mercoledì 25 gennaio 2023

LA CAVERNA José Saramago



 LA CAVERNA 

José Saramago

Recensione

Saramago in questo romanzo si rifà al Mito della caverna di Platone: un concetto più che mai attuale in Occidente che vede gli esseri umani schiavi di un sistema che ne mina le qualità più genuine ed essenziali, inducendo a una folle deformazione in nome di un fantomatico progresso che non giova a tutti. Non sicuramente al  piccolo vasaio, di questa storia, ridotto alla disoccupazione dal grande Centro Commerciale che cresce sempre di più, ingloba i piccoli centri e muta la fisionomia delle stesse terre. Lo stesso Centro per cui il personaggio proverà a risollevarsi prendendo in commissione un pazzesco lavoro e poi.. Libro non facile da leggere per l'originale uso della punteggiatura (solamente virgole). Scritto sotto forma di serrati dialoghi intercalati da pensieri filosofici dell'autore.

[...]Diciamo ai confusi, Conosci te stesso, come se conoscere se stessi non fosse la quinta e più difficile operazione delle aritmetiche umane, diciamo agli abulici, Volere è potere, come se le realtà bestiali del mondo non si divertissero a invertire tutti i giorni la posizione relativa dei verbi, diciamo agli indecisi, Comincia dal principio, come se quel principio fosse il capo sempre visibile di un filo male arrotolato che bastasse tirare e continuare a tirare per giungere all’altro capo, quello della fine, e poi, fra il primo e il secondo, avessimo fra le mani una linea retta e continua dove non c’era stato bisogno di sciogliere nodi né districare strozzature, cosa impossibile che accada nella vita dei gomitoli e, se ci è consentita un’altra frase a effetto, nei gomitoli della vita.[...]


LA CAVERNA

L’uomo che guida il camioncino si chiama Cipriano Algor, fa il vasaio di mestiere e ha sessantaquattro anni, anche se a vederlo sembra meno anziano. L’uomo che gli sta seduto accanto è il genero, si chiama Marçal Gacho, e ancora non è arrivato ai trenta. In ogni modo, con la faccia che ha, nessuno glieli darebbe. Come si sarà notato, sia l’uno che l’altro hanno appiccicati al nome proprio dei cognomi insoliti di cui s’ignorano l’origine, il significato e la ragione. La cosa più probabile è che si dispiacerebbero se mai giungessero a sapere che algor, algore, significa freddo intenso del corpo, preannuncio di febbre, e che il gacho è né più né meno che la parte del collo del bue su cui poggia il giogo. Il più giovane veste l’uniforme, ma non è armato. Il più vecchio indossa una giacca borghese e un paio di pantaloni più o meno decorosi, ha il colletto della camicia sobriamente abbottonato, senza cravatta. Le mani che manovrano il volante sono grandi e forti, da contadino, eppure, forse per effetto del quotidiano contatto con la morbidezza dell’argilla a cui le obbliga il mestiere, promettono una certa sensibilità. Nella mano destra di Marçal Gacho non c’è nulla di particolare, ma il dorso della mano sinistra presenta una cicatrice che ha l’aspetto di una bruciatura, un segno in diagonale che va dalla base del pollice alla base del mignolo. Il camioncino non merita un tale nome, è solo un furgone di medie dimensioni, un vecchio modello, ed è carico di stoviglie. Quando i due uomini sono usciti da casa, venti chilometri fa, il cielo stava appena cominciando a rischiarare, ma adesso il mattino ha ormai diffuso nel mondo abbastanza luce perché si possa osservare la cicatrice di Marçal Gacho e immaginare la sensibilità delle mani di Cipriano Algor. Stanno viaggiando a velocità ridotta per via della fragilità del carico, e anche per l’irregolarità del manto stradale. La consegna di merci non ritenute di prima o seconda necessità, come queste stoviglie rustiche, avviene, secondo gli orari fissati, a metà mattina, e se i due uomini hanno fatto una tale alzataccia è perché Marçal Gacho deve timbrare almeno mezz’ora prima che le porte del Centro siano aperte al pubblico. Nei giorni in cui non accompagna il genero, ma ha delle stoviglie da trasportare, Cipriano Algor non ha bisogno di alzarsi tanto presto. Tuttavia, ogni dieci giorni, è sempre lui che s’incarica di andare a prendere Marçal Gacho al lavoro per passare con la famiglia le quaranta ore di riposo a cui ha diritto, ed è lui che, dopo, con o senza stoviglie nel bagagliaio del furgone, puntualmente lo riconduce alle sue responsabilità e ai suoi doveri di guardiano interno. La figlia di Cipriano Algor, che si chiama Marta di nome, e di cognome Isasca per parte della defunta madre e Algor per parte di padre, gode della presenza di suo marito a casa e nel letto solo sei notti e tre giorni al mese. La notte precedente a questa è rimasta incinta, ma lei ancora non lo sa.

Il paesaggio è fosco, sporco, non merita che lo guardiamo due volte. Qualcuno ha dato a queste vaste distese d’aspetto tutt’altro che campestre il nome tecnico di Cintura Agricola, e anche, per analogia poetica, quello di Cintura Verde, ma l’unico paesaggio che gli occhi riescono a cogliere ai due lati della strada, che copre senza soluzione di continuità percettibile molte migliaia di ettari, sono grandi fabbricati dal tetto piatto, rettangolari, costruiti con plastiche di un colore neutro che il tempo e la polvere hanno fatto digradare, a poco a poco, verso il grigio e il bigio. Sotto di essi, fuori dalla vista di chi passa, cresce la vegetazione. Da vie secondarie che vengono a sboccare nella statale, escono qua e là camion e trattori con rimorchi carichi di vegetali, ma il grosso del trasporto è stato fatto durante la notte, questi, o hanno un’autorizzazione espressa ed eccezionale a fare la consegna più tardi, oppure sono rimasti a dormire. Marçal Gacho ha scostato discretamente la manica sinistra della giacca per guardare l’orologio, è preoccupato perché il traffico si sta intensificando a poco a poco e perché sa che da qui in poi, quando entreranno nella Cintura Industriale, le difficoltà aumenteranno. Il suocero si è accorto del gesto, ma se n’è rimasto zitto, questo suo genero è un giovane simpatico, senza dubbio, ma nervoso, che appartiene alla razza degli esagitati per natura, sempre inquieto per il trascorrere del tempo, anche se ce ne ha d’avanzo, nel qual caso non sembra mai sapere cosa metterci dentro, dentro al tempo, intendiamoci, Come sarà quando arriverà alla mia età, ha pensato. Si sono lasciati la Cintura Agricola alle spalle, la statale, adesso più sporca, attraversa la Cintura Industriale passando proprio in mezzo a stabilimenti di tutte le dimensioni, attività e aspetto, con depositi sferici e cilindrici di combustibile, centrali elettriche, reti di canalizzazione, condotte d’aria, ponti sospesi, tubi di tutte le grandezze, alcuni rossi, altri neri, comignoli che lanciano nell’atmosfera spirali di fumi tossici, gru dalle lunghe braccia, laboratori chimici, raffinerie di petrolio, odori fetidi, amari o dolciastri, rumori stridenti di trapani, ronzii di seghe meccaniche, colpi bruschi di martelli pneumatici, di tanto in tanto una zona di silenzio, nessuno sa cosa mai vi si produca. È allora che Cipriano Algor ha detto, Non ti preoccupare, arriveremo in tempo, Non sono preoccupato, ha risposto il genero, mascherando l’inquietudine, Lo so, era tanto per dire, disse Cipriano Algor. Ha svoltato con il furgone imboccando una strada parallela riservata al traffico locale, Da qui prenderemo una scorciatoia, ha detto, se la polizia ci domanda perché abbiamo lasciato la statale, ricordati cosa si è combinato, abbiamo un affare da trattare in una di queste fabbriche prima di arrivare in città. Marçal Gacho ha fatto un respiro profondo, quando il traffico sulla statale si complicava, il suocero, prima o poi, finiva per prendere una deviazione. Quello che lo infastidiva era la possibilità che si distraesse e prendesse la decisione troppo tardi. Per fortuna, malgrado i timori e gli avvertimenti, la polizia non li aveva mai fermati, Una volta dovrà pur convincersi che non sono più un ragazzino, ha pensato Marçal, e che non deve star lì a ricordarmi tutte le volte questa storia degli affari da trattare in qualche fabbrica. Non immaginavano, né l’uno né l’altro, che fosse proprio l’uniforme di guardiano del Centro che indossava Marçal Gacho il motivo della persistente tolleranza o della benevola indifferenza della polizia stradale, che non era il semplice risultato di molteplici casualità o di una ostinata fortuna, come probabilmente avrebbe risposto se li avessero interrogati sulla ragione per cui ritenevano di essersi risparmiati qualche multa. Se Marçal Gacho l’avesse saputa, forse avrebbe fatto valere con il suocero il peso dell’autorità che la divisa gli conferiva, se l’avesse saputa Cipriano Algor, forse avrebbe cominciato a rivolgersi al genero con meno ironica condiscendenza. È proprio vero che la gioventù non conosce ciò che può, e la vecchiaia non può ciò che conosce.

Dopo la Cintura Industriale inizia la città, be’, non la città vera e propria, che s’intravede più oltre, sfiorata come una carezza dalla prima e rosata luce del sole, qui si vedono solo agglomerati caotici di baracche costruite con tutti quei materiali, per lo più precari, che potrebbero servire a difendere dalle intemperie, soprattutto dalla pioggia e dal freddo, i loro disagiati inquilini. A dire degli abitanti della città, è un luogo inquietante. Di tanto in tanto, da queste parti, e in nome dell’assioma classico per cui anche la necessità è legge, un camion carico di vettovaglie viene assaltato e svuotato in men che non si dica. Il metodo operativo, esemplarmente efficace, è stato elaborato e messo a punto dopo una perseverante riflessione collettiva sul risultato dei primi tentativi, falliti, com’è apparso subito ovvio, per una totale assenza di strategia, per una tattica, se così si può dire, antiquata, e infine per un carente ed erratico coordinamento di sforzi, in pratica, fini a se stessi. Essendo quasi continuo durante la notte il flusso di transito, bloccare la strada per fermare un camion, com’era stata la prima idea, aveva determinato che gli assalitori cadessero nella loro stessa trappola, visto che dietro a quel camion sopraggiungevano altri camion, e quindi rinforzi e aiuti immediati per il conducente nelle pesti. La soluzione del problema, effettivamente geniale, come fu riconosciuto a denti stretti dalle stesse autorità di polizia, fu quella di dividersi gli assalitori in due gruppi, uno tattico, l’altro strategico, e costituire due sbarramenti invece che uno, con il gruppo tattico che iniziava con il bloccare rapidamente la strada dopo il passaggio di un camion abbastanza separato dagli altri, e il gruppo strategico che immediatamente dopo, un centinaio di metri più avanti, appositamente informato da un segnale luminoso, creava con altrettanta sveltezza il secondo sbarramento dove il veicolo condannato dal destino non poteva fare altro che fermarsi e lasciarsi derubare. Per i veicoli che provenivano in direzione contraria non era necessario nessun posto di blocco, erano gli stessi conducenti che s’incaricavano di fermarsi quando capivano cosa stava succedendo più avanti. Un terzo gruppo, definito di pronto intervento, avrebbe avuto il compito di dissuadere con una pioggia di sassi qualsiasi audace solidale. Gli sbarramenti erano fatti con grossi pietroni trasportati con carriole, che alcuni degli stessi assalitori, giurando e spergiurando di non aver niente a che vedere con l’accaduto, venivano poi ad aiutare a trascinare sul ciglio della strada, È questa gente che rende malfamato il nostro quartiere, noi siamo persone oneste, dicevano, e i conducenti degli altri camion, ansiosi che gli sgombrassero la strada per non arrivare tardi al Centro, rispondevano solo, Sì, sì. A tali incidenti di percorso, soprattutto perché circola da queste parti quasi sempre alla luce del giorno, è stato risparmiato il furgone di Cipriano Algor. Almeno fino ad oggi. In effetti, siccome le stoviglie di terracotta sono quelle che più generalmente sono destinate alla tavola del povero e più facilmente si rompono, il vasaio non è esente dal fatto che una donna, fra le tante che stentano in queste baracche, si ricordi uno di questi giorni di dire al capofamiglia, Abbiamo bisogno di piatti nuovi, al che lui di sicuro risponderà, Ci penso io, a volte passa un furgone con una scritta che dice Fornace, è impossibile che non abbia dei piatti, E dei boccali, aggiungerà la donna, approfittando della luna buona, E dei boccali, non me ne dimenticherò.

Fra le baracche e i primi palazzi della città, come una terra di nessuno a separare due fazioni contrapposte, c’è un ampio spazio privo di costruzioni, ma, guardando con un po’ più di attenzione, si scorge nel suolo una rete incrociata di solchi di trattori, certi spianamenti che possono essere stati causati solo da pale meccaniche, quelle implacabili lamine curve che, senza compassione né pietà, spingono avanti tutto, la casa antica, la radice nuova, il muro di sostegno, il luogo di un’ombra che non ci sarà mai più. Eppure, proprio come succede nella vita, quando credevamo di aver portato anche noi tutto avanti e poi ci accorgiamo che in definitiva ci era rimasto qualcosa, anche qui dei frammenti dispersi, degli stracci sudici, dei materiali di scarto, qualche lattina arrugginita, qualche tavola di legno marcia, un pezzo di plastica spinto avanti e indietro dal vento, ci mostrano che questo territorio era occupato prima dai quartieri di esclusi. Ben presto gli edifici della città avanzeranno in linea di tiro e si impadroniranno del terreno, lasciando fra i più avanzati e le prime baracche solo una stretta fascia, una nuova terra di nessuno che rimarrà tale fino al momento in cui si passerà alla terza fase.

La strada principale, in cui erano rientrati, era adesso molto più larga, con una corsia riservata esclusivamente alla circolazione di veicoli pesanti, e benché il furgone potrebbe essere incluso in questa categoria superiore solo per una follia dell’immaginazione, il fatto che si tratti indiscutibilmente di un mezzo adibito al trasporto di merci dà al suo conducente il diritto di concorrere alla pari con le lente e mastodontiche macchine che ansimano, muggiscono e sputano nuvole soffocanti dal tubo di scappamento, e di superarle rapidamente, con una sinuosa agilità che fa tintinnare le stoviglie. Marçal Gacho guardò di nuovo l’orologio e sospirò. Sarebbe arrivato in tempo. Erano già alla periferia della città, dovevano ancora percorrere un certo numero di strade dal tracciato confuso, girare a sinistra, girare a destra, di nuovo a sinistra, di nuovo a destra, ora a destra, a destra, sinistra, sinistra, destra, diritto, e finalmente sarebbero sboccati in una piazza dopo la quale finivano le difficoltà, un viale in linea retta li portava a destinazione, là dov’era atteso il guardiano interno Marçal Gacho, poco più avanti dove avrebbe lasciato la sua merce il vasaio Cipriano Algor. In fondo, un muro altissimo, scuro, molto più alto del più alto dei palazzi che fiancheggiavano il viale, tagliava bruscamente la strada. In realtà, non la tagliava, il crederlo era l’effetto di un’illusione ottica, c’erano strade che, da un lato e dall’altro, proseguivano lungo il muro, il quale, a sua volta, non era un muro, bensì la parete di una costruzione enorme, un edificio gigantesco, quadrangolare, senza finestre nella facciata liscia, uguale in tutta la sua estensione. Eccoci, disse Cipriano Algor, come vedi siamo arrivati in tempo, mancano ancora dieci minuti al tuo orario di entrata, Sapete bene quanto me perché non posso tardare, pregiudicherebbe la mia posizione nell’elenco dei candidati al posto di guardiano residente, Non è un’idea che entusiasmi poi tanto tua moglie, questa di voler diventare guardiano residente, È meglio per noi, avremo più comodità, migliori condizioni di vita. Cipriano Algor fermò il furgone all’angolo dell’edificio, parve sul punto di voler rispondere al genero, ma invece domandò, Perché stanno buttando giù quell’isolato di palazzi, Alla fine si è confermato, Confermato cosa, Da settimane si continuava a parlare di un ampliamento, rispose Marçal Gacho mentre scendeva dal furgone. Si erano fermati davanti a una porta sopra la quale c’era un cartello su cui si leggevano le parole Ingresso Riservato al Personale di Sicurezza. Cipriano Algor disse, Forse, Non forse, la prova ce l’avete davanti agli occhi, la demolizione è già iniziata, Non mi riferivo all’ampliamento, ma a quello che hai detto prima circa le condizioni di vita, quanto alle comodità non discuto, in ogni caso non possiamo lamentarci, non siamo tra i più sfortunati, Rispetto la vostra opinione, ma io ho la mia, e vedrete che Marta, quando arriverà il momento, sarà d’accordo con me. Fece due passi, si fermò, sicuramente aveva pensato che non era questa la maniera giusta per un genero di congedarsi dal suocero che lo ha accompagnato al lavoro, e disse, Grazie, vi auguro un buon viaggio di ritorno, Ci vediamo fra dieci giorni, disse il vasaio, Ci vediamo fra dieci giorni, disse il guardiano interno, mentre faceva un cenno di saluto a un collega che si stava avvicinando. Proseguirono insieme, entrarono, la porta si chiuse.

Cipriano Algor avviò il motore, ma non partì subito. Guardò i palazzi che stavano radendo al suolo. Questa volta, probabilmente per via della ridotta altezza degli edifici da abbattere, non stavano usando gli esplosivi, quel moderno, sbrigativo e spettacolare procedimento che in tre secondi è capace di trasformare una struttura solida e organizzata in un caotico ammasso di cocci. Come c’era da aspettarsi la via che formava un angolo retto con questa era vietata al transito. Per fare la consegna della merce, il vasaio sarebbe stato costretto a passare dietro all’isolato in demolizione, aggirarlo, proseguire poi diritto, la porta a cui doveva andare a bussare si trovava nell’angolo più distante, e precisamente, rispetto al punto in cui si trovava, all’altra estremità di una retta immaginaria che attraversasse obliquamente l’edificio dove Marçal Gacho era entrato, In diagonale, precisò mentalmente il vasaio per farla breve. Quando, fra dieci giorni, verrà a riprendere il genero, di questi palazzi non resterà nessuna traccia, la polvere della distruzione che aleggia ancora nell’aria si sarà depositata, e può anche darsi che sarà già in via di scavo il grande fossato dove saranno aperti gli sterri e create le fondamenta della nuova costruzione. Poi alzeranno le tre pareti, una confinante con la via su cui fra poco Cipriano Algor dovrà fare il giro, due che chiuderanno da un lato e dall’altro il terreno guadagnato a scapito della via intermedia e della demolizione dei palazzi, facendo scomparire la facciata dell’edificio per il momento visibile, la porta di accesso del personale di sicurezza cambierà posto, non ci vorranno molti giorni perché neanche la persona più perspicace sia in grado di distinguere, guardando da fuori, e tanto meno lo avvertirà se sarà all’interno dell’edificio, fra la recente costruzione e la costruzione precedente. Il vasaio guardò l’orologio, era ancora presto, nei giorni in cui accompagnava il genero era inevitabile dover aspettare due ore fino all’apertura del servizio di accettazione che era la sua meta, e poi fino al momento in cui non fosse giunto il suo turno, Ma ho il vantaggio che avrò un buon posto nella fila, potrei anche essere il primo, pensò. Non lo era mai stato, c’era sempre gente più mattiniera di lui, quasi sicuramente alcuni di quegli autisti dovevano aver passato una parte della notte nella cabina dei loro camion. Salivano su fino alla strada quando il giorno rischiarava per prendere un caffè, del pane e un po’ di companatico, un’acquavite nelle mattine più umide e fredde, poi se ne restavano lì, a conversare, fino a dieci minuti prima dell’apertura delle porte, a quel punto i più giovani, nervosi come apprendisti, si precipitavano giù per la rampa a occupare le loro posizioni, mentre i più vecchi, soprattutto se erano agli ultimi posti della fila, scendevano chiacchierando tranquillamente, dando un ultimo tiro alla sigaretta, perché nel sotterraneo, per via dei motori accesi non era permesso fumare. La fine del mondo, pensavano, non era ancora arrivata, non serviva a niente correre.

Cipriano Algor avviò il furgone. Si era distratto con la demolizione dei palazzi e ora voleva recuperare il tempo perduto, parole, queste, insensate più di ogni altra, un’espressione assurda con la quale supponiamo di ingannare la dura realtà che nessun tempo perduto è recuperabile, come se, al contrario di questa verità, fossimo convinti che il tempo che credevamo per sempre perduto, avesse in definitiva deciso di restare immobile là dietro, aspettando, con la pazienza di chi ha tutto il tempo, che ci accorgessimo della sua mancanza. Stimolato dalla premura suscitata dai pensieri su chi è arrivato prima e chi arriverà dopo, il vasaio fece rapidamente il giro dell’isolato e imboccò la strada a destra che delimitava l’altra facciata dell’edificio. Com’era immutabile costume, c’era già gente in attesa che si aprissero le porte destinate al pubblico. Si spostò nella corsia sinistra di circolazione, nello svincolo di accesso alla rampa che scendeva al piano sotterraneo, mostrò al guardiano il suo tesserino di fornitore e andò a prendere posto nella fila di veicoli, dietro a un camioncino carico di scatole che, a giudicare dalle etichette degli imballaggi, contenevano merci di vetro. Scese dal furgone per vedere quanti altri fornitori aveva davanti a sé e calcolare così, più o meno approssimativamente, quanto tempo avrebbe dovuto aspettare. Erano in tredici. Li ricontò, non c’erano dubbi. Benché non fosse una persona superstiziosa, non ignorava la pessima reputazione di questo numero, in qualsiasi discorso sul caso, la fatalità e il destino, c’è sempre chi dice la sua per riferire casi vissuti dell’influenza negativa, e a volte funesta, del tredici. Tentò di rammentare se in qualche altra occasione gli fosse capitato questo posto nella fila, ma, senza meno, o non gli era mai accaduto, oppure semplicemente non se ne ricordava. Si rimbrottò da solo, che era uno sproposito, una fesseria preoccuparsi di qualcosa che non ha esistenza nella realtà, giusto, non ci aveva mai pensato, ma in effetti i numeri non esistono nella realtà, alle cose è indifferente quale numero gli diamo, tant’è se diciamo che sono il tredici o sono il quarantaquattro, il minimo che se ne può concludere è che le cose, loro, non hanno nozione del posto che gli è capitato di occupare. Le persone non sono cose, le persone vogliono stare sempre ai primi posti, pensò il vasaio. E non solo vogliono starci, ma vogliono che se ne parli e che gli altri lo notino, mormorò. A eccezione dei due guardiani che controllavano, uno a ogni estremità, l’entrata e l’uscita, il sotterraneo era deserto. Era sempre così, gli autisti lasciavano il veicolo in fila a mano a mano che arrivavano e andavano sulla strada, al bar. Si sbagliano di grosso se credono che resterò qui, disse Cipriano Algor a voce alta. Spostò il furgone in retromarcia come se in fin dei conti non avesse niente da scaricare e uscì dall’allineamento, Così non sarò più il tredicesimo, pensò. Dopo qualche momento un camion scese giù dalla rampa e andò a fermarsi nel posto lasciato libero dal furgone. L’autista scese dalla cabina, guardò l’orologio, Ho ancora tempo, deve aver pensato. Quando scomparve in cima alla rampa, il vasaio fece manovra rapidamente e andò a piazzarsi dietro al camion, Ora sono il quattordici, disse, soddisfatto della propria furbizia. Si riappoggiò allo schienale, sospirò, sopra la testa udiva il ronzio del traffico nella strada, solitamente saliva anche lui come gli altri, per bere un caffè e comprare il giornale, ma oggi non ne aveva voglia. Chiuse gli occhi come se riandasse all’interno di se stesso ed entrò subito nel sogno, c’era il genero che gli stava spiegando che, una volta nominato guardiano residente, la situazione sarebbe cambiata dal giorno alla notte, che Marta e lui non sarebbero più vissuti alla fornace, ormai era tempo che iniziassero una vita indipendente dalla famiglia, Cercate di capire, quel che sarà sarà, dice quel detto, il mondo non si ferma, se le persone da cui dipendi ti promuovono, non devi far altro che alzare le mani al cielo e ringraziare, sarebbe una stupidaggine voltare le spalle alla fortuna quando si mette dalla nostra parte, e inoltre sono certo che il vostro maggior desiderio è che Marta sia felice, quindi dovreste essere contento. Cipriano Algor udiva il genero e sorrideva dentro di sé, Dici così perché credi che io sia il tredici, non sai che ora sono il quattordici. Si svegliò di soprassalto agli sportelli che sbattevano, segnale che stava per cominciare lo scarico. Allora, non ancora del tutto uscito dal sogno, pensò, Non ho cambiato numero, sono il tredici che sta al posto del quattordici.

Proprio così. Quasi un’ora dopo, arrivò il suo turno. Scese dal furgone e si avvicinò al banco dell’accettazione con i soliti documenti, la bolla d’accompagnamento in triplice copia, la fattura relativa alle vendite effettive dell’ultima fornitura, la dichiarazione di qualità industriale che accompagnava ogni partita e in cui la fornace si assumeva la responsabilità per qualsiasi difetto di fabbricazione individuato all’ispezione a cui le stoviglie venivano sottoposte, la conferma di esclusività, altrettanto obbligatoria in tutte le forniture, in cui la fornace si impegnava, accettando le sanzioni in caso di infrazione, a non avere rapporti commerciali con altri stabilimenti per il piazzamento degli articoli. Come al solito, si avvicinò un impiegato per aiutare a scaricare, ma il vicecapo dell’accettazione lo chiamò e ordinò, Scarica metà di quello che c’è, verifica sulla bolla. Cipriano Algor, sorpreso e allarmato, domandò, Metà, perché, Le vendite sono calate di molto nelle ultime settimane, probabilmente dovremo restituirle per mancanza di smercio quello che c’è in magazzino, Restituire quello che avete in magazzino, Sì, c’è nel contratto, So bene che c’è nel contratto, ma c’è pure che non mi autorizzate ad avere altri clienti, mi dica quindi a chi venderò l’altra metà, Non è affar mio, io eseguo solo gli ordini che ho ricevuto, Posso parlare con il capoufficio, No, non ne vale la pena, non la riceverebbe. Cipriano Algor aveva le mani tremanti, guardava intorno, perplesso, chiedendo aiuto, ma lesse solo disinteresse sulle facce dei tre autisti che erano arrivati dopo di lui. Tentò, comunque, di fare appello alla solidarietà di classe, Ma che roba, uno se ne viene con il frutto del proprio lavoro, ha cavato argilla, l’ha impastata, ha modellato il pezzo che gli hanno commissionato, l’ha cotto nel forno, e adesso gli vengono a dire che prendono solo metà di quello che ha fatto e che gli restituiranno quello che c’è ancora in magazzino, voglio sapere se c’è giustizia in questo modo di procedere. Gli autisti si guardarono l’un l’altro, si strinsero nelle spalle, non erano sicuri di cosa sarebbe stato meglio rispondere né a chi sarebbe convenuta di più la risposta, uno tirò fuori persino una sigaretta per chiarire che si dissociava, poi si ricordò che lì non poteva fumare, allora voltò le spalle e se ne andò nella cabina del camion, lontano dagli eventi. Il vasaio capì che avrebbe avuto tutto da perdere continuando a protestare, volle buttare acqua sul fuoco che lui stesso aveva sollevato, in ogni caso vendere la metà era meglio che niente, le cose finiranno di sicuro per sistemarsi, pensò. Sottomesso, si rivolse al vicecapo dell’accettazione, Sa dirmi che cosa avrà provocato un tale calo delle vendite, Penso sia dovuto alla comparsa di certe stoviglie di plastica a imitazione della terracotta, la imitano talmente bene che sembrano addirittura autentiche, con il vantaggio che pesano molto meno e sono molto più economiche, Non è un buon motivo per non comprare più le mie, la terracotta è sempre terracotta, è autentica, è naturale, Vada a dirlo ai clienti, non per darle un dispiacere, ma credo che d’ora in poi le sue stoviglie interesseranno solo ai collezionisti, e questi sono sempre più rari. Il conteggio era terminato, il vicecapo scrisse nella bolla, Ricevuta la metà, e disse, Non porti nient’altro finché non avrà nostre notizie, Pensa che potrò continuare a produrre, domandò il vasaio, Sarà una decisione sua, io non mi prendo nessuna responsabilità, E la restituzione, dovrete pur restituirmi quello che avete già, le parole tremavano per la disperazione ed erano talmente cariche di amarezza che l’altro cercò di essere conciliante, Vedremo. Il vasaio montò sul furgone, partì bruscamente, alcune casse, mal puntellate dopo il mezzo scarico, scivolarono e andarono a sbattere violentemente contro lo sportello posteriore, Che vada tutto in malora una volta per tutte, urlò irritato. Dovette fermarsi all’inizio della rampa di uscita, detta il regolamento che il tesserino sia presentato anche a questo guardiano, è la burocrazia, nessuno sa perché, teoricamente chi è entrato fornitore, fornitore uscirà, ma a quanto pare ci sono delle eccezioni, prendiamo il caso di Cipriano Algor, lo era ancora quando è entrato e adesso, se le minacce saranno confermate, è in procinto di non esserlo più. La colpa dovrebbe essere del tredici, il destino non lo ingannano i trucchetti di mettere dopo ciò che stava prima. Il furgone risalì la rampa, uscì alla luce del giorno, non c’è altro da fare che tornare a casa. Il vasaio sorrise tristemente, Non è stato il tredici, il tredici non esiste, se anche fossi stato il primo ad arrivare la sentenza sarebbe stata uguale, per ora metà, poi si vedrà, che merda di vita.

