PASTORALE AMERICANA
Philip Roth
Recensione
Vale Flip
Questo è un libro che "ti prende", ti affascina ma non nel senso usuale del termine...
Tiene col fiato sospeso? Forse, ma non solo. Ti incatena, direi. Perché c'è la storia di un paese, la vita di una famiglia, la tragedia di una guerra terribile, la reazione(abnorme) di giovani menti e lo strazio di chi, suo malgrado, si trova coinvolto e "tradotto" in un vortice d'amore e di ribellione.
Una guerra terribile(come lo sono tutte), un grande paese, una coscienza dell'errore che porta con sé ribellione ed altro/i errore/i; quello che rimane è un grande affresco, un po' come Guernica.
Roth presenta un uomo perfetto, un paese perfetto, entrambi sembrano compatti, inossidabili...invece, in entrambi finiscono col prodursi delle crepe, zone di discontinuità che creano dissonanze forti all'interno della struttura.
Il libro procede illuminando a tratti determinati scenari, come un faro puntato su momenti diversi della vita americana.
L'uomo perfetto è quello che chiamano lo Svedese, di famiglia ebraica, americano di terza generazione, perfettamente inserito nel contesto sociale, anzi molto stimato per le sue virtù sportive e per il suo modo di essere nelle relazioni ; attorno a lui si dipana tutto l'incedere del libro.
Vittorie sportive, successi lavorativi, matrimonio perfetto...sembra che a lui sia concesso d'arrivare ad ogni traguardo.
Ha una figlia, amatissima, e qui sta il suo problema, la spina che dissesterà il suo magnifico castello. Perché Merry è figlia del suo tempo, dove i problemi agitati sono la guerra del Vietnam e lo scandalo del Watergate;
un tempo in cui la protesta di alcuni gruppi di giovani diventa violenta. E Merry in questa ribellione diventa parte attiva. Giusta ribellione ? Certo. Inevitabile deriva verso una violenza estrema ? Proprio no, così sembra ai più. I momenti del dramma si evidenziano non solo all'interno della famiglia, ma anche all'interno del gruppo sociale in cui questa è inserita.
Il libro percorre il dramma del padre, il dissesto di una vita; ma come sappiamo le rotture vengono alla fine ri-saldate, i crateri vengono in qualche modo ripianati così che la vita riprenda il suo corso; anche se l'orrore, messo in ombra, rimane.
È un libro che arricchisce. Molto bravo anche il traduttore.
PASTORALE AMERICANA
PARTE PRIMA
Paradiso ricordato
I
Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo. Era magico il nome, come l’eccezionalità del viso. Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inerte maschera
vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov.
Lo Svedese brillava come estremo nel football, pivot nel basket e prima base nel baseball. Soltanto la squadra di basket combinò qualcosa di buono (vincendo per due volte il campionato cittadino con lui come marcatore principale), ma per tutto il tempo in cui eccelse lo Svedese il destino delle nostre squadre sportive non ebbe troppa importanza per una massa studentesca i cui progenitori - in gran parte poco istruiti, ma molto carichi di preoccupazioni -veneravano il primato accademico più di ogni altra cosa. L’aggressione fisica, anche se dissimulata da tenute sportive e norme ufficiali, e priva dell’intento di nuocere agli ebrei, non era tradizionalmente una fonte di soddisfazione nella nostra comunità; i buoni voti sì. Ciononostante, grazie allo Svedese, il quartiere cominciò a fantasticare su se stesso e sul resto del mondo, così come fantastica il tifoso di ogni paese: quasi come i gentili (come esse immaginavano i gentili), le nostre famiglie poterono dimenticare come andavano realmente le cose e
fare di una prestazione atletica il depositario di tutte le loro speranze. In primo luogo, poterono dimenticare la guerra.
L’assunzione di Levov lo Svedese a domestico Apollo degli ebrei di Weequahic si può spiegare meglio, credo, con la guerra contro i tedeschi e i giapponesi e le paure che essa generò. Con lo Svedese che furoreggiava sul campo da gioco, l’insensata superficie della vita forniva una specie di bizzarro, illusorio sostentamento, il felice abbandono a una svedesiana innocenza, per coloro che vivevano nella paura di non rivedere mai più i figli, i fratelli o i mariti.
E che effetto ebbe su di lui questa glorificazione, la santificazione di ogni gancio che andava a canestro, di ogni passaggio che prendeva al volo, di ogni battuta bassa e tesa che fruttava due basi alla squadra? Era questo a fare di lui il ragazzo posato e impassibile che era? O la sobrietà da persona matura era la manifestazione di una dura lotta interiore per tenere a freno il narcisismo che un’intera comunità alimentava col proprio affetto? Le ragazze pon-pon della scuola avevano un urrà apposta per lo Svedese.
Diversamente dalle altre grida, destinate a incitare la squadra o galvanizzare gli spettatori, questo era un omaggio ritmico e cadenzato riservato esclusivamente a lui, pura e semplice espressione di entusiasmo per la sua perfezione. L’urlo delle ragazze pon-pon faceva tremare la palestra durante gli incontri di pallacanestro ogni volta che lo Svedese si impadroniva di un rimbalzo o segnava un punto, spazzava il nostro lato dello stadio durante le partite di football ogni volta che lui guadagnava un metro o intercettava un passaggio. Anche ai poco seguiti incontri di baseball casalinghi di Irvington Park, dove non c’erano squadre di ragazze pon-pon ansiosamente inginocchiate ai bordi del campo, lo si udiva salire, debolmente, dal manipolo dei tifosi di Weequahic appollaiati sulle tribune di legno, e non soltanto quando lo Svedese stava per battere, ma anche quando non faceva altro che una normale eliminazione in prima base. Era un grido formato da dodici sillabe, sei delle quali costituivano il suo nome, e faceva così: Ta-ta-ta-ta-ta-tà! Ta-ta-ta-ta-ta-ta... Ta-tà! E il ritmo, soprattutto durante i match di football, diventava
sempre più veloce a ogni ripetizione finché, al colmo dell’adorante frenesia, le dieci ragazze pon-pon facevano la ruota, gonfiando le gonnelle in un’esplosione estatica, e le loro calzamaglie da ginnastica arancione lampeggiavano come fuochi artificiali davanti ai nostri occhi stupiti... E non per amor vostro o per amor mio, ma per amore del magnifico Svedese. - Seymour Levov! Rima con... «Love!»... Seymour Levov! Rima con... «Love!»
Sì, ovunque apparisse, la gente era innamorata di lui. I proprietari dei negozi di dolciumi assediati da noi ragazzi ci apostrofavano dicendo: - Ehi, tu! No! - oppure: - Giù le mani! - Lui lo chiamavano, rispettosamente, «Svedese». I genitori sorridevano e lo chiamavano bonariamente «Seymour». Le ragazze chiacchierine che incontrava per la strada fingevano di svenire, e la più audace gli gridava: - Torna indietro, torna indietro, Levov della mia vita! - E lui lasciava fare, girava per il quartiere che lo inondava di tutto quell’amore, e sembrava non provare nulla. Contrariamente a tutti i nostri sogni a occhi aperti sull’effetto di un’adulazione così assoluta, acritica e
idolatra, pareva che l’amore prodigato per lo Svedese in realtà lo svuotasse di ogni sentimento. In questo ragazzo abbracciato da tanta gente come simbolo di speranza - come l’incarnazione della forza, della decisione e del valore baldanzoso che alla fine avrebbero avuto la meglio, permettendo ai ragazzi della nostra scuola che erano sotto le armi di tornare a casa illesi da Midway, Salerno, Cherbourg, dalle Salomone, dalle Aleutine, da Tarawa - sembrava non esistere una goccia di spirito o d’ironia che interferisse col dono prezioso della sua responsabilità.
Ma lo spirito o l’ironia, per un ragazzo come lo Svedese, sono solo intoppi al suo passo spedito: l’ironia è una consolazione della quale non hai proprio bisogno quando tutti ti considerano un dio. Oppure c’era tutto un lato della sua personalità che lo Svedese nascondeva,o questa cosa era ancora in embrione o, più verosimilmente, mancava. Il suo distacco, la sua apparente passività come oggetto di desiderio di tutto questo amore asessuato, lo facevano apparire, se non divino, di molte spanne al di sopra della primordiale umanità di quasi tutti gli altri
frequentatori della scuola. Era incatenato alla storia, era uno strumento della storia, al centro di una passione che forse non ci sarebbe mai stata se lo Svedese avesse battuto il record di basket di Weequahic - segnando ventisette punti contro Barringer - in un giorno diverso dal triste, tristissimo giorno del 1943 in cui cinquantotto fortezze volanti furono abbattute dai caccia della Luftwaffe, due caddero sotto i colpi della contraerea e altre cinque precipitarono dopo aver attraversato la Manica di ritorno da un bombardamento sulla Germania.
Il fratello minore dello Svedese era un mio compagno di classe, Jerry Levov, un ragazzo con la testa piccola, magrissimo e flessibile come una stecca di liquirizia, una specie di mago della matematica; lo studente cui venne affidato l’incarico di tenere il discorso di commiato dal liceo nel gennaio del 1950. Pur non essendo mai stato veramente amico di nessuno, Jerry, nel suo modo irascibile e impetuoso, con gli anni prese a interessarsi di me, e fu così che io finii, dai dieci anni in poi, per essere regolarmente battuto da lui a ping pong nello scantinato
rifinito della villetta monofamiliare dei Levov, all’angolo tra Wyndmoor e Keer: con la parola «rifinito» intendo dire che era rivestito di pino nodoso, incivilito cioè, e non, come Jerry sembrava pensare, che lo scantinato fosse il luogo ideale per «finire» un altro ragazzo.
La violenza dell’aggressività di Jerry al tavolo da ping pong superava quella di suo fratello in ogni sport. Per forma e misura la pallina da ping pong è fatta, brillantemente, in modo tale da non poterti cavare un occhio. Altrimenti, non avrei mai giocato nello scantinato di Jerry Levov. Se non fosse stato per la possibilità di dire alla gente che mi aggiravo in casa di Levov lo Svedese, nessuno mi avrebbe convinto a scendere in quello scantinato con una racchetta di legno come unica difesa. Nessun oggetto che pesi così poco come una pallina da ping-pong può essere letale, eppure, quando Jerry la colpiva, l’omicidio non doveva essere lontano dalla sua mente. Non avevo mai pensato che questo sfoggio di violenza potesse avere qualcosa a che fare con ciò che significava, per lui, essere il fratello minore di Levov lo
Svedese. Poiché non riuscivo a immaginare nulla di meglio che essere il fratello dello Svedese (tolto il fatto di essere lo Svedese), non capivo come per Jerry potesse essere difficile immaginare qualcosa di peggio.
La camera da letto dello Svedese - dove non ebbi mai il coraggio di entrare, ma che mi fermavo a spiare dalla porta quando andavo nel bagno davanti alla stanza di Jerry - era rincantucciata nella parte posteriore della casa. Con il soffitto inclinato e i lucernari e i gagliardetti di Weequahic alle pareti, per me aveva l’aria di quella che doveva essere la vera stanza di un ragazzo. Dalle due finestre che davano sul prato posteriore si vedeva il tetto del box dei Levov, dove lo Svedese, alle elementari, d’inverno si allenava a battere, colpendo una palla da baseball fissata col nastro adesivo a una corda che pendeva da una trave: un’idea che poteva avere preso da un romanzo sul baseball di John R’ Tunis, Il ragazzo di Tomkinsville. Mi imbattei in quel libro, e in altri libri sul baseball di Tunis (Il duca di ferro, Il duca decide, La scelta del campione, I ragazzi di Keystone, Il novellino dell’anno), vedendoli nella nicchia
di fianco al letto dello Svedese, tutti allineati in ordine alfabetico tra due massicci reggi libri di bronzo che gli erano stati regalati per il barmitzvah (1. La cerimonia con cui si celebra l’arrivo del ragazzo ebreo ai tredici anni, l’età della responsabilità [N’d’T’].), copie in miniatura del Pensatore di Rodin. Andai immediatamente in biblioteca a prendere in prestito tutti i libri di Tunis che riuscii a trovare e iniziai con il Ragazzo di Tomkinsville, un libro duro, avvincente, scritto con semplicità, qua e là monotono ma diretto e dignitoso; il ragazzo del titolo, Roy Tucker, un lanciatore giovane e perbene, proveniente dalle colline del Connecticut rurale, è rimasto orfano di padre a quattro anni e orfano di madre a sedici, e aiuta la nonna a sbarcare il lunario lavorando di giorno nella fattoria della famiglia e di sera, in città, all’«emporio di Mackenzie, all’angolo della South Main».
Il libro, pubblicato nel 1940, aveva dei disegni in bianco e nero che, con qualche distorsione espressionistica e una dose sufficiente di perizia anatomica, illustravano abilmente la durezza della vita del ragazzo prima che il gioco del baseball fosse illuminato da un milione di
statistiche, quando ancora riguardava i misteri del destino terreno, quando i giocatori delle Major Leagues (2. I due principali campionati di baseball degli Stati Uniti, la National League e l’American League [N’d’T’].) somigliavano più a operai magri e affamati che a ragazzoni in salute. I disegni parevano usciti dalla cupa austerità dell’America della Grande Crisi. Ogni dieci pagine o giù di lì, per descrivere succintamente un momento drammatico della storia («Riuscì a metterci un po’ di energia», «È volata fuori dal recinto», «Razzle sitrascinò zoppicando fino alla panchina»), c’è l’immagine nerastra, a grosse macchie d’inchiostro, di uno scheletrico giocatore di baseball, nitidamente profilato sulla pagina bianca, isolato, come l’anima più solitaria della terra, sia dalla natura che dall’uomo, o ambientato nell’ombreggiata simulazione dell’erba di un campo sportivo, che si tira dietro la magra statuetta di un’ombra vermiforme. È poco affascinante anche nella divisa da giocatore di baseball; se è il lanciatore, la sua mano guantata sembra una zampa; e ciò che le immagini dimostrano con la massima chiarezza, una dopo l’altra, è che giocare nelle Major Leagues, per
eroico che possa apparire, è solo un lavoro di diverso genere, massacrante e poco remunerativo.
Il ragazzo di Tomkinsville avrebbe potuto benissimo chiamarsi L’agnello di Tomkinsville, o addirittura L’agnello di Tomkinsville condotto al mattatoio. Nella carriera del ragazzo come novellino armato di entusiasmo in una squadra dei Brooklyn Dodgers che si trova all’ultimo posto in classifica, ogni trionfo viene compensato da un’amara delusione o da un terribile incidente. Un solido legame si crea tra il ragazzo solitario che soffre di nostalgia e l’anziano ricevitore dei Dodgers, Dave Leonard, che gli insegna con successo i trucchi delle Major Leagues e che «con i fermi occhi castani da dietro la pedana» lo guida durante la partita permettendogli di non lasciare agli avversari una sola battuta valida. Ma il legame si spezza brutalmente dopo sei settimane dall’inizio della stagione, quando il vecchio viene tolto all’improvviso dalla rosa dei titolari. «Ecco una velocità di cui non parlavano spesso nel baseball: la velocità con cui un giocatore sale... e scende». Poi, vinta la quindicesima
partita consecutiva (un record, per una recluta, che nessun lanciatore di nessuna delle due Leagues ha mai battuto), il ragazzo viene urtato sotto la doccia e fatto cadere accidentalmente dai turbolenti compagni di squadra che scherzano dopo la grande vittoria, e la lesione al gomito riportata nella caduta pone fine alla sua carriera di lanciatore. Il ragazzo passa il resto dell’anno in panchina, sostituendo i compagni in pedana per la forza che mostra nella battuta, e poi, durante un inverno pieno di neve - tornato nel Connecticut a trascorrere i giorni alla fattoria e le sere nell’emporio; celebre, ormai, ma sempre l’adorato nipotino della nonna -, si allena da solo, con assiduità, seguendo le direttive di Dave Leonard, per imparare a battere orizzontalmente («La tendenza a tenere bassa la spalla destra, e a battere dal basso in alto, era il suo peggior difetto»), sospendendo una palla da baseball a una funicella nel fienile e colpendola nelle fredde mattine d’inverno con «la sua amata mazza» fino a coprirsi di sudore. «“Toc!...” Il suono netto e dolce di una mazza che colpisce in pieno la palla». Per la stagione successiva il
ragazzo è pronto a tornare nei Dodgers come veloce esterno destro, si classifica al secondo posto come battitore con la media di 0,325 e porta la sua squadra sul filo del traguardo. L’ultima giornata della stagione, in un match contro i Giants, che sono al primo posto solo per mezza partita, il ragazzo guida i Dodgers all’attacco e, durante il quattordicesimo inning (con due eliminati, due in base e i Dodgers in testa grazie a un punto segnato dal ragazzo con una corsa audace e particolarmente vigorosa), salva definitivamente la partita prendendo la palla al volo prima che superi il muro di cinta del campo. Questa impresa temeraria e formidabile proietta i Dodgers nella World Series e lascia il ragazzo «a torcersi, soffrendo le pene dell’inferno, sul prato verde nel centro destra del campo». Tunis conclude così: «Il buio si addensava sulla massa dei giocatori, sull’immensa folla che sciamava sul campo, su un paio di uomini che passavano tra la gente trasportando una forma inerte in barella... Si udì uno scoppio di tuono. La pioggia cadeva sul Polo Grounds».
La pioggia cadeva, cadeva, uno scoppio di tuono, e così termina questo Libro di Giobbe per ragazzi.
Avevo dieci anni e non avevo mai letto nulla di simile. La crudeltà della vita! L’ingiustizia! Non ci potevo credere. Il giocatore riprovevole dei Dodgers è Razzle Nugent, grande lanciatore, ma ubriacone e testa calda, un bullo prepotente e ferocemente invidioso del ragazzo. Eppure non è Razzle che portano via, «inerte», in barella, ma il migliore di tutti, l’orfano, il ragazzo di campagna, modesto, serio, casto, leale, ingenuo, ardimentoso, laborioso, educato, coraggioso, un atleta brillante, un ragazzo bello e austero. Non occorre dire che, ai miei occhi, il ragazzo e lo Svedese erano la stessa persona. E mi chiedevo come avesse fatto, lui, a leggere un libro che mi aveva tolto il sonno, lasciandomi col pianto in gola. Se avessi avuto il coraggio di abbordarlo gli avrei chiesto se, secondo lui, il finale significava che il ragazzo era finito, o se invece esisteva la possibilità di un ritorno. La parola «inerte» mi terrorizzava. Il ragazzo era stato ucciso dall’ultima presa dell’anno? Lo Svedese lo sapeva? Gliene
importava qualcosa? Aveva forse pensato che, se poteva distruggere il ragazzo di Tomkinsville,il disastro avrebbe potuto abbattersi anche sul grande Svedese? O quel libro su una stella selvaggiamente e ingiustamente punita – un libro su un innocente enormemente dotato il cui peggior difetto è la tendenza a tenere la spalla destra troppo bassa e a colpire dal basso in alto, ma che il cielo tonante distrugge lo stesso - era solo unlibro fra i tanti tenuti dritti dai reggilibri del Pensatore sopra la sua mensola?
Keer Avenue era il posto dove abitavano gli ebrei ricchi. Perlomeno sembravano ricchi alla maggior parte delle famiglie in affitto nelle case da due, tre e quattro appartamenti con le verande di mattoni indispensabili per i giochi che facevamo dopo la scuola: i dadi, il blackjack e il battimuro, che durava fino a quando la palla di gomma da quattro soldi tirata spietatamente contro i gradini scoppiava e andava in pezzi. Lì, in quel reticolo di strade fiancheggiate da robinie in cui era stato diviso il podere
dei Lyons durante il boom dei primi anni Venti, gli ebrei di Newark della prima generazione non immigrata si erano raggruppati in una comunità che trovava la sua ispirazione più nel modello americano che nello shtetl (3. Villaggio [N’d’T’].) polacco ricreato dai loro genitori di lingua yiddish intorno a Prince Street, nell’impoverito Terzo Distretto. Gli ebrei di Keer Avenue, con i loro scantinati «rifiniti», le loro verande chiuse, le lastre di pietra sugli scalini, sembravano all’avanguardia, pronti a rivendicare come audaci pionieri lo standardizzante comfort americano. E all’avanguardia dell’avanguardia erano i Levov, che ci avevano dato lo Svedese, il ragazzo più simile a un goy (4. Gentile, non ebreo [N’d’T’].) che avremmo mai potuto avere.
Gli stessi Levov, Lou e Sylvia, erano genitori né più né meno riconoscibilmente americani di mio padre e di mia madre, che erano ebrei nati nel New Jersey, né più né meno raffinati, forbiti oeducati di loro. E questa, per me, era una grossa sorpresa. A parte la villetta monofamiliare di Keer Avenue, non c’erano, tra noi, divisioni come quella tra contadini e aristocrazia di cui stavo imparando a
scuola. La signora Levov era, come mia madre, una massaia ordinata, impeccabilmente cortese, una bella donna piena di riguardo per i sentimenti di tutti, capace di far sì che i suoi figli si sentissero importanti: una delle tante donne di quell’epoca che non sognarono mai di liberarsi della grande impresa domestica centrata sui figli. Dalla madre i due ragazzi Levov avevano ereditato le ossa lunghe e i capelli biondi, anche se, con i capelli più rossi, più crespi, e la pelle ancora giovane e lentigginosa, lei aveva un aspetto meno sorprendentemente ariano di loro, e la stranezza genetica era meno appariscente quando la incontravi nelle nostre strade.
Il padre era alto circa un metro e settanta: un uomo sottile, ancora più agitato e ansioso di mio padre. Il signor Levov era uno di quei padri ebrei cresciuti negli slum la cui visione delle cose rozza e incolta ha pungolato un’intera generazione di figli combattivi educati nei college: un padre per il quale ogni cosa è un incrollabile dovere, per il quale c’è la ragione e il torto e, in mezzo, nulla, un padre il cui miscuglio di ambizioni, pregiudizi e
convinzioni è talmente refrattario alla riflessione da rendere il tentativo di sfuggirgli più difficile di quello che sembra. Uomini limitati provvisti di un’energia illimitata; uomini pronti a esserti amici e altrettanto pronti a stufarsi di te; uomini per i quali la cosa più seria nella vita è andare avanti malgrado tutto. E noi eravamo i loro figli. Amarli era il nostro dovere.
