lunedì 28 ottobre 2019


IL POPOLO DELL'AUTUNNO
Ray Bradbury
Mondadori
Il libro 
Green Town, anonimo centro dell’Illinois. Manca una settimana alla festa di Halloween, quando la sonnacchiosa cittadina viene sconvolta da un “carnevale nero” scatenato da un circo misterioso che sembra promettere l’avverarsi di tutti i desideri e l’eterna giovinezza . Saranno due amici tredicenni, James Nightshade e William Halloway, a sconfiggere le forze del Male e a riscattare le anime dell’intera comunità. Ma impareranno fin troppo presto a fare i conti con i propri incubi . Capolavoro della moderna letteratura gotica, Il popolo dell’autunno rivela al lettore, attraverso lo sguardo libero e curioso dei bambini, tutta la maturità di uno dei massimi scrittori contemporanei

IL POPOLO DELL'AUTUNNO 

L’uomo è innamorato e ama ciò che svanisce. 
W.B. YEATS 

Essi non dormono, se non fanno del male; 
non si lasciano prendere dal sonno, 
se non fanno cadere qualcuno; mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza. 
Proverbi, 4,16-17 

Io non conosco tutto quello che sarà, ma qualunque cosa sia, vi andrò incontro ridendo. H. MELVILLE, Moby Dick

Prologo
 In primo luogo era ottobre, un mese eccezionale per i ragazzi. Non che tutti i mesi non siano eccezionali. Ma ce ne sono di buoni e di cattivi; come dicono i pirati. Prendete settembre, un mese cattivo: cominciano le scuole. Considerate agosto, un mese buono: le scuole non sono ancora incominciate. Luglio, ecco, luglio è veramente splendido: niente scuola. Giugno, senza dubbio, giugno è il migliore di tutti, perché le porte delle scuole si spalancano e settembre è lontano un miliardo di anni. Ma adesso guardate ottobre. Le scuole sono cominciate da un mese, e voi ve la prendete più calma, tirate avanti. Avete il tempo di pensare all’immondizia che scaricherete sul portico del vecchio Prickett, o al costume da scimmia che indosserete alla festa dell’YMCA l’ultima sera del mese. E se è già il 20 ottobre e tutto odora di fumo e il cielo è color arancio e grigio cenere al crepuscolo, sembra che Halloween non verrà mai, in una pioggia di manici di scopa e in un fiottare sommesso di lenzuola agli angoli delle strade. Ma in un anno strano, buio, lungo e assurdo, Halloween venne in anticipo. Un anno Halloween venne il 24 ottobre, tre ore dopo mezzanotte. A quell’epoca, James Nightshade, che abitava al 97 di Oak Street, aveva tredici anni, undici mesi e ventitré giorni. Il ragazzo che abitava alla porta accanto, William Halloway, aveva tredici anni, undici mesi e ventiquattro giorni. Entrambi stavano per raggiungere i quattordici anni: già i quattordici anni tremavano nelle loro mani. E poi vi fu quella settimana d’ottobre in cui divennero adulti di colpo e non furono mai più giovani...

Parte Prima 
ARRIVI
 I 
Il Venditore di Parafulmini arrivò subito prima del temporale. Avanzava lungo la via di Green Town, Illinois, nel tardo pomeriggio nuvoloso d’ottobre, volgendosi a lanciare occhiate furtive alle sue spalle. Non molto lontano, folgori immani calpestavano la terra. Non molto lontano, era impossibile negare la presenza di un temporale, simile a una grande belva dai denti terribili. E il venditore faceva tintinnare e sferragliare la sua grande valigia di cuoio nella quale dormivano invisibili grandi aggeggi di ferro che la sua lingua evocava di porta in porta: fino a quando giunse finalmente in un prato che era completamente sbagliato. No, non l’erba. Il venditore alzò gli occhi. Ma due ragazzi, sul dolce pendio, sdraiati sull’erba. Quei due ragazzi, abbastanza simili come taglia e figura, stavano intagliando fischietti di giunco e parlavano del passato e del futuro, contenti di aver lasciato l’impronta delle loro dita su ogni oggetto mobile di Green Town durante la scorsa estate e le impronte dei loro piedi su ogni sentiero aperto tra quel luogo e il lago e tra il lago e il fiume, da quando erano ricominciate le scuole. «Salve, ragazzi!» esclamò l’uomo, tutto vestito di abiti che avevano il colore del temporale. «I vostri genitori sono in casa?» I ragazzi scossero il capo. «E voi, avete quattrini?» I ragazzi scossero ancora il capo. «Be’...» Il venditore avanzò per circa un metro, si fermò e incurvò le spalle. Sembrò provare la sensazione che le finestre della casa o il cielo freddo gli fissassero la nuca. Si voltò lentamente, fiutando l’aria. Il vento scrollava gli alberi spogli. Il sole, filtrando da un piccolo squarcio tra le nubi, trasformò in monete d’oro alcune foglie della quercia. Ma il sole svanì, le monete scomparvero, l’aria soffiò grigia; il venditore si riscosse dall’incantesimo. Avanzò lentamente sul prato. «Ragazzo,» disse «come ti chiami?» E il primo ragazzo, che aveva i capelli di un biondo candido come il siero del latte, chiuse un occhio, inclinò la testa e guardò il venditore con un occhio solo, chiaro e splendente come una goccia di pioggia d’estate. «Will» disse. «William