La donna delle baracche, quella che aveva bisogno di piatti e boccali nuovi, domandò al marito, Allora, hai visto il furgone della fornace, e il marito rispose, Sì, l’ho fermato, ma poi l’ho lasciato andare, Perché, Se avessi visto la faccia dell’uomo che c’era dentro, scommetto che avresti fatto la stessa cosa.

Il vasaio fermò il furgone, abbassò i vetri da un lato e dall’altro, e attese che spuntasse qualcuno a derubarlo. Non di rado succede che certi avvilimenti d’animo, certi scossoni della vita spingano la vittima a decisioni drammatiche come questa, se non peggiori. Arriva un momento in cui la persona sconvolta o ingiuriata ode una voce urlare dentro la sua testa, Perduto per dieci, perduto per cento, e allora, secondo le peculiarità della situazione in cui si trova e del posto dove lei lo ha trovato, o spende gli ultimi soldi rimasti per un biglietto della lotteria, o lancia sul tavolo da gioco l’orologio che aveva ereditato dal padre e il portasigarette d’argento che le ha dato la madre, o scommette ciò che possiede sul rosso malgrado abbia visto che il colore è uscito cinque volte di seguito, o esce da solo dalla trincea e corre con la baionetta abbassata contro la mitragliatrice del nemico, oppure ferma questo furgone, abbassa i vetri, poi apre gli sportelli e si mette ad aspettare che, con i randelli del solito, con i rasoi di sempre e le necessità del momento, vengano a saccheggiarlo dalle baracche, Se quelli non li hanno voluti, se li prendano questi, fu l’ultimo pensiero di Cipriano Algor. Passarono dieci minuti senza che nessuno si avvicinasse per commettere l’anelato latrocinio, un quarto d’ora trascorse senza che neppure un cane randagio fosse salito sulla strada a fare la sua pipì contro la ruota e fiutare il contenuto del furgone, e stava ormai per scadere la mezz’ora quando finalmente si avvicinò un uomo sudicio e di pessimo aspetto che domandò al vasaio, C’è qualche problema, ha bisogno di aiuto, forse una spintarella, potrebbe essere la batteria. Orbene, se perfino gli animi più forti hanno i loro momenti di irresistibile debolezza, come accade quando il corpo non riesce a comportarsi con la riservatezza e la discrezione che lo spirito ha impiegato anni a insegnargli, non dovremo stupirci che l’offerta di aiuto, partita per giunta da un uomo che ha tutto l’aspetto di un aggressore abituale, avesse toccato la corda più sensibile di Cipriano Algor al punto da fargli salire una lacrima all’occhio, No, grazie mille, disse, ma subito dopo, mentre il premuroso cireneo si stava allontanando, balzò giù dal furgone, corse ad aprire lo sportello posteriore, chiamando contemporaneamente Signore, signore, venga qui. L’uomo si fermò, Allora vuole che l’aiuti, domandò, No, non è questo, Allora, cosa c’è, Venga qui, mi faccia questo favore. L’uomo si avvicinò e Cipriano Algor disse, Prenda questa mezza dozzina di piatti, li porti a sua moglie, è un regalo, e prenda questi altri sei, che sono da minestra, Ma io non ho fatto niente, esitò l’uomo, Non importa, è come se lo avesse fatto, e se ha bisogno di una caraffa per l’acqua, eccola, Veramente, una caraffa mi farebbe comodo a casa, Allora se la prenda, tenga. Il vasaio impilò i piatti, prima i piani, poi i fondi, poi questi ultimi sui primi, li sistemò sulla curvatura del braccio sinistro dell’uomo, e, siccome la caraffa per l’acqua era già penzolante dalla sua mano destra, al beneficiato non rimase granché con cui ringraziare, solo la banale parola grazie, che può essere sincera oppure no, e la sorpresa di un cenno del capo tutt’altro che in armonia con la classe sociale a cui appartiene, il che vuol dire che ne sapremmo assai di più delle complessità della vita se ci fossimo applicati a studiare con determinazione le sue contraddizioni, invece di perdere tanto tempo con le identità e le coerenze, le quali hanno il dovere di spiegarsi da sole.


Quando l’uomo che aveva l’aspetto di un aggressore, ma che in definitiva non lo era, o che semplicemente non aveva voluto esserlo per questa volta, scomparve, alquanto perplesso, fra le baracche, Cipriano Algor mise in moto il furgone. Ovviamente, neanche la vista più acuta sarebbe capace di notare una certa differenza nella pressione esercitata sulle molle e i pneumatici del furgone, in materia di peso dodici piatti e una caraffa di terracotta significano tanto, in un mezzo di trasporto, ancorché di media dimensione, quanto significherebbero sul capo felice di una sposa dodici petali di rosa bianca e un petalo di rosa rossa. Non è un caso che sia venuta fuori la parola felice, infatti è il minimo che possiamo dire dell’espressione di Cipriano Algor che, a guardarlo adesso, nessuno crederebbe che gli hanno comprato solo metà del carico che aveva portato al Centro. Peccato gli sia tornato di nuovo in mente, quando, due chilometri più avanti, è penetrato nella Cintura Industriale, il brusco rovescio commerciale subìto. L’ominosa visione delle ciminiere che vomitavano spirali di fumo lo spinse a domandarsi in quale di quelle fabbriche mostruose potessero essere prodotti quei menzogneri mostri di plastica, maliziosamente mascherati da terrecotte, È impossibile, mormorò, né il suono né il peso si possono uguagliare, e poi c’è anche il rapporto fra la vista e il tatto di cui ho letto non so dove, la vista che è capace di vedere tramite le dita che stanno toccando la terracotta, le dita che, senza toccarla, riescono a sentire quello che gli occhi stanno vedendo. E, come se ciò non fosse già un gran tormento, si domandò inoltre Cipriano Algor, pensando al vecchio forno della fornace, quanti piatti, boccali, brocche e vasi potevano sputar fuori al minuto quelle maledette macchine, quante cose a far le veci di orciuoli e quartini. Il risultato di queste e altre domande che non sono rimaste qui annotate fu che il sembiante del vasaio s’incupì di nuovo e, da quel momento in poi, il resto del viaggio fu, tutto, un continuo rimuginare sul futuro difficile che aspettava la famiglia Algor se il Centro avesse persistito nella nuova valutazione di prodotti di cui la fornace era stata forse la prima vittima. Sia reso onore, però, a chi se l’è ampiamente meritato, in nessun momento Cipriano Algor permise al suo spirito di farsi cogliere dal pentimento di essere stato generoso con l’uomo che avrebbe dovuto derubarlo, se fosse vero tutto quello che si continua a dire sulla gente delle baracche. Al limite della Cintura Industriale c’era una certa quantità di fabbriche modeste che non si capiva come fossero potute sopravvivere all’ingordigia di spazio e alla molteplice varietà di produzione dei moderni giganti manifatturieri, ma fatto sta che c’erano, e guardarle al passaggio era sempre stata una consolazione per Cipriano Algor quando, in qualche momento più inquieto della vita, gli capitava di pensare alle sorti future della sua professione. Non dureranno molto, ha pensato, questa volta si riferiva alle fabbriche, non al futuro dell’attività di vasaio, ma è stato solo perché non si è preso la briga di riflettere il tempo sufficiente, il che succede spesso, pensiamo di poter affermare che non vale la pena attendere le conclusioni solo perché decidiamo di fermarci a metà della strada che vi ci condurrebbe.


Cipriano Algor attraversò la Cintura Verde rapidamente, non diede neppure uno sguardo ai campi, lo spettacolo monotono delle distese di plastica, opache per natura e lugubri per la sporcizia, gli causava sempre un effetto depressivo, s’immagini cosa sarebbe oggi, nello stato d’animo in cui si trova, se si mettesse a contemplare questo deserto. Come chi avesse sollevato la tunica benedetta di una santa d’altare per sapere se ciò che la sostiene siano gambe umane o un paio di stecche rozzamente levigate, ormai da lungo tempo il vasaio non aveva bisogno di resistere alla tentazione di fermare il furgone e andare a spiare se era proprio vero che sotto quelle coperture e quei pannelli vi fossero piante reali, con frutti da poter odorare, palpare e mordere, con foglie, tubercoli e germogli da poter cuocere, condire e mettere nel piatto, o se la brumosa malinconia di ciò che si mostrava all’esterno contaminasse per incurabile artificio tutto quanto vi cresceva all’interno, qualsiasi cosa fosse. Dopo la Cintura Verde il vasaio imboccò una strada secondaria, c’erano squallidi resti di un bosco, campi a malapena coltivati, un torrentello di acque scure e fetide, poi comparvero dopo una curva le rovine di tre case senza finestre né porte, con i tetti mezzi diroccati e gli spazi interni per metà divorati dalla vegetazione che sempre irrompe dai ruderi, come se fosse già lì, in attesa della sua ora, fin dall’apertura degli sterri. L’abitato cominciava un centinaio di metri più avanti, era poco più che la strada che l’attraversava, qualche viuzza che vi sboccava, una piazza irregolare che si apriva da un solo lato, con un pozzo chiuso, la sua pompa per l’acqua e la grande ruota di ferro, all’ombra di due alti platani. Cipriano Algor fece un cenno di saluto a un gruppetto di uomini che chiacchieravano, ma, contrariamente alla sua abitudine di quando tornava a casa dopo avere portato le stoviglie al Centro, non si fermò, in un momento del genere non aveva idea di cosa potesse aver voglia, ma non certo di una chiacchierata, anche se erano conoscenti. La fornace e la casa in cui viveva con la figlia e il genero si trovavano all’altra estremità dell’abitato, addentrate nella campagna, discoste dagli ultimi edifici. Entrando nel paese, Cipriano Algor aveva ridotto la velocità del furgone, ma adesso procedeva ancora più lentamente, probabilmente la figlia stava finendo di preparare il pranzo, ormai era l’ora, Che faccio, glielo dico subito, o dopo aver mangiato, si domandava, È meglio dopo, lascio il furgone sotto la tettoia della legna, lei non penserà di venire a vedere se ho riportato qualcosa, oggi non era giornata di acquisti, così potremo mangiare tranquilli, cioè, mangerà lei tranquilla, non io, e alla fine le racconto cos’è successo, o forse dopo, verso metà pomeriggio, quando saremo al lavoro, venirlo a sapere prima di aver mangiato sarà altrettanto brutto che subito dopo. La strada faceva un’ampia curva dove terminava l’abitato, dopo l’ultima costruzione si vedeva in lontananza un grande gelso nero che non doveva essere alto meno di una decina di metri, lì c’era la fornace, Il vino è servito, ora bisognerà berlo, disse Cipriano Algor con un sorriso stanco, e pensò che sarebbe stato molto meglio se avesse potuto vomitarlo. Svoltò con il furgone a sinistra, imboccando un sentiero in leggera salita che conduceva alla casa, a metà strada mandò tre avvisi sonori annunciando l’arrivo, lo faceva sempre, la figlia si sarebbe stupita se non lo avesse fatto quest’oggi.


La casa e la fornace erano state costruite su un ampio spiazzo, probabilmente un’antica aia, o una corte, al cui centro il nonno vasaio di Cipriano Algor, che aveva anch’egli lo stesso nome, aveva deciso, un giorno remoto di cui non è rimasta nota né memoria, di piantare il gelso. Il forno, che rimaneva un po’ discosto, era già stata un’opera di ammodernamento del padre di Cipriano Algor, al quale avevano dato pure lo stesso nome, ed era andato a sostituire un altro forno, vecchissimo, per non dire arcaico, che, visto da fuori, aveva la forma di due tronchi di cono sovrapposti, quello di sopra più piccolo di quello sotto, e delle cui origini era rimasto altrettanto poco ricordo. Sulle sue vetuste fondamenta si era costruito il forno attuale, questo forno che ha cotto il carico di cui il Centro ha voluto prendere solo la metà, e adesso, ormai freddo, aspetta che lo carichino di nuovo. Con una cautela esagerata Cipriano Algor sistemò il furgone sotto la tettoia, fra due cataste di legna secca, poi pensò che poteva ancora passare per il forno e guadagnare così qualche minuto, ma gliene mancava il motivo, gli mancava la giustificazione, non era come le altre volte, quando rientrava dalla città e il forno era in funzione, in quei giorni andava a controllare la piastra e calcolare la temperatura in base al colore delle terrecotte incandescenti, a vedere se il rosso scuro si era già convertito in rosso ciliegia, o quest’ultimo in arancione. Rimase lì fermo, come se il coraggio di cui aveva bisogno si fosse attardato strada facendo, ma fu la voce della figlia che lo costrinse a muoversi, Perché non entrate, il pranzo è pronto. Incuriosita dall’indugio, Marta si era affacciata, Venite, venite, che la pietanza si raffredda. Cipriano Algor entrò, diede un bacio alla figlia e si chiuse nel bagno, una comodità domestica installata quando era ormai adolescente e che, già da lungo tempo, necessitava di ampliamento e qualche miglioria. Si osservò nello specchio, non si trovò sul viso nessuna ruga in più, Ce l’ho dentro, di sicuro, pensò, poi aprì l’acqua, si lavò le mani e uscì. Mangiavano in cucina, seduti a un grande tavolo che aveva conosciuto giorni più felici e assemblee più numerose. Adesso, dopo la morte della madre, Justa Isasca, di cui forse non si parlerà molto in questo racconto, ma di cui si lascia scritto il nome proprio, ché il cognome già lo conosciamo, adesso mangiano tutti e due a una delle estremità, il padre a capotavola, Marta nel posto lasciato vuoto dalla madre, e di fronte a lei Marçal, quando c’è. Come vi è andata la mattina, domandò Marta, Bene, al solito, rispose il padre abbassando il capo sul piatto, Ha telefonato Marçal, Ah, davvero, e cosa voleva, Ha detto che aveva parlato con voi del fatto di andare tutti a vivere al Centro quando sarà promosso guardiano residente, Sì, ne abbiamo parlato, Era infastidito perché voi, babbo, avete ripetuto che non siete d’accordo, Nel frattempo ci ho ripensato, credo che sarà una buona soluzione per entrambi, Cosa vi ha fatto cambiare idea all’improvviso, Di sicuro non vorrai continuare a lavorare come vasaia per il resto della tua vita, Sì, ma a me piace quello che faccio, Devi accompagnare tuo marito, un domani avrai dei figli, tre generazioni a mangiare argilla è più che sufficiente, E voi, babbo, siete d’accordo nel venire con noi al Centro, lasciare la fornace, domandò Marta, Lasciare tutto questo, mai, è fuori discussione, Volete dire che farete tutto da solo, cavare l’argilla, impastarla, lavorare al bancone e al tornio, accendere il forno, caricarlo, sfornare, ripulirlo, poi caricare tutto sul furgone e andare a vendere, vi rammento che le cose cominciano a essere già alquanto difficili malgrado l’aiuto che ci dà Marçal nel poco tempo che sta qui, Dovrò trovare qualcuno che mi aiuti, in paese i ragazzi non mancano, Sapete benissimo, babbo, che nessuno vuol fare più il vasaio, quelli che si stufano della campagna si trasferiscono nelle fabbriche della Cintura, non lasciano la terra per finire nell’argilla, Una ragione in più perché te ne vada da questo posto, Non penserete che vi lascerò qui da solo, Verrai a trovarmi di tanto in tanto, Per favore, babbo, sto parlando sul serio, Anch’io, figlia mia.


Marta si alzò per cambiare i piatti e servire la minestra, che la famiglia per abitudine mangiava dopo. Il padre la seguiva con gli occhi e pensava, Sto complicando tutto con questa conversazione, sarebbe meglio dirglielo subito. Non lo fece, improvvisamente la figlia aveva di nuovo otto anni e lui le diceva, Bada bene, è come quando la tua mamma impasta il pane. Faceva rotolare il blocco di argilla avanti e indietro, lo comprimeva e lo allungava con la parte posteriore del palmo delle mani, lo sbatteva con forza sul tavolo, calcava, spingeva, poi ricominciava dall’inizio, ripeteva tutta l’operazione, una volta, un’altra volta, e un’altra ancora, Perché fai così, gli aveva domandato la figlia, Perché non restino nella creta grumi e bolle d’aria, non sarebbe bene per il lavoro, Anche nel pane, Nel pane solo i grumi, le bolle non hanno importanza. Metteva da parte il cilindro compatto in cui aveva trasformato l’argilla e cominciava a impastare un altro blocco, Ormai è tempo che cominci a imparare, aveva detto, ma poi si era pentito, Che stupidaggine, ha solo otto anni, e aveva soggiunto, Vai a giocare fuori, vai, qui fa freddo, ma la figlia gli aveva risposto che non voleva andare, stava tentando di modellare un pupazzo da un rimasuglio di creta che le si appiccicava alle dita perché era troppo molle, Quello non va bene, prova invece con questo, vedrai che ci riuscirai, aveva detto il padre. Marta lo guardava inquieta, non era da lui chinare così il capo per mangiare, come se volesse fare in modo che, nascondendo il viso, si nascondessero anche le preoccupazioni, forse è per la discussione che ha avuto con Marçal, ma ne abbiamo già parlato e non ha fatto questa faccia, oppure sarà malato, lo vedo abbattuto, spento, quel giorno la mamma mi aveva detto, Abbiti cura, non tirare troppo la corda, e io le avevo risposto, Ci vogliono solo forza nelle braccia e movimento di spalle, il resto del corpo fa da leva, Non venirlo a dire a me, ché persino i capelli sulla testa mi fanno male dopo un’ora passata a impastare, Solo perché vi siete stancata un po’ troppo in questi ultimi tempi, O forse perché sto cominciando a invecchiare, Lasciate perdere queste idee, per favore, madre mia, non siete affatto vecchia, ma, ci credereste, non erano ancora trascorse due settimane da questa conversazione che lei era già morta e sepolta, sono le sorprese che la morte fa alla vita, A cosa state pensando, babbo. Cipriano Algor si pulì la bocca con il tovagliolo, prese il bicchiere come volesse bere, ma lo riposò senza portarlo alle labbra. Ditemi, parlate, insistette la figlia, e per agevolare lo sfogo domandò, Siete ancora preoccupato per via di Marçal, o avete qualche altro motivo di pena. Cipriano Algor afferrò il bicchiere, bevve d’un fiato il resto del vino e rispose rapidamente, come se le parole gli bruciassero la lingua, Mi hanno accettato solo metà del carico, dicono che ora ci sono meno acquirenti per la terracotta, che sono state messe in vendita certe stoviglie di plastica a imitazione e che i clienti le preferiscono, Non è nulla che non dovessimo aspettarci, prima o poi doveva succedere, la terracotta si crepa, si sbecca, si spacca al minimo colpo, mentre la plastica resiste a tutto e non si lamenta, La differenza sta nel fatto che la terracotta è come le persone, ha bisogno che la trattino bene, Anche la plastica, ma certamente di meno, E il peggio è che mi hanno detto di non portare altre stoviglie finché non le ordineranno, Allora dovremo smettere di lavorare, Smettere no, quando l’ordine arriverà dovremo già disporre di stoviglie pronte per consegnarle lo stesso giorno, non dovremo mica andare di corsa ad accendere il forno dopo l’ordinazione, E nel frattempo cosa possiamo fare, Aspettare, avere pazienza, domani andrò a fare un giro, qualcosa venderò, Ricordatevi che lo avete già fatto due mesi fa, non troverete molte persone che avranno bisogno di comprare, Non essere tu a scoraggiarmi, Cerco solo di vedere le cose come stanno, lo avete detto voi stesso, babbo, proprio poco fa, che tre generazioni di vasai in famiglia sono più che sufficienti, Tu non sarai la quarta generazione, andrai a vivere al Centro con tuo marito, Sì, dovrò andare, ma voi verrete con me, babbo, Ti ho già detto che non mi vedrai mai vivere nel Centro, È il Centro che ci ha dato da mangiare fino ad ora comprando il prodotto del nostro lavoro, continuerà a darci da mangiare quando saremo là e non avremo niente da vendere, Grazie allo stipendio di Marçal, Non è mica un’offesa che il genero mantenga il suocero, Dipende da chi è il suocero, Non è bello essere orgogliosi fino a questo punto, babbo, Non si tratta di orgoglio, Di cosa si tratta, allora, Non posso spiegarti, è più complicato dell’orgoglio, è un’altra cosa, una specie di vergogna, ma scusami, riconosco che non avrei dovuto dire ciò che ho detto, Ma io non voglio che viviate nell’indigenza, Potrò cominciare a vendere ai commercianti della città, basterebbe che il Centro lo autorizzasse, se comprano meno non hanno il diritto di proibirmi di vendere ad altri, Sapete meglio di me che i commercianti della città sono alle prese con difficoltà enormi per mantenersi a galla, vanno tutti a comprare al Centro, c’è sempre più gente che va a vivere nel Centro, Io non voglio, Cosa farete se il Centro non comprerà più le stoviglie e se le persone del paese cominceranno a usare utensili di plastica, Spero di morire prima, La mamma è morta prima, È morta al tornio, lavorando, magari potessi finire anch’io nella stessa maniera, Non parlate di morte, babbo, Della morte possiamo parlarne fintanto che siamo vivi, non certo dopo. Cipriano Algor si versò un altro po’ di vino, si alzò, si pulì la bocca con il dorso della mano come se le regole della buona educazione a tavola fossero scadute quando si era alzato, e disse, Devo andare a cavare un po’ di creta, quella che abbiamo sta finendo. Stava già per uscire quando la figlia lo chiamò, Babbo, mi è venuta un’idea, Un’idea, Sì, telefonare a Marçal perché parli con il capo dell’ufficio acquisti e tenti di scoprire quali sono le intenzioni del Centro, se questa riduzione degli ordini sarà per poco tempo o se dovrà durare, sapete bene che Marçal è molto stimato dai superiori, Almeno è quello che ci dice, Se lo dice è perché è vero, ribatté Marta, impaziente, e soggiunse, Ma se non volete, non telefonerò, Telefona, sì, telefona, è una buona idea, è l’unica che può servire ora, anche se ho qualche dubbio che un capoufficio del Centro sia disposto così, né più né meno, a render conto del proprio servizio a un guardiano di seconda classe, li conosco meglio di lui, non c’è bisogno di stare là dentro per capire di che pasta è fatta quella gente, sono pieni di sé, e inoltre un capoufficio non è altro che questo, un sottoposto, esegue degli ordini che gli vengono dall’alto, potrebbe anche darsi che ci inganni con qualche spiegazione priva di fondamento, solo per darsi delle arie. Marta ascoltò la lunga tirata sino alla fine, ma non rispose. Se, come sembrava evidente, suo padre ci teneva ad avere l’ultima parola, non sarebbe stata certo lei a sottrargli questo piacere. Pensò soltanto, quando lui uscì, Devo essere più comprensiva, devo mettermi al suo posto, immaginare cosa significhi ritrovarsi all’improvviso senza lavoro, separarsi dalla casa, dalla fornace, dal forno, dalla vita. Ripeté le ultime parole a voce alta, Dalla vita, mentre la vista le si annebbiò repentinamente, si era messa al posto del padre e soffriva come stava soffrendo lui. Si guardò intorno e notò per la prima volta che tutto era come se fosse coperto di creta, non sporco di creta, ma solo del colore che ha la creta, il colore dai mille colori con cui è venuta fuori dalla cava, ciò che è rimasto di tre generazioni che tutti i giorni si sono macchiate le mani nella polvere e nell’acqua della creta, e poi, là fuori, il colore di cenere viva del forno, l’ultimo languido tepore di quando lo lasciavano vuoto, come una casa da cui sono andati via i padroni e che se ne resta, paziente, in attesa, e l’indomani, se tutto non è ormai finito per sempre, di nuovo la prima fiamma della legna, il primo alito caldo che circonderà come una carezza l’argilla essiccata, e poi, a poco a poco, il tremolio dell’aria, un rapido bagliore di brace, l’albeggiare dello splendore, l’irruzione abbagliante del fuoco vivo. Non lo vedrò mai più quando ce ne andremo, disse Marta, e il cuore le si strinse come se stesse prendendo congedo dall’essere più amato, che in questo momento non avrebbe saputo dire chi fosse, se la madre ormai morta, o il padre amareggiato, o forse il marito, sì, poteva essere il marito, è la cosa più logica, essendo lei, appunto, la moglie. Udiva, come se salisse da sotto terra, il rumore sordo del maglio che rompeva la creta, ma il suono dei colpi oggi le sembrava diverso, forse perché non li spingeva la semplice necessità del lavoro, ma l’ira impotente di perderlo. Vado a telefonare, mormorò Marta fra sé e sé, con questi pensieri finirò per intristirmi come lui. Uscì dalla cucina e si diresse nella camera del padre. Lì, sopra il piccolo tavolino dove Cipriano Algor faceva il resoconto delle spese e delle fatture della fornace, c’era un telefono di modello antiquato. Compose uno dei numeri del centralino e chiese che le passassero la sicurezza. Quasi nello stesso istante risuonò una voce secca di uomo, Servizio di sicurezza, la rapidità della risposta non la sorprese, lo sanno tutti che quando si tratta di questioni di sicurezza conta perfino il più insignificante dei secondi, Vorrei parlare con il guardiano di seconda classe Marçal Gacho, disse Marta, Chi lo desidera, Sono sua moglie, sto chiamando da casa, Il guardiano di seconda classe Marçal Gacho in questo momento è in servizio, non si può muovere, In questo caso la prego di trasmettergli un messaggio, Lei è sua moglie, Sì, sono Marta Algor Gacho, può controllare, Allora non ignora che non accettiamo messaggi, prendiamo solo nota di chi ha telefonato, Dovrebbe solo dirgli di telefonare a casa appena può, È urgente, domandò la voce. Marta ci pensò due volte, sarà urgente, non sarà urgente, questione di vita o di morte non era, problemi gravi con il forno neanche, un parto prematuro tanto meno, ma alla fine rispose, Sì, per la verità c’è una certa urgenza. Ne ho preso nota, disse l’uomo, e riattaccò. Con un sospiro di stanca rassegnazione Marta posò il ricevitore sul gancio, non c’era niente da fare, era più forte di loro, la sicurezza non poteva vivere senza buttare la sua autorità in faccia alla gente, anche in un caso così normale come questo, così banale, così quotidiano, una moglie che telefona al Centro perché ha bisogno di parlare col marito, non sarà stata lei la prima né certamente sarà l’ultima. Quando Marta uscì nello spiazzo, il suono del maglio improvvisamente non parve più risalire dal suolo, veniva dal punto in cui doveva provenire, dall’angolo buio della fornace dove si conservava l’argilla estratta dalla cava. Si avvicinò alla porta, ma non oltrepassò la soglia, Ho telefonato, disse, hanno preso il messaggio per darglielo, Speriamo lo facciano, rispose il padre, e senza aggiungere altro attaccò con il maglio il più grosso dei blocchi che aveva davanti a sé. Marta gli voltò le spalle perché sapeva che non sarebbe dovuta penetrare in quello spazio scelto appositamente da lui per rimanere da solo, ma anche perché aveva, pure lei, il suo lavoro da fare, una dozzina di boccali grandi e piccoli che aspettavano i manici. Entrò nella porta accanto.