Il fatto è che mio padre era un pedicure il cui ambulatorio fu, per anni, il soggiorno di casa nostra, e che guadagnava abbastanza per mantenere la famiglia, ma niente di più, mentre il signor Levov si era arricchito fabbricando guanti da donna. Suo padre - il nonno di Levov lo Svedese - era arrivato a Newark dalla madrepatria dopo il 1890 e aveva trovato lavoro come scarnatore delle pelli di montone appena estratte dal calcinaio, un ebreo solitario mescolato ai più rozzi immigrati slavi, irlandesi e italiani di Newark nella conceria di Nuttman Street del magnate delle pelli T.P. Howell, che allora era il nome nell’industria più antica e più grande della città, la concia e la produzione di
pelletteria. La cosa più importante nell’industria conciaria è l’acqua: pelli che girano in grossi bidoni pieni d’acqua, bidoni che sputano acqua sozza, tubi dai quali sgorga acqua calda e fredda, centinaia di migliaia di galloni d’acqua. Se c’è acqua dolce, acqua buona, puoi fare la birra e puoi conciare il pellame, e Newark faceva tutt’e due le cose: grandi distillerie, grandi concerie e, per gli immigrati, abbondanza di lavoro, umido, puzzolente, massacrante.
Il figlio Lou - il padre di Levov lo Svedese - andò a lavorare nella conceria dopo avere lasciato la scuola a quattordici anni per contribuire al mantenimento della famiglia di nove persone, e diventò esperto non soltanto nel tingere la pelle scamosciata spalmandovi sopra l’argilla colorante con una spazzola piatta e dura, ma anche nella scelta e nella classificazione delle pelli. La conceria, ch epuzzava sia di mattatoio sia di stabilimento chimico a causa della macerazione e della cottura della carne e della depilazione e del piclaggio e della sgrassatura delle pelli; dove d’estate, ventiquattr’ore su
ventiquattro, i soffioni d’aria calda che asciugavano le migliaia e migliaia di pelli stese portavano la temperatura sotto il soffitto basso dell’essiccatoio fino a cinquanta gradi; dove gli stanzoni delle vasche erano bui come caverne e inondati di risciacquatura; dove operai dall’aria disumana, coperti da pesanti grembiuli, armati di pertiche e di ganci, tirando e spingendo carrelli sovraccarichi, strizzando e stendendo pelli zuppe d’acqua, venivano sospinti come bestie attraverso quella tempesta di lavoro che era un turno di dodici ore; un posto sporco e puzzolente inondato d’acqua tinta di rosso e di nero e di blu e di verde, con pezzi di pelle sparsi sul pavimento, e bidoni di grasso, mucchi di sale, barili di solvente dappertutto: questi furono il liceo e l’università di Lou Levov. La cosa sorprendente non era che si fosse abbrutito. La cosa sorprendente era come riuscisse ancora, certe volte, a essere civile.
Alla Howell & Co. si laureò dopo i vent’anni per mettere in piedi, con due dei suoi fratelli, una piccola fabbrica di borsette specializzata in pelli di alligatore che
venivano acquistate da R.G. Salomon, il re di Newark del cuoio cordovano e il capofila nella concia dell’alligatore; per qualche tempo sembrò che l’impresa potesse prosperare, ma dopo la Grande Crisi la società colò a picco, facendo fallire i tre audaci e intraprendenti Levov. Qualche anno dopo nacque la Newark Maid Leatherware, e Lou Levov, ora per conto proprio, comprava pelletteria di seconda scelta - borsette, cinture e guanti difettosi - e la vendeva con un carretto nei weekend e porta a porta la sera. In fondo al Neck - la protuberanza semipeninsulare rappresentata dalla parte più orientale di Newark, dove si stabiliva in un primo momento ogni nuova ondata di immigrati, i bassipiani delimitati a nord e a est dal fiume Passaic e a sud dalle paludi salate - c’erano degli italiani che avevano fatto i guantai in madrepatria e che cominciarono a lavorare per lui, a cottimo e a domicilio. Con le pelli fornite tagliavano e cucivano guanti da donna che Lou vendeva in tutto lo stato. Quando scoppiò la guerra, Lou Levov aveva un gruppo di famiglie italiane che tagliavano e cucivano guanti di capretto in un solaio di
West Market Street. Era un’attività marginale, che rendeva poco, finché, nel 1942, arrivò la fortuna: un guanto nero, in pelle di capretto foderata, ordinato dal Corpo delle Ausiliarie. Lou prese in affitto la vecchia fabbrica di ombrelli, un edificio di mattoni che aveva cinquant’anni, alto quattro piani e annerito dal fumo, all’angolo tra Central Avenue e la Seconda Strada, e poco dopo la comprò, affittando l’ultimo piano a una fabbrica di cerniere lampo. La Newark Maid cominciò a sfornare guanti, e ogni due o tre giorni il camion arrivava e li portava via.
Un motivo di giubilo ancora più grande del contratto governativo fu l’accordo con Bamberger. La Newark Maid strappò la commessa a Bamberger e diventò il maggiore produttore dei loro guanti da donna in seguito a un incredibile incontro tra Lou Levov e Louis Bamberger. A una cena in onore di Meyer Ellenstein, unico ebreo mai stato sindaco di Newark, un dirigente della Bam, avendo saputo che era presente il padre di Levov lo Svedese, andò a congratularsi con lui per la scelta del suo ragazzo da
parte del Newark News come migliore pivot di tutta la contea. Sempre attento a non lasciarsi sfuggire l’occasione di una vita (l’occasione di saltare tutti gli ostacoli e arrivare dritto al traguardo), Lou Levov lo persuase sfacciatamente a presentarlo, lì alla cena in onore di Ellenstein, al leggendario L. Bamberger in persona, il fondatore dei grandi magazzini più prestigiosi di Newark e il filantropo che aveva dato alla città il suo museo, un potente personaggio, tanto importante per gli ebrei del posto quanto Bernard Baruch per gli ebrei di tutta la nazione, grazie alla sua familiarità con Franklin Delano Roosevelt. Stando alle chiacchiere che in seguito si diffusero nel quartiere, quantunque Bamberger non avesse fatto altro che stringergli la mano e interrogarlo (sullo Svedese) per un paio di minuti al massimo, Lou Levov aveva osato dirgli in faccia: - Signor Bamberger, abbiamo la qualità, abbiamo il prezzo... Perché non possiamo vendervi i nostri guanti? - E prima della fine del mese la Bam aveva fatto un’ordinazione alla Newark Maid, la prima, di cinquecento dozzine di paia.
Alla fine della guerra la Newark Maid si era affermata - in non piccola parte grazie ai successi atletici di Levov lo Svedese – come uno dei nomi più stimati nel campo dei guanti da donna a sud di Gloversville, New York, il centro del commercio dei guanti, dove Lou Levov spediva col treno le sue pelli, attraverso Fultonville, per farle conciare dalla migliore conceria di guanti del settore. Poco più di dieci anni dopo, con l’apertura di una fabbrica a Portorico nel 1958, lo Svedese in persona sarebbe diventato il giovane presidente della società, andando avanti e indietro ogni mattina fino a Central Avenue dalla sua casa a una cinquantina di chilometri da Newark, fuori dai sobborghi: pioniere a corto raggio installato in una tenuta di quaranta ettari lungo una strada secondaria delle colline spopolate oltre Morristown, nella ricca e rurale Old Rimrock, New Jersey, molto lontano dalla conceria dove nonno Levov aveva mosso i primi passi in America, raschiando dalle pelli col trinciante il carniccio gommoso che nei grandi calcinai si era mostruosamente gonfiato fino al doppio dello spessore originario.
Nel giugno del ‘45, il giorno dopo aver preso il diploma a Weequahic, lo Svedese si era arruolato nel corpo dei marines, ansioso di non perdere le ultime battaglie. Corse voce che i suoi genitori fossero fuori di sé, e che avessero fatto di tutto per convincerlo a lasciare i marines per la marina. Anche se avesse superato il notorio antisemitismo dei marines, come pensava di sopravvivere all’invasione del Giappone? Ma lo Svedese non si lasciò dissuadere dall’affrontare la sfida patriottica e virile - sfida che, segretamente, si era posto subito dopo Pearl Harbor - consistente nell’andare a combattere come uno dei più duri tra i duri, se il paese fosse stato ancora in guerra quando lui avesse finito il liceo. Stava terminando l’addestramento a Parris Island, in South Carolina - dove si diceva che i marines sarebbero sbarcati sulle spiagge giapponesi il primo marzo del 1946 - quando fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Di conseguenza, lo Svedese passò il resto della ferma come «specialista della ricreazione» proprio a Parris Island. Faceva fare ginnastica al suo battaglione per mezz’ora ogni mattina prima di colazione,
organizzava incontri di pugilato per divertire le reclute un paio di sere la settimana, e per la maggior parte del tempo giocava nella squadra della base contro le squadre delle forze armate sparse nel Sud, basket per tutto l’inverno, baseball per tutta l’estate. Era da circa un anno in South Carolina quando si fidanzò con una ragazza cattolica di origine irlandese il cui padre, maggiore dei marines ed ex allenatore della squadra di football di Purdue, gli aveva procurato il comodo posto di istruttore per tenerlo a giocare a Parris Island. Vari mesi prima del suo congedo, suo padre fece un viaggio a Parris Island, si fermò per un’intera settimana nei pressi della base, in un albergo di Beaufort, e partì solo dopo che il fidanzamento con la signorina Dunleavy era stato rotto. Lo Svedese tornò a casa nel ‘47 per iscriversi all’Upsala College di East Orange, libero, a vent’anni, dal peso di una moglie cristiana, e ancor più affascinante ed eroico per essersi distinto come marine ebreo: niente di meno che istruttore, e nel campo di addestramento militare presumibilmente più duro della terra. È nel campo di addestramento che si
formano i marines, e Seymour Irving Levov aveva contribuito a formarli.
Sapevamo tutto questo perché la mistica dello Svedese continuava a vivere nei corridoi e nelle aule del liceo dove allora studiavo io. Ricordo di essere andato con gli amici due o tre volte, una primavera, al Viking Field di East Orange per vedere la squadra di baseball di Upsala giocare in casa, di sabato, una partita. Il loro asso pigliatutto - battitore e prima base - era lo Svedese. Trehomerun in un giorno contro il Muhlenberg. Ogni volta che in tribuna si vedeva un uomo con la giacca e il cappello ci scambiavamo un mormorio: - Uno scopritore di talenti! - Ero via, all’università, quando seppi da un compagno di scuola che abitava ancora nel quartiere che allo Svedese era stato offerto un contratto con una squadra della Double A Giant, ma che aveva rifiutato per entrare nell’azienda di suo padre. Più tardi appresi dai miei genitori delle nozze dello Svedese con Miss New Jersey. Prima di concorrere ad Atlantic City per il titolo di Miss America 1949, era stata Miss Contea di Union, e prima ancora Reginetta di
Primavera a Upsala. Eradi Elizabeth. Una shiksa (5. Ragazza non ebrea [N.d.T.]). Dawn Dwyer. Lo Svedese ce l’aveva fatta.
Una sera d’estate del 1985, di passaggio a New York, andai a vedere i Met giocare contro gli Astro e, mentre giravo intorno allo stadio con gli amici in cerca dell’ingresso per raggiungere i nostri posti, vidi lo Svedese, di trentasei anni più vecchio di quando l’avevo visto giocare a baseball per l’Upsala. Indossava una camicia bianca, una cravatta a righe e un completo estivo color antracite, ed era ancora straordinariamente bello. I suoi capelli d’oro si erano un po’ scuriti, ma non diradati; non erano più corti, ma gli cadevano in ciocche piuttosto abbondanti sulle orecchie e sul colletto. Con quell’abito che gli stava a pennello sembrava ancora più alto e più snello di come lo ricordavo nell’uniforme di questa o quella squadra sportiva. La donna che era con noi fu la prima a notarlo. - Chi è quello? È... È... È John Lindsay? -
chiese. - No, - dissi io. - Mio Dio. Sai chi è? È Levov lo Svedese -. Agli amici dissi: - È lo Svedese!
Un ragazzino magro e biondo di sette o otto anni camminava al suo fianco, un bambino con un berretto dei Met che si batteva il pugno nel guantone da prima base infilato, come una volta quello dello Svedese, nella mano sinistra. I due, chiaramente padre e figlio, stavano ridendo di qualcosa quando mi avvicinai e mi presentai. -Conoscevo tuo fratello a Weequahic.
- Tu sei Zuckerman? - rispose lui, stringendomi vigorosamente la mano. - Lo scrittore?
- Sono Zuckerman, lo scrittore.
- Certo, eri il grande amico di Jerry.
- Non credo che Jerry avesse grandi amici. Era troppo brillante per avere degli amici. Semplicemente mi distruggeva a ping pong nel vostro scantinato. Battermi a ping pong era molto importante per Jerry.
- Allora sei proprio tu. Mia madre dice: «Ed era un bambino così educato, così tranquillo, quando veniva a casa nostra». Sai chi è questo signore? - disse lo Svedese
al ragazzo. - L’uomo che ha scritto quei libri. Nathan Zuckerman.
Confuso, il ragazzino si strinse nelle spalle e mormorò: - Ciao.
- Ti presento mio figlio Chris.
- Questi sono degli amici, - dissi, facendo un gesto ampio col braccio per presentare le tre persone che erano con me. - E quest’uomo, - dissi loro, - è il più grande atleta nella storia del liceo di Weequahic. Un autentico virtuoso di tre sport. Giocava prima base come Hernandez... Pensate. Batteva delle splendide palle tese. Sai? - dissi a suo figlio, - tuo padre era il nostro Hernandez.
- Hernandez è mancino, - rispose lui.
- Beh, è l’unica differenza, - dissi a quel piccolo pignolo, e tesi la mano a suo padre. - È stato un piacere rivederti, Svedese.
- Anche per me. Stammi bene, Skip.
- Salutami tuo fratello, - dissi.
Rise, ci separammo, e qualcuno mi disse: - Guarda, guarda, il più grande atleta nella storia del liceo di Weequahic ti ha chiamato «Skip».
- Lo so. Non riesco a crederci -. Ed effettivamente mi sembrava di toccare il cielo con un dito com’era successo quando, a dieci anni, lo Svedese aveva mostrato di conoscermi così bene da chiamarmi col nomignolo che mi avevano affibbiato per le due classi che avevo saltato alle elementari (6. Skip significa appunto «saltare» [N.d.T.]).
A metà del primo inning la donna che era con noi si rivolse a me e disse: - Avresti dovuto vedere la tua faccia... Tanto valeva che ci dicessi che era Dio. Ho visto esattamente la faccia che avevi da ragazzo.
La lettera che segue mi arrivò, tramite il mio editore, un paio di settimane prima del Memorial Day del 1995.
Caro Skip Zuckerman,
mi scuso per l’incomodo che potrebbe causarti questa lettera. Forse non ricorderai il nostro incontro allo Shea
Stadium. Io ero con il mio figlio maggiore (oggi matricola universitaria) e tu eri andato con alcuni amici a vedere i Met. È successo dieci anni fa, al tempo di Carter-Gooden-Hernandez, quando si potevano ancora vedere i Met. Oggi non è più possibile.
Ti scrivo per chiederti di incontrarci per fare quattro chiacchiere. Sarò lieto di invitarti a cena a New York, se me lo permetterai.
Mi prendo la libertà di proporti questo incontro per via di una cosa che ho pensato da quando è morto mio padre, l’anno scorso. Aveva novantasei anni ed è stato irascibile e combattivo fino alla fine. Questo ha reso ancora più difficile dargli l’ultimo addio, nonostante l’età avanzata.
Vorrei parlarti di lui e della sua vita. Ho cercato di scrivere qualcosa per ricordarlo, da pubblicare privatamente per gli amici, i parenti e i soci d’affari. Quasi tutti consideravano mio padre indistruttibile, un uomo con la pelle dura e una scorta di pazienza limitata. Niente di più lontano dalla verità. Non tutti sanno quanto ha sofferto per i colpi che si sono abbattuti sui suoi cari.
Ti prego di credere che capirò se non avrai il tempo di rispondere.
Tuo Seymour Levov «lo Svedese», Liceo di Weequahic 1945
Se qualcun altro mi avesse chiesto di parlarmi di qualcosa che stava scrivendo in omaggio a suo padre, gli avrei augurato buona fortuna e non me ne sarei occupato. Ma c’erano delle ragioni irresistibili perché io - in meno di un’ora - inviassi un biglietto allo Svedese per dirgli che ero a sua disposizione. La prima era questa: Levov lo Svedese vuole vedermi. Ridicolo, forse, per chi ha già un piede nella vecchiaia, ma mi era bastato vedere la sua firma in calce a quella lettera per essere assalito dai ricordi, ricordi dello Svedese in campo e fuori, ricordi che risalivano a cinquant’anni prima, ma che erano ancora affascinanti. Ricordavo di essere andato tutti i giorni al campo sportivo a vedere gli allenamenti l’anno in cui lo Svedese aveva accettato per la prima volta di entrare nella squadra. Sul campo da basket era già un virtuoso del gancio, un eccezionale marcatore, ma nessuno sapeva che
avrebbe potuto essere altrettanto magico sul campo da football fino al giorno in cui l’allenatore lo ingaggiò come estremo e la nostra squadra perdente, pur restando sempre in fondo alla classifica della City League, cominciò a segnare una, due e anche tre mete per incontro, tutte su lanci allo Svedese. Cinquanta o sessanta ragazzini si assiepavano ai bordi del campo per vedere lo Svedese che si allenava - con un malandato casco di cuoio e la maglia bruna col numero undici in arancione - nella squadra dell’università contro le matricole. Il quarterback dell’università, Lefty Leventhal, gli faceva un passaggio dopo l’altro («Lev-en-thal a Le-vov! Lev-en-thal a Le-vov!» era un anapesto che riusciva sempre a farci tornare ai tempi d’oro dello Svedese), e il compito della squadra delle matricole, che giocavano in difesa, era di impedire a Levov lo Svedese di segnare ogni volta. Ho passato i sessant’anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse prospettive che aveva da ragazzo, eppure l’incanto non si è mai dissipato del tutto, perché fino a oggi non ho dimenticato lo Svedese che, placcato dagli
inseguitori, si rialza lentamente, scrollandoseli di dosso, alzando lo sguardo ribelle al cielo autunnale, sospirando mestamente, e torna al piccolo trotto verso il gruppo dei compagni. Quando segnava, era un momento di gloria; e quando lo placcavano e lo mettevano giù senza tanti complimenti, e lui si raddrizzava scrollandosi di dosso gli avversari, era un altro momento di gloria, anche in allenamento.
E poi, un giorno, un po’ di quella gloria cadde sulle mie spalle. Avevo dieci anni, non ero mai stato sfiorato dalla grandezza e, senon fosse stato per Jerry Levov, non avrei mai colpito l’attenzione dello Svedese, non più di tutti gli altri spettatori ai bordi del campo. Jerry mi aveva appena accettato come amico; benché stentassi a crederlo, lo Svedese doveva avermi notato a casa sua. E così, un tardo pomeriggio d’autunno del 1943, quando tutta la squadra delle matricole gli piombò addosso dopo che aveva ricevuto un corto passaggio di Leventhal, e l’allenatore soffiò all’improvviso nel fischietto segnalando che per quel giorno bastava, lo Svedese, flettendo cautamente un
gomito mentre usciva dal campo un po’ di corsa e un po’ zoppicando, mi vide tra gli altri ragazzi e mi gridò: - Il basket è un’altra cosa, Skip.
Il dio (con tutti i suoi sedici anni) mi aveva accolto nell’olimpo degli atleti. L’adorato aveva riconosciuto l’adoratore. Naturalmente con gli atleti, come con gli idoli dello schermo, ogni ammiratore immagina di avere un rapporto segreto, personale; ma questo fu creato apertamente dalla meno vanitosa delle star, e davanti al rispettoso silenzio di una banda di ragazzi invidiosi: un’esperienza emozionante, che mi lasciò senza fiato. Arrossii, fremetti di gioia, verosimilmente non pensai ad altro per il resto della settimana. La finta autocommiserazione dell’atleta, la virile generosità, la principesca magnanimità, la soddisfazione del campione, così grande che ne può donare liberamente una parte alla folla... Questa munificenza non soltanto mi sommerse e si allargò dentro di me perché mi aveva raggiunto avvolta nel mio soprannome, ma si fissò nella mia mente come l’incarnazione di una cosa ancora più grande del talento
dello Svedese per gli sport: il talento che aveva di «essere se stesso», la capacità di essere questa strana forza che t’inghiottiva e di avere, tuttavia, una voce e un sorriso non offuscato dal minimo barlume di superiorità: la naturale modestia di chi non conosceva ostacoli, e sembrava non dover mai lottare per crearsi uno spazio tutto suo. Non credo di essere l’unico adulto che durante i patriottici anni della guerra - quando le speranze di tutto il nostro quartiere sembravano convergere verso lo splendido fisico dello Svedese - è stato un ragazzo ebreo che avrebbe voluto essere un ragazzo americano al cento per cento, e che per tutta la vita ha portato con sé il ricordo dello stile insuperabile di questo giovane dotatissimo.
Anche il suo essere ebreo - cosa che lui, atleta vincente, alto e biondo, prendeva con tanta indifferenza - deve averci suggerito qualche cosa: nel nostro idolatrare lo Svedese, e nel suo inconsapevole identificarsi con l’America, immagino ci fosse una sfumatura di vergogna e di rifiuto di sé. Era lui stesso a calmare, simultaneamente, i contrastanti desideri ebraici risvegliati dalla sua vista;
l’eterna contraddizione degli ebrei - che vogliono integrarsi e vogliono star fuori, che dicono di essere diversi e dicono di non essere diversi - si risolveva nel trionfale spettacolo di questo Svedese che era, in realtà, solo un altro dei Seymour del nostro quartiere, i cui progenitori erano stati dei Solomon e dei Saul, e che avrebbero generato degli Stephen, che a loro volta avrebbero generato dei Shawn. Dov’era, in lui, l’ebreo? Non riuscivi a trovarlo, eppure sapevi che c’era. Dov’era, in lui, l’irrazionalità? Dov’era, in lui, la pittima? Dov’erano le imprevedibili tentazioni? Nessuna astuzia. Nessun artificio. Nessuna malizia. Aveva eliminato tutto questo per raggiungere la perfezione. Né lotta, né ambivalenza, né doppiezza: soltanto lo stile, la naturale raffinazione fisica di una stella.