Halloway.» L’uomo del temporale si girò. «E tu?» Il secondo ragazzo non si mosse, restò disteso sul ventre, sull’erba autunnale, riflettendo se doveva inventare un nome. Aveva i capelli folti e scarmigliati, lucidi, del colore delle castagne. I suoi occhi, fissi su un punto lontano dentro di lui, erano di un verde cristallino. Poi si infilò distrattamente in bocca un filo d’erba secca. «Jim Nightshade» disse. Il venditore del temporale annuì, come se l’avesse sempre saputo. «Nightshade. Che strano cognome.» «È appropriato» disse Will Halloway. «Io sono nato un minuto prima di mezzanotte, il 30 ottobre. Jim è nato un minuto dopo mezzanotte, cioè il 31 ottobre.» «Halloween» disse Jim. Con le loro voci, i due ragazzi avevano raccontato la fiaba delle loro vite, orgogliosi delle proprie madri, che abitavano vicine, che erano corse all’ospedale insieme, e avevano messo al mondo i figlioli a pochi secondi l’uno dall’altro: uno biondo, l’altro bruno. Alle loro spalle, c’era tutta una storia di festeggiamenti reciproci. Ogni anno, Will accendeva le candeline su un’unica torta, quando mancava un minuto a mezzanotte. Un minuto dopo la mezzanotte, quando era incominciato l’ultimo giorno del mese, Jim le spegneva con un soffio. Questo era quanto aveva raccontato Will, in tono eccitato. Questo era quanto Jim aveva riconosciuto, in silenzio. Questo era ciò che il venditore udì, guardando ora l’uno ora l’altro, mentre correva precedendo il temporale... eppure si era fermato lì, incerto. «Halloway. Nightshade. Non avete quattrini, allora?» Afflitto dalla propria coscienziosità, l’uomo frugò nella valigia di cuoio e ne estrasse un aggeggio di ferro. «Prendete questo; è gratis! Perché? Una di queste case verrà colpita dal fulmine! Senza questo parafulmine, bang! Fuoco e cenere, maiale arrosto e braci! Prendete!» Il venditore lasciò andare il parafulmine. Jim non si mosse. Ma Will l’afferrò ed emise un gemito. «Caspita, è pesante! E strano, anche. Non ho mai visto un parafulmine come questo. Guarda, Jim!» E Jim, finalmente, si stirò come un gatto e girò il capo. I suoi occhi verdi si spalancarono, poi si socchiusero. L’oggetto metallico era di ferro battuto, forgiato un po’a forma di mezzaluna, un po’a forma di croce. Attorno all’asta erano stati saldati riccioli e fregi. Tutto il parafulmine era graffiato e inciso da segni bizzarri, nomi che potevano legare la lingua e spezzare le mandibole, numeri che davano somme incomprensibili, pittografie di insetti tutti setole e chele. «È egiziano.» Jim puntò il naso verso un insetto saldato al ferro. «Uno scarabeo.» «Proprio così, ragazzo!» Jim socchiuse gli occhi. «E questi... segni fenici.» «Giusto!» «Perché?» chiese Jim. «Perché?» disse l’uomo. «Perché l’egiziano, l’arabo, l’abissino, il choctaw? Che lingua parla il vento? Di quale nazionalità è un uragano? Da che paese vengono le piogge? Di che colore è la folgore? Dove va il tuono, quando muore? Ragazzi, dovrete essere pronti in tutti i dialetti, con tutte le forme e le formule per scongiurare i fuochi di sant’Elmo, le sfere di luce azzurra che scorrono la terra come gatti sfrigolanti. Io vendo i soli parafulmini che odono, sentono, conoscono e scongiurano qualsiasi uragano, e non ha importanza con quale lingua, con quale voce, con quale segno lo facciano. Non esiste un uragano straniero così chiassoso che questo parafulmine non possa acquietare!» Ma Will stava guardando oltre l’uomo, adesso. «Quale?» domandò. «Quale casa colpirà?» «Quale? Aspetta. Aspetta.» Il venditore li scrutò in viso, intento. «Certe persone attirano il fulmine, lo succhiano come i gatti succhiano il respiro dei neonati. Certa gente ha polarità negativa, certa gente positiva. Certuni risplendono nel buio. Altri no. Ora, voi due... io...» «Perché è così sicuro che il fulmine colpirà da queste parti?» chiese all’improvviso Jim, con uno scintillio negli occhi. Il venditore fremette lievemente. «Oh, ho naso, occhi e orecchie. Queste due case, i tronchi di cui sono fatte! Ascoltate!» Ascoltarono. Forse le loro case si piegavano sotto il freddo vento pomeridiano. Forse no. «I fulmini hanno bisogno di canali, come i fiumi, per scorrervi. Una di quelle soffitte è come il letto asciutto di un fiume, impaziente di lasciar scorrere la folgore! Questa notte!» «Questa notte?» Jim si sollevò a sedere, soddisfatto. «Non sarà un temporale ordinario!» disse il venditore. «Ve lo dice Tom Fury! Fury, non è un nome splendido per uno che vende parafulmini? Sono stato io a prendere questo nome? No! È stato il mio nome a spingermi verso la mia occupazione! Sì! Quando divenni adulto, vidi fuochi di nuvole far sussultare il mondo, costringendo gli uomini a balzare via per nascondersi. E pensai: traccerò le carte degli uragani, le mappe dei temporali, e poi li precederò, scuotendo in pugno i miei 