Marçal Gacho telefonò nel tardo pomeriggio, dopo avere concluso il turno di servizio. Rispose alla moglie con poche e brevi parole, senza dar mostra di fastidio, inquietudine o irritazione per la scortesia commerciale di cui era stato vittima il suocero. Parlò con voce assente, una voce che sembrava stesse pensando ad altro, disse Sì, ah, sì, capisco, effettivamente, suppongo sia normale, andrò appena posso, a volte no, senza dubbio, infatti, ho capito, non c’è bisogno di ripetere, e concluse la conversazione con una frase finalmente completa, ma senza alcun nesso con l’argomento, Stai tranquilla, non mi dimenticherò della spesa. Marta capì che il marito stava parlando davanti a testimoni, colleghi di lavoro, forse un superiore che era passato a ispezionare la camerata, e perciò aveva dovuto tergiversare, per evitare curiosità inopportune, se non addirittura pericolose. L’organizzazione del Centro era stata concepita e attuata secondo un modello di rigida settorializzazione delle diverse attività e funzioni, che, sebbene non fossero né potessero essere totalmente monopolizzate, solo per canali unici, non di rado difficili da individuare e identificare, potevano comunicare fra loro. È chiaro che un semplice guardiano di seconda classe, sia per la natura specifica del suo incarico sia per il suo credito ridotto nel quadro del personale subalterno, l’una cosa derivante dall’altra per inappellabile conseguenza, non è dotato, genericamente parlando, di discernimento e percezione sufficienti per captare sottigliezze e sfumature di tale carattere, per la verità quasi volatili, ma Marçal Gacho, malgrado non sia il più astuto della sua categoria, conta a suo favore su un certo fermento di ambizione che, avendo come meta conosciuta il passaggio a guardiano residente e, in un secondo tempo, naturalmente, la promozione a guardiano di prima classe, non sappiamo dove lo potrà portare nel futuro prossimo e, ancora meno, in un futuro distante, se ce l’avrà. È proprio perché ha tenuto gli occhi bene aperti e le orecchie affinate fin dal primo giorno in cui ha cominciato a lavorare nel Centro che ha potuto apprendere, in poco tempo, quando e come fosse più conveniente parlare, o tacere, o fare finta. Dopo due anni di matrimonio, Marta crede di conoscere bene il marito che gli è capitato in questo gioco di togli e metti a cui si riduce quasi sempre la vita coniugale, gli dedica tutto il suo affetto di moglie, non sarebbe neppure riluttante, supponendo che l’interesse del racconto richiedesse di approfondire la loro intimità, ad adottare una estrema veemenza rispondendogli che lo ama, ma non è tipo da ingannare se stessa, e sarebbe addirittura probabile, se fino a tal punto insistessimo, che finirebbe per confessare che a volte le sembra troppo prudente, per non dire calcolatore, se a un’area tanto negativa della personalità osassimo spingere l’indagine. Era sicura che il marito era stato contrariato dalla conversazione, che probabilmente era già preoccupato alla prospettiva di un incontro con il capo dell’ufficio acquisti, e non per timidezza o modestia da inferiore, in verità Marçal Gacho si è sempre piccato di proclamare che non gli piace richiamare su di sé le attenzioni a patto che non si tratti di questioni di servizio, soprattutto, aggiungerà chi pensa di conoscerlo, quando si dia il caso che tali attenzioni non gli portino beneficio. In definitiva, quella famosa buona idea che Marta credeva di avere avuto le era sembrata buona solo perché, in quel momento, come aveva detto il padre, era l’unica possibile. Cipriano Algor si trovava in cucina, non poteva aver udito i frammenti di quel discorso, isolati e sconnessi, emessi dal genero, ma fu come se li avesse letti tutti, e colmate le lacune, nel volto abbattuto della figlia quando, dopo un lungo minuto, lei uscì dalla stanza. E giacché non valeva la pena far lavorare la lingua per così poco, non perse tempo a domandarle, Allora, e fu lei a dover comunicare l’ovvio, Parlerà con il capoufficio, ma anche per dire solo questo non c’era bisogno che Marta si affannasse, due occhiate sarebbero bastate. La vita è così, è piena di parole che non valgono la pena, oppure la valevano e non la valgono più, ognuna di quelle che pronunceremo toglierà il posto a un’altra più meritevole, che lo sarebbe non tanto di per sé quanto per le conseguenze di averla detta. La cena trascorse in silenzio, silenziose furono anche le due ore passate dopo davanti alla televisione indifferente, a un certo punto, come succede di frequente negli ultimi mesi, Cipriano Algor si addormentò. Aveva le sopracciglia aggrottate, con una espressione di rabbia, come se, mentre dormiva, si stesse recriminando per aver ceduto tanto facilmente al sonno, quando sarebbe stato giusto ed equo che l’irritazione e il dispiacere lo mantenessero sveglio di notte e di giorno, il dispiacere affinché soffrisse pienamente l’offesa, l’irritazione per rendergli sopportabile la sofferenza. Esposto così, disarmato, con la testa reclinata all’indietro, la bocca mezza aperta, smarrito, presentava l’immagine pungente di un abbandono senza salvezza, come un sacco che si fosse rotto e avesse lasciato scolare strada facendo quello che conteneva. Marta guardava il padre infervorata, con una intensità appassionata, e pensava, Questo è il mio vecchio padre, sono le esagerazioni scusabili di chi si trova ancora ai primi albori dell’età adulta, un uomo di sessantaquattro anni, benché d’animo un po’ avvizzito come si osserva in questo, non lo si dovrebbe, con tanta incosciente leggerezza, chiamare vecchio, sarebbe stato usuale in quelle epoche in cui i denti cominciavano a cadere a trent’anni e le prime rughe comparivano a venticinque, al giorno d’oggi la vecchiaia, quella autentica, inappellabile, quella da cui non potrà esserci ritorno, e neppure una sua finzione, sarà solo dopo gli ottant’anni che comincerà, di fatto e senza scuse, a meritare il nome che diamo al tempo del congedo. Che ne sarà di noi se il Centro deciderà di non comprare più, per chi ci metteremo a fabbricare stoviglie se sono i gusti del Centro a determinare i gusti di tutta la gente, si domandava Marta, non è stato il capoufficio a decidere di dimezzare gli acquisti, l’ordine gli è venuto dall’alto, dai superiori, da qualcuno per cui è indifferente che nel mondo vi sia un vasaio in più o in meno, quello che è successo potrebbe essere stato solo il primo passo, il secondo sarà di interrompere definitivamente gli acquisti, dovremo essere preparati a questo disastro, sì, preparati, ma quello che vorrei proprio sapere è come si fa a prepararsi a prendersi una martellata sulla testa, e quando Marçal sarà promosso guardiano residente, come farò con il babbo, lo lascerò da solo in questa casa e senza lavoro, impossibile, impossibile, figlia snaturata, direbbero di me i vicini, o cose ben peggiori direi di me stessa, sarebbe diverso se la mamma fosse ancora viva, perché, contrariamente a quanto si suole dire, due debolezze non fanno una debolezza maggiore, ma una forza nuova, probabilmente non è così e non lo è mai stato, ma ci sono delle volte in cui converrebbe che lo fosse, no, padre mio, no, Cipriano Algor, quando io me ne andrò via da qui tu verrai con me, anche se dovrò portarti con la forza, non ho alcun dubbio che un uomo sia capace di vivere da solo, ma sono convinta che comincia a deperire nell’istante in cui si chiude alle spalle la porta di casa sua. Come se lo avessero scosso bruscamente per un braccio, o come se avesse capito che parlavano di lui, Cipriano Algor aprì gli occhi all’improvviso e si raddrizzò sulla sedia. Si passò le mani sul viso e, con l’espressione un po’ confusa di un ragazzino colto in fallo, mormorò, Lasciatemi dormire. Diceva sempre queste parole, Lasciatemi dormire, quando si svegliava dai suoi sonnellini davanti alla televisione. Ma questa sera non era uguale alle altre, perciò dovette aggiungere, Sarebbe molto meglio se non mi fossi svegliato, mormorò, almeno, fintanto che dormivo, ero un vasaio con lavoro, Con la grande differenza che il lavoro che si fa sognando non ha mai lasciato nulla di fatto, disse Marta, Proprio come nella vita sveglia, lavori, lavori e lavori, e un giorno esci fuori da quel sogno o da quell’incubo e ti dicono che quello che hai fatto non è servito a niente, Sì che è servito, babbo, È come se non lo fosse, Oggi abbiamo avuto una brutta giornata, domani ci penseremo con più calma, vedremo come trovare una via d’uscita per questo problema che ci hanno creato, Infatti, vedremo, infatti, ci penseremo. Marta si avvicinò al padre, gli diede un bacio affettuoso, Andate a coricarvi, andate, e dormite bene, riposate questa testa. Sulla soglia della stanza, Cipriano Algor si fermò, si voltò all’indietro, parve esitare un momento e alla fine, come se decidesse di convincere se stesso, disse, Forse Marçal telefonerà domani, forse ci porterà una buona notizia, Chissà, babbo, chissà, rispose Marta, mi ha detto che se la sarebbe presa a cuore, era questa la sua intenzione.


Marçal non telefonò il giorno seguente. Passò tutta quella giornata, che era mercoledì, passò il giovedì e passò il venerdì, passarono sabato e domenica, e solo il lunedì, quasi una settimana dopo la sciagura delle stoviglie, il telefono avrebbe squillato di nuovo a casa di Cipriano Algor. Al contrario di quanto aveva annunciato, il vasaio non uscì di casa per fare un giro nei dintorni in cerca di acquirenti. Occupò le sue lunghe ore con piccoli lavoretti, alcuni non necessari, come quello di ispezionare e ripulire meticolosamente il forno, da cima a fondo, dentro e fuori, fuga per fuga, mattone per mattone, come se lo stesse preparando per la più grande cottura della sua storia. Impastò un po’ di creta di cui la figlia aveva bisogno, ma, al contrario dell’attenzione scrupolosa che aveva dedicato al forno, lo fece con pochissimo zelo, tanto che Marta, di nascosto, si vide costretta a impastarla di nuovo per ridurre i grumi. Tagliò la legna, spazzò il piazzale, e nel pomeriggio, quando, per più di tre ore, cadde una di quelle pioggerelline sottili e monotone che un tempo si definivano spolverate, se ne rimase sempre seduto su un tronco sotto la tettoia, a volte guardando davanti a sé con la fissità di un cieco consapevole che non vedrà di certo voltando la testa in un’altra direzione, altre volte contemplandosi le mani aperte, come se nelle loro linee, nei loro incroci, cercasse un cammino, il più breve o il più lungo, generalmente imboccarne uno oppure un altro dipende dalla molta o poca fretta che si abbia di arrivare, senza dimenticare, comunque, quei casi in cui qualcuno o qualche cosa vengono a spingerci per le spalle, senza che sappiamo perché né verso dove. Quel pomeriggio, quando smise di piovere, Cipriano Algor ridiscese per il sentiero che conduceva alla strada, non si era accorto che la figlia lo guardava dalla porta della fornace, ma né lui aveva bisogno di dire dove andava, né lei che lui glielo dicesse. Che uomo ostinato, pensò Marta, sarebbe dovuto andare con il furgone, da un momento all’altro può ricominciare a piovere. Era naturale, c’era da aspettarsela da una figlia, la preoccupazione di Marta, perché, in verità, per quanto storicamente si sia esagerato con dichiarazioni contrarie, del cielo non c’è mai stato molto da fidarsi. Questa volta, però, anche se la pioggerellina tornerà a scivolar giù dal grigio uniforme che copre e circonda la terra, non sarà certo di quelle che t’inzuppano, il cimitero del paese è molto vicino, è proprio lì alla fine di una di queste vie trasversali alla strada, e Cipriano Algor, malgrado la sua età un po’ di qua e un po’ di là, conserva ancora quella falcata ampia e rapida di cui si servono i più giovani nella premura. Vecchio o giovane, che oggi nessuno glielo chieda. Come non sarebbe di buon avviso che Marta gli consigliasse di andare con il furgone, perché ai cimiteri, soprattutto al cimitero di questo paese, campestri, bucolici, dovremo sempre andare umilmente, non per via di qualche imperativo categorico o imposizione del trascendente, ma per rispetto alle convenienze semplicemente umane, in fin dei conti sono tanti quelli che vanno in pedestri peregrinazioni a venerare la tibia di un santo che non si capisce come si potrebbe andare altrimenti laddove sappiamo anticipatamente che ci aspettano la nostra memoria e forse una lacrima. Cipriano Algor andrà a passare alcuni minuti accanto alla tomba della moglie, non per recitare qualche preghiera che ormai ha dimenticato, né per chiederle che dall’alto, dall’empirea dimora, se così in alto l’hanno portata le sue doti, interceda a suo favore presso colui che alcuni dicono che possa tutto, protesterà solo che non è giusto, Justa, ciò che mi hanno fatto, si sono beffati del mio lavoro e del lavoro di nostra figlia, dicono che le stoviglie di terracotta non interessano più, che non le vuole nessuno, e quindi anche noi non siamo più necessari, siamo una scodella crepata a cui non vale la pena di perder tempo a mettere ganci, tu sei stata più fortunata finché hai vissuto. Nei vialetti di ghiaia del cimitero ci sono piccole pozze d’acqua, l’erba cresce dappertutto, non ci vorranno cent’anni perché non si sappia più chi è stato messo sotto questi monticelli di fango, e se comunque lo sapranno ancora c’è da chiedersi se il saperlo gli interesserà veramente, i morti, qualcuno lo ha già detto, sono come piatti crepati su cui non vale la pena agganciare quelle graffe di ferro, anch’esse desuete, che univano ciò che si era rotto e separato, o, nel caso in questione, spiegando il simile con altre parole, i ganci della memoria e della nostalgia. Cipriano Algor si è avvicinato alla tomba della moglie, sono ormai tre gli anni che lei si trova là sotto, tre anni senza farsi vedere da nessuna parte, né in casa, né alla fornace, né a letto, né all’ombra del gelso nero, né sotto il sole cocente della cava d’argilla, non si è più seduta a tavola né al tornio, non toglie più le ceneri cadute dalla griglia né rivolta i pezzi che stanno essiccando, non sbuccia le patate, non impasta la creta, non dice, Così vanno le cose, Cipriano, la vita non ha che due giorni da dare, e c’è tanta gente che ha vissuto solo un giorno e mezzo, e altra neanche tanto, vedi dunque che noi non possiamo lamentarci. Cipriano Algor non rimase più di tre minuti, era abbastanza intelligente da non aver bisogno che gli dicessero che l’importante non era starsene lì fermo, con o senza preghiere, a guardare una tomba, l’importante era l’essere venuto, l’importante è il cammino che si è fatto, il viaggio che si è percorso, se sei consapevole che stai prolungando la tua contemplazione è perché osservi te stesso o, peggio ancora, perché ti aspetti che ti osservino. A paragone con la velocità istantanea del pensiero, che prosegue in linea retta fino a quando sembra avere smarrito il nord, lo crediamo noi perché non capiamo che il pensiero, correndo in una direzione, sta avanzando verso tutte le direzioni, a paragone, dicevamo, la povera parola ha sempre bisogno di chiedere permesso a un piede per far avanzare l’altro, eppure inciampa continuamente, esita, s’intrattiene a girare intorno a un aggettivo, a un tempo verbale che gli si è presentato senza farsi annunciare dal soggetto, dev’esser questa la ragione per cui Cipriano Algor non ha avuto tempo di dire alla moglie tutto quello che aveva pensato, che non è giusto, Justa, ciò che mi hanno fatto, ma può anche darsi che i mormorii che stiamo udendo ora, mentre cammina verso l’uscita del cimitero, siano proprio ciò che era rimasto da dire. Era ormai silenzioso quando incrociò una donna vestita a lutto che entrava, è sempre andata così, alcuni arrivano, altri partono, lei ha detto, Buonasera, signor Cipriano, il trattamento rispettoso è giustificato sia dalla differenza di generazioni sia perché è un’abitudine della campagna, e lui ha ricambiato, Buonasera, non ha pronunciato il nome di lei non perché non lo conoscesse, ma perché ha pensato che questa donna, in lutto stretto per un marito, non avrà alcuna parte nei cupi avvenimenti futuri che si annunciano né nel resoconto che se ne possa fare, benché sia sicuro, comunque, che lei, almeno, intende recarsi l’indomani alla fornace per comprare una brocca, come annuncia, Domani verrò a comprare una brocca, ma speriamo sia migliore di questa, che quando l’ho sollevata mi è rimasto in mano il manico, è andata in pezzi e mi ha allagato tutta la cucina, può ben immaginare come sia andata, anche se, a dir la verità, aveva anche lei i suoi anni, e Cipriano Algor ha risposto, Non c’è bisogno che venga alla fornace, le porterò una brocca nuova in sostituzione di quella che si è rotta, non dovrà pagare nulla, è un regalo della fabbrica, Lo dice perché sono vedova, ha domandato la donna, No, che idea, è solo un pensiero, nient’altro, abbiamo tante di quelle brocche che forse non riusciremo neanche a venderle, In tal caso la ringrazio molto, signor Cipriano, Non c’è di che, Una brocca nuova è pur sempre qualcosa, Sì, ma è soltanto questo, solo qualcosa, Allora a domani, l’aspetto, e ancora una volta mille grazie, A domani. Orbene, visto che il pensiero corre contemporaneamente in tutte le direzioni, come si è ben spiegato prima, e i sentimenti procedono al tempo stesso insieme a lui, non dovrà sorprenderci che la soddisfazione della vedova nel ricevere una brocca nuova senza aver bisogno di pagarla sia stata la causa per cui si sia attenuato da un istante all’altro il dispiacere che l’aveva fatta uscire da casa in un pomeriggio tanto triste per andare a visitare l’ultima dimora del marito. È chiaro che, nonostante la vediamo ancora lì ferma all’entrata del cimitero, sicuramente rallegrandosi nel proprio intimo di padrona di casa per l’inatteso regalo, non tralascerà di andare là dove l’hanno convocata il lutto e il dovere, ma forse, in definitiva, quando vi si troverà, non piangerà tanto quanto aveva pensato. Il pomeriggio sta scurendo lentamente, cominciano ad apparire luci smorte nelle case vicine al cimitero, ma il crepuscolo durerà ancora il tempo necessario perché la donna possa recitare senza paura dei fuochi fatui o delle anime in pena il suo padrenostro e la sua avemaria, che resti in buona pace e in buona pace riposi.


Quando Cipriano Algor svoltò dopo l’ultima casa dell’abitato e guardò verso il punto in cui si trovava la fornace, vide accendersi la luce fuori, un’antica lanterna di metallo appesa sopra la porta della casa, e, benché non passasse una sola notte senza che l’accendessero, questa volta sentì che il cuore gli si riconfortava e l’animo si tranquillizzava, come se la casa gli stesse dicendo, Ti sto aspettando. Quasi impalpabili, portate avanti e indietro a piacimento dalle onde invisibili che spingono l’aria, alcune minuscole gocce gli hanno sfiorato il viso, non tarderà molto che il setaccio delle nuvole ricomincerà a spolverare la sua farina d’acqua, con tutta questa umidità non so quando riusciremo a far seccare tutti i pezzi. Vuoi per influsso della mansuetudine crepuscolare, vuoi per la breve visita evocativa al cimitero, o forse, il che sarebbe un’effettiva ricompensa alla sua generosità, per aver detto alla donna in lutto che le avrebbe regalato una brocca nuova, Cipriano Algor, in questo momento, non pensa né al disappunto di non guadagnare né alla paura di perdere. In un momento come questo, mentre calpesti la terra bagnata e hai così vicino al capo la prima pellicola del cielo, non è possibile che ti dicano cose tanto assurde come quella che te ne devi tornare indietro con metà delle stoviglie o che uno di questi giorni tua figlia ti lascerà da solo. Il vasaio arrivò in cima alla strada e tirò un profondo respiro. Stagliato contro l’opaca cortina di nuvole grigie, il gelso nero sembra tanto nero quanto l’obbliga il suo stesso nome. La luce della lanterna non ne raggiunge la cima, e non sfiora neppure le foglie dei rami più bassi, solo una debole luminosità comincia a tappezzare il terreno fin quasi a toccare il grosso tronco dell’albero. Il vecchio casotto del cane è ancora lì, vuoto da anni, da quando il suo ultimo abitante è morto fra le braccia di Justa e lei ha detto al marito, Non voglio mai più un animale del genere a casa mia. All’ingresso scuro della cuccia si è mosso un bagliore e subito dopo è scomparso. Cipriano Algor voleva scoprire cosa fosse, si abbassò per sbirciare dopo aver fatto qualche passo avanti. Dentro, l’oscurità era totale. Capì che stava ostruendo con il corpo la luce della lanterna e si spostò un po’ di lato. Erano due i bagliori, due occhi, un cane. O un altro animale, ma è molto più probabile che sia un cane, pensò il vasaio, e sicuramente era nel giusto, della specie lupina non c’è più memoria credibile da queste parti, e gli occhi dei gatti, che siano gatti domestici o selvatici, come chiunque ha il dovere di sapere, sono comunque occhi di gatto, al massimo, e nel peggiore dei casi, potremmo confonderli, in piccolo, con quelli della tigre, ma è chiaro che una tigre adulta non potrebbe mai infilarsi in un casottino di questa dimensione. Cipriano Algor non ha parlato né di gatti né di tigri quando è entrato in casa, e non ha fatto neppure parola della visita al cimitero, e quanto alla brocca che regalerà alla donna in lutto, capisce che non è argomento da affrontare in questo momento, ciò che ha detto alla figlia è stato solo questo, C’è un cane là fuori, ha fatto una pausa, come se aspettasse una risposta, e ha aggiunto, Sotto il gelso, nel casotto. Marta si era appena lavata le mani e cambiata d’abito, era venuta a riposarsi un minuto, seduta, prima di mettersi a preparare la cena, quindi non doveva essere nella disposizione migliore per preoccuparsi dei posti dove passano o si fermano i cani fuggiti o abbandonati nel loro vagabondare, Meglio lasciarlo stare, se non è un animale a cui piaccia viaggiare di notte, domani se ne andrà via, ha detto, Hai qualcosa da mangiare che gli si possa portare, ha domandato il padre, Avanzi del pranzo, pezzetti di pane, di acqua non avrà bisogno, ne è caduta tanta dal cielo, Vado a portarglielo, Come volete, babbo, ma ricordatevi che non se ne andrà più via, Immagino di sì, se fossi al posto suo farei lo stesso. Marta versò i resti del cibo in un vecchio piatto che teneva sotto la pietra del camino, vi sbriciolò sopra un pezzo di pane duro e ammorbidì tutto con un po’ di brodo, Ecco, e tenete presente che è solo l’inizio. Cipriano Algor prese il piatto e aveva già un piede fuori dalla cucina quando la figlia gli domandò, Vi ricordate cosa disse la mamma quando morì Costante, che non avrebbe mai più voluto cani in casa, Me ne ricordo, certo, ma potrei anche giurare che se fosse ancora viva lei non sarebbe tuo padre, adesso, a portare questo piatto al famoso cane che non voleva, rispose Cipriano Algor, e uscì senza aver udito il mormorio della figlia, Forse non avete del tutto torto. La pioggia aveva ripreso a cadere, era lo stesso ingannevole piove-non piove, lo stesso pulviscolo d’acqua che tremolava e confondeva le distanze, perfino la sagoma biancheggiante del forno sembrava decisa ad andarsene altrove, e il furgone, lì, aveva più l’aspetto del carro fantasma che di un moderno veicolo con un motore a scoppio, ancorché di modello non recente, come sappiamo. Sotto il gelso nero, l’acqua scivolava giù dalle foglie a goccioloni isolati, ora uno, ora l’altro, poi un altro ancora, a caso, come se le leggi dell’idraulica e della dinamica dei liquidi, ancora regnanti fuori dal precario parapioggia dell’albero, lì non fossero applicabili. Cipriano Algor posò per terra il piatto con il cibo, fece tre passi indietro, ma il cane non uscì dal suo riparo, È impossibile che non abbia fame, disse il vasaio, o forse è uno di quei cani che si rispettano, forse non vuole far vedere la sua fame. Attese ancora un minuto, poi si ritirò ed entrò in casa, ma non chiuse completamente la porta. A stento si poteva vedere dalla fessura, ma lui riuscì comunque a distinguere una sagoma nera che usciva dal casotto e si avvicinava al piatto, e si accorse pure che il cane, era un cane, non un lupo né un gatto, guardò prima in direzione della casa e solo dopo abbassò la testa sul cibo, come se pensasse di dovere questo riguardo a chi era venuto, sotto la pioggia, sfidando le intemperie, ad ammazzare la sua fame. Cipriano Algor chiuse completamente la porta e si avviò in cucina, Sta mangiando, disse, Se aveva tanta fame, avrà già finito, rispose Marta, sorridendo, Non c’è dubbio, sorrise anche il padre, se i cani di oggi sono come quelli di un tempo. La cena era frugale, ci voleva poco a metterla in tavola. Solo alla fine Marta disse, Un altro giorno senza notizie di Marçal, non capisco perché non telefoni, almeno una parola, sarebbe bastata una semplice parola, mica gli si chiedeva un discorso, Forse non ha ancora potuto parlare con il capo, Allora poteva almeno dircelo, Be’, non è una cosa facile, lo sai bene, disse il vasaio, inaspettatamente conciliante. La figlia lo guardò sorpresa, più per il tono della voce che per il significato delle parole, Non è davvero vostra abitudine scusare o giustificare Marçal, disse, Lui mi piace, Vi piacerà pure, ma non lo prendete sul serio, Se c’è qualcuno che non riesco a prendere sul serio è il guardiano in cui si è trasformato il ragazzo affabile e simpatico che conoscevo, Adesso è un uomo affabile e simpatico, e il mestiere di guardiano non è un modo di vivere meno dignitoso e onesto di qualsiasi altro, Non è come qualsiasi altro, Dove sta la differenza, La differenza sta nel fatto che il tuo Marçal, come lo conosciamo adesso, è tutto guardiano, guardiano dalla testa ai piedi, e ho il sospetto che lo sia anche nel cuore, Babbo, vi prego, non potete parlare così del marito di vostra figlia, Hai ragione, scusami, oggi non dovrebbe essere una giornata di censure e recriminazioni, Oggi, perché, Sono stato al cimitero, ho offerto una brocca alla vicina e abbiamo fuori di casa un cane, tutti avvenimenti di grande importanza, Cos’è questa storia della brocca, Le è rimasto il manico in mano e la sua brocca è andata in mille pezzi, Sono cose che capitano, niente è eterno, Ma lei ha avuto la decenza di riconoscere che la brocca era vecchia, e perciò ho pensato che avrei dovuto regalargliene una nuova, si fa finta che l’altra avesse un difetto di fabbricazione, o forse non c’è neanche bisogno di fare finta, se si regala si regala, senza spiegazioni, Chi è la vicina, Isaura Estudiosa, quella che è rimasta vedova qualche mese fa, È una donna giovane, Non ho intenzione di risposarmi, se è questo che stai pensando, Se l’ho pensato, non me ne sono resa conto, ma forse avreste dovuto farlo, così non rimarreste da solo qui, babbo, visto che vi ostinate a non voler venire a vivere con noi al Centro, Ti ripeto che non intendo sposarmi, e tanto meno con la prima donna che mi capiti davanti, quanto al resto, ti pregherei di non rovinarmi la serata, Non era mia intenzione, scusate. Marta si alzò, radunò i piatti e le posate, ripiegò la tovaglia e i tovaglioli, incorre in un grave equivoco chi ritenga che il mestiere di vasaio, anche se di prodotti rustici, come in questo caso, anche se esercitato in un paese piccolo e poco vivace, come si è immaginato sia questo, sia incompatibile con la delicatezza e le buone maniere che distinguono le attuali classi alte, ormai dimentiche o ignoranti fin dalla nascita della rozzezza dei loro avi e della bestialità dei bisavoli. Questi Algor sono gente che apprende bene ciò che le insegnano ed è capace di servirsene poi per apprendere meglio, e Marta, essendo dell’ultima generazione, e dunque più favorita dai sussidi del progresso, ha già avuto la grande fortuna di studiare in città, ché qualche vantaggio dovranno pure averlo, rispetto ai paesi, i grandi agglomerati di popolazione. E se alla fine ha fatto la vasaia, è stato in virtù di una consapevole e palese vocazione di modellatrice, sebbene abbia influito nella sua decisione anche il fatto che non c’erano in famiglia fratelli maschi che potessero continuare la tradizione familiare, senza dimenticare poi, terza e sovrana ragione, il forte amore filiale che non le avrebbe mai permesso di lasciare i genitori al come-vuole-iddio-poi-si-vedrà quando fossero diventati vecchi. Cipriano Algor aveva acceso la televisione, ma poco dopo l’ha spenta. Se in questo momento qualcuno gli chiedesse di ripetere ciò che aveva visto o sentito fra i gesti di accendere e spegnere l’apparecchio, non saprebbe cosa rispondere, ma semplicemente si rifiuterebbe di farlo se la domanda fosse un’altra, A cosa pensa con quell’espressione così distratta. Direbbe solo che no, che idea, non era mica distratto, solo per non dover confessare la puerilità di sentirsi preoccupato per via del cane, se era al riparo nel casotto, se, dopo aver soddisfatto lo stomaco e recuperate le energie, aveva proseguito il suo viaggio, in cerca di miglior cibo o di un padrone che vivesse in un posto meno esposto ai temporali e alle pioggerelline. Vado nella mia stanza, ha detto Marta, ho rimandato alcune cose che avevo da cucire, ma ora dovrò farlo, E non mi tratterrò neanch’io, ha detto il padre, sono stanco senza avere fatto niente, Avete impastato, revisionato il forno, qualcosa l’avete fatta, Sai bene quanto me che quella creta sarà necessario impastarla di nuovo, e il forno non aveva bisogno di quel lavoro da muratore, e tanto meno delle cure da balia asciutta, I giorni sono tutti uguali, le ore invece no, quando i giorni arrivano alla fine hanno sempre le loro ventiquattr’ore complete, anche quando non abbiano avuto niente dentro, ma non è questo il caso delle vostre ore né dei vostri giorni, Marta filosofa del tempo, ha detto il padre, e le ha dato un bacio sulla fronte. La figlia ricambiò l’affettuosità e, sorridendo, disse, Non dimenticatevi di andare a vedere come sta il vostro cane, Per il momento è solo un cane che è venuto a finire qui e ha pensato che il casotto gli facesse comodo per ripararsi dalla pioggia, forse è malato, o ferito, forse ha nel collare il numero di telefono della persona che bisogna chiamare, forse appartiene a qualcuno del paese, magari lo hanno picchiato e lui è fuggito, in tal caso domani mattina non ci sarà più, sai come sono i cani, il padrone è sempre il padrone anche quando castiga, quindi non precipitarti a dire che è il mio cane, non l’ho neanche visto, non so se mi piace, Sapete che vi piacerà, è già qualche cosa, Adesso mi fai pure la filosofa dei sentimenti, disse il padre, Supponendo che vi terrete il cane, che nome gli metterete, domandò Marta, È presto per pensarci, Se domani il cane sarà ancora qui, dovrebbe essere il nome la prima parola che dovrebbe udire dalla vostra bocca, Non lo chiamerò Costante, era il nome di un cane che non tornerà dalla sua padrona e che non l’avrebbe trovata se fosse tornato, forse questo lo chiamerò Perduto, è un nome che gli sta bene, Ce n’è un altro che gli starebbe ancora meglio, Quale, Trovato, Trovato non è un nome da cane, Non lo sarebbe neanche Perduto, Sì, mi sembra un’idea, era perduto ed è stato trovato, si chiamerà così, A domani, babbo, dormite bene, A domani, non rimanere a cucire fino a tardi, abbiti cura degli occhi. Dopo che la figlia si fu ritirata, Cipriano Algor aprì la porta che dava all’esterno e guardò in direzione del gelso nero. Il pulviscolo persistente continuava a cadere e non si avvertiva segno di vita nel casotto. Ci sarà ancora, si domandò il vasaio. Si diede una falsa ragione per non andare a vedere, Ci mancherebbe altro, bagnarmi per un cane randagio, una volta è più che sufficiente. Si ritirò nella sua stanza e si coricò, rimase a leggere ancora una mezz’ora, poi si addormentò. Nel cuore della notte si svegliò, accese la luce, l’orologio sul comodino segnava le quattro e mezzo. Si alzò, prese la torcia a pile che teneva in un cassetto e aprì la finestra. Aveva smesso di piovere, si vedevano le stelle nel cielo scuro. Cipriano Algor accese la torcia e la puntò verso il casotto. La luce non era abbastanza forte da poter vedere cosa ci fosse dentro, ma Cipriano Algor non ne aveva bisogno, due bagliori gli sarebbero bastati, due occhi, e quelli c’erano.