Solo... E la soggettività? Qual era la soggettività dello Svedese? Un substrato ci doveva essere, ma la sua composizione era inimmaginabile.
Questa fu la seconda ragione per cui risposi alla sua lettera: il substrato. Che tipo di esistenza mentale era stata
la sua? Cos’aveva minacciato, se una minaccia era esistita, di modificare la traiettoria dello Svedese? Nessuno passa attraverso la tristezza, il dolore, la confusione e la perdita senza restare segnato in qualche modo. Anche a quelli che da piccoli hanno avuto tutto toccherà, prima o poi, la loro quota d’infelicità; se non, certe volte, una quota maggiore. Nella vita dello Svedese doveva esserci stata la coscienza e doveva esserci stata la sventura. Eppure, non riuscivo a immaginare la forma presa dall’una e dall’altra, non riuscivo ancora a vedere dentro di lui: nel residuo della mia immaginazione adolescenziale ero sempre convinto che quella dello Svedese fosse stata una vita interamente priva di dolori.
Ma a cosa alludeva, in quella lettera guardinga e cortese, quando, parlando del padre defunto, un uomo non insensibile come credeva la gente, scriveva: «Non tutti sanno quanto ha sofferto per i colpi chesi sono abbattuti sui suoi cari»? No, un colpo doveva essersi abbattuto anche sulla vita dello Svedese. Ed era di questo che lui
voleva parlare. Non era la vita di suo padre che voleva mettere a nudo, era la sua.
Mi sbagliavo.
Ci incontrammo in un ristorante italiano sulla Quarantanovesima Strada, dove per anni lo Svedese aveva portato la famiglia ogni volta che venivano a New York a vedere uno spettacolo di Broadway o i Knickal Garden, e mi resi subito conto che raggiungere il substrato sarebbe stato tutt’altro che facile. Tutti, da Vincent, lo conoscevano bene: Vincent, la moglie di Vincent, Louie il maître, Carlo il barista, Billy il nostro cameriere, tutti conoscevano il signor Levov e tutti chiesero della signora e dei ragazzi. Saltò fuori che quando i suoi genitori erano vivi, lui li portava sempre da Vincent a festeggiare anniversari o compleanni. No, pensai, mi ha invitato qui solo per farmi vedere che nella Quarantanovesima Strada ovest lo ammirano come lo ammiravano in Chancellor Avenue.
Vincent è uno di quei ristoranti italiani vecchiotti annidati nelle strade del West Side tra il Madison Square Garden e il Plaza, ristorantini larghi tre tavoli e lunghi quattro lampadari, con arredamenti e menu che non sono quasi cambiati da prima della scoperta della rucola. Il televisore vicino al piccolo bar trasmetteva una partita di baseball, e ogni tanto un cliente si alzava, andava a dare un’occhiata, chiedeva al barista il punteggio, come stava giocando Mattingly, e tornava a sedersi davanti al piatto. Le sedie erano coperte di una plastica color turchese elettrico, le piastrelle del pavimento erano un salmone macchiettato, una parete era a specchio, i lampadari di ottone finto e, come ornamento, collocato in un angolo come un Giacometti, c’era un macina pepe rosso vivo alto un metro e mezzo (dono a Vincent, disse lo Svedese, della sua città natale), controbilanciato, nell’angolo opposto, da una damigiana di Barolo piazzata su un piedistallo come una statua. Un tavolo carico di vasetti della salsa marinara di Vincent era proprio davanti alla coppa delle mentine gratuite del dopo cena accanto al registratore di cassa della
signora Vincent; sul carrello dei dolci c’erano la millefoglie, il tiramisù, la torta a strati, la torta di mele e le fragole zuccherate; e dietro il nostro tavolo, sul muro, le foto con autografo («A Vincent e Anne, con amicizia») di Sammy Davisjr, Joe Namath, Liza Minnelli, Kaye Ballard, Gene Kelly, Jack Carter, Phil Rizzuto e Johnny e Joanna Carson. Avrebbe dovuto essercene una dello Svedese, naturalmente, e ci sarebbe stata se fossimo stati ancora in guerra con i tedeschi e i giapponesi e se di là dalla strada ci fosse stato il liceo di Weequahic.
Billy, il nostro cameriere, un uomo piccolo e tozzo con un naso da pugile, non dovette chiedere cosa voleva mangiare lo Svedese. Per più di trent’anni lo Svedese aveva ordinato a Billy la specialità della casa, ziti alla Vincent, preceduti da un piatto di frutti di mare Posillipo. - Gli ziti meglio cucinati di New York, - mi disse lo svedese, ma io ordinai il mio piatto preferito, pollo alla cacciatora, «disossato», come propose Billy. Mentre scriveva la nostra ordinazione, Billy disse allo Svedese che la sera prima Tony Bennett era andato a cena lì. La
sua voce, per un uomo dal fisico massiccio come Billy, un uomo che potevi immaginare intento a sollevare per tutta la vita qualcosa di più pesante di un piatto di ziti - stridula e intensa, tesa da un’angoscia sopportata troppo a lungo - fu insieme una sorpresa e un vero godimento. - Vede dov’è seduto il suo amico? Vede la sua sedia, signor Levov? Su quella sedia era seduto Tony Bennett -. A me disse: - Sa cosa dice Tony Bennett quando la gente si avvicina al suo tavolo e si presenta? Dice:«Piacere di conoscerla». E lei è seduto sulla sua sedia.
Lì finì il divertimento. D’ora in poi sarebbe stato lavoro.
Aveva portato le fotografie dei suoi tre ragazzi, e dall’aperitivo fino al dolce praticamente tutta la conversazione riguardò il diciottenne Chris, il sedicenne Steve e il quattordicenne Kent. Quale dei tre ragazzi riusciva meglio nell’hockey che nel baseball, ma doveva cedere alle insistenze dell’allenatore... Quale era bravo sia nel calcio sia nel football americano, ma non sapeva
decidersi...Quale era campione di tuffi, ma aveva battuto i record della scuola anche nella farfalla e nel dorso. Erano tre bravi studenti, tutti con ottimi voti; uno era ferrato in scienze, un altro era più «orientato nel sociale», mentre il terzo... eccetera. C’era una foto dei ragazzi con la madre, una bella bionda sulla quarantina, responsabile della pubblicità per un settimanale della contea di Morris. Ma aveva iniziato la carriera, aggiunse prontamente lo Svedese, solo quando il figlio minore era andato in seconda elementare. Erano fortunati, i suoi ragazzi, ad avere una mamma che preferiva stare a casa ad allevare i figli piuttosto che...
Rimasi colpito, mentre mangiavamo, da come sembrava sicuro di tutti i luoghi comuni che diceva, e da come tutto quello che diceva fosse soffuso di melensaggine. Continuavo ad aspettare che dicesse qualcosa in più di queste ineccepibili banalità, ma tutte quelle che venivano a galla erano altre balordaggini. Al posto dell’anima, pensavo, ha l’affabilità: quest’uomo la irradia da ogni poro. Per sé stesso ha ideato un incognito, e l’incognito è
diventato lui. Parecchie volte, durante il pasto, pensai che non ce l’avrei fatta, pensai che non sarei arrivato al dolce se lui avesse continuato a tessere gli elogi della sua famiglia e a tessere gli elogi della sua famiglia e...Finché cominciai a domandarmi se il problema non fosse un altro: non era in incognito, era pazzo.
Sopra di lui c’era qualcosa che gli aveva intimato l’alt. Qualcosa lo aveva trasformato in un’insulsaggine umana. Qualcosa lo aveva messo in guardia: non opporti a nulla.
Lo Svedese, che aveva sei o sette anni più di me, era prossimo alla settantina, e tuttavia non era meno splendido per le rughe agli angoli degli occhi e, sotto i promontori degli zigomi, per due cavità che erano un po’ più profonde di quanto richiedessero i classici modelli della virilità maschia e vigorosa. Attribuivo la sua magrezza a un regime di jogging metodico o di tennis giocato seriamente, finché, verso la fine del pasto, scoprii che durante l’inverno era stato operato alla prostata e che stava appena cominciando a recuperare il peso perduto. Non so se a sorprendermi di più fu il sapere che non era stato bene o il
fatto che me lo avesse confessato. Mi chiedevo persino se ad alimentare la mia impressione di una persona mentalmente instabile non fosse la recente esperienza della chirurgia con i suoi effetti secondari.
A un certo punto lo interruppi e, cercando di non mostrare in alcun modo la mia disperazione, gli chiesi della ditta: com’era, al giorno d’oggi, dirigere una fabbrica a Newark? Fu così che scoprii che la Newark Maid non era più a Newark dai primi anni Settanta. Tutta l’industria, in pratica, aveva preso il largo: i sindacati avevano reso sempre più difficile agli industriali realizzare profitti, non si riusciva più a trovare gente che accettasse di lavorare a cottimo, o di lavorare come volevi tu, e in altri paesi c’era una grande disponibilità di operai che potevano essere addestrati fin quasi ai livelli raggiunti dall’industria del guanto quaranta o cinquant’anni prima. Per molto tempo la sua famiglia aveva lavorato a Newark; per dovere verso i vecchi dipendenti, per la maggior parte neri, lo svedese aveva aspettato circa sei anni dopo i disordini del ‘67, aveva aspettato più che poteva, ignorando le realtà
economiche industriali e le invettive di suo padre, ma quando non era riuscito a fermare lo scadimento della qualità, deteriorata costantemente dopo i moti, aveva rinunciato, uscendo più o meno incolume dal disastro che aveva colpito la città. Nei quattro giorni di disordini la Newark Maid non aveva dovuto denunciare altro che qualche finestra rotta, mentre a cinquanta metri dal cancello del suo piano di caricamento, in West Market, due edifici erano stati distrutti dal fuoco e abbandonati.
- Tasse, corruzione e razzismo. La litania del mio vecchio. Con chiunque parlasse, gente che veniva da ogni angolo del paese e alla quale la sorte di Newark non poteva interessare meno, per lui non c’era nessuna differenza: che fosse giù a Miami Beach, nel condominio, o in crociera nei Caraibi, faceva a tutti una testa così sulla sua vecchia e adorata Newark, distrutta dalle tasse, dalla corruzione e dal razzismo. Mio padre era uno di quelli di Prince Street, di quelli che per tutta la vita hanno amato quella città. Quel che è successo a Newark gli ha spezzato il cuore.
- È la peggiore città del mondo, Skip, - stava dicendomi lo Svedese. - Una volta era la città dove si fabbricava di tutto. Adesso è la capitale mondiale dei furti d’auto. Lo sapevi? Non è il più orrido degli orridi sviluppi, ma è abbastanza raccapricciante. I ladri abitano per la maggior parte nel nostro vecchio quartiere. Ragazzi neri. Quaranta macchine rubate a Newark ogni ventiquattr’ore. Sono le statistiche. Neanche poche, no? E sono armi per commettere delitti: una volta rubate, diventano missili lanciati nello spazio. Il bersaglio è chiunque attraversi la strada: vecchi, bambini, non ha importanza. Lo spiazzo davanti alla nostra fabbrica era il circuito di Indianapolis, per loro. Ecco un’altra delle ragioni per cui siamo andati via. Quattro, cinque ragazzetti che si sporgono dai finestrini, in Central Avenue, a centotrenta chilometri l’ora. Quando mio padre comprò lo stabilimento, in Central Avenue c’erano i tram. Più avanti c’erano i saloni dei concessionari di automobili. Central Cadillac. Lasalle. In ogni traversa c’era una fabbrica dove qualcuno produceva qualcosa. Adesso in ogni strada c’è una
bottiglieria: una bottiglieria, una pizzeria e la facciata in rovina di una chiesa. Tutto il resto è crollato o chiuso con quattro assi inchiodate. Ma quando mio padre comprò la fabbrica, Kiler, a un tiro di sasso, faceva refrigeratori d’acqua, Fortgang allarmi antincendio, Lasky bustini, Robbins guanciali, Honig pennini... Cristo, parlo come mio padre. Ma aveva ragione lui. «Questo posto sta andando in malora», diceva. Oggi l’industria principale è il furto d’auto. Fermati a un semaforo di Newark, in una strada qualunque di Newark, e non devi far altro che guardarti intorno. Bergen, vicino a Lyons: ecco dove mi hanno speronato. Ti ricordi della pasticceria di Henry, vicino al Park Theater? Beh, proprio là dove una volta c’era Henry. Sono andato da Henry, ai tempi del liceo, con la prima ragazza della mia vita, a bere qualcosa. In uno dei suoi separè. Arlene Danziger. Dopo il cinema, per un Bianco e Nero. Ma bianco e nero non vuol dire più gazosa e gelato in Bergen Street. Vuol dire l’odio più terribile del mondo. Una macchina che va in senso contrario in una strada a senso unico, e mi viene addosso. Quattro
ragazzotti affacciati ai finestrini. Due scendono, ridendo, scherzando, e mi puntano una pistola alla testa. Gli do le chiavi e uno parte con la mia macchina. Proprio davanti al posto dove una volta c’era Henry. Una cosa orribile. Si gettano contro le macchine della polizia in pieno giorno. Scontri frontali. Per gonfiare gli air bag. Ciambelle. Hai sentito parlare delle ciambelle? Fare le ciambelle? Non hai mai sentito? È per questo che rubano le macchine. A tutta birra, inchiodano, tirano il freno a mano, girano il volante, e la macchina si mette a ruotare su se stessa. Girano in cerchio alla massima velocità. Ammazzare dei pedoni non significa niente, per loro. Ammazzare degli automobilisti non significa niente. Ammazzarsi non significa niente. Basta vedere i segni delle frenate per sentirsi rizzare i capelli in testa. Hanno ucciso una donna proprio davanti a casa nostra, la settimana in cui mi hanno rubato la macchina. Facendo una ciambella. Ero presente. Stavo uscendo per andare al lavoro. Una velocità spaventosa. Il motore che geme. Uno stridore impossibile. Una cosa terrificante. Mi ha gelato il sangue nelle vene. Stava
uscendo con la macchina dalla Seconda Strada, e questa donna, una ragazza nera, ci ha lasciato la pelle. Madre di tre bambini. Due giorni dopo è toccato a uno dei miei dipendenti. Un nero. Ma chi se ne frega, neri, bianchi, non gliene frega niente, a quelli. Ammazzerebbero chiunque. Si chiamava Clark Tyler, il mio spedizioniere. E cosa stava facendo? Usciva dal nostro parcheggio per andare a casa. Dodici ore d’intervento, quattro mesi d’ospedale. Invalidità permanente. Lesioni alla testa, lesioni interne, bacino fratturato, spalla fratturata, colonna vertebrale fratturata. Un inseguimento a tutta birra, un balordo su una macchina rubata con i poliziotti alle calcagna, e il ragazzo lo sperona, sfonda la portiera dalla parte del guidatore, e buonanotte a Clark. Centotrenta chilometri l’ora in Central Avenue. Il ladro ha dodici anni. Per vedere sopra il volante ha dovuto arrotolare i tappetini e metterseli sotto il sedere. Sei mesi a Jamesburg, ed è di nuovo al volante di una macchina rubata. No, per me era abbastanza. Mi rubano la macchina minacciandomi con le armi, storpiano Clark,
ammazzano quella donna... Quella settimana è stata decisiva. Basta.
La Newark Maid adesso produceva esclusivamente a Portorico. Per un po’, dopo aver lasciato Newark, lo Svedese aveva ottenuto delle commesse dal governo comunista della Cecoslovacchia e diviso il lavoro tra la sua fabbrica di Ponce, a Portorico, e una fabbrica di guanti ceca di Brno. Ma quando uno stabilimento adatto a lui era stato messo in vendita ad Aguadilla, sempre a Portorico, vicino a Mayagüez, si era sganciato dai cechi, che con la loro burocrazia lo avevano irritato fin dai primi giorni, e aveva unificato la propria attività comprando un secondo stabilimento a Portorico, un’altra fabbrica piuttosto grande, trasferendovi le macchine, varando un programma di formazione professionale e assumendo altre trecento persone. Negli anni Ottanta, però, anche Portorico cominciava a diventare troppo cara, e quasi tutti, tranne la Newark Maid, fuggirono in Estremo Oriente, dove la manodopera era abbondante ed economica, prima nelle Filippine, poi in Corea e a Taiwan, e ora in Cina. Persino i
guanti da baseball, i guanti più americani di tutti, che una volta erano fatti da amici di suo padre, i Denkert, su a Johnstown, nello stato di New York, già da molto tempo si fabbricavano in Corea. Quando il primo imprenditore lasciò Gloversville, New York, nel ‘52 o nel ‘53, e andò a fare guanti nelle Filippine, la gente rise di lui, come se stesse andando sulla luna. Ma quando morì, verso il 1978, in quel paese aveva una fabbrica con quattromila operai, e praticamente tutta l’industria si era trasferita da Gloversville nelle Filippine. A Gloversville, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, dovevano esserci circa novanta fabbriche di guanti, grandi e piccole. Oggi non ce n’è una: sono tutti a spasso o importano dall’estero. - Gente che non distingue una lanzetta da un pollice, - disse lo Svedese. - Sono uomini d’affari, sanno se hanno bisogno di centomila paia di questo e duecentomila paia di quello in questi colori e di queste misure, ma non conoscono i dettagli della produzione vera e propria. - Cos’è una lanzetta? - chiesi. - Il pezzo del guanto tra le dita. Quei pezzetti oblunghi tra le dita che si tagliano
insieme ai pollici: quelle sono le lanzette. Oggi c’è un mucchio di gente dequalificata, che forse non sa la metà di quello che sapevo io a cinque anni, ma che ogni giorno è costretta a prendere decisioni piuttosto importanti. C’è un tale che compra pelle di daino, roba che può arrivare a tre dollari e cinquanta cent il piede per la qualità da abbigliamento, compra questa pelle di daino da abbigliamento di ottima qualità solo per tagliare il pezzetto da applicare al palmo di un paio di guanti da sci. L’altro giorno parlavo con lui. Articolo di moda, un rettangolo di dodici centimetri per due, e lui paga tre e cinquanta il piede quando avrebbe potuto spendere un dollaro e cinquanta e guadagnarci su. Moltiplicalo per un ordine particolarmente grosso, diventa un errore da centomila dollari. E lui non se n’era mai accorto. Avrebbe potuto intascare cento bigliettoni.
Lo Svedese era rimasto a Portorico, mi spiegò, come prima era rimasto a Newark, in gran parte perché aveva insegnato a un mucchio di brave persone il difficile compito di confezionare un guanto meticolosamente e con
la massima cura, gente che poteva dargli ciò che la Newark Maid aveva ricercato in materia di qualità fin dai tempi di suo padre; ma era rimasto anche perché, doveva ammettere, la sua famiglia aveva una vera passione per la casa di villeggiatura che aveva fatto costruire una quindicina d’anni prima sulla costa caraibica, non molto lontano dalla fabbrica di Ponce. Come amavano, i ragazzi, la vita che facevano laggiù! E ripartì, Kent, Chris, Steve, lo sci d’acqua, la vela, la pesca subacquea, il catamarano... E anche se era chiaro, da tutto quello che mi aveva appena detto, che quest’uomo poteva essere simpatico, se voleva, altrettanto chiaramente mi sembrava che non avesse il minimo criterio per valutare cos’era interessante, nel suo mondo, e cosa non lo era. O, per ragioni che non riuscivo a spiegarmi, non voleva che il suo mondo fosse interessante. Avrei dato qualunque cosa per farlo tornare a Kiler, Fortgang, Lasky, Robbins e Honig, alle lanzette e alle minuziose spiegazioni su come si fabbrica un buon guanto, e persino a quel tale che aveva sborsato tre e cinquanta il piede per il tipo sbagliato di pelle di daino da
applicare a un articolo di moda, ma quando lo Svedese partì e innestò la quarta mi fu impossibile trovare un modo civile per fargli distogliere una seconda volta l’attenzione dai successi conquistati dai suoi ragazzi per terra e per mare.
Mentre stavamo aspettando il dolce, lo Svedese mi confidò di essersi concesso l’ingrassante zabaione sopra gli ziti solo perché, dopo essersi fatto togliere la prostata un paio di mesi prima, era ancora quattro chili sotto il suo peso forma.
- L’operazione è andata bene?
- Benissimo, - rispose.
- Un paio di amici miei, - dissi, - non sono usciti dalle mani del chirurgo come avevano sperato. Quell’operazione può essere una vera catastrofe per un uomo, anche se gli asportano il cancro.
- Sì, capita, lo so.
- Uno è diventato impotente, - dissi. - L’altro è impotente e incontinente. Persone della mia età. È stata dura, per loro. Desolante. Puoi essere costretto a usare il pannolone.
La persona che avevo chiamato «l’altro» ero io. Mi avevano operato a Boston, e - escluse le confidenze fatte a un amico di Boston che mi aveva aiutato in quel brutto momento fino al giorno in cui mi ero rimesso in piedi - quando ero tornato nella casa dove vivo da solo, due ore e mezzo a ovest di Boston, nei Berkshire, avevo creduto meglio tenere per me sia il fatto che avevo avuto il cancro sia i danni che mi aveva cagionato.
- Beh, - disse lo Svedese, - io me la sono cavata bene, credo.
- Direi proprio di sì, - risposi, abbastanza amabilmente, pensando che quella damigiana di autocompiacimento possedeva davvero tutto quanto avesse mai desiderato. Rispettare tutto ciò che si dovrebbe rispettare; non avere proteste da fare; non essere mai turbati dalla mancanza di fiducia in se stessi; non essere mai irretiti da qualche
ossessione, torturati dall’incapacità, avvelenati dal risentimento, trascinati dalla collera... La vita, per lo Svedese, si stava davvero srotolando come un morbido gomitolo di lana.
