in cui sono morte. Ma dura molto meno, questo sí. E magari mezz’ora dopo sono lí che dormo tranquillo e beato.
Accennò un sorriso.
− Ora però devo proprio andare.
Mentre usciva sulla breve scala in pietra lo investí un freddo pungente. La pioggia cadeva di traverso e lui si alzò il bavero mentre si dirigeva verso il cancello del giardino senza voltarsi indietro.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che una delle fotografie sullo scaffale di quella che veniva fatta passare per la stanza per gli ospiti era scomparsa. Il giorno di Natale di fotografie ce n’erano quattro, adesso soltanto tre. Una di Lukas bambino sulle ginocchia del padre, una di tutta la famiglia in barca e il ritratto di un Erik Lysgaard molto serio e decisamente giovane con il tocco da laureato in testa. La nappa gli ricadeva su una spalla e il cappello era correttamente di traverso.
Quando Yngvar aprí il cancello, senza poter trattenere una smorfia per lo stridio dei cardini, si domandò se fosse stato un errore di valutazione non chiedere a Lukas che fine avesse fatto l’ultima fotografia.
D’altra parte, però, con molta probabilità non avrebbe ottenuto risposta.
Per lo meno non una risposta credibile.
Che esistesse davvero qualcuno capace di credere a storie del genere era inconcepibile.
Johanne sedeva con il portatile sulle ginocchia e navigava senza uno scopo preciso. Aveva visitato i siti del «New York Times» e del «Washington Post», ma faceva fatica a concentrarsi. Almeno, le pagine del «National Enquirer» servivano a svagarla.
Ragnhild dormiva già della grossa e Isak stava mettendo a letto Kristiane. Johanne si sorprese a desiderare che si fermasse ancora un po’, desiderio che per altro non le faceva molto piacere. Per allontanare da sé il pensiero decise di controllare le e-mail. Aveva tre nuovi messaggi nella casella della posta in arrivo: un paio di irritanti offerte promozionali, una delle quali reclamizzava un prodotto per dimagrire a base di astice e artiglio d’orso, e poi una e-mail con un mittente che sul momento dovette frugare nella memoria per riconoscere.
Karen Ann Winslow.
Johanne se la ricordava, Karen Winslow. Avevano studiato insieme a Boston due matrimoni e un’eternità prima. Erano i tempi in cui lei credeva ancora che sarebbe diventata psicologa e non immaginava certo che di lí a poco avrebbe temporaneamente rinunciato a una prestigiosa formazione per seguire un corso all’Fbi che le sarebbe quasi costato la vita.
Aprí il messaggio, che arrivava da un indirizzo privato e non rivelava niente sul lavoro di Karen.
Cara Johanne!
Ti ricordi di me? Ne è passato di tempo dall’ultima volta! Ci siamo proprio divertite insieme a scuola, e ti ho pensata di tanto in tanto. Come stai? Sei sposata? Hai figli? Non vedo l’ora di saperlo.
Ho messo il tuo nome su Google e ho trovato questo indirizzo. Spero sia giusto.
Sai, fra poco verrò in Norvegia per un matrimonio. Il 10 febbraio una mia cara amica sposa un cardiologo norvegese. Le nozze si terranno a Lillesand, una cittadina non lontana da Oslo. Tu vivi ancora lí?
Johanne constatò che il concetto americano di «non lontana da» avrebbe subito una brutale battuta d’arresto sulla E-18, l’autostrada estremamente pericolosa e ricca di curve che portava nel Sørlandet.
Ci andrò senza mio marito e i nostri tre figli (due femmine e un maschio, dei bambini fantastici!) a causa di altri impegni familiari. Arriverò a Oslo tre giorni prima delle nozze e sarebbe davvero emozionante incontrarti! Che ne dici? Abbiamo un mare di cose da raccontarci. Fatti sentire il prima possibile, per favore. In ogni caso alloggerò al Grand Hotel, in centro a Oslo.
Con tanto affetto,
Karen
Almeno per quanto riguardava la posizione dell’hotel aveva ragione, pensò Johanne chiudendo l’e-mail, poi andò su Google e inserí il nome completo di Karen come chiave di ricerca.
Duecentosei risultati trovati.
A quanto pareva dovevano esistere almeno due americane con lo stesso nome e cognome, visto che molte delle voci riguardavano una scrittrice di libri per l’infanzia di settantatre anni. Se ricordava bene, Karen avrebbe dovuto iniziare Giurisprudenza l’autunno in cui lei era andata a Quantico. E per come l’aveva conosciuta, probabilmente aveva avuto una carriera universitaria a dir poco brillante. Molte voci riguardavano un avvocato che lavorava per uno studio legale in Alabama, l’American Poverty Law Center o Aplc. Quella Karen Ann Winslow, che dopo una rapida scrematura di parecchi articoli sembrava coetanea di Johanne, fra le altre cose aveva condotto una azione contro lo Stato del Mississippi per chiudere i grandi riformatori, dopo aver dimostrato che i piú elementari diritti dei bambini venivano gravemente calpestati.
Nel momento stesso in cui vide la pagina web dell’Aplc, Johanne si ricordò di averne già visitato il sito. Lo studio era fra i piú importanti degli Stati Uniti per quanto riguardava la denuncia dei crimini d’odio. Oltre a offrire assistenza gratuita alle vittime povere – quasi tutte afroamericane – portava avanti un’ampia campagna a nome di nullatenenti e perseguitati e un’imponente attività informativa che mirava a mappare i cosiddetti gruppi dell’odio distribuiti sull’intero continente americano.
Johanne cliccò qua e là su quella home page cosí ricca di contenuti. Fotografie dei dipendenti non ce n’erano: per ragioni di sicurezza, suppose lei. Dopo aver letto per una decina di minuti si convinse che l’avvocato Karen Ann Winslow dello studio legale Aplc corrispondeva alla sua vecchia compagna di studi.
− Magnifico! – mormorò.
− Sono d’accordo, − disse Isak lasciandosi cadere sulla poltrona esattamente di fronte al divano su cui era seduta lei. – Le bambine dormono tutte e due, e col tuo permesso io darei un’occhiata al frigo per vedere se posso cavarne qualcosa.
Johanne non alzò nemmeno lo sguardo dal computer. Era tornata su Outlook.
− Fai pure, − borbottò in risposta. – Anzi, non è che quei würstel mi abbiano proprio saziata.
Carissima Karen!
Grazie mille per la tua e-mail. Certo che ho voglia di vederti! Io vivo a Oslo e sei la benvenuta a casa nostra, se decidi di fermarti per qualche giorno. Devo avvisarti, però, ho avuto la fortuna di mettere al mondo due figlie che fanno per dieci.
Le dita scorrevano rapide sulla tastiera. Johanne non pensava, era come se esistesse una linea diretta fra le sue mani e tutto quello che aveva vissuto negli ultimi diciassette anni. Come se niente dovesse essere rielaborato, soppesato: era come se non stesse ragionando, ma semplicemente raccontando. Scrisse delle bambine, di Yngvar, del suo lavoro. Karen Winslow era molto lontana, dall’altra parte dell’oceano: la sua vecchia compagna di scuola non conosceva nessuno lí in Norvegia e lei non doveva tener conto di niente. Johanne le scrisse della sua vita da ricercatrice, dei suoi progetti, dei suoi timori di non essere una madre abbastanza brava per una figlia che nessuno capiva tranne lei. Neanche lei, a dire il vero. Scriveva senza reticenze a una ragazza di cui era stata amica un tempo, quand’era giovane e libera.
Era quasi una confessione.
− Et voilà, − disse Isak mettendole un grosso piatto davanti. – Spaghetti alla carbonara con un piccolo tocco bizzarro! Non avevi pancetta e cosí ci ho messo del prosciutto. Non avevi uova e cosí ho fatto della salsa con un po’ di formaggio alle erbe che ho trovato. Non avevi nemmeno gli spaghetti e cosí ho usato le tagliatelle. E per finire ho cosparso il tutto con una quantità pazzesca di aglio tritato, rosolato appena. Non proprio degli spaghetti alla carbonara…
Johanne annusò il profumo che c’era nell’aria.
− Un profumino celestiale, − disse con aria assente. – C’è del vino nella credenza angolare, se hai voglia di aprire una bottiglia. Io preferisco dell’acqua. Mi prenderesti una Farris?
Fissava lo schermo mordicchiandosi discretamente il labbro inferiore.
Con un gesto risoluto evidenziò tutto il testo, eccetto le prime tre righe, premette il tasto Canc e concluse cosí il breve messaggio rimasto:
Fammi sapere al piú presto i dettagli del tuo soggiorno. Non vedo l’ora di incontrarti, Karen. Davvero!
Con i migliori auguri,
Johanne
− A chi stai scrivendo con tanto impegno? – le chiese Isak mettendo i piedi sul tavolino e appoggiandosi il piatto sul petto prima di iniziare a strafogarsi.
Il suo «galateo» a tavola l’aveva sempre irritata.
L’ex marito non sapeva proprio cosa fossero le buone maniere.
Isak afferrò il bicchiere di vino rosso pieno fino all’orlo con l’intera mano e bevve rumorosamente, con la bocca ancora piena di cibo.
− Mangi come un porco, Isak.
− A chi stai scrivendo?
− A un’amica, − rispose lei laconica. – Un’amica di vecchia data.
Poi chiuse il portatile, lo posò accanto a sé e si chinò sul piatto. Il sapore era buono come il profumo lasciava intendere. E cosí restarono lí seduti, senza scambiare una parola, fino a quando non ebbero finito di mangiare.
Il bicchiere di pjolter era vuoto.
Il pjolter era la sua debolezza.
Nella generazione di Marcus Koll jr erano davvero in pochi a conoscerne il significato e quelli che frequentava arricciavano il naso per il disgusto quando lo vedevano miscelare whisky molto pregiato e soda in un bicchiere alto. Il pjolter era il long drink che suo nonno beveva abitualmente: un pjolter ogni sabato alle otto di sera, dopo essersi fatto il bagno settimanale e lo shampoo. Marcus jr lo aveva bevuto per la prima volta il giorno in cui aveva ricevuto il sacramento della confermazione. Aveva un sapore amaro, ma l’aveva buttato giú. I veri uomini bevevano pjolter, almeno questo era quello che il nonno sosteneva, e cosí quell’arcaico drink era diventato il contrassegno di Marcus jr.
Valutò se fosse il caso di prepararsene un altro, ma allontanò l’idea.
Rolf era uscito. Un cavallo da dressage aveva male alla parte anteriore del ginocchio sinistro e, considerando che aveva pagato quell’animale circa mezzo milione di corone, il proprietario non era esattamente disposto ad aspettare il 5 gennaio, quando la clinica veterinaria avrebbe riaperto. Gli orari in cui Rolf si rendeva disponibile erano invece indicativi nel migliore dei casi e ingannevoli nel peggiore. Capitava almeno un paio di volte a settimana che lo chiamassero di sera e lui fosse costretto a uscire.
Lillemarcus dormiva.
I cani si erano messi tranquilli per la notte e la casa era immersa nel silenzio.
Marcus Koll jr cercò di accendere il televisore. Una vaga inquietudine gli impediva di decidere se andare a letto o guardarsi un altro telefilm. Cold Case, per esempio, o simili. Una cosa qualunque, ecco, che fosse in grado di mettere a tacere i suoi pensieri.
Ma il televisore non dava segni di vita. Marcus Koll jr sbatté il telecomando contro la coscia e riprovò. Niente. Forse le batterie erano scariche. Sbadigliò e decise di andare a dormire. Avrebbe controllato le e-mail, si sarebbe lavato i denti e si sarebbe infilato a letto.
Strascicando i piedi uscí dal soggiorno, attraversò l’ingresso ed entrò nello studio. Il computer era acceso. Nella casella della posta in arrivo non c’era niente di interessante. Apatico, andò sul sito del «Dagbladet». Anche lí, niente di interessante. Fece scorrere la pagina web sul video.
Artista controverso trovato morto.
Il titolo passò sotto ai suoi occhi e scomparve.
L’indice gli si bloccò sulla rotella del mouse. Risalí un poco.
Artista controverso trovato morto.
Il cuore cominciò a battergli all’impazzata. Si sentiva la testa vuota.
Non adesso, di nuovo. Non un altro attacco.
Non era panico quello che stava per travolgerlo.
Si sentiva forte. Lucido. Iniziò a leggere piano piano.
Quando ebbe finito, si disconnesse e spense il computer. Dal cassetto della scrivania tirò fuori un piccolo cacciavite. Si accovacciò sul pavimento, tolse quattro viti dal coperchietto del computer, lo aprí e ne tirò fuori delicatamente l’hard disk. Da un cassetto diverso estrasse un secondo hard disk. Non fu difficile sostituirlo all’altro. Rimise a posto il coperchietto, lo avvitò con prudenza e ripose il cacciavite nel cassetto. Per finire spinse il computer sotto la scrivania.
Poi se ne andò portandosi via l’hard disk che aveva appena tolto.
Era completamente sveglio.
La donna che aspettava davanti agli arrivi dei voli internazionali all’aeroporto Gardermoen di Oslo si sentiva sveglia come un grillo, e ne era stupita. Aveva fatto un lungo viaggio e oltretutto era da un paio di notti che non riposava bene. Nelle ultime decine di chilometri che la separavano dall’aeroporto aveva temuto di addormentarsi al volante. Adesso invece era come se l’inquietudine che la rendeva insonne fosse tornata.
Controllò l’orologio per l’ennesima volta.
In effetti l’aereo era in ritardo, come indicava il monitor nell’atrio. Il volo SK 1442 da Copenhagen sarebbe dovuto arrivare alle ventuno e cinquanta, ma era atterrato solo quaranta minuti dopo. Da quel momento, però, erano passati piú di tre quarti d’ora.
La donna passeggiava avanti e indietro all’imbocco del corridoio che portava agli uffici doganali. L’aeroporto era silenzioso, quasi deserto, a quell’ora tarda di un sabato sera sotto le feste natalizie. Le sedie del piccolo bar dove, quando era arrivata, si era presa un caffè e un immangiabile trancio di pizza tiepida, erano tutte vuote. Solo che lei non riusciva a sedersi per l’agitazione.
Di solito gli aeroporti le piacevano. Quando era piú giovane, al tempo in cui il principale aeroporto norvegese in realtà si trovava in Danimarca e il piccolo Fornebu di Oslo era il piú grande del Paese, a volte la domenica andava fin lí solo per starsene a guardare. Guardare gli aerei, la gente, i gruppi di piloti sicurissimi di sé e di donne sorridenti che allora si chiamavano semplicemente hostess ed erano bellissime. Era capace di rimanere seduta per ore, sorseggiando tè dal suo thermos e fantasticando su tutte quelle persone che andavano e venivano. Gli aeroporti le trasmettevano un’atmosfera particolare di curiosità, aspettativa e nostalgia.
Adesso era inquieta, al limite dell’irritazione.
Ne era passato di tempo da quando l’ultimo passeggero era sbucato dal corridoio che portava agli uffici doganali.
Si girò di nuovo verso il monitor e vide che non c’era piú la dicitura «Ritiro bagagli» accanto a «SK 1442». Sapeva bene che cosa significava, ma si rifiutava di accettarlo. Non ancora.
Marianne glielo avrebbe fatto sapere se avesse avuto qualche problema.
Avrebbe scritto un messaggio, telefonato. Glielo avrebbe comunicato.
Il viaggio da Sydney durava piú di trenta ore e includeva scali a Tōkyō e Copenhagen. Era possibile quindi che ci fosse stato qualche problema. Da qualche parte. A Tōkyō. A Sydney, magari. O, perché no, a Copenhagen.
Marianne glielo avrebbe comunicato.
Una punta di paura le si insinuò nella nuca. Tutt’a un tratto si decise e a passo rapido corse fino all’imbocco del corridoio per gli uffici doganali. Era meglio non infrangere il divieto di proseguire all’interno. Le misure di sicurezza messe in atto nel campo dei trasporti aerei dopo l’11 settembre 2001, per quanto ne sapesse lei, magari contemplavano che i doganieri avessero l’ordine di sparare per uccidere.
− Scusate! – disse a voce piuttosto alta, facendo capolino dall’altra parte della parete. – Scusate! C’è qualcuno?
Nessuna risposta.
− Scusate! – ripeté a voce piú alta.
Un uomo con la divisa da doganiere sbucò da dietro la parete opposta, a cinque metri di distanza da lei.
− Sí? Qui è divieto d’accesso!
− Certo, certo. È solo che… sto aspettando una persona del volo da Copenhagen. Quello che è atterrato un’ora fa. SK 1442. Ma non è ancora arrivata. Potresti… Potresti per favore essere cosí gentile da controllare se sono rimasti dei passeggeri là dentro?
Per un istante ebbe l’impressione che si sarebbe rifiutato. Non era compito suo svolgere mansioni di servizio per il pubblico. Invece, per qualche motivo, non lo fece, si strinse nelle spalle e le sorrise.
− Credo proprio che non ci sia piú nessuno. Aspetta un attimo.
Scomparve.
Forse aveva il cellulare scarico.
Ma certo, pensò la donna con un sospiro di sollievo. Dio solo sapeva quant’era complicato trovare dei telefoni pubblici oggigiorno. E poi quando finalmente ne trovavi uno ti accorgevi di essere rimasto senza spiccioli. È vero che molti accettavano anche carte di credito, ma a pensarci bene dovevano stare cosí le cose, il cellulare di Marianne doveva avere dei problemi.
− Non c’è nessuno. Solo un silenzio di tomba.
Il doganiere aveva le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
− Arriveranno altri due o tre voli piú tardi, questa sera. Ma adesso non c’è nessuno. Anche il nastro con i bagagli provenienti da Copenhagen è vuoto.
Tirò fuori le mani dalle tasche e le aprí in un gesto come di scusa.
− Grazie, − disse lei. – Grazie mille per l’aiuto.
La donna ritrasse la testa e si incamminò verso la scala mobile che saliva all’atrio delle partenze. Tirò fuori il cellulare. Nessun messaggio. Nessuna chiamata persa. Cercò per l’ennesima volta di contattare Marianne, ma venne subito reindirizzata alla segreteria. Le gambe si misero a correre da sole. La scala mobile era troppo lenta, e lei la risalí di volata. Una volta in cima si fermò di colpo.
Non aveva mai visto la zona delle partenze cosí vuota e silenziosa.
Le uniche facce che si vedevano erano quelle annoiate dietro qualche sportello: il personale di terra. Un paio di addetti stavano leggendo il giornale. In lontananza, verso sud, sentí il ronzio di una macchina per le pulizie che si avvicinava lentamente con un uomo di colore ai comandi. C’era solo una postazione aperta per i controlli di sicurezza, ma di esseri umani nemmeno l’ombra. Sembrava la scena di un film, un film sul giorno del giudizio. L’aeroporto di Gardermoen avrebbe dovuto pullulare di vita, apparire operosissimo e poco amichevole, brulicante di passeggeri impazienti e impiegati che non facevano mai neanche un minimo in piú del loro dovere.
La donna aveva il cuore in gola mentre si dirigeva risoluta allo sportello della Sas dall’altra parte dell’atrio. Non c’era gente nemmeno lí. Deglutí parecchie volte e si passò una manica sul sudore appiccicoso che le imperlava il volto.
Una stangona ben piantata uscí da una stanza sul retro.
− Posso esserti utile?
− Sí, sono venuta a prendere…
La donna si accomodò dal lato opposto del bancone e senza sollevare lo sguardo digitò un codice per accedere al computer.
− Sono venuta a prendere mia moglie, che sarebbe dovuta arrivare con il volo da Copenhagen.
− Tua…?
− Moglie. Marianne Kleive.
La donna dietro il bancone alzò gli occhi confusa, poi si ricompose atteggiando il volto a un’espressione neutra e si concentrò di nuovo sulla tastiera.
− Certo, sí, − disse.
− Ma non è arrivata. Era in Australia e sarebbe dovuta tornare facendo scalo a Tōkyō e Copenhagen. Mi domandavo se tu potessi… controllare se sia mai salita su questo aereo.
− Purtroppo no. Non mi è consentito divulgare informazioni del genere.
Forse fu il vuoto minaccioso di quell’atrio gigantesco. Forse furono piuttosto le notti insonni o l’inspiegabile inquietudine che l’aveva tormentata per tutta la settimana. O forse fu la consapevolezza, nel profondo, di avere ottimi motivi per disperare. Fatto sta che la donna con l’impermeabile rosso scoppiò a piangere in pubblico per la prima volta nella sua vita adulta.
Silenziosamente, senza un suono, le lacrime cominciarono a scorrerle giú per le guance, sopra le fossette che aveva ai lati della bocca, cosí scavate da essere ben visibili anche in quel momento, per poi proseguire sul mento affilato. Lente, a grosse gocce, cadevano sul bancone in legno chiaro.
− Piangi?
Sulla fronte dell’hostess della Sas si formò una ruga di empatia, proprio sopra gli occhi.
La donna dall’altra parte del bancone non rispose.
− Ascolta, − le disse l’hostess, poi proseguí a voce piú bassa. – È tardi e sarai certamente stanca. Qui non c’è nessuno e…
Lanciò una rapida occhiata di lato, verso la porta della stanza sul retro.
− Quale aereo mi hai detto che era?
La donna con l’impermeabile posò un foglio ripiegato sul bancone.
− È una copia del suo itinerario di viaggio, − bisbigliò passandosi il dorso delle mani sul viso.
Vedere il monitor da dove si trovava lei era impossibile. Allora fissò lo sguardo sugli occhi di quella donna di mezza età. Si alzavano dalla tastiera allo schermo e poi scendevano dallo schermo alla tastiera. D’un tratto la ruga sopra gli occhi sembrò caricarsi di preoccupazione.
− Il biglietto ce l’aveva, − disse alla fine. – Ma non è salita sull’aereo. È…
I tasti ticchettavano sotto le sue dita danzanti.
− Marianne Kleive aveva il biglietto, ma non ha mai fatto il check-in.
− A Copenhagen?
− No. A Sydney.
Era inconcepibile. Impossibile. Marianne non avrebbe mai, mai tralasciato di farglielo sapere se qualcosa le avesse impedito di tornare a casa. Erano passate piú di venti ore da quando l’aereo era decollato dal suolo australiano e in quel lasso di tempo Marianne non avrebbe potuto non trovare un telefono, un computer con la connessione Internet. Un modo, insomma. No, tutto questo era davvero inconcepibile.
− Un attimo solo, − disse la donna al di là del bancone, prendendo di nuovo la copia dell’itinerario.
La donna con l’impermeabile aveva quarantatre anni e si chiamava Synnøve. Portava i capelli biondi raccolti in una treccia, aveva il viso senza un filo di trucco e facilmente le si sarebbero potuti dare dieci anni in meno. Era salita a centoquaranta metri dalla cima dell’Everest prima di essere costretta a scendere e aveva girato il mondo in barca a vela. Si era imbattuta nei pirati al largo delle Canarie e aveva evitato la morte per un soffio in un incidente subacqueo a Stord. Synnøve Hessel era una persona capace di pensare in modo rapido e costruttivo e che con la sua presenza di spirito piú di una volta aveva salvato la vita propria e altrui.
Adesso tutto si era fermato. Tutto.
− Mi dispiace, − bisbigliò la donna al di là del bancone. – Marianne Kleive aveva un biglietto per Sydney domenica scorsa. Ma vedo che…
Quando incrociò lo sguardo dell’altra si spaventò.
− Mi dispiace, − ripeté. – Non è mai partita. Marianne Kleive non ha mai usato il suo biglietto. Non quello di andata e ritorno Oslo-Sydney, per lo meno. Magari è andata da qualche altra parte. Con un altro biglietto, voglio dire.
Senza ringraziarla per la gentilezza e l’aiuto assolutamente contrario al regolamento che le aveva dato, senza profferir parola, senza nemmeno riprendersi la copia dell’itinerario di viaggio che non era stato rispettato, Synnøve Hessel girò le spalle allo sportello informazioni della Sas e si mise a correre attraverso l’enorme atrio deserto.
Solo che non aveva idea di dove andare.

Figlio della felicità

Quando impugnò la maniglia, Trude Hansen non ricordava piú dove stesse andando. Vacillò e le venne in mente che, tanto, qualcosa per arrivare fino al mattino dopo già ce l’aveva. Il sollievo che provò fu cosí intenso che le cedettero le ginocchia e dovette appoggiarsi alla parete quando lasciò la maniglia.
L’odore là dentro era sempre peggio.
Doveva fare qualcosa.
Fra poco, pensò mentre entrava barcollando nel piccolo soggiorno. In una nicchia c’era un letto sfatto con un sacco a pelo posato sopra. Infilato in fondo al sacco a pelo c’era un nécessaire da toilette di Hello Kitty. Qualcuno aveva disegnato sull’immagine della gattina un paio di zanne e una benda da pirata. Finalmente, nonostante le mani non volessero ubbidirle, riuscí a tirar fuori la busta del nécessaire e ad aprirne la cerniera. Ogni cosa era al suo posto.
L’occorrente. Tre dosi.
Come in innumerevoli occasioni, anche allora valutò se fosse il caso di usare tutta la roba in una volta sola. Intorpidita e piú che altro per abitudine, calcolò quante probabilità avesse di farla davvero finita se fosse volutamente andata in overdose. E come sempre accadeva quando pensava certe cose nelle rare occasioni in cui aveva abbastanza eroina da poter contemplare un suicidio, come sempre anche allora allontanò quel pensiero. Presumibilmente non sarebbe morta. E quando si fosse ripresa non avrebbe piú avuto roba a disposizione.
L’idea di restare senza droga era piú terribile del pensiero di continuare a vivere.
Prese la busta del nécessaire e fece arrancando i pochi passi che la separavano dal divano verde contro la parete opposta. Era ricoperto di bottiglie vuote di birra dal giorno precedente. Nel corso della notte qualcuno aveva lasciato cadere una sigaretta accesa su uno dei cuscini e per un attimo lei rimase incantata a guardare quel grande tondo bruciato con un buco nero al centro.
Sopra al divano era appesa la fotografia di Runar, scattata il giorno in cui aveva ricevuto il sacramento della confermazione.
Trude la afferrò e la gettò fra le bottiglie di birra.
Runar la fissava da quella grossa immagine su carta telata con la cornice d’oro. Aveva i capelli ricci per la permanente, tagliati corti sopra le orecchie e lasciati lunghi sul collo. L’abito era azzurro pastello, la stretta cravatta rosa. Era cosí bello, pensò. Era suo fratello, era piú grande di lei e quel giorno in chiesa era indubbiamente il piú elegante di tutti. Poi, quando finalmente la cerimonia era finita e mamma non vedeva l’ora di andarsene a casa, prima che qualcuno degli altri genitori potesse far domande sul ricevimento, lui l’aveva sollevata ed era corso fino alla fermata dell’autobus tenendola con un braccio solo. Nonostante lei avesse nove anni e fosse parecchio sovrappeso.
Avevano mangiato ali di pollo.
Mamma, Runar e lei.
Runar non aveva ricevuto neanche un regalo, dal momento che tutti i soldi erano stati spesi per il vestito nuovo, il parrucchiere e il fotografo. Ma avevano mangiato ali di pollo e patatine fritte e Runar aveva anche bevuto una birra. Lui aveva sorriso. Lei aveva riso. Mamma aveva un buon profumo di pulito.
Apatica, tirò fuori il cucchiaio e il Bunsen che Runar le aveva dato. Fra poco si sarebbe sentita meglio. Fra pochissimo. Se solo le mani fossero state un po’ piú accomodanti.
La sua mente intorpidita cercò di calcolare quanto tempo fosse passato da quando Runar era morto. 19+19? No. Sbagliato. Dal 19 al 19 c’erano trentun giorni. O trenta? Non ricordava quanti giorni avesse il mese di novembre. E neanche quanti giorni fossero passati dopo. Non riusciva nemmeno a ricordare esattamente che giorno fosse.
L’unica cosa che sapeva con certezza era che Runar era morto il 19 novembre.
Lei era a casa. Lo stava aspettando. Runar aveva promesso di passare. Doveva solo procurarsi dei soldi. Procurarsi l’eroina. Procurarsi tutto quello di cui lei aveva bisogno: Runar avrebbe aiutato la sua sorellina, come aveva sempre fatto.
Solo che era in ritardo. In maledetto ritardo. Poi era arrivata la pula.
Erano arrivati lí. Avevano suonato il campanello, la mattina prestissimo. Quando Trude aveva aperto le avevano raccontato che quella notte Runar era stato rapinato nel Sofienbergparken. Lo avevano ritrovato con delle gravi ferite alla testa, presumibilmente era già morto. Qualcuno aveva chiamato l’ambulanza e quando l’ambulanza era arrivata lui sicuramente era già morto.
La donna poliziotto aveva un’espressione grave e forse aveva anche cercato di consolarla.
Lei ricordava solo di essersi ritrovata con un foglietto in mano. Il numero di telefono e l’indirizzo di una agenzia di pompe funebri. Cinque giorni dopo si era svegliata cosí tardi da capire subito che non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare in tempo al funerale.
Dopodiché i poliziotti non avevano fatto piú niente.
Non avevano arrestato nessuno.
Non le avevano fatto sapere piú niente.
Quando svuotò la siringa in una vena del poplite quel bel calore si diffuse con una tale rapidità da lasciarla senza fiato. Trude ricadde lentamente sul divano verde. Le sue braccia scheletriche si strinsero intorno alla fotografia di Runar. Il suo unico pensiero prima che ogni cosa si trasformasse in calde nubi di nulla, fu che il fratello aveva dato a lei le ultime tre ali di pollo, il giorno in cui aveva ricevuto il sacramento della confermazione e per la prima volta la mamma gli aveva fatto bere una birra.
Alla polizia non importava di quelli come Runar.
Di quelli come lei e Runar.
− Non ti importa proprio?
Per la prima volta dopo tre quarti d’ora Synnøve Hessel era davvero sul punto di perdere il senno. Si chinò verso il poliziotto, con le mani aggrappate al tavolo come se avesse paura di usarle per colpirlo.
− Certo che mi importa, − rispose l’altro senza guardarla. – Ma comprenderai bene che noi dobbiamo fare domande. Se avessi idea di quante persone se la svignano dalla loro solita vita senza…
− Marianne non se l’è svignata! Ma lo vuoi capire o no che non aveva nessun motivo al mondo per svignarsela?
Il poliziotto sospirò rassegnato. Sfogliò i documenti che aveva davanti, poi gettò un’occhiata all’orologio. La piccola stanza riservata agli interrogatori stava diventando insopportabilmente calda. Sopra di loro l’impianto dell’aria condizionata sibilava, ma il termostato doveva essersi rotto. Synnøve Hessel si tolse il golf tradizionale norvegese e restò in maglietta per rinfrescarsi un po’. Fra i seni aveva un’umida chiazza ovale, e si accorse che il sudore le colava sotto le ascelle. Decise di fregarsene, l’agente che aveva di fronte puzzava peggio di lei.
Alla polizia dell’aeroporto di Gardermoen per lo meno erano stati cortesi, disponibili, anche se non avevano potuto fare altro che indirizzarla alla stazione del suo luogo di residenza. Si erano scusati per l’inconveniente e le avevano offerto un caffè. Una donna di mezza età in uniforme aveva cercato di tranquillizzarla dicendole quello che chiunque tranne lei sembrava sapere: le persone scomparivano in continuazione, ma prima o poi saltavano fuori di nuovo.
Solo che il «poi» sarebbe stato troppo tardi per Synnøve Hessel.
Era ormai notte e il viaggio di ritorno a Sandefjord l’aveva messa a dura prova.
− Proviamo a ricapitolare quello che è successo, − suggerí il poliziotto prima di finire la sua bottiglia di Coca-Cola.
Synnøve Hessel non rispose. Avevano già ricapitolato tutto per ben due volte, e non era certo servito ad avvicinare di un minimo quell’uomo a una percezione realistica della situazione.
− In fondo, tu sei… – l’agente si aggiustò gli occhiali sul naso e lesse: − Tu giri documentari.
− Li produco, − lo corresse Synnøve.
− Esatto. Perciò saprai meglio di molti altri com’è la realtà…
− Non dovevamo ricapitolare?
− Sí, dunque… Marianne Kleive doveva andare a Wologo… Wolongo…
− Wollongong. Una città non molto lontana da Sydney. Doveva andare a trovare una prozia. Festeggiare il Natale lí.
− Un soggiorno molto breve, considerato il lungo viaggio.
− Eh?
− Intendevo soltanto dire, − continuò l’uomo con qualche esitazione, − che se fossi io a fare un viaggio cosí lungo, fino in Australia insomma, allora mi fermerei piú di una settimana scarsa.
− Non è che questo c’entri molto con il caso.
− Non si sa mai, non si sa mai. Quindi, Marianne Kleive è partita da Sandefjord venerdí 19 dicembre con il treno delle…
− Dodici e trentotto.
− Mhm. A Oslo avrebbe dovuto vedere un’amica…
− E l’ha vista. Ho controllato.
− Dopodiché avrebbe pernottato in albergo e la mattina dopo, sabato, avrebbe preso il volo delle nove e trenta per Copenhagen.
− Ma non ci è mai arrivata.
− Non è mai arrivata a Copenhagen?
− All’aeroporto di Gardermoen. Voglio dire, può darsi benissimo che ci sia andata, ma di certo non si è imbarcata sul volo per Copenhagen. Il che verosimilmente significa che non ha preso neanche il volo per Tōkyō e Sydney.
Il poliziotto non colse il sarcasmo. Si grattò con disinvoltura fra le gambe, afferrò la bottiglia di Coca-Cola per poi posarla non appena si rese conto che era vuota.
− E come mai non ti sei accorta di niente fino a ieri sera? Non ha un cellulare questa… la tua donna?
− Non è la mia donna. È la mia compagna. Anzi, a dire il vero siamo sposate. Quindi è mia moglie, se preferisci.
La bocca spalancata dell’uomo mostrava chiaramente che non preferiva quella definizione.
− E come ti ho già detto piú di una volta, − proseguí Synnøve piegandosi verso di lui con il cellulare in mano, − ho ricevuto tre Sms nel giro di una settimana! Tutto faceva pensare che Marianne si trovasse in Australia.
− Ma non vi siete mai parlate.
− Lo ripeto: da domenica scorsa ho cercato di telefonarle due o tre volte, senza però riuscire a prendere la linea. Ieri sera ho tentato di chiamarla almeno dieci volte. Scatta subito la segreteria, perciò suppongo che abbia la batteria scarica.
− Fammi vedere i messaggi che hai ricevuto, − le disse il poliziotto.
Synnøve digitò rapida sulla tastiera e poi gli passò il telefonino.
«Tutto bene. Posto davvero emozzionante. Marianne».
L’uomo incespicò nella lettura, ma sottolineò senza delicatezza alcuna l’errore di ortografia in «emozzionante».
− Non proprio… − proseguí il poliziotto, cercando la parola giusta prima di leggere il messaggio successivo, – non proprio romantico, ecco. «Sto bene. Marianne».
Sbirciò Synnøve da sopra il bordo degli occhiali.
Il tabacco da masticare si era depositato come due polpettine nere agli angoli della bocca e quando parlava ne sputacchiava dei granellini.
− È vostra abitudine essere sempre cosí… concise?
Per la prima volta Synnøve si azzittí. La domanda era azzeccata, visto che erano state proprio la scarsezza, l’impersonalità e la stranezza di quei messaggi a renderla inquieta. Il primo era arrivato il lunedí, ma non ci aveva pensato su troppo. Forse Marianne aveva fretta. Poteva darsi che la zia richiedesse tutta la sua attenzione. Che ne sapeva lei, in fondo? Potevano esserci mille buoni motivi per un messaggio mancato o scarno. A Natale era arrivato un misero «Buon Natale» che l’aveva ferita profondamente. L’ultimo Sms, in cui Marianne affermava di star bene, né piú né meno di questo, l’aveva tenuta sveglia due notti.
− No, − rispose quando il silenzio cominciò a diventare imbarazzante. – È per questo che credo non sia stata lei a scrivere questi messaggi. Marianne non avrebbe mai sbagliato a scrivere «emozionante».
Il poliziotto sbarrò gli occhi con tale drammaticità da ricordare un pagliaccio a una festa per bambini malriuscita. Ciuffi di capelli gli spuntavano da dietro le orecchie, aveva la bocca di un rosso umido e il naso somigliava a una patata tondeggiante.
− Oh oh! E cosí adesso abbiamo una teoooria, − disse trascinando volutamente la o. – Qualcuno ha rubato il cellulare di Marianne Kleive e si è messo a spedire messaggini al posto suo!
− Non è quello che ho detto, − protestò lei, anche se era esattamente quello che aveva detto. – Ma non capisci che… se Marianne fosse stata vittima di un crimine e qualcuno…
Crimine.
Quella parola aprí uno squarcio dentro di lei. Le fece fisicamente male. Synnøve non aveva ancora nemmeno osato pensare a una simile eventualità. No. Non proprio, non usando il termine piú adatto.
Crimine.
− … e qualcuno cercasse di rendere difficile scoprirlo, allora…
− Scoprirlo?
− Sí! Il fatto che sia scomparsa, no? Oppure che sia…
Per la seconda volta nel giro di ventiquattr’ore stava per mettersi a piangere sotto gli occhi di un estraneo.
Bussarono alla porta.
− Kvam! Ti vogliono in guardiola!
Un uomo in uniforme entrò nella stanza con un sorriso. Posò una mano sulla spalla del maleodorante collega e indicò la porta.
− Pare sia urgente.
− Ma sono nel bel mezzo di…
− Ci penso io.
L’ispettore di polizia Ola Kvam si alzò con un’espressione acida in volto e cominciò a raccogliere tutti i documenti che aveva davanti.
− Lascia pure, concludo io qui. Si tratta di un caso di scomparsa, giusto?
Kvam si strinse nelle spalle, fece un rapido cenno di saluto con il capo e si precipitò fuori. La porta sbatté rumorosamente alle sue spalle.
− Synnøve Hessel, − disse il poliziotto appena entrato. – Ne è passato di tempo…
Lei si alzò per metà e strinse la mano tesa dell’altro.
− Kjetil? Kjetil… Berggren?
− Il solo e unico! Ti ho vista qua fuori e mi sono un po’… – fece ondeggiare la mano, tenendo il palmo orizzontale, − preoccupato quando ho capito che sarebbe stato Ola Kvam a prendere la denuncia. Non è esattamente… in realtà è già in pensione, ma sotto Natale prendiamo dei sostituti per coprire… Be’, sai com’è… Abbiamo tutti il nostro daffare… Sono venuto appena sono riuscito a liberarmi.
Kjetil Berggren aveva frequentato la sua stessa scuola superiore, ma aveva un anno meno di lei. Synnøve non se lo sarebbe mai ricordato se non fosse stato un campione di atletica: già quand’era in prima aveva battuto il record dei tremila metri nel Bugårdsparken ed era stato ammesso nella squadra nazionale juniores. Dopo le superiori era entrato direttamente alla scuola di polizia.
Dava ancora l’impressione che, correndo, sarebbe potuto sfuggire a chiunque.
− Ti ho seguito da lontano, sai! – Kjetil fece un ampio sorriso, intrecciò le mani dietro la nuca e si appoggiò allo schienale della sedia fino a farla dondolare. − Che bei programmi! Soprattutto quello su…
− Tu mi devi aiutare, Kjetil.
Le pupille di lui si assottigliarono, o almeno cosí le parve. Forse fu solo perché, quando riappoggiò a terra le gambe anteriori della sedia e si sporse verso di lei, tutt’a un tratto la luce gli illuminò il viso.
− È per questo che sono qui. È per questo che noi della polizia siamo qui. «Per proteggere e servire», come sai.
Sorrise di nuovo, ma neanche questa volta il suo sorriso venne ricambiato.
− Io sono sicura, sicurissima che alla mia compagna è successo qualcosa di terribile.
Kjetil Berggren raccolse lentamente i fogli che aveva davanti e li infilò in una cartelletta che spinse sulla sinistra del grande tavolo che li separava.
− Forse è meglio se mi racconti tutto di nuovo, − le disse. – Dall’inizio.
All’inizio lo capiva, suo padre.
Quando la polizia aveva suonato il campanello della loro villetta unifamiliare a Os la notte fra il 24 e il 25 dicembre, poco prima che andassero a dormire, Lukas Lysgaard aveva pensato subito al padre. Poi gli agenti gli avevano comunicato che sua madre era morta, con un’aria sinceramente addolorata nel riferire la funesta notizia. Certo, si erano fatti accompagnare dal prevosto di Fana, il piú caro fra i colleghi di sua madre, ma quel poveretto era cosí affranto dal dolore che aveva finito per restare seduto in macchina mentre i due poliziotti si erano addossati il pesante fardello di informare Lukas Lysgaard che sua madre era stata uccisa tre ore prima.
E Lukas aveva pensato subito a suo padre.
Anche a sua madre, ovviamente, lui amava sua madre. Un dolore pietrificante aveva iniziato a succhiargli via le forze non appena aveva compreso davvero quel che era successo. Ma era comunque il padre a preoccuparlo.
Erik Lysgaard era un uomo mite.
Qualcuno lo considerava una persona priva di iniziativa, altri invece sapevano apprezzare la sua affabilità, la sua riservatezza. Non faceva mai sfoggio di sé al di fuori della famiglia, e ben poco in famiglia. Non era loquace, ma ascoltava molto. Erik Lysgaard era dunque un uomo abituato a muoversi in una ristretta cerchia di conoscenti. Aveva i suoi amici, certo, alcuni che conosceva da quando era piccolo e un paio di colleghi che lavoravano con lui a scuola, finché la schiena non gli aveva creato cosí tanti problemi da guadagnargli la pensione di invalidità.
Prima di ogni altra cosa, però, lui era il marito di sua moglie.
«Da solo non è piú un eroe, – fu questo il pensiero che assalí Lukas quando seppe che sua madre era morta. – Senza di lei, non è piú nessuno».
E all’inizio lo capiva.
Quella notte, quella benedetta, crudele notte che Lukas non avrebbe dimenticato per tutta la vita, i poliziotti lo avevano portato in autopattuglia a Nubbebakken. Il piú anziano dei due aveva chiesto se volessero compagnia fino allo spuntar del giorno.
Né lui né il padre desideravano però degli estranei lí con loro.
Il padre si era rattrappito fino a diventare irriconoscibile. Era cosí stretto e curvo da non proiettare quasi ombra quando aveva aperto la porta al figlio e senza una parola si era girato dandogli le spalle per poi tornare in soggiorno.
Piangeva in un modo che incuteva paura. Piangeva per minuti e minuti quasi in silenzio, ma tutt’a un tratto emetteva un urlo basso e prolungato, senza singulti: un dolore animalesco che terrorizzava Lukas. Lo faceva sentire ancor piú impotente di quanto si fosse aspettato, soprattutto visto che suo padre rifiutava ogni contatto fisico. E non voleva nemmeno parlare. Quando il giorno era spuntato, quella mattina di Natale buia e piovosa, Erik si era finalmente lasciato convincere a cercare di dormire un po’. E anche allora aveva rifiutato l’aiuto del figlio, nonostante Eva Karin ogni sera, da piú di dieci anni, gli togliesse le calze e gli desse una mano a sdraiarsi a letto per poi massaggiargli la schiena dolorante con un unguento artigianale che lui si faceva puntualmente spedire da un membro della comunità fin dagli anni in cui erano a Stavanger.
E comunque Lukas lo capiva.
Adesso però la faccenda era diventata seria.
Erano passati cinque giorni dall’omicidio e non era cambiato nulla. Il padre non aveva mangiato niente in quei giorni, niente di niente. Beveva volentieri acqua, molta acqua, e di pomeriggio anche un paio di caffè con zucchero e latte. Nemmeno quando Lukas lo aveva portato a casa dalla sua famiglia, nella speranza che i nipoti risvegliassero una qualche scintilla di vita nel vecchio, Erik aveva voluto mangiare qualcosa. La visita in sé era stata un fallimento completo. I bambini si erano spaventati a morte vedendo il nonno piangere in quello strano modo, senza contare il fatto che il piú grande, otto anni, aveva già i suoi problemi ad accettare che la nonna non sarebbe mai, mai, mai piú tornata.
− Cosí non va, papà.
Lukas avvicinò uno sgabello alla poltrona con il poggiatesta su cui sedeva Erik e ci si accomodò.
− Dobbiamo pensare al funerale. Tu devi mangiare. Sei l’ombra di te stesso, non si può andare avanti cosí.
− Il funerale non si può fare prima che la polizia abbia dato l’autorizzazione a procedere, − gli disse il padre.
Perfino la voce si era assottigliata.
− No, certo. Ma dobbiamo cominciare a organizzarlo.
− Lo puoi fare tu.
− Non sarebbe giusto. Lo dobbiamo fare insieme.
Silenzio.
Il vecchio orologio a pendolo si era fermato. Erik Lysgaard aveva smesso di tirare su i pesi in ottone a forma di pigna, grevi come il piombo, come aveva sempre fatto la sera prima di andare a letto. Non aveva piú bisogno di sentire il tempo che passava.
La polvere danzava nella luce che entrava dalla finestra.
− Devi mangiare.
Erik alzò lo sguardo e con delicatezza, per la prima volta dalla morte di Eva Karin, prese la mano del figlio tra le sue.
− No. Tu devi mangiare. Tu devi continuare a vivere.
− Papà, tu…
− Tu sei figlio della nostra felicità, Lukas. Nessun bambino è mai stato piú voluto di te.
Lukas deglutí e sorrise.
− Lo dicono tutti i genitori. Anche io lo dico ai miei bambini.
− Ma ci sono molte cose che tu non sai.
Era come se i rumori della città non riuscissero a penetrare nella casa morta di Nubbebakken. Lukas non riusciva nemmeno a sentir battere il proprio cuore.
− Che cosa vuoi dire? – gli chiese.
− Con la morte di una persona molte cose vanno perdute. Con la morte di Eva Karin tutto è andato perduto. Non poteva essere altrimenti.
− Io ho diritto di sapere. Se c’è qualcosa nella vita di mamma, nella vostra vita, che…
La risata secca del padre lo spaventò.
− Tutto quello che hai bisogno di sapere, è che sei stato un figlio molto amato. Sei sempre stato il grande amore sia di tua madre che mio.
− Sono stato?
− Tua madre è morta, − disse in tono duro Erik Lysgaard. – E io non vivrò ancora a lungo.
Di colpo Lukas gli lasciò andare le mani e si raddrizzò.
− Cerca di riprenderti, − gli disse. – Maledizione, cerca di riprenderti un po’!
Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro a grandi, rapidi passi.
− È ora di finirla. Adesso. Adesso! Hai capito?
Il padre reagí appena a quello sfogo violento. Rimase immobile sulla poltrona dove era rimasto negli ultimi cinque giorni, con la stessa espressione vuota.
− Io non lo accetto, − gli gridò Lukas. – Mamma non lo accetta!
Afferrò una statuetta in porcellana da una piccola credenza accanto al televisore: due cigni in un fragile cuore, regalo di nozze da parte dei genitori di Eva Karin. Era sopravvissuto a otto traslochi ed era uno degli oggetti piú cari a sua madre. Lukas afferrò per il collo i due cigni con entrambe le mani e se li sbatté contro una coscia con tanta forza da farsi male. La statuetta andò in mille pezzi. I bordi taglienti dei frammenti gli si conficcarono nei palmi. Quando gettò a terra quel che rimaneva della statuetta il sangue schizzò sul tappeto.
− Tu non hai il diritto di morire. Tu non hai nessun diritto di morire, Cristo!
Era quello che ci voleva.
Lukas Lysgaard non aveva mai, nemmeno negli anni della ribellione giovanile, mai osato pronunciare il nome di Dio invano in presenza dei suoi genitori. Il padre si alzò piú rapidamente di quanto lo si sarebbe creduto capace. In tre passi fu davanti al figlio. Sollevò il braccio. Il pugno si fermò a pochi centimetri dalla mascella di Lukas. E cosí rimase, congelato in un assurdo quadro vivente. Piú alto, adesso, e anche piú grosso. Lukas aveva ereditato le spalle da lui, ed era come se a un tratto le spalle del padre fossero tornate quelle di un tempo. Tutta la sua figura si era ingrandita. Lukas tratteneva il respiro, rattrappito sotto lo sguardo del padre quasi fosse di nuovo un ragazzino. Ribelle e giovane e il bambino di papà.
− Perché la mamma era andata a passeggio da sola? – gli chiese in un bisbiglio.
Erik lasciò cadere la mano.
− È una cosa che riguarda solo Eva Karin e me.
− Io credo di saperlo.
− Guardami.
Lukas si scrutò il palmo delle mani aperte. Alla base di entrambi i pollici c’era un profondo squarcio. Il sangue gocciolava sul tappeto.
− Guardami, − gli ripeté Erik.
Lukas continuava a non avere il coraggio di sollevare il volto, poi sentí la mano del padre sulla barba ispida della guancia. Finalmente alzò gli occhi.
− Tu non sai niente, − gli disse Erik.
«E invece sí, – pensò Lukas. – Forse ho sempre saputo. O almeno, lo so da molto tempo».
− Tu non sai proprio un bel niente, − gli ripeté il padre.
Erano cosí vicini da sentire ognuno il respiro dell’altro sulla pelle, a piccoli sbuffi. E come i cattivi pensieri si incapsulano in duri segreti quando non si condividono con nessuno, cosí entrambi avevano la certezza di custodire una verità di cui credevano l’altro al corrente. E rimasero in quel modo, imbarazzati, senza niente da dirsi.
− Mi imbarazza dovertelo dire, Synnøve, ma questo in effetti è uno di quei casi su cui nutriamo un certo scetticismo.
Per lo meno Kjetil Berggren era riuscito ad abbassare un po’ la temperatura nella piccola stanza degli interrogatori. In quel momento se ne stava seduto con le maniche della camicia arrotolate, cosa contraria al regolamento, e sovrappensiero tamburellava con una matita sulla gamba dei pantaloni.
Lei gli aveva raccontato com’erano andate le cose, senza tacere nulla. Che a ogni parola la sparizione di Marianne divenisse sempre meno sospetta era una constatazione che stava cominciando a fare solo in quel momento.
− Capisco, − disse docilmente.
− E poi non hai ancora nemmeno parlato con i suoi genitori.
− È da quando siamo andate a convivere che Marianne non ha piú contatti con loro!
− Va bene, ma…
Kjetil si passò la mano fra i capelli corti e proseguí: − In linea di massima sono d’accordo con te: ci sono buoni motivi per preoccuparsi. È solo che…
Adesso dimostrava molta disponibilità in meno rispetto a quando l’aveva salvata dalle grinfie di Ola Kvam un’ora e mezza prima. Era piuttosto inquieto e non aveva preso neanche un appunto negli ultimi trenta, quaranta minuti.
− Per prima cosa avresti dovuto sentire i parenti piú stretti. Ma da quanto ho capito non hai parlato praticamente con nessuno di loro.
Quello snervante tamburellare sulla coscia aumentò di intensità.
− Nemmeno con i genitori, − ribadí.
Come se i genitori di una quarantaduenne potessero avere una risposta a tutto.
− Quando ci siamo sposate, loro non sono venuti, − spiegò Synnøve esausta. – E adesso di punto in bianco dovrebbero sapere qualcosa di Marianne?
− Ma non era la zia materna che Marianne stava andando a trovare? Può darsi che la madre…
− Questa zia è spuntata fuori dal nulla! Ascolta, Kjetil, Marianne ha rotto con i suoi dopo una terribile discussione piú di tredici anni fa. Naturalmente aveva a che fare con me, la discussione. Ha mantenuto i rapporti con il fratello, ma in modo del tutto saltuario. I nonni sono morti e il padre è figlio unico. La madre tiene i propri fratelli in una morsa di ferro. In altre parole, Marianne è praticamente senza famiglia. Ma ecco che in autunno arriva questa lettera dalla prozia. È emigrata prima che Marianne nascesse ed era considerata persona non grataa in famiglia. Era una bohémienne. All’inizio degli anni Sessanta si era sposata con un afroamericano e ai tempi cose del genere non erano proprio gradite nelle famiglie bene di Sandefjord. Poi ha divorziato e si è trasferita in Australia. Lei…
Synnøve si interruppe.
− Ma perché me ne sto qui a darti un sacco di dettagli assolutamente irrilevanti su una vecchia signora stramba che scopre all’improvviso di avere una pronipote che come lei è stata buttata fuori dalla famiglia? Il punto… il punto è che tanto Marianne dalla prozia non ci è mai arrivata!
Nel dirlo allargò le braccia, colpendo una tazza piena di caffè. Quando il liquido bollente le si rovesciò sulle cosce imprecò e schizzò in piedi. Prima ancora che potesse rendersene conto Kjetil Berggren era accanto a lei con una bottiglia di acqua minerale vuota.
− Va meglio? Te ne verso dell’altra?
− No, grazie, − borbottò lei. – Va bene cosí, grazie.
Kjetil Berggren prese alcuni asciugamani di carta da un dispenser accanto a un piccolo lavandino nell’angolo.
− E poi c’è questo fatto, che Marianne già una volta se l’era svignata, − le disse girato di spalle.
Synnøve si afflosciò di nuovo su quella scomoda sedia.
− Non se l’era svignata. Mi aveva lasciato. È una cosa ben diversa.
− Ecco qui.
Le allungò gli asciugamani di carta.
− Hai detto che quella volta era stata via per quattordici giorni, − proseguí sedendosi. – Senza dare notizie di sé. Neanche allora. Come adesso, voglio dire. Immagino tu capisca, Synnøve, che questo ha una certa rilevanza. Il fatto che lei… che Marianne tre anni fa, dopo un terribile litigio, sia sparita e se ne sia andata in Francia senza nemmeno farti sapere che si trovava all’estero. È una di quelle circostanze di cui noi poliziotti dobbiamo tenere conto, per decidere se è il caso di dar peso o meno a…
− Ma questa volta non avevamo litigato! Non avevamo litigato per niente!
Anziché tornare al suo posto dietro la scrivania, Kjetil scivolò sul piano del tavolo e posò un piede sulla sedia accanto a quella di lei. Presumibilmente il suo voleva essere un gesto amichevole.
− Devo avere un aspetto orrendo, − mormorò Synnøve scostandosi. – E puzzo come un cavallo. Mi dispiace.
− Synnøve, − disse lui con tranquillità, senza farle capire che aveva proprio ragione.
Le posò una mano sulla spalla: era calda.
− Vedrò che cosa posso fare, è ovvio. Raccolgo la tua denuncia di persona scomparsa, e questo è già un inizio. Purtroppo però non posso garantirti che ce la metteremo tutta. Non ancora, per lo meno. Intanto ci sono molte cose che invece potresti fare tu.
Lei si alzò. Piú che altro per liberarsi di quel contatto fisico che sentiva inaspettatamente sgradito. Quando si allungò per prendere il golf, Kjetil saltò giú dal tavolo.
− Fai qualche telefonata in giro, − le disse. – Avete molti amici. Se dovesse saltar fuori qualche… qualche infedeltà…
Per fortuna in quel momento Synnøve aveva la testa infilata nella lana. Avvampò all’istante e si ritrovò ad armeggiare con il golf, prima di riprendere il controllo della situazione.
− Di solito funziona cosí, che c’è qualche amico che sa qualcosa.
− Capisco, − commentò lei, asciutta.
− E se avete un conto in banca comune, potresti anche controllare se ha prelevato. E nel caso lo abbia fatto, da dove. Ti telefono fra un paio di giorni per sentire come va. Magari faccio un salto a trovarti. Abiti ancora in quella vecchia casa in Hystadveien?
− Abitiamo in Hystadveien. Io e Marianne.
E nel momento stesso in cui lo disse ebbe la certezza che fosse una menzogna.
− A meno che Marianne non sia morta, − disse in tono duro, poi prese l’impermeabile e andò verso la porta. – Grazie, Kjetil. Grazie di nulla, cazzo!
Si sbatté la porta alle spalle con tanta violenza da farla uscire dai cardini.
a. In italiano nel testo [N. d. T.].