Da quando lo hanno rimandato indietro con la metà delle stoviglie, che, fra parentesi, non sono ancora state scaricate dal furgone, Cipriano Algor ha cominciato, da un’ora all’altra, a demeritare la reputazione di operaio mattiniero guadagnata in una vita di molto lavoro e poche ferie. Si alza con il sole ormai sorto, si lava e si fa la barba con più lentezza dell’indispensabile per un viso spelacchiato e un corpo che si è abituato alla pulizia, fa una colazione frugale ma prolungata, e finalmente, senza alcun visibile aumento nello scarso animo con cui si è alzato dal letto, va a lavorare. Oggi, però, dopo un residuo di notte trascorso a sognare una tigre che gli veniva a mangiare in mano, ha lasciato le coperte quando il sole aveva appena iniziato a tingere il cielo. Non ha aperto la finestra, ha scostato appena lo scuro interno per vedere come poteva essere il tempo, è ciò che ha pensato, o ha voluto pensare di aver pensato, ma in realtà non era sua abitudine farlo, quest’uomo ha già vissuto più che a sufficienza per sapere che il tempo c’è sempre, con il sole, come promette oggi, con la pioggia, come ha fatto ieri, in realtà, quando apriamo una finestra e alziamo il naso verso gli spazi superiori lo facciamo solo per appurare se il tempo che fa è quello che desideravamo noi. Nello sbirciare fuori, Cipriano Algor voleva in realtà, senza ulteriori preamboli suoi o di chiunque altro, sapere se il cane era ancora lì ad aspettare che andassero a dargli un altro nome, o se, stanco dell’attesa frustrata, era partito in cerca di un padrone più diligente. Se ne vedevano solo il muso che riposava sulle zampe anteriori incrociate e le orecchie abbassate, ma non c’era motivo per temere che il resto del corpo non fosse ancora dentro il casotto. È nero, disse Cipriano Algor. Già quando era andato a portargli da mangiare gli era parso che l’animale fosse di quel colore, o, come pure c’è chi lo sostenga, di quella sua assenza, ma era di notte, e se di notte perfino i gatti bianchi sono bigi, lo stesso, o in senso più tenebroso, si potrebbe dire di un cane visto per la prima volta sotto un gelso nero quando una pioggerellina sottile e notturna dissolveva la linea di separazione fra gli esseri e le cose, avvicinandoli alle cose in cui, prima o poi, si dovranno trasformare. Il cane non è del tutto nero, è quasi arrivato a esserlo nel muso e nelle orecchie, ma il resto tende più verso un generico colore grigio, con una marezzatura di toni scuri, fino all’affiorare del nero più intenso. A un vasaio di sessantaquattro anni, con i problemi di vista che l’età genera sempre e che ha smesso di usare gli occhiali per il calore del forno, non lo si può rimproverare se ha detto, È nero, visto che prima era notte e pioveva, e la distanza, adesso, rende nebuloso il crepuscolo del mattino. Quando Cipriano Algor si avvicinerà finalmente al cane vedrà che non potrà mai più ripetere, È nero, ma che peccherebbe gravemente contro la verità anche se affermasse, È grigio, tanto più quando scoprirà che una sottile macchia bianca, come una delicata cravatta, scende giù dal petto dell’animale fino all’inizio del ventre. La voce di Marta risuonò al di là della porta, Babbo, svegliatevi, c’è il cane che aspetta, Sono sveglio, vengo subito, rispose Cipriano Algor, ma si pentì immediatamente di essersi fatto scappare quelle due ultime parole, era puerile, era quasi ridicolo, un uomo della sua età che si metteva in agitazione come un bambino a cui hanno portato il giocattolo sognato, quando sappiamo tutti, al contrario, che in posti come questi un cane è tanto più stimato quanto più dimostri la sua utilità pratica, una virtù di cui i giocattoli non hanno bisogno, e per quanto si riferisce ai sogni, se si tratta di realizzarli, non basterebbe un cane per chi ancora la notte scorsa aveva sognato una tigre. Malgrado il rimprovero che si era fatto, questa volta Cipriano Algor non perse tempo con preparativi e pulizie, si vestì rapidamente e uscì dalla stanza. Marta gli domandò, Volete che prepari qualcosa per dargli da mangiare, Dopo, adesso il cibo servirebbe solo a distrarlo, Andate, andate a domare la fiera, Non è affatto una fiera, povera bestiola, l’ho osservato dalla finestra, L’ho visto anch’io, Cosa ne pensi, Non credo sia di qualcuno di queste parti, Ci sono cani che non escono mai dai poderi, ci vivono e ci muoiono, salvo nei casi in cui li portano nei campi per impiccarli al ramo di un albero o per finirli con una scarica di piombo in testa, Quello che sto sentendo non è un buon modo di cominciare la giornata, Non lo è davvero, vediamo di iniziarla in maniera meno umana, ma più compassionevole, disse Cipriano Algor uscendo nello spiazzo. La figlia non lo seguì, se ne rimase sulla soglia, a guardare, La festa è sua, pensò. Il vasaio avanzò di qualche passo e, con voce chiara, ferma, ma senza alzarla troppo, pronunciò il nome scelto, Trovato. Il cane aveva già sollevato la testa quando lo aveva visto, e adesso, udito finalmente il nome che aspettava, uscì con tutto il corpo fuori dal casotto, un cane né grande né piccolo, un animale giovane, snello, dal pelo crespo, veramente grigio, veramente tendente verso il nero, con quella sottile macchia bianca a dividergli il petto e che sembra una cravatta. Trovato, ripeté il vasaio, facendo altri due passi avanti, Trovato, vieni qui. Il cane rimase dov’era, teneva la testa alta e scuoteva lentamente la coda, ma non si mosse. Allora il vasaio si accovacciò per portare i propri occhi al livello degli occhi dell’animale e ripeté, questa volta con tono pressante, intenso, come se fosse l’espressione di una sua personale necessità, Trovato. Il cane avanzò di un passo, un altro passo, un altro ancora, senza più frenarsi, fino a mettersi a portata del braccio di chi lo chiamava. Cipriano Algor tese la mano destra, quasi sfiorandogli le narici, e attese. Il cane fiutò un paio di volte, poi allungò il collo, e il suo naso freddo andò a sfiorare la punta delle dita che lo sollecitavano. La mano del vasaio avanzò lentamente verso l’orecchio e lo accarezzò. Il cane fece il passo che mancava, Trovato, Trovato, disse Cipriano Algor, non so quale nome avessi prima, ma d’ora in poi il tuo nome è Trovato. Solo in quel momento notò che l’animale non aveva un collare e che il pelo non era solo grigio, era sporco di fango e di erba, soprattutto le zampe e il ventre, segnale più che probabile di aspre traversate di coltivazioni e terreni incolti, non certo di chi fosse giunto viaggiando comodamente lungo la strada. Marta si era avvicinata, portava un piatto con un po’ di cibo per il cane, niente di eccessivamente sostanzioso, solo qualcosa per confermare l’incontro e celebrare il battesimo, Daglielo tu, disse il padre, ma lei rispose, Fatelo voi, non mancheranno le volte che glielo dia io. Cipriano Algor posò il piatto per terra, poi si alzò con difficoltà, Ah, le mie ginocchia, cosa non darei per tornare ad avere almeno quelle dell’anno scorso, Fanno tanta differenza, domandò la figlia, A questo punto della vita anche un giorno fa differenza, ciò che conta è che a volte sembra sia per il meglio. Il cane Trovato, adesso che ormai ha un nome non dovremmo usarne altri con lui, sia quello di cane, che prima si è intrufolato per forza d’abitudine, sia quelli di animale o di bestia, che servono per tutto quanto non faccia parte dei regni minerale e vegetale, ma ogni tanto non sarà possibile sottrarsi a queste varianti, solo per evitare noiose ripetizioni, che è l’unica ragione per cui al posto di Cipriano Algor abbiamo scritto vasaio, ma anche uomo, vecchio e padre di Marta. Orbene, come dicevamo, il cane Trovato, dopo aver fatto scomparire il cibo dal piatto con due rapide leccate, chiara dimostrazione che ancora non considerava abbondantemente soddisfatta la fame di ieri, alzò la testa come se aspettasse una nuova porzione di pietanza, almeno fu così che Marta interpretò il gesto, e perciò gli disse, Abbi pazienza, il pranzo verrà dopo, accontentati di quello che hai già messo nello stomaco, ma è stato un giudizio affrettato, come tante volte succede nei cervelli umani, malgrado l’appetito rimasto, che non avrebbe mai negato, non era il cibo ciò che preoccupava Trovato in quel momento, lui voleva soltanto che gli dessero un segnale di cosa avrebbe dovuto fare dopo. Aveva sete, che ovviamente poteva soddisfare in una qualsiasi delle numerose pozze d’acqua che la pioggia aveva lasciato intorno a casa, ma lo tratteneva qualcosa che, se stessimo parlando di sentimenti umani, non esiteremmo a definire scrupolo o delicatezza di modi. Se gli avevano messo il cibo in un piatto, se non avevano voluto che grossolanamente lo prendesse dal fango del terreno, allora doveva essere perché anche l’acqua bisognava berla da un recipiente adatto. Deve avere sete, disse Marta, i cani hanno bisogno di molta acqua, Ci sono lì quelle pozze, rispose il padre, non beve perché non ne ha voglia, Se ce lo terremo, non dovrà mica continuare a bere l’acqua dalle pozzanghere come se non avesse un posto né una casa, i doveri sono doveri. Mentre Cipriano Algor si dedicava a pronunciare frasi isolate, un po’ senza senso, il cui unico obiettivo era quello di abituare a poco a poco il cane al suono della sua voce, ma in cui di proposito, con l’insistenza di un ritornello, la parola Trovato risuonava più volte, Marta portò una grossa scodella di terracotta piena di acqua limpida, che andò a mettere accanto al casotto. Sfidando scetticismi, altamente giustificati dopo migliaia di racconti letti e ascoltati sulle vite esemplari dei cani e dei loro miracoli, dovremo tuttavia dire che Trovato stupì ancora una volta i nuovi padroni rimanendo fermo dov’era, faccia a faccia con Cipriano Algor, in attesa, a quanto apparentemente sembrava, che questi concludesse ciò che aveva da dirgli. Solo quando il vasaio tacque e gli fece un gesto come a congedarlo, il cane si voltò e andò a bere. Non ho mai visto un cane comportarsi in questa maniera, osservò Marta, Dopo tutto, rispose il padre, il peggio sarebbe se qualcuno dei dintorni mi dicesse che il cane gli appartiene, Non credo possa capitare, giurerei proprio che Trovato non è di questi posti, i cani da gregge e i cani da guardia non fanno ciò che ha fatto questo, Dopo mangiato andrò a fare un giro e a domandare, Approfittatene per portare la brocca alla vicina Isaura, disse Marta senza neppure prendersi la briga di mascherare il sorriso, Ci avevo già pensato, lo diceva anche mio nonno, non rimandare a domani quello che puoi fare oggi, rispose Cipriano Algor mentre guardava altrove. Trovato aveva bevuto la sua acqua e, giacché nessuno dei due sembrava intenzionato a prestargli attenzione, decise di sdraiarsi davanti all’entrata del casotto, dove il terreno era meno bagnato.


Dopo colazione, Cipriano Algor andò a scegliere una brocca nel deposito dei prodotti finiti, la sistemò accuratamente nel furgone, bloccandola, per non farla rotolare, fra le casse di piatti, poi montò, si sedette e accese il motore. Trovato alzò la testa, palesemente non ignorava che a un simile rumore comincia sempre un allontanamento, seguito immediatamente da una scomparsa, ma le sue precedenti esperienze di vita dovevano avergli rammentato che c’è un modo che può impedire, almeno alcune volte, l’accadere di tali calamità. Si sollevò tutto sulle lunghe zampe, scuotendo la coda con forza, come se agitasse uno scudiscio, e, per la prima volta da quando era venuto qui a chiedere asilo, Trovato abbaiò. Cipriano Algor diresse lentamente il furgone verso il gelso nero e si fermò a breve distanza dal casotto. Credeva di aver capito cosa voleva Trovato. Aprì e tenne aperto lo sportello dall’altro lato, e, prima che avesse il tempo di invitarlo alla passeggiata, il cane era già dentro. Non aveva pensato, Cipriano Algor, di portarlo con sé, la sua intenzione era solo quella di andare da un abitante all’altro domandando se conoscessero un cane così e così, con questo pelo e questo aspetto, con questa cravatta e queste doti morali, e intanto che descriveva le diverse caratteristiche avrebbe implorato tutti i santi del cielo e tutti i demoni della terra che, per favore, con le buone o con le cattive, costringessero l’interrogato a rispondere che in vita sua una bestia simile non gli era mai appartenuta o ne aveva avuto la minima notizia. Con Trovato visibile dentro il furgone si evitava la descrizione monotona e si risparmiavano le ripetizioni, sarebbe stato sufficiente domandare, Questo cane è suo, o tuo, a seconda del grado d’intimità con l’interlocutore, e ascoltare la risposta, No, Sì, nel primo caso passare senza ulteriori indugi al vicino seguente per non dare occasione a emendamenti, nel secondo caso osservare attentamente le reazioni di Trovato, che non doveva certo essere un cane da lasciarsi trascinare all’inganno da qualsivoglia menzognera rivendicazione di un falso padrone. Marta, che al rumore di partenza del furgone era comparsa, con le mani sporche di creta, alla porta della fornace, volle sapere se andava via anche il cane. Il padre le rispose, Sì, sì, e dopo un minuto lo spiazzo era talmente deserto e Marta era talmente sola come se per lui e per lei questa fosse stata la prima volta.


Prima di arrivare alla via dove abita Isaura Estudiosa, un cognome di cui, proprio come quelli di Gacho e Algor, si ignorano la ragion d’essere e la provenienza, il vasaio bussò alla porta di dodici vicini ed ebbe la soddisfazione di udire da tutti la stessa risposta, Mio non è, Non so di chi sia. Alla moglie di un commerciante piacque a tal punto Trovato che fece una generosa offerta di acquisto, preliminarmente rifiutata da Cipriano Algor, e in tre case in cui nessuno rispose alla chiamata si udì l’abbaiare violento dei sorveglianti canini, il che permise al vasaio il ragionamento sinuoso che Trovato non apparteneva a quelli lì, come se in qualche legge universale degli animali domestici fosse scritto che dove ci sia già un cane non possa essercene un altro. Finalmente Cipriano Algor fermò il furgone davanti alla porta della donna in lutto, chiamò, e quando lei comparve, indossando la sua camicia e la sua gonna nera, le rivolse un buongiorno molto più sonoro di quanto avrebbe richiesto la naturalezza, le colpe del repentino sconcerto vocale le aveva Marta, essendo l’autrice della spropositata idea di un matrimonio fra vedovi attempati, designazione meritevole di severa censura, anticipiamolo subito, per lo meno per quanto riguarda Isaura Estudiosa, che non deve avere più di quarantacinque anni, e se per il conto esatto sarà necessario aggiungerne qualcuno in più, per la verità non li si nota. Ah, buongiorno, signor Cipriano, disse lei, Sono qui per quanto le ho promesso, portarle la sua brocca, Grazie mille, ma davvero non avrebbe dovuto disturbarsi, dopo quello che ci siamo detti al cimitero ho pensato che non c’è grande differenza fra le cose e le persone, hanno la loro vita, durano un certo tempo, e ben presto finiscono, come tutto al mondo, Comunque sia, se una brocca può sostituirne un’altra senza doverci pensare più del tempo necessario per buttare i cocci e riempirla d’acqua di nuovo, lo stesso non accade con le persone, è come se alla nascita di ciascuna si spaccasse la forma da cui è uscita, ecco perché le persone non si ripetono, Le persone non vengono fuori dalle forme, ma penso di capire cosa voglia dire, È stato un discorso da vasaio, non vi presti importanza, ecco la sua brocca, e speriamo che il manico non si stacchi troppo presto. La donna tese entrambe le mani per prendere la brocca, se la strinse al petto e ringraziò di nuovo, Grazie mille, signor Cipriano, e solo in quell’istante vide il cane dentro il furgone, Quel cane, disse. Cipriano Algor sentì un colpo, non gli era neanche passata per la testa la possibilità che proprio Isaura Estudiosa fosse la padrona di Trovato, e adesso lei aveva detto Quel cane come se lo avesse riconosciuto, con una espressione di sorpresa che sarebbe potuta essere quella di chi finalmente aveva ritrovato ciò che cercava, immaginatevi con quanto poco desiderio di azzeccarci avrà domandato Cipriano Algor, È suo, immaginatevi anche il sollievo con cui udì la risposta, No, non è mio, ma ricordo di averlo visto gironzolare da queste parti due o tre giorni fa, l’ho anche chiamato, ma ha fatto finta di non sentirmi, è un bell’animale, Quando ieri sono arrivato a casa, tornando dal cimitero, l’ho trovato mezzo nascosto nel casotto che c’è sotto il gelso, quello che apparteneva all’altro cane che avevamo, Costante, stava facendo buio, gli brillavano solo gli occhi, Cercava un padrone che gli andasse bene, Non so se sarò io quel padrone, magari ce l’ha già, ma sono andato in giro a controllare, Dove, qui, domandò Isaura Estudiosa, e senza attendere risposta, aggiunse, Al posto suo non mi affannerei, questo cane non è di queste parti, viene da lontano, da un altro posto, da un altro mondo, Perché dice da un altro mondo, Non so, forse perché mi sembra così diverso dai cani di adesso, A stento ha avuto il tempo di vederlo, Quanto ho visto mi è bastato, e a tal punto che, se lei non lo vuole, mi offro io di tenerlo, Se fosse un altro cane forse non m’importerebbe di lasciarglielo, ma questo abbiamo ormai deciso di accoglierlo, se non si troverà il padrone, chiaro, Lo volete davvero, Gli abbiamo anche già dato un nome, Come si chiama, Trovato, Per un cane perduto è il miglior nome, Lo ha detto anche mia figlia, E allora, se vuole tenerlo, non cerchi più, Ho il dovere di restituirlo al padrone, anch’io vorrei che mi restituissero un cane se lo avessi perduto, Se lo farà, andrà contro la volontà dell’animale, si ricordi che ha voluto scegliere un’altra casa dove vivere, Da questo punto di vista, non dico che lei non abbia ragione, ma la legge ordina, il costume ordina, Non pensi né alla legge né al costume, signor Cipriano, si prenda quello che ormai è suo, Non sarà troppa fiducia, A volte bisogna abusarne un po’, Lei crede, Sì, lo credo, Mi ha fatto molto piacere chiacchierare con lei, Anche a me, signor Cipriano, Arrivederci, Arrivederci. Stringendo la brocca al petto, Isaura Estudiosa guardò dalla soglia il furgone che faceva il giro per riprendere la strada, guardò il cane e l’uomo che guidava, l’uomo fece un cenno di saluto con la mano sinistra, il cane stava probabilmente pensando alla sua casa e al gelso nero che gli faceva da cielo.


Così, molto prima di quanto avesse potuto calcolare, Cipriano Algor tornò alla fornace. Il consiglio della vicina Isaura Estudiosa, o Isaura e basta, per abbreviare, era sensato, ragionevole, flagrantemente appropriato alla situazione, e, se finisse per essere applicato al funzionamento generale del mondo, non ci sarebbe alcuna difficoltà nell’inquadrarlo nel piano di un ordine di cose a cui mancherebbe poco per essere considerato perfetto. Il lato sorprendente di tutto questo, però, è il fatto che lei lo avesse espresso con la massima naturalezza, senza troppe giravolte, come chi per dire che due più due fa quattro non ha bisogno di sprecare tempo a pensare, primo, che due più uno fa tre, e, poi, che tre più uno fa quattro, Isaura ha ragione, devo rispettare soprattutto il desiderio dell’animale e la volontà che lo ha trasformato in atto. Chiunque sia il padrone, o, prudente correzione, chiunque lo sia stato, non sarà più assistito dal diritto di venire a reclamare, Questo cane è mio, in quanto tutte le apparenze e le prove stanno a dimostrare che se Trovato fosse dotato dell’umano dono della parola, avrebbe solo una risposta da dargli, Ma io questo padrone non lo voglio. Quindi, benedetta sia mille volte la brocca spaccata, benedetta l’idea di omaggiare la donna in lutto con una brocca nuova, e, aggiungiamo come anticipazione di quanto avverrà in seguito, benedetto l’incontro avvenuto in quel pomeriggio umido e pioggerelloso, un pomeriggio carico d’acqua, un pomeriggio sconfortante per il materiale e lo spirituale, quando ben sappiamo che, salvo le eccezioni derivanti da una perdita recente, non è certo una condizione del tempo che predisponga i dolenti a recarsi al cimitero a piangere i propri defunti. Non c’è dubbio, il cane Trovato ha tutto a suo favore, potrà rimanere dove vuole per tutto il tempo che ne avrà voglia. E c’è anche un altro motivo che raddoppia il sollievo e la soddisfazione di Cipriano Algor, ed è il fatto di non dover più andare a bussare alla porta di casa dei genitori di Marçal, anch’essi abitanti del paese e con i quali non ha i migliori rapporti, che necessariamente peggiorerebbero se passasse davanti alla loro porta senza badarvi. Del resto, è convinto che Trovato non appartenga a loro, le simpatie dei Gacho in materie canine, fin da quando li conosce, sono sempre andate verso i molossi e altri cani da pastore. Ci è andata bene la mattinata, disse Cipriano Algor al cane.