arnesi di ferro, i miei difensori miracolosi! Ho protetto e reso sicure centomila case dove regnava il timor di Dio, le ho contate! E perciò, ragazzi, quando vi dico che vi trovate in una terribile necessità, ascoltatemi! Arrampicatevi su quel tetto, inchiodate ben alto questo parafulmine, collegatelo alla buona terra prima che cada la notte!» «Ma quale casa, quale?» chiese Will. Il venditore indietreggiò, si soffiò il naso in un grande fazzoletto, poi attraversò lentamente il prato, come se si avvicinasse a una enorme bomba a orologeria che continuava a ticchettare in silenzio. Toccò i pilastri del portico di Will, passò la mano su un palo, su una tavola del pavimento, poi chiuse gli occhi e si appoggiò alla casa, lasciando che fossero le ossa dell’edificio a parlargli. Poi, esitante, si diresse verso la casa di Jim, lì accanto. Jim si alzò per osservarlo. Il venditore tese la mano, per toccare, per accarezzare, per fare fremere i polpastrelli sulla vecchia vernice. «Questa,» disse finalmente «è questa.» Jim assunse un’aria orgogliosa. Senza voltarsi, il venditore chiese: «Jim Nightshade, questa è casa tua?» «Mia» disse Jim. «Avrei dovuto saperlo» disse l’uomo. «Ehi, e io?» chiese Will. Il venditore fiutò di nuovo in direzione della casa di Will. «No, no. Oh, qualche scintilla cadrà sulle tue gronde. Ma il vero spettacolo sarà lì, nella casa dei Nightshade!» Il venditore attraversò di nuovo il prato, a passi rapidi, per afferrare il suo grande sacco di cuoio. «Ora vado. Sta arrivando il temporale. Non aspettare, Jim! Altrimenti... bang! Ti ritroveranno in mezzo al tuo denaro fuso dall’elettricità. Abe Lincoln fuso insieme alle Miss Columbia, le aquile dei dollari incastrate sui quarti di dollaro e tutto, tutto fuso come il mercurio nelle tasche dei tuoi jeans. E c’è di più! Quando un ragazzo viene colpito da un fulmine, se gli alzi le palpebre gli trovi nelle pupille, come il Padre Nostro sulla capocchia di uno spillo, l’ultima scena che quel ragazzo ha visto! Una fotografia, per Dio, di quel fuoco che scende dal cielo per colpirti, per risucchiare la tua anima su per la scala sfolgorante! Presto, ragazzo! Pianta ben alto il parafulmine, o morirai prima dell’alba!» E dondolando la valigia piena di parafulmini, il venditore girò sui tacchi e si allontanò lungo il sentiero, battendo furiosamente le palpebre di fronte al cielo, al tetto, agli alberi, e alla fine chiuse gli occhi, sbuffando e brontolando. «Sì, arriva, lo sento, è molto lontano, ma si avvicina velocemente...» E l’uomo vestito dei colori del temporale se ne andò, con il cappello color delle nuvole calcato sugli occhi, e gli alberi frusciarono e all’improvviso il cielo apparve molto vecchio e Will e Jim rimasero a fiutare il vento, per carpire l’odore dell’elettricità, e il parafulmine stava sull’erba, tra loro. «Jim,» disse Will «non startene lì immobile. È la tua casa, ha detto. Hai intenzione di montare il parafulmine, sì o no?» «No,» sorrise Jim «perché rovinare lo spettacolo?» «Lo spettacolo? Sei pazzo! Prenderò io la scala! Tu prendi il martello, un po’di chiodi e il filo!» Ma Jim non si muoveva. Will corse via. Ritornò reggendo la scala. «Jim, pensa alla tua mamma. Vuoi che finisca bruciata?» Will salì sul tetto, da solo, e guardò giù. Lentamente, Jim si accostò alla scala e cominciò a salire. Il tuono brontolava lontano, tra le colline oscurate dalle nubi. L’aria era fresca e pungente, sul tetto di Jim Nightshade. Persino Jim lo ammise. II Non c’è nulla al mondo che valga i libri che parlano di avventure e di ecatombi, che parlano di lava incandescente versata dalle mura dei castelli sui bricconi e sui saltimbanchi. Così diceva Jim Nightshade; non leggeva altro. Se non si trattava di rapinare la First National Bank, si trattava di costruire catapulte, o di creare cupi costumi da pipistrelli. Jim era bravissimo a raccontare queste cose. E Will le beveva avidamente. Quando il parafulmine fu inchiodato al tetto dei Nightshade, Will era orgoglioso e Jim si vergognava di ciò che giudicava vigliaccheria reciproca; e si era fatto tardi. Dopo cena, venne il momento della loro visita settimanale alla biblioteca. Come tutti i ragazzi, non si recavano in un luogo camminando: nominavano una meta e vi si dirigevano come fulmini. Non vinceva nessuno. Nessuno dei due voleva vincere. Era la loro amicizia che li induceva a correre sempre, uno accanto all’altro. Le loro mani sbattevano insieme le maniglie della porta della biblioteca, i loro petti spezzavano insieme i fili di lana dei traguardi, le loro scarpe da tennis tracciavano piste parallele sui prati, tra i cespugli e gli alberi abitati dagli scoiattoli, e nessuno dei due perdeva, entrambi vincevano, serbando la loro amicizia per momenti più gravi. E fu così anche quella sera che alitava dapprima tepore e poi freddo, mentre si lasciavano portare dal vento verso il centro del paese, alle otto. Sentivano le ali volare sulle loro dita e sui loro gomiti e poi, all’improvviso, si lanciavano in una nuova corrente d’aria, e il chiaro