mercoledì 29 marzo 2017



RICORDI. L'altalena
di Maria Grazia Nicolini 
Il collegio, oltre il cancello sovrastato dalla grande insegna “ARCA PACIS”, spalanca un parco, fitto di cedri e faggi, su erbosi dossi che a primavera si infiammano di rododendri. Ma a noi è vietato addentrarsi nei prati. Alla ricreazione è riservato il cortile sul retro, che scricchiola di ghiaia sotto le suole consunte delle suore.
Non riesco a perdonare la mamma per avermi rinchiusa qui dentro, tenendosi accanto il fratellino. Saper leggere, che era la mia gioia e il mio vanto, è diventata la mia sfortuna. Ho solo cinque anni, ma frequento la prima elementare.
Sto male in collegio. Perché, dicono le suore, io sono una bambina solitaria e caparbia. Non gioco con le altre, non parlo. Stringo in silenzio nel cuore la pena per l’abbandono di papà e attendo, ostinata, il suo ritorno dalla guerra.
Le suore hanno mani secche e visi di affilata durezza. Ci spingono nelle aule, nel refettorio, nel cortile, nella camerata, nella cappella. Sempre con la stessa fretta inflessibile. Chiudono il sole fuori dalle finestre lattiginose e parlano con la stessa voce implacabile delle aste che devono essere ben diritte o del castigo eterno. Le alunne disattente provano sul palmo delle mani il rigore della bacchetta.
Infiniti rosari domenicali nel sole che sparisce dietro i vetri della cappella. Le ave marie partono da Nazareth, passano per Betlemme, svoltano in Egitto, arrivano a Gerusalemme, per finire sul Golgota. Si contempla, in tutti i Misteri. E poi i canti delle suore, dolcissimi e tremendi, perché scavano dentro noi bambine la consapevolezza della domenica che si ripiega su se stessa cancellando la speranza di giochi all’aria aperta.
La notte, nel silenzio della camerata, interrotto solo dal brusio dei sogni delle mie compagne in camicia di flanella, tasto sotto il cuscino la fotografia di papà in divisa di ufficiale e sorrido nel buio.
Solo una cosa mi piace del collegio: l’altalena. E’ stata messa in uno spiazzo erboso, in fondo al cortile, quasi sotto il muro di cinta, tra due ippocastani. E’ permesso salirvi soltanto la domenica, dopo la Messa. Ancora con i fiocchi festivi nei capelli, ci dobbiamo mettere in fila e aspettare ordinatamente il nostro turno. Ci toccano cinque minuti a testa. In silenzio, mi concentro sulla gioia dell’attesa. Quando salgo sull’altalena sono una freccia tesa verso il cielo. Dopo la prima spinta sono già in piedi, le ginocchia piegate per accelerare il movimento, su, sempre più su, nel fitto dei rami. Non rispetto il tempo del cambio, indifferente alle proteste delle compagne, ligie alle regole. Nell’ebbrezza del volo, stacco le mani dalle corde. E’ in quel momento che arriva, inaspettata, la spinta di ignote mani indispettite. Priva di appigli, volo oltre il muro di cinta. Non ho neppure il tempo di provare paura. Solo lo stupore di trovarmi in aria fra le fronde e, subito dopo, a terra, poco più che contusa.
Poi, un accorrere di monache. Rosari stretti da mani convulse, crocifissi che battono sui petti, veli scompaginati dalla corsa che lasciano intravedere teste di capelli mal rasati.
La madre Superiora è assente, ma le suore, che mi accompagnano in infermeria strattonandomi, parlano del suo prossimo ritorno come di una minaccia oscura. Mi aspetto una sgridata, una probabile punizione. Non sono preparata a un distillato di gelida cattiveria.
<<Sei ostinata e disubbidiente- dice la Superiora -. Non rispetti le regole, non fai amicizia con le tue compagne. Sei superba e presuntuosa. Stai attenta. Il ritorno di tuo padre dalla guerra te lo devi guadagnare..>>
Esco, nel sole, schiacciata da un peso troppo grande. La colpa mi si ingigantisce dentro, occupando gli spazi segreti della gioia e della speranza. Nel buio che mi invade c’è solo una piccola luce: la Madre Superiora non ha revocato il mio fine-settimana in famiglia. Fra poco verrà la nonna..
Aspetto, seduta sulla panchina di pietra del cortile, le compagne curiose e malevole, che mi ronzano attorno con sguardi di soddisfatto compatimento.
Mi chiamano. La nonna è nell’andito. La suora, che si allontana col viso contrito, certo l’ha già informata dell’accaduto. La nonna spalanca le braccia e io corro verso di lei, i singhiozzi che mi scuotono, il dolore che dilaga e mi sommerge.
<<Nonna,- dico a precipizio –papà non torna più dalla guerra. Io sono stata cattiva e Gesù lo ha fatto morire.>>
E’ la nonna, adesso, a tremare. Si inginocchia, mi abbraccia.
<<No, bambina, no. Gesù non è vendicativo. E’ un padre buono. Chiedigli perdono, se pensi di avere sbagliato. Ma poi appoggia la testa sul Suo cuore come faresti col tuo papà e lasciati consolare..>>
Ce ne andiamo, nonna e nipotina, fuori dal collegio, giù per la strada bianca verso il lago. Stringo la mano della nonna, rasserenata. In me si fa di nuovo strada la speranza fiduciosa dell’attesa. La nonna, invece, ha il cuore lacerato. Tre figli sono ancora lontani, in guerra. Può sempre arrivare una ferale notizia..