Di lì a pochi minuti erano a casa. Posteggiato il furgone, Trovato guardò fisso il padrone, capì di essere dispensato momentaneamente dai suoi doveri di navigatore e si allontanò, non in direzione del casotto, ma con l’inconfondibile atteggiamento di chi avesse appena deciso che era giunto il momento di fare il sopralluogo dei posti. Devo mettergli una catena, si domandò inquieto il vasaio, e poi, osservando le manovre del cane che fiutava e marcava il territorio con l’urina, ora qui, ora lì, No, non credo sia necessario tenerlo legato, se volesse sarebbe già fuggito. Entrò in casa e udì la voce della figlia, che parlava al telefono, Aspetta, aspetta, il babbo è appena arrivato. Cipriano Algor afferrò il ricevitore e, senza preamboli, domandò, C’è qualche novità. All’altro capo della linea, dopo un istante di silenzio, Marçal Gacho si comportò come se ritenesse che non era questa la maniera più adatta di iniziare una conversazione fra due persone, suocero e genero, che avevano trascorso una settimana senza notizie l’uno dell’altro, perciò rivolse pacificamente il buongiorno, domandò com’è andata, papà, al che Cipriano Algor rispose con un altro buongiorno, ma secco, e, senza pausa o altro tipo di transizione, Sono rimasto ad aspettare, una settimana intera ad aspettare, vorrei proprio sapere come ti sentiresti tu se fossi stato al mio posto, Scusate, ma solo questa mattina sono riuscito a parlare con il capoufficio, spiegò Marçal rinunciando a far notare al suocero, sia pure in modo indiretto, l’immeritata durezza con cui lo stava trattando, E cosa ha detto, Che ancora non hanno deciso, ma che il vostro caso non è l’unico, merci che interessavano e non interessano più sono cose quasi quotidiane nel Centro, sono parole sue, cose quasi quotidiane, E tu, che idea ti sei fatto, Che idea mi sono fatto, Sì, il tono della voce, il modo di guardare, se ti è parso che voleva essere gentile, Dovete saperlo, per esperienza diretta, che danno sempre l’impressione di pensare ad altro, Sì, è vero, E se mi permettete di parlarvi con la massima franchezza, penso che non riprenderanno a comprare le vostre stoviglie, per loro queste cose sono semplici, o il prodotto interessa, o il prodotto non interessa, il resto è indifferente, per loro non ci sono mezzi termini, E anche per me, per noi, è semplice, anche per noi è indifferente, anche per noi non ci sono mezzi termini, domandò Cipriano Algor, Ho fatto quello che potevo, ma io non sono che un semplice guardiano, Non avresti potuto fare molto di più, disse il vasaio con una voce che si strozzò all’ultima parola. Marçal Gacho provò pena per il suocero quando si accorse del cambiamento di tono e tentò di alleggerire la cupa prognosi, In ogni modo, non ha chiuso completamente la porta, ha detto solo che stavano studiando la faccenda, fino ad allora dobbiamo mantenere la speranza, Non sono più in età di speranze, Marçal, io ho bisogno di certezze, e che siano immediate, che non aspettino un domani che potrebbe non essere più mio, Capisco, papà, la vita è un sali e scendi continuo, tutto cambia, ma non vi scoraggiate, voi avete noi, avete Marta e me, con o senza la fornace. Era facile comprendere dove Marçal volesse arrivare con questo discorso di solidarietà familiare, nella sua mente tutti i problemi, sia quelli momentanei, sia quelli che potessero sorgere in futuro, avrebbero avuto soluzione il giorno in cui tutti e tre si sarebbero trasferiti nel Centro. In un’altra occasione e con un altro stato d’animo, Cipriano Algor avrebbe risposto con asprezza, ma adesso, o perché lo aveva sfiorato la rassegnazione con la sua ala malinconica, o perché non si era definitivamente perduto il cane Trovato, o forse ancora, chissà, per via di una breve conversazione tra due persone obiettivamente separate da una brocca, il vasaio parlò con dolcezza, Giovedì, alla solita ora, ti verrò a prendere, se nel frattempo hai qualche notizia, telefona, e senza dare a Marçal il tempo di rispondere, concluse il dialogo, Ti passo tua moglie. Marta scambiò ancora qualche parola, disse Vedremo come andrà a finire, poi si congedò fino al giovedì e riattaccò. Cipriano Algor era già uscito, stava nella fornace, seduto a uno dei torni, a capo chino. Era lì che un arresto cardiaco fulminante aveva spezzato la vita di Justa Isasca. Marta andò a sedersi sullo sgabello dell’altro tornio e attese. Dopo un lungo minuto il padre la guardò, poi sviò lo sguardo. Marta disse, Non vi siete trattenuto molto a lungo in paese, Infatti, no, Avete domandato in tutte le case se conoscevano il cane, se qualcuno era il suo padrone, Ho domandato in alcune, poi ho pensato che non valesse la pena continuare, Perché, Questo è un interrogatorio, No, solo un tentativo di distrarvi, mi pesa vedervi triste, Non sono triste, Allora, scoraggiato, Non sono neanche scoraggiato, Benissimo, state come state, ma adesso raccontatemi perché avete pensato che non valesse la pena continuare a domandare, Ho pensato che se il cane aveva un padrone in paese e ne era fuggito, e, potendovi tornare, non era tornato, evidentemente desiderava essere libero per cercarne un altro, quindi io non avevo il diritto di forzare la sua volontà, Da questo punto di vista, avete ragione, È quello che ho detto io, con queste stesse parole, Lo avete detto a chi. Cipriano Algor non rispose. Poi, visto che la figlia si limitava a guardarlo tranquillamente, si decise, Alla vicina, Quale vicina, Quella della brocca, Ah, sì, siete andato a portarle la brocca, Se l’ho messa nel furgone era proprio per questo, Chiaro, Infatti, Allora, se ho ben capito, è stata lei a spiegarvi che non valeva la pena andare in cerca del padrone di Trovato, Sì, lei, Non c’è dubbio che sia una donna intelligente, Sembra, E si è tenuta la brocca, Lo trovi sbagliato, Non arrabbiatevi, babbo, stiamo solo chiacchierando, come volete che trovi sbagliata una cosa tanto semplice come regalare una brocca, Sì, ma abbiamo questioni molto più gravi, e tu lì a voler fingere che la vita ci va a gonfie vele, Proprio di queste questioni vorrei parlarvi, Allora non capisco perché ci sia stato bisogno di tante giravolte, Perché mi piace chiacchierare con voi come se non foste mio padre, mi piace far finta, come si dice, che siamo semplicemente due persone che si vogliono molto bene, padre e figlia che si amano perché lo sono, ma che comunque si vorrebbero bene di un amore da amici se non lo fossero, Mi farai piangere, bada che a questa età le lacrime cominciano a essere traditrici, Sapete che farei di tutto per vedervi felice, Ma tenti di convincermi a trasferirmi al Centro, sapendo che è la peggior cosa che potrebbe capitarmi, Credevo che la peggior cosa che potrebbe capitarvi sarebbe vedervi separato da vostra figlia, Questo non è leale, forse dovresti chiedermi scusa, E ve la chiedo, veramente non è stato leale, scusatemi. Marta si alzò e abbracciò il padre, Scusatemi, ripeté, Non ha importanza, rispose il vasaio, se fossimo meno infelici non parleremmo in questa maniera. Marta avvicinò uno sgabello accanto al padre, si sedette e, prendendogli la mano, cominciò a parlare, Mi è venuta un’idea mentre eravate in giro con il cane, Spiegati, Per adesso mettiamo da parte il problema del Centro, cioè, la vostra decisione di venire o non venire con noi, Va bene, Non è un problema da risolvere domani o il mese entrante, quando arriverà il momento deciderete voi, babbo, se venire o restare qui, la vita è vostra, Grazie di lasciarmi respirare, finalmente, Nient’affatto, Cos’altro abbiamo, Dopo che siete uscito sono venuta a lavorare qui, prima ero andata a dare un’occhiata al deposito e mi sono accorta che mancavano i vasi piccoli per i fiori, e mi accingevo quindi a farne qualcuno, ma all’improvviso, con la creta già sul tornio, ho capito fino a qual punto fosse assurdo continuare con questo lavoro alla cieca, Alla cieca, perché, Perché nessuno ci ha ordinato vasi di fiori, né piccoli né grandi, perché nessuno aspetta con impazienza che io li finisca per venire di corsa a comprarli, e quando dico vasi di fiori dico uno qualunque dei vari pezzi che fabbrichiamo, grandi o piccoli, utili o inutili, Capisco, ma dovremo comunque essere preparati, Preparati per cosa, Per quando gli ordini arriveranno, E cosa faremo nel frattempo se gli ordini non arriveranno, cosa faremo se il Centro smetterà di comprare, come vivremo, e di che cosa, ce ne resteremo forse ad aspettare che maturino i gelsi e Trovato riesca a cacciare qualche coniglio invalido, Tu e Marçal non avrete questo problema, Babbo, abbiamo concordato che non si sarebbe parlato del Centro, D’accordo, vai avanti, Orbene, supponendo che un miracolo porti il Centro a cambiare idea, cosa a cui non credo, né ci credete voi, babbo, a meno che non vogliate ingannarvi da solo, per quanto tempo dovremmo starcene qui a braccia conserte o a fabbricare stoviglie senza sapere a che pro o per chi, Nella situazione in cui ci troviamo, non vedo cos’altro si possa fare, Io ho un’opinione diversa, E qual è questa opinione diversa, che idea meravigliosa ti è venuta, Quella di fabbricare altre cose, Se il Centro smetterà di comprare alcune cose, è molto dubbio che voglia comprarne altre, Forse no, forse, forse, Che cosa mi stai dicendo, donna, Che dovremmo metterci a fabbricare statuine, Statuine, esclamò Cipriano Algor con tono di scandalizzata sorpresa, statuine, non ho mai udito un’idea così balorda, Sì, caro babbo, figurine, statuette, feticci, scimmiette, cianfrusaglie, sempre in piedi, chiamateli come volete, ma non dite subito che è una sciocchezza senza aspettare un risultato, Parli come se avessi la certezza che il Centro ti comprerà queste cianfrusaglie, Non ho la certezza di niente, tranne che non possiamo continuare a stare qui fermi, in attesa che il mondo ci caschi addosso, Su di me è già caduto, Tutto quello che cade addosso a voi, cade addosso a me, aiutatemi, e io aiuterò voi, Dopo tanto tempo passato a fabbricare stoviglie, avrò perduto la mano a modellare, Anch’io potrei dire lo stesso, ma se il nostro cane si è perduto per poter essere trovato, come ha intelligentemente spiegato Isaura Estudiosa, anche le nostre mani perdute, la vostra e la mia, potranno, chissà, essere ritrovate dalla creta, È un’avventura che finirà male, È andato a finir male anche quello che avventura non era. Cipriano Algor guardò la figlia in silenzio, poi prese un pezzo di creta e gli diede un primo tratto di figura umana, Da dove cominciamo, domandò, Da dove bisogna sempre cominciare, dal principio, rispose Marta. 

Autoritarie, paralizzanti, circolari, a volte ellittiche, le frasi a effetto, dette anche scherzosamente briciole d’oro, sono una piaga maligna, tra le peggiori che hanno infestato il mondo. Diciamo ai confusi, Conosci te stesso, come se conoscere se stessi non fosse la quinta e più difficile operazione delle aritmetiche umane, diciamo agli abulici, Volere è potere, come se le realtà bestiali del mondo non si divertissero a invertire tutti i giorni la posizione relativa dei verbi, diciamo agli indecisi, Comincia dal principio, come se quel principio fosse il capo sempre visibile di un filo male arrotolato che bastasse tirare e continuare a tirare per giungere all’altro capo, quello della fine, e poi, fra il primo e il secondo, avessimo fra le mani una linea retta e continua dove non c’era stato bisogno di sciogliere nodi né districare strozzature, cosa impossibile che accada nella vita dei gomitoli e, se ci è consentita un’altra frase a effetto, nei gomitoli della vita. Marta ha detto al padre, Cominciamo dal principio, e sembrava mancasse solo che si sedessero entrambi davanti al bancone a modellare statuine fra dita repentinamente agili e precise, con l’antica abilità recuperata dopo una lunga letargia. Puro inganno di innocenti e sprovveduti, il principio non è mai stato il capo nitido e preciso di una linea, il principio è un processo lentissimo, tardivo, che richiede tempo e pazienza perché si capisca la direzione in cui vuole andare, che tasta il cammino come un cieco, il principio è solo il principio, ciò che ha fatto vale tanto quanto niente. Ecco perché sarebbe stato molto meno categorico ciò che Marta rammentò subito dopo, Abbiamo solo tre giorni per preparare la presentazione del progetto, è così che si dice in linguaggio d’affari ed esecutivi, credo, Spiegati, non ho testa per seguirti, disse il padre, Oggi è lunedì, andrete a prendere Marçal giovedì pomeriggio, quindi quel giorno dovrete portare al capo dell’ufficio acquisti la nostra proposta di fabbricazione di statuine, con disegni, modelli, prezzi, insomma, tutto quanto possa convincerli a comprare e li metta in grado di prendere una decisione che non vada alle calende greche. Senza notare che stava ripetendo le parole già dette, Cipriano Algor domandò, Da dove cominciamo, ma la risposta di Marta non fu la stessa, Dovremo concentrarci su una mezza dozzina di tipi, o forse meno, per non complicarci troppo il lavoro, calcolare quante statuine potremo fare al giorno, e questo dipende da come le concepiamo, se modellare la creta come chi scolpisce direttamente nell’impasto o se fare delle figure uguali di uomo e donna e poi vestirle secondo le professioni, mi riferisco, è chiaro, alle statuine in piedi, secondo me devono essere tutte così, sono più facili da lavorare, Che cosa intendi per vestire, Vestire significa vestire, incollare al corpo della figura nuda gli abiti e gli accessori che la caratterizzano e conferiscono individualità, credo che due persone che lavorino procedendo così potranno sbrigarsela più rapidamente, poi c’è solo da fare attenzione con la verniciatura, non possono esserci sbavature, Mi rendo conto che ci hai pensato a lungo, disse Cipriano Algor, Neanche per sogno, ci ho pensato alla svelta, E bene, Non fatemi arrossire, E molto, anche se dici di no, Guardate come sono già arrossita, Fortunatamente per me, sei capace di pensare in fretta, di pensare molto e di pensare bene, tutto allo stesso tempo, Occhi di padre, amore di padre, errori di padre, E quali figure credi che dovremmo fare, Non troppo antiche, molte professioni sono scomparse, oggi nessuno sa più a cosa servissero quelle persone, che utilità avessero, e credo che non debbano essere neanche figure attuali, per questo ci sono i pupazzetti di plastica, con i loro eroi, i loro rambo, i loro astronauti, i loro mutanti, i loro mostri, i loro superpoliziotti e superbanditi, e le loro armi, soprattutto le loro armi, Sto pensando, il fatto è che, di tanto in tanto, anch’io riesco a spremere qualche idea, anche se non altrettanto buona delle tue, Lasciate stare le false modestie, non vi donano, Stavo pensando di dare un’occhiata ai libri illustrati che abbiamo, a quella vecchia enciclopedia, per esempio, comprata da tuo nonno, se ci troviamo dei modelli che servano direttamente per le statuine avremo risolto nello stesso tempo anche il problema dei disegni che dovrò portare, il capoufficio non si accorgerà se abbiamo copiato, e quand’anche se ne accorgesse non vi darebbe importanza, Ma certo, ecco un’idea che meriterebbe un bel dieci nelle votazioni scolastiche di un tempo, Mi ritengo soddisfatto con un sei, che dà meno nell’occhio, Mettiamoci al lavoro.


Come sarà facile immaginare, la biblioteca della famiglia Algor non è estesa in quantità né eccelsa in qualità. Da gente del popolo, e in un posto come questo, lontano dalla civiltà, non ci sarebbe da aspettarsi eccessi di sapienza, ma, comunque, si possono contare in due o tre centinaia i libri sistemati ordinatamente negli scaffali, alcuni vecchi, altri di mezza età, e questi sono la maggior parte, tutti i restanti più o meno recenti, anche se solo alcuni recentissimi. Non c’è in paese un locale che possa fregiarsi del nobile e vetusto titolo di libreria, esiste solo un piccolo negozio di cartoleria che s’incarica di ordinare agli editori della città i libri di studio necessari, e molto raramente qualche opera letteraria di cui si sia parlato con insistenza alla radio o in televisione e il cui contenuto, stile e intenzioni corrispondano soddisfacentemente agli interessi medi degli abitanti. Marçal Gacho non è tipo da letture frequenti e raffinate, in ogni caso, quando si presenta a casa con un libro in regalo per Marta, bisogna riconoscere che ha saputo cogliere la differenza fra ciò che è buono e ciò che non è altro che mediocre, ancorché sia sicuro che su questi scivolosi concetti di buono e di mediocre i motivi su cui discutere e divergere non ci mancheranno mai. L’enciclopedia che padre e figlia hanno appena aperto sul tavolo della cucina era considerata la migliore all’epoca della sua pubblicazione, mentre oggi potrà servire solo per ricercare in campi del sapere fuori d’uso o che, all’epoca, stavano ancora articolando le loro prime ed esitanti sillabe. Messe in fila, una dopo l’altra, le enciclopedie di oggi, di ieri e dell’altroieri rappresentano immagini successive di mondi paralizzati, gesti interrotti nel loro movimento, parole alla ricerca del proprio ultimo o penultimo significato. Le enciclopedie sono come immutabili cinerama, prodigiosi proiettori i cui carrelli si sono bloccati ed esibiscono con una specie di maniaca fissità un paesaggio che, così condannato a essere solo, per sempre, ciò che era stato, diventerà al tempo stesso più vecchio, più caduco e meno necessario. L’enciclopedia comprata dal padre di Cipriano Algor è altrettanto magnifica e inutile di un verso di cui non riusciamo a ricordarci. Cerchiamo, tuttavia, di non essere superbi e ingrati, rammentiamo la sensata raccomandazione dei nostri antenati, quando ci consigliavano di conservare quanto non era necessario perché, prima o poi, vi avremmo ritrovato quello di cui, allora senza saperlo, avremmo sentito la mancanza. Chini sulle vecchie pagine ingiallite, respirando l’odore umido racchiuso per anni, senza il tocco dell’aria né il fiato della luce, nel morbido spessore della carta, oggi padre e figlia mettono a frutto la lezione, cercano ciò di cui hanno bisogno in quello che pensavano non servisse più. Hanno già trovato strada facendo un accademico con il bicorno piumato, spadino e camicia con le ruches, hanno trovato un pagliaccio e un equilibrista, hanno trovato uno scheletro con la falce e sono passati oltre, hanno trovato un’amazzone a cavallo e un ammiraglio senza nave, hanno trovato un torero e un uomo in casacca, hanno trovato un pugile e il suo avversario, hanno trovato un carabiniere e un cardinale, hanno trovato un cacciatore e il suo cane, hanno trovato un marinaio in licenza e un magistrato, un buffone e un romano in toga, hanno trovato un derviscio e un alabardiere, hanno trovato un finanziere e uno scriba seduto, hanno trovato un postino e un fachiro, hanno trovato anche un gladiatore e un oplita, un’infermiera e un giocoliere, un lord e un menestrello, hanno trovato uno schermidore e un apicoltore, un minatore e un pescatore, un pompiere e un flautista, hanno trovato due fantocci, hanno trovato un barcaiolo, hanno trovato uno zappatore, hanno trovato un santo e una santa, hanno trovato un demonio, hanno trovato la santissima trinità, hanno trovato soldati e militari di tutti i gradi, hanno trovato un sommozzatore e un pattinatore, hanno visto una sentinella e un taglialegna, hanno visto un calzolaio con gli occhiali, hanno trovato uno che suonava il tamburo e un altro che suonava la tromba, hanno trovato una vecchia con cappa e fazzoletto, hanno trovato un vecchio con la pipa, hanno trovato una venere e un apollo, hanno trovato un cavaliere in tuba, hanno trovato un vescovo con la sua mitria, hanno trovato una cariatide e un atlante, hanno trovato un lanciere a cavallo e un altro a piedi, hanno trovato un arabo in turbante, hanno trovato un mandarino cinese, hanno trovato un aviatore, hanno trovato un condottiero e un panettiere, hanno trovato un moschettiere, hanno trovato una cameriera in grembiule e un eschimese, hanno trovato un assiro con la barba, hanno trovato uno scambista delle ferrovie, hanno trovato un giardiniere, hanno trovato un uomo nudo con i muscoli in mostra e la mappa dei sistemi nervoso e circolatorio, hanno trovato anche una donna nuda, ma si copriva il pube con la mano destra e i seni con la sinistra. Ne hanno trovati tanti altri, ma non erano adatti ai fini che avevano in vista, o perché l’elaborazione delle figure sarebbe stata troppo complicata nella creta, o perché uno sconsiderato utilizzo delle celebrità antiche e moderne con i cui ritratti, veritieri, plausibili o immaginari, era illustrata l’enciclopedia avrebbe potuto essere interpretato malevolmente come una mancanza di rispetto, e addirittura dare adito, nel caso di famosi viventi, o di morti famosi con eredi interessati e vigili, a rovinosi processi giudiziari per offese, danni morali e abuso d’immagine. Chi scegliamo fra tutta questa gente, domandò Cipriano Algor, ricordati che a più di tre o quattro non potremo dare spazio, senza contare che, da ora fino al momento in cui il Centro deciderà se compra o non compra, dovremo esercitarci molto se vogliamo presentarci con un lavoro ben fatto, In ogni caso, babbo, credo che la cosa migliore sarebbe se ne proponessimo sei, disse Marta, così, o sono d’accordo e noi divideremo la produzione in due fasi, bisognerà solo combinare le scadenze per la consegna, oppure, e questa sarà la cosa più probabile all’inizio, saranno loro a scegliere due o tre statuine per sondare la curiosità e valutare la possibile risposta dei clienti, Potrebbero anche fermarsi lì, È vero, ma credo che se porteremo sei disegni avremo più possibilità di convincerli, il numero conta, il numero influisce, è una questione psicologica, La psicologia non è mai stato il mio forte, Neanche il mio, ma persino l’ignoranza è capace di avere intuizioni profetiche, Non trasmettere queste intuizioni profetiche al futuro di tuo padre, che ha sempre preferito conoscere ogni giorno ciò che ogni giorno, nel bene e nel male, ha deciso di portargli, Una cosa è quello che porta il giorno, e cosa ben diversa è quello che noi, da soli, portiamo al giorno, La vigilia, Non capisco cosa volete dire, È la vigilia che noi portiamo a ogni giorno che viviamo, la vita è un caricare e trasportare vigilie come chi trasporta carichi di pietre, quando non ce la facciamo più con il carico il trasporto è finito, l’ultimo giorno è l’unico che non si può chiamare vigilia, Volete rattristarmi, No, figlia mia, ma forse la colpevole sei tu, Colpevole di cosa, Con te finisco sempre per parlare di cose serie, Allora parliamo di qualcosa di molto più serio, scegliamo le nostre statuine. Cipriano Algor non è tipo da risate, e persino i sorrisi franchi sono rari sulla sua bocca, al massimo gli si notano fugacemente negli occhi come una sorta di bagliore che improvvisamente avesse cambiato posto, alcune volte gli si sono appena intravisti in un certo aggrottamento delle labbra, come se dovessero sorridere per impedirsi di sorridere. Cipriano Algor non è tipo da risate, ma si è appena visto che nella giornata odierna c’era in serbo un sorriso che non era ancora riuscito a spuntare. Allora procediamo, ha detto, io ne scelgo una, tu ne scegli un’altra, fino a quando ne avremo sei, ma attenzione, sempre tenendo conto della facilità del lavoro e del gusto noto o presunto delle persone, D’accordo, cominciate voi, Il buffone, disse il padre, Il pagliaccio, disse la figlia, L’infermiera, disse il padre, L’eschimese, disse la figlia, Il mandarino, disse il padre, L’uomo nudo, disse la figlia, L’uomo nudo, no, non può essere, dovrai sceglierne un altro, l’uomo nudo al Centro non lo vogliono, Perché, Proprio per questo, perché è nudo, Allora scegliamo la donna nuda, Peggio ancora, Ma è coperta, Coprirsi in questa maniera è più che mostrarsi tutta, Sono sorpresa delle vostre conoscenze in queste materie, Ho vissuto, guardato, letto, sentito, Cosa c’entra leggere, Leggendo, si viene a sapere quasi tutto, Anch’io leggo, Qualcosa, dunque, dovrai pur saperla, Ora non ne sono più tanto sicura, Allora dovrai leggere in altra maniera, Come, Non serve per tutti la stessa, ciascuno inventa la propria, quella che gli sia più consona, c’è chi passa tutta la vita a leggere senza mai riuscire ad andare al di là della lettura, restano appiccicati alla pagina, non percepiscono che le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lì solo per farci arrivare all’altra sponda, quella che conta è l’altra sponda, A meno che, A meno che, cosa, A meno che quei fiumi non abbiano due sole sponde, ma tante, che ogni persona che legge sia, essa stessa, la propria sponda, e che sia sua, e soltanto sua, la sponda a cui dovrà arrivare, Buona osservazione, disse Cipriano Algor, così è dimostrato ancora una volta che ai vecchi non conviene discutere con le generazioni giovani, finiscono sempre col perdere, be’, bisogna anche riconoscere che qualcosa la imparano, Tante grazie per la parte che mi riguarda, Torniamo alla sesta statuina, L’uomo nudo non può essere, No, E neanche la donna nuda, No, Allora scegliamo il fachiro, I fachiri, in genere, sono come gli scribi e i vasai, stanno seduti, un fachiro in piedi è un uomo uguale a uno qualsiasi, e seduto risulterebbe più piccolo degli altri, In tal caso, il moschettiere, Il moschettiere non andrebbe male, ma dovremmo risolvere il problema della spada e delle piume sul cappello, con le piume potremmo riuscire a cavarcela, ma quanto alla spada bisognerebbe attaccarla alla gamba, e una spada attaccata alla gamba sembrerebbe piuttosto una stecca, Allora l’assiro con la barba, Suggerimento accolto, faremo l’assiro con la barba, è facile, è compatto, Avevo anche pensato al cacciatore con il suo cane, ma il cane ci creerebbe complicazioni anche maggiori della spada del moschettiere, E pure il fucile, confermò Cipriano Algor, ma, a proposito di cane, cosa starà facendo Trovato, ce ne siamo completamente dimenticati, Dormirà. Il vasaio si alzò, scostò la tenda della finestra, Nel casotto non lo vedo, disse, Sarà in giro, a compiere il suo dovere di guardiano della casa, a sorvegliare i dintorni, A meno che non sia scappato, Tutto può capitare nella vita, ma non credo. Inquieto, timoroso, Cipriano Algor aprì bruscamente la porta e per poco non inciampò nel cane. Trovato era lì disteso sullo stuoino, mezzo di traverso sulla soglia, con il muso rivolto verso l’entrata. Si alzò quando vide spuntare il padrone e attese. È qui, annunciò il vasaio, Lo vedo, rispose Marta dall’interno. Cipriano Algor fece per chiudere la porta, Mi sta guardando, disse, Non sarà l’unica volta, Cosa faccio, O chiudete la porta e lo lasciate fuori, o gli fate cenno di entrare e chiudete la porta, Non scherzare, Non sto scherzando, dovrete decidere oggi se volete o non volete ammettere Trovato dentro casa, sapete bene che, se entra, entra per sempre, Anche Costante entrava quando ne aveva voglia, Sì, ma in genere preferiva l’indipendenza del casotto, mentre questo, se non mi sbaglio, ha bisogno di compagnia quanto di pane per i denti, Questa mi sembra una buona ragione, disse il vasaio. Spalancò la porta e fece un gesto, Entra. Senza staccare gli occhi dal padrone, Trovato fece un timido passo, poi, come per mostrare che non era sicuro di aver capito l’ordine, si trattenne. Entra, insistette il vasaio. Il cane avanzò lentamente e si fermò in mezzo alla cucina. Benvenuto a casa, disse Marta, ma ti avverto che è meglio se cominci subito a conoscere il regolamento domestico, i bisogni canini, tanto i solidi quanto i liquidi, si soddisfano là fuori, e anche il mangiare, durante il giorno puoi entrare e uscire ogni volta che ne hai voglia, ma la sera devi andare nel casotto, a sorvegliare la casa, e per questo non credere che io sia meno disposta del tuo padrone a volerti bene, prova ne sia che sono stata io a dirgli che sei un cane bisognoso di compagnia. Per tutto il tempo della prelezione, Trovato non sviò mai lo sguardo. Non poteva capire cosa Marta volesse da lui, ma il suo piccolo cervello di cane comprendeva che per sapere bisogna guardare e ascoltare. Attese ancora qualche istante dopo che Marta ebbe finito di parlare, poi andò ad aggomitolarsi in un canto della cucina, ma non arrivò neppure a scaldare il suo posticino, appena Cipriano Algor si sedette il cane cambiò posto per andare a stendersi accanto alla sua sedia. E perché non restassero dubbi nell’animo dei padroni sul chiaro significato che aveva dei suoi doveri e delle sue responsabilità, non era trascorso neanche un quarto d’ora e già si alzava per andare a sdraiarsi accanto a Marta. Un cane sa benissimo quando qualcuno ha bisogno della sua compagnia.