Questi pensieri mi riportarono alla sua lettera, alla richiesta di consigli professionali sull’omaggio a suo padre che stava cercando di scrivere. Non avevo nessuna voglia di tirar fuori l’argomento, ma il mistero perdurava: non soltanto sul motivo per cui non lo tirava fuori lui, ma anche sul perché, se non aveva intenzione di parlarne, mi aveva scritto. Potevo concludere soltanto - dato ciò che ora sapevo della sua vita, né troppo ricca di contrasti né turbata da troppe contraddizioni - che la lettera e il suo contenuto erano legati all’operazione, a qualcosa d’insolito che doveva essersi manifestato in lui subito dopo, qualche emozione nuova e sorprendente venuta alla ribalta. Sì, pensai, la lettera era germogliata da una scoperta tardiva di Levov lo Svedese: che cosa significa essere non sano ma malato, non forte ma debole; che cosa significa non avere un aspetto magnifico... La vergogna,
l’umiliazione, l’orrore, il disastro di doversi chiedere: «Perché?» Tradito all’improvviso da un corpo meraviglioso che gli aveva dato solo sicurezza e che aveva costituito il nocciolo del suo vantaggio sugli altri, lo Svedese aveva perso momentaneamente l’equilibrio e si era aggrappato, fra tutti, proprio a me, come se così potesse in qualche modo far rivivere il padre defunto ed evocarne la forza protettrice. Per un attimo si era perso d’animo, e quest’uomo che, da quanto potevo indovinare, usava se stesso soprattutto per nascondere se stesso si era trasformato in un essere impulsivo e devitalizzato con un estremo bisogno di conferme. La morte aveva fatto irruzione nel sogno della sua vita (come, per la seconda volta in dieci anni, aveva fatto irruzione nella mia), e le cose che turbano gli uomini della nostra età avevano turbato anche lui.
Mi chiedevo se avesse ancora voglia di rievocare la vulnerabilità da infermo che aveva reso certe inevitabilità reali, per lui, come la storia della sua vita familiare, se avesse ancora voglia di ricordare l’ombra che si era
insinuata come una glassa virulenta tra strati e strati di compiacimento. Eppure lo Svedese era venuto all’appuntamento. Voleva forse dire che l’intollerabile non era cancellato, che le salvaguardie non erano state ripristinate, che l’emergenza non era ancora finita? O presentarsi e parlare allegramente di tutto ciò che era tollerabile era il suo modo di esorcizzare l’ultima delle sue paure? Più pensavo a quest’anima apparentemente semplice, seduta davanti a me, che mangiava zabaione e trasudava sincerità, più lontano da lui mi portavano i pensieri. L’uomo dentro l’uomo mi riusciva scarsamente comprensibile. Non riuscivo a capirlo. Non riuscivo affatto a immaginarlo, essendomi buscato la mia forma di «morbo dello Svedese»: l’incapacità di trarre conclusioni su qualunque cosa mostrasse solo l’aspetto esteriore. Scavare a destra e a manca nel tentativo di comprendere quest’uomo è ridicolo, mi dissi. Questo è il vaso che non si apre. Quest’uomo non può essere incrinato dal pensiero. Ecco il mistero del suo mistero. Sarebbe come cercare di ottenere qualcosa dal David di Michelangelo.
Nella lettera gli avevo dato il mio numero di telefono: perché non aveva chiamato per annullare l’appuntamento, se non era più sconvolto dalla prospettiva della morte? Una volta che tutto era tornato com’era sempre stato, una volta ritrovata quella speciale luminosità che non aveva mai mancato di fargli conquistare tutto quello che voleva, a cosa gli servivo? No, la sua lettera, pensai, non può essere tutta la storia: se lo fosse, non sarebbe venuto. In lui c’è ancora qualcosa dell’impulso temerario che lo ha spinto a cercare di cambiare le cose. C’è ancora traccia di ciò che lo ha sorpreso all’ospedale. Un’esistenza non analizzata non soddisfa più le sue necessità. Lo Svedese vuole che qualcosa resti. Ecco perché si è rivolto a me: per registrare ciò che, altrimenti, potrebbe essere dimenticato. Omesso e dimenticato. Che cosa poteva essere?
O forse era solo un uomo felice. Esistono anche persone felici. Perché non dovrebbero? Forse tutte le disordinate congetture sui motivi dello Svedese erano solo il frutto della mia impazienza professionale, il mio tentativo d’infondergli qualcosa di simile al significato tendenzioso
che Tolstoj ha assegnato a Ivan Il’iĉ, così sminuito dall’autore nel malevolo racconto in cui spiega crudelmente, in termini clinici, cosa significa essere persone qualunque. Ivan Il’iĉ è l’alto funzionario, il magistrato della corte suprema che conduce «una vita decorosa approvata dalla società» e che sul letto di morte, in preda a un’angoscia e a un terrore incessante, pensa: «Forse non sono vissuto come avrei dovuto». La vita di Ivan Il’iĉ, scrive Tolstoj, compendiando, all’inizio, il suo giudizio sul presidente della corte con la deliziosa casa di San Pietroburgo e il cospicuo stipendio di tremila rubli l’anno e tutti gli amici ben piazzati ai vertici della società, era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse. Forse nella Russia del 1886. Ma a Old Rimrock, New Jersey, nel 1995, quando tutti gli Ivan Il’iĉ vanno a frotte a mangiare al club dopo le buche del golf mattutino e, esultanti, si mettono a cantare: «Non potrebbe andar meglio di così», forse sono assai più vicini alla verità di quanto lo sia mai stato Lev Tolstoj.
La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente in linea con i valori dell’America.
- Jerry è gay? - domandai all’improvviso.
- Mio fratello? - Lo Svedese si mise a ridere. - Stai scherzando.
Forse sì, scherzavo, e avevo fatto la domanda per malizia, per alleviare la noia. Ma ricordavo bene quella frase che aveva scritto lo Svedese su quanto suo padre aveva «sofferto per i colpi che si erano abbattuti sui suoi cari»; il che mi aveva indotto a chiedermi, di nuovo, a cosa avesse inteso alludere; il che mi aveva ricordato, spontaneamente, l’umiliazione subita da Jerry in prima liceo quando aveva cercato di conquistare il cuore di una nostra compagna di classe, una ragazza assolutamente comune, una con la quale nessuno avrebbe dovuto fare tanta fatica per un bacio.
Come regalo per il giorno di San Valentino Jerry le confezionò una pelliccia di criceto, centosettantacinque
pelli di criceto fatte seccare al sole e cucite con un ago ricurvo rubato nella fabbrica del padre, dove gli era venuta l’idea. Al dipartimento di biologia della scuola erano stati regalati circa trecento criceti da sezionare, e Jerry riuscì a farsi dare le pelli dagli studenti; la sua stranezza e la sua genialità resero credibile la storia che raccontava, di «un esperimento scientifico» che stava facendo a casa sua. Riuscì quindi a scoprire l’altezza della ragazza, disegnò il modello e poi, dopo che ebbe tolto - o creduto di togliere - quasi tutto il puzzo dalle pelli essiccandole al sole sul tetto del garage, le cucì meticolosamente, rifinendo la pelliccia con una fodera di seta ricavata da un pezzo di paracadute bianco, un paracadute difettoso che gli aveva spedito suo fratello per ricordo dalla base aerea dei marines di Cherry Point, in North Carolina, dove la squadra di Parris Island aveva vinto l’ultimo incontro della stagione del campionato di baseball del corpo dei marines. L’unica persona alla quale Jerry parlò della pelliccia ero io, la spalla del ping pong. Jerry voleva inviarla alla ragazza nella confezione della pelliccia Bamberger di sua madre,
avvolta in carta velina color lavanda e legata con un nastro di velluto. Ma quando la pelliccia fu finita era così rigida -per il modo idiota in cui aveva essiccato le pelli, avrebbe spiegato suo padre in seguito - che non riuscì a piegarla e a metterla nella scatola.
Davanti allo Svedese, nel ristorante di Vincent, ricordai improvvisamente di averla vista nello scantinato: una grossa cosa con le maniche posata sul pavimento. Oggi, pensavo, vincerebbe premi di ogni genere al Whitney Museum, ma a Newark, nel 1949, nessuno sapeva cosa fosse la grande arte, e Jerry e io ci scervellammo per capire come infilare la pelliccia nella scatola. Era fissato con quella scatola perché la ragazza avrebbe pensato, quando avesse cominciato ad aprirla, che conteneva una costosa pelliccia di Bam. Io pensavo a cosa avrebbe pensato quando avesse scoperto che quella che c’era dentro non era una pelliccia di Bam; pensavo anche che, sicuramente, non era necessario fare tanta fatica per colpire l’attenzione di una ragazza rotondetta con una brutta pelle e senza boyfriend. Ma collaborai con Jerry
perché aveva una personalità ciclonica alla quale sfuggivi o cedevi, e perché era il fratello di Levov lo Svedese e io ero a casa di Levov lo Svedese e, ovunque si volgesse lo sguardo, c’erano i trofei di Levov lo Svedese. Alla fine Jerry scucì e ricucì la pelliccia in modo tale che la cucitura attraversasse il petto, creando una specie di cardine lungo il quale la pelliccia poteva essere piegata e messa nella scatola. Lo aiutai: fu come cucire un’armatura. Sopra la pelliccia mise un cuore ritagliato da un pezzo di cartone e ornato del suo nome scritto a caratteri gotici, e poi il pacco fu spedito per posta. Jerry aveva impiegato tre mesi per trasformare un’idea inverosimile in una realtà da manicomio. Poco, secondo i normali criteri.
Quando aprì la scatola, la ragazza cacciò un urlo. - Le è venuto un colpo, - aveva detto la sua amica. Anche al padre di Jerry era venuto un colpo. - È così che rovini il paracadute che ti ha mandato tuo fratello? L’hai fatto a pezzi? Hai fatto a pezzi un paracadute? - Jerry era troppo mortificato per dirgli che lo aveva fatto perché la ragazza gli cadesse tra le braccia e lo baciasse come Lana Turner
baciava Clark Gable. Ero presente quando suo padre lo sgridò perché aveva essiccato le pelli al sole di mezzogiorno. - Le pelli si devono conservare nel modo giusto. Nel modo giusto! E il modo giusto non è al sole: le pelli vanno essiccate all’ombra. Non si devono bruciare, maledizione! Posso insegnarti una volta per tutte, Jerome, come si conservano le pelli? - E così fece, bollendo di rabbia in un primo momento, quasi incapace di soffocare la delusione provata davanti all’inettitudine di suo figlio come pellicciaio, spiegando a me e a lui come avevano insegnato ai mercanti a trattare le pelli di montone, in Etiopia, prima di spedirle alla Newark Maid per essere passate alla conceria. - Potete salarle, ma il sale costa caro. Specie in Africa, molto, molto caro. E là il sale lo rubano. Quella gente non ha sale. Devi mettere il veleno nel sale, laggiù, perché non te lo rubino. Un altro modo è steccare la pelle, con vari sistemi, o su un’asse o su un telaio, la leghi e ci fai dei taglietti, la stendi e la fai seccare all’ombra. All’ombra, ragazzi. È quella che noi chiamiamo la pelle seccata con la sabbia. Ci spargi sopra un pizzico di
sabbia, evita il deterioramento e impedisce ai parassiti di attaccarla... - Con mio grande sollievo, lo sdegno aveva ceduto il passo, con rapidità sorprendente, a un preciso, anche se tedioso, assalto pedagogico, che sembrava irritare Jerry ancora di più della stizza e delle critiche di suo padre. Quello potrebbe benissimo essere stato il giorno in cui Jerry giurò a se stesso di non mettere mai più piede nella fabbrica di suo padre.
Per rendere accettabili quelle pelli maleodoranti, Jerry aveva annaffiato la pelliccia con il profumo di sua madre, ma quando fu consegnata dal postino aveva ricominciato a puzzare - come aveva sempre fatto, a intermittenza - e quando la ragazza aprì la scatola rimase così disgustata, così offesa e inorridita, che non gli rivolse più la parola. Secondo le altre ragazze, era convinta che Jerry fosse andato a caccia e avesse ucciso tutte quelle bestiole, e poi le avesse mandate a lei per prendersi gioco della sua pelle sciupata. Quando Jerry lo seppe s’infuriò e, nel bel mezzo della nostra successiva partita di ping-pong, la mandò all’inferno e diede a tutte le ragazze delle «deficienti del
cazzo». Se prima non aveva avuto il coraggio d’invitarne qualcuna a uscire con lui, dopo di allora non ci provò mai più, e fu uno dei tre ragazzi, tre soli, che non parteciparono al ballo studentesco. Gli altri due erano quelli che noi identificavamo come «checche». E fu per questo che rivolsi allo Svedese una domanda su Jerry che non mi sarei mai sognato di fare nel 1949, quando non avevo le idee chiare su cosa fosse un omosessuale e non potevo immaginare che lo fosse uno che conoscevo. Allora pensavo soltanto che Jerry era Jerry, un genio, con un’ingenuità ossessiva e una innocenza colossale in fatto di ragazze. A quei tempi, questo spiegava tutto. Forse anche adesso. Ma volevo proprio vedere cosa, semmai, poteva offuscare l’innocenza di questo regale Svedese – e impedire a me stesso di essere tanto villano da addormentarmi davanti a lui - e per questo gli chiesi: - Jerry è gay?
- C’è sempre stata una forma di reticenza in Jerry, da piccolo, - dissi. - Non ci sono mai state ragazze, mai amici
intimi, sempre qualcosa, in lui, anche a prescindere dal cervello, che lo metteva in una categoria a sé...
Lo Svedese annuì, guardandomi come se comprendesse il significato più profondo delle mie parole come nessun altro essere umano aveva mai fatto prima, e a causa di questo sguardo penetrante che, avrei giurato, non vedeva niente, di questa espressione che nulla esprimeva e nulla, in realtà, rivelava, non avevo idea di dove potessero esserei suoi pensieri, o addirittura, se avesse «dei pensieri». Quando, per qualche istante, smisi di parlare, sentii che le mie parole, anziché cadere nella rete della coscienza del mio interlocutore, finivano nel nulla che c’era nel suo cervello, andavano là e scomparivano. Nei suoi occhi innocenti qualcosa - la promessa che vi leggevi: che lo Svedese non avrebbe mai potuto fare niente che non fosse giusto - cominciava a darmi fastidio, e dev’essere stata questa la ragione per cui subito dopo accennai alla sua lettera, invece di tenere la bocca chiusa finché Billy avesse portato il conto, quando avrei potuto salutarlo e lasciare che andasse per la sua strada per altri
cinquant’anni: in modo da potere, nel 2045, sentire veramente il desiderio di rivederlo.
Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia
degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati.
- Quando mi hai scritto di tuo padre, e dei colpi che aveva sopportato, ho pensato che Jerry, magari, fosse stato uno di questi colpi. Il tuo vecchio non sarebbe stato sicuramente più contento del mio se avesse dovuto affrontare il problema di un figlio omosessuale.
Lo Svedese mi scoccò un sorriso che rinnegava ogni superiorità, un sorriso destinato a tranquillizzarmi sul fatto che niente, in lui, avrebbe mai potuto o voluto resistermi, un sorriso che intendeva dirmi che, adorato com’era, lo Svedese non era migliore di me, anzi era forse quasi una nullità, paragonato a me. - Beh, fortunatamente per mio padre, non ha dovuto farlo. Jerry era «il figlio dottore». Mio padre non avrebbe potuto esserne più fiero.
- Jerry fa il medico?
- A Miami. Cardiochirurgo. Milioni di dollari l’anno.
- Sposato? Jerry è sposato?
Ancora quel sorriso. L’elemento più sorprendente era la vulnerabilità di quel sorriso: la vulnerabilità del nostro Mister Muscolo spacca record di fronte a tutta la durezza che ci vuole per restare vivi. Il rifiuto di quel sorriso di
riconoscere, per non dire sanzionare in lui, la feroce ostinazione che settant’anni di sopravvivenza esigono da un uomo. Come se un individuo che ha più di dieci anni credesse ancora di poter soggiogare con un sorriso, perfino con un sorriso caldo e affettuoso come il suo, tutte le cose che ti vogliono distruggere, di potere, con un sorriso, tenere tutto insieme mentre il braccio dell’imprevedibile ti si abbatte violento sulla testa. Ancora una volta cominciai a pensare che potesse essere malato di mente, che magari quel sorriso fosse un sintomo di pazzia. Non c’era nessuna mistificazione, nel sorriso: ed era questa la cosa peggiore. Il sorriso non era insincero. Lo Svedese non stava imitando nessuno. Questa caricatura era la realtà, una realtà raggiunta spontaneamente dopo una vita di sforzi per immergersi sempre più profondamente in... Che cosa? La nozione di sé che gli era stata infusa dalla celebrità ottenuta nel quartiere: era questo che lo aveva mummificato, trasformandolo in un eterno ragazzo? Era come se lo Svedese avesse abolito dal suo mondo tutto ciò che non gli confaceva: non soltanto l’inganno, la violenza,
il dileggio e la crudeltà, ma qualunque cosa fosse anche lontanamente grossolana, ogni minaccia rappresentata dall’intervento del caso fortuito, quel terribile araldo che annuncia il crollo delle nostre difese. Non desisteva un attimo dal tentativo di far sembrare il suo rapporto con me semplice e sincero come il suo apparente rapporto con se stesso.
A meno che... A meno che non fosse solo un uomo maturo, ambiguo come tutti gli uomini maturi. A meno che ciò che era stato risvegliato dall’operazione - e che era riuscito momentaneamente a offuscare la serena visione delle cose durata per tutta la vita – non fosse stato spento, o quasi, da una perfetta guarigione. A meno che lo Svedese non fosse un personaggio che non aveva un carattere da rivelare, ma un personaggio con un carattere che non voleva rivelare: solo un uomo ragionevole che sa bene che, se attribuisci grande valore alla tua privacy e al benessere dei tuoi cari, l’ultima persona a cui fare le tue confidenze è un romanziere. Dai al romanziere, invece della storia della tua vita, l’impudente rifiuto dello
splendido sorriso, colpiscilo con la scarica elettrica del tuo sorriso da principe della dolcezza, poi finisci lo zabaione e torna di corsa a Old Rimrock, New Jersey, dove la tua vita è affar tuo e non suo.
- Jerry si è sposato quattro volte, - disse lo Svedese, sorridendo. - Il record della famiglia.
- E tu? - Avevo già dedotto, dall’età dei suoi tre figli, che la bionda sulla quarantina con le mazze da golf fosse più che probabilmente una seconda moglie, se non addirittura una terza. Ma il divorzio non quadrava col mio ritratto di una persona così decisa a rifiutarsi di ammettere l’elemento irrazionale della vita. Se c’era stato un divorzio, doveva essere stato provocato da Miss New Jersey. Oppure la prima moglie era morta. O l’avere per marito un uomo che doveva continuare a fare di tutto per apparire perfetto, un uomo votato, anima e corpo, all’illusione della stabilità, l’aveva portata al suicidio. Forse era questo il colpo che si era abbattuto... Malignamente, i miei tentativi di trovare il pezzo mancante che avrebbe fatto dello Svedese qualcosa di
intero e coerente continuavano ad attribuirgli sregolatezze di cui non c’era traccia sul suo viso di campione splendidamente invecchiato. Non riuscivo a decidere se quell’espressione vacua fosse come un manto di neve che copre qualcosa o un manto di neve che non copre un bel niente.
- Io? Due mogli, è il mio limite. Sono un dilettante, in confronto a mio fratello. La sua nuova ha passato da poco la trentina. La metà dei suoi anni. Jerry è il medico che sposa l’infermiera. Infermiere tutt’e quattro. Baciano la terra sulla quale cammina il dottor Levov. Quattro mogli, sei figli. Questo sì che aveva fatto uscire un po’ di testa papà. Ma Jerry è una persona importante, un tipo arcigno, il chirurgo prima donna arrogante e presuntuoso (tiene un intero ospedale per le palle), e così anche mio padre si era rimesso in riga. Vi erastato costretto. Altrimenti lo avrebbe perduto. Il mio fratellino non va in giro a scopare. A ogni divorzio papà diventava matto, gli avrebbe sparato un centinaio di volte, ma appena Jerry si risposava, la nuova moglie, agli occhi di mio padre, era una principessa più
bella e più buona della moglie precedente. «Che bambola, che tesoro, che donna...» Chi avesse detto qualcosa di una qualsiasi delle mogli di Jerry, mio padre l’avrebbe ammazzato. I figli di Jerry, poi, li adorava. Cinque femmine, un maschio. Papà voleva bene al maschio, ma le femmine, quelle erano le pupille dei suoi occhi. Non c’era nulla che non avrebbe fatto per quei ragazzi. Per tutti i nostri figli. Quando aveva tutti intorno, tutti noi, tutti i nipoti, il mio vecchio era al settimo cielo. Novantasei anni, mai malato un giorno in vita sua. Dopo il colpo, nei sei mesi prima che morisse, quello è stato il momento peggiore. Ma gli è andata bene. Ha fatto una bella vita. Un vero lottatore. Una forza della natura. Un uomo irrefrenabile -. C’è un tono leggero e fluttuante nelle sue parole quando tocca l’argomento padre, e la voce risuona di amoroso rispetto, svelando sfacciatamente che nulla ha permeato la sua vita più delle aspettative del vecchio Lou Levov.
- Ha sofferto?
- Avrebbe potuto andare molto peggio, - disse lo Svedese. – Solo gli ultimi sei mesi, e anche allora, per metà del tempo, non sapeva cosa stesse succedendo. Una sera se n’è andato, e basta... E l’abbiamo perduto.