Notte prima di un cupo mattino

Rolf non era in grado di chiudere la portiera dell’auto in modo civile.
La sbatteva sempre con tanta violenza che Marcus Koll jr lo sentiva fin dal soggiorno, nonostante la macchina fosse parcheggiata al riparo nell’enorme garage. Rolf dava sempre la colpa ai macinini che lui aveva guidato per tutta la vita. Ancora non si era abituato alle loro automobili: o tedesche da un milione e rotti di corone, o italiane, e quelle valevano il doppio.
Marcus stava sferrando colpi furiosi a destra e a manca nel tentativo di acchiappare una mosca sopravvissuta all’inverno. Era grossa e indolente, ma ancora viva quando Rolf entrò nella stanza.
− Ma che diavolo stai facendo?
Marcus era in ginocchio sul tavolo da pranzo e menava colpi all’impazzata.
− Una mosca, − borbottò. – Non potresti essere un po’ piú gentile con le nostre macchine?
− Una mosca? In questa stagione? Ma come!
Tre passi rapidi e un solo colpo con il palmo della mano sul piano del tavolo.
− Presa, − disse Rolf serenamente. – Piuttosto, non dovrebbe essere già apparecchiato?
Marcus fece per scendere dal tavolo, ma si sentiva rigido e impacciato e dovette appoggiare il ginocchio su una sedia. Come a ogni veglione di capodanno degli ultimi nove anni, lui aveva inaugurato la giornata ripromettendosi di iniziare a fare attività fisica. Esattamente dal mattino dopo. Era quello il suo proposito piú importante e questa volta lo avrebbe mantenuto. Nel seminterrato c’era un’intera palestra attrezzata di tutto punto e lui non aveva nemmeno idea di che aspetto avesse.
− Fra poco arriva la mamma.
− Tua madre? Hai chiesto a Elsa di venire ad apparecchiare la tavola per una festa a cui non è nemmeno invitata?
Marcus sbuffò rassegnato.
− La mamma desiderava che Lillemarcus si fermasse da lei per la notte. Voleva festeggiare il capodanno con lui, loro da soli. Sarà piú divertente per tutti e due.
− Va bene. Ma non vedo per quale motivo dovrebbe buttare via tutta la mattina ad apparecchiare la tavola qui da noi! Telefonale subito e dille che ci penso io. Fra l’altro, questo cos’è?
Rolf aveva in mano una scatoletta quadrata di metallo.
− Un hard disk, − rispose Marcus tranquillamente.
− E che cosa ci faceva nel bagagliaio della Maserati?
− È la mia macchina. Quante volte ti ho detto che preferirei che ne usassi un’altra? Sei il peggior guidatore del mondo e…
− Insomma, ma che cos’hai?
Rolf si chinò in avanti per baciarlo. Marcus svicolò. Non riuscí a evitare di lanciare un’occhiata all’hard disk.
− È rovinato, − disse. – L’ho sostituito. Quello è da buttare.
− Allora vado a buttarlo, − disse Rolf con un’alzata di spalle. – E tu cerca di farti venire un po’ di buon umore prima che arrivino gli ospiti.
E con l’hard disk in mano uscí dalla stanza. Marcus dovette trattenersi dal corrergli dietro. Avrebbe voluto essere lui in prima persona a distruggere e buttar via quell’aggeggio maledetto.
Non è poi cosí grave, pensò cercando di mantenersi calmo. In fondo si trattava di una semplice misura di sicurezza. Che con ogni probabilità si sarebbe rivelata eccessiva. Decisamente eccessiva. Con il cuore che cominciava a battergli piú forte, tentò di concentrarsi su qualcos’altro.
Il menu, per esempio.
Che Rolf avesse trovato l’hard disk non aveva alcuna importanza.
Non ricordava nulla del menu.
Dimentica quell’hard disk. Dimenticalo. Non ha nessuna importanza.
− Hai telefonato a Elsa?
Rolf era tornato, aveva le braccia cariche di tovaglia, tovaglioli e candeline.
− Marcus… ehi, ma… Marcus!
A Rolf cadde tutto per terra.
− Ti senti male? Marcus?
− È tutto a posto, − rispose lui. – Mi sono sentito mancare un attimo, ma adesso sto bene. Davvero.
Rolf gli accarezzò la schiena. Lo sovrastava di quasi tutta la testa, quindi dovette chinarsi in avanti per incrociare il suo sguardo avvilito.
− È di nuovo… hai… Hai avuto un altro attacco di panico?
− No, no.
Marcus sorrise.
− Sono passati molti anni dall’ultimo. Tu mi hai guarito, te l’ho detto.
Era difficile riuscire a controllare la lingua, secca e intorpidita com’era. Aveva le mani umide di sudore freddo e se le cacciò in tasca.
− Vuoi un po’ d’acqua? Vado a prenderti un po’ d’acqua, Marcus?
− Grazie, sí. Un po’ d’acqua mi farà sentire meglio.
Rolf sparí e Marcus restò solo.
Se non fosse stato cosí solo, se avesse parlato con Rolf fin dall’inizio. Avrebbero potuto trovare una soluzione. Insieme avrebbero capito quale fosse la cosa migliore da fare, insieme avrebbero potuto affrontare ogni cosa.
All’improvviso inspirò con forza dal naso. Raddrizzò la schiena, schioccò la lingua per aumentare la salivazione e si diede dei buffetti sulle guance con le mani aperte. Non c’era nulla da temere. Ancora una volta: non c’era nulla di cui doversi preoccupare.
Durante le vacanze di Natale aveva letto sul «Dagens Næringsliv» un breve articolo su Niclas Winter in cui fra le righe si lasciava intuire che era morto per overdose. Non era scritto in modo esplicito, per lo meno non a cosí poco tempo dal decesso, che veniva ricondotto allo stile di vita poco ortodosso dell’artista, questa l’espressione rispettosa che era stata utilizzata. Era già in atto una battaglia per i diritti sulle opere invendute, che dalla morte di Winter ci avevano decisamente guadagnato. Tre galleristi e un curatore, infatti, le avevano valutate per cifre piú che doppie rispetto alla settimana prima. L’articolo era piú interessante di quanto la sua posizione defilata lasciasse presagire. Sicuramente sarebbero tornati sull’argomento con ulteriori dettagli.
Niclas Winter era morto di overdose e Marcus Koll jr non aveva nulla da temere. Si aggrappò a quel pensiero e su quello si concentrò vedendo Rolf tornare di corsa con un grosso bicchiere d’acqua in mano. I cubetti di ghiaccio tintinnarono quando lo vuotò bevendolo tutto d’un fiato.
− Grazie, adesso mi sento benissimo.
Non ho nulla da temere, pensava mentre apparecchiava la tavola. Tovaglia rossa, tovaglioli rossi orlati in argento e candele verde scuro in candelieri di vetro guarniti con borchie d’argento. Niclas Winter se l’è cercata, pensò ostinatamente, non avrebbe dovuto farsi quell’overdose.
La sua morte non c’entra niente con me.
Ci mancava poco che iniziasse a crederci per davvero.
Trude Hansen credeva che quel giorno fosse il 31 dicembre, ne era quasi certa.
Nel minuscolo appartamento regnava ancora il caos: avanzi di cibo, bottiglie vuote, vestiti sporchi, pezzetti di carta stagnola sparsi ovunque e, in un angolo, un cartone di pizza che il gatto terrorizzato aveva usato per i suoi bisogni. Adesso il povero animale se ne stava seduto sul davanzale di una finestra a miagolare lamentoso.
− Vieni qui, Pusi! Dài, Pusi Pusi, vieni qui. Su, vieni dalla mamma!
Il gatto soffiò e inarcò la schiena.
− Non essere arrabbiato con la mamma, dài!
Aveva una voce dolce e acuta. Non ricordava se aveva dato da mangiare a Pusi. Probabilmente no. Non oggi, almeno. Forse neanche ieri. No, neanche ieri, perché si era cosí arrabbiata quando quello stupido animale aveva pisciato sulla pizza.
− Micio micio…
Trude si allungò verso il gatto, che schizzò sul divano come un razzo peloso e cominciò ad affilarsi gli artigli sui cuscini con movimenti ritmici e regolari.
«Non può che essere il 31 dicembre», pensò Trude.
Cercò di aprire la finestra. Si era deformata e le si spezzò un’unghia, ma alla fine ci riuscí, di colpo e con uno schianto secco. Una ventata di aria gelida attraversò la stanza maleodorante e Trude si piegò sul davanzale, sporgendo fuori il busto.
Sopra i palazzi verso oriente, quelle vecchie case che nascondevano il Sofienbergparken, vide i fuochi d’artificio. Sfere di luce rossa e verde scendevano piano verso terra mentre il cielo era illuminato da fontane luminose. L’odore di polvere pirica si era già diffuso per le strade. Lei adorava l’odore lasciato dai fuochi d’artificio. Per fortuna c’era sempre chi non riusciva a trattenersi fino a mezzanotte.
Le restava soltanto una dose. L’aveva tenuta da parte per la sera: il giorno era stato sopportabile grazie a una bottiglia di superalcolico che qualcuno aveva nascosto sotto il letto.
Difficile dire che ora fosse.
Proprio mentre stava per chiudere la finestra ecco che Pusi sgusciò fuori. Il gatto avanzò rapido lungo lo stretto cornicione, poi, un paio di metri piú in là, si accoccolò e cominciò a miagolare.
− Pusi, vieni qui! Su, Pusi, vieni dalla mamma!
Pusi iniziò a lavarsi leccandosi il pelo con meticolosità. Ritmicamente, ogni quattro leccate si passava una zampa dietro l’orecchio.
− Pusi! – farfugliò Trude con tutta la severità di cui era capace, allungandosi verso il gatto. – Vieni subito qui!
Sentí di aver perso il contatto con il pavimento. Se si fosse tenuta bene al telaio fra i due rettangoli inferiori di quella vecchia finestra divisa in quattro, sarebbe forse riuscita a stendere l’altro braccio abbastanza da afferrare il gatto per la collottola. Si aggrappò con le dita alla struttura in legno. Il vento gelido le soffiava sulle braccia nude, e Trude cominciò a battere i denti.
− Pusi! – fece in tempo a dire per un’ultima volta, poi perse l’equilibrio e cadde.
Dato che abitava al terzo piano e che quando era precipitata aveva toccato l’asfalto con la testa e con la spalla sinistra, era morta sul colpo. La polizia era stata avvisata immediatamente da un uomo che se ne stava alla finestra a fumarsi una sigaretta dalla parte opposta della strada. Considerando che quel tizio era stato in grado di raccontare l’accaduto e che la porta dell’appartamento vuoto di Trude era chiusa dall’interno con una catenella di sicurezza, non si trovò alcuna ragione per compiere ulteriori indagini. Si era trattato di un incidente. Un incidente fortuito.
Il 31 dicembre 2008, mezz’ora prima che i festeggiamenti per il nuovo anno avessero inizio, non era rimasta una sola persona al mondo che potesse offrire un pensiero a Runar Hansen. Era stato ucciso in un parco nella zona orientale della città il 19 novembre, a quarantun anni. Dopo la morte della sorella, di lui non restava nemmeno un vago ricordo annebbiato dalla droga.
E non c’era piú nessuno che si curasse nemmeno di Pusi, rimasto sul cornicione.
Synnøve Hessel carezzava la schiena al suo grassissimo gatto. Le si era accomodato in grembo e il cupo, brontolante mormorio di quando faceva le fusa si accompagnava in bassa frequenza al suo inspirare ed espirare. C’era qualcosa di rassicurante in quel suono e nella totale devozione di quel gatto che spingeva la testa verso le sue mani ogni volta che lei smetteva di coccolarlo.
− Sono molto contenta che tu mi abbia invitata, − disse.
− Ci mancherebbe, − disse la donna seduta all’altro capo del divano con una bottiglia di birra in mano. – Non avevo tanta voglia di festeggiare nemmeno io.
L’appartamento era ancora piú bello di come Marianne glielo aveva descritto nella loro ultima telefonata. Marianne era stata a casa di Tuva in Grefsenkollveien venerdí 19 dicembre nel pomeriggio. Erano ormai le otto di sera, e a Synnøve la compagna era parsa cosí impaziente di affrontare quel lungo viaggio che aveva cercato di nascondere la delusione perché non avrebbero festeggiato insieme il Natale. Non ci era riuscita completamente. Una nota pungente e fredda si era insinuata nei loro ultimi scambi di battute.
Le venne in mente che proprio quell’addio per telefono aveva reso meno strani i brevi e freddi Sms di Marianne. Per lo meno il primo che aveva ricevuto.
− Quindi hai controllato che sia arrivata in albergo? – le chiese Tuva per la terza volta in meno di un’ora.
− Sí. È arrivata, si è registrata alla reception e ha saldato il conto. E di lí si perdono le sue tracce.
Synnøve rabbrividí e fece scendere il gatto per terra.
− E di lí si perdono le sue tracce, − ripeté con una smorfia. – Sembrano le parole di un giallo.
Il soggiorno non era grande, ma la vista che le ampie finestre offrivano conferiva all’appartamento un tocco esclusivo. L’arredamento era tutto rivolto verso l’ampio balcone e, da dov’era, Synnøve poteva vedere l’intera città di Oslo. Si alzò.
− Andiamo a farci un giro? – le chiese Tuva.
− Adesso? Un’ora prima della mezzanotte?
Synnøve era in piedi accanto alla finestra. Dall’esterno quella palazzina verde le era sembrata terribile. Un gigantesco mattoncino Lego messo di traverso, appiccicato per tutta la sua altezza a una parete rocciosa che avevano fatto brillare. Solo quando era entrata nel soggiorno al decimo piano aveva capito l’infantile entusiasmo della compagna per l’appartamento nuovo.
Synnøve non aveva mai visto Oslo cosí bella.
Era tutta uno scintillio di luci. Come una decorazione natalizia creata dagli dèi, la città le si stendeva davanti circondata dai colli scuri e dal mare nero. Nel cielo le esplosioni dei fuochi artificiali si facevano sempre piú frequenti. Synnøve e Tuva avevano un posto in prima fila per lo spettacolo che sarebbe iniziato di lí a un’ora.
− Per me va bene, − le rispose Synnøve stringendosi nelle spalle.
Cinque minuti dopo stavano risalendo il Grefsenåsen. Il freddo pungeva il volto. Loro si erano imbacuccate bene, a differenza di tutti gli altri che andavano e venivano dalle feste in abiti eleganti e con le scarpe belle ai piedi. Una banda di ragazzini sui dodici, tredici anni si divertiva a lanciare petardi in mezzo a un gruppetto di donne che strillavano e zompettavano qua e là sui loro tacchi a spillo. Arrivò un uomo di una certa età con un vecchio labrador sovrappeso al guinzaglio e gliene disse di tutti i colori. Loro imprecarono e gridarono e tra le risate corsero giú per la scarpata, per poi scomparire all’interno di un cantiere chiuso arrampicandosi su una recinzione alta tre metri.
− È davvero stranissimo che non abbia prelevato soldi, − disse Tuva con il fiato grosso. – Ne sei sicura?
Synnøve rallentò. Dimenticava spesso di essere piú in forma di gran parte delle persone.
− Ho potuto controllare solamente il conto che abbiamo in comune. Oltre a quello, Marianne ha il bancomat di un conto solo suo. Devo riuscire a convincere quei maledetti della polizia a chiedere informazioni alla banca.
Si fermò.
«Non ha nessun senso», pensò.
Erano a un bivio. Tuva fece un cenno verso una strada deserta che si inerpicava fino in cima a Grefsenkollen. Synnøve restò immobile.
− È solo che sono sicurissima che sia morta, − bisbigliò.
Lacrime gelate le rigavano il volto.
− Questo non lo puoi sapere, − ribatté Tuva. – In fondo è scomparsa da una settimana! Ti ricordi com’eri disperata quella volta che se n’è andata in Francia senza farsi sentire per un sacco di tempo? Marianne è cosí…
− Morta! – gridò Synnøve. – Non mettertici anche tu! Quella volta era tutto diverso. Quella volta lei non voleva piú avere niente a che fare con me! Le cose sono diverse, adesso. Non puoi…
Tuva la abbracciò.
− Scusami. Cercavo solo di consolarti. Forse è meglio se non ne parliamo piú.
− Ma come non ne parliamo piú?!
Synnøve riprese a camminare. In fretta. A ogni passo aumentava l’andatura. Tuva la seguiva corricchiando.
− E di cosa dovremmo parlare? – urlò Synnøve. – Del tempo? Io voglio parlare di quella maledetta idiota della prozia che non ha nemmeno avvisato quando Marianne non è arrivata. Io voglio parlare di…
− Le hai telefonato?
Tuva aveva cominciato a correre sul serio per riuscire a starle dietro.
− Sí. Non avrebbe parlato con la madre di Marianne per nessuna ragione al mondo, e questo lo posso anche capire. Ma quella donna dev’essere proprio…
Si fermò di colpo. C’era un alce in mezzo alla strada.
− … una ritardata mentale, − sibilò. – Le ho chiesto…
− Sst!
L’alce era a non piú di venti, venticinque metri di distanza. Quando sbuffò, l’aria intorno al muso diventò grigia. Era una femmina, si accorse Synnøve, che quindi lanciò un’occhiata prudente al bosco da entrambi i lati per accertarsi che non ci fossero cuccioli nei dintorni. Non vide nulla, ma questo non significava necessariamente che l’alce fosse da sola.
− Fra l’altro ha un atteggiamento molto vigile, − bisbigliò. – Stai ferma immobile!
L’alce rimase a fissarle per quasi mezzo minuto. Teneva la testa alta e le orecchie puntate in avanti. Tuva non osava quasi respirare.
− Non ho mai visto un alce in carne e ossa prima d’ora, − bisbigliò in modo quasi impercettibile.
«Questo la dice lunga su quanto stai poco all’aperto», pensò Synnøve, poi di colpo si mise a gridare agitando le braccia. L’alce sobbalzò, si voltò e con ampi e aggraziati balzi scomparve nel bosco.
− Wow! – esclamò Tuva.
− Quella zia dev’essere proprio un’idiota, − disse Synnøve ricominciando a camminare. – Le ho chiesto perché non mi aveva avvisato e lei ha risposto che non sapeva il mio cognome.
− A dire il vero, mi sembra un buon motivo, − ribatté Tuva ad alta voce e sentendo che non ce la faceva piú a starle dietro aggiunse: − Aspettami, dài! Non andare cosí veloce!
Synnøve si fermò e si voltò.
− Per prima cosa, − disse togliendosi una muffola per poter alzare il pollice, − Marianne le aveva scritto che io faccio documentari. Secondo: le aveva detto che mi chiamo Synnøve. Terzo…
Sventolò le tre dita tese.
− Terzo: quella donna ce l’avrà la possibilità di usare Internet, da qualche parte! E allora le sarebbe bastato andare su Google e scrivere «Synnøve» e «documentari» per scoprire subito chi sono!
Tuva annuí, anche se nemmeno a lei sarebbe venuto in mente di farlo.
Continuarono a passeggiare in silenzio. Alle loro spalle i fuochi d’artificio si facevano sempre piú frequenti. Quando oltrepassarono il bivio per il laghetto di Trollvann, Tuva cominciò a domandarsi se avrebbe resistito ancora per molto. Aveva il fiatone e avrebbe certo preferito tornare indietro, ma continuò ad arrancare.
Finalmente arrivarono. Le finestre del ristorante su Grefsenkollen erano piacevolmente illuminate. Il parcheggio traboccava di automobili che probabilmente sarebbero rimaste lí fino a giorno inoltrato. Mentre Tuva e Synnøve si avvicinavano ecco uscire in massa dalla porta principale un folto gruppo di persone vestite a festa. La maggior parte di loro restò sull’ampia scalinata: brindavano a champagne e decantavano lo splendido panorama. Tre uomini barcollanti e con le braccia cariche di fuochi d’artificio girarono l’angolo per andare ad accenderli nel parcheggio.
− Qui, − ansimò Tuva raggiungendo il muretto che circondava il lastricato, come se ai piedi della scalinata ci fosse una terrazza, − qui è addirittura piú spettacolare che a casa mia!
Le sirene delle navi nel fiordo cominciarono a suonare. Alle spalle di Synnøve e di Tuva i clienti del ristorante gridavano il proprio entusiasmo per i fuochi d’artificio, per la festa, per il nuovo e immacolato anno che li aspettava. Il cielo era completamente illuminato. Sopra e davanti a loro era tutto un crepitare e scintillare, un continuo accavallarsi di suoni e fischi, grida e scoppi.
− Buon anno, − disse Tuva con circospezione, abbracciando Synnøve.
Lei non rispose. Si appoggiò al muretto, lo sguardo fisso sulla città in basso. Il 2009 era iniziato da appena una manciata di secondi e, se i sentimenti che la attraversavano in quel momento erano rappresentativi del nuovo anno, la aspettavano sicuramente dodici terribili mesi.
Quello che non sapeva, era che Marianne Kleive si trovava quasi esattamente a 8110 metri di distanza da lei. E se lo avesse saputo non sarebbe stata certo molto piú felice.
Per la prima volta nella sua vita Synnøve Hessel iniziò un nuovo anno piangendo.
Erik Lysgaard aveva promesso a Lukas che non avrebbe pianto.
− Papà. Papà!
Erik sobbalzò. All’inizio si era rifiutato con forza di andare a casa dal figlio, ma poi Lukas aveva minacciato di portare tutta la famiglia a Nubbebakken e organizzare lí una festicciola per i bambini e cosí lui aveva finito per accettare l’invito. Aveva promesso di non piangere. Non aveva promesso di aprire bocca.
Finalmente i bambini si erano addormentati. Astrid, la moglie di Lukas, era sulla porta del corridoio, in vestaglia. Sorrise pallida al suocero e sollevò la mano in un fiacco augurio di buona notte. La serata l’aveva messa a dura prova.
Lukas aveva un pigiama a strisce blu e un paio di consunte pantofole di feltro ai piedi nudi. Si accovacciò accanto alla poltrona del padre, ma non lo toccò.
− Dormi?
− Dormivo. Mi sono appisolato mentre voi vi preparavate per la notte.
− Adesso è ora di andare a letto anche per te. Ti ho sistemato la stanza degli ospiti.
− Preferisco restare qui, Lukas.
− No, papà. Cosí non va bene. Devi dormire in un letto.
− Questo a dire il vero lo decido io. Sto benissimo seduto qui.
Lukas si alzò.
− Ti comporti come se fossi tu l’unico a soffrire, − gli disse esausto. – Non ti riconosco piú. Sei… Sei davvero molto egoista. Non lo vedi che io sto male, non lo vedi che ai bambini manca la nonna, non lo vedi…
− Sí che lo vedo. Solo che non posso farci niente.
Lukas andava su e giú nel soggiorno semibuio. Soffiò su una candela rimasta accesa sul davanzale di una finestra. Raccolse un pupazzo dal pavimento e lo posò sulla libreria. Si mangiucchiò le unghie. Fuori il silenzio era assoluto. Sentí Astrid tirare l’acqua in bagno e poi il debole scricchiolio della porta della loro camera da letto che si chiudeva.
− Perché non hai mentito? – chiese all’improvviso.
Il padre alzò gli occhi.
− Mentito?
− Perché non ti sei inventato una storia sulla mamma che era uscita a passeggio, quella sera? Potevi dire che era uscita a prendere una boccata d’aria, per esempio. Che avevate litigato, a volte capita. Una cosa qualunque. Perché invece hai detto alla polizia che non erano affari loro?
− Perché è la verità. Se mi fossi inventato qualcosa avrei mentito. E io non mento. È importante per me non mentire. E tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro.
− Invece comportarsi da molluschi va bene, no? – Lukas allargò le braccia con fare rassegnato. − Papi, perché…
Si bloccò quando il padre di colpo si mise a fissarlo con quello che pareva un sorriso negli occhi.
− Non mi chiami papi da quando avevi dieci anni, − gli disse.
− Devo chiederti una cosa.
− Non avrai nessuna risposta. Dovresti averlo capito. Non ti racconterò che cosa ci faceva fuori la mamma…
− Non è quello, − disse rapido Lukas. – Si tratta di qualcos’altro.
Il padre non replicò, ma non distolse lo sguardo.
− Ho sempre avuto come la sensazione, − iniziò Lukas tentennante, − di dividere la mamma con qualcun altro.
− Noi dividevamo la mamma con Dio.
− Non è questo che intendo.
Per un attimo restò lí, in piedi, indeciso. Poi si sedette sul divano. Era molto soffice, e a chinarsi in avanti si stava scomodi. Allo stesso tempo, però, lui era cosí teso da non riuscire ad appoggiarsi tranquillamente ai cuscini. Alla fine si rialzò.
− Non è che ho un fratello o una sorella da qualche parte?
L’espressione del padre lo spaventò. Gli occhi si rabbuiarono, le labbra si tesero e rughe grosse e profonde circondarono la bocca, le sopracciglia si contrassero avvicinandosi. Le mani, che fino a quel momento aveva tenuto rilassate in grembo, si strinsero a pugno con una forza tale che le nocche sbiancarono.
− Questo da te non me lo aspettavo, − gli disse con una voce a lui sconosciuta.
− Ma io… Se tu e la mamma aveste… o se solo la mamma… Voglio dire, voi siete sempre stati insieme, e la cosa del bosco e di Gesú e…
− Chiudi la bocca!
Il padre si alzò. Questa volta non sollevò la mano per colpire. Restò immobile, con gli occhi che mandavano lampi e un tremolio quasi impercettibile al labbro inferiore.
− Chiedi a te stesso, − gli disse gelido. – Chiedi a te stesso se Eva Karin, tua madre, mia moglie, ha un figlio di cui non vuole saperne.
− Io lo chiedo a te, papà! E non ho mai detto che lei non volesse saperne…
Erik si scostò.
− Vado a dormire, − gli disse. Ma arrivato alla porta si girò e aggiunse: − E sappi che mai, mai risponderò a una domanda del genere. Chiedilo a te stesso, Lukas. Interroga te stesso!
Lukas rimase da solo in soggiorno.
− L’ho chiesto a te, − bisbigliò. – L’ho chiesto a te, papi.
Se solo lui avesse risposto di sí. Non potevi rispondere di sí e basta, e rendermi la vita infinitamente piú facile?!
Di andare a letto non se ne parlava proprio. Sapeva che non sarebbe riuscito a prendere sonno. Aveva fatto una domanda e si aspettava una risposta. Sperava in una risposta. Ogni pezzetto si sarebbe incastrato al posto giusto se solo suo padre avesse confermato che da qualche parte un figlio c’era. Un figlio di una certa età, piú grande di lui. Una spiegazione a tutto.
Suo padre però si era rifiutato.
È perché non vuoi mentire, papi?
Lukas si sdraiò sul divano senza togliersi le pantofole. Si gettò addosso una coperta di lana e la tirò su fino al mento, come faceva sua madre quando lui era piccolo. E lí rimase, senza dormire, fino allo spuntar del giorno. Un capodanno veramente nero.