Furono tre giorni di intensa attività, di nervosa eccitazione, di un continuo fare e disfare sulla carta e con la creta. Né l’uno né l’altra voleva ammettere che il risultato dell’idea e del lavoro che stavano facendo per concretizzarla sarebbe potuto essere un secco rifiuto, senz’altre spiegazioni se non che dicessero loro, Non è più tempo per queste statuine. Naufraghi, remavano verso un’isola senza sapere se si trattasse di un’isola reale o del suo fantasma. Fra i due, la più abile nel disegno era Marta, perciò fu lei che si assunse il compito di trasporre sulla carta i sei tipi scelti, ingrandendoli, con il classico procedimento della quadrettatura, all’esatta dimensione che avrebbero dovuto avere le statuine dopo la cottura, un buon palmo, non di lei, che ha la mano piccola, ma del padre. Seguì poi l’operazione di dare il colore ai disegni, complicata non per eccessive preoccupazioni di raffinatezza d’esecuzione, ma perché bisognava scegliere e combinare colori che non si sapeva se corrispondessero al colore naturale delle figure, visto che l’enciclopedia, illustrata secondo le tecnologie grafiche del tempo, conteneva solo stampe in bianco e nero, minuziose nel particolare, ma senz’altri effetti cromatici al di fuori delle variazioni di un apparente grigio dovute alla stampa dei tratti neri sul fondo invariabile della carta. Fra tutti, la più facile da dipingere è, ovviamente, l’infermiera. Cuffia bianca, blusa bianca, gonna bianca, scarpe bianche, tutto bianco bianco bianco, tutto di un impeccabile candore, come se si trattasse di un angelo caritatevole sceso sulla terra con l’incombenza di alleviare le sofferenze e attenuare i dolori fino a quando, prima o poi, non sarà chiamato in tutta fretta un altro angelo vestito tale e quale per attenuare e alleviare a lui i suoi dolori e le sue sofferenze. Neanche l’eschimese presenta grandi difficoltà, le pelli che lo rivestono possono essere dipinte di un colore a metà fra il beige e lo scuro, inframmezzato da macchiette biancastre, a imitazione di una pelle d’orso rovesciata, l’importante è che l’eschimese abbia la tipica faccia da eschimese, che al mondo c’è venuto apposta per esserlo. Quanto al pagliaccio, i problemi saranno molto più seri, per il semplice motivo che è povero. Se invece del povero straccione che è, fosse un pagliaccio ricco, la questione sarebbe risolta con un qualunque colore vivace, brillante, picchiettato di lustrini distribuiti qua e là sul berretto a cono, sulla camicia e sui pantaloni. Ma il pagliaccio è povero, povero di povertà, indossa un abbigliamento senza gusto né criterio, eterogeneo, un capo così, un capo cosà, un panciotto che gli arriva alle ginocchia, un paio di calzoni col cavallo a metà gamba, un colletto che basterebbe abbondantemente per tre colli, un laccio che sembra una banderuola, una camicia delirante, un paio di scarpe tipo feluche. Il tutto potrà essere ampiamente variegato, poiché, trattandosi di un pagliaccio povero, nessuno andrà a perdere il proprio tempo a controllare se i colori di questo manufatto di terracotta abbiano la decenza di rispettare i colori con cui la realtà del povero pagliaccio si presenta, anche quando non eserciti il mestiere. Il male è che, a ben vedere le cose, questo tuttofare non sarà più facile da modellare rispetto al cacciatore o al moschettiere che tanti dubbi avevano sollevato. Già passare da qui al buffone sarà come passare dal simile all’uguale, dal somigliante all’identico, dal similare all’analogo. Diversamente applicati, i colori di uno possono servire per l’altro, e due o tre alterazioni vestiarie trasformeranno rapidamente il buffone in pagliaccio e il pagliaccio in buffone. A ben vedere, sono figure che tanto nell’abbigliamento quanto nella funzione quasi si ripetono l’un l’altra, l’unica differenza che si osserva fra di loro, da un punto di vista sociale, è che il pagliaccio di norma non va al palazzo del re. Anche il mandarino con la sua veste e l’assiro con la sua tunica non richiederanno attenzioni particolari, con due rapidi tocchi agli occhi la faccia dell’eschimese servirà per il cinese e le opulente e ondulate barbe dell’assiro renderanno più facile il lavoro sulla parte inferiore del volto. Marta ha fatto tre serie di disegni, la prima assolutamente fedele agli originali, la seconda con gli accessori abbozzati, la terza priva dei particolari superflui. In questo modo si faciliterà il rispettivo esame a chi nel Centro dovrebbe avere l’ultima parola sul destino della proposta, e, in caso di sua approvazione, forse sarebbe ridotta, per lo meno così ci si aspetterebbe, la possibilità di futuri reclami per differenze fra quanto mostrato dal disegno e quanto realizzato nella terracotta. Fino a quando Marta non passò alla terza serie, Cipriano Algor si era limitato a seguire l’andamento delle operazioni, impaziente di non poter aiutare, e ancor di più perché era consapevole che qualsiasi intromissione da parte sua sarebbe servita solo a ostacolare e ritardare il lavoro. Quando Marta, però, si mise davanti il foglio di carta su cui avrebbe iniziato l’ultima serie di illustrazioni, radunò rapidamente le copie iniziali e uscì per andare in fornace. La figlia fece ancora in tempo a dirgli, Non irritatevi se non verrà bene al primo colpo. Per ore e ore, durante il resto di quella giornata e parte del giorno seguente, fino all’ora in cui sarebbe dovuto andare a prendere Marçal al Centro, il vasaio fece, disfece e rifece statuine di infermiere e di mandarini, di buffoni e di assiri, di eschimesi e di pagliacci, quasi irriconoscibili ai primi tentativi, ma che acquistavano poi forma e senso a mano a mano che le dita cominciarono a interpretare per conto proprio e in accordo con le proprie leggi le istruzioni che arrivavano loro dalla testa. In verità, sono pochi coloro che sanno dell’esistenza di un piccolo cervello in ciascuna delle dita della mano, in qualche punto tra falange, falangina e falangetta. Quell’altro organo che chiamiamo cervello, quello con cui veniamo al mondo, quello che trasportiamo nel cranio e che trasporta noi affinché noi trasportiamo lui, non è mai riuscito a produrre altro che intenzioni vaghe, generiche, diffuse, e soprattutto poco variate, riguardo a ciò che le mani e le dita dovranno fare. Se, per esempio, al cervello della testa è venuta l’idea di una pittura, o di una musica, o una scultura, o un brano letterario, o una statuina di terracotta, lui non fa altro che manifestare il desiderio e rimanere poi in attesa, a vedere cosa succede. Solo perché ha trasmesso un ordine alle mani e alle dita, crede, o finge di credere, che questo era tutto ciò di cui c’era bisogno perché il lavoro, dopo un certo numero di operazioni eseguite dalle estremità delle braccia, si presentasse fatto. Non ha mai avuto la curiosità di domandarsi per quale ragione il risultato finale di codesta manipolazione, sempre complessa persino nelle sue espressioni più semplici, assomigli tanto poco a quello che aveva immaginato prima di dare istruzioni alle mani. Si noti che, quando nasciamo, le dita non hanno ancora un cervello, che ci si va formando a poco a poco con il passare del tempo e l’aiuto di ciò che vedono gli occhi. L’aiuto degli occhi è importante, tanto quanto l’aiuto di ciò che da essi viene visto. Ecco perché quanto di meglio le dita hanno sempre saputo fare è stato proprio rivelare l’occulto. Quello che nel cervello potrebbe essere percepito come scienza infusa, magica o soprannaturale, qualsiasi cosa significhino soprannaturale, magico e infuso, sono state le dita e i loro piccoli cervelli a insegnarglielo. Perché il cervello della testa sapesse cos’era la pietra, prima c’è stato bisogno che le dita la toccassero, ne sentissero l’asperità, il peso e la densità, c’è stato bisogno che vi si ferissero. Solo molto tempo dopo il cervello ha capito che da quel pezzo di roccia si sarebbe potuta fare una cosa che avrebbe chiamato coltello e una cosa che avrebbe chiamato idolo. Il cervello della testa è sempre stato in ritardo per tutta la vita rispetto alle mani, e anche ai nostri giorni, quando ci sembra che le abbia oltrepassate, sono ancora le dita che devono spiegargli le investigazioni del tatto, il fremito dell’epidermide quando sfiora la creta, l’acuta lacerazione dello scalpello, la morsa dell’acido sulla piastra, la vibrazione sottile di un foglio di carta disteso, l’orografia delle tessiture, la trama delle fibre, l’abbecedario in rilievo del mondo. E i colori. Per dovere di verità bisogna dire che, di colori, il cervello se ne intende assai meno di quanto creda. Certo è che riesce a vedere più o meno chiaramente ciò che gli occhi gli mostrano, ma per lo più soffre di quelli che potremmo definire problemi di orientamento ogni volta che arriva il momento di convertire in conoscenza quanto ha visto. Grazie all’inconsapevole sicurezza di cui la durata della vita ha finito per dotarlo, pronuncia senza esitare i nomi dei colori che chiama elementari e complementari, ma immediatamente si perde, perplesso, dubbioso, quando tenta di formare delle parole che possano servire da etichette o distici esplicativi di qualcosa che tocca l’ineffabile, di qualcosa che sfiora l’indicibile, quel colore non ancora del tutto nato che, con l’assenso, la complicità e non di rado la sorpresa degli stessi occhi, le mani e le dita vanno creando e che probabilmente non arriverà mai a ricevere il suo giusto nome. O forse già lo possiede, ma soltanto le mani lo conoscono, perché hanno composto la tinta come se stessero scomponendo le parti costitutive di una nota musicale, perché si sono sporcate nel suo colore e hanno serbato la macchia nel più profondo del derma, perché solo con quel sapere invisibile delle dita si potrà mai dipingere l’infinita tela dei sogni. Fidandosi di ciò che gli occhi hanno ritenuto di aver visto, il cervello della testa afferma che, secondo la luce e le ombre, il vento e la calma, l’umidità e la secchezza, la spiaggia è bianca, o gialla, o dorata, o grigia, o purpurea, o una cosa qualsiasi tra questo e quello, ma poi vengono le dita e, con un movimento di raccolta, come se stessero mietendo una messe, rialzano dal suolo tutti i colori che ci sono al mondo. Ciò che sembrava unico era plurale, ciò che è plurale lo sarà ancora di più. Non è men vero, tuttavia, che nell’esaltata folgorazione di un solo tono, o nella sua musicale modulazione, sono presenti e vivi tutti gli altri, tanto le tonalità dei colori che hanno già un nome quanto quelle di quei colori che ancora lo attendono, proprio come una distesa in apparenza liscia potrà coprire, nel mentre che le manifesta, le tracce di tutto il vissuto e accaduto nella storia del mondo. Tutta l’archeologia di materiali è un’archeologia umana. Ciò che questa creta nasconde e mostra è il transito dell’essere nel tempo e il suo passaggio negli spazi, i segni delle dita, i graffi delle unghie, le ceneri e i tizzoni dei fuochi spenti, le ossa proprie e altrui, i cammini che eternamente si biforcano e si vanno distanziando e perdendosi l’un l’altro. Questo granello che affiora alla superficie è una memoria, questa depressione il marchio che è rimasto di un corpo sdraiato. Il cervello ha domandato e chiesto, la mano ha risposto e fatto. Marta lo ha detto in altro modo, Avete già colto il verso.

Vado a una faccenda di uomini, questa volta devi rimanere a casa, disse Cipriano Algor al cane, che gli era corso incontro quando lo aveva visto avvicinarsi al furgone. È chiaro che Trovato non aveva bisogno che gli ordinassero di salire, bastava che gli lasciassero lo sportello della macchina aperto il tempo sufficiente per capire che non lo avrebbero cacciato via, ma la vera causa della sua corsa agitata, per quanto strano possa sembrare, è l’aver creduto, nella sua ansia da cane, che lo avrebbero lasciato solo. Marta, che era uscita nello spiazzo chiacchierando con il padre e lo accompagnava al furgone, teneva in mano la busta contenente i disegni e la proposta, e sebbene il cane Trovato non abbia le idee chiare su cosa siano e a cosa servano buste, proposte e disegni, conosce della vita, in ogni caso, che le persone che si accingono a entrare nelle macchine solitamente portano con sé certe cose che, in genere, ancora prima di salire, lanciano sul sedile posteriore. Edotto da queste esperienze, è comprensibile che la memoria di Trovato lo abbia portato a pensare che Marta avrebbe accompagnato il padre in questo nuovo viaggio del furgone. Malgrado sia qui soltanto da pochi giorni, non ha alcun dubbio che la casa dei padroni è anche la sua casa, ma il suo senso di proprietà, solo incipiente, non lo autorizza ancora a dire, guardandosi intorno, Tutto questo è mio. Del resto un cane, di qualunque taglia, razza e carattere, non si azzarderebbe mai a pronunciare parole tanto brutalmente possessive, al massimo direbbe, Tutto questo è nostro, e anche così, tornando al caso particolare di questi vasai e dei loro beni mobili e immobili, il cane Trovato neanche da qui a dieci anni sarà capace di vedere se stesso come un terzo proprietario. Al massimo potrà forse arrivare, quando sarà un cane vecchio, all’oscuro e vago sentimento di essere partecipe di qualcosa di pericolosamente complesso e, per così dire, dai significati scivolosi, un tutto composto da parti in cui ciascuna parte è, al tempo stesso, la parte che è e il tutto di cui fa parte. Idee avventurose come questa, che il cervello umano, grosso modo, è più o meno capace di concepire, ma che ha subito un’enorme difficoltà nello scambiare coi particolari, sono il nostro pane quotidiano fra le diverse nazioni canine, sia da un punto di vista meramente teorico sia per quanto concerne le loro conseguenze pratiche. Non si creda, nondimeno, che lo spirito dei cani sia come una nuvola pacifica che passa lievemente, un’alba primaverile dalla luce soave, la vasca di un giardino con cigni bianchi, se così fosse Trovato non si sarebbe messo, all’improvviso, a guaire tanto addolorato, E io, e io, diceva lui. Per rispondere a questo smarrimento da anima in pena, Cipriano Algor, tant’era apprensivo per la responsabilità della missione che lo portava al Centro, non aveva trovato parole migliori che Stavolta rimani a casa, ciò che valse all’infelice animale fu il vedere che Marta fece due passi indietro dopo avere consegnato la busta al padre, e così Trovato venne a sapere che non lo avrebbero lasciato senza compagnia, in verità, pur costituendo ciascuna parte, di per sé, il tutto a cui appartiene, come crediamo di avere dimostrato con a+b, due parti, purché siano unite, fanno una bella differenza nel totale. Marta rivolse un gesto stanco di saluto al padre e rientrò in casa. Il cane non la seguì subito, rimase ad aspettare che il furgone, dopo aver percorso il tragitto fino alla strada, scomparisse dietro la prima casa dell’abitato. Quando di lì a poco entrò in cucina, vide che la padrona era seduta sulla stessa sedia su cui aveva lavorato negli ultimi giorni. Si passava le dita sugli occhi una prima e una seconda volta come se avesse bisogno di alleviarli da un’ombra o da un dolore. Certamente perché è ancora nel terreno verde della gioventù, Trovato non ha avuto tempo di acquisire opinioni costituite, chiare e definitive sulla necessità e sul significato delle lacrime nell’essere umano, eppure, considerando che quegli umori liquidi continuano a manifestarsi in quello strano brodo di sentimento, ragione e crudeltà di cui è fatto, ha pensato che forse non sarebbe stata una grossa sciocchezza avvicinarsi alla padrona in lacrime e posarle dolcemente la testa sulle ginocchia. Un cane più anziano, e per questa ragione, supponendo che l’età sia costretta a sopportare colpe duplicate, più cinico del cinismo che non può evitare di avere, commenterebbe con sarcasmo il gesto affettuoso, ma questo accadrebbe perché il vuoto della vecchiaia gli avrebbe fatto dimenticare che, in materie di cuore e sentimenti, è sempre stato meglio il troppo piuttosto che il poco. Commossa, Marta gli sfiorò leggermente la testa con la mano, accarezzandolo, e visto che lui non si sottraeva e continuava a guardarla fissa, prese un pezzo di carbone e cominciò a tracciare sulla carta le prime linee di un bozzetto. All’inizio, le lacrime non le consentivano di vedere bene, ma, a poco a poco, mentre la mano acquistava sicurezza, gli occhi cominciarono a schiarirsi, e la testa del cane, come se emergesse dal fondo di un’acqua torbida, le apparve in tutta la sua bellezza e forza, in tutto il suo mistero e interrogativo. Da oggi in poi Marta comincerà a voler bene a Trovato come sappiamo che già gliene vuole Cipriano.


Il vasaio si era lasciato alle spalle l’abitato, le tre case isolate che nessuno ricostruirà dalle rovine, adesso sta costeggiando il torrente soffocato di putredine, attraverserà i campi abbandonati, il bosco trascurato, ha già fatto tante di quelle volte questa strada che a stento nota la desolazione circostante, ma oggi ha due motivi di preoccupazione che giustificano la sua aria assorta. Uno di essi, la missione commerciale che lo porta al Centro, non ha bisogno, ovviamente, di menzione speciale, ma l’altro, che non si sa per quanto tempo ancora continuerà a colpirlo, è quello che maggiormente gli inquieta lo spirito, quell’impulso, davvero inatteso e inspiegabile, quando passa davanti all’imbocco della via dove abita Isaura Estudiosa, di andare a informarsi della brocca, se l’uso non ne abbia messo in evidenza qualche difetto occulto, se non perda, se mantenga la freschezza dell’acqua. Evidentemente non è da oggi né da ieri che Cipriano Algor conosce questa vicina, del resto sarebbe impossibile che ci fosse in paese qualcuno che lui, in virtù del mestiere, non conoscesse, e, benché non vi siano stati quelli che, a rigor di termini, si definiscono rapporti di amicizia con quella famiglia, gli Algor padre e figlia avevano accompagnato al cimitero il funerale del defunto Joaquim Estudioso, ché apparteneva a lui il cognome con il quale Isaura, che era venuta a sposarsi qui da un luogo lontano, era divenuta nota, come si usa nei paesi. Cipriano si ricordava di averle rivolto le condoglianze all’uscita dal cimitero, in quello stesso posto dove alcuni mesi dopo si sarebbero incontrati di nuovo per scambiarsi impressioni e promesse su una brocca spaccata. Non era che una semplice vedova nell’abitato, un’altra donna che avrebbe indossato il lutto stretto per sei mesi, seguiti da altri sei mesi a mezzo lutto, ed era anche fortunata, perché c’era un tempo in cui il lutto stretto e il mezzo lutto, ciascuno di essi, pesavano sul corpo femminile, e, vai a saperlo, magari anche sull’anima, per un intero anno di giorni e notti, per non parlare di quelle donne che, essendo vecchie, la legge del costume obbligava a vivere coperte di nero fino all’ultimo dei loro stessi giorni. Si domandava Cipriano Algor se nel lungo intervallo fra un incontro e l’altro al cimitero avesse mai parlato con Isaura Estudiosa, e la risposta lo sorprese, Se non l’ho mai neppure vista, ed era corretto, però non dobbiamo stupirci per l’apparente singolarità della situazione, nelle questioni in cui regna il caso tant’è che si viva in una città di dieci milioni di abitanti oppure in un paese di poche centinaia, accade solo ciò che deve accadere. A questo punto, il pensiero di Cipriano Algor tentò di deviare su Marta, sembrava che l’avrebbe responsabilizzata di nuovo per le fantasie che gli stavano frullando nella testa, ma la sua imparzialità, la sua onestà di giudizio, vigili, riuscirono a prevalere, Non ti nascondere, lascia in pace tua figlia, lei ha pronunciato solo le parole che volevi udire, adesso si tratta invece di sapere se hai qualcosa di più di una brocca da dare a Isaura Estudiosa, e, inoltre, non te lo dimenticare, se lei sarà disposta a ricevere ciò che immagini di avere da darle, ammesso che tu riesca a immaginare qualcosa. Il soliloquio si bloccò davanti a questa obiezione, per ora insormontabile, e della repentina fermata approfittò il secondo motivo di preoccupazione, tre motivi in uno, le statuine di terracotta, il Centro, il capo dell’ufficio acquisti, Andiamo a vedere cosa questo finirà per dare, mormorò il vasaio, una frase sintatticamente contorta che, a ben pensarci, potrebbe anche servire per arricchire coi panni di una distratta e tacita connivenza l’eccitante argomento di Isaura Estudiosa. È troppo tardi, stiamo già attraversando la Cintura Agricola, o Verde, come continuano a chiamarla coloro che adorano mascherare con le parole l’aspra realtà, questo colore di ghiaccio sporco che ricopre il suolo, questo interminabile mare di plastica dove le serre, tutte della stessa misura, somigliano ad iceberg pietrificati, a gigantesche pietre di un domino senza figure. All’interno non fa freddo, al contrario, gli uomini che vi lavorano sono asfissiati dal caldo, si cuociono nel proprio sudore, si infiacchiscono, sono come dei cenci inzuppati e strizzati da mani violente. Se non è tutto lo stesso dire, è tutto lo stesso penare. Oggi il furgone viaggia vuoto, Cipriano Algor non appartiene più alla congrega dei venditori per la validissima ragione che la sua merce non interessa più, ha con sé una mezza dozzina di disegni sul sedile a fianco, lì dove li ha messi Marta, e non sul sedile posteriore come ha supposto Trovato, e questi disegni sono l’unica e fragile bussola di questo viaggio, per fortuna era già uscito da casa quando, per qualche istante, l’aveva perduta del tutto chi quei fogli li aveva dipinti. Si dice che il paesaggio è uno stato d’animo, che il paesaggio di fuori lo vediamo con gli occhi di dentro, sarà perché questi straordinari organi interiori della vista non hanno saputo vedere queste fabbriche e questi hangar, questi fumi che divorano il cielo, queste polveri tossiche, questi fanghi eterni, queste croste di fuliggine, l’immondizia di ieri spazzata in superficie dall’immondizia di tutti i giorni, l’immondizia di domani spazzata dall’immondizia di oggi, qui basterebbero i semplici occhi del viso per convincere la più soddisfatta delle anime a dubitare della buona ventura in cui supponeva di rinfrancarsi.