vento dell’autunno li trasportava dove dovevano andare. Su per i gradini, tre, sei, nove, dodici! Tac! Le loro palme batterono sulla porta della biblioteca. Jim e Will si scambiarono un sorriso. Era tutto così bello, quelle tranquille, ventose sere di ottobre e la biblioteca che li attendeva con le sue lampade dai paralumi verdi e con la sua polvere. Jim si fermò ad ascoltare. «Cos’è?» «Cosa, il vento?» «Sembra musica...» Jim socchiuse gli occhi verso l’orizzonte. «Non sento nessuna musica.» Jim scosse il capo. «È svanita. O forse mi sembrava. Andiamo!» Aprirono la porta ed entrarono. Si fermarono. Davanti a loro si stendeva il labirinto della biblioteca. Fuori, nel mondo, non accadevano molte cose. Ma qui, in quella sera speciale, in una terra costruita di carta e di cuoio, poteva accadere qualsiasi cosa, e sempre qualcosa accadeva. Ascoltate, e sentirete diecimila persone che urlano con un tono di voce così alto che soltanto i cani rizzano le orecchie. Un milione di persone puliscono i cannoni, affilano le ghigliottine; i cinesi, in fila per quattro, marciano eternamente. Invisibili, silenziosi, sì, ma Jim e Will avevano il dono delle orecchie e dei nasi, oltre al dono delle lingue. Quella era una fabbrica di spezie di paesi lontani. Qui si stendevano deserti sconosciuti. Là c’era la scrivania dietro la quale quella simpatica vecchietta, la signorina Watriss, apponeva un timbro purpureo ai libri, ma più oltre c’erano il Tibet e l’Antartide, il Congo. La signorina Wills, l’altra bibliotecaria, stava attraversando la Mongolia Esterna, sfiorando con calma frammenti di Peiping e di Yokohama e di Celebes. Giù, lungo il terzo corridoio, un uomo anziano faceva frusciare la scopa nel buio, ammucchiando le spezie cadute... Will spalancò gli occhi. Era sempre una sorpresa... quel vecchio, il suo lavoro, il suo nome. Quello è Charles William Halloway, pensò Will, non mio nonno, non un mio vecchio zio errabondo, come qualcuno potrebbe pensare, ma... mio padre. Così, quando si volgeva a guardare lungo il corridoio, papà rimaneva colpito nel vedere che suo figlio visitava quel mondo segregato e profondissimo. Papà sembrava sempre sbalordito, quando Will gli appariva davanti, come se si fossero incontrati molti anni prima, e uno di loro fosse invecchiato mentre l’altro rimaneva giovane, e come se questo fatto li dividesse... Da lontano, il vecchio sorrise. Si accostarono l’uno all’altro, cautamente. «Sei tu, Will? Sei cresciuto di un pollice, da questa mattina.» Charles Halloway girò lo sguardo. «Jim? Hai gli occhi più scuri e le guance più pallide. Ti stai consumando, Jim?» «All’inferno» disse Jim. «L’inferno è proprio qui, sotto la “A”di Alighieri.» «Non afferro l’allegoria» disse Jim. «Sono uno stupido» rise papà. «Volevo dire Dante. Guardate. Incisioni di Doré, che ne mostrano tutti gli aspetti. L’inferno non ha mai avuto un aspetto migliore. Qui le anime affondano nel fango fino alle narici. E c’è qualcuno immerso a testa in giù.» «Caspita!» Jim guardò le pagine prima da una parte poi dall’altra. «C’è anche qualche figura di dinosauro?» Papà scosse il capo. «Sono nell’altra corsia.» Li guidò fin lì, poi tese la mano. «Ecco qui. Lo pterodattilo, aquilone della morte! Oppure I tamburi del destino: la saga delle Lucertole-Tuono! Ti va, Jim?» «Se mi va!» Papà ammiccò a Will e Will gli ammiccò a sua volta. Un ragazzo dai capelli color grano, un uomo dai capelli bianchi come la luna; un ragazzo dal volto simile a una mela d’estate, un uomo dal volto simile a una mela d’inverno. Papà, papà, pensò Will, sembra proprio me... in uno specchio rotto! E all’improvviso Will ricordò le notti in cui si era alzato alle due del mattino per andare in bagno, e aveva spiato attraverso il paese per vedere quell’unica luce che filtrava dall’alta finestra della biblioteca, e aveva saputo che papà era rimasto lì, fino a tardi, a mormorare e a leggere, solo, sotto quelle lampade verdi. Will si sentiva rattristato nel vedere quella luce, nel sapere che il vecchio –si interruppe per cambiare quella parola –che suo padre era là, in tutta quell’ombra. «Will,» disse il vecchio, che era anche custode della biblioteca e che era anche suo padre «cosa vuoi?» «Eh?» Will si scosse. «Vuoi un libro di un cappello bianco o di un cappello nero?» «Cappelli?» chiese Will. «Ecco, Jim...» Proseguirono, e papà faceva scorrere le dita sul dorso dei libri. «Porta i cappelli neri, a staio, e legge libri appropriati. Il secondo nome è Moriarty, giusto, Jim? E da un giorno all’altro passerà da Fu Manchu a Machiavelli, qui... un fedora scuro di media grandezza. O fino al dottor Faust... un cappello da cow-boy, nero e immenso. Quindi, per te restano quelli dai cappelli bianchi, Will. Ecco Gandhi. Poi c’è san Tommaso. E nello scaffale vicino, ecco... Budda.» «Se non ti dispiace,» disse Will «prenderò L’isola misteriosa.» «E che cos’è,» chiese Jim, con una smorfia «questa storia dei cappelli