Parte seconda

Gennaio 2009

Perseguitati

− Non so se sia stato corretto da parte mia informarti. A dire la verità non ci sono segni di effrazione e il preside non vorrebbe mettere di mezzo la polizia. È solo che io…
− Potresti raccontarmi, − la interruppe Johanne, poi tossí e disse: − Potresti raccontarmi di nuovo tutto dall’inizio?
Cercò una posizione comoda sulla sedia per smettere di agitarsi.
− Sí, dunque…
La vicepreside Live Smith si passò una mano tra i folti capelli grigi. Già quando l’aveva raggiunta nel corridoio della scuola e le aveva chiesto di seguirla nel suo ufficio non sembrava molto convinta di quel che stava facendo. Adesso era come se ne fosse pentita e volesse chiudere al piú presto la faccenda.
− Dal momento che in effetti siamo una scuola speciale, − disse con una certa esitazione, − per ogni bambino abbiamo una documentazione piuttosto consistente. Come ben sai, i nostri allievi presentano delle tipologie di disabilità anche molto diverse fra loro, e quindi per massimizzare l’offerta formativa del singolo…
− Conosco questa scuola e so che cosa offre, − la interruppe Johanne, − visto che mia figlia la frequenta.
La sua voce era quella di un’estranea. Dura e piatta. Tossí di nuovo e dovette prendere il bicchiere d’acqua che aveva davanti nonostante le tremassero le mani.
− Tutto bene?
Live Smith stava fissando la striscia d’acqua che colava sul maglione di Johanne.
Johanne posò il bicchiere.
− Ho solo la gola un po’ secca. Starò covando qualche malanno. Dimmi pure.
Si costrinse a un sorriso e fece un movimento rotatorio e impaziente con la mano. Live Smith si sistemò la giacca, si ravviò i capelli dietro le orecchie e disse risentita: − Sei stata tu a chiedermi di raccontarti di nuovo tutto dall’inizio.
− Sí, scusa, potresti semplicemente…
− Be’… per farla breve, quando sono venuta qui venerdí scorso, per organizzare la riapertura della scuola, ho avuto la sensazione che ci fosse entrato qualcuno.
Indicò l’ufficio con un gesto della mano. Era un locale spazioso con un archivio addossato a una delle pareti lunghe; su quella stessa parete c’era una porta che conduceva a una stanza piú piccola che si poteva chiudere a chiave. Per il resto i muri erano tappezzati di variopinti disegni fatti dai bambini e racchiusi dentro cornici dell’Ikea. Le tende erano di un rosso sgargiante a pois gialli e ondeggiavano lievi all’aria calda che saliva dal termosifone sotto la finestra.
− Ho avuto la sensazione di qualcosa di estraneo… C’era un… un odore diverso, forse… Anzi, no. Piuttosto, era come se ci fosse un’atmosfera diversa.
Sembrava imbarazzata. Sorrise prima di aggiungere: − Sai…
Johanne sapeva.
− Non che io creda nel soprannaturale, − disse Live Smith e sorrise di nuovo, sulla difensiva, − ma anche tu avrai provato quella sensazione come di…
− Non c’è niente di soprannaturale, − la interruppe Johanne. – Al contrario. È una delle capacità piú raffinate di cui siamo dotati. L’inconscio registra cose che noi non sempre riusciamo a far emergere. Potrebbe trattarsi di un oggetto che è stato spostato, per esempio. Oppure, come hai detto tu, è possibile che sia rimasto nell’aria un odore quasi impercettibile. Quanto piú abbiamo sperimentato, tanto piú le esperienze che abbiamo accumulato sono in grado di raccontarci quello che a prima vista non sappiamo definire. Alcune persone sono piú brave di altre a capire le proprie sensazioni.
Riuscí finalmente a bere un po’ di acqua.
− A volte loro stesse si definiscono chiaroveggenti, − aggiunse.
Il sarcasmo rallentò i battiti troppo rapidi del suo cuore.
− E poi questa cosa del fascicolo, − disse Live Smith.
Di nuovo un fugace sorriso ad accompagnare ogni frase, come se la vicepreside cercasse di sminuirsi. Di sminuire ciò che la preoccupava. Come se non bisognasse prenderla troppo sul serio. A Johanne in un’altra situazione sarebbero venuti i nervi per quella gestualità tipicamente femminile, ma al momento era tutta concentrata sul mantenere la voce ferma.
− Il fascicolo su Kristiane, − disse annuendo.
− Sí, il fascicolo è…
Live Smith inspirò e si bloccò, come in cerca dell’espressione meno grave da utilizzare. Sparito. Andato perduto. Rubato.
− … forse è stato solo scambiato di posto, − concluse infine.
Ma i suoi occhi dicevano tutt’altro.
− Come lo hai scoperto?
− Stavo prendendo un fascicolo diverso dallo stesso cassetto e mi sono accorta che non era chiuso a chiave. Il cassetto, voglio dire. Non che fosse forzato o cose del genere, semplicemente non era chiuso a chiave. Mi sono arrabbiata con me stessa, perché a quanto mi ricordavo ero stata io l’ultima a chiudere tutto a chiave prima delle vacanze di Natale. Ci sono anche dei dati riservati di carattere medico, e io…
Al sorriso questa volta seguí una leggera alzata di spalle.
Johanne non disse nulla.
− Dal momento che non c’erano segni di effrazione né sulla porta, né su armadio e cassetti, ho pensato che si trattasse di una mia dimenticanza. Per sicurezza ho controllato comunque che fosse tutto a posto. E lo era. Tutto tranne il…
− Tranne il fascicolo su Kristiane.
− Esatto.
Johanne sentí l’impulso quasi irresistibile di cancellare quel sorriso dalla faccia della vicepreside.
− Perché non volete fare denuncia alla polizia? – chiese invece.
− Il preside sostiene che non può esserci stata alcuna effrazione. Niente è stato rovinato. Non ci sono segni sulle porte, per lo meno non visibili a occhio nudo. Non è stato rubato nulla. Non che ci siano cose di grande valore in questa stanza, solo il computer, forse.
Rise. Una risatina forzata ad alta voce.
«E la mia bambina?» pensò Johanne. La vita di Kristiane, tutti i suoi esami, le diagnosi e le non-diagnosi, le cure mediche e gli errori, gli sviluppi e le devianze. L’intera vita di sua figlia era stata fiduciosamente registrata e raccolta in un fascicolo messo insieme nel corso di anni e che ora non c’era piú.
− A dire il vero i fascicoli dei bambini sono un tantino piú importanti del suo computer, − commentò Johanne.
Finalmente quel sorriso si spense.
− Ovvio, − disse Live Smith. – Anche per questo mi è sembrato giusto avvisarti. Forse però ha ragione il preside e si tratta di un mio errore. Vedrai che il fascicolo spunterà fuori oggi stesso. Ho solo pensato che… vista la sensazione che ho avuto, e dato che tu lavori in polizia…
− Io non lavoro in polizia. Sono assunta dall’Università.
− Sí, certo. È tuo marito che lavora in polizia, il padre di Kristiane.
Johanne non aveva voglia di rettificare un’altra volta. Si alzò dalla sedia e lanciò un’occhiata alla stanza sul retro adibita ad archivio.
− Hai fatto bene ad avvisarmi, − disse. – Potrei vedere l’archivio?
− L’archivio?
− L’archivio, sí.
− A dire il vero solo il preside e io possiamo… Come ti ho detto, abbiamo regole molto severe in fatto di…
− Voglio guardarlo e basta! Non toccherò nessun fascicolo!
La vicepreside si alzò. Senza una parola andò alla porta, scelse la chiave giusta dal grosso mazzo che aveva e aprí. Tastò la parete interna accanto allo stipite di sinistra. Sul soffitto un neon dalla luce intensa crepitò e lampeggiò per poi finalmente assestarsi su un costante ronzio ad alta frequenza.
− È quello lí, − disse succinta, indicando con un gesto della mano.
Due delle pareti erano completamente occupate da armadi, grigi armadi metallici smaltati con ante. Johanne osservò quello che la vicepreside le aveva indicato. La serratura sembrava piuttosto robusta. Lei si avvicinò ancor di piú, sbirciò da sopra gli occhiali.
− C’è un piccolo graffio, qui, − disse dopo qualche secondo. – È nuovo?
− Un graffio? Fammi vedere.
Insieme si misero a studiare la serratura.
− Io non vedo niente, – disse Live Smith.
− Qui, − insistette Johanne, puntandoci sopra una penna. – Un po’ di traverso. Vedi?
Live Smith si chinò in avanti. Quando strizzava gli occhi il labbro superiore si contraeva facendola somigliare a un topolino zelante.
− No…
− Ma sí, qui.
− Io non vedo niente!
Johanne sospirò e si raddrizzò.
− Potresti aprirlo, per favore? – le chiese.
Questa volta Live Smith cedette senza alcuna discussione. Il grosso mazzo di chiavi tintinnò di nuovo e qualche secondo dopo l’anta si aprí. L’interno era suddiviso in sei cassetti, ognuno dotato di una propria chiave e serratura.
− Questo è il cassetto in cui era conservato il fascicolo di Kristiane, − disse la vicepreside indicando quello piú in alto.
Pur con tutta la sua buona volontà, Johanne non riuscí a scovare alcuna traccia di effrazione. Osservò quella piccola serratura da ogni lato. L’armadio era vecchio, sí, con qualche graffio sullo smalto qua e là, ma la serratura sembrava intatta.
− Grazie, − mormorò.
Live Smith richiuse a chiave.
− Ecco, − disse sollevata. – Mi dispiace davvero tanto averti allarmata senza motivo.
− No, no, − ribatté Johanne con un sorriso forzato. – L’ho detto e lo ripeto, è sempre meglio essere previdenti. Grazie.
Aveva ormai raggiunto la porta quando si rese conto di avere ancora addosso il giaccone. Sentiva molto caldo, stava quasi sudando.
− Avvisami se il fascicolo salta fuori, − le disse.
− Quando salterà fuori, − la corresse con una risata la vicepreside. – Naturalmente. Fra l’altro, volevo anche dirti che è davvero una gioia vedere i grandi progressi di Kristiane.
Fu come se quella donna di mezza età fosse andata incontro a un cambiamento di personalità. Niente piú sorrisi sciocchi. E le mani, che fino a quel momento avevano giocherellato nervosamente con i capelli ravviandoli dietro le orecchie, rimasero tranquille, posate in grembo quando si sedette. Johanne restò in piedi.
− È una ragazza affascinante, − proseguí Live Smith. – Come ne abbiamo tante qui, certo, ma la cosa davvero speciale di Kristiane è l’imprevedibilità nella sua grande prevedibilità. Abbiamo avuto molti autistici in questa scuola, ma…
− Kristiane non è autistica, − disse rapida Johanne.
Live Smith si strinse nelle spalle.
Ma non sorrise.
− Autistici, afflitti da sindrome di Asperger o semplicemente… speciali. Ha ben poca importanza come si decide di chiamarli. Quello che volevo dire è che siamo molto felici di averla qui. Ha una straordinaria capacità di apprendimento, non semplicemente di memorizzazione. Riesce a fare delle domande che lí per lí sembrano le piú impensabili, ma che poi, però, valutate in base alle premesse che lei stessa ha posto, risultano di una logica impressionante.
E questa volta il suo fu un sorriso autentico. Rise addirittura, una risata gioiosa e trillante che Johanne non le aveva mai sentito fare. Per saperne cosí poco della famiglia, quella donna conosceva Kristiane benissimo.
− Ma tu tutto questo lo sai già. Volevo semplicemente farti capire che non sono solo gli insegnanti che lavorano piú a stretto contatto con tua figlia a essersi affezionati a lei. Tutti noi siamo contenti di prenderci cura di Kristiane e impariamo da lei qualcosa di nuovo ogni giorno.
Johanne si sistemò la sciarpa. Quando si passò la lingua sul labbro superiore sentí sapore di sale.
− Grazie, − disse in tono pacato.
− Sono io che dovrei ringraziare. Ho il piú bel lavoro possibile e immaginabile, e sono i ragazzi come tua figlia a farmi sentire grata per ogni giorno che passo qui a scuola. Sono cosí tanti i nostri bambini che incontrano ostacoli ovunque. Capita che facciano tre passi avanti e due indietro. Ma non Kristiane.
− Devo andare, − disse Johanne.
− Ma certo. Conosci la strada, vero?
Johanne annuí e aprí la porta. Quando se la richiuse alle spalle, sentí un odore di sapone in pasta stuzzicarle le narici. Percorse a passo rapido il lungo corridoio, con gli stivaletti che ticchettavano sul linoleum appena lucidato. Quando finalmente raggiunse le grandi porte a vetro dell’ingresso, non le sembrò vero di poterle spalancare.
Il freddo dell’inverno la investí, adesso riusciva a respirare meglio.
Rallentò e cacciò le mani nelle tasche del giaccone. Come al solito Kristiane aveva insistito per parcheggiare a qualche centinaio di metri dal cortile della scuola, in modo da poter fare a piedi esattamente lo stesso percorso di sempre.
L’atteso cambiamento atmosferico era arrivato.
Il freddo secco e prolungato aveva indurito il suolo preparandolo all’arrivo dei fiocchi di neve asciutta e leggera che adesso stavano imbiancando l’intera regione dell’Østlandet. Negli ultimi giorni delle vacanze scolastiche, le piste da sci nei polmoni verdi che la capitale aveva ancora i mezzi per mantenere erano tutte un brulicare di ragazzi e genitori coi figli piccoli. Sulle piste da slittino veniva sparata ogni giorno neve farinosa. I campi da calcio, coperti di ghiaccio, erano attraversati in lungo e in largo da grandi e piccini muniti di badili e vanghe. Non era solo la città a essere diventata piú luminosa grazie al suo manto bianco, era come se tutti i suoi abitanti avessero tirato un collettivo sospiro di sollievo vedendo che la natura presentava il certificato di avvenuta guarigione. Almeno per la stagione in corso.
Johanne si avvolse meglio la sciarpa intorno al collo per proteggersi dalla neve e cercò di pensare in modo razionale.
Con grande probabilità il fascicolo era semplicemente finito nel posto sbagliato.
Solo che lei non riusciva a crederci.
– Merda, − borbottò. – Merda merda merda.
Non capiva perché si sentisse cosí inquieta. Sí, lei era piú o meno sempre preoccupata per Kristiane, ma questa volta stava davvero esagerando.
Scambiato di posto, aveva detto Live Smith.
Accelerò.
Una nuova e spaventosa angoscia la attanagliava. L’aveva assalita per la prima volta quando aveva visto quell’uomo al di là della staccionata del loro giardino. L’uomo che loro non sapevano chi fosse, ma che chiamava Kristiane per nome. L’unica certezza riguardo alla costante inquietudine che l’aveva tormentata da quel momento in poi era non avere nessuno con cui condividerla. Isak trattava Kristiane come se fosse una bambina forte e normale e spazzava via con una risata qualunque preoccupazione. Yngvar aveva sempre consolato Johanne in precedenza, per lo meno nei momenti peggiori. Adesso però era diventato meno paziente. L’espressione rassegnata che gli si dipingeva in viso ogni volta che lei accennava al fatto che qualcosa nella figlia non era come avrebbe dovuto la spingeva sempre piú spesso a tacere. Aveva letto troppo, questo si diceva per tranquillizzarsi. Tutte le conoscenze che aveva acquisito nel corso degli anni trascorsi con Kristiane si erano trasformate in un fardello. Se Ragnhild sapeva già che gli sconosciuti potevano rappresentare un pericolo, Kristiane da questo punto di vista era spesso totalmente incapace di discriminare. Sarebbe stata in grado di andarsene con chiunque.
Maniaci sessuali.
Ladri di organi.
Johanne non doveva pensarci. C’era sempre qualcuno a prendersi cura di Kristiane, sempre.
Era quasi arrivata alla macchina. Non era trascorsa neanche un’ora da quando aveva parcheggiato, eppure l’auto era completamente ricoperta di neve. Oltretutto era anche passato uno spazzaneve che ne aveva lasciato un cumulo alto un metro fra la vecchia Golf e un’angusta strada a senso unico.
Johanne si fermò. Non aveva la vanga nel bagagliaio. E aveva anche dimenticato i guanti nell’ufficio della vicepreside.
Per la prima volta osò formulare il pensiero che l’ossessionava: qualcuno li teneva d’occhio.
Anzi, non li teneva d’occhio, ma la teneva d’occhio.
Kristiane.
La famiglia Vik Stubø non aveva mai avuto tende alle finestre del soggiorno. Poter essere visti dalla strada non li imbarazzava, e senza tende la stanza era molto piú luminosa. Negli ultimi giorni, però, lei aveva cominciato a chiedersi come sarebbe stato avere un tessuto leggero davanti ai vetri. Una protezione dagli sguardi di chi si muoveva fuori, da coloro che lei non conosceva ma che c’erano. La sua parte razionale sapeva che un uomo al di là della staccionata di un giardino, un tizio gentile in un negozio di peluche e un fascicolo scolastico andato smarrito non costituivano affatto una persecuzione. Il suo intuito però le diceva tutt’altro.
Furiosa, a mani nude, cominciò a spazzare via la neve dall’automobile. Le dita si intorpidirono quasi subito, ma non si fermò prima di aver liberato tutta la macchina. Poi cominciò a demolire a pedate il mucchio compatto lasciato dallo spazzaneve. Le bruciavano le dita dei piedi e le dolevano le anche quando decise che sarebbe bastato per uscire dal parcheggio.
Si accomodò sul sedile anteriore, infilò la chiave nel quadro di accensione e la girò. Andò anche troppo su di giri e si immise nella carreggiata, schiacciando la neve che non aveva spazzato via. Cambiò marcia e proseguí al doppio della velocità consentita. Arrivata al primo incrocio si rese conto di quello che stava facendo e frenò di colpo, appena in tempo per evitare la collisione con un furgone proveniente dalla sua destra.
Per un poco restò lí, china in avanti, le mani posate sul volante. L’adrenalina rese limpidi i suoi pensieri e in uno sprazzo vide l’assurdità di credere che qualcuno potesse avere interesse a tenere d’occhio una strana quattordicenne del quartiere di Tåsen.
Non appena rimise in moto, si sentí inquieta esattamente come prima.
− Non preoccuparti che da fare ce n’è, − disse con un sorrisetto compiaciuto la segretaria all’avvocato Kristen Faber, porgendogli un fascicolo. − Se un cliente non si presenta rimane un po’ di tempo libero per altre cose. Sistemare il mucchio di scartoffie sulla tua scrivania, per esempio. C’è un caos pazzesco in quella stanza.
L’avvocato afferrò il fascicolo e lo aprí mentre raggiungeva la porta del suo ufficio. Tutt’intorno alla segretaria rimase sospeso un odore di corpo non lavato, dopobarba e alcol non smaltito. Lei aprí un cassetto e ne tirò fuori un deodorante per ambienti: il puzzo di vecchia sbornia si mescolò a un intenso profumo di mughetto. La segretaria annusò l’aria e fece una smorfia, poi rimise a posto il deodorante.
− Non ha neanche telefonato? – gridò l’avvocato Faber prima che un accesso di tosse neutralizzasse un’eventuale risposta.
A quel punto la segretaria si alzò, prese una tazza di caffè fumante dal basso mobile archivio alle sue spalle e andò dal suo principale.
− No, − rispose quando lui ebbe finalmente smesso di sputare catarro in un cestino per la carta straboccante. – Avrà avuto qualche impedimento. Ecco qui. Bevi.
Kristen Faber prese la tazza e ci mancò poco che non rovesciasse il caffè.
− Questa paura di volare è davvero tremenda, − borbottò. – Ho dovuto ingollare superalcolici da Barbados a qui. Vada a farsi fottere, Barbados!
La segretaria, una cortese e minuta donna sui sessanta, non stentava a immaginare che ci fosse andato anche lui a fottere, oltre a Barbados. E sapeva che non era stato solamente in viaggio che l’avvocato aveva bevuto.
Lavorava per lui da quasi nove anni. Nello studio c’erano solo loro due, oltre a un procuratore legale part time. Sulla carta dividevano gli uffici con altri tre avvocati, ma i locali erano dislocati in modo tale che potevano passare anche giorni interi senza che lei vedesse anima viva. L’avvocato Faber aveva un ingresso proprio, una sala d’attesa sua e un bagno che non condivideva con nessuno. E dal momento che lo studio era grande le capitava raramente di dover rifornire d’acqua e caffè la capiente sala riunioni che avevano in comune.
Due volte all’anno, in luglio e a Natale, l’avvocato Kristen Faber mollava tutto. Insieme a un gruppo di vecchi compagni di studio, tutti maschi, separati e danarosi, raggiungeva lussuose mete di viaggio dove si comportava come se avesse ancora venticinque anni. A parte i soldi, naturalmente. Tornava sempre esausto e gli ci voleva una settimana per rimettersi in forma, ma non toccava piú un goccio d’alcol fino al successivo viaggio con gli amici. La segretaria era convinta che soffrisse di una strana forma di alcolismo, con cui era comunque possibile convivere, almeno per quanto la riguardava.
− L’aereo è arrivato puntuale? – chiese, tanto per dire qualcosa.
− No. Siamo atterrati a Gardermoen due ore fa, e se non fosse stato per questo appuntamento sarei riuscito a passare da casa per farmi una doccia e cambiarmi. Maledizione!
Schioccò le labbra dopo aver bevuto il caffè forte.
− Me ne dài un’altra tazza, per favore? E credo anche che sia meglio annullare l’appuntamento delle due. Devo proprio…
Sollevò un braccio e cacciò il naso sotto l’ascella. Un alone salato di sudore formava una sorta di cerchio chiaro sulla stoffa scura del vestito. Faber allontanò la faccia con un sobbalzo.
− Bleah! Devo proprio andarmene a casa!
− Come vuoi, − rispose la segretaria con un sorriso. – Hai un altro appuntamento alle tre. Fai in tempo a tornare per quello?
− Sí.
L’avvocato gettò un’occhiata all’orologio che aveva al polso, esitò per un attimo.
− Anzi, sposta l’appuntamento delle due alle due e mezza, il cliente delle tre aspetterà un po’.
La segretaria andò a prendere un altro caffè e gli portò anche una ciotolina di cioccolatini, ma lui stava già scartabellando fra i documenti e non la ringraziò nemmeno.
− Maledizione, − borbottò scorrendo con gli occhi il contenuto del sottile fascicolo. – Dopo che aveva tanto insistito per avere un appuntamento appena fossi rientrato.
La segretaria tornò al proprio lavoro senza commentare.
Un feroce mal di testa tormentava l’avvocato. Si mise pollice e indice sugli occhi e premette, ma non serví a nulla. Non serví neppure il caffè, anzi: in combinazione con l’alcol, gli aumentò il battito cardiaco.
Il contenitore delle pratiche in corso tracimava, tanto che, quando ve lo appoggiò in cima, l’ennesimo fascicolo scivolò e cadde sul pavimento. Irritato, Faber si alzò e lo raccolse. Ci pensò su un attimo, poi aprí un cassetto e vi infilò dentro il documento, richiuse il cassetto sbattendolo e uscí.
− Senti, devo telefonare a questo… – la segretaria sbirciò, al di sopra delle lenti a mezzaluna, l’agenda degli appuntamenti, − Niclas Winter? − completò. – Per prendere un altro appuntamento, voglio dire. Come ricordavi tu, questo signore ha insistito parecchio per…
− No. Aspetta che sia lui a chiamarci. Ho molto da fare in settimana. Che si assuma le sue responsabilità, visto che nemmeno si è preso la briga di avvisarci che non sarebbe venuto.
Afferrò la pesante valigia con cui era arrivato e se ne andò senza chiudersi la porta alle spalle. Non aveva speso nemmeno una parola per informarsi su come fossero andate le vacanze di Natale della segretaria, che aveva festeggiato in Thailandia con figli e nipoti. Lei rimase ad ascoltare i passi di Faber per le scale. La valigia sbatteva a ogni gradino. Dal rumore si sarebbe detto che l’avvocato avesse una gamba di legno e zoppicasse.
Poi finalmente scese il silenzio.
La neve che cadeva fitta attutiva ogni rumore. Era come se la pace dei giorni di festa aleggiasse ancora sul quartiere. Rolf Slettan aveva deciso di tornare a casa a piedi dal lavoro, anche se ci voleva un’ora e mezza dalla clinica veterinaria a Skøyen fino a casa loro a Holmenkollåsen. I marciapiedi erano coperti da un metro circa di neve fresca e l’ultimo paio di chilometri aveva dovuto percorrerlo camminando nella stretta striscia di asfalto liberata dallo spazzaneve al centro della via. Le rare automobili che di tanto in tanto passavano slittando lo costringevano ogni volta ad arrampicarsi sui cumuli ancora candidi che fiancheggiavano la strada. Aveva il fiatone ed era sudato fradicio. Ma dopo l’ultima curva si mise a correre.
Da quella distanza la casa sembrava una scena tratta da un film nazista. La neve bianca sopra il portale sporgeva da entrambi i lati, coprendo in parte il motto «Casa dolce casa» inciso a caratteri grossolani. Enormi cumuli di neve si erano depositati in tutto il cortile, che fra qualche ora avrebbe avuto bisogno di un’ulteriore ripulita.
Si fermò nella piazzola davanti al portale.
Marcus non poteva essere già tornato. Uno strato di neve intatta, spesso una decina di centimetri, testimoniava che da un pezzo nessuno passava di lí. Lillemarcus era da un compagno di scuola e non sarebbe rientrato prima delle otto. La casa era silenziosa e buia, ma le numerose lampade da esterno in ferro battuto erano piacevolmente illuminate e facevano risplendere la neve. Il tetto coperto di torba era scomparso sotto la coltre bianca. Era come se le due teste di drago che sporgevano pesanti alle estremità potessero librarsi da un momento all’altro e volare via sulle loro nuove ali candide.
Rolf si stava spazzando via la neve dai pantaloni quando l’impronta di uno pneumatico attirò la sua attenzione. Un veicolo aveva svoltato e si era fermato nella piazzola davanti al portale, lasciando un profondo solco a forma di arco. Non poteva essere successo da molto. Rolf si accovacciò e si accorse che si intravedeva ancora il disegno del battistrada. Pensò che si trattasse di qualcuno che aveva accostato per invertire la marcia. Si alzò e seguí con gli occhi le tracce dei copertoni che si allontanavano per poi reimmettersi nella via.
Strano.
Fece qualche passo, con prudenza, per non rovinare le impronte che, di colpo, si fecero meno nitide; dopo un altro mezzo metro diventarono quasi invisibili, riducendosi a un vago accenno che proseguiva fino in strada.
Rolf si voltò e si mise a seguirle dalla parte opposta. Erano ben visibili, come quelle nella piazzola. Con una inquietudine che non sapeva spiegarsi bene nemmeno lui tornò fin dove le tracce avevano inizio e le seguí cautamente fino alla piccola piazzola e da lí in avanti fino al punto in cui si mescolavano con i solchi che altri pneumatici avevano scavato sulla via. Non c’erano cumuli di neve lasciati dagli spazzaneve a separare la strada dalla loro proprietà. Rolf e Marcus avevano affidato quel compito a una ditta che due volte al giorno mandava un trattore. E il trattore, verosimilmente, era passato subito dopo lo spazzaneve.
Non riusciva nemmeno lui a capire esattamente che cosa stesse cercando. All’improvviso si rese conto che il veicolo in questione doveva essersi fermato. Doveva essere stato lí per un pezzo, anche se era vero che aveva nevicato a lungo. La differenza di profondità fra le impronte era notevole. Dalla larghezza del battistrada ne dedusse che doveva trattarsi di un’automobile. Di certo non di un furgone, né di un mezzo ancora piú grande. Mentre risaliva la strada, probabilmente l’automobile aveva accostato e si era trattenuta nella piazzola per un po’. La neve cadendo si era accumulata dietro le ruote posteriori, mentre le tracce al riparo della macchina erano rimaste ben piú visibili rispetto a quelle arretrate.
Tutt’a un tratto Rolf udí il rumore di un motore che si accendeva. Alzò gli occhi e si girò giusto in tempo per vedere una macchina piú in su, all’altezza della fermata dell’autobus dove la via curvava verso est, che si scostava dal ciglio della strada e si immetteva sulla carreggiata. La neve che cadeva e la luce fioca del crepuscolo gli impedivano di leggere la targa. D’istinto si mise a correre, ma prima che avesse percorso quei cinquanta metri l’automobile era già sparita. Scese di nuovo il silenzio. L’unica cosa che si sentiva era il respiro di Rolf che, piegato sui talloni, scrutava le impronte. Fiocchi leggeri di neve danzavano nell’aria e scendevano a posarsi sul disegno di quel battistrada che gli era familiare. Rolf tirò subito fuori il cellulare, attivò la macchina fotografica e scattò. Era cosí buio che il flash si azionò in automatico.
− Pezzi di merda, − mormorò. Poi tornò indietro di corsa, con il telefono stretto in mano.
La tranquilla strada secondaria che si inerpicava verso la cintura boschiva intorno a Oslo non era certo un’arteria di passaggio. I terreni adiacenti alle abitazioni erano molto ampi, e le ricche case della zona sorgevano sparse qua e là, ben lontane da sguardi indiscreti. Nell’ultimo periodo l’area era stata oggetto di un’ondata di furti con scasso. Tre vicini erano stati ripuliti ben bene nel periodo natalizio, mentre si trovavano in vacanza, nonostante gli allarmi e i controlli delle società di vigilanza. Secondo la polizia, si trattava di professionisti. Quattro settimane prima la famiglia che abitava in fondo alla strada era stata vittima di una rapina. Tre uomini si erano introdotti in casa in piena notte e avevano preso il padre in ostaggio, costringendo il figlio, un ragazzo di diciannove anni, a seguirli fino a Majorstua per prelevare tutto il possibile dai quattro bancomat e dalle tre carte di credito che si erano procurati minacciando e sparando contro una preziosa opera d’arte.
Le tracce nelle vicinanze del portale erano ancora ben visibili. Rolf Slettan cercò di tenere il cellulare alla stessa distanza dal suolo e scattò un’altra fotografia. Le avrebbe scaricate sul computer e ingrandite per confrontarle. Nel momento in cui si cacciò in tasca il telefonino, si accorse di un mozzicone di sigaretta. Prima probabilmente era nascosto dalla neve, e adesso era tornato visibile in una delle orme lasciate dai suoi stivali. Si chinò e cominciò a raschiare con grande cautela la neve all’interno dell’impronta. Saltò fuori un secondo mozzicone. Poi un terzo. Quando osservò il primo alla luce di uno smorto lampione, non notò nulla di particolare. Nemmeno la marca era leggibile.
Tre sigarette. Rolf aveva smesso da molti anni, ma ricordava ancora che per fumarne una ci volevano all’incirca sette minuti. Sette per tre ventuno. Nel caso in cui il guidatore si fosse acceso una sigaretta dopo l’altra sarebbe rimasto lí per quasi mezz’ora.
Secondo la polizia si trattava di malfattori provenienti dall’Europa dell’Est. I giornali avevano allertato la popolazione a tenere gli occhi aperti: a quanto pareva, infatti, la banda o le bande si informavano dettagliatamente prima di colpire. I mozziconi potevano valere come prova.
Rolf li infilò con cura in uno dei sacchetti neri di plastica che portava sempre con sé per raccogliere gli escrementi canini. Poi se lo mise in tasca e si incamminò verso casa.
Avrebbe telefonato subito alla polizia.
Il cellulare si era spento senza alcun motivo. Forse erano state le bambine. A ogni modo non aveva ricevuto il messaggio di Yngvar. Al rumore dei passi sulle scale si irrigidí, poi sentí quella voce familiare: − Sono io, sono tornato!
− Lo vedo, − ribatté Johanne con un sorriso e gli accarezzò una guancia quando lui la baciò. – Ma non dovevi andare a Bergen?
− Sono andato a Bergen, ma visto che c’è tutta una serie di cose su cui posso lavorare anche da qui, ho preso il volo del pomeriggio e sono tornato. Mi fermo per tutta la settimana, credo.
− Che bello! Hai fame?
− Ho già mangiato. Non hai ricevuto il mio messaggio?
− No. Il cellulare ha qualcosa che non va.
Yngvar si sfilò la cravatta dopo aver armeggiato con il nodo cosí a lungo che alla fine Johanne si era offerta di aiutarlo.
− Dovrebbero sparare al tizio che ha inventato questo stupido accessorio, − borbottò lui. – E questa che roba è?
Corrugò la fronte e con il capo accennò alle pile di documenti e libri, riviste e fogli sparsi sul divano e che ricoprivano quasi per intero il tavolino da salotto. Johanne sedeva là in mezzo nella posizione del loto, con gli occhiali sul naso e un boccale da birra pieno di tè fumante in mano.
− Mi avvicino all’odio, − rispose lei con un sorriso. – Sto studiando l’odio.
− Dio mio, − gemette lui. – Come se non ne avessi abbastanza di cose del genere, visto il lavoro che faccio. Che cosa stai bevendo?
− Tè. Due parti di Lady Grey, una parte di China Pu-Erh. Ce n’è ancora nel thermos in cucina, se ne vuoi un po’.
Yngvar si tolse le scarpe senza usare le mani e andò a prendere una tazza.
Johanne chiuse gli occhi. L’inspiegabile inquietudine che l’aveva assalita era ancora lí, dentro di lei, ma trascorrere un rumoroso pomeriggio con le bambine le era stato d’aiuto. Ragnhild, che avrebbe compiuto cinque anni il 21 gennaio e quasi non parlava d’altro, aveva organizzato le prove generali del compleanno per tutti i suoi orsacchiotti e le sue bambole. A cena Johanne e Kristiane avevano mangiato con in testa un berretto che Ragnhild aveva preparato appiccicando adesivi di Hannah Montana su due paia delle sue mutandine. Kristiane aveva tenuto una lunga conferenza sulla rivoluzione dei pianeti intorno al Sole e concluso il tutto dichiarando che lei da grande avrebbe fatto l’astronauta. Dal momento che il concetto di tempo di Kristiane poteva essere un tantino ostico e che raramente le capitava di interessarsi a qualcosa per piú di due o tre giorni consecutivi, Johanne presa dall’entusiasmo aveva tirato fuori tutti i libri di quando era piccola e nutriva lo stesso identico sogno.
Una volta messe a letto le bambine, l’inquietudine era tornata.
Per tenerla in scacco aveva deciso di lavorare.
− Racconta, dài, − le disse Yngvar mentre si accomodava in poltrona.
Teneva la tazza a pochi centimetri dal mento, lasciando che il vapore gli si posasse sulla pelle come una maschera idratante.
− Che cosa?
− Dell’odio.
− Ne sai sicuramente piú tu di me.
− Su, non scherzare. Mi interessa davvero. Che cosa fai?
Johanne bevve un sorso dal boccale. La miscela di tè era rinfrescante e leggera, con un odore asprigno.
− Pensavo, − rispose adagio, poi fece una breve pausa. – Pensavo di avvicinarmi al concetto di odio dall’esterno. Di esaminarlo anche dall’interno, ovviamente, ma credo che per dire qualcosa di sensato sui crimini d’odio e su chi li commette sia necessario approfondire il concetto di odio. Con tutti questi soldi che improvvisamente si sono riversati su di noi…
Sollevò lo sguardo, come se stesse visualizzando i propri pensieri.
− … forse potrei coinvolgere la ragazza di cui ti ho parlato.
− Quale ragazza?
− Charlotte Holm. Studiosa di Storia delle idee. Te l’ho raccontato che ha scritto… – si diede una rapida occhiata intorno, poi tirò fuori un libriccino e lo sollevò.
− Amore e odio: un’analisi dal punto di vista della storia delle idee, − lesse lentamente Yngvar.
− Interessante, − commentò lei, e posò il libriccino. – Ho parlato con l’autrice ed è probabile che inizierà a collaborare con noi già da febbraio.
− Per cui in quanti sareste, inclusa lei? – chiese Yngvar con la fronte aggrottata, come se il pensiero che un gruppo di ricercatori potesse usare i soldi dei contribuenti per immergersi nell’odio lo rendesse profondamente scettico.
− Quattro. Forse. Sarà divertente. Ho sempre lavorato piú o meno da sola, finora. E tutto questo…
Sollevò un foglio con una mano e con l’altra descrisse un arco come ad abbracciare le scartoffie che la circondavano.
− È tutto odio legale. L’odio verbale protetto dalla libertà di espressione. Dal momento che le ragioni dell’odio espresso nei confronti delle minoranze di solito coincidono ad arte con i moventi di quella che senza dubbio si configura come criminalità d’odio, ritengo interessante esaminare i punti di contatto. Capire dov’è il confine.
− Il confine?
− Quali affermazioni si possono considerare come libertà di espressione e fino a che punto.
− Credo quasi tutte.
−Sí. Purtroppo.
− Purtroppo? Dovremmo ringraziare di poter dire quello che ci pare e piace, in questo Paese!
− Certo. Ma ascolta un attimo…
Johanne raccolse meglio le gambe sotto di sé. Yngvar la guardava. Quand’era arrivato a casa aveva piú che altro una gran voglia di tuffarsi a letto, nonostante non fossero nemmeno le dieci. Era estenuato da una giornata troppo lunga e troppo improduttiva, ma adesso non sentiva alcun bisogno di dormire. Con il passare degli anni lui e Johanne avevano finito per sviluppare un modello di convivenza in cui quasi tutto ruotava intorno al lavoro di lui, alle preoccupazioni di lei e alle bambine. Quando l’aveva vista cosí, immersa in un mare di carte, e non l’aveva sentita nominare le figlie neanche una volta, si era ricordato in un lampo di essere innamorato pazzo di lei.
− La libertà di espressione è molto ampia, − disse Johanne cercando un articolo in quel caos. – E cosí dev’essere. Ma com’è noto ha una serie di limitazioni. La piú interessante è quella contenuta nel paragrafo 135a del codice penale. Senza stare ad annoiarti con troppa giurisprudenza, volevo solo…
− Non mi annoi. Mai.
− Oh, sí.
− Non adesso, per lo meno.
Un fugace sorriso, poi lei proseguí: − Alcuni, pochi, sono stati condannati per aver violato la legge. Pochissimi. La questione controversa, o forse dovrei parlare piuttosto di una questione di priorità, va considerata in rapporto alla libertà di espressione. E a giudicare dalle carte che mi circondano… – allargò le braccia rassegnata prima di riuscire finalmente a trovare il libro che stava cercando, − è proprio la libertà di espressione a predominare. Punto.
− È ovvio, − disse Yngvar. – Per fortuna. In fondo siamo una società moderna.
− Ma che moderna e moderna. Mi sono immersa in tutto quello che questi omofobi idioti hanno detto negli ultimi…
− Non è che siano proprio scientifiche, le tue osservazioni.
Lei si interruppe, espirò a fondo e incrociò le mani dietro la nuca.
− In questo esatto istante neanch’io mi sento molto scientifica. Sono stanca. Rassegnata. Perché la definizione di crimine d’odio risulti appropriata non basta che il colpevole odi la vittima in quanto individuo. L’odio dev’essere rivolto contro la vittima in quanto rappresentante di un gruppo. E se c’è qualcosa che mi riesce davvero difficile concepire è l’odio nei confronti di un gruppo in una società come quella norvegese. A Gaza sí, posso capirlo. A Kabul. Ma qui? Nella sicura e socialdemocratica Norvegia?
Si riempí la bocca di tè e aspettò qualche secondo prima di inghiottirlo.
− Ho passato due mesi a leggermi e rileggermi le dichiarazioni pubbliche su musulmani, neri e altre minoranze etnico-culturali. È «pensiero di gruppo» del peggior tipo. Tutta una contrapposizione continua fra «noi» e «loro».
Le sue dita mimavano le virgolette.
− Alle fine mi è venuta la nausea. La nausea, Yngvar! Non so come faccia una normalissima madre musulmana norvegese, o perché no un padre, a dormire sonni tranquilli. E chissà come si sentono la sera, quando preparano i bambini e li mettono a letto e gli leggono la storia della buona notte, conoscendo le schifezze che la gente dice e scrive su di loro, le opinioni che circolano su di loro, i sentimenti…
Socchiuse gli occhi e si tolse gli occhiali.
− È come se fosse diventato tutto legale, − disse. – E quasi tutto dovrebbe esserlo, chiaro. La libertà politica di espressione in Norvegia rasenta l’assoluto. La cultura dell’espressione, invece…
Alitò sulle lenti e le pulí con un lembo della camicia.
− Mi dispiace, − disse con un sorriso a labbra strette. – È solo che sarei preoccupata a morte, io, se sapessi di appartenere a una minoranza malvista e avessi dei figli.
Yngvar rise sommessamente.
− In questo senso, di sicuro avresti molto da imparare. Sulle preoccupazioni per i figli, intendo. Ma…
Si alzò e spinse la tazza di tè dal lato opposto del tavolino. Raccolse i libri e i fogli che si trovavano vicino a Johanne e li spostò all’estremità del divano, poi si sedette accanto a lei. La cinse con un braccio. La baciò sui capelli, che odoravano di pancake.
− Ma questo che cosa c’entra con i crimini d’odio? – le chiese a bassa voce. – Siamo d’accordo tutti e due che non stiamo parlando di reati, ma della libertà d’espressione e della sua difesa.
− È che…
Lei cercò le parole giuste.
− Siccome la sostanza di quello che viene detto, − riprese, ma si interruppe di nuovo. – Siccome il contenuto di quello che viene scritto e detto combacia perfettamente con… con le idee di quegli altri, quelli che picchiano… quelli che uccidono… ecco, allora secondo me…
Afferrò la tazza, ma non bevve.
− Se vogliamo poter dire qualcosa di sensato sui crimini d’odio, dobbiamo sapere che cosa li provoca. E non mi riferisco semplicemente ai modelli interpretativi tradizionali, quelli basati sulle condizioni in cui i soggetti sono nati e cresciuti e sulle perdite che hanno vissuto, oppure sulla storia dei conflitti bellici, sulla suddivisione delle risorse, sui contrasti religiosi eccetera. Dobbiamo sapere cos’è che li scatena. Avrei voglia di indagare sulle eventuali correlazioni fra quelle che si considerano espressioni d’odio legali da una parte e i crimini d’odio illegali dall’altra.
− Se le prime possano favorire i secondi, cioè?
− Anche.
− Ma non è evidente? Non per questo possiamo impedire quelle espressioni, però!
− È una correlazione che non si può dare per scontata. Bisogna indagarla.
− Papà! Papà!
Yngvar balzò in piedi. Johanne chiuse gli occhi e pregò intensamente che Kristiane non si svegliasse. Non riusciva a sentire che la voce bassa e rassicurante di suo marito mescolata ai lamenti assonnati di Ragnhild. Scese di nuovo il silenzio. I vicini del piano di sotto dovevano essere già andati a dormire. Quella sera avevano guardato un film d’azione decisamente movimentato e rumoroso, dandole un gran fastidio: era come stare in prima linea.
− È andata bene, − disse Yngvar riaccomodandosi sul divano accanto a lei. – Ha fatto solo un brutto sogno, probabilmente. Non era del tutto sveglia. Dove eravamo rimasti?
− Non saprei, − gli rispose lei con aria esausta. – Davvero.
− Pensavo che fossi contenta all’idea di questo progetto, contenta di portarlo avanti, voglio dire.
Johanne gli posò una mano sulla pancia e si accoccolò meglio sotto il suo braccio.
− È cosí. Ma in questo momento mi sento in overdose da odio. Non ti ho nemmeno chiesto com’è andata la tua giornata.
− Non chiedermelo, ti prego.
Johanne lo sentí rilassarsi a poco a poco sotto il peso del suo braccio. Il respiro gli si fece piú lento e profondo e anche lei si adeguò a quel ritmo. La cintura gli andava stretta, Johanne se ne accorse dai salsicciotti di grasso che traboccavano sopra i pantaloni.
− Che ne dici di mettere delle tende, Yngvar?
− Eh?
− Delle tende, − ripeté lei. – Qui in soggiorno. È come se le finestre fossero diventate grandissime e scurissime, adesso che è inverno.
− Solo se posso fare a meno di sceglierle, comprarle e appenderle.
− Okay.
Era arrivato il momento di alzarsi. Johanne avrebbe dovuto mettere in ordine tutti quei documenti sparsi, perché se le bambine si fossero svegliate prima di lei, cosa che puntualmente accadeva, il caos sarebbe stato ancor peggio di quanto già non fosse.
− Hai un odore cosí buono… − bisbigliò.
− Tutto di me è buono, − disse lui assonnato. Nella sua voce c’era una rassicurante tranquillità, una sensazione che lei non provava da tempo. – Senza contare che sono il piú piú piú bravo bravissimo poliziotto del mondo.
− Polizia! Ehi, ragazzo! Fermati, polizia! Fermati! Fermati, ho detto!
Un ragazzo si era appena catapultato fuori da una Volvo XC90 verde scuro. Le targhe risultavano illeggibili tanto erano sporche, nonostante la macchina fosse piuttosto pulita per il resto. Il solito vecchio trucco, pensò l’agente Knut Bork lanciandosi fuori dall’autocivetta e gettandosi all’inseguimento del ragazzo.
− Ferma quell’auto! – gridò al collega, che a grandi balzi stava già attraversando la carreggiata.
Da cinque giorni esatti in Norvegia vigeva il divieto di comprare sesso. La nuova disposizione di legge aveva ottenuto l’approvazione del parlamento senza troppo chiasso, anche se non erano in molti a credere che quella norma avrebbe portato a una riduzione sensibile della compravendita di prestazioni sessuali. Per il momento la palese prostituzione di strada era scomparsa per riemergere in luoghi piú appartati, probabilmente in attesa di vedere come sarebbe andata a finire. Ma di persone che si prostituivano, maschi e femmine, ce n’erano ancora a bizzeffe a Oslo, e nemmeno i clienti erano spariti. La prostituzione era diventata una faccenda un po’ piú complicata, per entrambe le parti. E forse era proprio quello lo scopo.
Il ragazzo sbandava ma era veloce. All’agente Bork ci vollero comunque non piú di cinquanta metri per acciuffarlo.
Il cliente con l’automobile costosa appariva terrorizzato. Era sui trentacinque anni e aveva cercato di nascondere sotto una vecchia coperta i due seggiolini dietro. La patta dei jeans di marca era ancora aperta quando la portiera anteriore era stata spalancata. Dopo essere sceso dalla Volvo era rimasto lí, in piedi sul marciapiede, come gli avevano chiesto, ed era scoppiato a piangere.
− Cazzo, − urlò il ragazzo dall’altra parte della strada. – Cosí mi uccidi!
− Ma no, su, − gli disse l’agente Bork. – E se prometti di fare il bravo non ti metto le manette. Okay? Non è che siano proprio piacevoli, perciò… se fossi in te…
Sentí il ragazzo iniziare controvoglia a rassegnarsi: il suo corpo magro a poco a poco si rilassò. L’agente Bork allentò lentamente la presa con cui lo aveva immobilizzato da dietro. Quando il ragazzo si girò gli parve ancora piú giovane di quanto gli fosse sembrato da lontano. Aveva un viso infantile, dai tratti morbidi, e non doveva pesare piú di sessanta chili. Un’eruzione da herpes partiva dal labbro superiore e saliva fino alla narice sinistra, dilatata da croste e pus. Bork rabbrividí e gli venne voglia di lasciarlo andare.
− Non ho fatto niente di male, cazzo! – Si passò la manica della giacca a vento sotto il naso. − Non è mica vietato vendersi, no? È quello stronzo lí che dovete mettere dentro!
− Credo proprio che gli daremo una bella multa. Ma visto che sei tu il nostro testimone dobbiamo farci una chiacchieratina anche con te. Vieni alla macchina, dài. Come ti chiami?
Il ragazzo non rispose. Rimase ostinatamente fermo quando Knut Bork gli fece cenno di muoversi.
− Ascoltami bene, − gli disse il poliziotto. – Ci sono due modi per farlo: il modo facile e quello che non è affatto divertente. Né per te, né per me. A te la scelta.
Nessuna risposta.
− Come ti chiami?
Ancora nessuna risposta.
− Okay, − disse Knut Bork tirando fuori le manette. – Mani dietro la schiena, per favore!
− Martin. Martin Setre.
− Martin, − ripeté il poliziotto, e rimise a posto le manette. – Hai un documento di identità?
Leggero cenno di diniego e alzata di spalle.
− Quanti anni hai?
− Diciotto.
Knut Bork sghignazzò.
− Diciassette, − disse Martin Setre. – Quasi, quasi diciassette.
I lamenti del cliente si facevano sempre piú forti. Mancava poco all’una di notte, e il traffico scarseggiava. Sentirono un tram che sferragliava in Prinsens Gate; un taxi diede un colpo irritato di clacson a due auto parcheggiate male mentre sfrecciava con il segnale sul tetto acceso, a caccia di passeggeri. I festeggiamenti natalizi e la crisi finanziaria avevano tirato il collo alla vita serale di gennaio e la città era praticamente deserta.
− Knut! – gridò il collega ad alta voce. – Vieni qui un attimo!
− Andiamo, − disse l’agente Bork al ragazzo, afferrandolo per un braccio. Era cosí sottile che riuscí a cingerlo tutto con la mano.
Il ragazzo lo seguí malvolentieri.
− Credo proprio che dovremmo arrestare questo tizio, − disse a Knut Bork il collega quando furono vicini. – Guarda un po’ qui che cosa abbiamo!
Bork diede un’occhiata all’interno dell’automobile.
Il vano portaoggetti fra i due sedili anteriori era aperto. Da quello spazio vuoto sotto il bracciolo, ideato per riporre qualche piccolo oggetto potenzialmente utile, debordava un sacchetto di plastica rigonfio. Knut Bork si infilò un paio di guanti in lattice e ne afferrò un lembo.
− Guarda, guarda… − disse, e schioccò le labbra come se approvasse. – Hashish, non è vero?
La domanda era del tutto superflua e non seguí alcuna risposta. Il poliziotto soppesò il sacchetto con una mano, aveva un’espressione pensosa.
− Direi all’incirca mezzo chilo, − commentò. – Niente male!
− Non è mio, − pianse l’uomo. – È suo!
Indicò Martin.
– Ehi! – gridò il ragazzo. – Ma vaff… Ne volevo cinque grammi per fargli il lavoro, e guarda un po’ che cosa mi ha dato!
Abbassò la cerniera e si mise a frugare nella tasca interna del giubbotto, da cui infine riuscí a tirare fuori qualcosa che tenne fra indice e medio.
− Questi sono al massimo tre grammi, − disse, con la pallina incartata nella stagnola che gli dondolava davanti al viso. – Al massimo! Non sarei mica sceso dalla macchina se quel sacchettone fosse stato mio! Non me ne sarei mica andato senza portarmelo via, eh! Ma sei idiota o cosa?
− Direi che il ragazzo ha ragione, no?
Il cliente singhiozzò quando il poliziotto gli posò una mano sulla spalla, in attesa di una risposta.
− Per favore! Non potete mettermi dentro! Farò qualunque cosa… Posso… potete prendervi tutto quello che…
− Ehi ehi ehi! – lo ammoní Knut Bork con una mano levata. – Non peggioriamo le cose. Adesso noi, belli tranquilli…
− Posso andare? – chiese Martin con voce sottile. – Non è me che volete. A me mi mandate da quelli della tutela dei minori e poi dovete compilare un sacco di moduli e…
− Avevo capito che eri un adulto. Su, vieni.
Passò un autobus notturno che dovette procedere zigzagando fra le auto che ostacolavano il traffico su entrambe le carreggiate. Solo un passeggero sbirciò curioso in direzione dei quattro uomini, poi l’autobus proseguí rumorosamente la sua corsa e si poté riprendere la conversazione.
− La mia macchina! – singhiozzava l’uomo mentre lo portavano verso l’autocivetta. – A mia moglie serve domani mattina presto! Deve portare i bambini all’asilo!
− Mettiamola cosí, − disse Knut Bork aiutandolo a infilarsi sul sedile posteriore. – Domani tua moglie avrà problemi ben piú gravi che essere rimasta senza macchina.