Al di là della Cintura Industriale, sulla strada, già nei terreni occupati dalle baracche, si vede un camion bruciato. Non c’è traccia della merce che trasportava, solo qua e là qualche residuo annerito di scatoloni senza indicazioni sul contenuto e la provenienza. O il carico era bruciato insieme al camion, o erano riusciti a portarlo via prima che il fuoco dilagasse. Il suolo è inzuppato tutt’intorno, il che dimostra che i pompieri erano accorsi al sinistro, ma a quanto pare sono arrivati tardi, giacché il camion è tutto bruciato. Parcheggiate davanti, ci sono due vetture della polizia stradale, al di là della strada un veicolo militare per trasporto di personale. Il vasaio ridusse la velocità per vedere meglio cos’era successo, ma i poliziotti, scorbutici, gli ordinarono immediatamente di proseguire, ebbe ancora il tempo di domandare se c’era stato qualche morto, ma non gli diedero retta. Vada, vada, urlavano, e facevano cenni frenetici con le braccia. Fu allora che Cipriano Algor guardò di lato e notò che c’erano dei soldati che si muovevano fra le baracche. Per via della velocità non riuscì a vedere molto di più, se non il fatto che sembravano tutti lì a sgomberare le case dagli abitanti. Era evidente che gli assalitori, questa volta, non si erano accontentati di saccheggiare. Per qualche motivo ignoto, prima non era mai successa una cosa del genere, avevano appiccato fuoco al camion, forse l’autista aveva resistito alla violenza con altrettanta violenza, o forse erano i gruppi organizzati delle baracche che avevano deciso di cambiare strategia, benché si stenti a comprendere che accidente di profitto si aspettino di trarre costoro da un’azione violenta come questa che, al contrario, servirà solo a giustificare azioni altrettanto violente da parte delle autorità, Che io sappia, pensò il vasaio, è la prima volta che l’esercito entra nei quartieri di baracche, fino ad ora le risse sono sempre state roba della polizia, e del resto nei quartieri se ne teneva conto, arrivavano gli agenti, a volte facevano domande, altre volte no, portavano via in arresto due o tre uomini e la vita continuava, come se niente fosse, prima o poi gli arrestati ricomparivano di nuovo. Il vasaio Cipriano Algor si è dimenticato della vicina Isaura Estudiosa, quella a cui ha dato una brocca, e del capo dell’ufficio acquisti del Centro, quello che non sa se potrà convincere dell’interesse estetico delle statuine, il suo pensiero è tutto rivolto a un camion che le fiamme hanno arrostito a tal punto da non essere rimaste neanche le tracce del carico che portava, se lo portava. Se, se. Ripeté la congiunzione come chi, dopo avere inciampato in un sasso, torni indietro per inciamparvi di nuovo, come se lo colpisse una prima e una seconda volta aspettandosi di vederne balzar fuori una favilla, ma la favilla non sembrava disposta a saltar fuori, Cipriano Algor aveva già sprecato in questo rimuginare quasi tre chilometri buoni e stava per desistere, Isaura Estudiosa si preparava già a disputare il terreno al capo dell’ufficio acquisti, quando all’improvviso scoppiò la scintilla, si fece luce, il camion non era stato bruciato dalla gente delle baracche, ma dalla stessa polizia, era un pretesto per l’intervento dell’esercito, Mi taglio la testa se non è andata così, mormorò il vasaio, e allora si sentì stanchissimo, non per aver sforzato troppo la mente, ma perché vedeva che il mondo è fatto così, che le menzogne sono tante e le verità nessuna, o qualcuna, sì, ce ne sarà pure qualcuna, ma in continuo mutare, non solo non dà il tempo di pensarla come una verità possibile, ma dovremo anche, per prima cosa, appurare che non si tratti di una menzogna possibile. Cipriano Algor diede un’occhiata all’orologio, se quello che voleva sapere era l’ora, il gesto non gli è servito a nulla, perché, essendo stato fatto nell’immediata sequenza del dibattito fra la probabilità delle menzogne e la possibilità delle verità, era come se fosse in attesa di trovare la conclusione nella disposizione delle lancette, un angolo retto che avrebbe significato sì, un angolo acuto che gli avrebbe anteposto un prudente forse, un angolo ottuso a dire smaccatamente no, un angolo piatto è meglio non pensarci. Quando, subito dopo, tornò a guardare il quadrante, le lancette indicavano ormai soltanto ore, minuti e secondi, si erano convertite nuovamente in autentiche, funzionali e obbedienti lancette di orologio, Sono in tempo, disse, ed era corretto, era in tempo, in fin dei conti è come siamo sempre, in tempo, con il tempo, nel tempo, mai fuori tempo, per quanto ci accusino di esserlo. Ora si trovava in città, procedeva lungo il viale che lo conduceva alla meta, davanti a lui, più veloce del furgone, correva il pensiero, capo dell’ufficio acquisti, capo dell’ufficio acquisti, capo dell’ufficio acquisti, Isaura Estudiosa, poverina, era rimasta indietro. In fondo, sull’altissima parete che tagliava la strada, si vedeva un enorme manifesto bianco, rettangolare, dove, a lettere di un azzurro brillante e intenso, si leggevano da un capo all’altro queste parole, VIVI SICURO, VIVI NEL CENTRO. Sotto, posta all’angolo destro, si distingueva anche una breve riga, solo due parole, in nero, che gli occhi miopi di Cipriano Algor, a questa distanza, ancora non riescono a decifrare, eppure sono parole che non meritano minor considerazione di quelle del messaggio principale, volendolo, potremmo definirle complementari, ma mai puramente ridondanti, CHIEDI INFORMAZIONI, era quanto raccomandavano. Il manifesto compare lì di tanto in tanto, ripetendo le stesse parole, variabili solo nel colore, talvolta esibisce immagini di famiglie felici, il marito di trentacinque anni, la moglie di trentatré, un figlio di undici, una figlia di nove, e anche, ma non sempre, un nonno e una nonna dai capelli candidi, poche rughe ed età indefinita, tutti costringendo a sorridere le rispettive dentature, perfette, bianche e smaglianti. A Cipriano Algor gli si prefigurò di malaugurio l’invito, già sentiva il genero annunciare per la centesima volta che sarebbero andati a vivere nel Centro appena fosse arrivata la promozione a guardiano residente, Andremo a finire tutti e tre in uno di quei manifesti, pensò, come giovane coppia ci sono già Marta e il marito, il nonno sarei io se riuscissero a convincermi, la nonna non c’è più, è morta tre anni fa, e per il momento mancano i nipoti, ma al loro posto potremmo mettere Trovato nella fotografia, un cane ci sta sempre bene negli annunci con famiglie felici, per quanto strano sembri, trattandosi di un essere irrazionale, gli conferisce un tocco sottile, ma facilmente riconoscibile, di superiore umanità. Cipriano Algor imboccò con il furgone la via a destra parallela al Centro, mentre pensava che no, che non poteva essere, che il Centro non accetta né cani né gatti, al massimo potrà accettare uccelli in gabbia, parrocchetti, canarini, cardellini, pettirossi, e sicuramente pesciolini d’acquario, soprattutto se tropicali, di quelli con le pinne in eccesso, ma gatti no, e tantomeno cani, ci mancherebbe altro, abbandonare di nuovo il povero Trovato, è bastata una volta, a questo punto è riuscita a intromettersi nel pensiero di Cipriano Algor l’immagine di Isaura Estudiosa accanto al muro del cimitero, poi con la brocca stretta al petto, poi salutando dall’uscio, ma così com’è apparsa, si è dovuta dileguare immediatamente, ecco là davanti l’entrata per il sotterraneo dove si lasciano le mercanzie e dove il capo dell’ufficio acquisti controlla le bolle di rimessa e le fatture e decide cosa resta e cosa non resta.


Oltre al camion che stavano scaricando, ce n’erano solo altri due in attesa del proprio turno. Il vasaio calcolò che, a rigor di logica, considerando che non era venuto per consegnare merci, doveva essere esentato dal prendere posto nella fila dei camion. Il motivo che lo spingeva era di competenza esclusiva del capo dell’ufficio acquisti, non era da trattare con impiegati subalterni e per principio reticenti, quindi doveva solo presentarsi al banco e dichiarare il motivo per cui era lì. Posteggiò il furgone, prese i fogli e, con passo che voleva sembrare deciso, ma in cui qualunque osservatore modicamente attento avrebbe saputo riconoscere l’effetto di un tremore delle gambe nell’equilibrio del corpo, attraversò la corsia punteggiata di macchie d’olio antiche e recenti fino al banco della ricezione, rivolse educatamente il buon pomeriggio e chiese di parlare con il capoufficio. L’impiegato inoltrò la richiesta verbale, tornò subito dopo, Viene subito, disse. Dovettero passare dieci minuti prima che finalmente comparisse, non il capo richiesto, ma uno dei vice. A Cipriano Algor non piacque il fatto di dover raccontare la propria storia a qualcuno che, in genere, non ha altra utilità nell’organigramma e nella prassi che quella di fungere da paratia a chi stia gerarchicamente al di sopra. Meno male che a metà della spiegazione lo stesso vice si rese conto che il fatto di essere lui a seguire il caso sino alla fine gli avrebbe dato solo grane, e che, in una maniera o nell’altra, la decisione avrebbe dovuto prenderla chi era lì apposta e che, proprio per ciò, guadagnava quello che guadagnava. Il vicecapo, come facilmente se ne concluderà, è uno scontento sociale. Tolse bruscamente la parola al vasaio, afferrò la proposta e i disegni e si allontanò. Tardò alcuni minuti a uscire dalla porta da cui era entrato, fece da lontano un cenno a Cipriano Algor perché si avvicinasse, non sarà necessario rammentare ancora una volta che, in situazioni del genere, le gambe tendono irresistibilmente ad accentuare il tremore che avevano già, e, dopo avergli fatto strada, tornò alle sue occupazioni. Il capo teneva la proposta nella mano destra, i disegni erano allineati sulla scrivania, davanti a lui, come le carte di un solitario. Fece cenno a Cipriano Algor di sedersi, provvedimento che permise al vasaio di smettere di pensare alle gambe e lanciarsi nell’esposizione del problema, Buonasera, signore, scusi se la disturbo nel suo lavoro, ma è un’idea che abbiamo avuto, mia figlia e io, a dir la verità più lei che io. Il capo lo interruppe, Prima che continui, signor Algor, è mio dovere informarla che il Centro ha deciso di non comprare più i prodotti della sua ditta, mi riferisco a quelli che ci ha fornito fino alla sospensione degli acquisti, adesso è definitivo e irrevocabile. Cipriano Algor abbassò il capo, doveva fare molta attenzione alle parole, qualsiasi cosa succedesse non poteva dire o fare nulla che potesse mettere a rischio la possibilità di concludere l’affare delle statuine, perciò si limitò a mormorare, Me lo aspettavo, signore, ma mi consenta uno sfogo, è duro, dopo tanti anni come fornitore, dover udire dalla sua bocca simili parole, La vita è così, è fatta di cose che finiscono, Ma anche di cose che cominciano, Non sono mai le stesse. Il capo fece una pausa, smosse i disegni lentamente, come se fosse distratto, poi disse, Suo genero è venuto a parlarmi, Su mia richiesta, signore, su mia richiesta, per farmi uscire dall’indecisione in cui mi vedevo, senza sapere se avrei potuto o meno continuare a produrre, Ora lo sa, Sì, signore, lo so, Dovrebbe essere anche al corrente che è sempre stata una regola del Centro, che addirittura è un punto d’onore del Centro, non accettare pressioni o interferenze di terzi nella sua attività commerciale, e tanto meno se provenienti da impiegati della ditta, Non era una pressione, signore, Ma è stata un’interferenza, Chiedo scusa. Altra pausa, Cos’altro dovrò sentire, pensò il vasaio angosciato. Lo avrebbe saputo ben presto, il capo stava aprendo un registro, lo sfogliava, consultava una pagina, un’altra, poi addizionò cifre su una piccola calcolatrice, finalmente disse, Abbiamo in magazzino, ormai senza probabilità di smercio, nemmeno a prezzi di saldo, nemmeno al di sotto di quanto ci è costata, una grande quantità di articoli della sua fornace, articoli di ogni tipo che occupano uno spazio che mi serve, ragion per cui sono costretto a dirle di procedere al ritiro nel termine massimo di due settimane, avevo intenzione di farle telefonare domani, per informarla, Non so quanti viaggi dovrò fare, il furgone è piccolo, Con un carico al giorno risolverà il problema, E a chi andrò a vendere adesso le mie stoviglie, domandò il vasaio prostrato, Il problema è suo, non mio, Sono autorizzato, almeno, a trattare con i commercianti della città, Il nostro contratto è annullato, può fare affari con chi vuole, Se ne varrà la pena, Sì, se ne varrà la pena, la crisi è seria là fuori, e oltre a questo, il capoufficio tacque, prese i disegni e li radunò, poi li fece scorrere lentamente, uno dopo l’altro, li guardava con un’attenzione che sembrava sincera, come se li stesse vedendo per la prima volta. Cipriano Algor non poteva domandare, Oltre a questo che cosa, doveva aspettare, mascherare l’inquietudine, in fin dei conti, o fin dal loro inizio, era sempre il capoufficio chi decideva le regole della partita, e quello che si sta giocando adesso è un gioco disuguale, in cui le carte ce le ha tutte uno e in cui, se sarà necessario, i valori dei semi varieranno secondo la volontà di chi li ha in mano, nel qual caso il re potrà valere più dell’asso e meno della donna, o il fante tanto quanto il cavallo, e quest’ultimo più di tutta la casa reale, ancorché si debba riconoscere che, per quanto gli possa servire, visto che sono sei le statuine presentate, il vasaio ha, sia pur minimo, il vantaggio numerico a suo favore. Il capoufficio radunò di nuovo i disegni, li mise da parte con un gesto assente e, dopo aver dato ancora uno sguardo al registro, concluse la frase, Oltre a questo, voglio dire, oltre alla catastrofica situazione del commercio tradizionale, nient’affatto propizia a certi articoli che il tempo e i cambiamenti del gusto hanno screditato, alla fornace sarà proibito concludere affari all’esterno qualora il Centro dovesse commissionare i prodotti che in questo momento gli sono proposti, Credo di capire, signore, che non potremo vendere le statuine ai commercianti della città, Ha capito bene, ma non ha capito tutto, Non afferro dove vuole arrivare, Non solo non potrà vendere loro le statuine, ma non sarà autorizzato a vendere nessuno degli altri articoli della fornace, anche se, per un’ipotesi assurda, glieli ordinassero, Capisco, dal momento in cui mi accettate di nuovo come fornitore del Centro, non potrò esserlo di nessun altro, Esattamente, del resto non c’è motivo di sorprendersi, la regola è sempre stata questa, Eppure, signore, in una situazione come l’attuale, in cui determinati prodotti non interessano più al Centro, sarebbe giusto concedere al fornitore la libertà di cercarsi altri acquirenti, Siamo nel campo dei fatti commerciali, signor Algor, teorie che non siano al servizio dei fatti e li consolidino non contano per il Centro, e lasci che le dica fin da ora che noi siamo competenti anche per elaborare teorie, e qualcuna l’abbiamo anche presentata sul mercato, sì, ma solo quelle che son servite a omologare e, se necessario, assolvere i fatti quando essi si siano comportati male. Cipriano Algor si disse fra sé e sé che non doveva rispondere alla sfida. Cadere nella tentazione di un dici-tu-dico-io con il capoufficio, io sostengo, tu neghi, io protesto, tu contesti, avrebbe finito per dare pessimi risultati, non si sa mai quando una parola male interpretata può avere come conseguenza disastrosa la distruzione della più sottile e laboriosa dialettica di persuasione, già lo diceva l’antica saggezza, col tuo padrone non competere a pere, che lui si mangia le mature e a te dà quelle nere. Il capoufficio lo guardò con un mezzo sorriso e soggiunse, Per la verità, non so perché le sto dicendo queste cose, In tutta franchezza, signore, anch’io me ne stupisco, non sono che un semplice vasaio, quel poco che ho da vendere non è tanto prezioso da giustificare che lei sprechi con me la sua pazienza e mi onori con le sue riflessioni, rispose Cipriano Algor, e immediatamente si morse la lingua, aveva appena deciso di non mettere altre carni al fuoco di una conversazione già di per sé palesemente tesa, e invece si era lanciato di nuovo in una provocazione, non solo diretta, ma anche inopportuna. Pensando di poter così evitare l’acida risposta che temeva, si alzò e disse, Le chiedo scusa per il tempo che le ho rubato, signore, le lascio i disegni per una valutazione, a meno che, A meno che, cosa, A meno che non abbia già preso la sua decisione, Che decisione, Non so, signore, non sono nel suo pensiero, La decisione di non ordinare le statuine, per esempio, domandò il capoufficio, Sì, signore, rispose il vasaio senza sviare lo sguardo, mentre mentalmente si accusava di essere uno stupido e imprudente, Ancora non ho preso nessuna decisione, Potrei domandarle se tarderà molto, ma sa, la situazione in cui ci troviamo, Sarò rapido, tagliò corto il capo, forse riceverà notizie domani stesso, Domani, Sì, domani, non voglio che vada a raccontare in giro che il Centro non le ha dato un’ultima occasione, Credo di poter concludere da ciò che sento che la decisione sarà positiva, Potrà essere positiva, è tutto quanto le posso dire in questo momento, Grazie, signore, Ancora non ha motivi per ringraziarmi, La ringrazio per la speranza che porto via con me, è già qualcosa, Della speranza non c’è mai stato molto da fidarsi, Lo penso anch’io, ma cosa dobbiamo farci, a qualcosa dovremo pure aggrapparci nei momenti critici, Buonasera, signor Cipriano Algor, Buonasera signore. Il vasaio posò la mano sulla maniglia della porta, stava per uscire, ma il capoufficio aveva da dirgli ancora qualcos’altro, Concordi con il vicecapo, quello che l’ha fatta entrare, il piano di ritirata delle sue stoviglie, si ricordi che ha solo due settimane a disposizione per portare via tutto, fino all’ultimo piatto, Sissignore. Questa espressione, piano di ritirata, non sta bene in bocca a un civile, suona più come un’operazione militare che non come routiniera restituzione di merci, e, se applicata alla lettera e alle posizioni relative dell’unità Centro e dell’unità fornace, tanto potrà risultare come un provvidenziale indietreggiamento tattico per radunare le forze disperse e poi, al momento propizio, cioè, una volta approvata la fabbricazione delle statuine, riprendere l’attacco, quanto, al contrario, significare la fine di tutto, la sconfitta su tutta la linea, la sbandata, il si salvi chi può. Cipriano Algor udiva il vicecapo dirgli senza pausa e senza volgere lo sguardo verso di lui, Tutti i giorni alle quattro del pomeriggio dovrà sbrigarsela da solo o portarsi un aiuto, il nostro personale non può esser distolto neanche pagando extra, e si domandava se valeva la pena star lì a subire questa vergogna, a esser trattato come uno scemo, una nullità, e per giunta dover riconoscere che la ragione è dalla parte loro, che per il Centro non hanno importanza dei rustici piatti di terracotta vetrificata o delle ridicole statuine di infermiere, eschimesi e assiri barbuti, nessuna importanza, niente, zero, Ecco cosa siamo per loro, zero. Si sedette finalmente nel furgone, guardò l’orologio, avrebbe dovuto aspettare ancora quasi un’ora per andare a prendere il genero, gli passò per la testa l’idea di entrare nel Centro, è da molto tempo che non usa le porte del pubblico, né per guardare, né per comprare, gli acquisti li fa sempre Marçal per via degli sconti a cui ha diritto come impiegato, ed entrare solo per guardare non è, ci si conceda la ridondanza, ben visto, se qualcuno va a gironzolare là dentro a mani vuote può star certo che ben presto sarà oggetto di particolare attenzione da parte dei guardiani, addirittura potrebbe verificarsi la situazione comica che fosse il suo stesso genero a interpellarlo, Cosa fate qui, papà, se non comprate niente, e lui risponderebbe, Vado al settore delle stoviglie a vedere se hanno ancora in esposizione qualche pezzo della Fornace Algor, a scoprire quanto costa quell’orciuolo decorato con pezzettini di quarzo intarsiato, a dire Sissignore, è un bell’orciuolo, ormai sono pochi gli artigiani capaci di eseguire un lavoro così, con questa perfezione, forse l’incaricato del settore, stimolato dal parere del rinomato specialista, raccomanderebbe all’ufficio acquisti l’acquisizione urgente di un centinaio di orciuoli, di quelli con i pezzettini di quarzo, e in tal caso non dovremmo imbarcarci in avventure di pagliacci, buffoni e mandarini, che non sappiamo dove andranno a finire. Cipriano Algor non ha avuto bisogno di dire a se stesso, Non vado, sono settimane che lo ripete alla figlia e al genero, una volta dovrebbe bastare. Era immerso in queste riflessioni inutili, con il capo appoggiato sul volante, quando si avvicinò il guardiano che sorvegliava l’uscita del sotterraneo e disse, Se ha già risolto quello che aveva da trattare, la prego di andarsene, questo non è un garage. Il vasaio disse, Lo so, avviò il motore e uscì senza dire altro. Il guardiano annotò la targa del furgone su un foglio, non aveva bisogno di farlo, lo conosce quasi fin dal primo giorno che ha cominciato a lavorare come guardiano in questo sotterraneo, e se ostentatamente ha preso nota lo ha fatto perché non gli è piaciuto quel secco Lo so, le persone, soprattutto se sono guardie, devono essere trattate con tutto il rispetto e la considerazione, non gli si risponde con un secco Lo so, il vecchio avrebbe dovuto dire, Sissignore, che sono parole simpatiche e obbedienti, servono a tutto, il guardiano, più che irritato, è sconcertato, perciò ha pensato che anche lui non avrebbe dovuto dire, Questo non è un garage, soprattutto con il tono sdegnoso che gli è venuto fuori, come se fosse il re del mondo, quando non lo era nemmeno di quello sporco sotterraneo in cui passava le ore. Cancellò il numero e tornò al proprio posto.


Cipriano Algor cercò una via tranquilla dove attendere l’ora di andare a prendere il genero davanti alla porta del servizio di sicurezza. Posteggiò il furgone vicino a un angolo da cui si scorgeva, a distanza di tre estesi isolati, una striscia di una delle enormi facciate del Centro, proprio quella corrispondente alla sua parte abitata. A eccezione delle porte che danno all’esterno, su nessuno degli altri prospetti ci sono aperture, sono teli impenetrabili di muro dove i grandi pannelli sospesi che promettono sicurezza non possono essere responsabilizzati di tappare la luce e rubare l’aria a chi ci vive dentro. Al contrario di quelle facciate lisce, il prospetto rivolto da questo lato è crivellato di finestre, centinaia e centinaia di finestre, migliaia di finestre, sempre chiuse per via del condizionamento dell’atmosfera interna. È noto che quando ignoriamo l’altezza esatta di un edificio, ma vogliamo dare un’idea approssimativa delle sue dimensioni, diciamo che ha un determinato numero di piani, che possono essere due, o cinque, o quindici, o venti, o trenta, e via così, di più o di meno di questi numeri, da uno all’infinito. L’edificio del Centro non è né tanto piccolo né tanto grande, si accontenta di esibire quarantotto piani al di sopra del livello stradale e nasconderne dieci al di sotto di questo. E fin da ora, dato che Cipriano Algor ha posteggiato il furgone in questo punto, siccome abbiamo cominciato a ponderare alcuni dei numeri che specificano il volume del Centro, diciamo che la larghezza delle facciate minori è di circa centocinquanta metri, e quella delle maggiori poco più di trecentocinquanta, non tenendo per ora conto, è chiaro, della costruzione di prolungamento cui si è fatto dettagliato riferimento all’inizio del racconto. Anticipando adesso un po’ di più i calcoli e prendendo come dato medio un’altezza di tre metri per ciascuno dei piani, incluso lo spessore del pavimento che li separa, troveremo, compresi anche i dieci piani sotterranei, un’altezza totale di centosettantaquattro metri. Se moltiplichiamo questo numero per i centocinquanta metri di larghezza e per i trecentocinquanta metri di lunghezza, avremo come risultato, salvo errore, omissione o confusione, un volume di nove milioni centotrentacinque mila metri cubi, palmo più palmo meno, punto più virgola meno. Il Centro, non c’è una sola persona che non lo riconosca con sgomento, è veramente grande. Ed è lì, ha detto Cipriano Algor a denti stretti, che il mio caro genero vuole che io vada a vivere, dietro una di quelle finestre che non si possono aprire, per non alterare la stabilità termica dell’aria condizionata, dicono loro, ma la verità è un’altra, le persone possono suicidarsi, se vogliono, ma non lanciandosi da cento metri di altezza sulla strada, è una disperazione che dà troppo nell’occhio e stuzzica la curiosità morbosa dei passanti, che vogliono sapere perché. Cipriano Algor ha già detto, non una, ma tante volte, che non acconsentirà mai a venire ad abitare nel Centro, che non rinuncerà mai alla fornace che è stata di suo padre e di suo nonno, e perfino Marta, la sua unica figlia, pure lei, che, poverina, non potrà fare altro che accompagnare il marito quando sarà promosso guardiano residente, ancora due o tre giorni fa ha saputo comprendere, con grata franchezza, che la decisione finale potrà prenderla solo il padre, senza essere forzato da insistenze e pressioni di terzi, anche se dovessero giustificarle l’amore filiale, o quella piagnucolosa pietà che i vecchi, anche quando la rifiutano, suscitano nell’anima delle persone bene educate. Non ci vado, non ci vado, non ci vado, neanche se mi ammazzate, borbottò il vasaio, consapevole tuttavia che queste parole, proprio perché sembravano tanto radicali, tanto conclusive, potevano forse fingere una convinzione che in fondo non sentiva, mascherare una debolezza interiore, come una crepa ancora invisibile nella parete più sottile di una brocca. Ovviamente era questo il miglior motivo, giacché si è tornati a parlare di brocca, perché Isaura Estudiosa rispuntasse nel pensiero di Cipriano Algor, ed effettivamente così accadde, ma il cammino intrapreso da quel pensiero, o ragionamento, se ragionamento c’è stato, se non è stata solo la luce di un lampo istantaneo, lo spinse a una conclusione molto imbarazzante, formulata in un sussurro sognante, Così non dovrei più trasferirmi nel Centro. Il gesto contrariato di Cipriano Algor, subito dopo aver pronunciato queste parole, non ci consente di voltare le spalle all’evidenza che il vasaio, nonostante il piacere di pensare a Isaura Estudiosa che in lui si è osservato, non ha potuto evitare un moto di umore che sembra negarlo. Perdere tempo a spiegare perché gli piace sarebbe poco meno che inutile, ci sono cose nella vita che si definiscono da sole, un certo uomo, una certa donna, una certa parola, un certo momento, basterebbe che lo avessimo enunciato così e tutti capirebbero di cosa si tratta, ma ce ne sono altre che, e potrebbero essere lo stesso uomo e la stessa donna, la stessa parola e lo stesso momento, guardate da un angolo diverso, con una luce diversa, cominciano a suscitare dubbi e perplessità, segnali inquieti, un’insolita palpitazione, ecco perché a Cipriano Algor è venuto meno all’improvviso il piacere di pensare a Isaura Estudiosa, è tutta colpa di quella frase, Così non dovrei più trasferirmi nel Centro, come uno che dicesse, Se mi sposassi con lei, avrei qualcuno che si occuperebbe di me, dimostrandosi di nuovo ciò che di dimostrazione non ha bisogno, ossia, la cosa più penosa per un uomo è riconoscere le proprie debolezze e confessarle. Soprattutto quando si manifestano al di fuori dell’epoca giusta, come un frutto che il ramo trattiene a stento perché è nato troppo tardi per la stagione. Cipriano Algor sospirò, poi guardò l’orologio. Era ora di andare a riprendere il genero alla porta del servizio di sicurezza.