neri e dei cappelli bianchi?» «Ecco...» papà diede a Will il libro di Verne «molto tempo fa, dovetti decidere quale colore avrei portato.» «E che colore ha scelto?» chiese Jim. «Adesso che me lo domandi, Jim, ridesti i miei dubbi. Will, di’a mamma che verrò a casa presto. Andate, ora, tutti e due. Signorina Watriss!» annunciò alla bibliotecaria. «Stanno arrivando dinosauri e isole misteriose.» La porta sbatté. Fuori, un fiume di stelle splendeva chiaro in un cielo oceanico. «Diavolo!» Jim fiutò verso nord, poi verso sud. «Dove è il temporale? Quel dannato venditore l’aveva promesso. Voglio proprio vedere quel fulmine che scende per la mia gronda!» Will lasciò che il vento gli scompigliasse e gli riassestasse gli abiti, la pelle, i capelli. Poi disse, debolmente: «Sarà qui. Prima di domattina». «E chi lo dice?» «La pelle d’oca che ho sulle braccia.» «Magnifico!» Il vento portò via Jim. Come un aquilone, Will si lanciò perseguirlo. III Mentre guardava i due ragazzi correre via, Charles Halloway represse l’impulso improvviso di correre con loro. Sapeva dove li avrebbe condotti il vento; in tutti i luoghi segreti che non sarebbero mai più stati altrettanto segreti nella vita. Dentro di lui, un’ombra si rivoltò, dolorosamente. Bisognava correre, in una notte come quella, perché la tristezza non potesse far male. Guarda! pensò. Will corre perché gli piace correre. Jim corre perché vede qualcosa davanti a sé. Eppure, stranamente, corrono insieme. Qual è la spiegazione, si chiese, mentre si muoveva nella biblioteca, spegnendo le luci, spegnendo le luci, spegnendo le luci, è tutta nei ghirigori sui nostri pollici, sulle nostre dita? Perché certe persone sono tutte come le zampe delle cavallette, tutte antenne vibranti, un grande ganglio, che continuano eternamente ad annodarsi e a riannodarsi? Ardono in una fornace per tutta la vita, le loro labbra sudano, e fanno risplendere i loro occhi, e cominciano così dalla culla. Gli amici sparuti e famelici di Cesare. Divorano le tenebre, che esistono e respirano. E così è Jim: tutto ortiche. E Will? Oh, lui è l’ultima pesca, alta su un albero estivo. Certi bambini passano e ti viene da piangere, quando li vedi. Hanno l’aspetto buono, senti che sono buoni, sono buoni. Oh, non che non cedano qualche volta alla tentazione di rubare un temperamatite di pochi soldi: non è questo. È che, sai, quando li vedi passare, sai che saranno così per tutta la vita; verranno feriti, colpiti, pugnalati, e si chiederanno sempre perché questo accade, perché questo accade a loro. Ma Jim sa ciò che succede, attende che succeda, lo vede cominciare, lo vede finire, si lecca le ferite che aveva previsto, e non chiede mai perché: lui sa. Lui ha sempre saputo. Qualcuno lo sapeva, prima di lui, tanto tempo fa, qualcuno che aveva lupi per animali domestici, e leoni per interlocutori notturni. Diavolo, Jim non lo sa consapevolmente, con il suo cervello. Ma il suo corpo lo sa. E mentre Will mette una benda alla sua ultima ferita, Jim schiva il colpo definitivo che deve venire, inevitabilmente. E così vanno; Jim corre più lentamente per restare con Will, e Will corre più veloce per restare con Jim. Jim rompe due finestre in una casa infestata dagli spettri perché Will è con lui, Will rompe una finestra a sua volta, perché c’è Jim che guarda. Dio, noi mettiamo le dita nell’argilla altrui. Questa è l’amicizia: ciascuno fa il vasaio per vedere quali forme può far assumere all’altro. Jim, Will, pensò, due estranei. Andate. Un giorno o l’altro vi raggiungerò... La porta della biblioteca si spalancò, sbatté. Cinque minuti dopo, Charles Halloway entrò nel bar dell’angolo, in tempo per sentire un uomo che diceva: «Ho letto che quando fu inventato l’alcol, gli italiani pensarono che fosse ciò che avevano cercato per secoli. L’elisir della Vita! Lo sapeva?» «No!» Il barista gli voltava le spalle. «Sicuro,» continuò l’uomo «vino distillato. Nono, decimo secolo. Sembrava acqua. Ma ardeva. Voglio dire, non solo bruciava la bocca e lo stomaco, ma potevi dargli fuoco. Così credettero di aver mescolato l’acqua e il fuoco, l’acqua di fuoco, l’Elixir Vitae, per Dio. Forse non si ingannavano del tutto se pensavano che fosse la Panacea, il rimedio che operava miracoli. Beve qualcosa?» «Non ne sento il bisogno» disse Halloway. «Ma qualcuno dentro di me lo sente.» «Chi?» Il bambino che sono stato un tempo, pensò Halloway, e che corre come le foglie lungo il marciapiede nelle notti d’autunno. Ma non poteva dirlo. Così bevve, a occhi chiusi, restando in ascolto per sentire se quella cosa dentro di lui si rivoltava ancora, frusciando tra i ceppi che erano stati ammonticchiati per ardere ma che non ardevano mai. IV Will si fermò. Will guardò la città, in quella sera di venerdì. Quando il primo rintocco delle nove risuonò dal grande orologio del tribunale, parve che tutte le luci fossero accese, che i negozi fervessero di attività. Ma quando l’ultimo