Quando gli avevo chiesto se suo padre aveva sofferto, alludevo alle sofferenze citate nella lettera, quelle prodotte dai colpi che «si erano abbattuti sui suoi cari». Ma anche se avessi pensato di portare la lettera con me, e glie l’avessi letta al ristorante, lo Svedese si sarebbe sottratto alle proprie parole con la stessa facilità con cui aveva schivato i tentativi di placcaggio quel sabato di cinquant’anni prima allo stadio, contro il South Side, il nostro rivale più debole, e battuto uno dei record statali segnando quattro volte su quattro passaggi consecutivi. Certo, pensavo, certo... Il mio bisogno di scoprire un substrato, il mio perdurante sospetto che ci fosse qualcosa di più di quello che vedevo, faceva nascere in lui la paura che potessi dirgli, senza tante esitazioni, che non era quello che voleva farci credere di essere... Ma poi pensai: perché dedicargli tutte queste riflessioni? Perché tanta
voglia di conoscere quest’uomo? Sei così curioso solo perché una volta ti ha detto, a te, e solo a te: «Il basket è un’altra cosa, Skip»? Perché aggrapparsi a lui? Che ti piglia? Qui c’è soltanto quello che vedi. Quest’uomo vuole solo essere guardato. È sempre stato così. Non è un trucco, tutta questa verginità. Tu cerchi abissi che non esistono. Quest’uomo è l’incarnazione del nulla.
Mi sbagliavo. Non mi ero mai sbagliato di più sul conto di nessuno in vita mia.
vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov.
Lo Svedese brillava come estremo nel football, pivot nel basket e prima base nel baseball. Soltanto la squadra di basket combinò qualcosa di buono (vincendo per due volte il campionato cittadino con lui come marcatore principale), ma per tutto il tempo in cui eccelse lo Svedese il destino delle nostre squadre sportive non ebbe troppa importanza per una massa studentesca i cui progenitori - in gran parte poco istruiti, ma molto carichi di preoccupazioni -veneravano il primato accademico più di ogni altra cosa. L’aggressione fisica, anche se dissimulata da tenute sportive e norme ufficiali, e priva dell’intento di nuocere agli ebrei, non era tradizionalmente una fonte di soddisfazione nella nostra comunità; i buoni voti sì. Ciononostante, grazie allo Svedese, il quartiere cominciò a fantasticare su se stesso e sul resto del mondo, così come fantastica il tifoso di ogni paese: quasi come i gentili (come esse immaginavano i gentili), le nostre famiglie poterono dimenticare come andavano realmente le cose e
fare di una prestazione atletica il depositario di tutte le loro speranze. In primo luogo, poterono dimenticare la guerra.
L’assunzione di Levov lo Svedese a domestico Apollo degli ebrei di Weequahic si può spiegare meglio, credo, con la guerra contro i tedeschi e i giapponesi e le paure che essa generò. Con lo Svedese che furoreggiava sul campo da gioco, l’insensata superficie della vita forniva una specie di bizzarro, illusorio sostentamento, il felice abbandono a una svedesiana innocenza, per coloro che vivevano nella paura di non rivedere mai più i figli, i fratelli o i mariti.
E che effetto ebbe su di lui questa glorificazione, la santificazione di ogni gancio che andava a canestro, di ogni passaggio che prendeva al volo, di ogni battuta bassa e tesa che fruttava due basi alla squadra? Era questo a fare di lui il ragazzo posato e impassibile che era? O la sobrietà da persona matura era la manifestazione di una dura lotta interiore per tenere a freno il narcisismo che un’intera comunità alimentava col proprio affetto? Le ragazze pon-pon della scuola avevano un urrà apposta per lo Svedese.
Diversamente dalle altre grida, destinate a incitare la squadra o galvanizzare gli spettatori, questo era un omaggio ritmico e cadenzato riservato esclusivamente a lui, pura e semplice espressione di entusiasmo per la sua perfezione. L’urlo delle ragazze pon-pon faceva tremare la palestra durante gli incontri di pallacanestro ogni volta che lo Svedese si impadroniva di un rimbalzo o segnava un punto, spazzava il nostro lato dello stadio durante le partite di football ogni volta che lui guadagnava un metro o intercettava un passaggio. Anche ai poco seguiti incontri di baseball casalinghi di Irvington Park, dove non c’erano squadre di ragazze pon-pon ansiosamente inginocchiate ai bordi del campo, lo si udiva salire, debolmente, dal manipolo dei tifosi di Weequahic appollaiati sulle tribune di legno, e non soltanto quando lo Svedese stava per battere, ma anche quando non faceva altro che una normale eliminazione in prima base. Era un grido formato da dodici sillabe, sei delle quali costituivano il suo nome, e faceva così: Ta-ta-ta-ta-ta-tà! Ta-ta-ta-ta-ta-ta... Ta-tà! E il ritmo, soprattutto durante i match di football, diventava
sempre più veloce a ogni ripetizione finché, al colmo dell’adorante frenesia, le dieci ragazze pon-pon facevano la ruota, gonfiando le gonnelle in un’esplosione estatica, e le loro calzamaglie da ginnastica arancione lampeggiavano come fuochi artificiali davanti ai nostri occhi stupiti... E non per amor vostro o per amor mio, ma per amore del magnifico Svedese. - Seymour Levov! Rima con... «Love!»... Seymour Levov! Rima con... «Love!»
Sì, ovunque apparisse, la gente era innamorata di lui. I proprietari dei negozi di dolciumi assediati da noi ragazzi ci apostrofavano dicendo: - Ehi, tu! No! - oppure: - Giù le mani! - Lui lo chiamavano, rispettosamente, «Svedese». I genitori sorridevano e lo chiamavano bonariamente «Seymour». Le ragazze chiacchierine che incontrava per la strada fingevano di svenire, e la più audace gli gridava: - Torna indietro, torna indietro, Levov della mia vita! - E lui lasciava fare, girava per il quartiere che lo inondava di tutto quell’amore, e sembrava non provare nulla. Contrariamente a tutti i nostri sogni a occhi aperti sull’effetto di un’adulazione così assoluta, acritica e
idolatra, pareva che l’amore prodigato per lo Svedese in realtà lo svuotasse di ogni sentimento. In questo ragazzo abbracciato da tanta gente come simbolo di speranza - come l’incarnazione della forza, della decisione e del valore baldanzoso che alla fine avrebbero avuto la meglio, permettendo ai ragazzi della nostra scuola che erano sotto le armi di tornare a casa illesi da Midway, Salerno, Cherbourg, dalle Salomone, dalle Aleutine, da Tarawa - sembrava non esistere una goccia di spirito o d’ironia che interferisse col dono prezioso della sua responsabilità.
Ma lo spirito o l’ironia, per un ragazzo come lo Svedese, sono solo intoppi al suo passo spedito: l’ironia è una consolazione della quale non hai proprio bisogno quando tutti ti considerano un dio. Oppure c’era tutto un lato della sua personalità che lo Svedese nascondeva,o questa cosa era ancora in embrione o, più verosimilmente, mancava. Il suo distacco, la sua apparente passività come oggetto di desiderio di tutto questo amore asessuato, lo facevano apparire, se non divino, di molte spanne al di sopra della primordiale umanità di quasi tutti gli altri
frequentatori della scuola. Era incatenato alla storia, era uno strumento della storia, al centro di una passione che forse non ci sarebbe mai stata se lo Svedese avesse battuto il record di basket di Weequahic - segnando ventisette punti contro Barringer - in un giorno diverso dal triste, tristissimo giorno del 1943 in cui cinquantotto fortezze volanti furono abbattute dai caccia della Luftwaffe, due caddero sotto i colpi della contraerea e altre cinque precipitarono dopo aver attraversato la Manica di ritorno da un bombardamento sulla Germania.
Il fratello minore dello Svedese era un mio compagno di classe, Jerry Levov, un ragazzo con la testa piccola, magrissimo e flessibile come una stecca di liquirizia, una specie di mago della matematica; lo studente cui venne affidato l’incarico di tenere il discorso di commiato dal liceo nel gennaio del 1950. Pur non essendo mai stato veramente amico di nessuno, Jerry, nel suo modo irascibile e impetuoso, con gli anni prese a interessarsi di me, e fu così che io finii, dai dieci anni in poi, per essere regolarmente battuto da lui a ping pong nello scantinato
rifinito della villetta monofamiliare dei Levov, all’angolo tra Wyndmoor e Keer: con la parola «rifinito» intendo dire che era rivestito di pino nodoso, incivilito cioè, e non, come Jerry sembrava pensare, che lo scantinato fosse il luogo ideale per «finire» un altro ragazzo.
La violenza dell’aggressività di Jerry al tavolo da ping pong superava quella di suo fratello in ogni sport. Per forma e misura la pallina da ping pong è fatta, brillantemente, in modo tale da non poterti cavare un occhio. Altrimenti, non avrei mai giocato nello scantinato di Jerry Levov. Se non fosse stato per la possibilità di dire alla gente che mi aggiravo in casa di Levov lo Svedese, nessuno mi avrebbe convinto a scendere in quello scantinato con una racchetta di legno come unica difesa. Nessun oggetto che pesi così poco come una pallina da ping-pong può essere letale, eppure, quando Jerry la colpiva, l’omicidio non doveva essere lontano dalla sua mente. Non avevo mai pensato che questo sfoggio di violenza potesse avere qualcosa a che fare con ciò che significava, per lui, essere il fratello minore di Levov lo
Svedese. Poiché non riuscivo a immaginare nulla di meglio che essere il fratello dello Svedese (tolto il fatto di essere lo Svedese), non capivo come per Jerry potesse essere difficile immaginare qualcosa di peggio.
La camera da letto dello Svedese - dove non ebbi mai il coraggio di entrare, ma che mi fermavo a spiare dalla porta quando andavo nel bagno davanti alla stanza di Jerry - era rincantucciata nella parte posteriore della casa. Con il soffitto inclinato e i lucernari e i gagliardetti di Weequahic alle pareti, per me aveva l’aria di quella che doveva essere la vera stanza di un ragazzo. Dalle due finestre che davano sul prato posteriore si vedeva il tetto del box dei Levov, dove lo Svedese, alle elementari, d’inverno si allenava a battere, colpendo una palla da baseball fissata col nastro adesivo a una corda che pendeva da una trave: un’idea che poteva avere preso da un romanzo sul baseball di John R’ Tunis, Il ragazzo di Tomkinsville. Mi imbattei in quel libro, e in altri libri sul baseball di Tunis (Il duca di ferro, Il duca decide, La scelta del campione, I ragazzi di Keystone, Il novellino dell’anno), vedendoli nella nicchia
di fianco al letto dello Svedese, tutti allineati in ordine alfabetico tra due massicci reggi libri di bronzo che gli erano stati regalati per il barmitzvah (1. La cerimonia con cui si celebra l’arrivo del ragazzo ebreo ai tredici anni, l’età della responsabilità [N’d’T’].), copie in miniatura del Pensatore di Rodin. Andai immediatamente in biblioteca a prendere in prestito tutti i libri di Tunis che riuscii a trovare e iniziai con il Ragazzo di Tomkinsville, un libro duro, avvincente, scritto con semplicità, qua e là monotono ma diretto e dignitoso; il ragazzo del titolo, Roy Tucker, un lanciatore giovane e perbene, proveniente dalle colline del Connecticut rurale, è rimasto orfano di padre a quattro anni e orfano di madre a sedici, e aiuta la nonna a sbarcare il lunario lavorando di giorno nella fattoria della famiglia e di sera, in città, all’«emporio di Mackenzie, all’angolo della South Main».
Il libro, pubblicato nel 1940, aveva dei disegni in bianco e nero che, con qualche distorsione espressionistica e una dose sufficiente di perizia anatomica, illustravano abilmente la durezza della vita del ragazzo prima che il gioco del baseball fosse illuminato da un milione di
statistiche, quando ancora riguardava i misteri del destino terreno, quando i giocatori delle Major Leagues (2. I due principali campionati di baseball degli Stati Uniti, la National League e l’American League [N’d’T’].) somigliavano più a operai magri e affamati che a ragazzoni in salute. I disegni parevano usciti dalla cupa austerità dell’America della Grande Crisi. Ogni dieci pagine o giù di lì, per descrivere succintamente un momento drammatico della storia («Riuscì a metterci un po’ di energia», «È volata fuori dal recinto», «Razzle sitrascinò zoppicando fino alla panchina»), c’è l’immagine nerastra, a grosse macchie d’inchiostro, di uno scheletrico giocatore di baseball, nitidamente profilato sulla pagina bianca, isolato, come l’anima più solitaria della terra, sia dalla natura che dall’uomo, o ambientato nell’ombreggiata simulazione dell’erba di un campo sportivo, che si tira dietro la magra statuetta di un’ombra vermiforme. È poco affascinante anche nella divisa da giocatore di baseball; se è il lanciatore, la sua mano guantata sembra una zampa; e ciò che le immagini dimostrano con la massima chiarezza, una dopo l’altra, è che giocare nelle Major Leagues, per
eroico che possa apparire, è solo un lavoro di diverso genere, massacrante e poco remunerativo.
Il ragazzo di Tomkinsville avrebbe potuto benissimo chiamarsi L’agnello di Tomkinsville, o addirittura L’agnello di Tomkinsville condotto al mattatoio. Nella carriera del ragazzo come novellino armato di entusiasmo in una squadra dei Brooklyn Dodgers che si trova all’ultimo posto in classifica, ogni trionfo viene compensato da un’amara delusione o da un terribile incidente. Un solido legame si crea tra il ragazzo solitario che soffre di nostalgia e l’anziano ricevitore dei Dodgers, Dave Leonard, che gli insegna con successo i trucchi delle Major Leagues e che «con i fermi occhi castani da dietro la pedana» lo guida durante la partita permettendogli di non lasciare agli avversari una sola battuta valida. Ma il legame si spezza brutalmente dopo sei settimane dall’inizio della stagione, quando il vecchio viene tolto all’improvviso dalla rosa dei titolari. «Ecco una velocità di cui non parlavano spesso nel baseball: la velocità con cui un giocatore sale... e scende». Poi, vinta la quindicesima
partita consecutiva (un record, per una recluta, che nessun lanciatore di nessuna delle due Leagues ha mai battuto), il ragazzo viene urtato sotto la doccia e fatto cadere accidentalmente dai turbolenti compagni di squadra che scherzano dopo la grande vittoria, e la lesione al gomito riportata nella caduta pone fine alla sua carriera di lanciatore. Il ragazzo passa il resto dell’anno in panchina, sostituendo i compagni in pedana per la forza che mostra nella battuta, e poi, durante un inverno pieno di neve - tornato nel Connecticut a trascorrere i giorni alla fattoria e le sere nell’emporio; celebre, ormai, ma sempre l’adorato nipotino della nonna -, si allena da solo, con assiduità, seguendo le direttive di Dave Leonard, per imparare a battere orizzontalmente («La tendenza a tenere bassa la spalla destra, e a battere dal basso in alto, era il suo peggior difetto»), sospendendo una palla da baseball a una funicella nel fienile e colpendola nelle fredde mattine d’inverno con «la sua amata mazza» fino a coprirsi di sudore. «“Toc!...” Il suono netto e dolce di una mazza che colpisce in pieno la palla». Per la stagione successiva il
ragazzo è pronto a tornare nei Dodgers come veloce esterno destro, si classifica al secondo posto come battitore con la media di 0,325 e porta la sua squadra sul filo del traguardo. L’ultima giornata della stagione, in un match contro i Giants, che sono al primo posto solo per mezza partita, il ragazzo guida i Dodgers all’attacco e, durante il quattordicesimo inning (con due eliminati, due in base e i Dodgers in testa grazie a un punto segnato dal ragazzo con una corsa audace e particolarmente vigorosa), salva definitivamente la partita prendendo la palla al volo prima che superi il muro di cinta del campo. Questa impresa temeraria e formidabile proietta i Dodgers nella World Series e lascia il ragazzo «a torcersi, soffrendo le pene dell’inferno, sul prato verde nel centro destra del campo». Tunis conclude così: «Il buio si addensava sulla massa dei giocatori, sull’immensa folla che sciamava sul campo, su un paio di uomini che passavano tra la gente trasportando una forma inerte in barella... Si udì uno scoppio di tuono. La pioggia cadeva sul Polo Grounds».
La pioggia cadeva, cadeva, uno scoppio di tuono, e così termina questo Libro di Giobbe per ragazzi.
Avevo dieci anni e non avevo mai letto nulla di simile. La crudeltà della vita! L’ingiustizia! Non ci potevo credere. Il giocatore riprovevole dei Dodgers è Razzle Nugent, grande lanciatore, ma ubriacone e testa calda, un bullo prepotente e ferocemente invidioso del ragazzo. Eppure non è Razzle che portano via, «inerte», in barella, ma il migliore di tutti, l’orfano, il ragazzo di campagna, modesto, serio, casto, leale, ingenuo, ardimentoso, laborioso, educato, coraggioso, un atleta brillante, un ragazzo bello e austero. Non occorre dire che, ai miei occhi, il ragazzo e lo Svedese erano la stessa persona. E mi chiedevo come avesse fatto, lui, a leggere un libro che mi aveva tolto il sonno, lasciandomi col pianto in gola. Se avessi avuto il coraggio di abbordarlo gli avrei chiesto se, secondo lui, il finale significava che il ragazzo era finito, o se invece esisteva la possibilità di un ritorno. La parola «inerte» mi terrorizzava. Il ragazzo era stato ucciso dall’ultima presa dell’anno? Lo Svedese lo sapeva? Gliene
importava qualcosa? Aveva forse pensato che, se poteva distruggere il ragazzo di Tomkinsville,il disastro avrebbe potuto abbattersi anche sul grande Svedese? O quel libro su una stella selvaggiamente e ingiustamente punita – un libro su un innocente enormemente dotato il cui peggior difetto è la tendenza a tenere la spalla destra troppo bassa e a colpire dal basso in alto, ma che il cielo tonante distrugge lo stesso - era solo unlibro fra i tanti tenuti dritti dai reggilibri del Pensatore sopra la sua mensola?
Keer Avenue era il posto dove abitavano gli ebrei ricchi. Perlomeno sembravano ricchi alla maggior parte delle famiglie in affitto nelle case da due, tre e quattro appartamenti con le verande di mattoni indispensabili per i giochi che facevamo dopo la scuola: i dadi, il blackjack e il battimuro, che durava fino a quando la palla di gomma da quattro soldi tirata spietatamente contro i gradini scoppiava e andava in pezzi. Lì, in quel reticolo di strade fiancheggiate da robinie in cui era stato diviso il podere
dei Lyons durante il boom dei primi anni Venti, gli ebrei di Newark della prima generazione non immigrata si erano raggruppati in una comunità che trovava la sua ispirazione più nel modello americano che nello shtetl (3. Villaggio [N’d’T’].) polacco ricreato dai loro genitori di lingua yiddish intorno a Prince Street, nell’impoverito Terzo Distretto. Gli ebrei di Keer Avenue, con i loro scantinati «rifiniti», le loro verande chiuse, le lastre di pietra sugli scalini, sembravano all’avanguardia, pronti a rivendicare come audaci pionieri lo standardizzante comfort americano. E all’avanguardia dell’avanguardia erano i Levov, che ci avevano dato lo Svedese, il ragazzo più simile a un goy (4. Gentile, non ebreo [N’d’T’].) che avremmo mai potuto avere.
Gli stessi Levov, Lou e Sylvia, erano genitori né più né meno riconoscibilmente americani di mio padre e di mia madre, che erano ebrei nati nel New Jersey, né più né meno raffinati, forbiti oeducati di loro. E questa, per me, era una grossa sorpresa. A parte la villetta monofamiliare di Keer Avenue, non c’erano, tra noi, divisioni come quella tra contadini e aristocrazia di cui stavo imparando a
scuola. La signora Levov era, come mia madre, una massaia ordinata, impeccabilmente cortese, una bella donna piena di riguardo per i sentimenti di tutti, capace di far sì che i suoi figli si sentissero importanti: una delle tante donne di quell’epoca che non sognarono mai di liberarsi della grande impresa domestica centrata sui figli. Dalla madre i due ragazzi Levov avevano ereditato le ossa lunghe e i capelli biondi, anche se, con i capelli più rossi, più crespi, e la pelle ancora giovane e lentigginosa, lei aveva un aspetto meno sorprendentemente ariano di loro, e la stranezza genetica era meno appariscente quando la incontravi nelle nostre strade.
Il padre era alto circa un metro e settanta: un uomo sottile, ancora più agitato e ansioso di mio padre. Il signor Levov era uno di quei padri ebrei cresciuti negli slum la cui visione delle cose rozza e incolta ha pungolato un’intera generazione di figli combattivi educati nei college: un padre per il quale ogni cosa è un incrollabile dovere, per il quale c’è la ragione e il torto e, in mezzo, nulla, un padre il cui miscuglio di ambizioni, pregiudizi e
convinzioni è talmente refrattario alla riflessione da rendere il tentativo di sfuggirgli più difficile di quello che sembra. Uomini limitati provvisti di un’energia illimitata; uomini pronti a esserti amici e altrettanto pronti a stufarsi di te; uomini per i quali la cosa più seria nella vita è andare avanti malgrado tutto. E noi eravamo i loro figli. Amarli era il nostro dovere.
Il fatto è che mio padre era un pedicure il cui ambulatorio fu, per anni, il soggiorno di casa nostra, e che guadagnava abbastanza per mantenere la famiglia, ma niente di più, mentre il signor Levov si era arricchito fabbricando guanti da donna. Suo padre - il nonno di Levov lo Svedese - era arrivato a Newark dalla madrepatria dopo il 1890 e aveva trovato lavoro come scarnatore delle pelli di montone appena estratte dal calcinaio, un ebreo solitario mescolato ai più rozzi immigrati slavi, irlandesi e italiani di Newark nella conceria di Nuttman Street del magnate delle pelli T.P. Howell, che allora era il nome nell’industria più antica e più grande della città, la concia e la produzione di
pelletteria. La cosa più importante nell’industria conciaria è l’acqua: pelli che girano in grossi bidoni pieni d’acqua, bidoni che sputano acqua sozza, tubi dai quali sgorga acqua calda e fredda, centinaia di migliaia di galloni d’acqua. Se c’è acqua dolce, acqua buona, puoi fare la birra e puoi conciare il pellame, e Newark faceva tutt’e due le cose: grandi distillerie, grandi concerie e, per gli immigrati, abbondanza di lavoro, umido, puzzolente, massacrante.