Ragazzo di strada

Il problema era il gran numero di persone che avevano iniziato a lamentarsi dell’aria viziata. Del cattivo odore, a essere precisi. Il concierge aveva avuto il suo bel daffare a cambiare sistemazione ai vari ospiti man mano che tornavano dalle stanze loro assegnate e dicevano che i locali erano inabitabili. La cosa ancora piú sorprendente era che il fenomeno non riguardava una parte dell’hotel: i reclami provenivano da camere sparse qua e là. Alla fine l’intero sistema era andato in tilt: data la quantità di camere inutilizzabili, l’albergo si ritrovava con un numero di prenotazioni decisamente superiore alla disponibilità.
Il Continental di Oslo era un’azienda orgogliosa, e non accettava assolutamente che ci fosse un cattivo odore nelle stanze dei suoi ospiti.
Il tuttofare Fritjof Hansen stava cercando di venire a capo del problema da una cinquantina di minuti. Aveva iniziato dalla prima camera, quella che un iracondo francese aveva rifiutato minacciando di trasferirsi al Grand Hotel. Un nauseante puzzo dolciastro lo aveva colpito non appena aperta la porta, ma da quel che Fritjof Hansen vedeva non c’era niente in grado di giustificare quel fetore. Il bagno era stato lustrato da poco, tutti i cassetti erano stati svuotati, fatta eccezione per l’obbligatorio volume del Nuovo Testamento e per le brochure che illustravano i tanti intrattenimenti diurni e serali offerti dalla città di Oslo. E anche se sotto il letto aveva trovato un batuffolo di ovatta sporco e, dettaglio imbarazzante, un preservativo nascosto dietro una gamba del letto, non c’era niente che facesse cattivo odore. Oltretutto secondo lui non c’era nella stanza un punto in cui la puzza fosse piú forte che in altri. Appena uscito in corridoio, lo investí un profumo impersonale di lusso e detersivo per moquette. Nella camera accanto era tutto a posto. Quando aprí la porta alla fine del lungo corridoio, ecco di nuovo la puzza.
Era davvero incomprensibile.
Al momento Fritjof Hansen si trovava nella hall, e a gambe larghe e con le mani dietro la schiena annusava l’aria con il naso all’insú. Aveva sessantatre anni e un olfatto indebolito dall’aver fumato un pacchetto di sigarette al giorno per quarant’anni. Ma da quando aveva definitivamente smesso, tre anni prima, il gusto e l’olfatto si erano molto affinati.
− Edvard, − disse, e tese la mano verso un fattorino che avanzava barcollando con una borsa sotto braccio e una valigia per mano. – Senti un odore strano in questo punto?
− No, − rispose l’altro col fiatone, senza fermarsi. – Ma nello scantinato c’è una gran puzza!
− A-ha…
Fritjof Hansen serrò le gambe come un soldato sull’attenti e si spazzò via dal vestito un immaginario granello di polvere. Indossava un’uniforme verde, perfettamente stirata e con una marcata piega ai pantaloni, e un paio di scarpe nere ben lucidate. Il tesserino di riconoscimento dotato di banda magnetica, che in combinazione con l’insolito codice 1111 gli permetteva di accedere a ogni locale dell’edificio, era appeso a un cordino estensibile con l’avvolgitore agganciato alla cintura. Anche quando s’incamminò lo fece in modo piuttosto rigido e militaresco.
Lo scantinato dell’Hotel Continental era un complicato labirinto per tutti, ma non per Fritjof Hansen. Da oltre sedici anni si occupava di sistemare cose grandi e piccole in quell’albergo, e quando l’anno prima gli avevano conferito la carica di direttore operativo si era reso conto che l’avevano fatto in omaggio alla lealtà dimostrata verso l’azienda, e infatti non dirigeva proprio niente e nessuno. Prima di lavorare al Continental aveva infilato graffette nelle scatole di un laboratorio protetto nel quartiere di Groruddalen. Vista la sua grande abilità nei lavori manuali era diventato una sorta di tuttofare, fino a quando il capo non aveva suggerito il suo nome per un lavoro all’Hotel Continental. Lui si era presentato al colloquio rasato di fresco, in abito elegante e con una cassetta degli attrezzi in mano. Aveva ottenuto il posto e da quel momento in poi non era mancato un solo giorno.
Lo scantinato non gli piaceva.
Dei complicati macchinari là sotto si occupavano operai specializzati. Era capitato che Fritjof Hansen cambiasse una lampadina o riparasse una porta che non si chiudeva bene, ma l’albergo aveva stipulato dei contratti con alcune ditte esterne per un costante lavoro di manutenzione e ammodernamento della caldaia. E anche dell’aerazione: sul soffitto e in una stanza apposita all’ultimo piano erano situate le prese d’aria esterna, mentre nello scantinato si trovava la centrale di condizionamento. Con il passare degli anni c’erano state modifiche e adattamenti tali per cui si poteva ormai parlare di due impianti separati. Dopo l’ultimo ammodernamento all’albergo era stato suggerito di sostituire tutto il sistema; i costi però erano troppo elevati, e cosí la direzione dell’hotel e il fornitore dell’impianto erano giunti a un compromesso: l’acquisto di una centrale nuova e piú piccola che alleggerisse il carico di lavoro a quella vecchia. Fritjof Hansen ne colse il monotono ronzio prima ancora di arrivare al corridoio piú interno, dove si trovavano le porte chiuse a chiave delle sale macchine.
Scendendo i gradini arricciò il naso. Non era proprio la stessa puzza delle stanze incriminate, ma anche lí il naso era solleticato da una strana esalazione dolciastra, che si mescolava all’umidità, alla polvere e all’odore tipico delle cose vecchie.
Fritjof Hansen non credeva agli spiriti. Credeva in suo fratello, nel Partito laburista norvegese e nella direzione dell’hotel, la quale gli aveva promesso che fin quando fosse stato in grado di tenersi in piedi e camminare nessuno l’avrebbe mandato via. Con il passare degli anni aveva cominciato a credere anche in sé stesso. Gli spiriti non si vedevano. E quello che non si vedeva non esisteva. Ciononostante, provava sempre un inspiegabile disagio quando si infilava in quei corridoi lunghi e stretti su cui si affacciavano tante porte che nascondevano cose che lui conosceva, ma spesso non capiva.
Dove il corridoio curvava a sinistra l’odore si fece piú forte. Fritjof Hansen si avvicinò all’impianto dell’aria condizionata, diviso in due locali adiacenti ma separati. Forse avrebbe dovuto chiamare qualcuno. Edvard era una brava persona che scambiava sempre due chiacchiere quando poteva.
Ma Edvard era solo un facchino, mentre lui era il direttore operativo, con tanto di nome appuntato sul petto e un codice che gli permetteva di accedere ai locali dell’intero edificio. Questo era il suo lavoro e il concierge gli aveva dato un’ora di tempo per venire a capo della situazione, poi avrebbe chiamato dei professionisti.
Come se lui non fosse un professionista, nel suo lavoro.
Anche se quasi tutto nello scantinato era vecchio, i locali erano protetti da porte dotate di moderne serrature elettroniche. Fritjof Hansen inserí la scheda nel lettore della porta piú vicina e digitò il codice segreto con mano piú ferma che poté.
Aprí.
La puzza lo investí con un’intensità tale da costringerlo ad arretrare di un paio di passi. Si coprí il naso con la mano a coppa e avanzò esitante.
Si fermò sulla soglia della stanza buia. Con l’altra mano tastò la parete alla ricerca dell’interruttore e quando lo schiacciò rimase quasi accecato dai neon che all’improvviso inondarono il locale di una spiacevole luce bluastra.
A quattro metri da lui, parzialmente nascoste dietro qualcosa che non capí cosa fosse, vide un paio di gambe dal ginocchio in giú. Difficile dire se appartenessero a un uomo o a una donna.
Fritjof Hansen aveva un rituale serale: tutti i giorni feriali alle ventuno e trentacinque guardava Csi su TVNorge. Una birra, un sacchetto di patatine e Crime Scene Investigation prima di andarsene a letto. Gli piacevano sia la serie girata a Miami, sia la versione newyorkese. Il preferito di Fritjof Hansen rimaneva comunque sempre Gil Grissom della prima serie, quella ambientata a Las Vegas, tanto che non era piú sicuro di voler continuare a seguire il telefilm una volta che il suo idolo fosse stato sostituito da quel tizio di colore.
Grissom era il migliore di tutti in assoluto.
E a Gil Grissom non sarebbe affatto piaciuto che il direttore operativo di un rispettabile hotel si aggirasse sulla scena di un crimine distruggendo le molte, microscopiche tracce che potevano esserci. Sul fatto che quella potesse ormai definirsi la scena di un crimine Fritjof Hansen non aveva dubbi. E comunque la persona vicino al muro era sicuramente morta. Gli ricordava un episodio in cui Grissom era riuscito a stabilire l’ora del decesso studiando le fasi di vita di alcune larve di mosca sul cadavere di un maiale. Solo vederlo alla televisione gli era bastato.
− Morto stecchito, − mormorò per convincersi meglio. – Questa è puzza di cadavere.
Lentamente indietreggiò fino a uscire, poi chiuse la porta a chiave. Impugnò la maniglia per essere certo che la serratura fosse scattata e si diresse verso le scale. Prima ancora di girare l’angolo dove il corridoio faceva una curva a novanta gradi stava già correndo.
− In effetti avevo preso in considerazione l’idea di lasciarlo andare, solo che poi abbiamo trovato l’hashish. Ho deciso di farmi una bella chiacchierata con lui e mi è venuto in mente che…
L’agente Knut Bork allungò il suo rapporto a Silje Sørensen mentre insieme si dirigevano verso la cosiddetta zona blu nell’ala nord della centrale. Lei lo prese in mano e si fermò per dare una scorsa al foglio.
A un piú attento controllo era saltato fuori che Martin Setre aveva in realtà quindici anni e undici mesi. La prima parte della sua vita l’aveva passata insieme ai genitori naturali. Già alla scuola materna si era fatto notare per la sua predisposizione agli infortuni: continue fratture, lividi. È vero che anche lí era piuttosto disattento, ma la maggior parte delle ferite se le faceva a casa. In base a una relazione sul bambino richiesta dal coordinatore pedagogico si era formulata l’ipotesi che soffrisse di Adhd, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, ma prima che si potesse fare un’indagine accurata la famiglia si era trasferita. Martin aveva iniziato ad andare a scuola in un piccolo comune dell’Østfold, ma dopo soli sei mesi era stato ricoverato in ospedale per dei dolori all’addome di cui nessuno era riuscito a venire a capo. Nella primavera in cui frequentava la prima elementare la famiglia si era trasferita di nuovo, dopo che uno degli insegnanti si era presentato senza preavviso a casa del ragazzino e lo aveva trovato chiuso in un gabbiotto per le bici con troppi pochi vestiti addosso. L’insegnante aveva avvisato l’Ufficio per la tutela dei minori, ma prima che il caso arrivasse in cima alla pila delle pratiche inevase la famiglia si era trasferita per l’ennesima volta. E cosí era andata avanti la vita di Martin Setre, fino al giorno in cui, all’età di undici anni, non era finito all’ospedale di Ullevål a Oslo con il cranio fracassato. Per fortuna erano riusciti a salvarlo; dargli una vita degna di essere vissuta si era invece rivelata un’impresa molto piú difficile. Da quel momento in poi, il ragazzo non aveva fatto altro che entrare e uscire da istituti e passare da un affido familiare all’altro. La sua ultima fuga risaliva a Natale: era scappato da un istituto per minori gestito dai servizi sociali dov’era stato portato a viva forza.
La causa penale nei confronti dei genitori era stata archiviata per mancanza di prove.
− ’Orcaputt… − mormorò Silje rialzando gli occhi.
− Eh?
− Porca puttana! – ribadí in tono molto convincente.
− Puoi ben dirlo, − commentò Knut Bork, poi la invitò a proseguire. – È qui.
Tirò fuori una chiave e la infilò nella serratura.
− A rigor di termini non siamo autorizzati a tenerlo chiuso qua dentro, − disse a bassa voce. – Per lo meno non senza sorveglianza. Ma quel ragazzo sarebbe già chissà dove se avessi lasciato la porta aperta anche per un attimo. Solo mentre venivamo dal Centro provvisorio di accoglienza della tutela minori a qui ha cercato di scappare tre volte.
− È stato al centro da lunedí fino a ora?
− Sí. E da quando lo abbiamo portato qui non è mai stato solo per piú di cinque minuti.
La porta si aprí.
Martin Setre non alzò nemmeno gli occhi. Se ne restò seduto a dondolare sulla sedia con un piede sul tavolo. Intorno allo stivale sporco si era formata una pozzetta di neve sciolta. Lo schienale della sedia sbatteva a ritmo cadenzato contro la parete alle sue spalle e aveva già cominciato a lasciare dei segni.
− Smettila! – gli disse Knut Bork. – Subito! Lei è l’ispettore capo Silje Sørensen. Vuole parlare con te.
Il ragazzo continuò a tenere lo sguardo basso. Giocherellava con una scatolina metallica rotonda di tabacco da masticare, ma non sembrava averne in bocca. L’infezione da herpes era peggiorata.
− Ciao, − gli disse Silje avvicinandosi all’altro lato del tavolo. – Puoi anche salutarmi, se vuoi.
Si sedette.
− Capisco, − aggiunse, e scoppiò a ridere.
A quel punto il ragazzo alzò gli occhi, ma senza incrociare il suo sguardo.
− Che cazzo hai da ridere, eh?
− Non rido di te. Rido di lui, Knut.
Fece un cenno del capo verso il collega piú giovane, il quale sollevò appena le sopracciglia per poi riprendere la sua espressione indifferente. Aveva girato la sedia prima di sedersi e se ne stava appoggiato alla spalliera con le braccia conserte, in una mano teneva un sottile fascicolo che oscillava avanti e indietro.
− Sai, − disse Silje, – quando mi ha mostrato la documentazione su di te abbiamo deciso di scommettere. Ho puntato cento corone sul fatto che tu ti saresti dondolato sulla sedia, avresti giocherellato con una scatolina di tabacco da masticare e ti saresti rifiutato di salutarmi. Poi ne ho puntate altre cento sul fatto che non mi avresti guardato negli occhi per il primo quarto d’ora. Mi sa che divento ricca. È per questo che rido.
Rise di nuovo.
Il ragazzo tirò giú il piede che teneva sul tavolo, con un colpo secco riappoggiò sul pavimento le gambe anteriori della sedia e la fissò dritta negli occhi.
− Non è ancora passato un quarto d’ora, − disse. – Hai perso.
− Solo a metà, − ribatté con un sorriso Silje Sørensen. – Io e Knut siamo uno a uno, adesso vediamo come va a finire tra me e te.
Dei leggeri colpetti attirarono lo sguardo del ragazzo verso la porta.
− Avanti! – disse ad alta voce Knut Bork, e la porta si aprí.
Una donna sui trent’anni, decisamente sovrappeso, con i vestiti svolazzanti e l’affanno fece il suo ingresso.
− Scusate, ho qualche minuto di ritardo, − disse. – Oggi è una giornata intensa. Sono Andrea Solli, dell’Ufficio per la tutela dei minori.
L’ultima frase la rivolse a Martin Setre, al quale tese la mano. Il ragazzo sollevò esitando la sua e concesse una molle stretta di mano, ma non si alzò.
− E con questo le formalità dovrebbero essere tutte a posto, − disse Andrea Solli afferrando l’ultima sedia vuota disponibile.
Martin Setre chiuse gli occhi e sembrò sbadigliare. In realtà stava aggiornando un suo calcolo: nella lunga sfilza di assistenti sociali, specialisti, avvocati e membri di commissioni varie che erano entrati e usciti dalla sua vita, Andrea Solli era il numero sessantadue. Il numero uno era riuscito a farlo parlare e lui aveva raccontato tutto quello che aveva avuto la forza di raccontare, per poi concludere con la descrizione di suo padre che gli sbatteva ripetutamente la testa contro la tazza di un water, ancora e ancora, fino al punto in cui lui stesso non sapeva piú se era vivo o morto.
Quella volta la signora con cui si era confidato gli aveva detto che lei gli credeva e che sarebbe andato tutto bene.
Niente, mai, era andato bene. E lui aveva smesso da tempo di credere a tutto quello che gli dicevano.
− So che ti hanno arrestato tre giorni fa, − riprese Silje Sørensen. – Per possesso di hashish, tre grammi e mezzo, c’è scritto qui. E di questo, a essere sincera, io me ne frego. Anche della tua carriera nel campo della prostituzione. Non me ne frega niente, a parte…
Prese il foglio che Knut Bork aveva tirato fuori dal fascicolo che teneva in mano.
− Questo. Il rapporto di un tuo arresto il 21 novembre dello scorso anno.
− Eh? Adesso vi mettete anche a tirare fuori le cose stravecchie?
Il ragazzo cominciò ad agitarsi sulla sedia.
− Martin… è passato solo un mese e mezzo. Qui da noi, alla polizia, non sono cose stravecchie. Ma non sei nemmeno tu quello che mi interessa in questa faccenda.
Il ragazzo si era sporto in avanti e giocherellava con la scatolina di tabacco da masticare: se la passava da una mano all’altra facendola scivolare sul piano del tavolo come un dischetto da hockey.
− Questo è Hawre. Hawre Ghani. Tu lo conosci, non è vero?
Il finto dischetto da hockey cominciò a passare piú in fretta da una mano all’altra.
− Su, Martin. Vi hanno portato dentro insieme. Dal rapporto emerge chiaramente che voi due vi conoscevate. Voglio solo sapere…
− Non vedo Hawre da un’eternità, − chiarí subito il ragazzo con tono risentito.
− Ti credo. Davvero.
− Non so niente di Hawre, − borbottò Martin.
− Eravate amici?
Il ragazzo fece una smorfia.
− Quello sarebbe un sí o un no?
− Non è che sia proprio facile farsi degli amici quando uno vive come me. Non mi lasciano mai stare nello stesso posto per piú di qualche settimana, mai!
− Sei tu che scappi, − lo interruppe l’assistente sociale. – Capisco che per te sia tutto molto difficile, ma è difficile anche creare…
− Queste sono cose di cui potete parlare dopo, − la interruppe Silje Sørensen. – Devo chiedertelo di nuovo, Martin. Conoscevi bene Hawre?
Lui riprese a passarsi il finto dischetto da hockey da una mano all’altra. Non rispose.
− Sei arrossito. Stavate insieme?
− Eh?!
La ferita da herpes al naso aveva cominciato a sanguinare. Un sottile rivolo rosso scendeva a zig-zag lungo la crosta irregolare e giallastra che dalla narice sinistra arrivava al labbro superiore.
− Io e… Hawre? Hawre non è nemmeno un vero omosessuale! Ha solo bisogno di soldi, lui!
− Ma tu lo sei?
− Che cosa?
− Omosessuale.
− Non hai nessun diritto di chiedermelo, cazzo!
Nel cortile interno una sirena cominciò a suonare. Due gazze posate sul davanzale esterno della finestra li fissavano con occhi scuri come il carbone, imperturbabili a quel suono.
Gli occhi di Martin si assottigliarono e finalmente le sue mani si fermarono.
− Ma visto che me lo chiedi, la risposta è sí. E non c’è niente di cui vergognarsi. No.
Tutto il suo corpo teso trasudava ribellione.
− Sono perfettamente d’accordo con te, − gli disse Silje.
Con una decina di chili in piú e senza herpes Martin Setre avrebbe forse potuto essere bello. Purtroppo invece aveva i denti rovinati, uno spettacolo insolito in un ragazzo norvegese nel 2009. Quando parlava si vedeva uno strato grigiastro di tartaro che comunque non riusciva a nascondere un paio di scadenti otturazioni sugli incisivi. Ma aveva gli occhi grandi e blu e lunghe ciglia ricurve, come quelle di un bimbo piccolo.
− Non possono andarsene, quelli lí?
− Chi?
Martin indicò l’assistente sociale e l’agente di polizia.
− Io posso anche andarmene, − disse Knut Bork. – Ma Andrea Solli deve restare. Non abbiamo il diritto di interrogarti se non è presente un tutore.
E senza ulteriori discussioni si alzò, posò il fascicolo accanto al foglio davanti a Silje Sørensen e accostò la sedia al tavolo.
− Telefonami quando avete finito, − disse. – Mi trovi in ufficio.
La porta si richiuse alle sue spalle e Martin Setre rivolse uno sguardo inacidito ad Andrea Solli.
− Non ho bisogno di nessun tutore, − disse. – Puoi andartene anche tu.
Silje anticipò la rappresentante dell’Ufficio per la tutela dei minori dicendo in tono fermo: − Non se ne parla nemmeno. Scordatelo.
E aggiunse: − Perché non mi parli di te e Hawre?
Martin aveva iniziato a leccarsi la ferita. Il sangue che gli usciva dal naso si mescolò alla saliva diventando di un rosso pallido, e tutt’a un tratto un grosso pezzo di crosta si staccò.
− Cazzo! – gridò il ragazzo portandosi una mano alla bocca.
Dalla ferita aperta aveva iniziato a sgorgare sangue in abbondanza, e Andrea Solli tirò fuori una scatola di kleenex dalla sua capiente borsa. Martin ne prese tre e se li premette sulla ferita.
− Hawre e io non stavamo insieme, − disse irritato, rivelando all’improvviso di non aver ancora cambiato del tutto la voce. – Eravamo solo amici!
− Di solito, due amici una vaga idea di dove sia l’altro ce l’hanno, − gli fece notare Silje Sørensen.
Il ragazzo non rispose. Aveva gli occhi lucidi, ma lei non sapeva se fosse per la piega che aveva preso la conversazione o per il labbro dolorante. Questo la rendeva incerta su come procedere. Per guadagnare tempo aprí una bottiglietta d’acqua e la versò in tre bicchieri, senza chiedere se qualcuno ne volesse.
− Hawre è morto, − disse in tono pacato.
Le cornacchie sul davanzale spiccarono il volo tutte e due nello stesso momento, emisero un verso roco e sparirono nel buio sopra la città. Finalmente aveva smesso di nevicare. Erano le quattro e un quarto del pomeriggio. In corridoio sentirono i passi frettolosi di qualcuno che non vedeva l’ora di andarsene a casa.
− Era quello che pensavo, − bisbigliò Martin.
Lasciò cadere a terra i fazzoletti intrisi di sangue, posò le braccia sul tavolo e vi nascose la faccia.
− Era quello che pensavo, − ripeté singhiozzando.
− Quand’è stata l’ultima volta che l’hai visto, Martin?
Silje Sørensen avrebbe voluto abbracciarlo. Tenerlo stretto. Consolarlo. Come se esistesse un modo per consolare un ragazzo di neanche sedici anni che aveva perso ogni possibilità di vivere una vita dignitosa molto, molto tempo prima.
− Quand’è stata l’ultima volta che lo hai visto? – ripeté.
− Non me lo ricordo, − rispose Martin in lacrime.
− È molto importante, sai. Perché Hawre è stato ucciso.
I singulti cessarono di colpo.
− Ucciso?
La sua voce si sentiva mezza soffocata, vista la posizione in cui era.
− Sí. Per questo è molto importante che tu faccia uno sforzo per ricordare.
− Credi che sia stato io a uccidere Hawre?
− No. Neanche per sogno. Non credo affatto che sia stato tu a uccidere il tuo amico.
− Bene, − disse Martin. Tirò su col naso, poi lentamente raddrizzò la schiena e alzò la testa.
Andrea Solli gli indicò la scatola di kleenex, ma lui la lasciò stare.
− Perché non lo avrei mai fatto!
− Puoi cercare di ricordarti quando lo hai visto l’ultima volta? Partiamo dal 21 novembre, quando vi hanno portato dentro insieme. Era un venerdí. Ricordi qualcosa di quel giorno?
Lui fece un cenno affermativo quasi invisibile con il capo.
− Tu sei stato preso in carico dall’Ufficio per la tutela dei minori e portato al centro di accoglienza, c’è scritto qui. Hawre invece è riuscito a scappare durante il trasferimento. Lo hai piú visto, dopo?
− Sí…
Martin Setre sembrava riflettere. Alla radice del naso gli si era formata una ruga obliqua.
− Me la sono svignata il giorno dopo. Ci siamo incontrati… domenica, sí. E…
Per la prima volta prese in mano il bicchiere d’acqua.
− Posso avere una Coca-Cola? – borbottò.
− Certo. Ecco qui.
Silje Sørensen gli allungò una bottiglietta. Lui la aprí e bevve direttamente a canna. Una smorfia di dolore gli attraversò il volto nel momento in cui il collo della bottiglia gli toccò la ferita, che sanguinava ancora.
− Ci siamo visti quella domenica. Ne sono sicurissimo perché…
Improvvisamente si azzittí.
− Perché, cosa?
− Non lo posso dire.
− Martin, devi capire che…
− Non voglio raccontare niente di quella sera, okay? Tanto non c’è niente da dire. Perché Hawre e io ci siamo visti anche il giorno dopo.
− Va bene, − disse Silje Sørensen digitando sul cellulare per vedere il calendario. – Quindi… lunedí 24 novembre, giusto?
− Che cazzo ne so della data! Era il lunedí dopo che ci avevano portato dentro. Dovevamo…
Finalmente prese un kleenex e se lo premette con delicatezza sulla bocca. Non piangeva piú, anche se aveva ancora le ciglia bagnate di lacrime, ma sembrava se possibile ancora piú esausto di prima.
− Dovevamo fare solo un paio di giri. E poi andare al cinema. Avevamo bisogno di soldi.
Silje Sørensen teneva carta e penna davanti a sé, ma fino ad allora non aveva preso nessun appunto. In quel momento afferrò cautamente la penna, il foglio però lo lasciò stare.
− Che film volevate vedere? – gli chiese, e si premurò di aggiungere subito: − Solo per controllare la data…
− Max Manus.
Lei sorrise.
− Martin, dài. Max Manus è uscito subito prima di Natale.
− Okay, va bene, non me lo ricordo. È vero. Non me lo ricordo proprio che film volevamo vedere. Tanto poi non ci siamo andati, al cinema.
− E che cosa avete fatto?
− Dovevamo… Ecco… dovevamo procurarci dei soldi. Siamo andati alla stazione centrale.
Martin Setre cercò di nuovo lo sguardo di Silje Sørensen, come per accertarsi che avesse capito la sua allusione. Lei annuí appena, e lui interpretò quel cenno del capo come una risposta affermativa.
− C’era un sacco di gente. Tantissima gente.
− A che ora, piú o meno?
− Non so. Sarà stato di pomeriggio. Comunque non era molto tardi, perché poi volevamo andare al cinema. Ci siamo piazzati dove ci mettiamo sempre…
− Cioè?
− All’ingresso della stazione.
− E poi?
− E poi non è arrivato nessuno.
− Nessuno? Ma se hai detto che…
− Nessuno di quelli che cercavamo noi. Nessuno che…
Si mise ad armeggiare con la scatolina di tabacco da masticare. Silje Sørensen si accorse che aveva dita insolitamente lunghe e affusolate, quasi femminili.
− E cosí abbiamo deciso di spostarci al centro commerciale, l’Oslo City. Ma proprio mentre stavamo per andarcene è arrivato un tizio che parlava inglese. O forse era americano. Non so… Americano, credo.
− E quindi? Che cosa voleva?
− Solita roba, − rispose Martin duro. – Solo che non si decideva a dirlo. Non usava le solite… Un tipo viscido, ecco. C’era qualcosa di strano…
− Che cosa?
− Non saprei. Ma io con lui non ci sarei andato. Era…
La pausa di riflessione diventò cosí lunga che Silje Sørensen decise di fargli una domanda.
− Ricordi che aspetto aveva?
− Da vecchio porco. Vestiti costosi. Grassoccio.
− Vecchio quanto?
− Almeno quarant’anni li aveva. Uno schifoso! Uno di quelli che ti fanno un sacco di domande. A me i vecchi non piacciono. Sui venticinque, okay. Ma non di piú. Solo che Hawre aveva bisogno di soldi, piú di me, e cosí ci è andato.
Si mise a fissare la bottiglietta di Coca-Cola.
− I vestiti erano di quelli che ti fanno capire che uno è ricco. Sai, no?
Silje Sørensen sapeva benissimo che cosa intendeva. Lei era l’ispettore capo piú ricco del Paese: a diciotto anni aveva ereditato una fortuna. Ma la cosa non l’aveva toccata minimamente. Quando aveva fatto domanda alla scuola di polizia era stato prima di tutto per scendere un po’ piú in basso. Adesso ci si era cosí abituata che finiva sempre per comprarsi i vestiti da H&M. Ma sapeva bene che cosa intendeva il ragazzo e annuí.
− E poi?
Quando lui sollevò lo sguardo, i suoi occhi la spaventarono: la disperazione per la morte del suo amico aveva lasciato il posto all’apatia pura. Martin si strinse nelle spalle e borbottò qualcosa che lei non capí.
− Come?
− Non ricordo altro di quel giorno.
− Ma dopo non hai piú visto Hawre?
Martin non riusciva a tenere la lingua lontana dalla ferita. Le rispose scuotendo la testa.
Il referto autoptico sosteneva che la morte di Hawre Ghani era presumibilmente avvenuta fra il 15 e il 25 novembre. Il 24 Martin Setre aveva visto Hawre allontanarsi con un cliente sconosciuto.
− Mi devi aiutare, − gli disse Silje Sørensen.
Lui restò in perfetto silenzio.
− Ho bisogno di un identikit dell’uomo con cui se n’è andato Hawre, − gli disse. – Mi puoi aiutare?
− Okay, − rispose lui alla fine. – Ma solo se prima mi date qualcosa da mangiare.
− Che cosa vorresti?
E per la prima volta Silje Sørensen vide un accenno di sorriso su quel volto deturpato.
− Bistecca ai ferri con cipolle e un sacco di patatine fritte, − rispose lui. – Sto morendo di fame.
Yngvar Stubø cercò di mascherare i brontolii dello stomaco con alcuni colpetti di tosse. Un’ora prima aveva mangiato una mela e una banana, ma aveva già fame. La sera di capodanno, per la prima volta da due anni a quella parte, era salito su una bilancia. Il numero comparso sul display luminoso era a tre cifre, il che lo aveva spaventato. E dato che gli era impossibile trovare il tempo di fare sistematicamente attività fisica, visti gli impegni che affollavano la sua agenda, Yngvar aveva deciso di rinunciare al cibo. In gran segreto si era iscritto a vektklubb.no, un sito specializzato in diete e ricco di consigli per tornare in forma: subito e impietosamente lo avevano informato che ogni giorno assumeva intorno alle quattromila calorie. Scendere a un apporto di milleottocento sarebbe stato un vero incubo.
Nella scrivania aveva ancora tre pacchetti di Kvikk Lunsj, wafer ricoperti di cioccolato. Aprí il cassetto e rimase a lungo con lo sguardo fisso su quei pacchetti a strisce orizzontali, una rossa, una gialla, una verde. Se avesse mangiato metà di una confezione non sarebbe poi stata la fine del mondo. D’accordo, tre giorni prima consultando il sito aveva scoperto l’apporto calorico del cioccolato e deciso che non avrebbe piú toccato un solo grammo di quella diavoleria, ma era anche vero che in quel momento la fame era tale da impedirgli di pensare con lucidità.
Squillò il telefono.
− Yngvar Stubø, − rispose lui con un tono piú amichevole del solito, profondamente grato per l’interruzione.
− Ciao, sono Sigmund.
Sigmund Berli era amico e collega stretto di Yngvar da quasi dieci anni. Ben lungi dall’essere una delle menti piú acute della polizia criminale, era però uno che lavorava sodo e che aveva sempre dimostrato una grande lealtà. Sigmund votava per la Destra, tifava per il Vålerenga e mangiava pasti pronti monodose marca Fjordland sette giorni su sette da quando, neanche un anno prima, si era separato dalla moglie. Il poco tempo libero che aveva lo metteva a disposizione dei due figli, che venerava. Sigmund Berli era una sorta di ancoraggio alla vita vera della gente qualunque, e di questo Yngvar gli era grato. Su di lui, gli amici e i colleghi di Johanne avevano spesso l’effetto di farlo tacere per l’intera serata: di norma era piuttosto inutile cercare di raccontare a quelle persone come si viveva realmente nel loro Paese. Meglio Sigmund Berli e le sue grossolane generalizzazioni: per lo meno si fondavano su una vita vissuta in mezzo alla gente comune.
− Abbiamo trovato una pila gigantesca di lettere piene d’odio, − gli disse Sigmund.
− Sei ancora a Bergen?
− Sí. In una cassaforte nell’ufficio del vescovo Lysgaard.
− Sei in una cassaforte nell’ufficio del vescovo?
− Smettila. Le lettere, non io. C’è una cassaforte nell’ufficio, ma lo abbiamo saputo solo qualche giorno fa. La sua segretaria aveva un codice, però sbagliato. È venuto uno a domicilio e ha risolto la faccenda. E ci abbiamo trovato dentro tutta questa… merda, ecco.
− Argomento?
− Indovina?
− Non ho proprio voglia di giocare, adesso, Sigmund.
− Omo-qui e omo-là!
Yngvar riusciva quasi a sentirlo sorridere all’altro capo del filo.
− Cos’altro poteva essere… – aggiunse Sigmund.
− Si tratta di e-mail, − gli chiese lui, − o di lettere cartacee? Anonime?
− Un po’ e un po’. La maggior parte sono e-mail stampate. Quasi tutte anonime, ma c’è anche qualcuno che si firma con tanto di nome e cognome. Praticamente tutta spazzatura, Yngvar. Un sacco di merda, per dirla in parole povere. E sai che cosa non ho mai capito?
«Un bel po’ di cose», pensò lui.
− Perché ci sono persone che si ostinano a sentirsi cosí provocate da quello che un altro fa a letto? L’allenatore di hockey di mio figlio è frocio, sai. Uno molto in gamba. Virile e duro con i ragazzi, ma sul serio. Si presenta a tutti gli allenamenti. Non lo faceva mica, quell’idiota che c’era prima, anche se aveva moglie e quattro figli. Qualcuno degli altri genitori ha cominciato a creare difficoltà quando quel tizio è comparso sul giornale. E allora avresti dovuto vederlo il vecchio Sigmund Berli in azione!
La sua risata crepitava nel ricevitore.
− Li ho messi tutti in riga, io! Non sono capace di scrivere il segno di uguale fra un normalissimo omosessuale e un maledetto molestatore, sai. Mi sono fatto un amico per la vita, cosí, sai. Ci siamo bevuti una birra insieme un paio di volte, è davvero una persona piacevole. Ed è bravissimo sul ghiaccio. Ha allenato la nazionale juniores finché è stato possibile. Una banda di omofobi, quelli là.
Yngvar ascoltava con stupore crescente. Il suo sguardo era ancora posato sui pacchetti a strisce dello snack al cioccolato.
− Che cosa ne farete delle lettere? – chiese con aria assente.
Sigmund stava masticando qualcosa.
− Scusa, − gli disse con la bocca piena. – Avevo un buco allo stomaco, non ce la facevo piú. Qui a Bergen fanno dei dolci alla cannella buonissimi!
Il cassetto con i Kvikk Lunsj si chiuse con un colpo secco prima che Sigmund proseguisse: − Abbiamo messo il computer di Eva Karin Lysgaard in mano a un informatico. Per trovare indirizzi Ip e roba del genere. Indagheranno anche sulle lettere. Mi domando perché tenesse tutto nascosto. Non è mai stata fatta neanche una denuncia.
− La maggior parte delle persone che hanno un ruolo pubblico riceve cose del genere di continuo. Almeno quelle che si espongono su qualche questione controversa. Ma sono in poche a sbandierarle ai quattro venti, perché sarebbe come gettare benzina sul fuoco. Johanne sta proprio lavorando a un progetto che…
− Come sta la mia donna preferita? – lo interruppe Sigmund.
Il collega di Yngvar per anni aveva mostrato un innamoramento apparentemente immutabile per Johanne. Di solito si manifestava soltanto in forma di un irrefrenabile entusiasmo ogni volta che la vedeva o parlava di lei. Quando beveva un po’ gli capitava di uscirsene con grossolani complimenti e sfioramenti poco graditi. In una occasione Johanne gli aveva mollato un sonoro ceffone: era stato quando lui, dopo essersi annegato nel cognac, le aveva palpato un seno. Per qualche assurda ragione, però, Sigmund le piaceva lo stesso.
− Bene, − gli rispose Yngvar. – Perché non vieni a trovarci?
− Sí, sí. Che ne dici di questo fine settimana? A me andrebbe benissimo perché…
− Telefonami quando ci sono novità, − lo interruppe Yngvar. – Devo scappare! Ciao!
Stava per interrompere la comunicazione quando sentí la voce di Sigmund gridare, meccanicamente distorta: − Aspetta! Non mettere giú!
Yngvar riavvicinò il telefono all’orecchio.
− Che cosa c’è?
− Volevo solo dirti che non tutte quelle lettere parlavano di omosessualità.
− Ah no?
− Alcune erano sull’aborto.
− Sull’aborto?
− Già. Hai presente, Eva Karin Lysgaard era piuttosto fanatica in merito.
− Ma che cosa scrivono? E soprattutto: chi le ha scritte?
Sigmund aveva finito di mangiare, alla buon’ora.
− C’è un po’ di tutto. Quelle lettere comunque non hanno toni aggressivi. Piú che altro addolorati, ecco. Ce n’è una di una donna che rimpiange di essere nata. La madre era stata violentata, ma siccome era molto giovane non aveva avuto il coraggio di dirlo a nessuno fino a quando non era stato troppo tardi. La sua vita era andata a rotoli fin dal primo momento.
− Una persona che si lamenta di esistere con un vescovo?
− Già.
− Ma che cosa voleva, esattamente?
− Cercava di convincere il vescovo che l’aborto può essere giusto. Qualcosa del genere. Non so bene. Molte di queste lettere sono state scritte da pazzi furiosi, Yngvar. Credo anch’io che non dobbiamo caricarle di troppa importanza. Però… visto che praticamente non abbiamo nient’altro, forse sarebbe meglio dare un’occhiata un po’ piú approfondita. Torni presto?
Yngvar incastrò il telefono fra la spalla e la guancia. Aprí il cassetto della scrivania, arraffò un Kvikk Lunsj e strappò la confezione.
− La settimana prossima, credo. Ma ci sentiamo di sicuro prima. Ciao!
Posò il telefono e separò le quattro barrette. Cominciò a mangiare lentamente. Teneva a lungo ogni boccone sulla lingua, piú che masticare succhiava. Dopo aver finito la prima barretta, prese la seconda. Ci mise cinque minuti per godersi fino in fondo tutta la confezione, e per concludere si leccò le dita.
Il suo umore migliorò. Gli zuccheri nel sangue aumentarono e lui ci guadagnò in lucidità. Quando alcuni secondi dopo realizzò di aver ingurgitato duecentosedici calorie assolutamente inutili si sentí cosí depresso che prese il giaccone appeso a un gancio e spense la luce. Era mercoledí 7 gennaio e sette giorni passati a patire la fame erano stati piú che sufficienti, almeno per il momento.
Si sarebbe concesso una bella cenetta come si deve.

Collera

Il 9 gennaio intorno all’ora di cena suonarono alla porta di una villa grigia in Hystadveien, nel comune di Sandefjord.
Synnøve Hessel se ne stava sdraiata sul divano, immersa in uno stato oscillante fra sonno e realtà, in un dormiveglia di cupi sogni. Di notte non riusciva a dormire, le ore piú buie parevano tanto lunghe quanto sprecate. Era impossibile cercare Marianne mentre tutti dormivano e tutto era chiuso, ma riposare era ugualmente impossibile. I giorni diventavano sempre piú difficili. Di tanto in tanto si assopiva, come in quel momento.
Non che ci fosse molto altro da fare.
Il conto corrente che avevano in comune non era stato toccato, mentre del conto di cui Marianne era unica titolare Synnøve non aveva ancora saputo niente. Aveva contattato tutti gli ospedali della Norvegia, invano. Telefonato a tutti gli amici. Anche ai conoscenti piú superficiali e ai parenti piú lontani aveva chiesto se avessero saputo qualcosa di Marianne dopo il 19 dicembre. Due giorni prima si era fatta coraggio e aveva finalmente chiamato i suoceri. L’ultima volta che aveva avuto loro notizie era stata quando aveva letto la terribile lettera che i due le avevano spedito nel momento in cui era diventato chiaro che Marianne avrebbe lasciato il marito per andare a vivere con un’altra donna. La telefonata era stata una perdita di tempo. Non appena la madre di Marianne aveva capito chi c’era all’altro capo del filo si era lanciata in due minuti di scenata sconnessa per poi riattaccare. Synnøve non era riuscita nemmeno a dirle per quale ragione l’aveva chiamata.
Di Marianne ancora nessuna traccia.
Synnøve non toccava praticamente cibo da una settimana e mezzo. I giorni successivi alla scomparsa li aveva passati a cercare, mentre le notti le aveva trascorse facendo lunghissime camminate in compagnia dei suoi husky. Adesso non ne aveva piú la forza. Nelle ultime quarantott’ore i cani avevano dovuto accontentarsi del loro box. Il giorno prima si era dimenticata la pappa. Quando improvvisamente se n’era accorta erano già le due di notte. Il suo pianto aveva spaventato il capobranco, che si era messo a guaire e scodinzolare pretendendo un sacco di attenzioni e rifiutandosi di mangiare prima di averle avute. Synnøve aveva finito per strisciare dentro una delle cucce e lí si era addormentata, con Kaja fra le braccia. Dopo mezz’ora si era svegliata tutta intirizzita.
Suonarono di nuovo alla porta di casa. Synnøve rimase sdraiata. Non voleva visite. Molti erano passati a trovarla, ma solo pochi avevano avuto il permesso di entrare.
Din don.
Ancora una volta il campanello.
Indolenzita si alzò dal divano e piegò la coperta. Le era venuto il torcicollo e cominciò a massaggiarsi mentre si trascinava verso la porta, preparandosi a convincere l’ennesimo amico che preferiva stare da sola.
Quando aprí e sui gradini vide Kjetil Berggren le girò la testa per il sollievo. Avevano ritrovato Marianne, pensò, e Kjetil Berggren era venuto di persona a darle la buona notizia. Era stato solo un terribile malinteso, ma adesso Marianne sarebbe tornata e tutto sarebbe stato come prima.
Kjetil Berggren aveva un’aria molto seria. Synnøve fece un passo indietro, nel corridoio. La porta d’ingresso si aprí del tutto. Dietro di lui c’era una donna. Avrà avuto una cinquantina d’anni, indossava un cappotto pesante e, al posto della sciarpa per proteggersi dal freddo pungente di gennaio, portava un collarino ecclesiastico.
Il pastore aveva in volto la stessa espressione grave del poliziotto.
Synnøve arretrò di un altro passo, poi si afflosciò e cadde in ginocchio sul pavimento portandosi le mani sul viso. Si conficcò le unghie nella pelle e sulle guance comparvero strisce rosse di sangue. Gridava: un ululato costante e lamentoso che non somigliava a niente che Kjetil Berggren avesse già sentito. Solo quando Synnøve cominciò a sbattere la testa sul pavimento lui tentò di afferrarla da sotto le ascelle e rimetterla in piedi. Lei lo colpí con forza, violentemente, poi si afflosciò di nuovo.
E per tutto il tempo quell’urlo.
Un suono intenso di dolore a cui i cani nel giardino sul retro risposero: sei siberian husky ulularono come i lupi che quasi erano. Il coro di lamenti si levò verso la bassa coltre di nubi. Lo si poteva sentire fino a Framnes, sull’altra sponda del grigio e desolato fiordo invernale.
Una sirena squarciò il monotono e costante rumore del traffico proprio quando si fermarono a un semaforo rosso. Nello specchietto retrovisore Lukas vide una luce blu lampeggiante e cercò di accostare meglio al marciapiede senza invadere le strisce pedonali. L’ambulanza arrivò, superò la coda a velocità fin troppo sostenuta e per poco non investí un uomo di mezza età che stava passando proprio davanti al cofano della grande Bmw X5 di Lukas e che evidentemente era sordo.
− Per un pelo, − disse lui al padre mentre fissava il povero pedone sbigottito, poi le macchine dietro la sua cominciarono a suonare.
Seduto al suo fianco, Erik Lysgaard non rispose, rimase taciturno come sempre. I vestiti ormai gli stavano palesemente troppo larghi. La cintura di sicurezza lo faceva sembrare piatto e magro. Aveva i capelli che gli ricadevano tristemente a ciocche intorno al cranio e dimostrava dieci anni di piú. Lukas aveva dovuto ricordargli di farsi una doccia quella mattina: si era accorto che emanava un odore acre la sera prima quando, seppur controvoglia, suo padre aveva accettato un abbraccio.
Non era cambiato niente.
Per l’ennesima volta Lukas aveva insistito con lui perché andasse a trovarli a Os. E per l’ennesima volta Erik aveva protestato, ma alla fine il figlio ce l’aveva fatta a convincerlo. I nipoti si erano di nuovo spaventati nel vedere il nonno ancora ridotto in quello stato, e in un paio di occasioni Astrid era stata sul punto di perdere le staffe.
− È arrivato il momento di pianificare un po’, − gli disse Lukas. – Secondo la polizia potremo fare il funerale un giorno della settimana prossima. Per forza di cose sarà in grande. Erano in molti a voler bene alla mamma.
Erik sedeva silenzioso e inespressivo.
− Non puoi far finta di niente!
− Organizza tutto tu, − gli rispose il padre. – A me non interessa.
Lukas si allungò verso l’autoradio e la spense. Stringeva il volante cosí forte che le nocche sbiancarono, e percorse l’ultimo tratto di Årstadveien a una velocità che gli sarebbe sicuramente costata il ritiro della patente. Quando arrivò al cancello di Nubbebakken svoltò a sinistra facendo fischiare i copertoni, attraversò la corsia opposta e frenò di colpo.
− Papà, − gli disse a voce bassa, quasi in un sussurro. – Perché una delle fotografie è sparita?
Per la prima volta da quando erano saliti in macchina Erik Lysgaard lo guardò negli occhi.
− Fotografia?
− La fotografia che era in camera della mamma.
Il padre distolse gli occhi.
− Voglio andare a casa.
− Ci sono sempre state quattro fotografie su quella mensola. C’erano anche quando sono venuto da te il giorno dopo che hanno ucciso la mamma. Me lo ricordo bene, perché quel poliziotto si è sbagliato ed è entrato lí. Una delle fotografie adesso non c’è piú. Perché?
− Voglio andare a casa.
− Adesso vai a casa. Ma prima rispondimi!
Lukas sferrò un pugno al volante. Imprecò tra sé per il dolore agghiacciante che gli risalí lungo il braccio.
− Portami a casa, − gli disse Erik. – Subito.
Il gelo nella voce del padre ridusse Lukas al silenzio. Ingranò la marcia. Gli tremavano le mani, si sentiva turbato quasi come quando la polizia si era presentata alla porta con il funesto messaggio. Pochi minuti dopo, entrando nella piazzola al di là del cancello aperto davanti alla casa del padre, ebbe davanti agli occhi la bella donna ritratta nella fotografia mancante. Aveva i capelli scuri e, nonostante fosse un’immagine in bianco e nero, lui era convinto che avesse gli occhi azzurri. Proprio come i suoi. Il naso era dritto e stretto, come il suo, e il sorriso scopriva un incisivo superiore leggermente sovrapposto all’altro.
Proprio come i suoi denti.
La fotografia non rivelava granché dei vestiti e questo rendeva difficile indovinare in che periodo fosse stata scattata. La prima volta che Lukas l’aveva notata era un adolescente. Adesso che lui stesso aveva dei figli ed era diventato consapevole di che grandi osservatori fossero i ragazzini, era giunto alla conclusione che non poteva esserci stata prima di allora. Un giorno aveva chiesto chi fosse la donna della foto; sua madre con un sorriso gli aveva accarezzato una guancia e risposto: «Un’amica che tu non conosci».
Lukas spense il motore, scese dall’auto e andò ad aiutare il padre.
Non scambiarono una sola parola e ognuno evitò di guardare l’altro.
Quando la porta si richiuse alle spalle di Erik, Lukas risalí in macchina e lí rimase, a lungo, mentre la pioggerellina ghiacciata che cadeva sul parabrezza rendeva il vetro sempre meno trasparente e l’abitacolo sempre piú freddo.
L’amica di sua madre purtroppo gli assomigliava molto.
− Ma come ti somiglia! Siete uguali identiche!
Karen Winslow rideva con la fotografia di Ragnhild fra le dita. La teneva obliqua per evitare il riflesso dei lampadari e la guardava con la testa inclinata da una parte. Ragnhild era ritratta nella vasca da bagno, con lo shampoo sui capelli e una gigantesca papera giocattolo sulla pancia. Sembrava che un mostro giallo l’avesse aggredita.
− E cosí questa è la piú piccola, − disse a Johanne porgendole la foto. − Fammi vedere anche la piú grande!
La foto era stata scattata a Natale. Kristiane se ne stava seduta sui gradini davanti alla loro casa in Hauges Vei, aveva un’espressione seria e per una volta fissava l’obiettivo. Si era appena tolta il berretto e i suoi capelli fini erano tutti scarmigliati per l’elettricità statica: con la luce che proveniva dal vetro della porta alle sue spalle, pareva che avesse l’aureola.
− Wow! – disse Karen seria. – Che bambina meravigliosa! Quanti anni ha? Nove? Dieci?
− Quasi quattordici, − le rispose Johanne. – Solo che non è proprio come tutti gli altri bambini.
Dirlo le era riuscito sorprendentemente facile.
− Davvero? Cos’ha che non va?
− Chissà… − sospirò lei. – Kristiane è nata con un grave difetto cardiaco. Prima ancora di compiere un anno ha subito tre operazioni al cuore molto pesanti. Se i suoi problemi siano insorti allora o se siano congeniti, nessuno lo ha mai scoperto con certezza.
Karen sorrise di nuovo e scrutò la fotografia piú da vicino. La sua vecchia compagna di studi le riportava alla mente che erano passati tantissimi anni. Karen era sempre stata snella e in forma, ma adesso aveva un’espressione piú tesa, un viso piú asciutto e i capelli scuri striati di grigio. Portava gli occhiali, cosa che un tempo non faceva, ma dovevano essere una novità perché continuava a metterli e toglierli e non sapeva bene cosa farsene quando non li aveva sul naso.
Erano trascorsi quasi diciotto anni dall’ultima volta che si erano viste, ma si erano riconosciute subito. Dopo che Karen era scesa dal taxi davanti al Restaurant Victor di Sandaker, Johanne aveva ricevuto l’abbraccio piú lungo che ricordasse; al momento di entrare, lei si sentiva davvero felice.
Eccitata, quasi.
Il cameriere serví loro un bicchiere di champagne.
− Desiderate subito una breve presentazione del menu? – chiese con un sorriso.
− Fra un attimo, − si affrettò a rispondere Johanne.
− Naturalmente. Torno piú tardi.
Karen levò il bicchiere e brindò.
− A te, – disse ridendo. – Non pensavo ci saremmo riviste. È fantastico!
Sorseggiarono lo champagne.
− Mhm… Delizioso. Parlami ancora di Kristi… Krysti…
− Kristiane. Per molto tempo gli specialisti sono stati convinti che si potesse trattare di una forma di autismo. Sindrome di Asperger, probabilmente. Ma non è cosí, non proprio. È vero che Kristiane ha un estremo bisogno di routine e che è capace di lasciarsi assorbire per lunghi periodi da un ordine e un’organizzazione ripetitivi… a volte ricorda addirittura un savant, hai presente, un autistico con abilità estreme. Solo che poi, di colpo, senza che nessuno sia mai riuscito a spiegare che cosa sia a scatenare il cambiamento, ecco che si comporta come una qualunque ragazzina leggermente ritardata. E anche se fatica a fare amicizia, si dimostra molto flessibile nei rapporti con le altre persone. È…
Johanne sollevò di nuovo il bicchiere, stupita di quanto le facesse bene parlare della figlia maggiore con qualcuno che non l’aveva mai vista.
− … molto affettuosa con tutti i suoi familiari.
− È davvero adorabile, − le disse Karen, e le restituí la fotografia. – Sei davvero molto, molto fortunata ad averla.
Quell’affermazione scaldò il cuore di Johanne facendole quasi provare vergogna. Isak voleva bene a sua figlia sopra ogni altra cosa e Yngvar era il piú affettuoso dei patrigni. I nonni sia materni sia paterni adoravano Kristiane, che in effetti era ben integrata nella cerchia sociale della famiglia Vik Stubø, sempre nei limiti di quanto potesse esserlo una ragazzina come lei. A volte qualcuno diceva che Kristiane era fortunata ad avere una famiglia cosí. Live Smith le era sembrata felice di avere sua figlia in quella scuola.
Ma nessuno mai aveva detto a Johanne che era lei la fortunata ad avere una figlia come Kristiane.
− Hai ragione, − disse. – Sono davvero… siamo davvero fortunati ad averla.
Batté rapida le palpebre per soffocare le lacrime. Karen allungò un braccio sopra il tavolo e le posò una mano sulla guancia. Fu un gesto che stranamente Johanne accolse con piacere, nonostante i molti anni che le avevano separate.
− I bambini sono il dono piú grande del Signore, − disse Karen. – Sono sempre, sempre una benedizione, indipendentemente da dove vengono, dove vanno e come sono. Dovrebbero essere curati, amati e rispettati di conseguenza.
Una lacrima solitaria si staccò dalle ciglia di Johanne e le scivolò giú per la guancia.
Gli americani e le loro parole altisonanti, pensò. Gli americani e il loro modo pesante, ampolloso e bello di usare le parole. Fece un sorriso fugace e si asciugò la lacrima con il dorso della mano.
− Pronte a ordinare?
Il cameriere era spuntato dal nulla e spostava lo sguardo dall’una all’altra.
− Sí, − rispose Johanne. – Ti sarei grata se potessi elencarci il menu in inglese, cosí posso fare a meno di tradurre per la mia amica.
Non fu certo un problema: il cameriere parlò per quasi dieci minuti descrivendo i diversi piatti e rispondendo a tutte le domande di chiarimenti che Karen gli poneva. Quando infine si furono messi d’accordo su cosa mangiare e cosa bere, Johanne dovette ammettere che Karen era molto piú a suo agio di lei. Perfino il cameriere sembrava essere rimasto favorevolmente colpito dai suoi modi.
Iniziarono con le ostriche.
Sul menu non comparivano e il cameriere non le aveva nominate durante la sua esaustiva presentazione di tutto quello che il ristorante aveva da offrire. Quando lui aveva concluso il suo panegirico, Karen aveva inclinato la testa da una parte, sorriso con quei suoi denti bianchissimi e accennato al fatto che qualunque chef con un minimo di rispetto per sé stesso teneva da parte delle ostriche.
«Sempre», aveva detto.
E con ragione.
Il problema era che Johanne di ostriche non ne aveva mai mangiate.
Era una laureata con tanto di dottorato, aveva viaggiato e godeva di un certo tenore di vita. Le piaceva mangiare. Aveva assaggiato la carne di cane in Cina e i ragni fritti su una bancarella nei pressi dell’Angkor Wat. Ma le ostriche non aveva mai osato assaggiarle.
Sbirciò il suo piatto. Le conchiglie aperte erano posate su un letto di ghiaccio ed emanavano un leggero profumo di battigia. Nessuno avrebbe mai potuto affermare che quella viscida massa grigiobianca avesse un aspetto appetitoso. Johanne lanciò un’occhiata all’amica che da una ciotolina versava goccia a goccia il condimento a base di vino del Reno e aceto sopra ogni ostrica. Poi Karen prese la prima, la avvicinò alle labbra e ne succhiò il contenuto. A occhi chiusi si gustò il mollusco tenendolo a lungo in bocca, poi inghiottí ed esclamò: − Perfetta!
Johanne la imitò.
Non aveva mai mangiato niente di cosí delizioso.
− Johanne, − le disse Karen una volta finite le ostriche. – Racconta. Raccontami tutto! Assolutamente tutto!
Continuarono a chiacchierare ininterrottamente per le due portate successive. Di quando studiavano insieme e degli amici comuni a quel tempo. Di famiglie e genitori, gioie e frustrazioni. Dei figli. Con le voci che si sovrapponevano, ridevano e si interrompevano a vicenda. Il locale era piccolo e l’acustica pessima: la sonora risata di Karen rimbalzava sulle alte pareti e disturbava gli altri ospiti. Ma il cameriere continuava a essere gentile e provvedeva discretamente a riempire i loro bicchieri ogni volta che ce n’era bisogno.
− Karen, devo chiederti una cosa.
Johanne abbassò gli occhi sulla quarta portata: quaglia su un letto di purea di topinambur. Intorno al povero uccellino erano disposte delle strisce sottili di prosciutto di Parma inframmezzate da pomodorini sottaceto.
− Raccontami dell’Aplc, − le disse.
− E tu come fai a sapere che è lí che lavoro?
Karen si pulí la bocca con il grosso tovagliolo di stoffa, poi riafferrò coltello e forchetta.
− Ti ho cercato su Google, − rispose Johanne. – Sto lavorando a un progetto che…
Karen rise tanto da far tintinnare i bicchieri.
− Ce ne stiamo sedute qui da piú di due ore e ancora non ci siamo nemmeno dette dove lavoriamo e che cosa facciamo! Racconta, dài!
E Johanne cominciò a raccontare: del lavoro all’Istituto di criminologia, della tesi di dottorato discussa nel 2000, di quanto amasse fare ricerca anche se le ore di insegnamento obbligatorio che la sua posizione comportava erano insopportabili, delle gioie e frustrazioni di dover conciliare la carriera con due figlie esigenti. Alla fine le espose il progetto a cui stava lavorando in quel periodo; quando ebbe finito, le quaglie si erano ridotte a miseri scheletrini e i piatti erano vuoti.
− Devi venire a trovarci, − le disse Karen in tono deciso. – Quello di cui ci occupiamo noi sarebbe fondamentale per la tua ricerca.
− E adesso tocca a te, − le disse Johanne. – Su, racconta.
Chiese al cameriere di poter fare una piccola pausa prima della portata successiva. Sentiva di aver bevuto troppo, ma non aveva importanza. Non ricordava l’ultima volta che aveva mangiato al ristorante, e di tempo ne era passato da quando le era capitato di sentirsi cosí bene. Perciò, nel momento in cui il cameriere si avvicinò per riempirle il bicchiere, lo ringraziò con un sorriso.
− Il primo studio dell’Aplc è stato aperto nel 1971, − iniziò Karen. Sollevò il bicchiere di vino rosso verso la luce per poterne valutare il colore. − A Montgomery, in Alabama. I fondatori, che per altro sono due bianchi, erano membri del movimento per la difesa dei diritti civili. Aprirono lo studio innanzitutto per lavorare contro il razzismo: un business sempre in deficit, naturalmente.
Si interruppe, come se stesse cercando un modo per raccontare una lunga storia nel piú breve tempo possibile.
− All’inizio si può ben dire che fosse una specie di sportello di consulenza legale gratuita. Io non ne facevo ancora parte, chiaro!
La sua risata rimbombò nella sala e una coppia di una certa età che sedeva a due tavoli dal loro si voltò a guardarle con aria inacidita.
− A quell’epoca non avevo neanche finito le elementari. Nel 1981 venne istituito un servizio informazioni, proprio per raggiungere meglio l’unico vero scopo che ci si prefiggeva, vale a dire: che gli Stati Uniti d’America si attenessero a quella che un tempo era stata una costituzione rivoluzionaria. Nei primi anni la lotta fu sostanzialmente contro i cosiddetti White Supremacist Groups.
− Il Ku Klux Klan, − disse Johanne a bassa voce.
− Anche. Abbiamo vinto un sacco di cause contro i membri del Ku Klux Klan. Un paio di volte siamo addirittura arrivati a ottenere la distruzione dei loro campi di addestramento e a far saltare delle cellule di attività piuttosto estese. Il problema ovviamente è che…
Sospirò e bevve un sorso di vino.
− … il Ku Klux Klan non è certo l’unico nel suo genere. Basti pensare a Imperial Klans of America, Aryan Nations, Church of The Creator, e chi piú ne ha piú ne metta. Il cosiddetto servizio informazioni con gli anni è diventato sempre piú ampio, e oggi abbiamo una visione d’insieme che include novecentoventisei diversi gruppi motivati dall’odio sparsi in tutto il territorio degli Stati Uniti. Alcuni sono molto attivi.
Sottolineò con grande enfasi la parola «molto».
− Suppongo che non tutti questi gruppi ce l’abbiano con gli afroamericani, giusto?
− Giusto. Per esempio, ci sono movimenti separatisti di neri che vorrebbero liberarsi di tutti noi! Anche gli ebrei hanno i loro nemici, un po’ ovunque. Compreso da noi.
A un tratto, a Johanne la sua amica parve piú vecchia. Le rughe intorno agli occhi non erano rughe di espressione come le erano sembrate all’inizio, no, perché quando Karen era seria si facevano ancor piú profonde.
− Institute for Historical Review, Noontide Press… fin troppi. E da parte loro gli ebrei hanno la Lega di difesa ebraica, che in ultima istanza è anch’essa un’organizzazione fondata sull’odio. Alla fin fine c’è abbastanza odio per tutti, nel mondo. Abbiamo gruppi contro i sudamericani, contro i nativi, a favore dei nativi, contro tutti gli immigrati su basi piú ampie e libere da pregiudizi…
Terminò la frase con un sorriso ironico. Aveva cominciato a parlare a voce piú bassa, ma la coppia seduta vicino alla parete lanciò loro uno sguardo di riprovazione prima di alzarsi e andarsene. Quando i due passarono dietro Johanne borbottarono qualcosa a proposito di una cena rovinata e che tutto ha un limite, anche per gli americani.
− E poi naturalmente ci sono quelli che odiano gli omosessuali, − aggiunse Karen.
Venne servito il dessert.
− Carpaccio di fragole in crosta di vaniglia, − annunciò il cameriere posando i piatti davanti a loro, − accompagnato da un piccolo sorbetto allo champagne. Buon appetito!
− Quanti affiliati hanno sul serio, questi gruppi? – le chiese Johanne quando furono sole.
Karen infilò il cucchiaino tra le fettine di fragola, puntò il gomito sul tavolo e osservò a lungo quel che aveva nel piatto prima di dire: − A questa domanda non è facile dare una risposta. Per quanto riguarda le organizzazioni puramente razziste, sono piú estese di quanto ci piaccia pensare. Alcune esistono da molto e hanno un’organizzazione paramilitare. Altre, soprattutto i gruppi antigay, sono difficili da…
Si mise il cucchiaino in bocca e chiuse gli occhi mentre masticava per godersi appieno il dessert.
− Come dire… − continuò prendendo tempo, − difficili da definire?
Johanne annuí. Anche lei incontrava la stessa difficoltà. Le chiese: − Per via dello stretto legame che hanno con comunità religiose di per sé legittime?
− Sí, − rispose Karen. – Fra l’altro anche per questo. In linea di principio si definisce «gruppo d’odio» una organizzazione piuttosto stabile che propaganda o comunque esterna odio verso altri gruppi. Non si possono considerare criminali fino a quando non oltrepassano i confini della libertà di espressione a cui la maggior parte dei Paesi si attiene, non istigano altri ad azioni legalmente perseguibili oppure non le compiono loro stessi, laddove l’obiettivo dell’azione criminale del singolo rientra nei limiti dell’appartenenza a un gruppo piú ampio di persone con segni di riconoscimento specifici e ben individuabili.
Tirò il fiato.
− La sapevi proprio a memoria la risposta alla mia domanda, − commentò Johanne con un sorriso.
− Diciamo che ho già avuto qualche occasione per provarla…
Mangiava piú adagio adesso. Johanne era davvero sazia e allontanò il piatto con il dessert verso il centro del tavolo.
− Ti faccio un esempio, − proseguí Karen. – È successo nel 2007. Un ragazzo, un certo Satender Sing, era in ferie nella zona del lago Natoma, in California. Arrivava dalle Fiji. Un giorno è andato al ristorante insieme a degli amici indiani. A un gruppo di persone che parlavano in russo è sembrato di capire che fosse omosessuale e, per fartela breve, lo hanno ucciso.
Johanne restò in silenzio.
− Che degli omosessuali vengano uccisi per il semplice fatto di essere omosessuali è una cosa che succede, − proseguí Karen. – La circostanza particolare, in questo caso, è che gli assassini appartenevano a un piú esteso gruppo di immigrati slavi religiosi che vive dalle parti di Sacramento. E nelle loro comunità c’è una chiara presa di posizione contro i gay. Stiamo parlando di quasi centomila persone, suddivise in settanta comunità fondamentaliste cresciute in una zona che già da prima registrava una forte presenza omosessuale. Dire che ormai i rapporti tra i due gruppi sono tesi sarebbe un eufemismo. I cristiani portano avanti un’intensa propaganda antiomosessuale: hanno televisioni, radio, e un’enorme capacità di mobilitazione. Certe volte, alle manifestazioni di protesta promosse dalle organizzazioni omosessuali ci sono piú oppositori che dimostranti.
Fece un bel respiro profondo e si mise a grattare con la forchetta i resti di salsa che aveva sul piatto mentre proseguiva: − Ma quand’è che queste comunità finiscono per diventare criminali? Da una parte il loro odio è evidente. Le parole che usano e soprattutto l’attenzione spropositata per l’omosessualità sottolineano che si tratta di un odio puro, folle. Senza contare poi che i loro leader spirituali si rifiutano di prendere direttamente le distanze da omicidi come quello di Satender, ad esempio. D’altro canto, però: la libertà di espressione è giustamente molto ampia, e sono parecchi gli appartenenti a queste comunità, diffuse in tutti gli Stati Uniti tra l’altro, che si guardano bene dall’esortare alla violenza e all’omicidio.
− Gettano le basi per azioni motivate dall’odio, si rifiutano di prendere le distanze quando quelle azioni vengono messe in atto e per finire se ne lavano le mani perché loro non hanno detto a chiare lettere «uccideteli».
− Esatto, − annuí Karen. – E quando un prete grida nell’etere: gli omosessuali si rotolano nel peccato e moriranno di una morte dolorosa, bruceranno all’inferno e… Be’, poi potrà sempre sostenere che era alla parola e alla volontà di Dio che si riferiva. Che alcuni figli di Dio lo abbiano poi interpretato in senso letterale, non è un suo problema. La libertà di espressione e la libertà religiosa sono, come tu ben sai…
− … il fondamento stesso dell’esistenza degli Stati Uniti d’America, − concluse Johanne.
− Ancora un po’ di caffè?
Il cameriere doveva avere un master in pazienza. Erano le uniche clienti del locale già da mezz’ora e lui stava solo aspettando che se ne andassero, ciononostante si era preso la briga di riempire di nuovo le loro tazze di caffè e aveva anche portato altro latte tiepido.
− La situazione è davvero brutta, – proseguí Karen una volta che il cameriere si fu allontanato. – Senza contare poi che, oltre alle comunità estremiste diffuse in vari punti degli Stati Uniti, esistono anche organizzazioni ben radicate. L’American Family Association, per esempio. Nemmeno queste organizzazioni incitano all’omicidio, ovviamente, solo che ogni occasione è buona per fare un gran casino, e cosí contribuiscono a peggiorare il clima dei dibattiti politici. Tempo fa hanno organizzato il boicottaggio di McDonald’s, per esempio.
− Tutto sommato mi sembra ragionevole, − commentò con un sorriso Johanne. – E perché?
− Perché McDonald’s aveva comprato degli spazi pubblicitari all’interno di un gay pride.
− E come è andata a finire?
− Per fortuna si è risolto in una bolla di sapone. Quella volta, però. Alcuni di questi gruppi sono potentissimi, possono contare su finanziamenti abbondanti, sono molto influenti e non si fermano davanti a niente o quasi. Per odiare odiano, ma non possono certo definirsi criminali. La cosa davvero spaventosa, comunque, è il fatto che…
Levò il bicchiere come in un brindisi silenzioso.
− Cominciamo a trovare tracce di una persecuzione piú sistematica. Nel corso dell’ultimo anno, sono stati uccisi sei omosessuali maschi. Tre omicidi a New York, uno a Seattle e due a Dallas, tutti insoluti. Per molto tempo la polizia delle varie città li ha trattati come casi a sé stanti. Il modus operandi e le circostanze variavano. Il nostro ufficio, invece, dopo qualche tempo ha scoperto che due vittime erano cugine, la terza era andata a scuola con la prima e la quarta aveva fatto un Interrail in Europa con la seconda, e per finire la quinta e la sesta vittima avevano avuto brevi relazioni con la quarta a un paio d’anni di distanza. Il caso è passato nelle mani dell’Fbi, diciamo… Non che loro abbiano fatto molti passi avanti nella ricerca dei colpevoli. Il nostro ufficio comunque seguirà tutta l’inchiesta finché non si sarà arrivati a una soluzione.
− Però, − esclamò Johanne. – E quali teorie avete sviluppato in merito?
− Molte.
I rumori provenienti dalla cucina si erano fatti piú forti. Fruste e mestoli venivano posati sui banconi di metallo e il frastuono importuno di una lavastoviglie industriale giungeva fino a loro. Johanne guardò l’orologio.
− Mi sa proprio che dobbiamo andarcene, − disse. Esitò un istante poi aggiunse: − Ti piace ancora camminare, Karen?
− A me? Eccome.
Johanne fece cenno che le portassero il conto. Era già pronto da tempo e Karen riuscí a prenderlo prima ancora che l’amica si accorgesse che era arrivato il cameriere.
− Offro io.
Johanne non osò nemmeno protestare.
− Che ne dici di una bella passeggiata notturna fino a casa mia per un ultimo bicchierino prima di andare a letto? – le chiese mentre Karen tirava fuori la carta di credito. – Abitiamo a una ventina di minuti da qui, forse ci metteremo un po’ di piú viste le condizioni delle strade.
− Splendido! – rispose con entusiasmo Karen, poi subissò di complimenti il cameriere, prese il cappotto e andò verso l’uscita.
− Certo che Oslo è molto tranquilla, − disse stupita quando si ritrovarono fuori.
Il semaforo all’incrocio fra Hans Nielsen Hauges Vei e Sandakerveien scattò dal giallo al rosso senza che passassero auto. Lo sporco e i gas di scarico della giornata erano stati nascosti da un sottile strato di neve appena caduta. Sui marciapiedi non si vedeva neppure un’impronta. Le nubi erano ancora basse sulla città e verso sudovest si ammantavano di un colore giallastro e malaticcio dovuto ai lampioni del centro.
− Questo è piú che altro un quartiere residenziale, − le spiegò Johanne. – Senza contare poi che la vita mondana la sera è ridotta al lumicino, subito dopo Natale. Diciamo che i norvegesi furoreggiano in dicembre e che gennaio è il mese dei loro buoni propositi.
Svoltarono all’angolo del videonoleggio e cominciarono a risalire lungo Sandakerveien.
− Dov’eravamo rimaste? – chiese Karen.
− Alle teorie su quei sei omicidi, − le ricordò Johanne.
− Ecco, sí…
Karen si strinse meglio la sciarpa mentre camminavano. Johanne aveva dimenticato che era molto alta e che aveva gambe lunghissime: dovette accelerare per riuscire a starle dietro.
− Per quanto riguarda il movimento antigay, abbiamo osservato che si sono formate nuove costellazioni, anche strane. Ebrei e cristiani, musulmani e una volta tanto gruppi dell’estrema destra, che per secoli non sono riusciti ad avere rapporti pacifici, hanno trovato un nemico comune: la comunità gay. Abbiamo appena scoperto l’esistenza di un gruppo che si fa chiamare «The 25’ers». La cosa particolare di questa organizzazione è che opera fondamentalmente nel silenzio.
− Nel silenzio? Ma lo scopo di questi gruppi non è fare piú cagnara possibile?
− Di norma sí. Loro invece sono diversi. Crediamo siano nati in ambienti piú tradizionali e fondamentalisti, sia da parte islamica che cristiana. È come se dal loro punto di vista le cose stessero andando troppo per le lunghe, come se fosse ormai giunto il momento di fare qualcosa di drastico. Potremmo dire che i personaggi sono quelli di prima, cambia la messinscena. Lo scopo è lo stesso, ma c’è la volontà di servirsi di tutt’altri mezzi pur di raggiungerlo.
Camminarono in silenzio per un po’. La conversazione aveva preso una piega che Johanne non era sicura di voler continuare a seguire.
− Quali mezzi? – chiese invece, quando furono arrivate dove Sandakerveien si allargava e svoltava in direzione nordovest.
Karen si fermò cosí di colpo che Johanne proseguí per un paio di metri prima di rendersene conto.
− Oslo non è affatto una bella città, − disse Karen guardandosi intorno.
Johanne sorrise.
− Io credo, − le disse, − che il punto esatto in cui stiamo adesso sia il piú brutto, il piú orrendo dell’intera Oslo. Non che secondo me sia una città particolarmente bella, ma di sicuro non va giudicata in base a quello che si vede da qui.
Sulla destra c’erano diversi magazzini squadrati che cercavano di nascondersi sotto la neve per pura vergogna. Davanti ai magazzini, all’innesto di Nycoveien che procedeva per alcune centinaia di metri prima di sfociare in una rotonda deserta, metà muro del centro commerciale Storo Storsenter era stato demolito in vista di un ampliamento, solo che il lavoro malfatto rendeva l’aerea piú simile a un cumulo di rovine che a un cantiere; sul tetto una gigantesca o rossa lampeggiava nell’oscurità, come l’occhio infiammato di un ciclope. Fra Sandakerveien e Nycoveien, le strisce verticali turchesi che ornavano un palazzo adibito a uffici si riflettevano nitidamente sulla neve. Sulla sinistra spiccava una manciata di edifici di mattoni gialli; per qualche motivo l’architetto aveva deciso di posizionare all’esterno ogni tubatura: il risultato ricordava il fondale di un film di fantascienza a basso costo.
− Sarà molto meglio quando arriveremo a Nydalen, − le disse Johanne. − Vieni, dài.
Camminando faticosamente proseguirono tenendosi al centro della strada.
− E comunque di «The 25’ers» sappiamo troppo poco, − disse Karen non appena ebbero aumentato un po’ l’andatura. – Ma abbiamo ragione di credere che si sia creata un’alleanza come minimo infausta fra musulmani fondamentalisti e cristiani fondamentalisti. Pare che il nome derivi dalla somma delle cifre che compongono i numeri 19, 24 e 27. Il primo ha a che fare con il Corano, mentre gli altri due fanno riferimento a qualche versetto della lettera di san Paolo ai Romani… una roba piuttosto complicata. Naturalmente non si tratta di una comunità religiosa, né tantomeno di un gruppo politico.
− E di cosa si tratta allora?
− Di un gruppo di attivisti. Paramilitare. Conosciamo l’identità di almeno tre membri: due cristiani ultraconservatori e un musulmano, tutti con un passato nell’ambiente militare. Uno addirittura faceva parte dei Navy Seal, le forze speciali della marina statunitense. Il problema è che loro sanno che noi sappiamo chi sono, quindi si sono dati una calmata: si comportano nel piú normale dei modi e basta. Purtroppo abbiamo ragione di supporre che sia un gruppo alquanto esteso: ampio e molto ben organizzato. Per quanto riguarda questo caso l’Fbi sta solo sbattendo la testa contro il muro, perciò non è che ci sia molto che noi dell’Aplc possiamo fare. Ma ci proviamo lo stesso, naturalmente. Ci proviamo con tutte le nostre forze.
− Ma che cosa fa questa gente? – chiese smaniosa Johanne.
− Uccide omosessuali di entrambi i sessi, − rispose Karen. – «The 25’ers» è il club degli insoddisfatti, quelli che vogliono l’azione, non solo le parole.
Si interruppe quando dovettero spostarsi sopra i cumuli di neve sul ciglio della strada, visto che stava arrivando un’automobile.
− Per fortuna in Norvegia tutto sommato ci accontentiamo di insultarli, − disse Johanne.
Karen fece un sorriso obliquo e si fermò prima di una nuova rotonda.
− È cosí che inizia, − disse. – È esattamente cosí che inizia.
Non si vedevano altre macchine, perciò attraversarono.
− I movimenti antigay in Norvegia sono soprattutto di stampo religioso? – chiese Karen.
− Sí e no. Direi che quello che si può definire come un movimento è impregnato di valori e ideali del cristianesimo conservatore. Alcuni tentano di costruire una piattaforma di impianto piú moralistico-filosofico, per le loro argomentazioni omofobe. A ben vedere, però, se si analizzano a fondo quelle argomentazioni ci si rende conto che, comunque, il punto di partenza comune è una radicatissima fede in Dio.
Fece un sospiro profondo.
− E poi abbiamo le continue lamentele di chi sta nelle roulotte.
− Nelle roulotte?
− È solo un modo di dire. Mi riferivo alla voce della gente comune, di chi non è un cristiano molto convinto né tantomeno un filosofo. A quella gente gli omosessuali non piacciono, tutto qui.
Erano arrivate al BI-bygget, la sede della scuola di Management, e Karen si fermò davanti alla vetrina di G-sport: i saldi sull’attrezzatura da sci alpinismo che le interessava non erano ancora iniziati. Colse il riflesso del volto di Johanne.
− Ho sempre creduto che voi foste anni-luce avanti, − disse. – Nella parità fra uomo e donna. Contro il razzismo. Per i diritti degli omosessuali.
Si chinò di colpo verso la vetrina e borbottò qualcosa di incomprensibile, forse dei calcoli.
− Millecento dollari? Per quegli sci? Io li ho esattamente uguali e me ne sono costati quattrocentocinquanta. Comincio a capire perché gli stipendi medi sono cosí alti in questo Paese!
− È cambiato qualcosa quando gli omosessuali hanno cominciato ad avere figli, − disse Johanne pensierosa, come se a un tratto una nuova consapevolezza si fosse fatta strada in lei. – Prima filava tutto liscio, o quasi. Questa cosa dei figli ha dato un notevole contraccolpo.
La coltre di nubi si era sfilacciata: nello squarcio di cielo nero sopra il Grefsenkollen si vedevano tre stelle. Da quando avevano lasciato il ristorante si era alzato il vento e la temperatura doveva essere scesa. Johanne teneva le mani giunte e soffiava sulle muffole in lana, ma il suo alito caldo le lasciava intrise di fredda umidità, cosí, senza togliersele, si cacciò le mani in tasca.
− Sono sempre di piú le lesbiche che hanno figli, − proseguí. – Verso la fine dell’anno è stata approvata in via definitiva una legge matrimoniale indipendente dal sesso che assicura loro gli stessi diritti all’inseminazione riconosciuti agli eterosessuali. Negli ultimi anni anche gli omosessuali maschi si sono attivati da questo punto di vista: vanno negli Stati Uniti e si rivolgono a donatrici di ovuli e a madri surrogate. E tutto questo ha portato a…
Ripresero a camminare.
− Sai come li chiamano, questi bambini? – disse di botto Johanne in tono accalorato. – «Prefabbricati»! Bambini costruiti!
Karen si strinse nelle spalle.
− La storia si ripete, − osservò fiacca. – Niente di nuovo sotto il sole. Quando sono stati contratti i primi matrimoni fra neri e bianchi, si diceva che andavano contro i comandamenti di Dio. Si sosteneva che fossero contro il volere di Dio, contro natura, contro usi e costumi e tutto ciò a cui si era abituati. Anche ai bambini nati da questi matrimoni venne dato un soprannome: half-castes, mezzosangue. Tutto sommato, alla base c’è lo stesso meccanismo che ha portato al soprannome di «prefabbricati».
Respirò a fondo.
− Passerà, Johanne, – disse. – Fra qualche giorno da noi si insedierà un presidente mezzosangue! Sei anni fa nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe creduto che ci sarebbe stato un presidente donna prima e a seguire un afroamericano. Mi dispiace per Helen Bentley, fra l’altro. Che non abbia voluto provarci anche solo per un periodo. Di Obama non posso che parlar bene, ma in fondo in fondo…
Si erano fatte le undici e mezza. Un autobus ondeggiava verso di loro. L’autista sbadigliò a lungo mentre le superava, ma sobbalzò quando un gatto si fiondò in mezzo alla strada costringendolo a frenare di colpo.
− In fondo in fondo io penso che sarebbe stata una vittoria ancora piú grande avere un presidente donna, − disse Karen a bassa voce, come se stesse confidando a Johanne un terribile segreto. – E quando il massimo leader mondiale dice di voler gettare la spugna per non rinunciare alla famiglia, dopo soli quattro anni alla Casa Bianca, ecco… mi riservo il diritto di non crederle.
Johanne cercò di trattenere un sorriso. Non le capitava spesso di sentire l’esigenza di condividere i drammatici eventi del maggio 2005 con qualcuno. Le ventiquattr’ore trascorse con Helen Bentley in un appartamento di Frogner, mentre il mondo intero credeva che il primo presidente americano donna fosse morto, con il passare degli anni avevano finito per diventare un ricordo incapsulato a cui lei raramente accedeva. Le era stato imposto di tenere la bocca chiusa, per ragioni inerenti alla sicurezza sia della Norvegia che degli Stati Uniti, e lei aveva mantenuto tutte le promesse sottoscritte. In quel momento, per la prima volta, provava la tentazione di infrangerle.
− Non avevo mai sentito nulla di «The 25’ers», − disse invece. – Parlami ancora di loro.
Erano arrivate in Gullhaug Torg.
Karen spostò la borsa sull’altra spalla. Aprí la bocca un paio di volte come per dire qualcosa, ma poi tacque, quasi non sapesse bene che parole scegliere.
− Collera, − disse alla fine. – A differenza degli altri movimenti basati sull’odio che si rafforzano grazie a rabbia, pregiudizi e aberrazione religiosa, le organizzazioni come «The 25’ers» si fondano sulla sacra collera. È un’altra cosa. È molto piú pericoloso.
Si fermarono sul ponte sopra l’Akerselva e si sporsero dal parapetto. C’era poca acqua e lungo le sponde del fiume si erano formate meravigliose sculture di ghiaccio.
− Ma come finanziano le loro attività, tutte queste organizzazioni? – chiese Johanne.
− Dipende, − le rispose Karen. – Le comunità cristiane estremiste si finanziano come ogni altra comunità religiosa: donazioni e generosità dei proseliti. Non hanno neanche dei costi di gestione alti. Per quanto riguarda i gruppi piú militanti, anche loro hanno il sostegno economico degli affiliati. E comunque ci sono buone ragioni per credere che parte dei mezzi di queste organizzazioni sia frutto di crimini gravi.
Si azzittí un attimo mentre contemplava un bell’arco scuro di ghiaccio che si era formato fra tre macigni.
− Il Ku Klux Klan o Aryan Nations, per esempio. Mentre il Ku Klux Klan concentra il proprio odio soprattutto sugli afroamericani, e Dio solo sa quanti ne ha uccisi nel corso della storia, gli affiliati di Aryan Nations fondano il loro credo sull’idea pseudo-teologica che siano gli anglosassoni e non gli ebrei il popolo prescelto da Dio. Odiano anche i neri, questo sí, ma secondo loro sono gli ebrei a rappresentare il virus che intacca il corpo dell’umanità pura. Reclutano la maggior parte dei loro membri nelle prigioni, una politica ben precisa, consapevolmente portata avanti dai loro leader. I soldi se li procurano attraverso… – si girò verso Johanne e levò la mano sinistra, alzando un dito dopo l’altro, − truffe, furti, droga, rapine in banca.
Aveva quattro dita che puntavano verso l’alto, poi stese anche il pollice e aggiunse: − E omicidi. Omicidi su commissione, per esempio. Esiste tutta una serie di intermediari, come tu ben sai.
Johanne non ne sapeva un granché di omicidi su commissione, e non rispose.
− Un intermediario riceve una richiesta di omicidio, − le spiegò Karen. – Nel caso in cui la vittima predestinata sia omosessuale, si può assoldare qualcuno convinto che persone di quel tipo debbano comunque essere eliminate. Nel caso in cui la vittima predestinata sia un nero, si cerca invece un’organizzazione che…
Si strinse eloquentemente nelle spalle.
− Hai capito il meccanismo, no? – le disse, poi tirò su con il naso.
Un’anatra maschio che si era preparata per la notte sulla sponda sinistra estrasse il becco da sotto l’ala e le fissò nella speranza che da quelle due donne sul ponte arrivasse qualche pezzetto di pane secco. Visto che però non succedeva niente, ricacciò la testa sotto l’ala trasformandosi di nuovo in una palla scura di penne.
− Per quanto riguarda «The 25’ers», − proseguí Karen, − ne sappiamo ancora troppo poco, ma abbiamo notato molte somiglianze con «The Order», un gruppo sorto negli anni Ottanta dai dissidenti del Ku Klux Klan e Aryan Nations. Avrebbero dovuto fare una rivoluzione e prendere le redini del governo degli Stati Uniti. Niente di meno. La piú eclatante differenza fra i gruppi vecchi e nuovi sta nel fatto che i nuovi sono caratterizzati dalla collaborazione fra religioni diverse. E in questo non sono i soli. Per esempio, c’è un altro gruppo di dissidenti…
Johanne posò una mano sulla spalla di Karen.
− Basta cosí, − la pregò con un sorriso. – Non ce la faccio a sentire altro. Diciamo che per questa sera di chiacchiere sull’odio ne abbiamo fatte abbastanza? Mi piacerebbe sapere qualcosa sui tuoi figli, su tuo marito e… tuo fratello! È ancora un grande donnaiolo come ai tempi?
− Puoi scommetterci! Si è sposato già tre volte.
Johanne prese Karen sotto braccio quando si rimisero in cammino.
− Non manca tanta strada, fra poco siamo arrivate, − le disse tagliando verso destra. – Yngvar sarà contentissimo di vederti.
Ed era vero. Yngvar ne sarebbe stato felice, poco importava se si era fatto cosí tardi.
Una volta finito di occuparsi delle bambine, del lavoro, della casa e della famiglia nel suo complesso, di solito Johanne si sentiva esausta. Ogni tanto lei e Yngvar andavano a cena da amici – di norma, vecchi amici di Johanne –, ma era una cosa che le metteva sempre una grande ansia addosso. Raramente capitava che invitassero qualcuno da loro. Alla fine era sempre piacevole, ma la svuotava di ogni forza per diversi giorni, sia prima che dopo. Yngvar, al contrario, era bravissimo a portare avanti le sue cose non appena si ritrovava con un’oretta vuota. Anche se molto del tempo libero lo sfruttava per stare insieme ad Amund, il nipote che era solo un neonato quando sua figlia e la sua prima moglie erano morte per una tragica fatalità, aveva parecchi amici e conoscenti con cui si vedeva regolarmente. Ultimamente, poi, aveva addirittura cominciato a insistere che voleva di nuovo un cavallo. Come se avesse a disposizione dieci o dodici ore alla settimana e non sapesse bene che cosa farsene.
E assillava sempre Johanne dicendole di uscire, di invitare qualcuno, di andare al cinema con gli amici.
«Kristiane se la cava bene un paio d’ore senza di te», le diceva piú spesso di quanto lei desiderasse.
Yngvar sarebbe stato ben felice di vederle.
Si avvicinavano a Maridalsveien, le nubi correvano in cielo e il sibilo del vento fra i rami spogli degli alberi copriva quasi il ronzio sordo del traffico sul Ringveien poco piú a nord.
Ancora tre minuti e sarebbero arrivate a casa.
Johanne aveva la tentazione di svegliare Kristiane.
Solo per fargliela vedere.