Al cane Trovato Marçal non è piaciuto. Era tanto ciò che aveva da raccontare, tante le novità, tanti gli alti e bassi di speranza e d’animo vissuti in questi giorni, che a Cipriano Algor non venne in mente, durante il percorso fra il Centro e la fornace, di parlare al genero della misteriosa comparsa dell’animale e delle sue successive singolarità di comportamento. Detta, comunque, l’amore della verità, ravvivato dallo scrupolo del narratore, di non tralasciare almeno una menzione all’unico e rapido affioramento dell’inopinato episodio alla memoria omessa del vasaio che, però, non riuscì a svilupparsi perché Marçal, con più che giustificata sorpresa, interruppe il racconto del suocero per domandare per quali diavolo di ragioni né a lui né a Marta era venuto in mente di informarlo su ciò che stava accadendo a casa, l’idea delle statuine, i disegni, le prove di modellatura, Sembra quasi che io non esista per voi, commentò con amarezza. Colto in fallo, Cipriano Algor rabberciò una spiegazione in cui concorrevano il nervosismo e la concentrazione propri di ogni creazione artistica, l’assoluta mancanza di amabilità con cui l’impiegato di servizio al telefono soleva rispondere alle chiamate dei parenti dei guardiani che vivevano fuori del Centro e, infine, un certo numero di parole decorative, mezzo raffazzonate, per finire di colmare e concludere il discorso. Fortunatamente, il passaggio vicino al camion bruciato contribuì a deviare le attenzioni da una divergenza che si sarebbe ben potuta convertire in querela familiare, la quale, anticipiamolo subito, non andrà oltre questa minaccia, benché Marçal Gacho abbia intenzione di riprendere l’argomento quando si troverà da solo con la moglie, in camera da letto e con la porta chiusa. Con evidente sfogo, Cipriano Algor tralasciò le statuine di terracotta per esporre i sospetti che l’incendio gli aveva fatto nascere nello spirito, una posizione, questa, che Marçal, ancora indisposto per la disistima di cui era stato vittima, contestò con una certa rudezza in nome della deontologia, della coscienza etica e della limpidezza di procedimenti che, per definizione, hanno sempre contraddistinto le forze armate, in generale, e le autorità amministrative e poliziesche, in particolare. Cipriano Algor si strinse nelle spalle, Dici così perché sei guardiano del Centro, se fossi un civile come me vedresti le cose altrimenti, Il fatto che io sia guardiano del Centro non mi ha certo reso un poliziotto o un militare, rispose Marçal seccamente, No, ma ci sei vicino, al limite, Ora avrete l’obbligo di dirmi se vi vergognate che un guardiano del Centro sia qui al vostro fianco, nel vostro furgone, a respirare la stessa aria. Il vasaio non rispose subito, si era pentito di aver ceduto di nuovo allo stupido e gratuito appetito di stuzzicare il genero, Perché lo faccio, si domandò fra sé e sé, come se non fosse ormai stufo di conoscere la risposta, quest’uomo, questo Marçal Gacho voleva portargli via la figlia, in verità l’aveva già portata via quando l’aveva sposata, gliel’aveva portata via senza rimedio né ritorno, A meno che, stanco di dire no, io non finisca per andare a vivere al Centro con loro, pensò. Poi, parlando lentamente, come se dovesse trascinarsi appresso ogni parola, disse, Scusami, non volevo offenderti, non volevo essere sgradevole con te, a volte non riesco a evitarlo, mi sembra più forte di me, e non vale la pena domandarmi perché, non ti risponderei, oppure ti direi una bugia, ma le ragioni ci sono, se le cerchiamo le troviamo sempre, ragioni che spieghino qualcosa non sono mai mancate, anche quando non sono quelle giuste, sono i tempi che cambiano, sono i vecchi che ogni ora invecchiano di un giorno, è il lavoro che non è più quello che era, e noi che possiamo essere soltanto ciò che siamo stati, all’improvviso ci rendiamo conto di non essere più necessari nel mondo, ammesso che mai lo siamo stati, ma credere di esserlo ci sembrava già tanto, sembrava sufficiente, ed era in un certo senso eterno per il tempo in cui sarebbe durata la vita, perché l’eternità è questo, nient’altro che questo. Marçal non parlò, si limitò a posare la mano sinistra sulla mano destra del suocero, che teneva il volante. Cipriano Algor inghiottì a vuoto, guardò la mano che, dolce, ma decisa, sembrava voler proteggere la sua, la cicatrice contorta e obliqua che dilacerava la pelle da una parte all’altra, ultimo segno di una brutale ustione che non si sa per quale strabiliante caso non ha raggiunto le vene soggiacenti. Inesperto, incapace, Marçal aveva cercato di dare una mano nell’alimentazione del forno, di fare bella figura davanti alla ragazza con cui da poche settimane era fidanzato, e forse ancor di più davanti al padre di lei, dimostrargli che era un uomo fatto, quando in verità era appena uscito dall’adolescenza e l’unica cosa della vita e del mondo sulla quale riteneva di sapere tutto quanto c’è da sapere era che gli piaceva la figlia del vasaio. Chi un giorno è passato per queste certezze non faticherà a immaginare quali entusiastici sentimenti erano stati i suoi mentre trascinava, ramo dopo ramo, la legna dalla tettoia, che subito dopo infilava nel forno, quale eccelso premio dovevano essere stati per lui, in quei momenti, la sorpresa incantata di Marta, il sorriso benevolo della madre di lei, lo sguardo serio e riluttantemente approvatore del padre. E all’improvviso, senza che si riuscisse a capire perché, considerando che, a memoria di vasai, non era mai successa prima una tal cosa, una fiamma sottile, rapida e sinuosa come la lingua di un serpente aveva fatto irruzione ringhiando dalla bocca del forno ed era andata a mordere crudelmente la mano del ragazzo, prossima, innocente, sprovveduta. Era nata allora la sorda antipatia che la famiglia Gacho aveva cominciato a nutrire per gli Algor, non solo imperdonabilmente sbadati e irresponsabili, ma anche, secondo l’inflessibile giudizio dei Gacho, sfacciatamente sfruttatori per avere approfittato dei sentimenti di un giovane ingenuo per farlo lavorare gratis. Non è solo in paesi lontani dalla civiltà che le appendici cerebrali umane sono capaci di generare idee del genere. Marta medicò più volte la mano di Marçal, più volte la consolò e rinfrescò con il suo alito, e tanto perseverò la volontà di entrambi che, trascorsi due anni, poterono sposarsi, ma le famiglie non si unirono. Adesso il loro amore sembra sopito, che cosa dobbiamo farci, sembra sia un effetto naturale del tempo e delle angosce del vivere, ma se l’antica saggezza serve ancora a qualche cosa, se ancora può essere di una certa utilità per le moderne ignoranze, rammentiamoci, discretamente in modo da non farci ridere dietro, che finché c’è vita c’è speranza. Sì, è vero, per quanto siano dense e nere le nuvole sul nostro capo, il cielo lassù in cima sarà perennemente azzurro, ma la pioggia, la grandine e i fulmini è sempre quaggiù che vengono, davvero non si sa cosa pensare quando bisogna farsi capire con scienze di questo genere. La mano di Marçal si è subito ritirata, fra gli uomini è questa l’abitudine, le dimostrazioni di affetto, per essere virili, devono essere rapide, istantanee, qualcuno sostiene che sia per il pudore mascolino, forse, ma bisogna riconoscere che molto più da uomo, nell’accezione completa del termine, sarebbe stato, e di certo non meno virile, se Cipriano Algor avesse fermato il furgone per abbracciare lì stesso il genero e ringraziarlo del gesto con le uniche parole meritevoli, Grazie per aver posato la tua mano sulla mia, ecco cosa avrebbe dovuto dire, e non approfittare della serietà del momento per lamentarsi dell’ultimatum che gli è stato imposto dal capo dell’ufficio acquisti, Pensa, mi ha dato quindici giorni per portar via tutte le stoviglie, Quindici giorni, Proprio così, quindici giorni, e senza nessuno che mi aiuti, Mi spiace di non potervi dare una mano, Chiaro che non puoi, non hai tempo né sarebbe conveniente per la tua carriera se ti vedessero fare il facchino, e il peggio è che non so proprio come farò a liberarmi di quei cocci che non vuole più nessuno, Potrete ancora cercare di vendere un po’ di stoviglie, Per questo ce n’è d’avanzo con quelle che abbiamo alla fornace, In tal caso, sembra davvero complicato, Poi vedrò, forse le lascerò qui, per la strada, La polizia non lo permetterà, Se questo attrezzo, invece che un furgone, fosse uno di quei camioncini col ribaltabile, sarebbe facilissimo, un bottoncino elettrico e via, in meno di un minuto sarebbe tutto nella cunetta, Sfuggireste un paio di volte alla polizia stradale, ma finirebbero per cogliervi in flagrante, Altra soluzione sarebbe di trovare un fosso in campagna, non dovrebbe essere neanche molto profondo, e ficcarci tutto dentro, pensa che divertimento sarebbe assistere, fra mille o duemila anni, ai dibattiti degli archeologi e degli antropologi sull’origine e le ragioni della presenza di una tale quantità di piatti, boccali e pentole di terracotta, e la loro problematica utilità, in un posto disabitato come questo, Disabitato adesso, fra mille o duemila anni non è affatto impossibile che la città sarà arrivata nel punto in cui ci troviamo in questo momento, osservò Marçal. Fece una pausa, come se le parole che aveva appena pronunciato gli avessero richiesto di ripensarci, e, con il tono perplesso di chi, senza capire come c’era riuscito, è arrivato a una conclusione logicamente impeccabile, soggiunse, O il Centro. Orbene, sapendo che, nella vita di questo suocero e di questo genero, l’infelice questione del Centro sarà stata tutto tranne che pacifica, c’è da stupirsi che le conseguenze dell’inattesa allusione del guardiano interno Marçal Gacho si fossero fermate lì, che la pericolosa frase O il Centro non avesse fatto riscoppiare immediatamente una nuova discussione, con la ripetizione di tutti i già noti malintesi e la stessa litania di recriminazioni sorde o esplicite. La ragione per cui entrambi sono rimasti in silenzio, supponendo che sia possibile per chi, come noi, osserva dal di fuori, svelare ciò che, con ogni probabilità, non era chiaro neanche per loro, sarà stata il fatto che quelle parole costituivano, sulla bocca di Marçal, soprattutto tenendo conto del contesto in cui sono state pronunciate, una novità assoluta. Si dirà che non è così, che, al contrario, nell’ammettere la possibilità che il Centro potesse far scomparire in un futuro, per inarrestabile assorbimento territoriale, i campi che il furgone sta ora attraversando, il guardiano interno Marçal Gacho sta forse sottolineando, in cuor suo, e applaudendo nel proprio intimo, la potenza espansiva, sia nello spazio che nel tempo, dell’impresa che gli paga i modesti servizi. L’interpretazione sarebbe valida e sistemerebbe definitivamente la questione se non ci fosse stata quella pausa quasi impercettibile, se quell’istante di apparente interruzione del pensiero non corrispondesse, sia concessa l’audacia della proposta, alla comparsa di qualcuno semplicemente in grado di pensare altrimenti. Se è andata così, è facile da capire che Marçal Gacho non abbia potuto procedere sul cammino che gli si è aperto davanti, visto che tale cammino era destinato a una persona che non era lui. Quanto al vasaio, questi ha già vissuto anni in numero più che sufficiente per sapere che la maniera migliore di far morire una rosa è di aprirla a forza quando ancora è soltanto una piccola promessa in bocciolo. Serbò di conseguenza nella memoria le parole del genero e fece finta di non essersi accorto della loro reale portata. Non parlarono più fino a quando non entrarono nell’abitato. Come al solito quando riportava a casa dal Centro il genero, Cipriano Algor si fermò davanti alla porta dei suoi discordi consuoceri, giusto il tempo che Marçal entrasse, desse un bacio alla madre, e al padre, se era in casa, s’informasse di come erano stati in salute dalla volta scorsa e uscisse dopo aver detto, Domani passerò con più calma. In genere, arrivavano e ci volevano cinque minuti perché la routine del sentimento filiale si compisse, il resto delle espansioni e l’essenziale dei discorsi si rimandavano all’indomani, a volte pranzando, altre no, ma quasi sempre senza la compagnia di Marta. Oggi, però, i cinque minuti non sono bastati, né i dieci, e furono quasi venti quelli che dovettero trascorrere prima che Marçal ricomparisse. Entrò nel furgone bruscamente e chiuse lo sportello con forza. Aveva la faccia seria, quasi cupa, un’espressione indurita da adulto per cui la giovanilità dei suoi lineamenti non era ancora pronta. Ti sei trattenuto molto, oggi, c’è qualcuno che sta male, qualche problema in famiglia, domandò il suocero, sollecito, No, non è niente di grave, scusatemi se vi ho costretto ad aspettare tanto, Sei un po’ scocciato, Non è niente di grave, ve l’ho detto, non vi preoccupate. Stanno quasi per arrivare, il furgone ha svoltato a sinistra per iniziare la strada in salita che conduce alla fornace, nel cambiare marcia a Cipriano Algor viene in mente che è passato vicino a dove abita Isaura Estudiosa senza averci pensato, ed è in questo momento che da lassù arriva un cane correndo e abbaiando, seconda sorpresa odierna di Marçal, o terza, se la visita ai genitori è risultata la seconda. Da dov’è uscito questo cane, domandò, È comparso qualche giorno fa e lo abbiamo fatto restare, è una bestia simpatica, lo abbiamo chiamato Trovato, anche se, a pensarci bene, i trovati siamo stati noi, e non lui. Quando il furgone arrivò alla fine della salita e si fermò, un certo numero di cose successero simultaneamente, o con intervalli di tempo minimi, Marta si affacciò alla porta della cucina, il vasaio e il guardiano interno scesero dall’auto, Trovato ringhiò, Marta andò incontro a Marçal, Marçal andò incontro a Marta, il cane ringhiò sordamente, il marito abbracciò la moglie, la moglie abbracciò il marito, poi si baciarono, il cane smise di ringhiare e attaccò uno stivale di Marçal, Marçal scosse la gamba, il cane non mollò la presa, Marta urlò, Trovato, il padre urlò pure lui, il cane mollò lo stivale e tentò con la caviglia, Marçal gli diede un calcio deciso ma senza troppa violenza, Marta disse, Non lo picchiare, Marçal protestò, Mi ha morso, Perché non ti conosce, A me non mi conoscono neanche i cani, queste parole terribili uscirono dalla bocca di Marçal come se piangessero, pena e gemito insopportabili ciascuna di esse, Marta buttò le braccia al collo del marito, Non ripeterlo, e chiaramente lui non lo ripeté, né del resto c’era bisogno, certe cose si arriva a dirle una volta e mai più, queste parole Marta le udrà nella sua testa fino all’ultimo giorno di vita, e quanto a Cipriano Algor, se pretendessimo di sapere cosa sta facendo in questo momento, la risposta più facile sarebbe, Niente, se non fosse per la rivelatrice circostanza che lui ha sviato rapidamente lo sguardo quando ha sentito ciò che ha detto Marçal, e quindi qualcosa l’ha fatta. Il cane si era allontanato in direzione del casotto, ma a metà strada si fermò, si voltò e rimase a guardare. Di tanto in tanto si faceva scappare una ringhiata di gola. Marta disse, Non sa cosa sono gli abbracci, avrà pensato che mi stavi facendo del male, ma Cipriano Algor, per alleggerire l’atmosfera, intervenne con un’idea più banale, Potrebbe anche darsi che lui sia incompatibile con le uniformi, ce ne sono tanti di casi del genere. Marçal non rispose, si muoveva fra due coscienze intime, quella del pentimento di aver pronunciato parole che sarebbero rimaste ora e per sempre come la confessione pubblica di un dispiacere nascosto fino a questo momento nel più profondo di se stesso, e quella di una istintiva intuizione che averle lasciate uscire così poteva forse significare che era arrivato al punto di abbandonare un cammino per imboccarne un altro, anche se era ancora molto presto per sapere in quale direzione quest’ultimo lo avrebbe condotto. Baciò Marta sulla fronte e disse, Vado a cambiarmi. Il pomeriggio trascorreva rapidamente, in poco più di mezz’ora sarebbe stata sera. Cipriano Algor disse alla figlia, Ho poi parlato con il tizio degli acquisti, Per via della sciocchezza del cane, mi stavo quasi per dimenticare di domandare com’è andata la conversazione, Mi ha detto che forse domani darà una risposta, Così in fretta, Si stenta a crederci, veramente, e ancor più si stenterà a pensare che la decisione può essere positiva, per lo meno è quanto mi è parso di capire, Speriamo non vi sbagliate, L’unica bella senza ma che conosco sei tu, Cosa vuoi dire, cosa c’entrano le belle e i ma, È che dopo una buona notizia ne viene sempre una cattiva, E qual è adesso, Dovrò ritirare entro due settimane le stoviglie che hanno in deposito, Verrò con voi ad aiutarvi, Neanche per sogno, se il Centro ci farà l’ordinazione, il tempo sarà poco, bisogna modellare le statuine definitive, preparare gli stampi, lavorare alla modellatura, dipingere, caricare e scaricare il forno, vorrei consegnare il primo ordine prima di svuotare le scaffalature del magazzino, non sia mai che il tizio cambi idea, E cosa ne faremo di tutte quelle stoviglie, Non ti preoccupare, ho già combinato con Marçal, le lascerò in mezzo alla campagna, in qualche buca, se qualcuno ne ha voglia se ne serva pure, Con tanti trasferimenti, la maggior parte si romperà, Non c’è dubbio. Il cane si avvicinò e sfiorò con il naso la mano di Marta, sembrava stesse chiedendo spiegazioni sulla nuova composizione del nucleo familiare, come un tempo si usava dire. Marta lo rimproverò, Vedremo come ti comporterai d’ora in avanti, stai pur certo che fra te e il marito, scelgo il marito. L’ultima ombra del gelso nero si riduceva a poco a poco per cominciare a svanire nell’ombra più profonda della notte che si approssimava. Cipriano Algor mormorò, Bisogna fare attenzione con Marçal, quello che ha detto poco fa è stato come una coltellata, e Marta rispose, anche lei mormorando, È stata una coltellata, ha fatto molto male. Il lampione sopra la porta si accese. Marçal Gacho comparve sulla soglia, aveva cambiato l’uniforme con abiti comuni, da casa. Il cane Trovato lo guardò con attenzione, a testa alta avanzò di qualche passo verso di lui, poi si bloccò, in attesa. Marçal si avvicinò, Pace fatta, domandò. Il naso freddo andò a sfiorare lievemente la cicatrice della mano sinistra, Pace fatta. Disse il vasaio, Ecco, avevo ragione io, al nostro Trovato non piacciono le divise, Nella vita è tutto una divisa, e il corpo è civile veramente solo quando è spogliato, rispose Marçal, ma non si avvertiva più l’amarezza nella sua voce.


Durante la cena si conversò a lungo su come era venuta a Marta l’idea di fare le statuine, anche sui dubbi, i timori e le speranze che avevano agitato la casa e la fornace in quegli ultimi giorni, e, passando a problemi pratici, si calcolarono i tempi necessari a ciascuna fase della produzione, nonché i relativi fattori di sicurezza, differenti sia gli uni che gli altri dagli artefatti cui erano abituati, Tutto dipende dalla quantità che ci verrà commissionata, converrebbe piuttosto che non fosse né di più né di meno, sarebbe il sole per l’aia e la pioggia per il campo di rape, come quando non esistevano le serre di plastica, commentò Cipriano Algor. Dopo avere sparecchiato, Marta mostrò al marito i bozzetti che aveva fatto, i tentativi, le prove di colore, la vecchia enciclopedia da cui aveva copiato i modelli, all’apparenza sembrava pochissimo lavoro per delle ansie così grandi, ma bisogna comprendere che nelle circumnavigazioni della vita una brezza amena per alcuni può essere per altri una tempesta mortale, tutto dipende dalla stazza dell’imbarcazione e dallo stato delle vele. Nella stanza, con la porta chiusa, Marçal pensò che non valesse la pena star lì a chiedere a Marta spiegazioni sul fatto che non lo avesse informato sull’idea delle statuine, in primo luogo perché quell’acqua era passata sotto il ponte ormai da ore e quindi aveva trascinato via con sé nella corrente il dispetto e il malumore, in secondo luogo perché lo turbavano preoccupazioni molto più serie che non il sentirsi o immaginarsi offeso. Preoccupazioni più serie e non meno urgenti. Quando un uomo ritorna a casa e dalla moglie dopo una privazione di dieci giorni, se è giovane come lo è Marçal, o, casomai più vecchio, se l’età non è ancora riuscita ad afflosciare lo slancio amatorio, è naturale che voglia dare immediata soddisfazione al fremere dei sensi, rimandando a dopo le chiacchiere. Le donne, in genere, non sono d’accordo. Se il tempo non preme in particolare, se, al contrario, La notte è nostra, e quando si dice notte, si dice pomeriggio o mattina, è quasi certo che la donna preferisca che l’atto d’amore inizi con una chiacchieratina pacata, senza fretta, e per quanto possibile estranea a quell’idea fissa che, tale e quale a una trottola ronzante, rigira nella testa dell’uomo. Come una profonda brocca che lentamente si riempie, la donna si avvicina all’uomo a poco a poco, o, forse con più rigorosa esattezza, lasciando che lui le si avvicini, finché l’urgenza dell’uno e l’ansia dell’altra, ormai dichiarate, ormai coincidenti, ormai irrimandabili, facciano affiorare cantando l’unanime acqua. Vi sono alcune eccezioni, però, come nel caso di Marçal che, sia pur volendo attirare Marta verso il letto, non potrebbe farlo finché non avesse vuotato il pesante sacco delle preoccupazioni che trasporta, non dal Centro, non dalla conversazione avuta con il suocero durante il viaggio, ma dalla casa dei genitori. Eppure, anche questa volta la prima parola l’avrebbe detta Marta, È possibile che i cani non ti conoscano, Marçal, ma tua moglie ti conosce, Non voglio parlarne, Dobbiamo parlare di ciò che fa male, Sono stato stupido e ingiusto, Lasciamo perdere lo stupido, perché non lo sei, fermiamoci all’ingiusto, L’ho ammesso, Non sei stato neanche ingiusto, Non complichiamo le cose, Marta, per favore, quello che è stato, è stato, Le cose che sembrano passate sono quelle che non passano mai, gli ingiusti siamo stati noi, Noi, chi, Io e il babbo, soprattutto io, lui ha una figlia sposata e paura di perderla, non avrebbe bisogno di dare altra giustificazione, E tu, Io invece non ho scuse, Perché, Perché ti amo, e a volte, troppe volte, do l’impressione di dimenticare, o forse lo dimentico davvero, che questo mio amore lo devo a una persona concreta, completa nel suo essere, e non a qualcuno che dovrebbe accontentarsi di un sentimento quasi vago che a poco a poco si andrebbe rassegnando, come se si trattasse di un destino inappellabile, alla propria mortale vaghezza, Il matrimonio è questo, le persone vivono in questa maniera, mi basta guardare i miei genitori, Ho anche un’altra colpa, Non continuare, per favore, Arriviamo sino alla fine, Marçal, arriviamoci subito, Per favore, Marta, Non vuoi che continui perché indovini ciò che ho da dire, Ti prego, Quando hai detto che neanche i cani ti conoscono, tu stavi semplicemente dicendo a tua moglie che lei, non solo non ti conosce, ma non ha fatto niente per conoscerti, be’, diciamo quasi niente, Non è vero, tu mi conosci, nessuno mi conosce meglio di te, Solo quanto basta per comprendere il senso delle tue parole, ma in questo non sono stata più intelligente di mio padre, che le ha capite subito come me, Fra noi due, l’adulta sei tu, io non sono altro che un bambino, Forse hai ragione, o almeno stai dando ragione a me, questa meravigliosa adulta che sono, questa assennatissima moglie di Marçal Gacho non è stata capace di cogliere, quando avrebbe dovuto, cosa rappresenta una persona che avrà la semplicità e l’onestà di definirsi un bambino, Non sarò sempre così, Non sarai sempre così, perciò, fintanto che c’è tempo, dovrò fare tutto quanto sarà nelle mie possibilità per comprenderti come sei, e probabilmente giungere alla conclusione che, in te, essere bambino significa, in fin dei conti, un modo diverso di essere adulto, Di questo passo, non saprò più chi sono, Cipriano Algor ti direbbe che questa è una di quelle cose che ci accadono spesso nella vita, Credo di cominciare a intendermi con tuo padre, Non immagini, o forse sì, quanto ciò mi renda felice. Marta prese le mani di Marçal e le baciò, poi se le strinse al petto, A volte, disse, dovremmo recuperare certi antichi gesti di tenerezza, Cosa ne sai tu, non hai vissuto al tempo degli inchini e baciamani, Leggo ciò che raccontano i libri, è come se ci fossi stata, in ogni modo non era a baciamani e inchini che pensavo, Erano abitudini diverse, modi di sentire e di comunicare che non ci appartengono più, Per quanto ti possa sembrare strano il paragone, i gesti, per me, sono piuttosto dei disegni fatti dal corpo di uno sul corpo dell’altro. L’invito era esplicito, ma Marçal fece finta di non aver inteso, benché comprendesse che era giunto il momento di attirare Marta verso di sé, di accarezzarle i capelli, di baciarla lievemente sul viso, sulle palpebre, dolcemente, come se non provasse desiderio, come se fosse solo distratto, sarebbe un grande equivoco pensarla così, ciò che succede in tali occasioni è che il desiderio s’impossessa totalmente del corpo per servirsene, ci si perdoni la similitudine materialista e utilitaristica, come se si trattasse di un attrezzo dall’uso molteplice, altrettanto adatto per scivolare come per arare, altrettanto potente per emettere come per ricevere, altrettanto minuzioso per contare come per misurare, altrettanto attivo per salire come per scendere. Cos’hai, domandò Marta, improvvisamente irresoluta, Niente d’importante, solo qualche piccola seccatura, Problemi di lavoro, No, Allora, cosa, È già tanto poco il tempo che abbiamo per stare insieme, per giunta vengono a intromettersi nella nostra vita, Non viviamo sotto una campana, Sono passato a casa dei miei genitori, Qualche incidente, qualche complicazione. Marçal fece cenno di no con il capo e proseguì, All’inizio si sono mostrati molto interessati a sapere se ho notizia di quando spero di essere promosso guardiano residente, e ho risposto di no, che non ci sono neppure ragioni sicure per affermare che avvenga, Quasi sicuro, lo sei, Sì, quasi sicuro, ma non si sa mai, sino alla fine, Certo, e dopo, Hanno fatto poi una serie di giri, e io lì senza capire dove volevano arrivare, e finalmente mi hanno annunciato la loro grande idea, E quale sarebbe questa grande idea, Né più né meno che stanno pensando di vendere la casa per venire a vivere con noi, Con noi, dove, Al Centro, Ho sentito bene, i tuoi genitori vogliono venire a vivere al Centro, con noi, Proprio così, E tu, cosa gli hai detto, Ho cominciato facendogli notare che era ancora presto per pensarci, ma loro mi hanno risposto che anche vendere una casa non è cosa da farsi su due piedi, che non avrebbero certo cominciato a cercare un acquirente dopo che noi, tu e io, fossimo già installati, E tu cos’hai detto, Pensando di concludere l’argomento, gli ho detto che intendevamo portare con noi tuo padre quando ci fossimo trasferiti, per non farlo rimanere qui da solo, tanto più che la fornace è in un momento di crisi, Gli hai detto questo, Sì, ma non mi hanno dato retta, per poco non si sono messi a urlare, a piangere, parlo di mia madre, chiaro, mio padre non ama i sentimentalismi, lui invece si è messo a protestare e imprecare, che razza di figlio sono io che antepongo le convenienze di persone che non sono del mio stesso sangue alle necessità dei miei progenitori, hanno detto proprio progenitori, non so dove siano andati a pescare questa parola, che non avrebbero mai potuto immaginare di dover udire un giorno dalla mia bocca che rinnego coloro a cui devo la vita, coloro che mi hanno allevato ed educato, che è proprio vero, moglie vuol dire doglie, ma il disprezzo proprio non erano disposti ad ammetterlo, che comunque non era il caso mi arrabbiassi, per il momento non avevano ancora bisogno di andare a chiedere l’elemosina per la strada, ma che non dovevo dimenticarmi che il rimorso finisce sempre per arrivare, e se non viene nel corso della vita, verrà dopo la morte, e quello è ancora peggio, e voglia il cielo che io non abbia dei figli che mi castighino per la mancanza d’umanità con cui oggi tratto i miei genitori, È stata questa l’ultima frase, Non so se è stata l’ultima, me ne sarò dimenticata qualcuna, più o meno dello stesso tono, Avresti dovuto spiegargli che non vale la pena preoccuparsi, sai bene che mio padre non vuole venire a vivere al Centro, Sì, ma ho preferito non farlo, Perché, Sarebbe stato come dargli modo di pensare che sono gli unici in gioco, Se insistono, non avrai altro rimedio, Basterà non accettare la promozione, dovrò solo trovare una ragione per riuscire a convincere il Centro, Dubito che la troverai. Erano seduti sul letto, potevano sfiorarsi, ma il momento delle carezze era passato, sembrava essere talmente lontano come il tempo del baciamano e della riverenza, oppure come quell’altro momento in cui due mani d’uomo sono state baciate, e subito dopo accostate al seno della donna. Marçal disse, So che non è bene che un figlio faccia una dichiarazione del genere, ma la verità è che con i miei genitori non ci voglio vivere, Perché, Non ci siamo mai capiti, né io ho capito loro, né loro me, Sono i tuoi genitori, Sì, sono i miei genitori, quella notte sono andati a letto e ne hanno avuto voglia, per questo sono nato, quando ero piccolo rammento di averli uditi commentare, come se si divertissero a raccontare un buon aneddoto, che lui, quella notte, era ubriaco, Con vino o senza vino, nasciamo tutti così, Riconosco che è un’esagerazione, ma mi ripugna pensare che mio padre fosse ubriaco quando mi ha generato, è come se fossi figlio di un altro uomo, è come se quello che sarebbe dovuto essere realmente mio padre, non avesse potuto esserlo, come se il suo posto fosse stato occupato da un altro, quest’uomo a cui oggi ho sentito dire che voglia il cielo che vengano i miei figli a castigarmi, Non è esattamente così che si è espresso, Ma è esattamente questo che ha pensato. Marta prese la mano sinistra di Marçal, la strinse fra le sue e mormorò, Tutti i genitori sono stati figli, molti figli diventano genitori, ma alcuni hanno dimenticato ciò che erano, e ad altri non c’è nessuno che possa spiegargli cosa saranno, Non è facile da capire, Non lo capisco neanch’io, mi è venuto così, non badarci, Andiamo a letto, Sì, andiamo. Si spogliarono e si coricarono. Il momento delle carezze rientrò nella stanza, domandò scusa se si era trattenuto fuori così a lungo, Non trovavo la strada, si giustificò, e, all’improvviso, come a volte accade ai momenti, divenne eterno. Un quarto d’ora dopo, con i corpi ancora avvinghiati, Marta mormorò, Marçal, Cosa c’è, domandò lui, sonnolento, Ho due giorni di ritardo.

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