Il figlio Lou - il padre di Levov lo Svedese - andò a lavorare nella conceria dopo avere lasciato la scuola a quattordici anni per contribuire al mantenimento della famiglia di nove persone, e diventò esperto non soltanto nel tingere la pelle scamosciata spalmandovi sopra l’argilla colorante con una spazzola piatta e dura, ma anche nella scelta e nella classificazione delle pelli. La conceria, ch epuzzava sia di mattatoio sia di stabilimento chimico a causa della macerazione e della cottura della carne e della depilazione e del piclaggio e della sgrassatura delle pelli; dove d’estate, ventiquattr’ore su
ventiquattro, i soffioni d’aria calda che asciugavano le migliaia e migliaia di pelli stese portavano la temperatura sotto il soffitto basso dell’essiccatoio fino a cinquanta gradi; dove gli stanzoni delle vasche erano bui come caverne e inondati di risciacquatura; dove operai dall’aria disumana, coperti da pesanti grembiuli, armati di pertiche e di ganci, tirando e spingendo carrelli sovraccarichi, strizzando e stendendo pelli zuppe d’acqua, venivano sospinti come bestie attraverso quella tempesta di lavoro che era un turno di dodici ore; un posto sporco e puzzolente inondato d’acqua tinta di rosso e di nero e di blu e di verde, con pezzi di pelle sparsi sul pavimento, e bidoni di grasso, mucchi di sale, barili di solvente dappertutto: questi furono il liceo e l’università di Lou Levov. La cosa sorprendente non era che si fosse abbrutito. La cosa sorprendente era come riuscisse ancora, certe volte, a essere civile.
Alla Howell & Co. si laureò dopo i vent’anni per mettere in piedi, con due dei suoi fratelli, una piccola fabbrica di borsette specializzata in pelli di alligatore che
venivano acquistate da R.G. Salomon, il re di Newark del cuoio cordovano e il capofila nella concia dell’alligatore; per qualche tempo sembrò che l’impresa potesse prosperare, ma dopo la Grande Crisi la società colò a picco, facendo fallire i tre audaci e intraprendenti Levov. Qualche anno dopo nacque la Newark Maid Leatherware, e Lou Levov, ora per conto proprio, comprava pelletteria di seconda scelta - borsette, cinture e guanti difettosi - e la vendeva con un carretto nei weekend e porta a porta la sera. In fondo al Neck - la protuberanza semipeninsulare rappresentata dalla parte più orientale di Newark, dove si stabiliva in un primo momento ogni nuova ondata di immigrati, i bassipiani delimitati a nord e a est dal fiume Passaic e a sud dalle paludi salate - c’erano degli italiani che avevano fatto i guantai in madrepatria e che cominciarono a lavorare per lui, a cottimo e a domicilio. Con le pelli fornite tagliavano e cucivano guanti da donna che Lou vendeva in tutto lo stato. Quando scoppiò la guerra, Lou Levov aveva un gruppo di famiglie italiane che tagliavano e cucivano guanti di capretto in un solaio di
West Market Street. Era un’attività marginale, che rendeva poco, finché, nel 1942, arrivò la fortuna: un guanto nero, in pelle di capretto foderata, ordinato dal Corpo delle Ausiliarie. Lou prese in affitto la vecchia fabbrica di ombrelli, un edificio di mattoni che aveva cinquant’anni, alto quattro piani e annerito dal fumo, all’angolo tra Central Avenue e la Seconda Strada, e poco dopo la comprò, affittando l’ultimo piano a una fabbrica di cerniere lampo. La Newark Maid cominciò a sfornare guanti, e ogni due o tre giorni il camion arrivava e li portava via.
Un motivo di giubilo ancora più grande del contratto governativo fu l’accordo con Bamberger. La Newark Maid strappò la commessa a Bamberger e diventò il maggiore produttore dei loro guanti da donna in seguito a un incredibile incontro tra Lou Levov e Louis Bamberger. A una cena in onore di Meyer Ellenstein, unico ebreo mai stato sindaco di Newark, un dirigente della Bam, avendo saputo che era presente il padre di Levov lo Svedese, andò a congratularsi con lui per la scelta del suo ragazzo da
parte del Newark News come migliore pivot di tutta la contea. Sempre attento a non lasciarsi sfuggire l’occasione di una vita (l’occasione di saltare tutti gli ostacoli e arrivare dritto al traguardo), Lou Levov lo persuase sfacciatamente a presentarlo, lì alla cena in onore di Ellenstein, al leggendario L. Bamberger in persona, il fondatore dei grandi magazzini più prestigiosi di Newark e il filantropo che aveva dato alla città il suo museo, un potente personaggio, tanto importante per gli ebrei del posto quanto Bernard Baruch per gli ebrei di tutta la nazione, grazie alla sua familiarità con Franklin Delano Roosevelt. Stando alle chiacchiere che in seguito si diffusero nel quartiere, quantunque Bamberger non avesse fatto altro che stringergli la mano e interrogarlo (sullo Svedese) per un paio di minuti al massimo, Lou Levov aveva osato dirgli in faccia: - Signor Bamberger, abbiamo la qualità, abbiamo il prezzo... Perché non possiamo vendervi i nostri guanti? - E prima della fine del mese la Bam aveva fatto un’ordinazione alla Newark Maid, la prima, di cinquecento dozzine di paia.
Alla fine della guerra la Newark Maid si era affermata - in non piccola parte grazie ai successi atletici di Levov lo Svedese – come uno dei nomi più stimati nel campo dei guanti da donna a sud di Gloversville, New York, il centro del commercio dei guanti, dove Lou Levov spediva col treno le sue pelli, attraverso Fultonville, per farle conciare dalla migliore conceria di guanti del settore. Poco più di dieci anni dopo, con l’apertura di una fabbrica a Portorico nel 1958, lo Svedese in persona sarebbe diventato il giovane presidente della società, andando avanti e indietro ogni mattina fino a Central Avenue dalla sua casa a una cinquantina di chilometri da Newark, fuori dai sobborghi: pioniere a corto raggio installato in una tenuta di quaranta ettari lungo una strada secondaria delle colline spopolate oltre Morristown, nella ricca e rurale Old Rimrock, New Jersey, molto lontano dalla conceria dove nonno Levov aveva mosso i primi passi in America, raschiando dalle pelli col trinciante il carniccio gommoso che nei grandi calcinai si era mostruosamente gonfiato fino al doppio dello spessore originario.
Nel giugno del ‘45, il giorno dopo aver preso il diploma a Weequahic, lo Svedese si era arruolato nel corpo dei marines, ansioso di non perdere le ultime battaglie. Corse voce che i suoi genitori fossero fuori di sé, e che avessero fatto di tutto per convincerlo a lasciare i marines per la marina. Anche se avesse superato il notorio antisemitismo dei marines, come pensava di sopravvivere all’invasione del Giappone? Ma lo Svedese non si lasciò dissuadere dall’affrontare la sfida patriottica e virile - sfida che, segretamente, si era posto subito dopo Pearl Harbor - consistente nell’andare a combattere come uno dei più duri tra i duri, se il paese fosse stato ancora in guerra quando lui avesse finito il liceo. Stava terminando l’addestramento a Parris Island, in South Carolina - dove si diceva che i marines sarebbero sbarcati sulle spiagge giapponesi il primo marzo del 1946 - quando fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Di conseguenza, lo Svedese passò il resto della ferma come «specialista della ricreazione» proprio a Parris Island. Faceva fare ginnastica al suo battaglione per mezz’ora ogni mattina prima di colazione,
organizzava incontri di pugilato per divertire le reclute un paio di sere la settimana, e per la maggior parte del tempo giocava nella squadra della base contro le squadre delle forze armate sparse nel Sud, basket per tutto l’inverno, baseball per tutta l’estate. Era da circa un anno in South Carolina quando si fidanzò con una ragazza cattolica di origine irlandese il cui padre, maggiore dei marines ed ex allenatore della squadra di football di Purdue, gli aveva procurato il comodo posto di istruttore per tenerlo a giocare a Parris Island. Vari mesi prima del suo congedo, suo padre fece un viaggio a Parris Island, si fermò per un’intera settimana nei pressi della base, in un albergo di Beaufort, e partì solo dopo che il fidanzamento con la signorina Dunleavy era stato rotto. Lo Svedese tornò a casa nel ‘47 per iscriversi all’Upsala College di East Orange, libero, a vent’anni, dal peso di una moglie cristiana, e ancor più affascinante ed eroico per essersi distinto come marine ebreo: niente di meno che istruttore, e nel campo di addestramento militare presumibilmente più duro della terra. È nel campo di addestramento che si
formano i marines, e Seymour Irving Levov aveva contribuito a formarli.
Sapevamo tutto questo perché la mistica dello Svedese continuava a vivere nei corridoi e nelle aule del liceo dove allora studiavo io. Ricordo di essere andato con gli amici due o tre volte, una primavera, al Viking Field di East Orange per vedere la squadra di baseball di Upsala giocare in casa, di sabato, una partita. Il loro asso pigliatutto - battitore e prima base - era lo Svedese. Trehomerun in un giorno contro il Muhlenberg. Ogni volta che in tribuna si vedeva un uomo con la giacca e il cappello ci scambiavamo un mormorio: - Uno scopritore di talenti! - Ero via, all’università, quando seppi da un compagno di scuola che abitava ancora nel quartiere che allo Svedese era stato offerto un contratto con una squadra della Double A Giant, ma che aveva rifiutato per entrare nell’azienda di suo padre. Più tardi appresi dai miei genitori delle nozze dello Svedese con Miss New Jersey. Prima di concorrere ad Atlantic City per il titolo di Miss America 1949, era stata Miss Contea di Union, e prima ancora Reginetta di
Primavera a Upsala. Eradi Elizabeth. Una shiksa (5. Ragazza non ebrea [N.d.T.]). Dawn Dwyer. Lo Svedese ce l’aveva fatta.
Una sera d’estate del 1985, di passaggio a New York, andai a vedere i Met giocare contro gli Astro e, mentre giravo intorno allo stadio con gli amici in cerca dell’ingresso per raggiungere i nostri posti, vidi lo Svedese, di trentasei anni più vecchio di quando l’avevo visto giocare a baseball per l’Upsala. Indossava una camicia bianca, una cravatta a righe e un completo estivo color antracite, ed era ancora straordinariamente bello. I suoi capelli d’oro si erano un po’ scuriti, ma non diradati; non erano più corti, ma gli cadevano in ciocche piuttosto abbondanti sulle orecchie e sul colletto. Con quell’abito che gli stava a pennello sembrava ancora più alto e più snello di come lo ricordavo nell’uniforme di questa o quella squadra sportiva. La donna che era con noi fu la prima a notarlo. - Chi è quello? È... È... È John Lindsay? -
chiese. - No, - dissi io. - Mio Dio. Sai chi è? È Levov lo Svedese -. Agli amici dissi: - È lo Svedese!
Un ragazzino magro e biondo di sette o otto anni camminava al suo fianco, un bambino con un berretto dei Met che si batteva il pugno nel guantone da prima base infilato, come una volta quello dello Svedese, nella mano sinistra. I due, chiaramente padre e figlio, stavano ridendo di qualcosa quando mi avvicinai e mi presentai. -Conoscevo tuo fratello a Weequahic.
- Tu sei Zuckerman? - rispose lui, stringendomi vigorosamente la mano. - Lo scrittore?
- Sono Zuckerman, lo scrittore.
- Certo, eri il grande amico di Jerry.
- Non credo che Jerry avesse grandi amici. Era troppo brillante per avere degli amici. Semplicemente mi distruggeva a ping pong nel vostro scantinato. Battermi a ping pong era molto importante per Jerry.
- Allora sei proprio tu. Mia madre dice: «Ed era un bambino così educato, così tranquillo, quando veniva a casa nostra». Sai chi è questo signore? - disse lo Svedese
al ragazzo. - L’uomo che ha scritto quei libri. Nathan Zuckerman.
Confuso, il ragazzino si strinse nelle spalle e mormorò: - Ciao.
- Ti presento mio figlio Chris.
- Questi sono degli amici, - dissi, facendo un gesto ampio col braccio per presentare le tre persone che erano con me. - E quest’uomo, - dissi loro, - è il più grande atleta nella storia del liceo di Weequahic. Un autentico virtuoso di tre sport. Giocava prima base come Hernandez... Pensate. Batteva delle splendide palle tese. Sai? - dissi a suo figlio, - tuo padre era il nostro Hernandez.
- Hernandez è mancino, - rispose lui.
- Beh, è l’unica differenza, - dissi a quel piccolo pignolo, e tesi la mano a suo padre. - È stato un piacere rivederti, Svedese.
- Anche per me. Stammi bene, Skip.
- Salutami tuo fratello, - dissi.
Rise, ci separammo, e qualcuno mi disse: - Guarda, guarda, il più grande atleta nella storia del liceo di Weequahic ti ha chiamato «Skip».
- Lo so. Non riesco a crederci -. Ed effettivamente mi sembrava di toccare il cielo con un dito com’era successo quando, a dieci anni, lo Svedese aveva mostrato di conoscermi così bene da chiamarmi col nomignolo che mi avevano affibbiato per le due classi che avevo saltato alle elementari (6. Skip significa appunto «saltare» [N.d.T.]).
A metà del primo inning la donna che era con noi si rivolse a me e disse: - Avresti dovuto vedere la tua faccia... Tanto valeva che ci dicessi che era Dio. Ho visto esattamente la faccia che avevi da ragazzo.
La lettera che segue mi arrivò, tramite il mio editore, un paio di settimane prima del Memorial Day del 1995.
Caro Skip Zuckerman,
mi scuso per l’incomodo che potrebbe causarti questa lettera. Forse non ricorderai il nostro incontro allo Shea
Stadium. Io ero con il mio figlio maggiore (oggi matricola universitaria) e tu eri andato con alcuni amici a vedere i Met. È successo dieci anni fa, al tempo di Carter-Gooden-Hernandez, quando si potevano ancora vedere i Met. Oggi non è più possibile.
Ti scrivo per chiederti di incontrarci per fare quattro chiacchiere. Sarò lieto di invitarti a cena a New York, se me lo permetterai.
Mi prendo la libertà di proporti questo incontro per via di una cosa che ho pensato da quando è morto mio padre, l’anno scorso. Aveva novantasei anni ed è stato irascibile e combattivo fino alla fine. Questo ha reso ancora più difficile dargli l’ultimo addio, nonostante l’età avanzata.
Vorrei parlarti di lui e della sua vita. Ho cercato di scrivere qualcosa per ricordarlo, da pubblicare privatamente per gli amici, i parenti e i soci d’affari. Quasi tutti consideravano mio padre indistruttibile, un uomo con la pelle dura e una scorta di pazienza limitata. Niente di più lontano dalla verità. Non tutti sanno quanto ha sofferto per i colpi che si sono abbattuti sui suoi cari.
Ti prego di credere che capirò se non avrai il tempo di rispondere.
Tuo Seymour Levov «lo Svedese», Liceo di Weequahic 1945
Se qualcun altro mi avesse chiesto di parlarmi di qualcosa che stava scrivendo in omaggio a suo padre, gli avrei augurato buona fortuna e non me ne sarei occupato. Ma c’erano delle ragioni irresistibili perché io - in meno di un’ora - inviassi un biglietto allo Svedese per dirgli che ero a sua disposizione. La prima era questa: Levov lo Svedese vuole vedermi. Ridicolo, forse, per chi ha già un piede nella vecchiaia, ma mi era bastato vedere la sua firma in calce a quella lettera per essere assalito dai ricordi, ricordi dello Svedese in campo e fuori, ricordi che risalivano a cinquant’anni prima, ma che erano ancora affascinanti. Ricordavo di essere andato tutti i giorni al campo sportivo a vedere gli allenamenti l’anno in cui lo Svedese aveva accettato per la prima volta di entrare nella squadra. Sul campo da basket era già un virtuoso del gancio, un eccezionale marcatore, ma nessuno sapeva che
avrebbe potuto essere altrettanto magico sul campo da football fino al giorno in cui l’allenatore lo ingaggiò come estremo e la nostra squadra perdente, pur restando sempre in fondo alla classifica della City League, cominciò a segnare una, due e anche tre mete per incontro, tutte su lanci allo Svedese. Cinquanta o sessanta ragazzini si assiepavano ai bordi del campo per vedere lo Svedese che si allenava - con un malandato casco di cuoio e la maglia bruna col numero undici in arancione - nella squadra dell’università contro le matricole. Il quarterback dell’università, Lefty Leventhal, gli faceva un passaggio dopo l’altro («Lev-en-thal a Le-vov! Lev-en-thal a Le-vov!» era un anapesto che riusciva sempre a farci tornare ai tempi d’oro dello Svedese), e il compito della squadra delle matricole, che giocavano in difesa, era di impedire a Levov lo Svedese di segnare ogni volta. Ho passato i sessant’anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse prospettive che aveva da ragazzo, eppure l’incanto non si è mai dissipato del tutto, perché fino a oggi non ho dimenticato lo Svedese che, placcato dagli
inseguitori, si rialza lentamente, scrollandoseli di dosso, alzando lo sguardo ribelle al cielo autunnale, sospirando mestamente, e torna al piccolo trotto verso il gruppo dei compagni. Quando segnava, era un momento di gloria; e quando lo placcavano e lo mettevano giù senza tanti complimenti, e lui si raddrizzava scrollandosi di dosso gli avversari, era un altro momento di gloria, anche in allenamento.
E poi, un giorno, un po’ di quella gloria cadde sulle mie spalle. Avevo dieci anni, non ero mai stato sfiorato dalla grandezza e, senon fosse stato per Jerry Levov, non avrei mai colpito l’attenzione dello Svedese, non più di tutti gli altri spettatori ai bordi del campo. Jerry mi aveva appena accettato come amico; benché stentassi a crederlo, lo Svedese doveva avermi notato a casa sua. E così, un tardo pomeriggio d’autunno del 1943, quando tutta la squadra delle matricole gli piombò addosso dopo che aveva ricevuto un corto passaggio di Leventhal, e l’allenatore soffiò all’improvviso nel fischietto segnalando che per quel giorno bastava, lo Svedese, flettendo cautamente un
gomito mentre usciva dal campo un po’ di corsa e un po’ zoppicando, mi vide tra gli altri ragazzi e mi gridò: - Il basket è un’altra cosa, Skip.
Il dio (con tutti i suoi sedici anni) mi aveva accolto nell’olimpo degli atleti. L’adorato aveva riconosciuto l’adoratore. Naturalmente con gli atleti, come con gli idoli dello schermo, ogni ammiratore immagina di avere un rapporto segreto, personale; ma questo fu creato apertamente dalla meno vanitosa delle star, e davanti al rispettoso silenzio di una banda di ragazzi invidiosi: un’esperienza emozionante, che mi lasciò senza fiato. Arrossii, fremetti di gioia, verosimilmente non pensai ad altro per il resto della settimana. La finta autocommiserazione dell’atleta, la virile generosità, la principesca magnanimità, la soddisfazione del campione, così grande che ne può donare liberamente una parte alla folla... Questa munificenza non soltanto mi sommerse e si allargò dentro di me perché mi aveva raggiunto avvolta nel mio soprannome, ma si fissò nella mia mente come l’incarnazione di una cosa ancora più grande del talento
dello Svedese per gli sport: il talento che aveva di «essere se stesso», la capacità di essere questa strana forza che t’inghiottiva e di avere, tuttavia, una voce e un sorriso non offuscato dal minimo barlume di superiorità: la naturale modestia di chi non conosceva ostacoli, e sembrava non dover mai lottare per crearsi uno spazio tutto suo. Non credo di essere l’unico adulto che durante i patriottici anni della guerra - quando le speranze di tutto il nostro quartiere sembravano convergere verso lo splendido fisico dello Svedese - è stato un ragazzo ebreo che avrebbe voluto essere un ragazzo americano al cento per cento, e che per tutta la vita ha portato con sé il ricordo dello stile insuperabile di questo giovane dotatissimo.
Anche il suo essere ebreo - cosa che lui, atleta vincente, alto e biondo, prendeva con tanta indifferenza - deve averci suggerito qualche cosa: nel nostro idolatrare lo Svedese, e nel suo inconsapevole identificarsi con l’America, immagino ci fosse una sfumatura di vergogna e di rifiuto di sé. Era lui stesso a calmare, simultaneamente, i contrastanti desideri ebraici risvegliati dalla sua vista;
l’eterna contraddizione degli ebrei - che vogliono integrarsi e vogliono star fuori, che dicono di essere diversi e dicono di non essere diversi - si risolveva nel trionfale spettacolo di questo Svedese che era, in realtà, solo un altro dei Seymour del nostro quartiere, i cui progenitori erano stati dei Solomon e dei Saul, e che avrebbero generato degli Stephen, che a loro volta avrebbero generato dei Shawn. Dov’era, in lui, l’ebreo? Non riuscivi a trovarlo, eppure sapevi che c’era. Dov’era, in lui, l’irrazionalità? Dov’era, in lui, la pittima? Dov’erano le imprevedibili tentazioni? Nessuna astuzia. Nessun artificio. Nessuna malizia. Aveva eliminato tutto questo per raggiungere la perfezione. Né lotta, né ambivalenza, né doppiezza: soltanto lo stile, la naturale raffinazione fisica di una stella.
Solo... E la soggettività? Qual era la soggettività dello Svedese? Un substrato ci doveva essere, ma la sua composizione era inimmaginabile.
Questa fu la seconda ragione per cui risposi alla sua lettera: il substrato. Che tipo di esistenza mentale era stata
la sua? Cos’aveva minacciato, se una minaccia era esistita, di modificare la traiettoria dello Svedese? Nessuno passa attraverso la tristezza, il dolore, la confusione e la perdita senza restare segnato in qualche modo. Anche a quelli che da piccoli hanno avuto tutto toccherà, prima o poi, la loro quota d’infelicità; se non, certe volte, una quota maggiore. Nella vita dello Svedese doveva esserci stata la coscienza e doveva esserci stata la sventura. Eppure, non riuscivo a immaginare la forma presa dall’una e dall’altra, non riuscivo ancora a vedere dentro di lui: nel residuo della mia immaginazione adolescenziale ero sempre convinto che quella dello Svedese fosse stata una vita interamente priva di dolori.