E quando ci arriverai…

− Per cominciare devo farti vedere questi oggetti, − le disse Kjetil Berggren posando quattro cose davanti a lei su un panno bianco. – Fai con calma, prenditi tutto il tempo che ti serve.
La sua voce era bassa, traboccante di partecipazione, come se si trovassero già al funerale di Marianne. E in quel caso sarebbero stati entrambi vestiti in modo inappropriato. Era sabato 10 gennaio e il piumino ormai logoro di Kjetil Berggren era appeso a un gancio accanto alla porta di ingresso. Quando fece il giro intorno al tavolo per tornare a sedersi al suo posto non poté fare a meno di tirarsi su uno dei calzettoni al ginocchio.
− Mi aspettavo di vederti in tuta aderente e scarponcini da fondo, − gli disse Synnøve.
Il poliziotto non rispose.
− Mi sento meglio, adesso, − aggiunse lei in tono neutro. – Stai tranquillo.
Per la prima volta dopo due settimane esatte aveva dormito. Dormito veramente. Non appena Kjetil Berggren e il pastore si erano convinti a lasciarla in pace, la sera prima, aveva dato da mangiare ai cani e si era tuffata a letto. Si era svegliata quattordici ore dopo. Per qualche secondo era rimasta sdraiata lí, senza sapere bene dove si trovasse e che cosa provasse. E quando la consapevolezza della morte di Marianne l’aveva raggiunta all’improvviso aveva ricominciato a piangere. Ma adesso era diverso. Non c’era piú niente per cui doversi angosciare. Marianne era morta e le sue ricerche erano terminate. Prima o poi con il dolore avrebbe imparato a convivere. Adesso lo aveva capito, dopo quattordici giorni di inferno. Quella che era stata una penosa immobilità si era finalmente trasformata in movimento. Verso qualcosa. E quando ci fosse arrivata si sarebbe sentita meglio.
Solo quella mattina si era resa conto sul serio di quanto fosse dimagrita nelle ultime due settimane. Aveva mal di schiena e ruotava la testa a fatica. Si sentiva la mandibola come paralizzata quando aveva cercato di mangiare un po’ di fiocchi d’avena in una tardiva colazione. Alla fine aveva rinunciato e si era preparata un bel bagno caldo. Era rimasta nella vasca fino a che l’acqua non era diventata appena tiepida e la pelle dei polpastrelli sembrava sul punto di staccarsi.
Synnøve Hessel si era trascinata lentamente in giro per la casa vuota. Aveva fatto entrare Kaja per avere un po’ di consolazione e di compagnia: era la prima volta in assoluto che accadeva una cosa del genere, Marianne aveva posto come condizione per tenere gli husky che restassero sempre fuori. Kaja aveva esitato, era rimasta lí, accanto allo stipite della porta, poi finalmente si era lasciata tentare, era entrata e si era accomodata sul divano. E lí si erano consolate a vicenda, Synnøve e il cane, fino a quando Kjetil Berggren non era passato a prenderla alle tre come d’accordo.
In quel momento era seduta nella stessa stanza dell’ultima volta. Un funzionario di Oslo si era fatto trovare lí al suo arrivo, ma lei non desiderava parlare con nessuno tolto Kjetil. Almeno per ora.
− So che è un momento davvero difficile per te, Synnøve, e io…
− Kjetil, − lo interruppe lei. – Parlo sul serio. Se tu avessi idea di come mi sentivo dopo la scomparsa di Marianne, capiresti che per me è molto piú facile…
Si azzittí e abbassò le palpebre.
− Chiudiamo questa faccenda e basta, okay?
− Ti sei curata le ferite alle guance?
− Tanto sono superficiali.
Kjetil Berggren aveva l’aria di uno che avrebbe tanto voluto protestare, ma si limitò ad accennare col capo al panno bianco posato sul tavolo in mezzo a loro.
− Posso toccarli? – chiese lei.
− No. Purtroppo non è possibile.
La fede in oro bianco era un po’ piú grande della sua. Il diamante incastonato era completamente opaco, forse non lo avrebbe neanche notato se non avesse saputo che c’era. Synnøve avrebbe desiderato una normalissima fede in oro giallo senza ammennicoli, una fede tradizionale: voleva essere sposata con Marianne come qualunque altra coppia, e con un anello in oro giallo e semplice.
− Non abbiamo fatto in tempo a sposarci, − disse.
− Credevo che voi due foste…
− Eravamo registrate come coppia di fatto. Un po’ come soci in affari, insomma. Con la nuova legge e tutto il resto avevamo deciso di sposarci per davvero quest’estate.
Le lacrime le rigavano le guance, le sentiva bruciare sui graffi verticali che le segnavano il volto.
− Quell’anello sembrerebbe proprio il suo.
Allungò la mano destra per mostrargli l’anello gemello. Poi fece un bel respiro profondo e proseguí, troppo in fretta: − La collana anche. Il mazzo di chiavi è senza dubbio il suo. Questa chiavetta Usb non l’ho mai vista, ma ne abbiamo una trentina sparse qua e là. Puoi toglierli, adesso? Puoi toglierli, adesso?
Si coprí il viso con le mani.
− Suppongo, − proseguí con voce semisoffocata, – di dover identificare queste cose perché non volete che io veda Marianne.
Kjetil Berggren non rispose. Con gesti rapidi e facendo attenzione a non toccare i quattro oggetti, li ripose ognuno in un sacchettino di plastica e poi li avvolse tutti insieme nel panno.
− Ovviamente procederemo anche all’esame del Dna, − disse. − Purtroppo siamo sicuri quasi al cento per cento che il corpo ritrovato sia quello di Marianne.
− Hanno detto che aveva pagato, − osservò Synnøve posando le mani in grembo. – All’albergo hanno detto che Marianne aveva saldato il conto della stanza!
− Il conto era stato saldato, sí. Ma non da lei.
− E da chi allora? Se è stato qualcun altro a farlo, non può che trattarsi del suo assassino, per cui non dovrebbe essere poi cosí difficile… Non ci sono i filmati delle telecamere di sorveglianza? I registri degli ospiti? Dovrebbe essere la cosa piú facile del mondo…
Quando vide l’espressione sul viso di Kjetil Berggren tacque.
− L’Hotel Continental ha telecamere di sorveglianza sistemate in alcune zone della struttura, − disse lui adagio. – Fra l’altro, anche alla reception. Purtroppo però dopo una settimana cancellano le riprese. La settimana prossima passeranno alle telecamere digitali, cosí potranno conservare i dati molto piú a lungo. Ma per il momento hanno un’attrezzatura antiquata. Stiamo parlando di Vhs, né piú né meno. Non si possono accumulare videocassette e conservarle in eterno, no?
− Videocassette? In un albergo di lusso?
Lui annuí e proseguí: − Il conto è stato saldato già la sera del 19 dicembre, lo si deduce dalle registrazioni di cassa. A sentire il concierge è stato un uomo a pagare. In contanti. Ma ha difficoltà a fornirci una descrizione piú dettagliata. C’erano parecchie persone quella sera, era il periodo delle tavolate prenatalizie. Il Theatercaféen era pieno zeppo e c’è un accesso diretto da quel caffè al Dagligstuen, il bar nella hall dell’albergo. Poi si passa dalla reception.
− Questo significa che…
Synnøve non sapeva nemmeno lei che cosa potesse significare.
− Senza contare che quella sera al Continental c’era un banchetto di nozze, − proseguí il poliziotto. – Un sacco di chiasso e di confusione. C’è stato anche un momento drammatico: una bambina è scappata in strada e per un pelo non è stata investita da un autobus. Anzi, no, da un tram. Comunque, c’era un gran trambusto e il concierge non è riuscito a farsi venire in mente altro, sul pagamento.
− Ma chi… Chi mai poteva avere interesse a fare una cosa del genere? Io proprio non lo capisco… Ucciderla, nascondere il corpo, pagare il conto… è cosí assurdo, cosí… A chi potrebbe mai venire in mente di fare una cosa simile?!
− È quello che stiamo cercando di scoprire, − disse Kjetil in tono tranquillo. – La chiave di tutto sembrerebbe stare nel perché hanno ucciso Marianne. Se tu dovessi avere qualche informazione che potesse esserci utile per…
− No che non ce l’ho, − lo interruppe Synnøve. – Naturalmente non ho la minima idea del perché qualcuno avrebbe potuto desiderare Marianne morta! A parte quegli stronzi dei suoi genitori!
Kjetil Berggren evitò di commentare quell’affermazione irragionevole.
Synnøve si tirò la maglia. Sollevò il bicchiere pieno d’acqua ma lo riappoggiò senza bere. Cominciò a giocherellare con la fede. Si ravviò i capelli con le dita.
Cercava di far passare il tempo.
Su quello si sarebbe dovuta concentrare nei giorni seguenti: far passare il tempo. Il tempo che cura tutte le ferite. Solo che ogni volta che lanciava un’occhiata all’orologio era trascorso soltanto mezzo minuto dall’ultimo controllo.
E nessuna ferita si era sanata.
− Posso andare? − bofonchiò.
− Certo. Ti do un passaggio fino a casa. Ti tormenteremo con un bel po’ di domande, ma…
− Chi?
− In che senso, chi?
− Chi mi tormenterà?
− Be’, dal momento che il cadavere è stato ritrovato a Oslo e che anche il delitto, a quanto ci è dato di capire, è stato commesso a Oslo, è la polizia di Oslo ad avere la competenza sul caso. Naturalmente noi contribuiremo per quanto possibile…
− Voglio andare.
Synnøve si alzò. Kjetil Berggren si rese conto che il maglione le stava largo e che aveva la schiena ingobbita. Doveva aver perso almeno cinque o sei chili nelle ultime due settimane. Solo che lei cinque o sei chili da perdere non li aveva.
− Devi mangiare, − le disse. – Stai mangiando?
Senza rispondergli lei prese la giacca a vento che aveva appoggiato allo schienale della sedia.
− Non c’è bisogno che mi riaccompagni, − disse. − Torno a piedi.
− Ma ci vogliono solo tre minuti…
− Torno a piedi, − ribadí Synnøve.
Sulla porta si girò di nuovo verso di lui.
− Non mi hai creduto, − gli disse. – Non mi hai creduto quando ti ho detto che a Marianne doveva essere successo qualcosa di terribile.
Kjetil Berggren cominciò a guardarsi le unghie, senza commentare.
− Spero che sia un tormento, questo, per te.
Lui annuí, senza alzare gli occhi.
«Non è affatto un tormento, – pensò. – Non mi tormenta proprio per niente, visto che quando sei venuta da noi Marianne era già morta da un pezzo».
Ma non disse nulla.
Quanto a efficienza, nulla da dire. Il disegnatore di cui la polizia si serviva abitualmente aveva già terminato non solo lo schizzo del volto, ma anche un profilo e un identikit a figura intera, corredando il tutto con l’ingrandimento di un dettaglio, una sorta di emblema o spilla che secondo Martin Setre l’uomo portava al bavero della giacca. Silje Sørensen sfogliò rapida i disegni, poi li allineò sulla scrivania, davanti a sé.
Era piuttosto scettica sull’utilità di quegli identikit, nonostante fosse stata lei a commissionarli.
Quasi tutti i testimoni finivano per rivelarsi scadenti. Capitava di frequente che la descrizione a posteriori della stessa situazione o persona fosse lontanissima dal vero. I testimoni erano capaci di riferire cose che non c’erano o eventi che non avevano mai avuto luogo. Con vivacità e abbondanza di dettagli. Non mentivano. Solo che ricordavano male e riempivano i vuoti di memoria con le loro esperienze o con la fantasia.
Al contempo, però, un identikit poteva rivelarsi decisivo. Doveva essere ben fatto e il testimone un osservatore particolarmente acuto. Esistevano programmi informatici avanzati che rendevano piú facile, e in alcuni casi piú preciso, tracciarne uno, ma lei preferiva il disegno a mano libera.
Era quello che aveva appena ricevuto.
Osservò il ritratto.
L’uomo era di razza bianca e di un’età compresa fra i trentacinque e i cinquant’anni. Dalle annotazioni arrivate insieme al fascicolo venne a sapere che Martin Setre non era stato in grado di dire con certezza se l’uomo si fosse rasato il cranio o se avesse effettivamente perso i capelli. Di certo era pelato. Aveva il viso tondeggiante, gli occhi scuri, non portava occhiali. Il naso era dritto, il mento piuttosto ampio, quasi squadrato; la parte inferiore della faccia era segnata da un leggero doppio mento. Era robusto, lo si vedeva chiaramente anche dal disegno a figura intera, ma non proprio sovrappeso. La sua altezza si aggirava sul metro e settanta.
Un tizio piuttosto basso e grassottello che sorrideva.
Silje suppose che il ritratto fosse stato fatto cosí perché l’uomo aveva sorriso tutto il tempo. Leggiucchiò le annotazioni e trovò conferma alla sua ipotesi.
Bei denti.
Era vestito di scuro. Giacca scura sopra una camicia scura. Anche la cravatta era scura, il nodo pareva allentato. Il disegno era in bianco e nero e tutte quelle tonalità di grigio la rendevano pessimista. Quando sollevò lo schizzo a figura intera per osservarlo piú da vicino, si rese conto stupita che dovevano esserci migliaia di uomini simili a quello. Sí, Martin aveva detto che parlava inglese o americano, ma utilizzare una lingua diversa dalla propria era un trucco tanto vecchio quanto abusato.
Aveva un accenno di fossetta.
Knut Bork entrò senza bussare e Silje Sørensen sobbalzò.
− Scusa, − le disse lui con aria perplessa. – Non sapevo che fossi qui. Non hai niente di meglio da fare il sabato pomeriggio?
− Se non fossi stata qui la porta non sarebbe certo stata aperta.
− Io…
Knut Bork era alto e chiaro di carnagione, quasi pallido, con capelli biondo-rossicci e occhi azzurro ghiaccio. Quando arrossiva lo si vedeva lontano un miglio: pareva un semaforo.
− Non è mica grave, − gli disse Silje con un sorriso e tese una mano verso di lui. – Che cosa eri venuto a lasciare?
− Questo, − rispose lui mortificato, porgendole un sottile fascicolo. – Va allegato alla pratica di Marianne Kleive.
Lei prese i documenti e senza esaminarli li posò accanto agli identikit.
– Proprio quel che ci serviva in questo momento, − disse. – Un omicidio spettacolare in uno dei piú rinomati alberghi della città. Hai letto i giornali?
Knut Bork inarcò le sopracciglia e si lasciò sfuggire un bel sospiro.
− Novità? – chiese lei con un cenno del capo al fascicolo.
− Solo le deposizioni di un paio di testimoni che non erano ancora stati ascoltati. Pare che mezza Oslo fosse in quel maledetto hotel quella sera. E tu sai benissimo com’è… tutti sostengono di avere qualcosa di interessante da riferire. Siamo tempestati di telefonate di gente che ci vuole parlare.
Silje Sørensen afferrò la sua tazza di caffè.
− A volte non c’è miglior testimone di mille testimoni, − ribatté. – Il problema è che li dobbiamo prendere tutti sul serio. Magari qualcuno ha davvero visto qualcosa che potrebbe essere rilevante. Cin cin!
Il caffè era tiepido e aveva un retrogusto acidulo.
− Non stai per andare a casa?
− Sí, e anche tu, mi auguro, − rispose lui. – Ti è arrivato l’identikit? Fammi un po’ vedere…
Girò intorno alla scrivania e si chinò sui disegni.
− Nessun segno particolare, − mormorò.
− No. È piú basso della media, ma come si deduce dal concetto stesso di media non è l’unico…
− Credi che sia un binario morto? – Knut sollevò uno dei disegni all’altezza del viso.
− Può darsi, − disse lei con un sospiro. – Ma è l’unica pista che abbiamo.
− E questo cos’è? – le chiese lui indicando il disegno del bavero della giacca. – Una spilla?
− Qualcosa del genere. Riconosci il simbolo?
− È un trifoglio, no?
− Sí.
− Tutte le immagini sono in bianco e nero, ma il trifoglio è rosso.
− Martin ne era sicuro al cento per cento. Di solito negli identikit preferiamo evitare i colori perché possono trarre in inganno. Ma questa spilla, o quel che è, era certamente rossa.
− E questi… ghirigori che cosa dovrebbero simboleggiare?
Si misero tutti e due a scrutare il disegno. In ogni foglia della pianticella era stata tracciata una vaga figura che faceva pensare a una lettera di un altro alfabeto.
− Secondo Martin c’era una lettera in ogni foglia, − disse Silje. – Ma non ricordava quali.
Knut Bork prese una scatolina di pasticche che era posata sul tavolo.
− Posso mangiarne una? – chiese infilando le dita nella scatolina prima ancora che lei potesse rispondere.
− Certo, − mormorò Silje, − prendine quante vuoi. C’è qualcosa di familiare in questo simbolo, non trovi?
− Oh sí! – esclamò lui, e scoppiò a ridere. – Familiare, come no! Mia nonna ne ha uno cosí su ogni giacca!
La sua risata si interruppe all’improvviso. Silje alzò lo sguardo su di lui. Era di nuovo paonazzo in volto e boccheggiava come un pesce fuor d’acqua.
− Knut? – disse lei. – Tutto bene? Hai…
Silje si alzò cosí di scatto che la sedia su rotelle andò a sbattere contro il muro. Per un attimo prese in considerazione l’idea di arrampicarsi sulla scrivania, visto che Knut Bork era considerevolmente piú alto di lei, poi cambiò idea. Lo abbracciò da dietro e gli intrecciò le mani sul davanti, con i pollici rivolti verso il torace. Poi strinse di colpo, con tutte le sue forze.
Knut sparò dalla bocca tre proiettili neri.
Poi tossí e annaspò alla ricerca di aria, e solo allora Silje mollò la presa.
− Grazie, − singhiozzò lui. – Non riuscivo a… Guarda lí!
Indicò la parete opposta. Le pasticche per la gola si erano conficcate nel muro formando un triangolo a meno di mezzo centimetro di distanza l’una dall’altra.
− Centro del bersaglio! – ansimò Knut.
Lei lo guardò inarcando le sopracciglia e tornò a sedersi.
− Adesso mi puoi dire che cosa rappresenta questo simbolo?
Lui si toccò la gola, tossí di nuovo e, ancora con la voce distorta, disse: − Norske Kvinners Sanitetsforening.
− Eh?
− Sono le lettere nk e s. Le iniziali della Norske Kvinners Sanitetsforening. Quell’associazione tutta al femminile che si occupa della tutela e dell’assistenza alle donne e agli strati sociali piú deboli.
Lei afferrò il disegno del simbolo, come se lui l’avesse offesa. Un trifoglio rosso con il gambo e una lettera su ogni foglia.
− Devo controllare, − borbottò, poi posò il disegno e digitò il nome dell’associazione sul computer.
− Vedi, − ribatté Knut Bork. – Te l’avevo detto.
Sullo schermo era apparsa la home page dell’associazione: il logo era un trifoglio rosso con le lettere nk e s in bianco, una su ogni foglia.
− Ma che…
C’era qualcosa che non quadrava.
− Un cliente che frequenta l’ambiente della prostituzione maschile, nonché un potenziale omicida, − iniziò lei scandendo bene le parole. – Un uomo. Se ne va in giro ad adescare ragazzini. In centro a Oslo.
Deglutí e si inumidí le labbra con la lingua.
− Con una spilla dell’associazione femminile Nks ben visibile sul bavero della giacca. Ma che diavolo significa? Ci prende in giro?
Knut Bork afferrò l’identikit, andò alla bacheca di sughero accanto alla finestra e ce lo appese fissandolo con delle puntine. Arretrò di un paio di passi e si fermò a osservarlo, con la testa leggermente inclinata da una parte, poi si girò di scatto verso Silje e annuendo disse: − Forse è proprio cosí, forse ci prende in giro.
Quando l’uomo al telefono aveva detto di essere della polizia, Marcus Koll jr in un attimo di sbigottimento aveva creduto che gli stessero facendo uno scherzo. Quando pochi secondi piú tardi aveva capito di essersi sbagliato si era alzato e messo a camminare avanti e indietro per il soggiorno. All’inizio si era cosí concentrato nello sforzo di suonare imperturbabile che non aveva afferrato un bel niente di quel che gli dicevano.
Non era possibile che sapessero qualcosa.
Non era nemmeno lontanamente pensabile, cercava di convincersi.
Si fermò davanti alla grande finestra rivolta a sud.
Il prato in discesa era illuminato. Sul pendio gli abeti carichi di neve rilucevano di un azzurro ghiaccio quasi fluorescente in contrasto con l’oscurità compatta che si estendeva al di là dello steccato. Una bassa coltre di nubi nascondeva la città e il fiordo. Da dove si trovava lui era come se non esistesse alcun mondo al di fuori della sua proprietà.
A parte la voce al telefono.
− Chiedo scusa, − disse Marcus cercando di comunicare un sorriso. – Potresti essere cosí gentile da ripetere tutto da capo? La linea era un po’ disturbata.
− La segnalazione, − disse l’uomo con una certa impazienza. – Ci hai telefonato per darci informazioni sulla banda dei topi d’appartamento, lunedí scorso.
Un leggero soffio di vento fece cadere un po’ di neve dall’albero piú vicino: i cristalli induriti risplendettero alla luce del lampione. In fondo al giardino due maestosi pini dai tronchi dritti e nudi e con le chiome tondeggianti si ergevano come rigidi soldati al posto di vedetta.
Marcus si lasciò invadere dal sollievo.
Non si era sbagliato. Non sapevano nulla, ovviamente.
Non c’era ragione di preoccuparsi.
− Ah, − si limitò a dire, e deglutí. – Non sono stato io.
− Ma lei non è Rolf Slettan, − disse la voce all’altro capo del filo, − numero di telefono 2307****?
− No, non sono io, − rispose Marcus, concentrandosi per riuscire a respirare tranquillamente. – È il mio compagno. Rolf. È stato lui a chiamarvi. Io sono Marcus Koll jr. Proprio come ho detto quando ho risposto al telefono.
Seguirono due o tre secondi di silenzio.
Il silenzio dell’essere diversi, pensò Marcus. Il breve frammento di tempo dello smarrimento muto. O del disprezzo. O di tutti e due. Lui ci era abituato, cosí come chiunque si abitua al proprio marchio se lo porta abbastanza a lungo. Subito prima che Lillemarcus iniziasse ad andare a scuola, Marcus Koll jr aveva rilasciato un’intervista al «Dagens Næringsliv», che gli aveva dedicato un intero servizio: l’unico omosessuale con compagno e figlio sulla lista dei cento piú ricchi del Paese. Sperava con questo di proteggere Lillemarcus: tutti avrebbero saputo e si sarebbero evitati spiacevoli bisbigli e lunghe pause.
Non tutti leggevano il «Dagens Næringsliv», aveva realizzato alcune settimane piú tardi.
− Ah, ecco, − sentí finalmente dire al poliziotto che aveva telefonato. – E lui… è in casa? Rolf Slettan?
− Sí, ma sta mettendo a letto nostro figlio.
Il silenzio all’altro capo del filo durò cosí a lungo che Marcus cominciò a credere che la conversazione si fosse interrotta.
− Pronto! – disse ad alta voce.
− Sí, pronto… − rispose l’uomo. – Dunque… mi potresti far richiamare? La pratica con le informazioni che ci ha dato è rimasta in sospeso e io avrei delle domande da…
− Gli dico di richiamare al numero che compare qui sul display? – lo interruppe Marcus.
− Eh… sí, va bene. Digli di chiedere dell’agente Pettersen. Riesci a farmi richiamare stasera?
− Non credo, no, − rispose Marcus. – Abbiamo degli impegni stasera. Se però si tratta di una cosa importante naturalmente farò in modo che vi ritelefoni. Fra una mezz’oretta…
− Sí… sarebbe meglio. C’è stato un altro furto ieri e sarebbe…
− Va bene. Riferirò.
Senza nemmeno accomiatarsi Marcus interruppe la conversazione e posò il telefono sul tavolino del soggiorno. Si accorse che era troppo buio. Lentamente attraversò la stanza accendendo una luce dopo l’altra, finché il soggiorno non fu cosí luminoso che la vista panoramica dalla finestra affacciata sul giardino finí quasi per svanire nel nitido contrasto fra interno ed esterno.
Rolf gli aveva raccontato delle impronte di pneumatici davanti al portale. Marcus si era prima stupito, poi quasi irritato perché Rolf si era cosí intestardito su alcune tracce insignificanti lasciate da qualcuno che si era fermato nello slargo lungo la via, uno slargo che non era recintato e quindi costituiva una sorta di piazzola per chi percorreva quella strada. Da quando la neve aveva cominciato ad accumularsi dopo capodanno, infatti, lui aveva notato che di impronte ce n’erano praticamente sempre.
Solo dopo che Rolf aveva avuto la possibilità di spiegarsi meglio, Marcus si era mostrato disponibile a discutere della questione. Aveva finito per ammettere che in effetti era piuttosto strano che qualcuno si fosse fermato lí a lungo, come la diversa profondità delle tracce di pneumatici e i mozziconi di sigaretta gettati per terra sembravano indicare. Quando poi Rolf aveva testardamente provato a convincerlo che la stessa auto si era fermata un po’ piú in là mentre lui esaminava le tracce davanti al portale e che era poi scomparsa non appena lui se n’era interessato, Marcus aveva chiuso la bocca.
La sensazione netta di Rolf che qualcuno li stesse controllando trovava una perfetta corrispondenza nella sua crescente inquietudine. Sempre piú spesso gli capitava di lanciarsi occhiate alle spalle senza sapere bene perché neanche lui. Da cosa o da chi si volesse guardare. Fino a quel momento non era riuscito a mettere le mani su niente di piú concreto, ma già prima di Natale la sensazione di un’ombra che lo seguiva si era fatta sempre piú intensa. Solo dopo capodanno aveva capito che il panico che dopo molti anni era tornato ad assalirlo facendolo quasi crollare quattro giorni prima di Natale non era semplicemente frutto dei rimorsi di coscienza che lo tormentavano.
Era come se qualcuno lo stesse tenendo d’occhio.
Il problema, per come la vedeva Marcus Koll jr, era che chi lo sorvegliava probabilmente non aveva nulla a che fare con le effrazioni e la banda dei furti.
Sempre che fosse vero che qualcuno lo spiava.
− No, − disse ad alta voce, e si riaccomodò in poltrona.
Non poteva che essere frutto dell’immaginazione.
Non doveva che essere frutto dell’immaginazione.
Lui stesso in quel periodo si sentiva piuttosto nervoso, fin troppo nervoso anzi, e le osservazioni di Rolf potevano benissimo riguardare una coppietta di giovani innamorati che si era appartata. Una pausa baci e sigarette. Oppure, perché no, poteva trattarsi di un automobilista responsabile che si era fermato per parlare al cellulare.
Suonarono alla porta.
«Baby-sitter», pensò chiudendo gli occhi.
Erano le dieci e lui si sentiva troppo stanco per uscire.
Fra tre mesi e cinque giorni sarebbero stati dieci anni esatti dalla morte del padre.
Marcus Koll jr aprí gli occhi, si alzò e si tirò forte i lobi delle orecchie per riprendersi. Il campanello della porta di casa suonò di nuovo. Mentre attraversava il soggiorno decise che il 15 aprile sarebbe stato il giorno in cui tutte le sue preoccupazioni sarebbero finite. Anche se quel giorno aveva ormai perso il significato originario, lui se ne sarebbe servito lo stesso per fare di quella data una pietra miliare della sua vita. Il 15 aprile sarebbe stato il giorno della svolta e tutto sarebbe tornato come prima. L’importante era arrivarci. La casa sul colle si sarebbe trasformata di nuovo in un fortino: la cornice di sicurezza che racchiudeva la sua famiglia, ben lontana dal dominio paterno.
Era una promessa che faceva a sé stesso, e per qualche ragione questo lo aiutò a sentirsi un pochino meglio.