rintocco delle nove fece battere i denti di ognuno, i barbieri avevano strappato via gli asciugamani, avevano incipriato i clienti e li avevano fatti uscire: la fontanella di soda del drugstore aveva smesso di sibilare come un nido di serpi, gli insetti di neon avevano cessato ovunque di ronzare, e l’immensa distesa scintillante del magazzino a buon mercato, con i suoi dieci miliardi di oggetti di metallo, di vetro e di carta che attendevano di essere presi, all’improvviso piombò nel buio. Le porte sbattevano, le chiavi giravano nelle serrature, la gente fuggiva, inseguita da orde di brandelli di giornale che mordevano loro le calcagna, come topi. Bang! Erano tutti scomparsi. «Caspita!» gridò Will «corrono tutti come se pensassero che arriva il temporale!» «E infatti arriva!» gridò Jim. «Siamo noi!» Passarono tempestosamente su grate di ferro, su botole d’acciaio, davanti a una dozzina di negozi spenti, a una dozzina di negozi semi-illuminati, a una dozzina di negozi nei quali le luci si spegnevano. La città era morta, quando svoltarono l’angolo del tabaccaio e videro un indiano di legno che scivolava nel buio, tutto solo. «Ehi!» Il signor Tetley, il proprietario, sbirciò al di sopra della spalla dell’indiano. «Vi ho fatto paura, ragazzi?» «No!» Ma Will rabbrividì; sentiva fredde ondate di pioggia sconosciuta muoversi lungo la prateria come su una spiaggia deserta. Quando il fulmine avrebbe inchiodato la città, lui voleva nascondersi sotto sedici coperte e un cuscino. «Signor Tetley?» disse Will, quietamente. Perché adesso c’erano due indiani di legno ritti nella oscurità odorosa di tabacco. Il signor Tetley si era interrotto a metà, a bocca aperta, in ascolto. «Signor Tetley?» Lui udiva qualcosa lontano nel vento, ma non sapeva dire che cosa fosse. I ragazzi indietreggiarono. Lui non li vide. Non si mosse. Ascoltava e basta. I ragazzi lo lasciarono. Corsero via. Al quarto isolato deserto dopo la biblioteca, i ragazzi si imbatterono in un terzo indiano di legno. Il signor Crosetti, davanti al suo negozio di barbiere, con la chiave della porta fra le dita tremanti, non li vide fermarsi. Cosa li aveva fermati? Una lacrima. Scendeva, lucente, sulla guancia sinistra del signor Crosetti che respirava pesantemente. «Crosetti, che sciocco! È successo qualcosa? Lei piange come un bambino?» Crosetti respirò, tremando, e fiutò l’aria. «Non sentite questo odore?» Jim e Will fiutarono. «Liquerizia?» «Diavolo, no. Zucchero filato!» «Sono anni che non ne sento l’odore» disse il signor Crosetti. Jim sbuffò. «È nell’aria.» «Sì, ma chi se ne accorge? Quando? Adesso il mio naso mi dice: respira! E io piango. Perché? Perché ricordo che tanto tempo fa i ragazzi mangiavano questa roba. Perché non mi sono mai dato la pena di riflettere e di fiutare l’aria, in questi ultimi trent’anni?» «Lei ha molto da fare, signor Crosetti» disse Will. «Non ne ha mai avuto il tempo.» «Il tempo, il tempo!» Il signor Crosetti si asciugò gli occhi. «Da dove viene questo odore? In città nessuno vende zucchero filato. Lo vendono solo nei circhi.» «Ehi,» disse Will «è vero!» «Bene, Crosetti non piange più.» Il barbiere si soffiò il naso e si girò per chiudere la porta della bottega. Intanto, Will guardò l’insegna girare la sua serpentina rossa, come se la traesse dal niente, e attirare il suo sguardo verso l’alto, mentre si levava per svanire di nuovo nel nulla. Molte volte Will si era fermato lì, cercando di sdipanare quel nastro rosso, l’aveva guardato venire, andare, finire interminabilmente. Il signor Crosetti posò la mano sull’interruttore, sotto l’insegna rotante. «No!» disse Will. Poi, mormorando: «Non la spenga». Il signor Crosetti guardò l’insegna, come se si rendesse conto in quel momento delle sue proprietà miracolose. Annuì, gentilmente, con gli occhi commossi. «Da dove viene e dove va, eh? Chi lo sa? Tu no, lui no, io no. Oh, che misteri, per Dio. Bene. Lasciamola accesa.» Fa piacere, pensò Will, sapere che continuerà a girare fino all’alba, salendo dal nulla, snodandosi nel nulla, mentre noi dormiamo. «Buonanotte!» «Buonanotte!» E lo lasciarono, nel vento che odorava vagamente di liquerizia e di zucchero filato. V Charles Halloway posò la mano sui battenti della porta del bar, come se i peli grigi sul dorso della sua mano, come antenne, avessero sentito qualcosa che stava scivolando, là fuori, nella sera d’ottobre. Forse, in qualche luogo, ardevano grandi fuochi e le loro esplosioni l’avvertivano di non uscire. O forse un’altra era glaciale incombeva sul paese, e la sua mole gelida poteva avere già annientato un miliardo di persone. Forse il Tempo stesso stava scivolando in un bicchiere immenso, e l’oscurità polverosa scendeva a coprire tutto. O forse era soltanto quell’uomo vestito di scuro, che si scorgeva dalla vetrina del bar, dall’altra parte della strada. Grandi rotoli di carta sotto un braccio, un pennello e un secchio nella mano libera; e quell’uomo