Ma a cosa alludeva, in quella lettera guardinga e cortese, quando, parlando del padre defunto, un uomo non insensibile come credeva la gente, scriveva: «Non tutti sanno quanto ha sofferto per i colpi chesi sono abbattuti sui suoi cari»? No, un colpo doveva essersi abbattuto anche sulla vita dello Svedese. Ed era di questo che lui
voleva parlare. Non era la vita di suo padre che voleva mettere a nudo, era la sua.
Mi sbagliavo.
Ci incontrammo in un ristorante italiano sulla Quarantanovesima Strada, dove per anni lo Svedese aveva portato la famiglia ogni volta che venivano a New York a vedere uno spettacolo di Broadway o i Knickal Garden, e mi resi subito conto che raggiungere il substrato sarebbe stato tutt’altro che facile. Tutti, da Vincent, lo conoscevano bene: Vincent, la moglie di Vincent, Louie il maître, Carlo il barista, Billy il nostro cameriere, tutti conoscevano il signor Levov e tutti chiesero della signora e dei ragazzi. Saltò fuori che quando i suoi genitori erano vivi, lui li portava sempre da Vincent a festeggiare anniversari o compleanni. No, pensai, mi ha invitato qui solo per farmi vedere che nella Quarantanovesima Strada ovest lo ammirano come lo ammiravano in Chancellor Avenue.
Vincent è uno di quei ristoranti italiani vecchiotti annidati nelle strade del West Side tra il Madison Square Garden e il Plaza, ristorantini larghi tre tavoli e lunghi quattro lampadari, con arredamenti e menu che non sono quasi cambiati da prima della scoperta della rucola. Il televisore vicino al piccolo bar trasmetteva una partita di baseball, e ogni tanto un cliente si alzava, andava a dare un’occhiata, chiedeva al barista il punteggio, come stava giocando Mattingly, e tornava a sedersi davanti al piatto. Le sedie erano coperte di una plastica color turchese elettrico, le piastrelle del pavimento erano un salmone macchiettato, una parete era a specchio, i lampadari di ottone finto e, come ornamento, collocato in un angolo come un Giacometti, c’era un macina pepe rosso vivo alto un metro e mezzo (dono a Vincent, disse lo Svedese, della sua città natale), controbilanciato, nell’angolo opposto, da una damigiana di Barolo piazzata su un piedistallo come una statua. Un tavolo carico di vasetti della salsa marinara di Vincent era proprio davanti alla coppa delle mentine gratuite del dopo cena accanto al registratore di cassa della
signora Vincent; sul carrello dei dolci c’erano la millefoglie, il tiramisù, la torta a strati, la torta di mele e le fragole zuccherate; e dietro il nostro tavolo, sul muro, le foto con autografo («A Vincent e Anne, con amicizia») di Sammy Davisjr, Joe Namath, Liza Minnelli, Kaye Ballard, Gene Kelly, Jack Carter, Phil Rizzuto e Johnny e Joanna Carson. Avrebbe dovuto essercene una dello Svedese, naturalmente, e ci sarebbe stata se fossimo stati ancora in guerra con i tedeschi e i giapponesi e se di là dalla strada ci fosse stato il liceo di Weequahic.
Billy, il nostro cameriere, un uomo piccolo e tozzo con un naso da pugile, non dovette chiedere cosa voleva mangiare lo Svedese. Per più di trent’anni lo Svedese aveva ordinato a Billy la specialità della casa, ziti alla Vincent, preceduti da un piatto di frutti di mare Posillipo. - Gli ziti meglio cucinati di New York, - mi disse lo svedese, ma io ordinai il mio piatto preferito, pollo alla cacciatora, «disossato», come propose Billy. Mentre scriveva la nostra ordinazione, Billy disse allo Svedese che la sera prima Tony Bennett era andato a cena lì. La
sua voce, per un uomo dal fisico massiccio come Billy, un uomo che potevi immaginare intento a sollevare per tutta la vita qualcosa di più pesante di un piatto di ziti - stridula e intensa, tesa da un’angoscia sopportata troppo a lungo - fu insieme una sorpresa e un vero godimento. - Vede dov’è seduto il suo amico? Vede la sua sedia, signor Levov? Su quella sedia era seduto Tony Bennett -. A me disse: - Sa cosa dice Tony Bennett quando la gente si avvicina al suo tavolo e si presenta? Dice:«Piacere di conoscerla». E lei è seduto sulla sua sedia.
Lì finì il divertimento. D’ora in poi sarebbe stato lavoro.
Aveva portato le fotografie dei suoi tre ragazzi, e dall’aperitivo fino al dolce praticamente tutta la conversazione riguardò il diciottenne Chris, il sedicenne Steve e il quattordicenne Kent. Quale dei tre ragazzi riusciva meglio nell’hockey che nel baseball, ma doveva cedere alle insistenze dell’allenatore... Quale era bravo sia nel calcio sia nel football americano, ma non sapeva
decidersi...Quale era campione di tuffi, ma aveva battuto i record della scuola anche nella farfalla e nel dorso. Erano tre bravi studenti, tutti con ottimi voti; uno era ferrato in scienze, un altro era più «orientato nel sociale», mentre il terzo... eccetera. C’era una foto dei ragazzi con la madre, una bella bionda sulla quarantina, responsabile della pubblicità per un settimanale della contea di Morris. Ma aveva iniziato la carriera, aggiunse prontamente lo Svedese, solo quando il figlio minore era andato in seconda elementare. Erano fortunati, i suoi ragazzi, ad avere una mamma che preferiva stare a casa ad allevare i figli piuttosto che...
Rimasi colpito, mentre mangiavamo, da come sembrava sicuro di tutti i luoghi comuni che diceva, e da come tutto quello che diceva fosse soffuso di melensaggine. Continuavo ad aspettare che dicesse qualcosa in più di queste ineccepibili banalità, ma tutte quelle che venivano a galla erano altre balordaggini. Al posto dell’anima, pensavo, ha l’affabilità: quest’uomo la irradia da ogni poro. Per sé stesso ha ideato un incognito, e l’incognito è
diventato lui. Parecchie volte, durante il pasto, pensai che non ce l’avrei fatta, pensai che non sarei arrivato al dolce se lui avesse continuato a tessere gli elogi della sua famiglia e a tessere gli elogi della sua famiglia e...Finché cominciai a domandarmi se il problema non fosse un altro: non era in incognito, era pazzo.
Sopra di lui c’era qualcosa che gli aveva intimato l’alt. Qualcosa lo aveva trasformato in un’insulsaggine umana. Qualcosa lo aveva messo in guardia: non opporti a nulla.
Lo Svedese, che aveva sei o sette anni più di me, era prossimo alla settantina, e tuttavia non era meno splendido per le rughe agli angoli degli occhi e, sotto i promontori degli zigomi, per due cavità che erano un po’ più profonde di quanto richiedessero i classici modelli della virilità maschia e vigorosa. Attribuivo la sua magrezza a un regime di jogging metodico o di tennis giocato seriamente, finché, verso la fine del pasto, scoprii che durante l’inverno era stato operato alla prostata e che stava appena cominciando a recuperare il peso perduto. Non so se a sorprendermi di più fu il sapere che non era stato bene o il
fatto che me lo avesse confessato. Mi chiedevo persino se ad alimentare la mia impressione di una persona mentalmente instabile non fosse la recente esperienza della chirurgia con i suoi effetti secondari.
A un certo punto lo interruppi e, cercando di non mostrare in alcun modo la mia disperazione, gli chiesi della ditta: com’era, al giorno d’oggi, dirigere una fabbrica a Newark? Fu così che scoprii che la Newark Maid non era più a Newark dai primi anni Settanta. Tutta l’industria, in pratica, aveva preso il largo: i sindacati avevano reso sempre più difficile agli industriali realizzare profitti, non si riusciva più a trovare gente che accettasse di lavorare a cottimo, o di lavorare come volevi tu, e in altri paesi c’era una grande disponibilità di operai che potevano essere addestrati fin quasi ai livelli raggiunti dall’industria del guanto quaranta o cinquant’anni prima. Per molto tempo la sua famiglia aveva lavorato a Newark; per dovere verso i vecchi dipendenti, per la maggior parte neri, lo svedese aveva aspettato circa sei anni dopo i disordini del ‘67, aveva aspettato più che poteva, ignorando le realtà
economiche industriali e le invettive di suo padre, ma quando non era riuscito a fermare lo scadimento della qualità, deteriorata costantemente dopo i moti, aveva rinunciato, uscendo più o meno incolume dal disastro che aveva colpito la città. Nei quattro giorni di disordini la Newark Maid non aveva dovuto denunciare altro che qualche finestra rotta, mentre a cinquanta metri dal cancello del suo piano di caricamento, in West Market, due edifici erano stati distrutti dal fuoco e abbandonati.
- Tasse, corruzione e razzismo. La litania del mio vecchio. Con chiunque parlasse, gente che veniva da ogni angolo del paese e alla quale la sorte di Newark non poteva interessare meno, per lui non c’era nessuna differenza: che fosse giù a Miami Beach, nel condominio, o in crociera nei Caraibi, faceva a tutti una testa così sulla sua vecchia e adorata Newark, distrutta dalle tasse, dalla corruzione e dal razzismo. Mio padre era uno di quelli di Prince Street, di quelli che per tutta la vita hanno amato quella città. Quel che è successo a Newark gli ha spezzato il cuore.
- È la peggiore città del mondo, Skip, - stava dicendomi lo Svedese. - Una volta era la città dove si fabbricava di tutto. Adesso è la capitale mondiale dei furti d’auto. Lo sapevi? Non è il più orrido degli orridi sviluppi, ma è abbastanza raccapricciante. I ladri abitano per la maggior parte nel nostro vecchio quartiere. Ragazzi neri. Quaranta macchine rubate a Newark ogni ventiquattr’ore. Sono le statistiche. Neanche poche, no? E sono armi per commettere delitti: una volta rubate, diventano missili lanciati nello spazio. Il bersaglio è chiunque attraversi la strada: vecchi, bambini, non ha importanza. Lo spiazzo davanti alla nostra fabbrica era il circuito di Indianapolis, per loro. Ecco un’altra delle ragioni per cui siamo andati via. Quattro, cinque ragazzetti che si sporgono dai finestrini, in Central Avenue, a centotrenta chilometri l’ora. Quando mio padre comprò lo stabilimento, in Central Avenue c’erano i tram. Più avanti c’erano i saloni dei concessionari di automobili. Central Cadillac. Lasalle. In ogni traversa c’era una fabbrica dove qualcuno produceva qualcosa. Adesso in ogni strada c’è una
bottiglieria: una bottiglieria, una pizzeria e la facciata in rovina di una chiesa. Tutto il resto è crollato o chiuso con quattro assi inchiodate. Ma quando mio padre comprò la fabbrica, Kiler, a un tiro di sasso, faceva refrigeratori d’acqua, Fortgang allarmi antincendio, Lasky bustini, Robbins guanciali, Honig pennini... Cristo, parlo come mio padre. Ma aveva ragione lui. «Questo posto sta andando in malora», diceva. Oggi l’industria principale è il furto d’auto. Fermati a un semaforo di Newark, in una strada qualunque di Newark, e non devi far altro che guardarti intorno. Bergen, vicino a Lyons: ecco dove mi hanno speronato. Ti ricordi della pasticceria di Henry, vicino al Park Theater? Beh, proprio là dove una volta c’era Henry. Sono andato da Henry, ai tempi del liceo, con la prima ragazza della mia vita, a bere qualcosa. In uno dei suoi separè. Arlene Danziger. Dopo il cinema, per un Bianco e Nero. Ma bianco e nero non vuol dire più gazosa e gelato in Bergen Street. Vuol dire l’odio più terribile del mondo. Una macchina che va in senso contrario in una strada a senso unico, e mi viene addosso. Quattro
ragazzotti affacciati ai finestrini. Due scendono, ridendo, scherzando, e mi puntano una pistola alla testa. Gli do le chiavi e uno parte con la mia macchina. Proprio davanti al posto dove una volta c’era Henry. Una cosa orribile. Si gettano contro le macchine della polizia in pieno giorno. Scontri frontali. Per gonfiare gli air bag. Ciambelle. Hai sentito parlare delle ciambelle? Fare le ciambelle? Non hai mai sentito? È per questo che rubano le macchine. A tutta birra, inchiodano, tirano il freno a mano, girano il volante, e la macchina si mette a ruotare su se stessa. Girano in cerchio alla massima velocità. Ammazzare dei pedoni non significa niente, per loro. Ammazzare degli automobilisti non significa niente. Ammazzarsi non significa niente. Basta vedere i segni delle frenate per sentirsi rizzare i capelli in testa. Hanno ucciso una donna proprio davanti a casa nostra, la settimana in cui mi hanno rubato la macchina. Facendo una ciambella. Ero presente. Stavo uscendo per andare al lavoro. Una velocità spaventosa. Il motore che geme. Uno stridore impossibile. Una cosa terrificante. Mi ha gelato il sangue nelle vene. Stava
uscendo con la macchina dalla Seconda Strada, e questa donna, una ragazza nera, ci ha lasciato la pelle. Madre di tre bambini. Due giorni dopo è toccato a uno dei miei dipendenti. Un nero. Ma chi se ne frega, neri, bianchi, non gliene frega niente, a quelli. Ammazzerebbero chiunque. Si chiamava Clark Tyler, il mio spedizioniere. E cosa stava facendo? Usciva dal nostro parcheggio per andare a casa. Dodici ore d’intervento, quattro mesi d’ospedale. Invalidità permanente. Lesioni alla testa, lesioni interne, bacino fratturato, spalla fratturata, colonna vertebrale fratturata. Un inseguimento a tutta birra, un balordo su una macchina rubata con i poliziotti alle calcagna, e il ragazzo lo sperona, sfonda la portiera dalla parte del guidatore, e buonanotte a Clark. Centotrenta chilometri l’ora in Central Avenue. Il ladro ha dodici anni. Per vedere sopra il volante ha dovuto arrotolare i tappetini e metterseli sotto il sedere. Sei mesi a Jamesburg, ed è di nuovo al volante di una macchina rubata. No, per me era abbastanza. Mi rubano la macchina minacciandomi con le armi, storpiano Clark,
ammazzano quella donna... Quella settimana è stata decisiva. Basta.
La Newark Maid adesso produceva esclusivamente a Portorico. Per un po’, dopo aver lasciato Newark, lo Svedese aveva ottenuto delle commesse dal governo comunista della Cecoslovacchia e diviso il lavoro tra la sua fabbrica di Ponce, a Portorico, e una fabbrica di guanti ceca di Brno. Ma quando uno stabilimento adatto a lui era stato messo in vendita ad Aguadilla, sempre a Portorico, vicino a Mayagüez, si era sganciato dai cechi, che con la loro burocrazia lo avevano irritato fin dai primi giorni, e aveva unificato la propria attività comprando un secondo stabilimento a Portorico, un’altra fabbrica piuttosto grande, trasferendovi le macchine, varando un programma di formazione professionale e assumendo altre trecento persone. Negli anni Ottanta, però, anche Portorico cominciava a diventare troppo cara, e quasi tutti, tranne la Newark Maid, fuggirono in Estremo Oriente, dove la manodopera era abbondante ed economica, prima nelle Filippine, poi in Corea e a Taiwan, e ora in Cina. Persino i
guanti da baseball, i guanti più americani di tutti, che una volta erano fatti da amici di suo padre, i Denkert, su a Johnstown, nello stato di New York, già da molto tempo si fabbricavano in Corea. Quando il primo imprenditore lasciò Gloversville, New York, nel ‘52 o nel ‘53, e andò a fare guanti nelle Filippine, la gente rise di lui, come se stesse andando sulla luna. Ma quando morì, verso il 1978, in quel paese aveva una fabbrica con quattromila operai, e praticamente tutta l’industria si era trasferita da Gloversville nelle Filippine. A Gloversville, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, dovevano esserci circa novanta fabbriche di guanti, grandi e piccole. Oggi non ce n’è una: sono tutti a spasso o importano dall’estero. - Gente che non distingue una lanzetta da un pollice, - disse lo Svedese. - Sono uomini d’affari, sanno se hanno bisogno di centomila paia di questo e duecentomila paia di quello in questi colori e di queste misure, ma non conoscono i dettagli della produzione vera e propria. - Cos’è una lanzetta? - chiesi. - Il pezzo del guanto tra le dita. Quei pezzetti oblunghi tra le dita che si tagliano
insieme ai pollici: quelle sono le lanzette. Oggi c’è un mucchio di gente dequalificata, che forse non sa la metà di quello che sapevo io a cinque anni, ma che ogni giorno è costretta a prendere decisioni piuttosto importanti. C’è un tale che compra pelle di daino, roba che può arrivare a tre dollari e cinquanta cent il piede per la qualità da abbigliamento, compra questa pelle di daino da abbigliamento di ottima qualità solo per tagliare il pezzetto da applicare al palmo di un paio di guanti da sci. L’altro giorno parlavo con lui. Articolo di moda, un rettangolo di dodici centimetri per due, e lui paga tre e cinquanta il piede quando avrebbe potuto spendere un dollaro e cinquanta e guadagnarci su. Moltiplicalo per un ordine particolarmente grosso, diventa un errore da centomila dollari. E lui non se n’era mai accorto. Avrebbe potuto intascare cento bigliettoni.
Lo Svedese era rimasto a Portorico, mi spiegò, come prima era rimasto a Newark, in gran parte perché aveva insegnato a un mucchio di brave persone il difficile compito di confezionare un guanto meticolosamente e con
la massima cura, gente che poteva dargli ciò che la Newark Maid aveva ricercato in materia di qualità fin dai tempi di suo padre; ma era rimasto anche perché, doveva ammettere, la sua famiglia aveva una vera passione per la casa di villeggiatura che aveva fatto costruire una quindicina d’anni prima sulla costa caraibica, non molto lontano dalla fabbrica di Ponce. Come amavano, i ragazzi, la vita che facevano laggiù! E ripartì, Kent, Chris, Steve, lo sci d’acqua, la vela, la pesca subacquea, il catamarano... E anche se era chiaro, da tutto quello che mi aveva appena detto, che quest’uomo poteva essere simpatico, se voleva, altrettanto chiaramente mi sembrava che non avesse il minimo criterio per valutare cos’era interessante, nel suo mondo, e cosa non lo era. O, per ragioni che non riuscivo a spiegarmi, non voleva che il suo mondo fosse interessante. Avrei dato qualunque cosa per farlo tornare a Kiler, Fortgang, Lasky, Robbins e Honig, alle lanzette e alle minuziose spiegazioni su come si fabbrica un buon guanto, e persino a quel tale che aveva sborsato tre e cinquanta il piede per il tipo sbagliato di pelle di daino da
applicare a un articolo di moda, ma quando lo Svedese partì e innestò la quarta mi fu impossibile trovare un modo civile per fargli distogliere una seconda volta l’attenzione dai successi conquistati dai suoi ragazzi per terra e per mare.
Mentre stavamo aspettando il dolce, lo Svedese mi confidò di essersi concesso l’ingrassante zabaione sopra gli ziti solo perché, dopo essersi fatto togliere la prostata un paio di mesi prima, era ancora quattro chili sotto il suo peso forma.
- L’operazione è andata bene?
- Benissimo, - rispose.
- Un paio di amici miei, - dissi, - non sono usciti dalle mani del chirurgo come avevano sperato. Quell’operazione può essere una vera catastrofe per un uomo, anche se gli asportano il cancro.
- Sì, capita, lo so.
- Uno è diventato impotente, - dissi. - L’altro è impotente e incontinente. Persone della mia età. È stata dura, per loro. Desolante. Puoi essere costretto a usare il pannolone.
La persona che avevo chiamato «l’altro» ero io. Mi avevano operato a Boston, e - escluse le confidenze fatte a un amico di Boston che mi aveva aiutato in quel brutto momento fino al giorno in cui mi ero rimesso in piedi - quando ero tornato nella casa dove vivo da solo, due ore e mezzo a ovest di Boston, nei Berkshire, avevo creduto meglio tenere per me sia il fatto che avevo avuto il cancro sia i danni che mi aveva cagionato.
- Beh, - disse lo Svedese, - io me la sono cavata bene, credo.
- Direi proprio di sì, - risposi, abbastanza amabilmente, pensando che quella damigiana di autocompiacimento possedeva davvero tutto quanto avesse mai desiderato. Rispettare tutto ciò che si dovrebbe rispettare; non avere proteste da fare; non essere mai turbati dalla mancanza di fiducia in se stessi; non essere mai irretiti da qualche
ossessione, torturati dall’incapacità, avvelenati dal risentimento, trascinati dalla collera... La vita, per lo Svedese, si stava davvero srotolando come un morbido gomitolo di lana.
Questi pensieri mi riportarono alla sua lettera, alla richiesta di consigli professionali sull’omaggio a suo padre che stava cercando di scrivere. Non avevo nessuna voglia di tirar fuori l’argomento, ma il mistero perdurava: non soltanto sul motivo per cui non lo tirava fuori lui, ma anche sul perché, se non aveva intenzione di parlarne, mi aveva scritto. Potevo concludere soltanto - dato ciò che ora sapevo della sua vita, né troppo ricca di contrasti né turbata da troppe contraddizioni - che la lettera e il suo contenuto erano legati all’operazione, a qualcosa d’insolito che doveva essersi manifestato in lui subito dopo, qualche emozione nuova e sorprendente venuta alla ribalta. Sì, pensai, la lettera era germogliata da una scoperta tardiva di Levov lo Svedese: che cosa significa essere non sano ma malato, non forte ma debole; che cosa significa non avere un aspetto magnifico... La vergogna,
l’umiliazione, l’orrore, il disastro di doversi chiedere: «Perché?» Tradito all’improvviso da un corpo meraviglioso che gli aveva dato solo sicurezza e che aveva costituito il nocciolo del suo vantaggio sugli altri, lo Svedese aveva perso momentaneamente l’equilibrio e si era aggrappato, fra tutti, proprio a me, come se così potesse in qualche modo far rivivere il padre defunto ed evocarne la forza protettrice. Per un attimo si era perso d’animo, e quest’uomo che, da quanto potevo indovinare, usava se stesso soprattutto per nascondere se stesso si era trasformato in un essere impulsivo e devitalizzato con un estremo bisogno di conferme. La morte aveva fatto irruzione nel sogno della sua vita (come, per la seconda volta in dieci anni, aveva fatto irruzione nella mia), e le cose che turbano gli uomini della nostra età avevano turbato anche lui.