Prima dell’alba

Johanne provò una strana soddisfazione quando la sveglia suonò già alle cinque e mezza di lunedí 12 gennaio. Come mai l’avevano puntata cosí presto? Non se lo ricordava, quindi se ne rimase distesa, immersa in una piacevole terra di mezzo fra sogno e realtà, mentre Yngvar si gettava su quel molesto frastuono per farlo tacere. Il caldo secco sotto il piumino la invogliò a stringerselo addosso ancora di piú. Quando Yngvar si sdraiò di nuovo con un gemito, lei strisciò fino alla sua schiena.
− Devo andare, − borbottò lui. – Ho il volo per Bergen fra due ore.
− Ragnhild dorme, − bisbigliò Johanne, − Kristiane e Jack sono da Isak. E se aspettassi un quarto d’ora?
Gli costò la colazione, e quando un’oretta dopo si ritrovò seduto in macchina alla volta di Gardermoen, in ritardo e con lo stomaco che brontolava e bruciava, si era quasi pentito.
Johanne, al contrario, non si sentiva cosí bene da tempo. La serata con Karen Winslow si era conclusa solo alle tre di notte. Sarebbe durata anche di piú, se Karen il giorno dopo non avesse dovuto guidare fino a Lillesand, a piú di duecento chilometri da lí. Yngvar aveva portato con sé Ragnhild il sabato mattina, quand’era andato a trovare il suocero e il nipotino Amund, ed era stato via tutto il pomeriggio. Johanne aveva dormito fino a tardi, come non le capitava da tempo. Dopo una lunga colazione e tre ore passate a leggersi i giornali era andata in piscina a Tøyenbadet e aveva nuotato per millecinquecento metri. La sera Sigmund Berli aveva fatto un salto a trovarli. Senza essere stato invitato. Si era presentato con pizza da asporto Dolly Dimple’s e birra tiepida. L’ospite inatteso aveva fornito a Johanne un buon pretesto per andarsene a dormire prima delle dieci.
E le aveva fatto bene.
La felicità che le aveva dato rivedere la sua vecchia compagna di studi non era ancora svanita. Ragnhild era andata a letto troppo tardi la domenica e ormai era arrivata a un’età in cui il giorno dopo si recupera un po’ del sonno perso la notte. Johanne si era messa il gigantesco pigiama di Yngvar, si era preparata un bel po’ di caffè e si era accomodata sul divano con il portatile in grembo.
Controllò la posta. Aveva nove mail nuove. Quasi tutte di scarsissimo interesse, una era una richiesta da parte della polizia. Scorse il testo e si rese conto che era la stessa ricevuta da Yngvar il sabato mattina. Riguardava l’omicidio di Marianne Kleive. La polizia aveva ricevuto l’elenco completo degli ospiti al ricevimento di nozze tenutosi all’Hotel Continental e come da prassi voleva sentire se qualcuno avesse informazioni potenzialmente rilevanti in merito al caso. Johanne cancellò subito la mail. Voleva pensare il meno possibile a quella sera fatale in cui Kristiane per poco non era stata investita da un tram.
Karen Winslow aveva già risposto alla domanda che lei le aveva spedito solo il giorno prima. Johanne si avvolse meglio nel plaid e aprí la mail mentre sorseggiava il caffè bollente.
Cara Johanne!
Che bello è stato rivederti! Una serata meravigliosa e una passeggiata interessante (!) per la città! Conoscere tuo marito è stato fantastico e devo proprio ammetterlo: il mio avrebbe un paio di cosucce da imparare da lui. Il calore e la generosità che ha dimostrato quando ci siamo presentate lí in piena notte sono andati oltre ogni aspettativa.
Ti sto scrivendo dall’aeroporto di Oslo. Il matrimonio è stato una favola, ma il viaggio in auto andata e ritorno da Lillesand è stato un incubo…
Come d’accordo, ti metterò al corrente delle parti piú rilevanti della nostra ricerca, informazioni riservate comprese, non appena possibile. E per rispondere alla domanda della tua mail di questa mattina: il nome «The 25’ers» si basa sulla somma delle cifre che compongono i numeri 19, 24 e 27 (te l’avevo accennato, vero?) La nostra teoria è appunto che i numeri 24 e 27 facciano riferimento alla lettera di san Paolo ai Romani, per la precisione al capitolo 1, versetti 24 e 27. Dagli un’occhiata. Il numero 19 vanterebbe un significato in qualche modo «magico» nel Corano. È troppo complicato da spiegare per mail, ma se cerchi «Rashad Khalifa» su Google capirai che cosa intendo. Se i nostri esperti di numerologia hanno ragione, il nome «The 25’ers» è piuttosto inquietante…
Stanno annunciando l’imbarco del mio volo, devo scappare.
E non dimenticarti che tu e la tua famiglia avete promesso di venire a trovarci questa estate!!!
Auguri di cuore per tutto e un grosso abbraccio,
Karen
Johanne rilesse la mail. Sarebbe stato meglio stamparla per non dimenticare quegli strani riferimenti. La stampante era in camera da letto. Quando aprí la porta della stanza, l’odore di chiuso, piumini, sonno e sesso la investí. Yngvar si rifiutava di dormire con la finestra socchiusa se il termometro rischiava di scendere sotto i meno cinque. Collegò rapida la stampante al computer. Quando una sorta di raspo le comunicò che il documento era pronto, strascicando i piedi andò alla finestra e la spalancò.
Chiuse gli occhi al freddo pungente.
«La Bibbia», pensò.
Non era nemmeno certa che ne avessero una copia. C’era un’edizione del Corano nella libreria di Yngvar, questo lo sapeva. Aveva insistito per avere uno scaffale tutto suo in camera da letto: cinque metri di mensole coperte da un’assurda mescolanza di libri. Le sacre scritture nell’edizione di lusso del Bokklubben fianco a fianco con un’enciclopedia sulle armi, il grande libro dell’araldica, una ventina o quasi di testi sui cavalli e sull’allevamento equino, un’antica edizione dell’Encyclopaedia Britannica e tutto quello che un tempo era stato disegnato e pubblicato dal fumettista Frode Øverli. Senza chiudere la finestra, Johanne si accovacciò davanti alla libreria dal lato del letto di Yngvar. Trovare il Corano non fu difficile: l’edizione era ornata di foglie dorate e decori orientaleggianti. Accanto c’era un libro tanto consunto che il dorso si era staccato. Quando con ogni attenzione lo prese in mano sentí la copertina ammorbidita dall’età.
La Bibbia.
Lentamente aprí il volume. Sul risguardo era stato scritto in elegante calligrafia: «A Yngvar dal nonno e dalla nonna, 16 settembre 1956». Con un rapido calcolo dedusse che dovesse trattarsi del giorno del battesimo: Yngvar era nato la notte di san Giovanni di quello stesso anno.
Richiuse metà finestra e si mise tutti e due i volumi sotto braccio. Con la stampata in una mano e il portatile nell’altra tornò al divano.
La Bibbia di Yngvar era una traduzione degli anni Trenta del Novecento, lesse nel colophon. La sfogliò fino a trovare la lettera di san Paolo ai Romani e scorse il testo con il dito indice fino al versetto 24.
Per questo, Iddio li ha abbandonati, nelle concupiscenze de’ loro cuori, alla impurità, perché vituperassero fra loro i loro corpi.
Johanne esitò.
… vituperassero fra loro i loro corpi…
Significherà giacere l’uno con l’altro, mormorò fra sé e sé prima che i suoi occhi trovassero il versetto 27.
E similmente anche i maschi, lasciando l’uso naturale della donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri, commettendo uomini con uomini cose turpi, e ricevendo in loro stessi la condegna mercede del proprio traviamento.
Anche se capiva la sostanza di quel che c’era scritto, Johanne chiuse quel libro consumato e si appoggiò il portatile in grembo. Avrebbe dovuto pensarci subito, invece che mettersi a frugare nella libreria di Yngvar. L’aveva già fatto una volta e lui era rimasto arrabbiato per ore quando lo aveva saputo.
Ci mise due minuti a trovare gli stessi versetti sul web in una edizione piú recente. Il versetto 24:
Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi.
«Molto piú chiaro», pensò scuotendo leggermente il capo.
Anche il versetto 27 le risultò piú comprensibile nella nuova traduzione:
Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo cosí in sé stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento.
Johanne si considerava un’agnostica, termine a suo parere piú bello che «indifferente». Di tanto in tanto, per ragioni di lavoro si era dovuta confrontare con persone credenti e aveva sempre cercato di farlo con il dovuto rispetto. Fatta eccezione per un flirt religioso durante l’adolescenza, la fede in Dio non le era mai interessata granché.
Non prima d’ora.
Negli ultimi mesi, infatti, si era dovuta occupare di religioni con una certa intensità. I testi come quelli che aveva appena letto la spaventavano. Non tanto in sé e per sé: come ricercatrice e non credente, li inseriva in un contesto storico e in quel contesto li trovava interessanti. Ma in quanto brani che venivano presi alla lettera e rivestivano una certa rilevanza per uomini e donne del 2009, ecco che trovava terribili le parole di san Paolo.
Se Karen e l’Aplc non si erano sbagliati e se l’interpretazione del nome «The 25’ers» andava davvero fatta risalire a quei versetti, non poteva che trattarsi di un’organizzazione che si scagliava soltanto contro omosessuali maschi e femmine. Senza tanti giri di parole né mezzi termini. Nessuna congregazione, nessuna comunità religiosa.
Semplicemente, un gruppo d’odio.
Se i cristiani ultraconservatori si erano coalizzati con i musulmani in un’unica associazione, c’era davvero ragione di credere che l’odio fosse piú violento di qualunque altra cosa lei avesse potuto osservare da vicino negli ultimi mesi di ricerca.
Johanne rilesse l’ultima riga.
… ricevendo cosí in sé stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento.
Rabbrividí e prese in mano la stampata della mail.
Il numero 19.
Quel nome dal suono arabeggiante: Rashad Khalifa.
Le dita si misero a battere sulla tastiera.
Quattromilaquattrocento risultati trovati con Google.
− Ciao, mamma! Voglio fare colazione!
Ragnhild sfrecciò a piedi nudi nel soggiorno. Johanne riuscí a mettere il portatile sul tavolino un attimo prima che la bambina le si tuffasse in braccio.
− Oggi non vado a scuola, − rise. – Oggi io e te facciamo la giornata dei peluche!
Johanne staccò delicatamente da sé la figlia per riuscire a guardarla negli occhi e le disse: − No, tesoro. Oggi ci vai, a scuola. È lunedí.
− Giornata dei peluche! – insistette Ragnhild sporgendo il labbro inferiore.
− Un’altra volta, tesoro. Mamma deve lavorare. E tu devi andare a scuola. Non ti ricordi che oggi vi portano a sciare a Solemskogen? E poi cuocete le salsicce sul fuoco e…
Il visetto imbronciato si aprí in un grande sorriso.
− Ah già! E quanti giorni mancano al mio compleanno?
− Nove giorni. Ancora nove giorni soltanto e poi avrai cinque anni.
Ragnhild rise felice.
− E il mio sarà il compleanno piú bello del mondo con la panna montata sopra!
− E per farti diventare grande adesso andiamo subito a preparare una gran tazza di fiocchi d’avena. Prima però ci facciamo una bella doccia, io e te.
− Va bene, − rispose la bambina e saltando come un coniglietto se ne andò in bagno.
Johanne la guardò con un sorriso. Era stato un fine settimana delizioso e desiderava proprio godersela questa oretta da sola con la figlia minore prima di tuffarsi sul serio in un’altra settimana.
Se solo fosse riuscita ad allontanare da sé il pensiero di «The 25’ers».
L’ultimo a entrare nella piccola cappella dell’Østre Krematorium si chiamava Petter Just. Se ne rimase lí in piedi, fermo, e per un attimo si domandò se non avesse sbagliato. Mancavano tre minuti a mezzogiorno, ma era impossibile che ci fossero non piú di venti persone. Petter Just era stato compagno di classe di Niclas Winter, erano diversi anni che non frequentava il suo vecchio amico, ma era convinto che avrebbe trovato una gran folla. Niclas aveva avuto un discreto successo, a detta dei giornali. Le sue opere erano state comprate da musei e collezionisti privati. L’anno prima il bollettino di quartiere aveva pubblicato un imponente servizio sull’atelier di Niclas, e leggendolo lui aveva avuto l’impressione che l’amico fosse ormai lanciato verso la grande svolta internazionale.
Un uomo magro di una certa età, con un paio di occhiali da cui appariva evidente che era quasi cieco, gli cacciò in mano dei fogli ripiegati. Stampata sulla parte anteriore c’era una fotografia di Niclas Winter accompagnata dal suo nome e dalle date di nascita e di morte in caratteri antiquati.
Petter Just prese quella specie di libriccino e andò a sedersi silenziosamente nell’ultima fila.
Le campane batterono altri quattro colpi, poi tacquero e l’organo iniziò a suonare.
La cappella era semplice, quasi spoglia: il pavimento era in ardesia, e nelle pareti beige, a un paio di metri dal soffitto, si aprivano rigide finestre rettangolari. Anziché ospitare la pala d’altare, il muro di fondo era stato abbellito con un affresco che Petter Just trovava incomprensibile. Gli faceva venire in mente solo un vecchio cartellone pubblicitario del partito di centro norvegese: alberi e grano, contadini e campi e un cavallo che somigliava fin troppo a un fjord. Di certo un purosangue originario dei fiordi occidentali della Norvegia non l’avevano mai visto, in Medio Oriente, pensò lui cercando di trovare una posizione accettabile su quella panca dura e scomoda, rivestita di una stoffa rossa tutta macchiata.
Credeva sul serio che Niclas sarebbe diventato famoso. Non una di quelle celebrità che si vedono su tabloid tipo «Se og Hør» o «VG», no: pensava che sarebbe diventato famoso nel suo campo. Come dire, un vero artista. E se Petter aveva deciso di andare al suo funerale era stato soprattutto perché un tempo insieme si erano divertiti molto. Un po’ troppo in un certo periodo, per cosí dire. Niclas aveva sempre avuto un debole per droghe e simili, e non era mai stato neanche molto attento a chi si portava a letto.
A quel pensiero Petter Just arrossí leggermente.
Comunque erano cose che ormai non c’entravano piú niente con lui. Aveva una donna, una bella donna, da cui aspettava il primo figlio, che sarebbe nato in luglio. In effetti lui non era mai stato come Niclas, ma, quando sua madre casualmente gli aveva raccontato che il suo vecchio compagno era morto e che quel giorno stesso ci sarebbe stato il funerale, Petter aveva comunque voluto rendergli onore per l’ultima volta.
Non cantava quasi nessuno.
In quanto a lui, non aveva nemmeno voglia di muovere le labbra come gli sembrava che stessero facendo i due tizi seduti un po’ piú in là, tre file davanti a lui. Almeno per il momento.
Nella cappella c’era una sola donna e non pareva annichilita dal dolore. Non si era nemmeno presa la briga di vestirsi di nero. Il suo abito era piuttosto sobrio, questo sí, ma il rosso non era certo un colore adatto a un funerale. La donna, seduta piú avanti, se ne stava lí con l’aria di annoiarsi.
La musica finí. Il pastore si avvicinò al pulpito, collocato di fronte al corridoio centrale e che sembrava uno sgabello da bar di dimensioni esagerate, oltretutto sul punto di rovesciarsi.
I due uomini seduti davanti a Petter iniziarono a conversare sottovoce.
Quel comportamento lo irritò: non era decoroso mettersi a chiacchierare durante la predica. Forse non si chiamava nemmeno predica, quella, fra l’altro, ma era comunque da maleducati non tenere la bocca chiusa quando il pastore parlava.
− … trovate diverse opere d’arte… niente figli, niente fratelli o sorelle…
A Petter Just arrivavano alcuni frammenti di conversazione e, senza volerlo, focalizzò la sua attenzione su quei due.
− … nell’atelier… nessun erede…
Il pastore fece segno di alzarsi. I due davanti a Petter erano tanto presi dal loro discorso che rimasero seduti fino a quando non si furono alzati tutti. Per un breve momento stettero in silenzio, poi ricominciarono a bisbigliare.
− … molte installazioni piú piccole… disegni… un ultimo capolavoro… nessuno sapeva che…
Quei maledetti stavano davvero rovinando la cerimonia funebre. Petter Just si alzò di scatto e si chinò sulla panca davanti a sé.
− Chiudete il becco, cazzo, − sibilò. – Insomma, mostrate un po’ di rispetto!
I due uomini si girarono stupiti verso di lui. Uno era sui cinquant’anni e aveva pochi capelli, portava un paio di occhiali dalla montatura sottile e il pizzetto. L’altro era leggermente piú giovane.
− Scusaci, − disse il piú vecchio, e sorrisero entrambi al momento di rigirarsi.
Li doveva aver spaventati a dovere, perché non aprirono piú bocca per il resto della cerimonia, che per altro non durò ancora molto. Nessuno prese la parola oltre al pastore. Niente a che vedere con Lasse, il terzo del trio che spadroneggiava a Godlia negli anni Ottanta, quando era morto in un incidente automobilistico due anni prima. Quella volta il funerale si era tenuto nell’ampia cappella proprio lí accanto e non erano riusciti a parteciparvi nemmeno tutti quelli che avrebbero voluto. Si erano presentati in otto per il discorso funebre e c’era addirittura una vera e propria banda musicale che aveva suonato Imagine, per non parlare poi dell’eccessiva quantità di fiori e lacrime.
Qui non c’era proprio nessuno che piangesse, e gli addobbi floreali si limitavano a una corona deposta sopra la bara.
Pensarci gli fece venire le lacrime agli occhi.
Avrebbe dovuto rimettersi in contatto con Niclas da un pezzo. Non fosse stato per le cose che avrebbe preferito dimenticare e che in effetti non erano da lui, avrebbe certamente mantenuto quell’amicizia.
A un tratto non se la sentí piú di restare dov’era e subito prima che la musica cessasse si alzò, spinse via il vecchio mezzo cieco e spalancò la pesante porta in legno.
Aveva ricominciato a nevicare.
Si mise a correre, senza sapere bene dove stesse scappando in tutta fretta.
O da cosa.
− Da una all’altra, − disse Sigmund Berli prima di sfilarsi le scarpe e posare i piedi sul tavolino fra le due poltrone nella stanza d’albergo di Yngvar. – E cosí alla fine me la sono trovata, la donna.
Yngvar si toccò il naso, fece una smorfia e puntò ripetutamente l’indice verso i piedi del collega.
− Congratulazioni, − disse rapido, soffocando una risata dietro alla mano chiusa a pugno, − ma i tuoi calzini puzzano come una discarica. Togli quei piedi di lí, dài. Rimettiti le scarpe!
Sigmund si allungò il piú possibile verso i propri piedi. Inspirò a fondo e arricciò un po’ il naso.
− Non puzzano neanche tanto, − disse, e li piantò bene sul tavolino. – La mia donna non se n’è lamentata, per lo meno. Ridi?
− E chi sarebbe? – gli chiese Yngvar, andandosi a sdraiare sul letto il piú lontano possibile dal collega. – E da quanto dura questa storia?
− Si chiama Herdis, − rispose con entusiasmo Sigmund. – E fa… Herdis è… Indovina! Indovina un po’ che lavoro fa?
− Non ne ho la minima idea, − gli rispose lui spazientito. – Allora, hai intenzione di offrirmi da bere o no?
Sigmund tirò fuori dalla tasca interna una bottiglietta di plastica, presse uno dei bicchieri che Yngvar aveva trovato in bagno, ci versò dentro una generosa dose di whisky e lo porse all’amico.
− Grazie.
Sigmund ne versò anche per sé.
− Herdis, − ripeté soddisfatto, come se pronunciare quel nome fosse già di per sé un godimento. – Herdis Vatne è una docente universitaria di Astrofisica.
− Prmfrr
Yngvar sputacchiò whisky sui suoi vestiti e sul letto.
− Che cosa? Che diavolo hai detto?
− Non pensavi che avessi abbastanza fascino per un’accademica, eh? Il tuo problema, Yngvar, è che sei pieno di pregiudizi. Come con tutti quei negri che devi sempre difendere a ogni costo… anche se ce ne sono a frotte in qualsiasi statistica sui crimini, stai sempre a dire quant’è difficile per loro…
− Falla finita, − gli disse Yngvar. – E non usare quella parola.
− Anche questo è un pregiudizio, sai! Pensi sempre bene delle persone che appartengono a una minoranza! Non pensi mai bene di nessuno, se non di loro. Sei scettico su qualunque fannullone bianco che arrestiamo, ma se solo hanno la pelle un po’ piú scura della nostra, ecco che subito ti metti a stressare che probabilmente sono brave persone e…
− Piantala! Lo penso sul serio!
Di colpo Yngvar si tirò su a sedere sul letto. Sigmund ebbe un attimo di esitazione, poi aggiunse immusonito: − E comunque non ci credi che mi sono fidanzato con una che lavora all’università. Anzi, lo trovi comico. Sei davvero una persona prevenuta. E lo trovo anche piuttosto offensivo, a essere sincero.
− Scusa, − gli disse Yngvar. – Mi spiace, Sigmund. È ovvio che sono contentissimo per te. Hai…
Indicò il telefonino dell’amico.
− Hai delle foto?
− Ma certo!
Sigmund cominciò a smanettare sul cellulare e finalmente trovò quello che stava cercando. Con un ampio sorriso sollevò il telefonino e glielo mise davanti.
− Una gran donna! Intelligente e anche bella. Quasi come Johanne.
Yngvar agguantò il telefono e osservò la fotografia. Una donna bionda sui quarant’anni lo fissava con un gran sorriso. Aveva denti bianchi e regolari, il naso provocantemente all’insú. Doveva essere molto magra, perché anche su quel piccolo display si vedeva che le rughe di espressione erano profonde e che da ciascun angolo della bocca partiva una ruga altrettanto profonda che scendeva fino al mento. Gli occhi erano blu e forse un po’ troppo truccati.
Sembrava una normale quarantenne norvegese di una certa vitalità.
− Puoi ben dirlo, − commentò Yngvar ridandogli il cellulare.
− Volevo raccontarvelo quando sono venuto a trovarvi sabato, solo che poi Johanne di punto in bianco se n’è andata a dormire. E cosí ho deciso di aspettare, perché ieri c’era il primo incontro di Herdis coi miei ragazzi. Be’, non proprio il primo, a dire il vero, perché suo figlio e Snorre giocano a hockey insieme e sono già buoni amici. Ma volevo vedere com’era… incontrarsi in privato, ecco… Tutti quanti. Non posso stare con una a cui non piacciono i miei figli. E neanche viceversa.
− Ed è andata bene, no?
− Oh sí, non sarebbe potuta andare meglio. Siamo stati al cinema e poi a cena da Herdis. E che appartamento ha! Grande e… magnifico. A Frogner. Io mi sento quasi un estraneo in quel quartiere lí. Ma per essere bello è bello, questo lo devo ammettere.
Sorseggiò soddisfatto il suo whisky e si appoggiò allo schienale della poltrona.
− L’amore è una gran bella cosa, − proclamò.
− Proprio vero.
Rimasero seduti in silenzio, continuando a sorseggiare i loro abbondanti drink. Yngvar sentiva la stanchezza arrivare, sdraiato sul letto con tre cuscini come morbido sostegno per collo e schiena. Chiuse gli occhi e sobbalzò quando si rese conto che il bicchiere stava per cadergli di mano.
− Che ne dici della nostra donna? – gli chiese Sigmund.
− Ma chi? Herdis?
− Stupido! Eva Karin Lysgaard.
Yngvar non rispose. Lui e Sigmund avevano trascorso l’intera giornata a riorganizzare l’enorme mole di documenti sul caso. Erano passati diciannove giorni da quando il vescovo Lysgaard era stato accoltellato, e la polizia di Bergen non si era avvicinata nemmeno di un passo alla soluzione. Non che siano da biasimare per questo, pensò Yngvar, che si sentiva altrettanto smarrito al riguardo. Fino a quel momento la collaborazione era proseguita senza la minima frizione. All’inizio era stato Yngvar a sobbarcarsi gli interrogatori dei testimoni piú importanti, mentre Sigmund fungeva da tramite fra la Kripos e il distretto di Hordaland, un ruolo che aveva svolto brillantemente: difficile trovare una persona piú versatile e gioviale di Sigmund Berli, capace di risolvere qualunque accenno di conflitto prima ancora che potesse trasformarsi in qualcosa di serio. Nell’ultima settimana avevano fatto una sorta di prova generale di responsabilità: la polizia di Bergen si era occupata delle indagini nel loro complesso e del loro coordinamento, operando cosí in modo del tutto autonomo, mentre Sigmund e Yngvar avevano tentato di costruire una piú ampia visione d’insieme, comprensiva di tutte le informazioni che continuavano a sopraggiungere.
All’improvviso Yngvar disse: − Credo che abbiamo commesso un errore. L’errore opposto a quello che commettiamo un po’ troppo spesso.
− Cosa vuoi dire?
− Ci siamo allargati troppo.
− Regola numero uno, Yngvar! Tenere aperta ogni possibilità!
− Lo so, − rispose lui con una smorfia. – Ma ascolta un attimo…
Prese un blocchetto per gli appunti e una penna dal comodino.
− Per quanto riguarda la teoria che sia stata opera di un folle, una di queste bombe a orologeria di cui tutti parlano tanto…
− Un immigrato in cerca di asilo politico, − intervenne Sigmund e stava per riaprire l’argomento quando l’altro lo incenerí con lo sguardo, costringendolo a sollevare le mani in un gesto di resa.
− Se cosí fosse, lo avremmo già trovato da un pezzo, − disse Yngvar. – Un omicidio del genere viene perpetrato da una persona in piena crisi psicotica. Una persona che spesso, dopo il crimine, vaga confusa per le strade, coperta di sangue e sconvolta dai suoi demoni interiori, fino a quando nel giro di qualche ora non la troviamo noi. Adesso sono passate quasi tre settimane e di maniaci non s’è vista nemmeno l’ombra. Nessun istituto psichiatrico ha fatto una denuncia di scomparsa, non abbiamo individuato niente di sospetto nei centri di accoglienza. Tutto sommato…
Sbatté la penna sul blocchetto per gli appunti.
− Potremmo escludere che il nostro assassino abbia questo tipo di profilo.
− È proprio quello che sostiene la polizia di Bergen.
− Sí, ma loro tengono ancora la porta aperta all’eventualità.
Sigmund annuí.
− È una porta da chiudere e basta, − disse Yngvar. – Come anche un mucchio di altre porte che con tutte le loro possibilità fanno solo corrente e creano caos. Le lettere minatorie, per esempio… hai mai sentito che ci fosse un vero assassino, fra quelli che le scrivono e spediscono?
– Be’… – esitò Sigmund Berli. – Nel caso Anna Lindh c’era un assassino insoddisfatto…
– Anna Lindh è stata uccisa da un pazzo furioso, – lo interruppe Yngvar. – Se non in senso giuridico, sicuramente in tutti gli altri sensi. Da un disadattato con precedenti psichiatrici che di colpo ha trovato qualcuno su cui far confluire il suo odio, e cioè il ministro degli Affari esteri svedese. Lo hanno preso quattordici giorni dopo e si è lasciato dietro talmente tante tracce che…
– … che io e te lo avremmo beccato in meno di ventiquattr’ore, – concluse Sigmund con un sorriso.
Yngvar sghignazzò.
– Sono stati davvero sfortunati, questi svedesi, in alcune cose di grande, grande importanza…
Di nuovo scese il silenzio. Sentirono il rumore di una doccia aperta al massimo nella stanza accanto e di uno sciacquone che veniva tirato.
– Credo che anche quella pila di lettere sia un binario morto, – borbottò Yngvar. – Esattamente come la pista dell’aborto che i giornali stanno pompando. Sono gli antiabortisti che potrebbero uccidere per la loro causa. Per lo meno negli Stati Uniti. Non certo i sostenitori del libero aborto. È una forzatura e basta.
– E allora che idea ti sei fatto? Hai passato in rassegna praticamente tutte le possibilità che abbiamo! Che diavolo stai rimuginando?
– Dove stava andando Eva Karin Lysgaard? – rispose lui con lo sguardo perso nel vuoto. – Dobbiamo riuscire a scoprire dov’era diretta quando è stata uccisa.
Sigmund bevve il whisky rimasto e fissò per un breve istante il bicchiere vuoto, poi senza esitazione alcuna aprí la bottiglietta in plastica di Famous Grouse e se ne versò un altro consistente cicchetto.
– Mi raccomando, – gli disse Yngvar. – Domani dobbiamo alzarci presto.
Sigmund fece finta di non aver sentito.
– Il problema è che non possiamo certo chiederlo al vescovo, – disse. – E suo marito si rifiuta ancora ostinatamente di spiegare come mai era uscita. I nostri colleghi qui in città gli hanno fatto presente che ha l’obbligo di rispondere, lo hanno perfino minacciato di portarlo davanti a un giudice. Ma le conseguenze che potrebbe avere…
– Non trascineranno mai Erik Lysgaard in un’aula di tribunale. Non avrebbe senso. Quell’uomo ha sofferto e continua a soffrire già abbastanza. Dobbiamo farci venire in mente qualcos’altro.
– Qualcos’altro tipo…?
Yngvar svuotò il bicchiere e scosse la testa quando Sigmund sollevò la bottiglietta per offrirgli un secondo giro di whisky.
– Tipo un’azione porta-a-porta, – rispose deciso.
– E dove? In tutta Bergen?
– No. Dobbiamo… – aprí il cassetto del comodino e ne tirò fuori una carta della città, – dobbiamo circoscrivere un’area di azione… all’incirca cosí, – disse disegnando un cerchio con il dito indice mentre con l’altra mano teneva sollevata la mappa davanti al collega.
– Per la miseria, è metà Bergen! – commentò rassegnato Sigmund.
– No, è la parte orientale del centro. La parte nordorientale.
Sigmund afferrò la carta.
– Lo sai, Yngvar, questa è la proposta piú stupida che ti abbia mai sentito fare. Stampa e Tv hanno detto chiaro e tondo che non si sa perché il vescovo fosse in giro, la sera della vigilia di Natale. Se qualcuno sapesse che la Lysgaard stava andando a trovarlo, ci avrebbe chiamato già da un pezzo. Sempre che non avesse nulla da nascondere, ovviamente, quindi una cretinata come un’azione porta-a-porta non servirebbe a nulla.
Buttò la mappa sul letto e bevve un lungo sorso di whisky.
– Oltretutto, – aggiunse, – può anche darsi che fosse semplicemente uscita a fare due passi. E anche in questo caso non faremmo nessun progresso.
A Yngvar venne di nuovo quello sguardo vitreo che Sigmund ben conosceva.
– Hai qualche altra bella trovata? – gli chiese sorseggiando il whisky. – Altre idee da farmi silurare subito?
– La fotografia, – disse risoluto Yngvar prima di dare un’occhiata all’orologio.
– La fotografia. A-ha. Quale fotografia?
– Sono le undici e mezza. Io ho bisogno di dormire.
– Ma di quale fotografia stai parlando?
Sigmund non accennava minimamente a volersene tornare nella sua camera, anzi, si accomodò meglio sulla poltrona e spostò i piedi sul bordo del letto.
– Quella che è scomparsa, – gli rispose Yngvar. – Ti ho raccontato, no, di quella fotografia che c’era nella «camera della domestica»…
Disegnò delle virgolette nell’aria.
– La camera dove, a quanto pare, Eva Karin passava le notti insonni. Quando ho visto quella stanza per la prima volta di fotografie ce n’erano quattro, e quando l’ho rivista due giorni dopo ce n’erano solo tre. L’unica cosa che riesco a ricordarmi è che si trattava di un ritratto.
– Ma Erik Lysgaard non…
– Dobbiamo lasciarlo perdere, Erik Lysgaard. È una partita persa. Ho creduto a lungo che la chiave per saperne di piú sulla misteriosa passeggiata notturna ce l’avesse lui. Ma quell’uomo è andato completamente in tilt. Lukas Lysgaard invece…
– Non sembra molto collaborativo nemmeno lui, se vuoi la mia opinione.
– No, hai ragione. E allora forse è il caso che ci domandiamo come mai un uomo che sta evidentemente soffrendo e che vuole davvero una spiegazione per l’omicidio di sua madre sia cosí reticente con la polizia.
Inarcò le sopracciglia e lanciò un’occhiata al collega, come per sfidarlo a completare il ragionamento.
– Segreti di famiglia, – disse Sigmund in tono drammatico.
– Bingo! Spesso non c’entrano nulla con la soluzione di un caso, ma stavolta non ci possiamo permettere di tralasciare un bel niente. L’idea che mi sono fatto io di Lukas è che lui non…
La pausa andò un po’ troppo per le lunghe. Sigmund aspettava pazientemente, nel bicchiere c’era ancora del whisky.
– … non sia cosí convinto di suo padre, – concluse Yngvar.
– In che senso?
– È evidente che si vogliono molto bene. Si assomigliano tantissimo, fisicamente e caratterialmente, e non c’è motivo di credere che abbiano un rapporto difficile. Eppure c’è qualcosa di non detto fra di loro. Qualcosa di nuovo. Basta restare da soli in una stanza con tutti e due per percepirlo. Non è ostilità, affatto, è piú una forma di…
Ancora una volta Yngvar dovette prendersi del tempo per trovare la parola giusta.
– … perdita di fiducia.
– Sospettano l’uno dell’altro?
– Non credo. Ma c’è qualcosa che non va fra di loro, come un profondo scetticismo che…
Di nuovo, e piú che altro per un riflesso condizionato, diede un’occhiata all’orologio.
– Dico sul serio, Sigmund. Ho proprio bisogno di dormire. È ora che te ne vada, forza.
– Guastafeste, – borbottò il collega tirando giú i piedi.
La sua camera era due stanze piú in là e non aveva nessuna voglia di rimettersi le scarpe. Le afferrò per i calcagni con due dita della mano destra e prese la bottiglia di whisky con la sinistra.
– A che ora ci troviamo per la colazione?
– Io mangio alle sette, perché poi voglio andare a Os. Spero di beccare Lukas prima che vada al lavoro. È lui la nostra speranza: magari alla fin fine vorrà aiutarci.
Yngvar sbadigliò a lungo e si portò pigramente due dita alla fronte. Arrivato sulla porta, Sigmund si voltò.
– Io dormo un po’ di piú, – gli disse. – Poi vado direttamente alla stazione di polizia, entro le nove. Glielo dico io che vuoi cercare di parlare ancora con Lukas. A quelli di Bergen non dispiace che tu te ne stia per i fatti tuoi.
– Bene. Buonanotte.
Il collega borbottò qualcosa di incomprensibile prima che la porta si richiudesse alle sue spalle con un tonfo leggero.
Mentre si spogliava e si preparava per la notte, a Yngvar venne in mente che si era dimenticato di telefonare a Johanne. Imprecò a bassa voce e controllò l’orologio da polso, anche se erano passati solo due minuti da quando aveva letto sul quadrante che erano le undici e trentasei.
Era troppo tardi per chiamarla. Andò a letto.
Ma non riuscí a dormire.
Era colpa del numero 19 se Johanne non riusciva a dormire. Aveva trascorso l’intera serata a leggere di Rashad Khalifa e delle sue teorie sull’origine divina del Corano. A qualunque cosa tentasse di pensare per addormentarsi, ecco che quel maledetto numero 19 saltava fuori togliendole completamente il sonno.
Dopo un’ora ci rinunciò. Forse avrebbe trovato qualcosa di poco impegnativo da guardare alla televisione. Una serie gialla o una sit-com che la facesse appisolare. Era l’una passata, ma di solito Tv3 qualche scemenza a quell’ora la trasmetteva.
Sul divano regnava il caos piú assoluto.
C’erano scartoffie ovunque e tutte erano stampate di pagine web.
Johanne minacciava sempre di decapitazione o di qualche altra morte repentina e terribile i suoi studenti le rare volte in cui utilizzavano Wikipedia come fonte per una esercitazione scientifica. Anche lei si serviva sempre piú spesso di Internet, ma a differenza dei ragazzi era capace di valutazione critica, o almeno cosí pensava. Quella sera, però, non era stato facile: la storia di Rashad Khalifa era una lettura affascinante e di link in link si era addentrata sempre piú in uno strano racconto.
Era molto, molto affascinante.
A piccoli passi silenziosi andò in cucina e decise di seguire il rimedio popolare di sua madre. Versare del latte in un pentolino, poi aggiungere due cucchiai da tavola di miele e, subito prima che arrivasse a ebollizione, anche un goccetto di cognac. Da bambina dell’ultimo ingrediente non sapeva nulla, da grande aveva fatto presente alla madre che somministrare alcolici ai bambini per farli dormire era da pazzi irresponsabili. Sua madre, però, aveva minimizzato facendole notare che l’alcol evaporava, e che oltretutto andava considerato una medicina. Per lo meno in un contesto come quello. Senza contare poi che a loro il «latte corretto» era stato dato molto raramente, aveva aggiunto vedendo che la figlia non sembrava molto convinta.
Johanne sorrise e scosse la testa al ricordo.
Se ne preparò una grossa tazza.
Non riusciva quasi a tenerla in mano tanto scottava.
La posò sul tavolino del soggiorno e riordinò un poco il caos che c’era sul divano. Accese il televisore e fece zapping fin quando non arrivò a Tv3. Difficile capire di che cosa parlava il film che stavano trasmettendo. Le immagini erano piuttosto scure e mostravano alberi sradicati da una violenta tempesta. Quando un vampiro sbucò all’improvviso fra i tronchi, lei spense la Tv.
Senza volerlo afferrò una pila di fogli posata accanto alla tazza di latte. Anche se si rendeva conto che non era l’ideale in vista del giorno dopo, si accomodò meglio per proseguire la lettura delle notizie su Rashad Khalifa e le sue strane teorie sul numero 19.
Da giovane questo egiziano si era trasferito negli Stati Uniti, dove aveva studiato Biochimica. Trovando che la versione inglese del Corano fosse troppo scadente, aveva ritradotto l’intera opera di proprio pugno, ed era stato mentre ci lavorava che, verso la fine degli anni Sessanta, gli era venuta l’idea di analizzare il testo. Da un punto di vista strettamente matematico. Lo scopo era dimostrare che il Corano era un testo divino. Dopo qualche anno e molto lavoro aveva elaborato la teoria per cui il numero 19 era una sorta di chiave divina per interpretare la parola di Allah.
Johanne non aveva certo le competenze necessarie per seguire gli elaborati ragionamenti di un musulmano cosí strambo. Da quella che pareva matematica relativamente avanzata si passava in altri punti a questioni banalissime. Come, ad esempio, il fatto che la formula con cui si apre ogni sura del Corano, la basmala, viene ripetuta centoquattordici volte, numero che risulta divisibile per 19. In altri punti si atteneva piú strettamente al testo, come quando riferiva che la sura 74 al versetto 30 dice: «Gli stanno a guardia diciannove»a.
Con prudenza bevve qualche sorso di «latte corretto» bollente; la teoria di sua madre non reggeva: l’alcol le bruciava la lingua e le pizzicava le narici.
Notò di nuovo che Rashad Khalifa faceva un’inimmaginabile quantità di calcoli. Il piú assurdo consisteva nel sommare tutti i numeri presenti nel Corano per dimostrare che anche la cifra cosí ottenuta era divisibile per 19. All’inizio Johanne non capiva che cosa ci fosse di tanto sorprendente, poi si rese conto che il 19 era un numero primo, vale a dire divisibile solo per sé stesso e per uno, e questo le chiarí parecchio le idee.
− Di numeri primi ce ne sono tantissimi, però… − mormorò fra sé e sé.
In soggiorno faceva freddo.
Avevano installato dei timer su tutti i termosifoni nel tentativo di salvaguardare sia il portafoglio che l’ambiente. Yngvar alzava sempre la temperatura per mantenere il calore durante la notte, lei la abbassava sempre perché il sistema funzionasse secondo le intenzioni. In quel momento però se ne stava pentendo. Per un attimo considerò l’idea di riaccendere il termosifone, poi invece andò in camera da letto e prese il piumino.
Il latte si era raffreddato un pochino. Johanne ne bevve un sorso abbondante, poi posò la tazza e ricominciò a leggere.
All’inizio il mondo islamico era sembrato entusiasta della scoperta fatta da quell’eccentrico personaggio. Il suo lavoro era stato preso molto sul serio: i musulmani abbracciarono l’idea della prova matematica dell’esistenza di Dio. Perfino il noto scettico Martin Gardner, in uno dei suoi articoli pubblicati su «Scientific American», aveva definito la scoperta matematica di Khalifa sensazionale e interessante.
Poi le cose cominciarono ad andare peggio per l’egizio-americano Rashad Khalifa.
Aveva inscritto sé stesso nel Corano.
Non solo si considerava un profeta in linea con il Profeta, ma aveva anche fondato una sua religione. Secondo «The Submitters» tutte le altre religioni, incluso l’Islam corrotto, si sarebbero estinte adesso che sia il Corano sia la Bibbia annunciavano che il Profeta era arrivato e l’Islam poteva risorgere in forma pura e autentica.
Le si incrociavano gli occhi. Johanne posò i fogli.
Poteva dormire sul divano.
Non voleva piú pensare a Rashad Khalifa.
Non era poi cosí strano che anche lui avesse trovato dei sostenitori, pensò mentre si stendeva. Molti musulmani moderni avevano accolto favorevolmente il suo attacco al clero islamico. D’altra parte la mistica dei numeri aveva di sicuro allettato i credenti tendenti al fanatismo: estremisti di ogni genere e foggia. Le teorie di Khalifa venivano tenute ancora in grande considerazione, nonostante lui fosse stato assassinato nel 1990.
Da un fanatico musulmano. A causa di una fatwa proclamata nella stessa occasione in cui era stata proclamata quella contro Salman Rushdie.
− Dio mio, − mormorò Johanne, e provò a chiudere gli occhi. – Religioni!
Dietro le sue palpebre il numero 19 ballava una danza irlandese.
L’orologio segnava le due e dieci.
L’indomani sarebbe stato terribile se non fosse riuscita ad addormentarsi in fretta. Di colpo si alzò e con il piumino sotto braccio si trascinò in bagno alla ricerca di un sonnifero. Di solito le bastava il pensiero di averli. Questa volta, invece, ne prese una compressa e mezza che inghiottí con l’acqua del rubinetto.
Un quarto d’ora dopo, nel suo letto, era sprofondata in un sonno pesante e senza sogni.
Lukas Lysgaard aveva aspettato che gli altri dormissero. Aveva scritto un messaggio a Astrid in cui le spiegava di essere preoccupato per il padre e che quindi sarebbe andato a controllare che fosse tutto a posto, ma che sarebbe tornato in nottata. L’auto era parcheggiata in strada, per non rischiare di svegliare qualcuno con il motore della saracinesca del garage.
Il viaggio in auto gli fece bene. Mentre la madre aveva sempre adorato la luce, Lukas era un uomo a cui piaceva la notte. Da bambino si sentiva al sicuro nell’oscurità. La notte era sua amica, fin da quando lui era piccolo e abitava nella grande casa di Nubbebakken. Già a sei, sette anni gli capitava spesso di svegliarsi e restare affascinato dalle ombre che danzavano sulle pareti della sua camera. La grossa quercia, quella con i rami che arrivavano a toccare la finestra, era illuminata da dietro grazie a un solitario lampione giallo e dava vita a ghirigori bellissimi sopra il suo letto. Spesso, quando non riusciva a dormire, sgusciava fuori dalla sua stanza e saliva alla chetichella la ripida scala che portava in soffitta. In quella semioscurità, fra bauli e mobili vecchi, fra abiti mangiucchiati dalle tarme e giocattoli cosí antiquati che nessuno sapeva a chi fossero appartenuti in origine, poteva stare seduto per ore e ore a fantasticare.
Lukas Lysgaard lasciò Os e si immerse nelle umide tenebre invernali di una sonnolenta Bergen. Aveva finalmente preso una decisione.
Quando ripensava alla sua fanciullezza aveva ben poco di cui lamentarsi.
Era un bambino amato e ne era consapevole. Quando era piccolo la fede religiosa dei genitori gli aveva fatto bene. Aveva adottato il loro Dio con la stessa naturalezza con cui qualunque bambino fa propri gli ideali dei genitori finché non diventa grande abbastanza da ribellarsi. La sua era stata una ribellione all’insegna del silenzio. Se prima considerava il Signore come una rassicurante figura paterna – pronta al perdono, attenta e onnipresente – a dodici anni aveva cominciato a dubitare.
Nella casa di Nubbebakken non c’era spazio per il dubbio.
La fede in Dio della madre era assoluta. La sua indulgenza nei confronti degli altri, indipendentemente dal loro credo e dalle loro convinzioni, la sua generosità e clemenza anche verso i piú deboli dei caduti, erano cementate nella certezza del Salvatore figlio di Dio. Da adolescente Lukas si era reso conto che sua madre non era una che credeva. Lei sapeva. Eva Karin Lysgaard era sicura del fatto suo e lui non aveva mai trovato il coraggio di metterla di fronte alle sue incertezze. Dio aveva smesso di rispondere alle sue preghiere, e lui si era sempre piú allontanato dal cristianesimo, fino a cercare altrove le risposte alle domande esistenziali che si poneva.
Dopo il servizio militare si era iscritto a Fisica e aveva rigettato la religione. Ancora in totale silenzio. Lui e Astrid si erano sposati in chiesa, ovviamente. Tutti i loro figli erano stati battezzati. Adesso ne era contento: sua madre era stata al settimo cielo ogni volta che aveva presentato alla comunità un nipotino dopo avergli amministrato personalmente il sacramento del battesimo.
Da sempre c’era qualcosa di diverso a casa dei suoi, pensò mentre si avvicinava a Nubbebakken.
Quand’era piccolo non se n’era mai accorto. Dopo la morte della madre aveva cercato di ricordare quando avesse cominciato a provare la sensazione latente che Eva Karin nascondesse un segreto. Forse era stato un processo graduale, che si era sviluppato parallelamente all’indebolimento della sua fede. Nonostante la sua fosse sempre stata una madre molto presente, tanto sul piano psicologico quanto su quello fisico, man mano che Lukas cresceva si era fatta strada in lui l’impressione di dividerla con qualcun altro. Era come un’ombra che aleggiava sulla casa. Una mancanza.
Lui aveva una sorella. Non poteva essere altrimenti.
Era difficile capire il come e il perché, ma doveva essere collegato alla conversione della madre a sedici anni. Forse lei era incinta. Forse desiderava abortire e allora Gesú le aveva parlato. Questo avrebbe potuto spiegare l’unico argomento su cui la madre si era sempre mostrata intransigente, a tratti quasi fanatica: non era dato agli uomini togliere una vita creata da Dio.
Calcolò rapidamente che la madre aveva sedici anni nel 1962.
Non doveva essere facile trovarsi incinte senza essere sposate nel 1962, tanto meno per una ragazza cosí pura.
La donna nella foto gli assomigliava come una goccia d’acqua, questo se lo ricordava bene, anche se le poche volte che aveva degnato di una certa attenzione quel ritratto aveva provato riluttanza, anzi, quasi avversione per quella giovane senza nome dai denti belli e un po’ storti.
Lukas avrebbe trovato quella fotografia. E poi avrebbe trovato sua sorella.
A Nubbebakken parcheggiò un po’ distante dalla casa del padre.
Arrivato sulla soglia, cercò di non far tintinnare troppo il mazzo di chiavi.
Quando fu dentro, si fermò e tese l’orecchio.
La casa dei suoi non era mai stata completamente silenziosa. Le assi di legno scricchiolavano, i cardini cigolavano, i rami grattavano le finestre ogni volta che si alzava il vento, l’orologio a pendolo ticchettava cosí forte che di solito lo si sentiva in gran parte del piano terra, le tubature sospiravano a intervalli regolari: la casa d’infanzia di Lukas era sempre stata una casa viva. I pavimenti erano vecchi e lui ricordava ancora dove mettere i piedi per non svegliare nessuno.
In quel momento era tutto morto.
Fuori non c’era un alito di vento, e quando calpestò una tavola del pavimento che gemeva sempre sotto il suo peso, l’unica cosa che sentí fu il battito del proprio cuore nelle tempie.
Raggiunse la stretta scala e trattenne il respiro fino a quando non arrivò al primo piano. La porta della camera di suo padre era socchiusa. Il suo respiro regolare e lento gli fece supporre che stesse dormendo profondamente. In punta di piedi, Lukas raggiunse la porta della scala che portava in soffitta. Come al solito la vecchia chiave in ferro battuto era nella toppa e lui sollevò il saliscendi e lo tirò a sé mentre girava la chiave, come sapeva di dover fare. Il colpo secco della serratura che scattava gli fece di nuovo trattenere il respiro.
Il padre continuava a dormire.
Con infinita lentezza aprí la porta.
Alla fine sgattaiolò dentro.
A ogni gradino metteva i piedi il piú possibile a ridosso della parete, come aveva imparato a fare a sei anni. Riuscí ad arrivare abbastanza silenziosamente nel grande stanzone polveroso. Impugnando la torcia tascabile che teneva attaccata alla cintura, cominciò la sua ricerca.
E si ritrovò faccia a faccia con la propria infanzia.
Negli scatoloni impilati accanto alla finestrina rotonda in uno dei frontoni c’erano vestiti e scarpe che aveva usato da bambino. Accanto a quelli altri scatoloni di vestiti: sua madre non aveva buttato niente. Cercò di ricordare quando fosse salito in soffitta l’ultima volta e si rese conto di non esserci piú stato dal loro primo trasferimento, quando lui aveva dodici anni e aveva pianto nel sonno per due mesi all’idea di dover lasciare Bergen.
Ciononostante, tutto gli sembrava stranamente familiare.
L’odore della soffitta era ancora lo stesso. Odore di polvere e palline di naftalina, odore dolciastro di metallo misto a lucido da scarpe, altri odori indefinibili e rassicuranti.
Di colpo girò le spalle agli scatoloni accanto alla finestra e tornò silenziosamente verso la scala. Con la torcia illuminò il pavimento nel punto in cui finivano i gradini. Vide chiaramente le proprie impronte nella polvere spessa e altre senza un disegno preciso, come di una pantofola. Ce n’erano parecchie, a guardare con attenzione, e andavano in entrambe le direzioni: qualcuno era stato lí di recente.
Si scoprí a sorridere. Suo padre aveva sempre creduto che la soffitta fosse un posto sicuro. Quando Lukas era piccolo aveva dovuto fingersi sorpreso a ogni vigilia di Natale per i doni che riceveva: il padre li teneva nascosti lassú in attesa di quella sera e non poteva certo immaginare che suo figlio era diventato bravissimo ad aprirli e richiuderli in modo che nessuno se ne accorgesse.
Lukas raddrizzò la schiena e si guardò intorno.
La soffitta era bella grande, quanto un intero piano della casa: cento metri quadrati, se non ricordava male. Fu preso dallo sconforto al pensiero di quanto tempo avrebbe dovuto passare a frugare in mezzo a tutto quel ciarpame, tra cianfrusaglie e ricordi sentimentali, per trovare qualcosa di cosí piccolo come una foto.
Il fascio di luce danzò di nuovo sulle impronte vicino alle scale.
Le orme delle pantofole, quasi invisibili, andavano nella direzione opposta a quella in cui Lukas si era mosso: si addentravano nel lato occidentale della soffitta, il lato con la finestrella chiusa. Le seguí cautamente.
Un rumore da sotto lo fece irrigidire.
Dei passi, senza dubbio. Poi il silenzio.
Lukas trattenne il respiro.
Suo padre si era svegliato. Era come se riuscisse a sentirlo respirare, anche se dovevano esserci piú di quindici metri fra loro. Gli sembrò che suo padre fosse davanti alla porta della scala che saliva in soffitta.
Merda, dissero le labbra di Lukas senza emettere suono. Non l’aveva chiusa del tutto, per paura di far rumore una volta ridisceso. Probabilmente suo padre stava andando in bagno e si era accorto che era aperta.
A volte, quando ci si dimenticava di chiuderla a chiave, capitava che si riaprisse da sola. Lukas chiuse gli occhi e pregò Dio per la prima volta da tempo immemore.
«Ti prego, fa’ che mio padre creda che si sia aperta da sola».
E la sua preghiera fu ascoltata.
Sentí il padre borbottare a bassa voce, poi la porta che veniva sbattuta.
E chiusa a chiave.
Dio non aveva esaudito del tutto la sua preghiera: Lukas era rimasto chiuso dentro e non aveva proprio idea di come avrebbe potuto spiegarlo. Dalla sua bocca sgorgò un fiume di imprecazioni silenziose, fino a quando non gli venne in mente che avrebbe potuto servirsi dell’abbaino. Aveva solo sei anni quando per la prima volta era strisciato fuori dalla finestrella sul tetto, vicinissimo al comignolo, era sceso aggrappandosi alla scaletta, si era spostato lungo la grondaia e poi si era arrampicato sulla grande quercia accanto alla sua camera.
Da lí arrivare a terra era facile.
Per prima cosa doveva trovare la fotografia della sorella.
Aspettò dieci minuti per essere certo che il padre si fosse riaddormentato.
Poi cominciò ad avanzare silenziosamente.
Fu cosí facile che quasi non ci credeva. Sotto una cassa da frutta piena di giornali vecchi, su un poggiapiedi che gli pareva risalisse al periodo in cui erano vissuti a Stavanger, c’era la fotografia. Quando il fascio di luce la colpí, la cornice cesellata brillò. Solo in quel momento Lukas si rese conto che era d’argento: con il passare degli anni il metallo si era ossidato, ma la pesantezza e il colore non lasciavano dubbi.
Sentí una fitta quando la luce si fermò su quel volto sorridente.
La donna doveva avere sui vent’anni, anche se stabilire un’età era piuttosto difficile. Non si vedeva molto dei vestiti che indossava: una camicetta con un colletto ricamato su tutte e due le punte forse con dei fiori, bianco su bianco, e un cardigan piú scuro, leggero, cosí pareva, tinta unita.
«Non molto moderno», pensò lui.
Tolse rapido l’immagine dalla cornice. Sperava di trovare il nome del fotografo o qualche altra annotazione che avrebbe potuto fargli fare un passo avanti nella caccia alla sorella che per molto tempo aveva pensato di avere e che ora aveva deciso di trovare a ogni costo.
Niente.
L’anonimato assoluto. Lukas posò la cornice e raggiunse una vecchia poltrona accostata alla parete bassa verso sud. Si sedette mettendosi la torcia in bilico su una spalla, in modo da illuminare la foto.
Se sua madre fosse stata incinta nel 1962, la donna del ritratto adesso avrebbe avuto quarantasei o quarantasette anni, considerato che lui non aveva mai saputo con esattezza in che periodo dell’anno fosse avvenuta la supposta conversione.
La fotografia quindi doveva essere stata scattata per lo meno venticinque anni prima.
Nel 1984.
A quell’epoca lui di anni ne aveva cinque. E della moda imperante quando aveva cinque anni ne sapeva poco, a parte il fatto che il fratello maggiore del suo migliore amico indossava maglioni di lana mohair in colori pastello infilati dentro i pantaloni e che sfoggiava una favolosa permanente.
Sfiorò il volto della fotografia con la punta delle dita.
La donna non aveva la permanente e, anche se indovinare i colori di un’immagine in bianco e nero era difficile, lui avrebbe scommesso che la sua giacca era rossa.
Lukas non aveva mai sentito la mancanza di una sorella. Era cresciuto con la sensazione di essere unico: il solo e unico figlio con cui i genitori erano stati benedetti. Non aveva mai avuto difficoltà a farsi degli amici e casa sua era sempre stata aperta a tutti. I compagni lo invidiavano: Lukas aveva tutte le attenzioni dei suoi e spesso riceveva in regalo le ultime novità prima ancora che i genitori degli amici avessero fatto in tempo a valutare se potevano permettersele.
La donna del ritratto gli parlava, questa era la sua impressione.
Fra di loro c’era qualcosa, un amore comune.
Poi tutt’a un tratto si infilò la fotografia sotto la camicia, incastrandola sotto la cintura. Aveva rimesso la cornice dove l’aveva trovata. Andò verso l’abbaino sperando di riuscire ancora ad aprirlo, dopo tanti anni.
Non ci fu nessun problema.
Fu investito dall’aria fredda e umida e per un attimo chiuse gli occhi. Quando li riaprí si chiese se ce l’avrebbe ancora fatta a infilarsi in quell’apertura stretta. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa su cui salire e lo sguardo gli cadde subito su un piccolo sgabello-scaletta appoggiato alla parete. A Stavanger lo tenevano in cucina. Lo sollevò con grande cautela, lo aprí e lo posizionò esattamente sotto l’abbaino. Le spalle passavano a malapena dall’apertura, ma se fosse riuscito a farci passare anche il torace il resto non sarebbe certo stato un problema.
C’erano però altre sfide da risolvere.
Capí immediatamente che sarebbe stata una follia pensare di percorrere il tetto e calarsi sulla quercia al buio: la fioca luce del lampione solitario non sarebbe stata sufficiente, e dal momento che gli serviva avere le mani libere per raggiungere l’albero da lassú, la torcia gli sarebbe stata di ben poco aiuto. Avrebbe potuto fissarla alla cintura, questo sí, ma non sarebbe bastato.
Lukas Lysgaard era un ventinovenne padre di tre figli, non piú un ragazzino impavido e incosciente. Con grande prudenza e senza far troppo rumore riuscí a tornare con i piedi per terra.
Si sedette di nuovo in poltrona. Tirò fuori il cellulare e digitò un Sms che spedí a Astrid.
«Mi fermo a dormire da mio padre. Ti telefono domani. Lukas».
Poi tolse la suoneria.
Avrebbe aspettato la luce dell’alba, anche se in quel periodo dell’anno arrivava tardi. Tirò di nuovo fuori la fotografia di quella che ormai era sicuro fosse sua sorella e la fissò a lungo alla luce azzurrata della Maglite.
Magari aveva anche dei nipoti.
In ogni caso una sorella ce l’aveva.
Il solo pensiero gli diede il capogiro e di colpo una grande spossatezza s’impossessò di lui. Si sentiva le membra pesanti come piombo e non riusciva a tenere saldamente in mano la fotografia. La nascose di nuovo sotto la camicia, spense la torcia e si appoggiò allo schienale di quella comoda poltrona.
E quando la notte stava per finire, si addormentò.
a. La citazione è tratta dal Corano, nella versione a cura di Hamza Roberto Piccardo, Newton Compton, Roma 2006 [NdT.].


