SPARARE A UNA COLOMBA
David Grossman
[...] In un certo senso, si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no.[...]
Il colombo viaggiatore della Shoah
Discorso tenuto in occasione
del ricevimento della laurea honoris causa
dell’Università di Firenze, 28 gennaio 2008
Shalom, buon giorno.
Rettore magnifico, autorità, preside, professori, gentili ospiti, ambasciatore d’Israele e soprattutto cari amici, grazie di essere venuti.
Prima di tutto vi ringrazio del grande onore che mi concedete oggi. Vi ringrazio per come leggete i miei libri e mi date forza nel cammino che perseguo. Non c’è soddisfazione più grande di questa per uno scrittore. Qui oggi vorrei parlare di cose sulle quali ho scritto molto, che vivo incessantemente in qualità di ebreo, di israeliano e di scrittore. Cose che toccano la ferita aperta tra gli ebrei e gli altri popoli del mondo, soprattutto quelli europei.
Oggi ricorre la Giornata internazionale della memoria. Sei milioni di ebrei morirono in Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell’umanità e dopo il quale l’umanità non fu più la stessa. Ecco alcuni interrogativi che la Giornata della memoria risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah inteso come avvenimento dal valore universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo e autentico, oppure, con l’andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale? Di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all’anno agli ebrei e ai patimenti da loro subiti durante la Shoah? E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l’incisività e l’attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno per noi ancora oggi, soprattutto oggi?
Questi interrogativi concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo; concernono l’indifferenza che il mondo mostra, di volta in volta, verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo i suddetti interrogativi trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano? In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale d’avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita?
A causa del poco tempo a disposizione vorrei parlare solo di un determinato aspetto della memoria della Shoah e di come, a mio parere, sia possibile rivitalizzare il dibattito intorno a essa e renderlo più rilevante nella vita di ciascuno di noi. Quanto più ci allontaniamo dall’epoca degli avvenimenti, quanto più il numero dei sopravvissuti diminuisce, tanto più cresce il timore che il dibattito sulla Shoah rimanga circoscritto a un ambito accademico, astratto, e perda gradualmente il legame con una dimensione umana, individuale, privata. Apparentemente, questo è un processo naturale. Coloro che ricordano si allontanano dalla sofferenza personale delle vittime a favore di una prospettiva storica più ampia, generale, teorica. In un certo senso, è più facile e persino comodo occuparsi di un evento storico traumatico con gli strumenti del pensiero astratto e del dibattito concettuale, piuttosto che esporsi di volta in volta alle atrocità, all’insopportabile sofferenza del singolo, dell’individuo, dell’uomo, della donna e del bambino vittime di quel trauma. Noi ebrei non abbiamo altra scelta che toccare direttamente con mano la Shoah in quasi ogni circostanza o congiuntura significativa della nostra vita. La Shoah ha elaborato in noi schemi di pensiero e di condotta ravvisabili in quasi ogni ambito della nostra esistenza. Dal modo in cui alleviamo e educhiamo i figli a quello in cui lo Stato di Israele affronta i problemi di sicurezza e di politica estera. Ma la Shoah è più che altro presente nel modo occulto, tragico, con cui gli israeliani e gli ebrei percepiscono la loro esistenza in quanto popolo, la loro diversità, l’agghiacciante peculiarità del loro destino, la loro estraneità tra gli altri popoli. Nell’esperienza della loro esistenza, che appare immancabilmente fragile, incerta, sempre in bilico e sulla quale incombe l’ombra di una qualche minaccia. Mentre altri popoli possono, con relativa facilità, evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoah, e dunque sfuggire a un dibattito profondo che le concerne, noi ebrei siamo condannati a dibatterle ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell’angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi, che la Shoah ha lasciato impressi in noi. In un certo senso, si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no.
Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica. Ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.
Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni Trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Mińsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove operò come “assistente sociale” tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch’ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.
Leib ed Ester, insieme alla sorella minore di quest’ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna il cui soprannome era “Ciotka”, zia in polacco, un’anziana prostituta cordiale e piena di vita. Affidarono a degli amici i risparmi che avevano messo da parte negli anni anteriori alla guerra e di tanto in tanto mandavano da loro Ciotka, affinché venisse pagata, continuasse a tenerli con sé e si occupasse della loro sopravvivenza. Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete, a poca distanza dal muro originario, che creava un nascondiglio. Leib, sua moglie e sua cognata vissero in quell’intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, che era tenuto prigioniero in un campo dei dintorni, e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo, corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.
Ciotka si mise in viaggio ma, strada facendo, bevve un po’, divenne allegra, passò accanto a una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim. Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.
Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo, il quale, per quanto non fosse un loro amico stretto, possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non ci fossero quasi più ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica. (A volte penso: tre ebrei vivevano dietro una parete, ignari di ciò che avveniva nel mondo, eppure decisero di salvare qualcuno in grado di tramandare l’ebraismo. Questa fu la loro considerazione, a quell’epoca.) Così fecero arrivare Efraim, e dopo di lui un altro ebreo, più anziano di tutti loro. Ora erano in cinque. Il vano creato tra le pareti era largo pochi centimetri. Di notte uscivano strisciando dall’intercapedine e dormivano sul pavimento del salotto di Ciotka. La mattina, prima che il sole si levasse, rientravano strisciando attraverso un pertugio nascosto dietro un letto, si infilavano tra le due pareti e rimanevano lì, in piedi. Cinque persone, schiena contro schiena, faccia contro faccia. A causa della mancanza di spazio, non potevano girarsi né muoversi. Non potevano vedere nulla. Tra le pareti regnava l’oscurità. Restavano in piedi fino al calare della notte. Di tanto in tanto da Ciotka arrivavano degli ospiti e i cinque ascoltavano i loro discorsi. La sorella di Ester, che aveva diciotto anni, nell’udire Ciotka dare consigli alle ragazze su argomenti intimi era colta da scoppi di ilarità. Ed Efraim, che era allergico alla polvere, a volte starnutiva così forte che tutti temevano di essere scoperti da chi si trovava al di là della finta parete.
Vissero così per due anni. Per un certo periodo si trasferirono in una buca scavata sotto una stalla, da cui non uscivano nemmeno di notte. La maggior parte del tempo, però, la trascorrevano fra le due pareti. In piedi. In silenzio. Ciotka portava loro del cibo e dei vasi da notte in cui fare i propri bisogni, ma Leib e i suoi compagni diventavano sempre più deboli, si ammalarono gravemente e non poterono ricevere cure. Da dietro la parete sentivano talvolta le voci di ebrei perseguitati che arrivavano in quella casa a chiedere un tozzo di pane. Un giorno giunsero due bambini, e dopo di loro una vedova. Un poco alla volta, però, queste persone smisero di arrivare e a quel punto Leib, Ester e i loro compagni erano ormai sicuri di essere gli ultimi ebrei rimasti al mondo, e che tutti gli altri, a eccezione di loro, fossero stati uccisi. Scavando nella memoria, i tre uomini tentarono di ricomporre un breviario di preghiere, di ricostruire un calendario ebraico. Quando giunse il giorno in cui, secondo i loro calcoli, cadeva lo Yom Kippur, digiunarono. E quando, in base alle loro supposizioni, arrivò la Pasqua, si astennero dal mangiare cibo lievitato per una settimana.
Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando finalmente poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. Cinque ebrei pressoché nudi. Gli abiti che indossavano si erano logorati in quei due anni. Attraversarono i villaggi intorno a Lublino. Bussarono a porte. Supplicarono per un tozzo di pane, per un po’ d’acqua. Nessuno aprì. Nessuno diede loro né pane né acqua. Ovunque andassero, la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: “Ma come? Sono rimasti così tanti ebrei?”.
Una volta trovarono rifugio in un campo di prigionieri vuoto, il cui recinto era stato sfondato, e vi trascorsero la notte. C’erano giacigli e tavolacci e su quelli dormirono. La mattina, al loro risveglio, scoprirono di essere nel campo di concentramento di Majdanek, liberato un paio di giorni prima dai russi, e di aver dormito sui letti dei prigionieri. Alla luce del giorno, gironzolarono per il campo e all’improvviso scoprirono la Shoah.
Non sapevano esattamente che cosa fosse avvenuto negli ultimi due anni e ora vedevano davanti a sé mucchi di cadaveri e cumuli di cenere delle persone che erano state bruciate. Non riuscivano a crederci: tutto era lì, sotto i loro occhi, eppure non riuscivano a capacitarsi che fosse successo veramente, che una cosa simile fosse stata possibile. A quel punto si imbatterono in un gruppo di ufficiali e di guardie del campo catturati dai russi. I tedeschi, prigionieri, stavano seduti al centro, accerchiati dai soldati dell’Armata rossa.
Così, nello stesso giorno, Leib e i suoi compagni videro le vittime e i carnefici. I carnefici in carne e ossa. Non qualcosa di astratto, un qualche simbolo del male. Lì, davanti a loro, c’erano gli assassini che avevano messo in atto il piano della “soluzione finale”. Di colpo, Leib Rochman non fu più in grado di sopportarlo. Corse verso un soldato russo e gli strappò di mano il fucile, con l’intenzione di sparare ai tedeschi. Fermo davanti a loro, prese la mira, ma non riuscì a premere il grilletto. Quasi impazzì, urlò, ma non poté farlo.