Mi chiedevo se avesse ancora voglia di rievocare la vulnerabilità da infermo che aveva reso certe inevitabilità reali, per lui, come la storia della sua vita familiare, se avesse ancora voglia di ricordare l’ombra che si era
insinuata come una glassa virulenta tra strati e strati di compiacimento. Eppure lo Svedese era venuto all’appuntamento. Voleva forse dire che l’intollerabile non era cancellato, che le salvaguardie non erano state ripristinate, che l’emergenza non era ancora finita? O presentarsi e parlare allegramente di tutto ciò che era tollerabile era il suo modo di esorcizzare l’ultima delle sue paure? Più pensavo a quest’anima apparentemente semplice, seduta davanti a me, che mangiava zabaione e trasudava sincerità, più lontano da lui mi portavano i pensieri. L’uomo dentro l’uomo mi riusciva scarsamente comprensibile. Non riuscivo a capirlo. Non riuscivo affatto a immaginarlo, essendomi buscato la mia forma di «morbo dello Svedese»: l’incapacità di trarre conclusioni su qualunque cosa mostrasse solo l’aspetto esteriore. Scavare a destra e a manca nel tentativo di comprendere quest’uomo è ridicolo, mi dissi. Questo è il vaso che non si apre. Quest’uomo non può essere incrinato dal pensiero. Ecco il mistero del suo mistero. Sarebbe come cercare di ottenere qualcosa dal David di Michelangelo.
Nella lettera gli avevo dato il mio numero di telefono: perché non aveva chiamato per annullare l’appuntamento, se non era più sconvolto dalla prospettiva della morte? Una volta che tutto era tornato com’era sempre stato, una volta ritrovata quella speciale luminosità che non aveva mai mancato di fargli conquistare tutto quello che voleva, a cosa gli servivo? No, la sua lettera, pensai, non può essere tutta la storia: se lo fosse, non sarebbe venuto. In lui c’è ancora qualcosa dell’impulso temerario che lo ha spinto a cercare di cambiare le cose. C’è ancora traccia di ciò che lo ha sorpreso all’ospedale. Un’esistenza non analizzata non soddisfa più le sue necessità. Lo Svedese vuole che qualcosa resti. Ecco perché si è rivolto a me: per registrare ciò che, altrimenti, potrebbe essere dimenticato. Omesso e dimenticato. Che cosa poteva essere?
O forse era solo un uomo felice. Esistono anche persone felici. Perché non dovrebbero? Forse tutte le disordinate congetture sui motivi dello Svedese erano solo il frutto della mia impazienza professionale, il mio tentativo d’infondergli qualcosa di simile al significato tendenzioso
che Tolstoj ha assegnato a Ivan Il’iĉ, così sminuito dall’autore nel malevolo racconto in cui spiega crudelmente, in termini clinici, cosa significa essere persone qualunque. Ivan Il’iĉ è l’alto funzionario, il magistrato della corte suprema che conduce «una vita decorosa approvata dalla società» e che sul letto di morte, in preda a un’angoscia e a un terrore incessante, pensa: «Forse non sono vissuto come avrei dovuto». La vita di Ivan Il’iĉ, scrive Tolstoj, compendiando, all’inizio, il suo giudizio sul presidente della corte con la deliziosa casa di San Pietroburgo e il cospicuo stipendio di tremila rubli l’anno e tutti gli amici ben piazzati ai vertici della società, era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse. Forse nella Russia del 1886. Ma a Old Rimrock, New Jersey, nel 1995, quando tutti gli Ivan Il’iĉ vanno a frotte a mangiare al club dopo le buche del golf mattutino e, esultanti, si mettono a cantare: «Non potrebbe andar meglio di così», forse sono assai più vicini alla verità di quanto lo sia mai stato Lev Tolstoj.
La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente in linea con i valori dell’America.
- Jerry è gay? - domandai all’improvviso.
- Mio fratello? - Lo Svedese si mise a ridere. - Stai scherzando.
Forse sì, scherzavo, e avevo fatto la domanda per malizia, per alleviare la noia. Ma ricordavo bene quella frase che aveva scritto lo Svedese su quanto suo padre aveva «sofferto per i colpi che si erano abbattuti sui suoi cari»; il che mi aveva indotto a chiedermi, di nuovo, a cosa avesse inteso alludere; il che mi aveva ricordato, spontaneamente, l’umiliazione subita da Jerry in prima liceo quando aveva cercato di conquistare il cuore di una nostra compagna di classe, una ragazza assolutamente comune, una con la quale nessuno avrebbe dovuto fare tanta fatica per un bacio.
Come regalo per il giorno di San Valentino Jerry le confezionò una pelliccia di criceto, centosettantacinque
pelli di criceto fatte seccare al sole e cucite con un ago ricurvo rubato nella fabbrica del padre, dove gli era venuta l’idea. Al dipartimento di biologia della scuola erano stati regalati circa trecento criceti da sezionare, e Jerry riuscì a farsi dare le pelli dagli studenti; la sua stranezza e la sua genialità resero credibile la storia che raccontava, di «un esperimento scientifico» che stava facendo a casa sua. Riuscì quindi a scoprire l’altezza della ragazza, disegnò il modello e poi, dopo che ebbe tolto - o creduto di togliere - quasi tutto il puzzo dalle pelli essiccandole al sole sul tetto del garage, le cucì meticolosamente, rifinendo la pelliccia con una fodera di seta ricavata da un pezzo di paracadute bianco, un paracadute difettoso che gli aveva spedito suo fratello per ricordo dalla base aerea dei marines di Cherry Point, in North Carolina, dove la squadra di Parris Island aveva vinto l’ultimo incontro della stagione del campionato di baseball del corpo dei marines. L’unica persona alla quale Jerry parlò della pelliccia ero io, la spalla del ping pong. Jerry voleva inviarla alla ragazza nella confezione della pelliccia Bamberger di sua madre,
avvolta in carta velina color lavanda e legata con un nastro di velluto. Ma quando la pelliccia fu finita era così rigida -per il modo idiota in cui aveva essiccato le pelli, avrebbe spiegato suo padre in seguito - che non riuscì a piegarla e a metterla nella scatola.
Davanti allo Svedese, nel ristorante di Vincent, ricordai improvvisamente di averla vista nello scantinato: una grossa cosa con le maniche posata sul pavimento. Oggi, pensavo, vincerebbe premi di ogni genere al Whitney Museum, ma a Newark, nel 1949, nessuno sapeva cosa fosse la grande arte, e Jerry e io ci scervellammo per capire come infilare la pelliccia nella scatola. Era fissato con quella scatola perché la ragazza avrebbe pensato, quando avesse cominciato ad aprirla, che conteneva una costosa pelliccia di Bam. Io pensavo a cosa avrebbe pensato quando avesse scoperto che quella che c’era dentro non era una pelliccia di Bam; pensavo anche che, sicuramente, non era necessario fare tanta fatica per colpire l’attenzione di una ragazza rotondetta con una brutta pelle e senza boyfriend. Ma collaborai con Jerry
perché aveva una personalità ciclonica alla quale sfuggivi o cedevi, e perché era il fratello di Levov lo Svedese e io ero a casa di Levov lo Svedese e, ovunque si volgesse lo sguardo, c’erano i trofei di Levov lo Svedese. Alla fine Jerry scucì e ricucì la pelliccia in modo tale che la cucitura attraversasse il petto, creando una specie di cardine lungo il quale la pelliccia poteva essere piegata e messa nella scatola. Lo aiutai: fu come cucire un’armatura. Sopra la pelliccia mise un cuore ritagliato da un pezzo di cartone e ornato del suo nome scritto a caratteri gotici, e poi il pacco fu spedito per posta. Jerry aveva impiegato tre mesi per trasformare un’idea inverosimile in una realtà da manicomio. Poco, secondo i normali criteri.
Quando aprì la scatola, la ragazza cacciò un urlo. - Le è venuto un colpo, - aveva detto la sua amica. Anche al padre di Jerry era venuto un colpo. - È così che rovini il paracadute che ti ha mandato tuo fratello? L’hai fatto a pezzi? Hai fatto a pezzi un paracadute? - Jerry era troppo mortificato per dirgli che lo aveva fatto perché la ragazza gli cadesse tra le braccia e lo baciasse come Lana Turner
baciava Clark Gable. Ero presente quando suo padre lo sgridò perché aveva essiccato le pelli al sole di mezzogiorno. - Le pelli si devono conservare nel modo giusto. Nel modo giusto! E il modo giusto non è al sole: le pelli vanno essiccate all’ombra. Non si devono bruciare, maledizione! Posso insegnarti una volta per tutte, Jerome, come si conservano le pelli? - E così fece, bollendo di rabbia in un primo momento, quasi incapace di soffocare la delusione provata davanti all’inettitudine di suo figlio come pellicciaio, spiegando a me e a lui come avevano insegnato ai mercanti a trattare le pelli di montone, in Etiopia, prima di spedirle alla Newark Maid per essere passate alla conceria. - Potete salarle, ma il sale costa caro. Specie in Africa, molto, molto caro. E là il sale lo rubano. Quella gente non ha sale. Devi mettere il veleno nel sale, laggiù, perché non te lo rubino. Un altro modo è steccare la pelle, con vari sistemi, o su un’asse o su un telaio, la leghi e ci fai dei taglietti, la stendi e la fai seccare all’ombra. All’ombra, ragazzi. È quella che noi chiamiamo la pelle seccata con la sabbia. Ci spargi sopra un pizzico di
sabbia, evita il deterioramento e impedisce ai parassiti di attaccarla... - Con mio grande sollievo, lo sdegno aveva ceduto il passo, con rapidità sorprendente, a un preciso, anche se tedioso, assalto pedagogico, che sembrava irritare Jerry ancora di più della stizza e delle critiche di suo padre. Quello potrebbe benissimo essere stato il giorno in cui Jerry giurò a se stesso di non mettere mai più piede nella fabbrica di suo padre.
Per rendere accettabili quelle pelli maleodoranti, Jerry aveva annaffiato la pelliccia con il profumo di sua madre, ma quando fu consegnata dal postino aveva ricominciato a puzzare - come aveva sempre fatto, a intermittenza - e quando la ragazza aprì la scatola rimase così disgustata, così offesa e inorridita, che non gli rivolse più la parola. Secondo le altre ragazze, era convinta che Jerry fosse andato a caccia e avesse ucciso tutte quelle bestiole, e poi le avesse mandate a lei per prendersi gioco della sua pelle sciupata. Quando Jerry lo seppe s’infuriò e, nel bel mezzo della nostra successiva partita di ping-pong, la mandò all’inferno e diede a tutte le ragazze delle «deficienti del
cazzo». Se prima non aveva avuto il coraggio d’invitarne qualcuna a uscire con lui, dopo di allora non ci provò mai più, e fu uno dei tre ragazzi, tre soli, che non parteciparono al ballo studentesco. Gli altri due erano quelli che noi identificavamo come «checche». E fu per questo che rivolsi allo Svedese una domanda su Jerry che non mi sarei mai sognato di fare nel 1949, quando non avevo le idee chiare su cosa fosse un omosessuale e non potevo immaginare che lo fosse uno che conoscevo. Allora pensavo soltanto che Jerry era Jerry, un genio, con un’ingenuità ossessiva e una innocenza colossale in fatto di ragazze. A quei tempi, questo spiegava tutto. Forse anche adesso. Ma volevo proprio vedere cosa, semmai, poteva offuscare l’innocenza di questo regale Svedese – e impedire a me stesso di essere tanto villano da addormentarmi davanti a lui - e per questo gli chiesi: - Jerry è gay?
- C’è sempre stata una forma di reticenza in Jerry, da piccolo, - dissi. - Non ci sono mai state ragazze, mai amici
intimi, sempre qualcosa, in lui, anche a prescindere dal cervello, che lo metteva in una categoria a sé...
Lo Svedese annuì, guardandomi come se comprendesse il significato più profondo delle mie parole come nessun altro essere umano aveva mai fatto prima, e a causa di questo sguardo penetrante che, avrei giurato, non vedeva niente, di questa espressione che nulla esprimeva e nulla, in realtà, rivelava, non avevo idea di dove potessero esserei suoi pensieri, o addirittura, se avesse «dei pensieri». Quando, per qualche istante, smisi di parlare, sentii che le mie parole, anziché cadere nella rete della coscienza del mio interlocutore, finivano nel nulla che c’era nel suo cervello, andavano là e scomparivano. Nei suoi occhi innocenti qualcosa - la promessa che vi leggevi: che lo Svedese non avrebbe mai potuto fare niente che non fosse giusto - cominciava a darmi fastidio, e dev’essere stata questa la ragione per cui subito dopo accennai alla sua lettera, invece di tenere la bocca chiusa finché Billy avesse portato il conto, quando avrei potuto salutarlo e lasciare che andasse per la sua strada per altri
cinquant’anni: in modo da potere, nel 2045, sentire veramente il desiderio di rivederlo.
Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia
degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati.
- Quando mi hai scritto di tuo padre, e dei colpi che aveva sopportato, ho pensato che Jerry, magari, fosse stato uno di questi colpi. Il tuo vecchio non sarebbe stato sicuramente più contento del mio se avesse dovuto affrontare il problema di un figlio omosessuale.
Lo Svedese mi scoccò un sorriso che rinnegava ogni superiorità, un sorriso destinato a tranquillizzarmi sul fatto che niente, in lui, avrebbe mai potuto o voluto resistermi, un sorriso che intendeva dirmi che, adorato com’era, lo Svedese non era migliore di me, anzi era forse quasi una nullità, paragonato a me. - Beh, fortunatamente per mio padre, non ha dovuto farlo. Jerry era «il figlio dottore». Mio padre non avrebbe potuto esserne più fiero.
- Jerry fa il medico?
- A Miami. Cardiochirurgo. Milioni di dollari l’anno.
- Sposato? Jerry è sposato?
Ancora quel sorriso. L’elemento più sorprendente era la vulnerabilità di quel sorriso: la vulnerabilità del nostro Mister Muscolo spacca record di fronte a tutta la durezza che ci vuole per restare vivi. Il rifiuto di quel sorriso di
riconoscere, per non dire sanzionare in lui, la feroce ostinazione che settant’anni di sopravvivenza esigono da un uomo. Come se un individuo che ha più di dieci anni credesse ancora di poter soggiogare con un sorriso, perfino con un sorriso caldo e affettuoso come il suo, tutte le cose che ti vogliono distruggere, di potere, con un sorriso, tenere tutto insieme mentre il braccio dell’imprevedibile ti si abbatte violento sulla testa. Ancora una volta cominciai a pensare che potesse essere malato di mente, che magari quel sorriso fosse un sintomo di pazzia. Non c’era nessuna mistificazione, nel sorriso: ed era questa la cosa peggiore. Il sorriso non era insincero. Lo Svedese non stava imitando nessuno. Questa caricatura era la realtà, una realtà raggiunta spontaneamente dopo una vita di sforzi per immergersi sempre più profondamente in... Che cosa? La nozione di sé che gli era stata infusa dalla celebrità ottenuta nel quartiere: era questo che lo aveva mummificato, trasformandolo in un eterno ragazzo? Era come se lo Svedese avesse abolito dal suo mondo tutto ciò che non gli confaceva: non soltanto l’inganno, la violenza,
il dileggio e la crudeltà, ma qualunque cosa fosse anche lontanamente grossolana, ogni minaccia rappresentata dall’intervento del caso fortuito, quel terribile araldo che annuncia il crollo delle nostre difese. Non desisteva un attimo dal tentativo di far sembrare il suo rapporto con me semplice e sincero come il suo apparente rapporto con se stesso.
A meno che... A meno che non fosse solo un uomo maturo, ambiguo come tutti gli uomini maturi. A meno che ciò che era stato risvegliato dall’operazione - e che era riuscito momentaneamente a offuscare la serena visione delle cose durata per tutta la vita – non fosse stato spento, o quasi, da una perfetta guarigione. A meno che lo Svedese non fosse un personaggio che non aveva un carattere da rivelare, ma un personaggio con un carattere che non voleva rivelare: solo un uomo ragionevole che sa bene che, se attribuisci grande valore alla tua privacy e al benessere dei tuoi cari, l’ultima persona a cui fare le tue confidenze è un romanziere. Dai al romanziere, invece della storia della tua vita, l’impudente rifiuto dello
splendido sorriso, colpiscilo con la scarica elettrica del tuo sorriso da principe della dolcezza, poi finisci lo zabaione e torna di corsa a Old Rimrock, New Jersey, dove la tua vita è affar tuo e non suo.
- Jerry si è sposato quattro volte, - disse lo Svedese, sorridendo. - Il record della famiglia.
- E tu? - Avevo già dedotto, dall’età dei suoi tre figli, che la bionda sulla quarantina con le mazze da golf fosse più che probabilmente una seconda moglie, se non addirittura una terza. Ma il divorzio non quadrava col mio ritratto di una persona così decisa a rifiutarsi di ammettere l’elemento irrazionale della vita. Se c’era stato un divorzio, doveva essere stato provocato da Miss New Jersey. Oppure la prima moglie era morta. O l’avere per marito un uomo che doveva continuare a fare di tutto per apparire perfetto, un uomo votato, anima e corpo, all’illusione della stabilità, l’aveva portata al suicidio. Forse era questo il colpo che si era abbattuto... Malignamente, i miei tentativi di trovare il pezzo mancante che avrebbe fatto dello Svedese qualcosa di
intero e coerente continuavano ad attribuirgli sregolatezze di cui non c’era traccia sul suo viso di campione splendidamente invecchiato. Non riuscivo a decidere se quell’espressione vacua fosse come un manto di neve che copre qualcosa o un manto di neve che non copre un bel niente.
- Io? Due mogli, è il mio limite. Sono un dilettante, in confronto a mio fratello. La sua nuova ha passato da poco la trentina. La metà dei suoi anni. Jerry è il medico che sposa l’infermiera. Infermiere tutt’e quattro. Baciano la terra sulla quale cammina il dottor Levov. Quattro mogli, sei figli. Questo sì che aveva fatto uscire un po’ di testa papà. Ma Jerry è una persona importante, un tipo arcigno, il chirurgo prima donna arrogante e presuntuoso (tiene un intero ospedale per le palle), e così anche mio padre si era rimesso in riga. Vi erastato costretto. Altrimenti lo avrebbe perduto. Il mio fratellino non va in giro a scopare. A ogni divorzio papà diventava matto, gli avrebbe sparato un centinaio di volte, ma appena Jerry si risposava, la nuova moglie, agli occhi di mio padre, era una principessa più
bella e più buona della moglie precedente. «Che bambola, che tesoro, che donna...» Chi avesse detto qualcosa di una qualsiasi delle mogli di Jerry, mio padre l’avrebbe ammazzato. I figli di Jerry, poi, li adorava. Cinque femmine, un maschio. Papà voleva bene al maschio, ma le femmine, quelle erano le pupille dei suoi occhi. Non c’era nulla che non avrebbe fatto per quei ragazzi. Per tutti i nostri figli. Quando aveva tutti intorno, tutti noi, tutti i nipoti, il mio vecchio era al settimo cielo. Novantasei anni, mai malato un giorno in vita sua. Dopo il colpo, nei sei mesi prima che morisse, quello è stato il momento peggiore. Ma gli è andata bene. Ha fatto una bella vita. Un vero lottatore. Una forza della natura. Un uomo irrefrenabile -. C’è un tono leggero e fluttuante nelle sue parole quando tocca l’argomento padre, e la voce risuona di amoroso rispetto, svelando sfacciatamente che nulla ha permeato la sua vita più delle aspettative del vecchio Lou Levov.
- Ha sofferto?
- Avrebbe potuto andare molto peggio, - disse lo Svedese. – Solo gli ultimi sei mesi, e anche allora, per metà del tempo, non sapeva cosa stesse succedendo. Una sera se n’è andato, e basta... E l’abbiamo perduto.
Quando gli avevo chiesto se suo padre aveva sofferto, alludevo alle sofferenze citate nella lettera, quelle prodotte dai colpi che «si erano abbattuti sui suoi cari». Ma anche se avessi pensato di portare la lettera con me, e glie l’avessi letta al ristorante, lo Svedese si sarebbe sottratto alle proprie parole con la stessa facilità con cui aveva schivato i tentativi di placcaggio quel sabato di cinquant’anni prima allo stadio, contro il South Side, il nostro rivale più debole, e battuto uno dei record statali segnando quattro volte su quattro passaggi consecutivi. Certo, pensavo, certo... Il mio bisogno di scoprire un substrato, il mio perdurante sospetto che ci fosse qualcosa di più di quello che vedevo, faceva nascere in lui la paura che potessi dirgli, senza tante esitazioni, che non era quello che voleva farci credere di essere... Ma poi pensai: perché dedicargli tutte queste riflessioni? Perché tanta
voglia di conoscere quest’uomo? Sei così curioso solo perché una volta ti ha detto, a te, e solo a te: «Il basket è un’altra cosa, Skip»? Perché aggrapparsi a lui? Che ti piglia? Qui c’è soltanto quello che vedi. Quest’uomo vuole solo essere guardato. È sempre stato così. Non è un trucco, tutta questa verginità. Tu cerchi abissi che non esistono. Quest’uomo è l’incarnazione del nulla.
Mi sbagliavo. Non mi ero mai sbagliato di più sul conto di nessuno in vita mia.