La figlia scomparsa

Yngvar Stubø si sentiva cosí stanco quando si era svegliato che per un attimo si era domandato se fosse il caso di mettersi alla guida dell’auto a noleggio che aveva a disposizione. Sicuramente non aveva un tasso alcolemico superiore ai valori consentiti: si era limitato a un solo drink, per quanto forte. Ciononostante si sentiva addosso una pesantezza, una sonnolenza che non riusciva a scrollarsi via e che gli rendeva difficile alzarsi. Era come se stesse covando qualche malanno.
Dopo tre tazze di caffè, due porzioni di uova strapazzate con il bacon e un croissant fresco, però, gli era sembrato tutto molto piú facile.
Era quasi a Os.
Non aveva voluto preavvisare del suo arrivo, e questo naturalmente era stato un azzardo – non poteva essere certo di trovare Lukas Lysgaard –, ma preferiva sfruttare il vantaggio psicologico garantito da una visita non annunciata della polizia. Non era mai stato a casa di Lukas, e quando la voce metallica del Gps cominciò a insistere perché svoltasse a destra proprio mentre oltrepassava un terreno che non mostrava la minima traccia dell’esistenza nemmeno di una carrareccia nella direzione indicata, Yngvar decise di chiedere a qualcuno. Vide una donna sulla sessantina che percorreva in tutta fretta una pista ciclabile e che dava l’impressione di sapere bene dove stesse andando.
− Scusa, − l’apostrofò schiacciando il comando per abbassare il finestrino, − conosci bene la zona?
La donna annuí con aria scettica.
Lui le disse quale indirizzo stava cercando, ma questo non la rese piú loquace.
− Lukas Lysgaard, − aggiunse rapido Yngvar Stubø quando si accorse che la donna stava per andarsene. – Sto cercando Lukas Lysgaard!
− Oh, − disse lei con un sorriso malinconico. – Povero ragazzo. Terza traversa sulla destra. Segui la strada per trecento metri circa, svolta a sinistra quando vedi una casetta rossa fatiscente e vai sempre dritto. Vedrai una villa bianca dove la strada fa una curva, prosegui fino in cima alla collina e ci sei. È una casa gialla, con il garage doppio.
Yngvar ripeté le indicazioni, ricevette un cenno di assenso in risposta, ringraziò cortesemente e ripartí.
Arrivato nelle vicinanze della casa diede un’occhiata all’orologio sul cruscotto.
Otto e dieci.
Forse era troppo tardi.
Dal momento che Lukas lavorava a Bergen, molto probabilmente la mattina usciva presto. Yngvar ne sapeva poco delle infrastrutture del Vestlandet, ma nei giorni successivi alle vacanze natalizie si era reso conto che nelle ore di punta il traffico proveniente da sud e diretto verso Bergen era in grado di bloccare completamente la circolazione da Flesland fino in città e, anche se Flesland si trovava a nordovest rispetto a Os, a quanto aveva capito avvicinandosi a Bergen si rimaneva imbottigliati nelle stesse code a fisarmonica.
Svoltò e si fermò davanti a una grande casa gialla degli anni Ottanta, con le finestre a bovindo, gli infissi in legno e tutti i contrassegni tipici di un’abitazione funzionale e decisamente poco curata dal punto di vista estetico.
Parcheggiò e andò alla porta.
Dall’interno gli arrivarono grida di bambini seguite dai rassegnati gemiti di quella che suppose essere la moglie di Lukas. Un flebile miagolio lo fece arretrare, scendere di qualche gradino la scalinata in pietra e alzare lo sguardo. Sul tetto del portico c’era un gatto tigrato. Quando Yngvar incrociò i suoi occhi verdi il gatto scivolò silenzioso lungo la grondaia, scese seguendo il muro e riuscí a intrufolarsi in casa nello stesso istante in cui la porta si apriva.
− Buongiorno, − disse Yngvar salendo i tre gradini che lo separavano dalla donna e tendendole la mano.
Astrid Tomte Lysgaard lo fissò stupefatta.
− Buongiorno, − rispose cortesemente, e gli strinse la mano.
− Yngvar Stubø. Della Kripos. Sto lavorando al caso di omicidio di tua suocera e…
− Lo so chi sei, − lo interruppe Astrid senza invitarlo a entrare. – Ma Lukas non c’è.
− Ah. È già andato al lavoro?
− Probabile. Si è fermato a dormire da suo padre.
− Capisco.
Yngvar sorrise. Astrid Tomte Lysgaard non si era ancora preparata per uscire: indossava un accappatoio troppo grande da cui spuntavano due gambe bianco latte che non lasciavano dubbi sulla sua eccessiva magrezza, e aveva zampe di gallina e borse sotto gli occhi fin troppo visibili per la sua età.
− Mi dispiace, − disse allargando le braccia con fare rassegnato. – Siamo un po’ in ritardo oggi, perciò se non vuoi nient’altro…
La testa di un bambino sui tre anni sbucò da dietro la madre.
− Ciao! – disse con un sorriso. – Io mi chiamo William e la nonna è morta proprio morta.
− Ciao, io mi chiamo Yngvar e sono un poliziotto. È tuo quel gatto che ho appena visto?
− Sí, si chiama Borghild.
− Proprio il nome giusto per una bella gattona cosí a, − gli disse Yngvar. – E adesso corri a vestirti! Non vai a scuola fra poco?
− Hai sentito? – gli disse Astrid con un pallido sorriso, arruffandogli i capelli con una mano. – La polizia ha detto che devi andare a vestirti. E bisogna sempre fare quello che dice la polizia.
Il bambino si voltò di scatto e corse via.
− Va tutto bene? – le chiese Yngvar a bassa voce.
− Sai com’è…
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
− Per Lukas è molto difficile, − aggiunse, e si asciugò l’occhio sinistro con un movimento fulmineo. – Una cosa è che Eva Karin ci abbia lasciato, ma vedere Erik cosí…
Aveva mani piccole e dita lunghe e affusolate. Teneva le braccia conserte e con ritmici gesti nervosi si lisciava i capelli dietro le orecchie.
− E come se non bastasse Lukas si è messo in testa che…
Il clacson di un’automobile risuonò in strada. Yngvar si voltò e vide una macchina con il sedile posteriore carico di bambini uscire dal passo carraio della casa accanto. L’uomo alla guida fece un cenno di saluto ad Astrid, e lei sollevò appena la mano per ricambiare.
− Che cosa si è messo in testa Lukas? – le chiese Yngvar visto che lei non concludeva la frase.
− No, non saprei esattamente…
La gatta Borghild si avvicinò alle gambe nude di Astrid e cominciò a strusciarsi.
− Adesso devo proprio andare, − disse lei facendo un passo indietro. – Devo preparare i bambini per la scuola. Mi dispiace che ti sia fatto tutto il viaggio fin qui per niente.
− Non è certo colpa tua!
Ancora una volta Yngvar indietreggiò e scese qualche gradino.
− Chiedo scusa per il disturbo, − le disse. – So benissimo come vanno, certe mattine.
Senza aggiungere altro, la donna si chiuse la porta alle spalle. Yngvar andò alla macchina, che si aprí in automatico. Si sedette al posto di guida e cominciò ad armeggiare con quella stupida chiave a scheda che secondo la Renault era meglio di una normalissima chiave di avviamento. La infilò nella fessura e schiacciò il pulsante Start, ma non accadde nulla.
− Che tu lo voglia o no, devi funzionare!
Con un gesto violento tolse la chiave a scheda dalla fessura e la sbatté contro il cruscotto, poi ricominciò da capo la procedura e tenendo premuto il pedale del freno inserí la chiave a scheda nella fessura e schiacciò il pulsante Start. Il motore si avviò.
Dopo aver guidato per cinque minuti con l’idea di tornare a Bergen, Yngvar cambiò programma e decise che sarebbe andato a Nubbebakken. Andare a parlare con Lukas all’università sarebbe potuta sembrare un’iniziativa piú grave di quel che era, e siccome Astrid aveva detto che le condizioni di Erik continuavano a peggiorare poteva darsi che Lukas avesse pensato di fermarsi da lui, anche se si trattava di un giorno feriale.
Accelerò.
Aveva cominciato a piovere e dietro la fitta coltre di nubi il sole iniziava a colorare il mondo di grigio.
Lukas si svegliò che l’abbaino non era piú nero ma di un color grigio fuliggine. Non sentiva il braccio destro. Lo mosse con grande prudenza: girandosi nel sonno aveva finito per schiacciarlo fra la poltrona e il peso del proprio corpo. Riattivare la circolazione del sangue fu come infilare la mano in un vespaio. Formicolio, dolore, e fece una smorfia quando, una volta in piedi, cominciò a scuotere il braccio con tale energia da aver male alla spalla.
Erano già le nove e dieci di martedí 13 gennaio.
Avrebbe dovuto partecipare a un consiglio di istituto alle nove. Diede un’occhiata al display del cellulare e si accorse che c’erano cinque chiamate perse. Tre erano di un collega che sarebbe dovuto andare alla sua stessa riunione, due di Astrid.
Sperò intensamente che lei non avesse poi cercato di rintracciarlo chiamando suo padre. Forse no, visto che negli ultimi tempi sua moglie non sopportava di parlare con il suocero.
Si stiracchiò tutto, rapidamente, per eliminare gli acciacchi della notte.
Da sotto non sentiva alcun rumore: forse il padre dormiva ancora.
La fotografia della sorella era sotto la camicia, dove l’aveva infilata prima di dormire. Si era tutta incurvata nel corso della notte, ma senza piegarsi. Lukas allacciò la cintura piú stretta di un buco per essere certo di non perderla. Poi si arrampicò sullo sgabello e aprí l’abbaino.
Le mattine di gennaio erano sconfortanti.
Tutto era grigio. I colori in letargo. La quercia sembrava una sagoma nera contro tutto quel grigio. Lukas si issò attraverso la stretta apertura e facendo forza sulle braccia sollevò il resto del corpo. Una volta seduto sul tetto si fermò a riprendere fiato, poi piantò i talloni sulla scaletta che scendeva dal comignolo, ma avvertí una paura che da ragazzo non aveva mai provato. Quando era piú o meno a metà strada dalla grondaia, sentí un’auto avvicinarsi. Si irrigidí.
Sentí il motore spegnersi e il rumore di una portiera che veniva richiusa.
Il cancello cigolò e Lukas udí dei passi che senz’ombra di dubbio si dirigevano verso la porta di casa di suo padre.
Qualcuno suonò il campanello. Da sotto riuscí a sentirne chiaramente lo squillo, per quanto attutito e distorto da due piani di edificio. Fino a quel momento non aveva nemmeno osato spostare gli occhi, ma si decise finalmente a guardare giú. Da dov’era seduto vedeva benissimo la minuscola veranda con la scala in pietra e lo zerbino a griglia per pulirsi le scarpe.
Capí subito di chi si trattava.
La porta si aprí.
Lukas trattenne il respiro, teneva gli occhi fissi sull’uomo là sotto. Se a Yngvar Stubø fosse venuto in mente di alzare lo sguardo lo avrebbe visto all’istante.
Si sentivano nitidamente le voci là sotto.
– Buongiorno, − disse il poliziotto. – Scusa il disturbo. Sto cercando Lukas. Vorrei solo farmi due chiacchiere con lui su un paio di dettagli. È qui?
Come sempre la voce del padre suonò piatta e disinteressata:
− No.
− No? Ho parlato con sua moglie e…
Yngvar Stubø fece un passo indietro. Lukas chiuse gli occhi.
− Mi scusi, − disse l’uomo robusto laggiú. – Certo, avrei dovuto telefonare prima di venire. Tutto bene? C’è qualcosa che possiamo…
− Tutto bene, − lo interruppe la voce del padre di Lukas, poi la porta di casa si richiuse con un colpo sordo.
Lukas era già zuppo. Aveva lasciato la giacca nell’auto e la pioggia gelata gli scendeva dal collo giú per la schiena. D’istinto si sporse in avanti per cercare di proteggere la fotografia. Riaprí gli occhi.
Yngvar Stubø era fermo a cinque metri dal muro della casa e teneva la testa leggermente obliqua. Quando i loro sguardi si incrociarono il poliziotto piegò piú volte il dito indice verso il basso. Accennò un sorriso e scosse appena la testa prima di indicare il cancello.
Lukas deglutí, aveva caldo e freddo insieme.
Ci avrebbe messo tre minuti a scendere dal tetto e in quel lasso di tempo avrebbe dovuto inventare una spiegazione incredibilmente convincente. Senza contare poi che non doveva farsi vedere dal padre: dare una spiegazione a Yngvar Stubø bastava e avanzava.
Quando raggiunse il suolo dopo essere saltato da uno spesso ramo a quasi due metri da terra, non gli era ancora venuto in mente niente da dire.
La verità, forse, pensò per una frazione di secondo, poi scacciò l’idea e alla chetichella fece il giro della casa, fino al cancello dove Stubø lo stava aspettando.
Johanne aveva compreso ormai da tempo che la verità era la prima vittima di qualunque guerra. Le riusciva comunque difficile accettare che la realtà potesse essere distorta cosí tanto come nell’articolo che cercava di leggere mentre Ragnhild faceva fare colazione al suo orsetto.
− Guarda! – esclamò estasiata la figlia indicando il muso del pupazzo tutto impiastricciato. – All’orsetto piacciono un sacco i fiocchi d’avena.
− Non fare cosí, − borbottò Johanne. – La tua colazione devi mangiarla tu.
Bevve un sorso di caffè. Si sentiva ancora il corpo appesantito e indolenzito per i sonniferi che aveva preso ed era in ritardo, ma non riusciva proprio a staccarsi dal giornale.
− Che cosa stai leggendo, mamma?
Ragnhild aveva ficcato il muso dell’orsetto nella ciotola di fiocchi d’avena, latte e marmellata di fragole. Johanne non alzò nemmeno gli occhi. Non sapeva come avrebbe potuto spiegare a una bambina di cinque anni la guerra in corso nella striscia di Gaza.
− Sto leggendo di alcune persone cattive, − rispose con aria assente.
− Le persone cattive vanno in prigione, − le disse Ragnhild allegra. – Papà le cattura e le sbatte in gattabuia!
− Gattabuia? – Johanne sbirciò la figlia da sopra il giornale. − E questa parola dove l’hai sentita?
− Gattabuia, cella, segrete, carcere. Sono la stessa cosa. C’è anche una cosa che si chiama dentizione preventiva.
− Detenzione preventiva, − la corresse lei. – È Kristiane che ti insegna queste parole?
− Mhm… − le rispose Ragnhild mettendosi a leccare il muso dell’orsetto. – Perché sul giornale parlano delle persone cattive?
− È un’intervista, − le rispose Johanne. – A un uomo che si chiama…
Guardò la fotografia di Ehud Olmert. Di scatto voltò pagina.
− Adesso non c’è proprio tempo per questo, − disse alla figlia con un sorriso. – Perché non cominci a lavarti i denti? Poi vengo io ad aiutarti.
La bambina si cacciò il pupazzo sotto braccio e scomparve in bagno. Johanne stava ripiegando l’«Aftenposten» per riporlo quando lo sguardo le cadde su un trafiletto in prima pagina che la costrinse, con una certa riluttanza, a cercare l’articolo a pagina cinque a cui si riferiva.
Il caso Marianne è ancora un mistero: oltre trecento testimoni interrogati finora.
Se c’era qualcosa di cui non aveva proprio bisogno la mattina presto era doversi rapportare all’ennesimo omicidio. Ciononostante non riuscí a trattenersi dal dare un’occhiata all’articolo. La polizia non seguiva ancora piste certe, o per lo meno non ne seguiva nessuna che desiderasse rendere pubblica, ma la conclusione al momento era che l’omicidio fosse avvenuto all’interno dell’albergo. Niente infatti stava a indicare che il cadavere fosse stato spostato. L’ispettore capo Silje Sørensen assicurava che l’assassinio di Marianne Kleive, quarantadue anni, maestra di scuola materna, aveva la massima priorità e che le indagini si sarebbero intensificate. Lei contava che il caso venisse risolto, ma, come ammoniva fin da questo momento, forse ci sarebbe voluto del tempo. Molto tempo.
Johanne aveva consapevolmente evitato di interessarsene. Da quando era stato ritrovato il cadavere aveva tralasciato la lettura dei vistosi trafiletti dei tabloid come anche degli articoli piú seri dell’«Aftenposten». Le era bastato il matrimonio di sua sorella, non aveva certo bisogno di approfondire un omicidio che era stato compiuto dove si trovava Kristiane.
Non capiva esattamente che cosa l’avesse spinta a occuparsene proprio quel giorno. Irritata, gettò via il giornale.
Un pensiero. Un minuscolo pensiero affiorò nella sua mente. Un pensiero che non voleva avere.
Di colpo balzò in piedi.
– No, − disse stringendo i pugni. – No.
Senza nemmeno sparecchiare la tavola andò in bagno pestando i piedi, come se il suono dei suoi passi sul parquet potesse scacciare l’inquietante germoglio di consapevolezza che si stava radicando in lei.
− Adesso ti aiuta mamma a lavare i denti, − disse a voce ingiustificatamente alta e tolse di mano lo spazzolino a Ragnhild, con un gesto cosí brusco da farla scoppiare a piangere. – Non c’è nessun motivo per mettersi a piangere, Ragnhild. Su, apri la bocca.
«La signora era morta».
Johanne risentí la voce di Kristiane con la stessa nitidezza che avrebbe avuto se la figlia fosse stata accanto a lei in quel momento.
− Albertine, − disse a voce alta. – Era di Albertine che stava parlando.
− Io non voglio la baby-sitter, − gridò Ragnhild, e addentò lo spazzolino.
«La signora era morta».
Kristiane lo aveva detto e ripetuto diverse volte quando, confusa e infreddolita, era stata riportata in albergo dopo essere uscita in Stortingsgaten durante i festeggiamenti per le nozze della zia.
− Mamma, − strillò Ragnhild cercando di tenere i denti serrati. – Mi fai male cosí!
− Scusami, − le disse Johanne, e lasciò cadere lo spazzolino come fosse incandescente. – Scusa, tesoro mio! Mamma è proprio una sciocca.
Si mise in ginocchio e la abbracciò, affondò il viso nel suo collo e la strinse forte a sé.
− Cosí mi soffochi, − ansimò Ragnhild. – Mamma! Non riesco a respirare!
Johanne si staccò da lei e la afferrò per le spalle con tutte e due le mani, la guardò dritta negli occhi e tirò fuori un sorriso forzato.
− Adesso mi devi aiutare, − le disse, prima di deglutire a fatica. – Puoi aiutare mamma, eh?
− Sííí...
Ragnhild aggrottò la fronte. Aveva l’aria di chi si aspetta con l’inganno qualcosa che non sopporta.
− Chi è che Kristiane chiama «signora»? – le chiese Johanne cercando di sorridere ancor di piú.
− Tutte le donne che non conosce, − rispose Ragnhild.
− E magari anche quelle che non conosce molto bene, non è vero?
− No…
− Ma sí! Come Albertine, per esempio. Vi ha fatto da baby-sitter solo cinque o sei volte. Può capitare che Kristiane la chiami ancora «signora» ogni tanto, non è vero?
Ragnhild scoppiò a ridere. Le lacrime impigliate nelle ciglia rilucevano nell’intensa luce del bagno.
− Ma no, mamma! Kristiane Albertine la chiama Albertine. Ma noi non stiamo con la baby-sitter questa sera, vero? Tu stai a casa con me e…
«La signora era morta».
− Ma certo, − rispose lei, e si alzò. – Io sto qui con te, certo.
Poi Johanne smise di essere presente.
Non fu lei a tirar fuori una pastiglia di fluoro e infilarla in bocca a Ragnhild. Non era Johanne Vik quella che con grande tranquillità se ne andò in cucina a preparare il pranzo da portare via senza nemmeno gettare un’occhiata al giornale. E quando arrivò alle scale che scendevano fino alla porta d’ingresso riconobbe a stento la morbida manina di sua figlia.
«L’anima. Non si vede che se ne va via».
Il cenone della vigilia di Natale.
Le parole di Kristiane quando parlavano della morte.
− Mamma, − le disse Ragnhild in tono pacato con gli stivali ai piedi. – Adesso mi sembri tanto strana stranissima.
Johanne non ebbe la forza di ribattere.
E nemmeno di sorridere.
Lukas Lysgaard a Yngvar Stubø aveva sempre dato l’impressione di essere un giovane uomo decisamente serio. Non che fosse cosí strano, in fondo, visto e considerato che si erano conosciuti in circostanze tragiche, ma era convinto di intuire qualcosa di profondamente riflessivo, malinconico quasi, nel suo modo di essere, qualcosa che non era collegato per forza alla morte della madre.
Non aveva mai visto Lukas sorridere.
In quel momento, invece, pareva in tutto e per tutto un gatto bagnato con un sorrisetto idiota sulle labbra.
− Buongiorno, − disse a Yngvar porgendogli la mano, salvo poi cambiare idea e ritirarla subito. – Fradicio e infreddolito. Mi dispiace.
− Possiamo sederci nella mia auto. Fa piú caldo, là dentro.
Lukas si accomodò in macchina senza protestare.
− A-ha… − gli disse Yngvar dopo essersi pesantemente seduto al posto di guida e aver posato le mani sul volante, senza però mettere in moto. – Che cosa sarebbero, gli esercizi che hai fatto?
Lukas aveva ancora quel ghigno stampato in faccia, un sorrisetto minimizzante da ragazzino: evidentemente, non aveva la piú pallida idea di cosa dire.
− No… è che… − tergiversò, − stavo solo… Da piccolo, prima che ci trasferissimo a Stavanger, ogni tanto lo facevo. Mi arrampicavo sul tetto. Per fare il duro, forse. Mamma si spaventò a morte una volta che mi sorprese lassú. Era… divertente.
− Mhm, − commentò Yngvar annuendo, − immagino…
Tamburellava con le dita sul volante.
− E questo spiegherebbe perché poco prima del giro di boa dei trent’anni hai cercato di rifarlo, in un piovoso giorno di gennaio, un paio di settimane dopo la morte di tua madre e con tuo padre che rischia il tracollo da un momento all’altro?
Iniziò una violenta grandinata, il rumore sul tetto della macchina era assordante. Yngvar ne approfittò per mettere in moto e portare il riscaldamento al massimo. Non aveva capito bene come funzionava il freno a mano quando il tizio dell’Avis aveva provato a spiegarglielo, cosí se ne stava con l’auto in folle e il piede premuto sul pedale del freno.
− Senti, Lukas, io non ho nessuna voglia di… – tirò su col naso e si girò per metà sullo stretto sedile. − Non ho piú voglia di trattarti come fossi di porcellana. Okay?
I suoi occhi si inchiodarono in quelli dell’altro.
− Sei un uomo adulto, padre di tre figli e con un alto grado di istruzione. Adesso è passato un po’ di tempo dalla morte di tua madre. A dire il vero sono stufo marcio di non ottenere risposte alle domande che ti faccio.
− Ma io ho risposto a tutto quello che…
− Sta’ zitto! – sibilò Yngvar, e si chinò verso di lui. – Sono famoso per la mia pazienza, Lukas. Secondo qualcuno sono perfino troppo buono e gentile. Stupidamente buono, mi dicono ogni tanto. Ma se credi anche solo per un istante di potertene andare da qui prima di avermi spiegato che cosa significava la tua prodezza sul tetto, allora ti sbagli di grosso.
I vetri si stavano appannando. Lukas non diceva una parola.
− Che cosa ci facevi sul tetto? – gli chiese di nuovo Yngvar.
− Stavo uscendo dalla soffitta.
Yngvar diede un pugno al volante con tanta forza da farlo tremare.
− Che diavolo ci facevi in soffitta e perché non hai usato le scale come fanno tutti?
− Non c’entra niente con la morte di mia madre, − borbottò Lukas distogliendo lo sguardo. – Si tratta di un’altra cosa. Una cosa… personale.
Aveva cominciato a battere i denti e cercava di scaldarsi dandosi delle pacche su tutto il corpo.
− Lo decido io se è personale o no, − ringhiò Yngvar Stubø. – E ti concedo esattamente venti secondi a partire da ora per darmi una risposta accettabile. E se non lo fai giuro che ti sbatto dentro e ti ci tengo fino a quando non cominci a collaborare, cazzo!
Lukas lo fissava con un misto di incredulità e qualcosa che iniziava a somigliare alla paura.
− Stavo cercando una cosa, − bisbigliò cosí piano che quasi non si sentí.
− Che cosa?
− Una cosa proprio… una cosa che…
Si coprí il volto con le mani.
− Una fotografia, − affermò piú che chiedere Yngvar. – Una fotografia.
Lukas smise di respirare.
− La fotografia che è sempre stata nella camera da letto di tua madre, − proseguí Yngvar. – Quella che era ancora lí quando sono venuto da voi dopo l’omicidio, ma che poi è sparita nel nulla.
La grandinata si era trasformata in un violento temporale. Pesanti gocce esplodevano sul parabrezza. Il mondo al di là dei vetri dell’auto era sfumato e indefinito. Loro due rimanevano lí, come dentro a un bozzolo, e Yngvar si accorse che quella strana, anomala rabbia lo stava abbandonando con la stessa rapidità con cui lo aveva assalito.
− E tu come fai a saperlo? – gli chiese Lukas lasciando cadere le mani in grembo.
− Non lo sapevo. Era solo una supposizione. Hai trovato la fotografia?
− No.
Yngvar sospirò e cercò per l’ennesima volta di assumere una posizione in cui riuscisse a rilassarsi un minimo.
− Chi c’è in quella fotografia?
− Non lo so. Davvero. Non lo so proprio.
− Però ti sei fatto un’idea, − gli disse Yngvar.
E di nuovo scese il silenzio. Un’automobile passò nella direzione opposta a quella verso cui erano rivolti e la luce dei fari trasformò il parabrezza in un caleidoscopio di giallo e grigio chiaro prima che nell’abitacolo scendesse di nuovo la penombra.
Lukas non aprí bocca.
− Dico sul serio, − ribadí Yngvar in tono pacato. – Farò tutto ciò che è in mio potere per renderti la vita difficile, se non ti decidi immediatamente a comunicare con me.
− Credo di avere una sorella, forse, da qualche parte. Quella è la fotografia di mia sorella, forse. Una sorella piú grande.
Una figlia, pensò Yngvar, come gli era già capitato di pensare molti giorni prima.
Una figlia scomparsa. Una figlia che forse però non era scomparsa.
− Grazie, − gli disse con voce quasi impercettibile. – Peccato non averla trovata, quella fotografia.
− Peccato, sí. Probabilmente mio padre se n’è liberato. Tu cosa te ne saresti fatto? Se l’avessi trovata, intendo…
Per la prima volta da quando Lukas era sceso dal tetto Yngvar sorrise. Si passò una mano fra i capelli e scosse piano la testa.
− Se avessimo una sua fotografia, Lukas, la rintracceremmo in fretta tua sorella. Sempre che fosse ancora viva e non abitasse troppo lontana dalla Norvegia. Sempre che si tratti di tua sorella. Questo ancora non lo sappiamo. Non sappiamo nemmeno se quella fotografia possa avere qualcosa a che fare con l’omicidio di tua madre. Ma ti assicuro che avrei usato tutto il mio tempo per scoprirlo!
− Ma che cosa avreste… Ma come potreste usare una fotografia assolutamente anonima per…
− Abbiamo degli enormi database. Estesi programmi informatici. E se tutta la tecnologia del mondo non bastasse…
Il piede pigiato sul pedale del freno stava per perdere la sensibilità, perciò Yngvar mise la prima e spense il motore.
− Anche a costo di andare io personalmente a bussare di porta in porta in tutta Bergen e di incollare manifesti in tutto il Paese con le mie mani e telefonare a ogni singola stazione televisiva e a ogni singolo giornale… ti posso garantire che la troverei. Stanne certo.
Lukas annuí.
− Era quello che pensavo, − disse. – Era esattamente quello che pensavo mi avresti detto. Posso andare adesso? La mia auto è in fondo alla strada.
Gli occhi di Yngvar si assottigliarono quando incrociò di nuovo lo sguardo di Lukas.
− Va bene. Ma non dimenticare quel che ti ho detto oggi. D’ora in poi non tollererò piú nessun segreto. Ci siamo capiti?
− Sí, − rispose Lukas annuendo e aprí la portiera. – Arrivederci.
Dopo essere sceso dall’auto si girò e si chinò di nuovo verso l’abitacolo.
− Grazie per non avermi tradito con mio padre, − gli disse.
− Prego, − gli rispose Yngvar, poi gli fece un cenno di saluto, avviò di nuovo il motore, mise la freccia e se ne andò lentamente.
Lukas corricchiando raggiunse la sua auto. Per tutto il tempo si tenne una mano sulla pancia, nel punto in cui sentiva i bordi di una fotografia che al momento non aveva intenzione di condividere con nessun altro.
Per lo meno, non ancora.
− La scuola non è ancora finita, − disse Kristiane per la cinquantesima volta almeno quando arrivarono a casa. – La scuola non è ancora finita.
− No, − ripeté tranquillamente Johanne. – Ma io vorrei parlarti di una cosa molto importante, tesoro mio. Per questo sono venuta a prenderti prima oggi.
− La scuola non è ancora finita, − ripeté Kristiane mentre saliva le scale come una bambola meccanica. – La scuola finisce alle quattro e dopo io vado a casa di papà. Oggi io abito a casa di papà. La scuola finisce alle quattro.
Johanne la seguí senza dire piú niente. Solo dopo che furono entrate nel soggiorno spalancò le braccia con allegria e spiegò: − Kristiane e la mamma oggi faranno la giornata dei peluche! Solo tu e io! La vuoi una bella tazza di cioccolata calda con la panna montata?
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane seduta sul divano, iniziando a dondolarsi lentamente da una parte all’altra.
Johanne le si avvicinò e si sedette accanto a lei. Le sollevò maglione e canottiera sopra la cintura e fece danzare le dita sull’esile e stretta schiena della figlia. Kristiane sorrise, le si sdraiò in grembo. Rimasero cosí per diversi minuti, poi Kristiane cominciò a cantare.
− Intreccia una ghirlanda di fiori, unisciti alla danza e ai cori, le note del violino nel bosco risuonan dolci…
− Ma che bella canzone, − le sussurrò Johanne.
− Non restare qui, triste e negletto, fa’ vedere che sei giovinetto…b
Scese il silenzio.
− Una bella canzone primaverile, − disse Johanne. – Una canzone primaverile in gennaio… ma che brava la mia bambina…
− Canta anche tu la primavera, cosí arriva.
La risata di Kristiane era cristallina. Johanne le carezzò con l’indice la colonna vertebrale, dal collo in giú.
− Che solletico, − disse Kristiane con un sorriso. – Ancora!
− Ti ricordi il giorno del matrimonio di zia Marie?
− Certo. Sulamitt dov’è finito?
− Sulamitt si è rotto, tesoro. Lo sai bene.
Quando aveva compiuto un anno a Kristiane avevano regalato una piccolo camion rosso dei pompieri e lei aveva deciso che era un gatto e si chiamava Sulamitt. Era stato il suo fedele compagno per piú di otto anni. Con il passare del tempo le ruote si erano staccate, il colore era sbiadito, la scaletta sul tetto si era persa ancor prima. Gli occhi dei fari erano diventati ciechi e il piccolo Sulamitt non somigliava piú né a un camion dei pompieri né a un gatto quando Yngvar per errore lo aveva investito facendo retromarcia nel vialetto di casa.
Kristiane era stata inconsolabile.
− Sulamitt era un bel gatto, − disse alla madre. – Me lo compri un gatto nuovo? – le chiese.
− Ma abbiamo Jack, − le disse lei. – A lui i gatti non piacciono molto, lo sai.
− Io sono la bambina invisibile, − disse Kristiane.
Johanne carezzò con dita leggere come farfalle la pelle sottile della schiena di Kristiane.
− A volte nessuno mi vede.
− E quando? – bisbigliò Johanne.
− Sulamitt, sulamat, sulatullamit.
− È stato al matrimonio della zia Marie che nessuno ti ha visto?
− Ancora. Ancora solletico, mamma.
− E tu hai visto qualcuno? Anche se nessuno ti ha visto?
Johanne stava disperatamente cercando di venire a capo di ciò che la figlia aveva voluto dire davvero quella notte all’hotel, quando lei stessa era terrorizzata, furibonda e incapace di capire alcunché.
− È stata uccisa una donna, lí, − disse Kristiane mettendosi di colpo a sedere accanto alla madre. – Marianne Kleive. Maestra di scuola materna. Sposata con la nota, pluripremiata documentarista Synnøve Hessel! Le donne si possono sposare fra loro, in Norvegia. Gli uomini anche.
Di colpo la sua voce era tornata alla salmodiante monotonia di prima.
− Tu leggi troppi giornali, − le disse con un sorriso Johanne, e la abbracciò.
− Profondamente amata, è mancata all’affetto dei suoi cari.
− Hai cominciato a leggere gli annunci funebri?
− Una croce significa che il defunto era cristiano. Una stella di David vuol dire che il morto era ebreo. E l’uccello che cosa significa, mamma?
Finalmente Kristiane sollevò lo sguardo, che sfiorò la madre.
− Significa che si desidera la pace per il defunto, − sussurrò Johanne.
− Io voglio un uccello sul mio annuncio funebre.
− Ma tu non stai morendo.
− Un giorno morirò.
− Prima o poi tutti muoiono.
− Anche tu, mamma.
− Sí, anche io. Ma fra tanto tempo.
− Questo non lo puoi sapere.
Scese il silenzio. Sussurravano: strette una all’altra sul divano, la madre che con un braccio cingeva come una cintura di sicurezza la gracile quattordicenne, mentre la luce del giorno inondava il pavimento del soggiorno abbagliandole quasi. Johanne sentiva i seni acerbi di quella piccola figura, gli inevitabili segni che anche Kristiane sarebbe diventata adulta, nonostante la pubertà per lei fosse arrivata tardi.
− No, − disse alla fine. – Non lo posso sapere. Ma credo che manchi ancora tanto tempo. Sono sana, Kristiane, e non sono neanche tanto vecchia. Tu lo hai mai visto un morto?
− Tu morirai prima di me, mamma.
− Sí, lo spero. Nessun genitore desidera morire dopo i suoi figli.
− E chi si prenderà cura di me?
Fin da quando Kristiane aveva solo poche ore e lei era stata l’unica a capire che qualcosa non andava in quella neonata, Johanne si era posta la stessa domanda. Ancora e ancora.
− Allora sarai diventata una donna adulta, tesoro mio. Sarai in grado di occuparti di te stessa.
− Io non sarò mai in grado di occuparmi di me stessa. Io non sono come gli altri bambini. Io vado a una scuola speciale. Sono autistica.
− Tu non sei autistica, sei…
Johanne si raddrizzò di colpo e le mise una mano sotto il mento.
− Tu non sei come gli altri bambini, questo è vero. Tu sei semplicemente te stessa. E io ti voglio un bene dell’anima proprio per come sei. E sai una cosa, tesoro?
Il suo sorriso venne ricambiato. Lo sguardo di Kristiane smise di vagare.
− Neanche io sono come gli altri, sai. E a dire il vero credo che tutti si sentano cosí. Nessuno si sente esattamente come gli altri. E ci sarà sempre qualcuno che si prenderà cura di te. Ragnhild, per esempio. E Amund. In fondo è tuo cugino!
Kristiane rise con quella sua sottile risata cristallina.
− Loro sono piú piccoli di me!
− Sí, ma quando io morirò saranno adulti e potranno prendersi cura di te.
− Io l’ho vista una persona morta. L’anima pesa ventun grammi. L’anima. Non si vede che va via.
Johanne non disse nulla. Le teneva ancora una mano sotto il mento, ma lo sguardo della figlia era di nuovo rivolto all’interno, verso un luogo che a nessun altro era dato raggiungere, e la sua voce era tornata piatta e meccanica quando aggiunse: − Marianne Kleive, quarantadue anni, morta il 19 dicembre 2008. Eva Karin Lysgaard, profondamente amata, è mancata all’affetto dei suoi cari, se n’è andata all’improvviso la notte di Natale del 2008. I funerali avranno luogo in data da destinarsi. La croce significa che era cristiana.
− Basta, − le sussurrò Johanne tirandola di colpo a sé. – Adesso basta.
Erano le dodici in punto e una nuvola coprí la luce intensa del sole di gennaio. Una piacevole oscurità invase il soggiorno. Johanne chiuse gli occhi mentre stringeva forte la figlia e la cullava dondolandola da una parte all’altra.
− Io sono la bambina invisibile, − bisbigliò Kristiane.
a. Si fa riferimento alla prosperosa moglie di Sigmund, leggendario re dei Volsunghi [NdT.].
b. La citazione è tratta da Bind deg ein blomekrans, filastrocca anonima per bambini molto popolare in Norvegia. Si è scelto di fornire una traduzione per agevolare la lettura [N. d. T.].