stava fischiettando una melodia, molto lontano. Era una melodia di un altro tempo, che rattristava sempre Charles Halloway quando la sentiva. Era una canzone incongrua per ottobre, ma molto commovente, travolgente, in qualsiasi giorno o in qualsiasi mese venisse cantata: Ho sentito le campane di Natale suonar carole in dolci batter d’ale, e in quelle carole ripeton le parole: Pace in Terra agli uomini di buona volontà! Charles Halloway rabbrividì. All’improvviso avvertì un senso di atterrito sollievo, il desiderio di ridere e di piangere, quando vide gli innocenti della terra che vagavano per le strade innevate la vigilia di Natale, tra tutti gli uomini e le donne i cui volti erano insudiciati dalla colpa, immondi di peccato, frantumati come finestrelle che la vita aveva colpito senza preavviso, per nascondersi e colpire di nuovo. Suonavan le campane chiaro e forte: Dio non è in preda al sonno né alla morte! Il Male ora cadrà, il Bene prevarrà! Pace in Terra agli uomini di buona volontà! L’uomo smise di fischiettare. Charles Halloway uscì. Più lontano, l’uomo che aveva smesso di fischiettare stava muovendo le braccia accanto a un palo del telegrafo, lavorando in silenzio. Poi scomparve oltre l’uscio aperto di un negozio. Senza sapere perché, Charles Halloway attraversò la strada per vedere l’uomo che stava affiggendo un manifesto nell’interno del negozio sfitto e vuoto. L’uomo uscì dalla porta con il pennello, il secchio di colla e i manifesti arrotolati. I suoi occhi, che avevano uno splendore feroce, si fissarono su Charles Halloway. Sorridendo, fece un gesto con la mano aperta. Halloway spalancò gli occhi. Il palmo di quella mano era coperto di peli neri, fini come la seta. Sembrava... La mano si serrò a pugno, si agitò nell’aria. L’uomo girò l’angolo. Sbalordito, Charles Halloway, arrossato da un’improvvisa calura estiva, vacillò, poi si voltò a guardare dentro il negozio vuoto. Sotto un unico riflettore c’erano due cavalletti, posti paralleli l’uno all’altro. E su quei due cavalletti, simile a una bara di neve e di cristallo, c’era un blocco di ghiaccio lungo più di un metro e ottanta. Splendeva fioco di un fulgore proprio, e il suo colore era un verdazzurro chiaro. Era una grande gemma fredda che riposava nell’oscurità. Su un cartello bianco accanto alla finestra, alla luce del lampione si poteva leggere questo messaggio calligrafico:
Il Grande Spettacolo Pandemonio di Cooger & Dark Il circo delle marionette, il Luna Park meraviglioso arriverà fra poco! Ecco una delle nostre innumerevoli attrazioni: LA DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO! Lo sguardo di Halloway balzò sul manifesto applicato all’interno della vetrina: LA DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO! Poi il suo sguardo tornò a posarsi sul lungo blocco gelido di ghiaccio. Ricordava di aver visto un simile blocco di ghiaccio negli spettacoli dei maghi ambulanti, da bambino, quando la ditta locale produttrice di ghiaccio offriva un frammento d’inverno nel quale, per dodici ore filate, giacevano incastonate fanciulle congelate messe in mostra mentre la gente guardava e sul rozzo schermo bianco si succedevano le commedie e le attrazioni si davano il turno e alla fine le pallide creature uscivano dal ghiaccio, liberate scheggia a scheggia dagli stregoni sudati, e si lasciavano condurre sorridendo oltre le tende. LA DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO! Eppure quell’enorme pezzo di cristallo invernale non conteneva altro che acqua di fiume congelata. No! Non era completamente vuoto. Halloway sentì il cuore battergli in modo speciale. Nell’interno di quella grande gemma d’inverno non c’era una specie di vuoto? Una cavità voluttuosa, un alveolo prolungato che ondulava attraverso tutto il ghiaccio? E quel vuoto, quell’alveolo che attendeva di essere riempito di carne d’estate, non aveva forse la forma di... di una donna? Sì. Il ghiaccio. E quelle cavità deliziose, quella lacuna orizzontale di vuoto dentro il ghiaccio. Quell’amabile nulla. La lacuna squisita di una sirena invisibile che sfidava il ghiaccio a catturarla. Il ghiaccio era gelido. La cavità nel ghiaccio era tiepida. Desiderava andarsene. Ma Charles Halloway rimase lì a lungo, in quella notte bizzarra, a guardare il negozio vuoto. VI Jim Nightshade si fermò all’angolo di Hickory Street e di Main Street, respirando senza difficoltà. «Will...?» «No!» Will si interruppe, stupito della propria violenza. «È là. La quinta casa. Solo un minuto, Will» supplicò Jim, sottovoce. «Un minuto?» Will guardò lungo la strada. Era la strada del Teatro. Fino a quell’estate era stata una strada normale, dove loro rubavano pesche, susine e albicocche, nella stagione propizia. Ma verso la fine di agosto, mentre si arrampicavano per prendere le mele più acerbe, era accaduta la “cosa”che aveva mutato le case, il sapore della frutta, e l’aria stessa tra quegli alberi