Paura

Forse non avrebbe mai dovuto procurarsi un figlio.
Al solo pensiero sentí i succhi gastrici corrodergli il duodeno. Sollevò le ginocchia e si posò le mani nel punto in cui in gioventú riusciva ancora a distinguere le costole che finivano e l’addome che iniziava: adesso era tutto morbido uguale, nonostante fosse sdraiato sulla schiena, una pancia inerte e fin troppo grossa con fitte di dolore sotto uno strato di grasso.
L’intera vita di Marcus Koll jr girava intorno al figlio.
Il lavoro, l’azienda, la famiglia allargata: senza Lillemarcus tutto avrebbe perso di senso. Quando Rolf era apparso, era stata una vita a due quella in cui si era inserito. Presto però erano diventati una famiglia, loro tre, una famiglia che Marcus avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere. Ma il bambino era e restava il perno intorno a cui ruotava la famiglia di Marcus Koll jr.
Lillemarcus non ci aveva messo molto ad affezionarsi a Rolf. Il suo amore era ricambiato. Dopo un po’ Rolf aveva lasciato intendere che lui avrebbe volentieri adottato il figliastro.
Col passare del tempo, però, aveva lasciato cadere l’argomento.
Marcus non aveva mai raccontato a nessuno del suo sogno di gioventú.
Desiderava un figlio.
Era un ragazzo forte: rompere con il proprio padre non era una passeggiata. Strano ma vero, a lui era costato pochissimo mostrarsi per quello che era. Da adolescente poteva sembrare caparbio e ostinato; da adulto era diventato piú furbo e piú flessibile. La caparbietà si era trasformata in determinazione, la superbia in orgoglio. Aveva smussato la propria diversità con l’autoironia e non aveva mai provato il bisogno di frequentare gli ambienti omosessuali che sapeva esistere sia a Bergen, dove studiava, sia a Oslo, dov’era tornato dopo la laurea alla Norges handelshøyskole in Economia aziendale. Anzi, gli piaceva la sfida di sedurre la persona da cui si sentiva attratto. Fino a quando non aveva conosciuto Rolf si era divertito a conquistare solo degli etero: che prima di lui fossero stati esclusivamente con le donne era una cosa di cui si sentiva fiero nel suo intimo; che poi tornassero alla loro esistenza eterosessuale non lo rendeva altrettanto fiero.
Marcus Koll jr era stato un gay atipico per la sua epoca.
Oltretutto, quello che desiderava di piú in assoluto era un figlio.
L’unica sofferenza che gli aveva procurato la decisione, presa a sedici, diciassette anni, di non nascondersi piú era che il futuro gli avrebbe negato una discendenza. Non aveva mai condiviso questo dolore con nessuno. Sua madre lo aveva capito, sí, come solo una madre sa capire i propri figli, piú di quanto non ci riescano loro. Però non avevano mai parlato insieme di quel piccolo vuoto nel cuore di Marcus: il desiderio di un figlio suo da amare.
Per molti anni, comunque, Marcus Koll jr era stato un giovane uomo soddisfatto.
Le cose gli andavano bene e non aveva mai l’impressione che le sue inclinazioni sessuali venissero usate contro di lui. Né sul lavoro, né da amici e colleghi. In fondo, lui era il loro alibi politically correct. Nella seconda metà degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta l’omosessualità dichiarata non era affatto consueta e la sua presenza nella vita delle altre persone dava loro qualcosa da mettere in mostra.
Marcus Koll jr aveva un’esistenza talmente soddisfacente da non accorgersi nemmeno che cominciava a stancarsi. Era cosí benvoluto da non rendersi conto di quante energie gli costasse gestire la propria diversità. In una esistenza impregnata di eterosessualità, con quel pizzico di stravaganza dato dall’andare a letto con altri uomini senza fingere il contrario, la sua anima si era lentamente incrinata, portandolo a un esaurimento psicofisico che lui non aveva visto arrivare.
Poi i suoi amici avevano cominciato ad avere figli.
Anche Marcus Koll jr voleva dei figli.
Li aveva sempre voluti.
Aveva preso una decisione.
Quando era partito alla volta della California per stringere un accordo con una madre surrogata e una donatrice di ovuli, aveva da poco assunto il controllo delle aziende paterne. Il futuro si apriva davanti a lui: aveva avuto la benedizione di un bel po’ di soldi, e avrebbe anche potuto spacciare i tanti viaggi negli Stati Uniti che lo aspettavano per viaggi di lavoro.
Una tarda sera di gennaio 2001, molto semplicemente, si era presentato a casa di sua madre con il bambino fra le braccia. Lei aveva capito tutto nel momento stesso in cui aveva aperto la porta, e si era messa a piangere. Con grande delicatezza aveva preso il suo nuovo nipotino e, stringendoselo al petto, si era addentrata nell’ampio appartamento che i figli e la figlia le avevano regalato non appena erano improvvisamente diventati ricchi. A quel posto non si era mai abituata del tutto, ma quando Marcus era apparso sulla soglia con quel piccolino, lei era andata a sedersi al centro del sontuoso divano su cui mai nessuno prima si era accomodato. Con il naso contro la guancia del neonato aveva sussurrato pianissimo: «Adesso la nonna si sente a casa, piccolino mio. Finalmente la nonna è a casa sua. E tu qui sei a casa della nonna».
«Si chiama Marcus, − aveva detto Marcus a sua madre che non riusciva a smettere di piangere. – Non come me, ma come il nonno».
Il pensiero di perdere Lillemarcus non era nemmeno pensabile.
Forse non avrebbe mai dovuto averlo.
− Sei sveglio? – mormorò Rolf rigirandosi nel letto. – Ma che ore sono?
− Dormi, − gli bisbigliò Marcus.
− E tu, perché non dormi? – Si mise su un fianco, con la testa appoggiata a una mano. − Te ne stai lí sveglio quasi tutte le notti, − gli disse con un profondo sbadiglio.
− Ma no, dormi.
La luce dei numeri sulla sveglia digitale era l’unica fonte di illuminazione nella stanza buia. Marcus si fissò le mani. Nell’oscurità la pelle aveva un riflesso verdognolo. Si sforzò di sorridere.
L’angoscia era venuta insieme al figlio. La sua diversità, l’incontestabile fatto di non essere come gli altri e che mai lo sarebbe stato avevano cominciato a delinearsi con maggior chiarezza. Proteggere sé stesso era facile, o almeno cosí aveva sempre creduto. Quando però Lillemarcus era entrato a far parte della sua vita, si era accorto che a volte si sentiva sfinito a furia di scontrarsi con pregiudizi cui prima voltava le spalle, consapevole che si trattava solo delle vestigia di un mondo ormai perduto. Il mondo andava avanti, questa era la sua convinzione. Dopo l’arrivo del bambino, invece, ogni tanto aveva la sensazione che lo sviluppo della società seguisse un andamento imprevedibile e asimmetrico con cui era difficile stare al passo. La gioia che l’amore per il figlio gli dava era assoluta, l’angoscia al pensiero di non essere in grado di proteggerlo dalla cattiveria e dai pregiudizi del mondo lo dilaniava. Poi era arrivato Rolf e molte cose erano migliorate. Ma non si erano risolte: Marcus si sentiva ancora un uomo segnato, in tutti i sensi. Rolf restava comunque la sua forza e la sua felicità, e Lillemarcus viveva una vita fantastica. Quella era l’unica cosa che contava davvero, e Marcus alla fine aveva deciso di tenere per sé certi periodi di sfinimento e depressione, che per altro si erano fatti sempre meno frequenti.
Fino al momento in cui Georg Koll, quel maledetto del suo defunto padre, non gli aveva giocato un ultimo tiro mancino.
− Che cosa c’è che non va? – gli chiese Rolf, un po’ piú sveglio.
Il piumino gli era in parte scivolato di dosso: se ne stava lí seminudo, ancora sdraiato su un fianco, con un ginocchio piegato e l’altra gamba tesa, e anche in quella fioca luce i contorni dei suoi addominali erano ben delineati.
− Niente.
− Non è vero!
Il piumino frusciò quando Rolf con un gesto impaziente coprí di nuovo quel suo corpo atletico.
− Perché non me ne parli, eh? È un po’ che non sei piú tu. Se è qualcosa che ha a che fare con il lavoro, qualcosa di cui non puoi parlare, basta dirlo! Non possiamo continuare a…
− Non è niente, davvero, − gli disse Marcus, e si girò dall’altra parte. – Rimettiamoci a dormire, dài.
Si sentiva lo sguardo pungente di Rolf sulla schiena.
Avrebbe dovuto parlarne con il compagno non appena il problema si era presentato, ma adesso, dopo cosí tanti mesi e preoccupazioni, si rendeva conto con stupore di non aver mai contemplato la possibilità di condividere tutto quanto con il suo compagno. Il che era scioccante. Rolf era una delle persone piú intelligenti che lui avesse mai conosciuto. Rolf avrebbe sicuramente trovato una via d’uscita. Rolf avrebbe analizzato la situazione con grande pacatezza e ne avrebbe discusso fino a trovare una soluzione. Rolf era un uomo allegro, ottimista e con una incrollabile fiducia nel fatto che ogni cosa, anche la tragedia piú cupa, avesse un altro lato. Era solo questione di trovarlo.
Ovviamente avrebbe dovuto parlarne con Rolf.
Avrebbe dovuto parlargliene subito.
Insieme avrebbero potuto farcela.
Rolf non si era ancora mosso. Marcus teneva lo sguardo incollato alla sveglia. Batté le palpebre quando le cifre cambiarono da 03.07 a 03.08. Tutt’a un tratto inspirò rapido, un gemito quasi, cercando le parole adatte a sopportare il peso di una storia dolorosa che avrebbero dovuto condividere molto tempo prima.
Ma non le aveva ancora trovate che Rolf si girò dall’altra parte.
Ora si davano la schiena.
Dopo pochi minuti il respiro di Rolf si fece regolare e pesante.
E all’improvviso Marcus capí perché era ormai troppo tardi per dirlo al suo compagno: non lo avrebbe mai perdonato.
Mai.
Nel caso in cui si fosse confidato con lui, la vita che Marcus conosceva e amava sarebbe finita. Non solo avrebbe perduto Rolf, avrebbe perduto anche Lillemarcus. La paura lo invase e lui restò lí, sdraiato, sveglio, fino a quando i numeri non cambiarono da 06.59 a 07.00.
Quando Johanne si svegliò di soprassalto, era madida di sudore e con le lenzuola incollate addosso. Cercò di liberarsi da quell’abbraccio appiccicoso, ma riuscí solo a impigliarsi con i piedi nell’apertura del copripiumino. Sentendosi prigioniera, cominciò a scalciare disperatamente nel tentativo di liberarsi. La federa si squarciò. Finalmente libera. Cercò di ricordare il suo incubo.
Il cervello lo aveva già cancellato.
Le tremavano le mani quando si allungò a prendere il bicchiere d’acqua sul comodino. Lo bevve tutto d’un fiato. Fece per rimetterlo a posto, ma le cadde a terra. Chiuse di nuovo gli occhi, con una smorfia di rifiuto, poi le venne in mente che Kristiane era da Isak. Ragnhild a quell’ora non si svegliava mai.
Aveva ancora l’affanno quando si afflosciò sul cuscino cercando di rilassarsi.
Nonostante avesse parlato con Yngvar al telefono per piú di venti minuti la sera prima, non aveva nemmeno accennato alla conversazione con Kristiane. Non ne aveva parlato neppure con Isak quando l’ex marito, seccato, si era presentato lí dopo la scuola: Johanne si era dimenticata di informarlo che era passata lei a prendere Kristiane, senza che fosse in programma e senza essersi messa prima d’accordo con lui. Al vederlo salire le scale con quell’insolito sguardo cupo gli aveva raccontato che una volta tanto era riuscita a prendersi un giorno di vacanza e ne aveva approfittato per passare un po’ di tempo da sola con Kristiane.
Ovviamente si era scusata per essersi dimenticata di avvisarlo.
Come sempre Isak l’aveva presa bene, e quando se n’era andato con la figlia era di nuovo sereno.
Kristiane aveva assistito a qualcosa che aveva a che fare con l’omicidio di Marianne Kleive. Johanne ne era certa, ma non sapeva bene che cosa avrebbe potuto raccontare a Isak e a Yngvar: Kristiane doveva aver visto il cadavere della donna la sera stessa in cui era stata uccisa. Non che le avesse mai detto in modo esplicito cos’era successo. Erano stati il linguaggio del corpo, l’espressione del viso, la scelta delle parole e il tono di voce a comunicarglielo inequivocabilmente.
Proprio le cose che spingevano Isak a ridere di lei e Yngvar a cercare di nascondere la propria rassegnazione.
E se anche uno dei due o entrambi, contro ogni previsione, avessero pensato che lei aveva ragione, Yngvar avrebbe senz’altro insistito per mettersi subito in contatto con la polizia. E con ogni probabilità anche Isak: era un buon padre sotto molti punti di vista, ma non aveva mai capito che Kristiane era infinitamente vulnerabile.
La ragazzina non avrebbe certo sopportato che degli estranei pretendessero di entrare nella sua sfera facendole domande su qualcosa che lei in qualche modo era riuscita a incapsulare. Risolvere un caso di omicidio era importante, senza dubbio, ma Kristiane lo era ancora di piú.
Questa era una faccenda che Johanne doveva affrontare da sola.
Aveva un respiro piú regolare, adesso. Però iniziava a sentire freddo, sudata com’era, e decise di cambiare le lenzuola. Tirò fuori quelle pulite e con mani esperte in soli quattro minuti si preparò un bel letto fresco e asciutto. Il copripiumino di Yngvar non aveva voglia di cambiarlo: il letto matrimoniale aveva uno strano aspetto con due federe diverse, ma ci avrebbe pensato il mattino dopo a sistemarlo.
Si stese di nuovo e chiuse gli occhi.
Era perfettamente sveglia. Si girò su un fianco. Cercò di pensare a tutt’altro.
Kristiane aveva visto qualcosa di terribile: un crimine o il risultato di un crimine.
Qualcuno stava tenendo d’occhio Kristiane.
Si girò di nuovo. Il battito del cuore accelerò.
Di colpo si mise a sedere. Non poteva continuare cosí. Lí, in quel momento, non c’era proprio nulla che potesse fare. Non poteva nemmeno telefonare a quell’ora, oltretutto Kristiane era al sicuro da suo padre. In qualche modo doveva cercare di arrivare a fine nottata.
Il giorno dopo avrebbe parlato con Yngvar.
Quella decisione la tranquillizzò.
Gli avrebbe chiesto di tornare a casa. Non sarebbe stato necessario spiegargli il perché, lui l’avrebbe capito dalla sua voce che doveva tornare. Yngvar sarebbe rientrato da Bergen e lei gli avrebbe raccontato tutto.
Non poteva raccontargli niente.
Se Yngvar le avesse dato ragione, per Kristiane sarebbe stata una rovina.
Non sapeva cosa fare. Afferrò il cuscino del marito e se lo strinse forte al petto, come fosse una delle sue figlie.
Avrebbe potuto alzarsi. E mettersi a lavorare.
No.
Sul comodino c’erano tre libri. Ne prese uno. Lo aprí dove aveva fatto l’orecchio e iniziò a leggere. La strada di Cormac McCarthy non la rasserenò nemmeno un pochino. Dopo tre pagine chiuse il libro e gli occhi.
Aveva il cervello che lavorava all’impazzata e si sentiva fisicamente male.
Da tanto Yngvar esprimeva il desiderio di avere un televisore in camera da letto. In quel momento Johanne si pentí di non averlo accontentato. Non che sarebbe riuscita a seguire qualche programma, ma aveva un intenso bisogno di sentire delle voci. In un attimo di follia ebbe la tentazione di svegliare Ragnhild, poi però accese la radiosveglia. Era già sintonizzata su Nrk P2 e un brano di musica classica invase la stanza, un brano infinitamente triste, proprio come il romanzo postapocalittico di McCarthy. Smanettò con il sintonizzatore finché non trovò una stazione locale che trasmetteva tutta la notte canzoni della hit-parade e alzò il volume il piú possibile, considerato che la camera da letto dei vicini era esattamente sotto la loro.
Il «Dagens Næringsliv» era scivolato sul pavimento.
Si chinò a raccogliere il giornale. Era l’ultima edizione, non l’aveva ancora letta. Non che ci fosse molto da leggere: sia l’articolo di fondo sia i trafiletti che rimandavano alle pagine interne avevano per tema la crisi economica. Fino a quel momento non aveva prestato molta attenzione al collasso dei mercati finanziari mondiali, anche se lo avrebbe ammesso solo a malincuore. Sia lei che Yngvar lavoravano nel settore pubblico, nessuno dei due avrebbe perso il lavoro e il tasso di interesse era in caduta libera. Sapevano già di essere economicamente ben messi.
Iniziò dalla fine, com’era sua abitudine.
La notizia principale della rubrica Etterbørs era la morte dell’artista Niclas Winter. Johanne aveva visto diverse delle sue opere ed era rimasta colpita in modo particolare da Vanity Fair, reconstruction una domenica in cui tutta la famiglia era andata a farsi un giro in centro, finendo per trascorrere un’ora fra le tre installazioni di Niclas Winter collocate sul molo di Rådhuskaia. Kristiane ne era rimasta profondamente affascinata, Ragnhild invece era piú presa dai piccioni e dagli zampilli della fontana, mentre Yngvar aveva sbuffato e scosso la testa: quella roba la definivano arte?
Winter non aveva eredi, a quanto pareva.
La madre e i nonni erano morti. Non aveva sorelle né fratelli, sua madre nemmeno. In pratica non c’era nessuno che potesse ereditare la piccola fortuna che, totalmente ignaro, Niclas Winter aveva lasciato ai posteri. Oltre a I was thinking of something blue and maybe grey, darling erano state infatti ritrovate nell’atelier dell’artista altre quattro grandi installazioni.
Gli intenditori avevano tessuto il panegirico di CockPitt, un inno omoerotico al marito di Angelina Jolie. A quanto si diceva era già stata fatta un’offerta anonima di quattro milioni di corone per quell’opera. Secondo le fonti del «Dagens Næringsliv», a volerla acquistare era l’attore stesso.
Crisi economica a parte, evidentemente di soldi per le opere d’arte di Niclas Winter ne giravano, ora che lui era morto. La StatoilHydro aveva già avanzato pretese sull’installazione che aveva ordinato e poi disdetto, e non si era arresa fino a quando il curatore della successione non aveva preso in considerazione il contratto rescisso. La sua valutazione del valore delle sculture – generosa e altamente provvisoria – si aggirava intorno ai quindici, venti milioni di corone. Forse anche di piú. Nell’articolo si sottolineava l’ironia della sorte toccata al povero Niclas Winter: da vivo era dipeso da introiti scarni e dalla benevolenza dei mecenati, mentre solo da morto era diventato benestante. Un destino non insolito per un artista, sottolineava Christen Sveaas, uomo d’affari e collezionista d’arte, il quale nella sua ricca raccolta di Kistefos vantava anche due installazioni minori di Niclas Winter e poteva constatare con soddisfazione che il valore di entrambe era radicalmente aumentato.
Un articolo di spalla metteva in evidenza che anche Niclas Winter aveva avuto i suoi problemi: era malato di Aids e ne teneva sotto controllo i disturbi con i medicinali, e per ben tre volte dai diciotto anni in poi era stato ricoverato in qualche clinica per disintossicarsi. Quattro anni prima, sembrava essere definitivamente guarito. Le sue opere d’arte migliori risalivano proprio all’ultimo periodo e due dei suoi collaboratori si mostravano infatti molto stupiti che Niclas Winter avesse ricominciato a fare uso di eroina. Finalmente lo attendeva il grande debutto internazionale e, soprattutto, nelle ultime due settimane prima di morire era sembrato soddisfatto, quasi felice. Dal momento che le ricadute precedenti avevano sempre seguito un fallimento artistico, era difficile credere che avesse ricominciato a drogarsi.
Johanne notò che il ritmo del suo respiro era tornato normale e che in effetti cominciava a sentirsi stanca. Leggere delle disgrazie altrui a volte aiutava a mettere le cose nella giusta prospettiva. Lasciò cadere il giornale sul piumino e le si chiusero gli occhi.
«Kristiane è al sicuro», pensò accorgendosi che il sonno stava finalmente arrivando.
Non osò sdraiarsi né spegnere la luce, desiderava solo scivolare nell’oscurità dietro le palpebre abbassate. Dormire. Voleva solo dormire.
«Kristiane è al sicuro a casa di Isak e io domani parlerò con Yngvar. Andrà tutto bene».
Quando si svegliò quattro ore piú tardi il giornale era ancora posato sul piumino davanti a lei, aperto sulla storia della morte di Niclas Winter, artista creatore di installazioni.
− Hai visto questo articolo?
L’avvocato Kristen Faber alzò controvoglia gli occhi dai documenti che stava esaminando e prese il giornale che la segretaria gli porgeva.
− Di che si tratta? – borbottò mentre cercava di infilarsi in bocca quel che restava di un wienerbrød senza sbriciolare troppo.
Una sottile pioggia di frammenti unti e pasta di mandorle gli cadde sul colletto della camicia. Faber si chinò in avanti per spazzolarli via senza macchiarsi.
− Ma non è il giornale di ieri?
− Sí, − gli rispose la segretaria. – Come al solito me l’ero portato a casa dopo il lavoro, ed è stato allora che ho letto questo. Non è poi cosí strano che il tuo cliente non si sia presentato all’appuntamento! È morto!
− Chi?
L’avvocato masticava come poteva, tenendo con una mano il giornale in verticale davanti a sé.
− Ah! – disse con la bocca piena. – Lui. Be’… certo… Però! Era piuttosto giovane, no?
− Se leggi l’articolo, − gli disse la segretaria con un sorriso indulgente, − allora…
− Non leggo mai Etterbørs. Vediamo un po’… Niclas Winter, già. Overdose. Povero diavolo. Sembrerebbe che…
Smise di masticare.
− Per la miseria, era famoso. E io che non ne avevo mai sentito parlare… A parte come nuovo cliente in arrivo, voglio dire.
Quando Faber posò il giornale sulla scrivania la segretaria andò a prendere scopa e paletta. Indisturbato, lui continuò a leggere l’articolo e non finí prima che lei, una volta spazzato bene per terra, uscisse con scopa e paletta e tornasse con un thermos di caffè appena fatto.
− Hai un modo di fare colazione non propriamente salutare, − gli disse sorridente versandogli il caffè. – Dovresti mangiare prima di uscire di casa. Pane integrale o muesli. Non wienerbrød, santo cielo. Quand’è stata l’ultima volta che hai bevuto un bel bicchiere di latte, per esempio?
− Se mi fosse servita una mamma, qui, avrei assunto la mia. Dov’è finito quel maledetto caso?
Si era messo a scartabellare la pila dei fascicoli dei casi aperti. Era sicuro di aver posato la busta marrone sigillata sopra il mucchio di scartoffie sulla sinistra della scrivania, prima di tornare a casa per farsi una doccia dopo il faticoso viaggio di ritorno da Barbados. Adesso era sparita.
− Merda. Devo essere in tribunale fra un quarto d’ora. Non è che puoi cercarmelo tu, il materiale di quel caso? È una busta sigillata con sopra scritto: «Appartiene a Niclas Winter» e un codice fiscale.
Si alzò, si buttò sulle spalle la giacca e afferrò la valigetta mentre raggiungeva la porta.
− Ah! E, Vera… non aprirla! È una soddisfazione che voglio togliermi di persona!
La porta sbatté alle sue spalle, poi scese di nuovo il silenzio nell’ufficio dell’avvocato Kristen Faber.
Astrid Tomte Lysgaard non era piú sicura che le piacesse davvero tanto silenzio quando Lukas era al lavoro e i bambini a scuola. Nessuna delle sue amiche era rimasta a casa se non nel periodo obbligatorio del primo anno di vita del bambino, ma lei aveva l’impressione che quasi tutte le invidiassero la pace che secondo loro regnava a casa sua fra le otto e mezza e le quattro e un quarto.
Anche a lei per molto tempo era piaciuta quella tranquillità.
I lavori domestici quotidiani raramente le portavano via piú di tre ore, spesso ancor meno. Anche se era lei ad accompagnare e andare a riprendere i bambini e a occuparsi della spesa, il tempo libero che le restava non era poco. Leggeva, faceva lunghe passeggiate, due volte alla settimana andava in palestra al Nautilus in Idrettsveien. Qualche rara volta le capitava di sentirsi sfiorare dalla noia, ma era una sensazione che non durava mai a lungo. Che tutto fosse già stato fatto e che la cena fosse in tavola quando Lukas tornava dal lavoro dava serenità ai loro pomeriggi e alle loro serate, rendeva piú piacevole la convivenza, migliorava la vita familiare. Potevano usare il proprio tempo per stare con i bambini anziché per le faccende di casa e Lukas le dimostrava quotidianamente la sua gratitudine per la scelta che aveva fatto.
Dopo la morte della suocera, però, tutto era cambiato.
Lukas soffriva in un modo che la spaventava.
Sembrava cosí assente.
Meccanico.
Parlava poco e capitava che fosse brusco, anche con i figli. Di solito era sempre lui a fare i compiti con il piú grande, negli ultimi tempi però aveva perso la capacità di concentrarsi perfino sugli esercizi della seconda elementare. In cambio si era messo a sistemare il garage, con l’intenzione di appendere delle mensole nuove lungo tutta la parete corta interna. Doveva fare molto freddo a starsene là fuori tutte le sere e, quando finalmente tornava dentro, cenava in silenzio e se ne andava a dormire senza nemmeno sfiorarla.
La casa era cosí silenziosa… E a lei questo non piaceva.
Posò il ferro da stiro in verticale e si avvicinò alla finestra per accendere la radio. Era proprio ora che la smettesse di piovere. Gennaio era sempre stato un mese molto triste, ma questo era peggio del solito. La bassa pressione aveva su di lei un brutto effetto, fisicamente parlando: erano giorni che soffriva di un leggero mal di testa.
Quel mattino stava peggio che mai, sentiva delle vere e proprie fitte alle tempie. Provò a massaggiarsele con tocchi leggeri, ma non ottenne alcun beneficio. Meglio andare in bagno a prendere un analgesico; poi avrebbe finito di stirare.
Nell’armadietto dei medicinali che tenevano chiuso a chiave non ne era rimasto neanche uno, di analgesico. Astrid cercò disperatamente fra cerotti di Asterix e pastiglie di fluoro, flaconi di disinfettante e collutorio. Ma contro il dolore non c’era niente, a parte delle supposte per bambini.
Le parve che il mal di testa fosse peggiorato soltanto perché non aveva trovato il farmaco giusto.
«Le pillole per l’emicrania di Lukas», pensò.
Solo che non erano nell’armadietto dei medicinali. Lukas era dell’idea che la serratura non fosse molto robusta e che una medicina cosí forte potesse essere pericolosa per un bambino di otto anni curioso e con una spiccata abilità manuale. Teneva quelle pillole chiuse a chiave in un cassetto dell’imponente scrivania nella stanza che aveva adibito a studio. Astrid sapeva dov’era la chiave: dietro una prima edizione de Il giro del mondo in ottanta giorni che Lukas aveva ricevuto in dono dai genitori per i suoi vent’anni.
Astrid non aveva mai aperto quel cassetto ed esitò prima di infilare la chiave nella toppa.
Fra di loro, fra lei e Lukas, di segreti non ce n’erano.
Forse avrebbe dovuto telefonargli e chiedergli il permesso.
Era suo marito, pensò rassegnata, e lei voleva solo una pillola per lenire il mal di testa. Lukas non le aveva mai proibito di guardare in quel cassetto. Non sarebbe stato da loro imporsi reciprocamente un divieto, di qualunque genere.
Con uno scricchiolio quasi impercettibile la serratura scattò. Astrid aprí il cassetto e si trovò sotto gli occhi una fotografia. Una donna. E la fotografia doveva essere vecchia. Prima rimase a fissarla lí dov’era, poi la sollevò delicatamente e la guardò alla luce intensa della lampada da scrivania.
C’era qualcosa di noto in quel volto. Solo che lei non riusciva a dargli una collocazione precisa. In un certo senso la forma del viso e il naso dritto le ricordavano Lukas, ma doveva trattarsi di un caso. La donna del ritratto aveva anche quella particolarità, un incisivo superiore parzialmente sovrapposto all’altro, ma probabilmente erano in molti ad avere i denti cosí. Lill Lindfors, per esempio, la famosa cantante e attrice finnico-svedese. Glielo diceva sempre quando erano molto giovani e lei amava ogni cosa di Lukas: sei come Lill Lindfors.
Anche se non aveva idea di chi fosse la donna del ritratto, la colpí la singolare sensazione di aver già visto quell’immagine. Solo che non riusciva proprio a farsi venire in mente dove. E mentre fissava la donna si accorse che il mal di testa le era passato. In tutta fretta ripose la fotografia dove l’aveva trovata, chiuse a chiave il cassetto e rimise la chiave nel solito nascondiglio.
Uscendo dallo studio di Lukas si chiuse cautamente la porta alle spalle, come se avesse fatto qualcosa di scorretto.
La sconsolante mole di carte riguardanti i crimini irrisolti impilate sulla scrivania del suo ufficio demoralizzavano Silje Sørensen. Nonostante tutte le scartoffie fossero state accuratamente ordinate in fascicoli, c’era posto a malapena per una tazza. Silje si sedette, scostò un mucchietto di ritagli di giornale e posò il caffè prima di iniziare a rivedere tutto da capo.
C’era bisogno di stabilire delle priorità.
I casi si stavano accumulando.
Le azioni piú o meno legali organizzate dal sindacato della polizia per protestare contro le pessime condizioni di lavoro, gli stipendi inadeguati, la carenza di personale e la minaccia di cambiamenti nel sistema pensionistico, nel corso dell’ultimo anno avevano portato all’inasprimento delle trattative fra Stato e polizia. Gli agenti non erano piú disponibili a fare gli straordinari. I casi, come tutto il resto, richiedevano tempi piú lunghi. Gli oltre undicimila membri dell’organizzazione avevano cominciato a cambiare l’ordine delle priorità. Anche se le cifre non erano ancora state elaborate, sembrava che già a gennaio del 2008 la percentuale di casi risolti fosse radicalmente diminuita rispetto al 2007. I poliziotti facevano valere il proprio diritto ad avere del tempo libero e si ammalavano con maggior frequenza: stranamente, ogni tanto in contemporanea e spesso e volentieri prima dei fine settimana, quando le sfide che i tutori della legge si trovavano a dover affrontare aumentavano.
E i malfattori in genere se la cavavano meglio.
I cittadini si sentivano meno protetti. La polizia, che aveva sempre goduto di grande rispetto, stava perdendo la simpatia della popolazione. I giornali riportavano con frequenza crescente storie di vittime di violenze che non riuscivano a sporgere denuncia perché le stazioni locali di polizia erano sguarnite, storie di uffici dislocati in zone rurali che restavano chiusi per tutto il fine settimana, storie di persone derubate costrette ad aspettare per giorni i rilievi della scientifica, sempre che la scientifica prima o poi arrivasse.
Silje Sørensen era membro del sindacato ma aveva da tempo rinunciato a tenere il conto delle sue ore di straordinario. L’unico metro di misura che utilizzava erano le reazioni della sua famiglia: quando i figli diventavano un po’ troppo indisciplinati e il marito si faceva taciturno, allora lei cercava di passare piú tempo a casa. Altrimenti svicolava in ufficio ogni volta che poteva, indipendentemente dall’orario di lavoro canonico.
In quanto figlia unica di un armatore, nessuno si era mai neanche lontanamente aspettato che entrasse alla scuola di polizia. Quando aveva saputo della sua scelta professionale, la madre era entrata in uno stato di choc e di isteria che era durato per tutto il primo anno di corso. Avevano speso una fortuna in collegi in Svizzera e Inghilterra ed ecco che la figlia buttava via il suo futuro per lavorare nel pubblico! E se proprio voleva insudiciarsi frequentando autori di crimini violenti, per non dire di peggio, perché mai non poteva fare l’avvocato? Magari proprio per la polizia?
Era esattamente una reazione del genere che Silje si era aspettata.
Il padre, invece, aveva fatto un gran sorriso e l’aveva baciata sulla fronte quando lei gli aveva raccontato di essere stata ammessa alla scuola di polizia.
Silje Sørensen non si era mai ribellata, né da bambina né da adolescente. Non aveva mai protestato: né quando a dieci anni le avevano imposto di trasferirsi all’estero e accontentarsi di vedere i genitori solo in vacanza, né quando nell’estate dei suoi quindici anni aveva dovuto trascorrere due mesi in una scuola francese in Svizzera in cui le giornate iniziavano alle sei e mezza e le suore cattoliche non lesinavano metodi punitivi che probabilmente la Convenzione di Ginevra aveva proibito. Silje non si era opposta nemmeno quando il padre aveva deciso di farle fare cinque anni di scuola in due e mezzo: era riuscita a prendere il bachelor in inglese a nemmeno diciannove anni. Quando era diventata maggiorenne, anche per premiarla della sua taciturna pazienza e del suo encomiabile impegno, il padre aveva donato a lei, la sua unica figlia, metà del proprio patrimonio.
La scuola di polizia era stata la prima, risoluta azione di protesta di Silje Sørensen.
Quando, nel suo primo anno di attività, era stata messa a lavorare agli ordini della leggendaria Hanne Wilhelmsen, si era resa subito conto che la sua scelta ribelle e sovversiva avrebbe fatto la sua felicità. Quasi tutto ciò che sapeva del mestiere di poliziotto lo aveva imparato da quella mentore ricalcitrante e taciturna. Nonostante Hanne Wilhelmsen fosse sempre piú impopolare a causa del suo stile autoritario, Silje non aveva mai smesso di ammirarla. Quando avevano sparato all’ispettore capo Wilhelmsen durante una drammatica azione di polizia nel Nordmarka, lasciandola paralizzata dalla vita in giú, Silje aveva sofferto come se fosse stata sua sorella. Che Hanne avesse poi voltato le spalle ai pochi amici che le erano rimasti nella grande e sporca centrale di Grønlandsleiret era una cosa che lei non era mai riuscita a superare.
Silje Sørensen era orgogliosa della sua professione, ma gli angusti limiti entro i quali era costretta a operare la scoraggiavano.
Decise che innanzitutto avrebbe suddiviso i casi in base alla gravità. Accoltellamenti insignificanti e futili risse da bar che non avevano provocato ferite mortali finirono in un mucchio a parte.
«Probabilmente ve la caverete», pensò rassegnata, cercando di ignorare che diversi di quei crimini avevano per protagonisti noti malfattori. Archiviare quei casi sarebbe stata una forte provocazione nei confronti delle vittime. Ormai però era cosí che funzionavano le cose, e in osservanza alle direttive impartite dal procuratore generale e dalla Direzione nazionale della polizia lei non aveva nulla di cui preoccuparsi se privilegiava i casi piú gravi rispetto ai meno gravi. I cittadini forse faticavano a capire la definizione di «grave» secondo il metro della polizia, ma lei non poteva farci nulla.
Dopo un’oretta i fascicoli erano stati suddivisi in cinque gruppi.
Silje bevve gli ultimi sorsi di caffè tiepido, poi prese tre di quei mucchi e li infilò nell’armadio alle sue spalle.
Ne restavano due.
Il piú piccolo era quello dei casi di omicidio. Tre fascicoli: il primo era piuttosto sottile e il secondo quasi altrettanto esile, il terzo invece era talmente rigonfio che per tenerlo insieme aveva dovuto legarlo con due elastici doppi incrociati.
All’improvviso si alzò e si avvicinò alla bacheca di sughero sulla parete opposta a quella dove si trovava la sua postazione di lavoro. Diede una rapida occhiata a ognuno dei foglietti appesi, poi ne staccò uno e lo mise sulla scrivania, mentre gli altri finirono tutti nel grosso cestino per la carta straccia. Dall’armadio tirò fuori tre fogli di formato A4. Ci stavano giusti giusti uno accanto all’altro nella parte superiore della bacheca.
«Runar Hansen», scrisse in pennarello rosso sul primo foglio.
«19/11/08».
Sul foglio successivo scrisse il nome di Hawre Ghani.
«24/11/08».
Mordicchiando il tappo del pennarello si fermò a riflettere un attimo, poi aggiunse un punto di domanda.
«24/11/08?»
Non era ancora possibile stabilire con esattezza quando Hawre Ghani fosse stato assassinato, ma che fosse stato assassinato era ormai certo. Il medico legale aveva trovato prove inconfutabili di garrottamento, nonostante le deplorevoli condizioni del cadavere. Che il ragazzo si fosse impiccato avvolgendosi un filo di acciaio intorno al collo fino a quando la testa non si era quasi staccata dal corpo e che poi si fosse gettato in mare era poco probabile. L’istituto di Medicina legale sull’ora del decesso aveva fatto solo supposizioni, ma la polizia non aveva trovato alcuna prova che il ragazzo fosse ancora vivo dopo essere scomparso con quel cliente lunedí 24 novembre davanti alla stazione centrale di Oslo. Erano stati visionati i filmati di ognuna delle telecamere di sicurezza, naturalmente, ma non si era scoperto niente di nuovo. Tutto sembrava concordare con la versione fornita dal ragazzo di strada Martin Setre: quel tizio li aveva adescati subito fuori dalla stazione.
«Maledetto furbastro», pensò rassegnata Silje Sørensen.
«Marianne Kleive», scrisse sull’ultimo foglio.
19/12/08.
Rimise il tappo sul pennarello e arretrò di due passi.
Sentí il bordo della scrivania dietro di lei e ci si sedette sopra.
Tre omicidi. Tutti e tre irrisolti. Per Runar Hansen aveva la coscienza sporca. Non osava nemmeno guardarlo il suo sottile fascicolo, preferiva fissare il suo nome, l’anonimo nome di un tossico picchiato e rapinato nel Sofienbergparken senza che nessuno si fosse preoccupato di quanto stava accadendo. Che cosa era stato fatto, per Runar Hansen? Un rapido sopralluogo nelle ore successive al ritrovamento del cadavere, un rapporto steso dal medico legale e un piccolo trafiletto sull’«Aftenposten», oltre agli interrogatori di due testimoni che non erano stati in grado di dire niente altro se non che Runar Hansen era senza fissa dimora, senza un lavoro stabile e che aveva una sorella di nome Trude.
Per lo meno durante le indagini sul caso Hawre Ghani era successo qualcosa. L’identikit era stato diffuso ma non reso pubblico, perché si pensava che i tempi non fossero ancora maturi per una cosa del genere. L’esperienza insegnava che sarebbero stati inondati di segnalazioni: la faccia di quell’uomo era talmente comune che li avrebbero sommersi di riconoscimenti. Knut Bork continuava il suo lavoro nell’ambiente della prostituzione. Lei stessa aveva richiesto una ricostruzione della vita del ragazzo a partire dal suo arrivo in Norvegia, in modo da avere un quadro il piú completo possibile dell’infelice destino di Hawre Ghani.
Il caso Marianne Kleive procedeva a ritmo serrato.
L’omicidio di una maestra quarantaduenne di scuola materna aveva gli ingredienti giusti per suscitare un bel circo mediatico. Le fotografie private su cui «VG» era riuscito a mettere le grinfie solo due ore dopo che il caso era stato reso pubblico mostravano una donna di rara bellezza. Una folta capigliatura bionda ondulata, le gambe lunghe e un corpo slanciato e atletico. Proprio il tipo di lesbica adorata dalla stampa. C’era qualcosa in lei che le ricordava la pallamanista Gro Hammerseng, omosessuale anche lei. Sotto il suo nome sul pannello di sughero Silje Sørensen appese la prima pagina strappata da un «VG» di alcuni giorni prima. E se la moglie di Marianne Kleive, Synnøve Hessel, non era esattamente una celebrità, aveva comunque un posto di tutto rilievo nell’ambiente cinematografico norvegese, tanto che i giornali potevano usare epiteti ideali per incrementare le vendite come «la famosa e pluripremiata» per riferirsi alla sofferente vedova della vittima. Una donna molto fotogenica anche lei, tra l’altro, perfino in giacca a vento e capelli scompigliati a un’altitudine di 5208 metri al campo base Everest Nord in Tibet.
Anche il fatto che l’omicidio avesse avuto luogo nel rispettabile Hotel Continental giocava un ruolo non da poco. Due giorni dopo il ritrovamento del cadavere «VG» aveva pubblicato un’intera pagina su un certo Fritjof Hansen, un’anima semplice di cui l’albergo si serviva per i lavoretti piú disparati. Era stato lui a trovare il cadavere della donna e, grazie alla sua entusiastica passione per Csi, si era premurato di impedire a chiunque l’accesso alla scena del crimine fino all’arrivo della polizia, che aveva cosí potuto raccogliere le tracce. La fotografia sul giornale lo mostrava seduto in poltrona, con una lattina da mezzo litro di birra e una confezione di patatine: sul volto aveva l’espressione di chi porta sulle spalle il carico delle sofferenze del mondo intero.
A volte Silje Sørensen avrebbe desiderato che i mezzi di comunicazione di massa non esistessero; di tanto in tanto avrebbe voluto che la libertà di stampa se ne andasse a quel paese.
Prese la tazza di caffè.
Era vuota.
Corrugò la fronte e cominciò a spostare lo sguardo da una foto all’altra. Senza distogliere gli occhi dal pannello di sughero tastò con la mano alla ricerca del pennarello e dopo averlo trovato gli tolse il tappo con i denti e andò a scrivere «Sofienbergparken» sotto il nome di Runar Hansen e la data della sua morte. Sotto il nome di Hawre Ghani scrisse «prostituzione minorile» e per finire, sotto l’immagine di Marianne Kleive in cima al Gaustatoppen in una giornata di sole con indosso il reggiseno di un bichini, jeans tagliati e scarponi da trekking, scrisse «convivenza omosessuale».
Nello stesso istante in cui si riappoggiò alla scrivania bussarono alla porta.
Si tolse il tappo del pennarello di bocca e gridò: − Avanti!
Knut Bork obbedí.
− Buongiorno! – disse con il fiatone. – Ho pensato che era meglio…
− Vieni qui, − gli disse Silje Sørensen. – Mettiti accanto a me.
L’agente Knut Bork si strinse nelle spalle ed eseguí la sua richiesta.
− Che stai facendo? Questo cosa sarebbe? – le chiese, indicando il pannello di sughero con un cenno del capo.
− Sono tre casi di omicidio che mi sono stati assegnati, − gli rispose Silje.
− Tre sono troppi.
− Ne avevo quattro. Ho rinunciato a uno. Non noti qualcosa di strano?
− Qualcosa di strano? Dovrei prima leggere la documentazione e…
− No. Tu i casi li conosci, Knut. Limitati a guardare il pannello, solo questo.
Lui corrugò la fronte senza dire una parola.
− Sofienbergparken, − lesse. – Prostituzione minorile, convivenza omosessuale.
Non trovava alcun nesso fra quelle parole.
− Per quale ragione lo conoscono tutti, il Sofienbergparken? – gli chiese lei.
− Ah… be’… Con tutte le ambulanze che…
− No. Cioè, sí, anche quello, ma… cos’altro? Non mi riferisco alla parte a ovest della chiesa di Sofienberg, ma a quella dietro, la parte est.
− Omosessuali, − rispose lui senza esitazione. – Compravendita e scambio di prestazioni omosessuali. Non è certo un posto dove andrei quand’è buio.
− Appunto, − disse Silje con un mite sorriso. – È lí che Runar Hansen è stato ritrovato. Lo hanno ucciso una fredda e piovosa notte di novembre, fra mezzanotte e mezzanotte e mezza. È praticamente l’unica cosa che abbiamo scoperto: quando è stato ammazzato, cioè.
− Era omosessuale?
− Non ne ho idea. Ma basiamoci su ciò che sappiamo finora: attieniti alla reputazione di quel posto. Capisci a che cosa sto alludendo?
Silje lo guardava: un’ombra di stupore gli attraversò gli occhi quando comprese il punto.
− Maledizione! – esclamò passandosi una mano sull’incolta barba bionda. – Strano che la Llh non si sia ancora fatta sentire!
La Llh, l’associazione nazionale di lesbiche e omosessuali, cercava da tempo di spingere il ministero della Giustizia a prendere in considerazione con la dovuta serietà i casi di violenza omofoba. Silje Sørensen aveva sempre ritenuto che il vero problema fosse che le aggressioni contro gli omosessuali raramente si distinguevano in modo palese da una qualunque aggressione compiuta in stato di ebbrezza. Contro donne. Contro uomini. Contro eterosessuali e omosessuali. Le persone bevevano. Diventavano aggressive. Picchiavano, accoltellavano, violentavano e uccidevano. Per ogni vittima omosessuale Silje avrebbe potuto sciorinare un centinaio di vittime eterosessuali. Non riusciva proprio a capire perché la Llh la assillasse tanto.
Questo però sí che era strano.
− Runar Hansen è in un parco noto per la compravendita e lo scambio di prestazioni omosessuali, − disse lentamente. – Hawre Ghani sparisce con un cliente omosessuale. Marianne Kleive è sposata con una donna. Tutti e tre vengono uccisi, ma con modalità diverse e in luoghi diversi e da vivo nessuno dei tre ha mai avuto a che fare con gli altri due. Per quanto ne sappiamo noi, ovviamente. Solo che…
Socchiuse gli occhi.
− Sono stata incaricata di coordinare le indagini su tre omicidi indipendenti e in tutti e tre spunta la questione omosessualità. Quante probabilità ci sono che capiti una cosa simile?
− Molto poche, − rispose Knut Bork mentre si mordicchiava l’unghia del pollice. – Ma che cazzo succede? E poi… Silje… parlando seriamente, com’è che nessuno si è reso conto di un collegamento del genere, finora?
Lei non rispose. Rimasero in silenzio a fissare il pannello di sughero. A lungo.
− Del primo caso, non gliene frega niente a nessuno, − disse a un tratto. – Del secondo nessuno sa niente. O meglio: la gente ha letto sui giornali che è stato ritrovato un cadavere nella darsena di Oslo, e di sicuro saranno uscite un paio di righe sul fatto che si trattava di un giovane profugo. Ma niente di piú. Quanto a Marianne Kleive… il caso è…
Esitò cosí a lungo che Knut Bork finí per completare la frase rimasta in sospeso: − Il caso è cosí particolare e assurdo che l’omosessualità della vittima sembrerebbe una cosa del tutto secondaria.
Silje si avvicinò al pannello di sughero e tolse i fogli bianchi e i ritagli di giornale che ci aveva attaccato, poi li accartocciò tutti insieme e li gettò nel cestino. Knut Bork restò immobile a braccia conserte mentre lei girava intorno alla scrivania e si sedeva.
− Tutto questo, − gli disse in tono fermo, − tutto questo io e te ce lo terremo per noi. Almeno per il momento. Potrebbe trattarsi di un semplice caso, ogni collegamento potrebbe essere un caso. Ma può anche darsi che si tratti di…
− Qualcosa di atroce, − completò Knut Bork. Gli sanguinava il pollice.
Per la seconda volta nel giro di tre settimane Johanne era rimasta a casa da sola, e questo le faceva quasi paura. L’appartamento le sembrava sempre cosí strano quando mancavano i rumori che facevano le bambine. Si sorprese a camminare in punta di piedi per non far baccano.
− Su, ripigliati, − mormorò tra sé e sé mettendo su un cd di canzoni che Line Skytter aveva scelto e registrato e poi le aveva donato a Natale.
Kristiane sarebbe rimasta da Isak fino a venerdí, mentre Ragnhild un mercoledí sí e uno no si fermava a dormire dai nonni materni.
Aveva cercato piú volte di mettersi in contatto con Yngvar, ma rispondeva sempre la segreteria del suo cellulare. Probabile che fosse in riunione. Quando finalmente era spuntato il giorno dopo quell’inquieta e angosciosa notte, aveva dovuto ammettere a sé stessa che doveva parlarne con Yngvar: dubbi non ne aveva piú, a differenza della notte prima, quando aveva continuato a cambiare idea. Ormai aveva preso una decisione, e aver preso una decisione bastava a farle apparire tutta quella storia meno nera.
Se solo avesse saputo che cosa aveva davvero visto Kristiane.
Anche se aveva capito che qualcosa doveva aver visto, non sapeva ancora esattamente che cosa. Non le era sembrato il caso di esercitare ulteriori pressioni sulla figlia. Forse avrebbe potuto insistere piú avanti, pensò, vagando silenziosa e senza scopo a piedi nudi.
Le canzoni che Line le aveva registrato non erano esattamente il suo genere: andò allo stereo e smorzò la voce di Kurt Nilsen nel bel mezzo di un ritornello.
Avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma non aveva fame.
A quanto pareva, la riunione di Yngvar non finiva piú: erano passate tre ore da quando gli aveva lasciato il primo messaggio chiedendogli di richiamarla.
Avrebbe potuto lavorare.
O leggere.
Guardare un film, magari.
Senza rifletterci, afferrò il telefono e digitò il numero di Isak. Lui rispose subito.
− Ciao, sono Johanne.
− Ciao −. Gli sentí un sorriso nella voce.
− Telefonavo solo per…
− Per sapere come sta Kristiane, − completò lui. – Sta benissimo. Siamo stati alla Bislet bad. In realtà i bambini possono entrare in piscina solo nel fine settimana, ma Kristiane è cosí tranquilla e silenziosa che la tizia all’accettazione la lascia entrare.
− Non la farai andare da sola nello spogliatoio femminile?
− Ma certo. È troppo grande per venire con me in quello maschile! Le sta spuntando il seno, te ne sei accorta? E qualche pelo in mezzo alle gambe! La ragazzina cresce, Johanne, e ovviamente io la lascio andare nello spogliatoio femminile da sola.
Lei non ribatté.
− Johanne, − aggiunse lui in tono rassegnato, − Kristiane se la cava benissimo! Adesso ci stiamo preparando dei tacos e lei ha cotto tutta la carne trita da sola. Si è messa ad affettare le verdure e lo sa fare bene. Quando è da me, prepariamo sempre la cena insieme. Ha quasi quattordici anni, Johanne. Non potrai continuare a trattarla come una bambina per tutta la vita.
Lei è una bambina.
La bambina piú vulnerabile del mondo.
− Pronto?
− Sí… − mormorò Johanne. – Ci sono. Sono contenta che ve la passiate bene, volevo solo sentire se…
− Vuoi parlare con lei? È qui vicino a me.
In sottofondo si sentí un gran baccano.
− Oh oh, − disse Isak. – È caduto qualcosa. Ti dispiace richiamarmi fra un attimo?
− Ma no, non ti preoccupare, non è necessario. Ci vediamo venerdí. Ciao!
− Ciao!
La voce di lui svaní e lei posò il telefono sbattendolo con un po’ troppa noncuranza sul tavolino. Andò alla grossa finestra senza piú premurarsi di camminare piano, lo fece, anzi, pestando irritata i piedi sul pavimento, incerta se ce l’avesse con sé stessa o con Isak.
Non si era ancora procurata le tende.
Era caduta cosí tanta neve che la recinzione che dava su Hauges Vei non si vedeva piú. I cumuli erano enormi: la gente ormai non sapeva piú dove ammassare la neve che spazzava dai vialetti di accesso e dai passi carrabili. In mancanza di altri posti la spargeva in mezzo alla strada, con la conseguenza che in gran parte quei cumuli tornavano da dove erano venuti ogni volta che passava lo spazzaneve.
Non c’era anima viva in giro. Il vetro gelido della finestra la fece rabbrividire. Il grosso pupazzo di neve che i ragazzini della casa di fronte avevano costruito nel fine settimana la fissava con i suoi occhi nero carbone. Aveva perso il naso. Le braccia fatte con ramoscelli di betulla sporgevano rigide ai due lati come artigli di strega. Aveva un berretto vecchio in testa e una sciarpa di un rosso sgargiante che gli copriva metà faccia.
Le ricordava l’uomo accanto alla recinzione.
Johanne si scostò.
L’indomani avrebbe messo le tende alle finestre.
All’improvviso si rese conto di essersi sbagliata.
L’angoscia che la tormentava da Natale non era iniziata con l’uomo accanto alla recinzione. La sensazione che qualcuno tenesse d’occhio Kristiane non era dovuta all’estraneo che le aveva chiesto cosa avesse ricevuto per Natale. Il motivo per cui quella volta la sua reazione era stata tanto violenta era che la paura si era già insinuata in lei. La ricerca di quelle maledette costolette di maiale e tutto quel trambusto per preparare un cenone che piacesse a sua madre aveva temporaneamente rimpiazzato l’angoscia.
Non era stato l’uomo accanto alla recinzione a fargliela venire: era già dentro di lei, fin dalle nozze della sorella. Quando Kristiane si era immobilizzata sulle rotaie del tram e Johanne si era convinta che sarebbe morta, fin da quel momento aveva compreso che la sua disperazione non dipendeva soltanto dall’aver visto la figlia in pericolo. In fondo era andato tutto bene e, malgrado lei di natura fosse un po’ troppo ansiosa, non le era mai capitato di sentirsi cosí, a parte la volta in cui Wencke Bencke l’aveva subdolamente minacciata cinque anni prima.
Johanne si precipitò al portatile e si collegò in rete.
Google ci mise quella che le parve un’eternità ad aprirsi, e quando lei digitò il nome di quella giallista famosa in tutto il mondo lo sbagliò per ben quattro volte prima di far partire la ricerca, che le forní ventiseimilanovecento risultati. Tentò una scrematura: l’unica cosa che le interessava sapere era se la scrittrice vivesse ancora in Nuova Zelanda.
Wencke Bencke era riuscita a farla franca con gli omicidi. Con grande sangue freddo e senza che Johanne fosse mai riuscita a capirne bene i moventi, quella donna aveva ucciso alcune celebrità tra l’inverno e la primavera del 2004. Johanne aveva aiutato Yngvar e Sigmund in un’indagine molto complessa, ma non erano mai arrivati a nulla, a parte convincersi che Wencke Bencke era colpevole. Non erano stati in grado di provare niente. Un bel giorno di primavera, quand’era ormai chiaro che l’assassino non sarebbe mai stato preso, la celebre autrice aveva fatto in modo di incontrare Johanne. Mentre lei spingeva la carrozzina della piccola Ragnhild appena nata, Wencke Bencke, tranquilla e sorridente, l’aveva raggiunta e aveva ammesso tutto. Non era stata una confessione utilizzabile in tribunale, ma il messaggio era arrivato forte e chiaro a Johanne. La latente minaccia che la scrittrice aveva lasciato cadere subito prima di riprendere la sua passeggiata nel sole primaverile era stata altrettanto astuta, ma non cosí ambigua, e aveva terrorizzato Johanne. La paura non se n’era andata del tutto fino a quando, l’anno dopo, Wencke Bencke non si era sposata con un maori di quindici anni piú giovane e si era trasferita in Nuova Zelanda. Era tornata in Norvegia solo per il lancio del suo ultimo libro, cosa che aveva spinto Johanne a ignorare sistematicamente le pagine culturali dei quotidiani per gran parte dell’autunno.
Ecco.
Un trafiletto di «VG» pubblicato in settembre.
Wencke Bencke sotto il sole circondata da pecore. Lei e il marito avevano acquistato una fattoria nei pressi di Te Anau. In autunno l’autrice non era tornata in patria nemmeno in occasione della pubblicazione di un nuovo libro, e allora quelli di «VG» erano andati da lei.
«Per me, adesso, questa è casa mia, − dice orgogliosa la scrittrice di fama mondiale, mostrando un gregge di pecore di notevoli dimensioni. – Scrivo meglio, qui. Vivo meglio, qui. E qui voglio restare».
Johanne respirò un po’ piú sollevata.
Wencke Bencke non c’entrava nulla.
L’angoscia che la tormentava si era manifestata per la prima volta il 19 dicembre, la sera in cui Marianne Kleive era stata uccisa. Johanne sbatté le ciglia e il numero 19 le apparve come una luminosa incisione verde sul retro delle palpebre.
Quel maledetto numero 19.
Riaprí gli occhi, ma il suo sguardo era perso nel vuoto.
Squillò il telefono.
Eva Karin Lysgaard era stata assassinata il 24 dicembre.
Niclas Winter, di cui aveva letto sul giornale la notte prima, era morto il 27 dicembre.
Era morto. Non era stato ucciso. Era morto di overdose.
Il telefono non smetteva di squillare. Lo prese. Era Yngvar.
19, 24 e 27.
La somma delle cifre che compongono questi tre numeri è 25.
Mandare in overdose un drogato è un modo piuttosto noto per camuffare un omicidio.
Il telefono smise di squillare. Dopo pochi secondi ricominciò.
− Pronto, − disse lei con voce piatta mentre accostava il telefono all’orecchio.
− Ciao, tesoro. Ho visto che mi hai cercato un sacco di volte. Scusa se non ti ho chiamato prima. Sono stato in riunione tutto il pomeriggio. Non riusciamo ad arrivare da nessuna parte e…
− Non fa niente, − mormorò Johanne. − Non era nulla di importante.
− Va tutto bene? Hai una voce un po’… strana…
− No, no. Va tutto bene, davvero. Stavo… dormendo. Mi ha svegliato il telefono. Credo che me ne andrò a letto.
− A quest’ora?
− Sonno arretrato. Ti dispiace se ci risentiamo in un altro momento? Non vorrei che mi passasse il sonno…
− Ma certo…
La delusione di Yngvar era cosí palese che lei per poco non cambiò idea.
− Dormi bene, – aggiunse poi lui.
− Ciao, tesoro. Ci sentiamo domani mattina, okay? Buonanotte.
Restò seduta a lungo con il telefono muto in mano. Dallo stereo proveniva la voce lamentosa di Toni Braxton che cantava Un-Break My Heart. Sentí il motore di un’auto in folle in Hauges Vei. Il vento doveva aver cambiato direzione, perché il costante e lontano ronzio del traffico in Maridalsveien e sul frequentatissimo Ring si udiva con una nitidezza tale che era come avere una tubatura che perdeva in bagno.
Anche se nell’articolo su Niclas Winter pubblicato dal «Dagens Næringsliv» non si parlava esplicitamente delle sue tendenze sessuali, leggendo fra le righe era possibile intuire molte cose. L’uomo era malato di Aids: la causa poteva essere attribuita al suo abuso di eroina, ma non era da escludere il sesso non protetto con altri uomini. L’installazione CockPitt, per lo meno, dava da pensare in quella direzione.
Eva Karin Lysgaard era in effetti una donna eterosessuale, sposata e con un figlio, ma si era anche distinta come una fervida sostenitrice dei diritti degli omosessuali.
Marianne Kleive era sposata con un’altra donna.
Johanne si alzò dal divano e si rese conto di essere molto affamata.
Ma non piú impaurita.