sussurranti. «Will! Forse sta succedendo qualcosa!» sibilò Jim. Forse sta succedendo davvero qualcosa. Will deglutì, e sentì la mano di Jim stringergli il braccio. Perché non era più la strada delle mele e delle susine e delle albicocche, era quella casa, con una finestra laterale, e quella finestra, diceva Jim, era un palcoscenico, con un sipario –la tapparella, cioè –alzato. E in quella stanza, su quello strano palcoscenico, c’erano gli attori che recitavano misteri, mormoravano cose strane, sussurravano: e si trattava di bisbigli che Will non comprendeva. «Ancora per questa volta, Will!» «Sai bene che non sarà l’ultima!» Il volto di Jim era arrossato, le guance gli ardevano, i suoi occhi erano fuochi di vetro verde. Pensò a quella notte, mentre coglievano le mele, e Jim che aveva gridato all’improvviso, con voce soffocata: «Là!». E Will, appeso ai rami dell’albero, terribilmente eccitato, che guardava il Teatro, dove le persone, ignare, agitavano le camicie alte sulle teste, lasciavano cadere gli abiti sul tappeto, se ne stavano nude e folli come animali, nude come cavalli tremanti, le mani protese per toccarsi l’un l’altra. Cosa fanno? pensò Will. Perché ridono? Che c’è di strano in loro, che cos’hanno? Si augurava che la luce si spegnesse. Ma rimase aggrappato all’albero, divenuto all’improvviso scivoloso, e guardò il Teatro della finestra illuminata, ascoltò le risate, e alla fine, stordito, si lasciò andare, scivolò, cadde, rimase disteso, intontito, poi si alzò nel buio e alzò gli occhi verso Jim che era tuttora aggrappato al ramo. Jim, con il volto arrossato come da un riverbero di fiamme, le guance ardenti di fuoco, le labbra socchiuse, continuava a guardare nell’interno. «Jim, Jim, scendi!» Ma Jim non sentiva. «Jim!» E quando finalmente Jim guardò giù vide Will come un estraneo che gli chiedeva stupidamente di rinunciare a vivere e di ridiscendere sulla terra. E così Will corse via, solo, pensando a troppe cose, e insieme senza pensare a nulla, senza sapere che cosa pensare. «Will, ti prego...» Will guardò Jim, che teneva fra le mani i libri della biblioteca. «Siamo stati in biblioteca. Non basta?» Jim scosse il capo. «Prendi tu i libri.» Li porse a Will e si avviò senza far rumore sotto gli alberi sussurranti e sibilanti. Quando si fu inoltrato fino alla terza casa, si voltò a gridare: «Will! Sai che cosa sei? Un odioso vecchio battista episcopale!» Poi Jim scomparve. Will si strinse i libri al petto. Erano umidi del sudore delle sue mani. Non voltarti! pensò. Non mi volterò, non mi volterò! Guardò verso casa e si avviò in quella direzione. VII Quando fu a metà strada, Will sentì un’ombra che respirava ansante dietro di lui. «Il teatro è chiuso?» disse Will, senza voltarsi. Jim camminò in silenzio al suo fianco, per un poco, poi disse: «Non c’era nessuno in casa». «Bene!» Jim sputò. «Sei un odioso predicatore battista, tu!» Attorno all’angolo rimbalzò una grossa palla di carta chiara che saltellò, poi si attaccò vibrando alle gambe di Jim. Jim afferrò la carta, ridendo, la strappò, la lasciò volar via! E smise di ridere. Guardando quella cosa pallida che frusciava e svolazzava tra gli alberi, i due ragazzi impallidirono, di colpo. «Aspetta un momento...» disse Jim, lentamente. All’improvviso si misero a gridare, a correre, a saltare. «Non strapparlo! Attento!» La carta batteva nelle loro mani come un tamburello. «Il ventiquattro ottobre prossimo!» Le loro labbra si mossero, sussurrando le parole scritte in caratteri rococò. «Cooger e Dark...» «Il luna park!» «Il ventiquattro ottobre! Domani!» «Non può essere» disse Will. «Tutti i luna park chiudono, dopo la Festa del Lavoro...» «E che cosa importa! Le mille e una meraviglia! Guarda! Mefistofele, il Bevitore di Lava! L’Uomo Elettrico! Il Mostro Mongolfiera!» «Un pallone!» disse Will. «La mongolfiera è un pallone.» «Mademoiselle Tarot!» disse Jim. «L’uomo perduto. La ghigliottina del demonio! L’Uomo Illustrato! Ehi!» «È soltanto un uomo tatuato.» «No!» Jim alitò tepore sulla carta. «È illustrato. È speciale. Guarda! Coperto di mostri!» Gli occhi di Jim scattarono. «Guarda! Lo Scheletro! Non è magnifico, Will? Non l’Uomo Scheletro, uno Scheletro vero! Guarda! La Strega della Polvere! Che cos’è la Strega della Polvere, Will?» «Una vecchia zingara sudicia...» «No!» Jim socchiuse gli occhi, immaginando. «Una zingara nata nella Polvere, cresciuta nella Polvere, che un giorno ritornerà Polvere. E c’è dell’altro: Il Labirinto degli Specchi egiziani! Guardate voi stessi moltiplicati per diecimila! Il Tempo della tentazione di sant’Antonio!» «La più Bella...» lesse Will. «... Donna del Mondo» finì Jim. Si guardarono in faccia. «È possibile che un luna park abbia La più Bella Donna del Mondo come attrazione, Will?» «Hai mai visto le donne dei luna park, Jim?» «Sembrano orsi. Ma perché questo volantino sostiene...» «Oh, sta’zitto!» «Sei arrabbiato con me, Will?» «No, è che... Prendilo!» *