Allora gridò, in yiddish: “Aufstein! Fallen!” – “In piedi! A terra!”. I tedeschi, sicuri che quell’uomo stesse per ucciderli, scattarono in piedi e si lasciarono cadere a terra, più volte. Leib capì che non sarebbe riuscito ad ammazzarli. Non sapendo cosa fare, buttò via il fucile, si ritirò in disparte e scoppiò a piangere e, tossendo, per la prima volta sputò sangue. Allora scoprì di essere malato di tubercolosi.
Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero in Terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest’ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia. Leib Rochman divenne giornalista dell’emittente radio israeliana Kol Israel, ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell’animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester.
Ci sono altri milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui si dibattono oggi le grandi “questioni” relative alla Shoah, sempre che avvenga. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoah, sulla crescita del numero dei neonazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell’antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni, la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria – errata e inammissibile, a mio parere – tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoah si fa sempre più accesa. Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, come ho detto, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall’orrore di ciò che avvenne. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito si spegnerebbe lentamente.
Proprio le vicende individuali, private, sono il “luogo” più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che spinge chiunque a porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini?
Ho l’impressione che fino a che non risponderemo a queste domande – ognuno per proprio conto –, fino a che non ci sottoporremo a questo autointerrogatorio, non potremo dire a noi stessi di avere affrontato pienamente ciò che avvenne “lassù”. E se non lo faremo, dimenticheremo.
Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti (e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da Yad vaShem, il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoah, e, nell’ultimo decennio, dall’Archivio Spielberg), più cresce l’importanza dell’arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scultura sono i “luoghi” in cui l’individuo moderno può affrontare la Shoah ed esplorare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere. Stalin disse una volta che la morte di un uomo è una tragedia, quella di milioni è statistica. Grazie all’arte, noi siamo in grado di redimere la tragedia dalla statistica, di riscattarla da una visione astratta, accademica, di studio. L’arte è lo strumento più accessibile e comprensibile con il quale gran parte di noi può oggi venire a contatto direttamente e lucidamente con la memoria della Shoah e con gli insegnamenti che da essa derivano. È una grossa responsabilità per gli artisti presentare le cose in modo immediato, non manipolatorio, sentimentale, volgare o esaltato. È molto difficile penetrare in quelle tenebre, nel luogo dove tutte le bussole impazzirono, e mostrare chiaramente la follia di ciò che avvenne. Mediante l’arte possiamo ravvivare il linguaggio con il quale descrivere ciò che accadde, senza sedimentarci in cliché di parole e di sentimenti intesi a proteggerci da quell’insopportabile sofferenza. Ancora e di nuovo, in un’infinità di varianti, dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri quella storia terribile, con tutte le sue atrocità, ma anche con le sue scintille di luce e di pietà, e di compassione, e di coraggio. Raccontarne i substrati con gli strumenti della coscienza, dell’intelletto, del sentimento. Raccontarla basandoci sulla conoscenza dei fatti storici, facendo riecheggiare gli interrogativi morali, sociali e filosofici che essa risveglia, ma mantenendo sempre un legame con le vicende personali degli esseri umani che la vissero. Ponendo noi stessi “lassù”, al posto loro, con loro. Ancora e di nuovo, dobbiamo tornare lassù, identificarci totalmente con la donna, con l’uomo, con il bambino costretti a spogliarsi gli uni davanti agli altri un attimo prima di essere giustiziati e gettati in una fossa. Tornare a essere con i due bambini ebrei presi prigionieri durante un rastrellamento mentre giocavano a pallone con i loro amici cristiani, e che quando il treno che li trasportava via passò accanto al campo di calcio videro attraverso le fessure del vagone i compagni che continuavano a giocare. Tornare a essere con i residenti del ghetto di Łódź, ai quali i nazisti ordinarono di scegliere ventiquattromila vecchi e bambini che venissero inviati allo sterminio, assicurando però che, se avessero scelto piccoli sotto i dieci anni, quattromila di quei bambini avrebbero potuto essere salvati. Tornare a essere con le due donne e i tre uomini che per giorni e settimane e mesi e anni rimasero in piedi, al buio, tra due pareti.
Il mio modo di tornare a raccontare questa storia è stato scrivendo Vedi alla voce: amore. Scrissi quel libro perché ero arrivato a un momento della mia vita in cui sentivo di non poterne più fare a meno. Di non poter più vivere e comprendere appieno la mia vita di essere umano, di padre, di ebreo, di israeliano e di scrittore fintanto che non avessi sperimentato, grazie alla scrittura, l’esistenza che non avevo avuto “lassù”, all’epoca della Shoah. Dovevo capire se e in che modo sarei stato in grado di mantenere una parvenza umana qualora mi fossi trovato “lassù”, come una delle vittime, o anche, Dio non voglia, come uno dei carnefici. Volevo sapere che cosa un uomo deve cancellare, o rimuovere, dentro di sé per arrivare a essere parte di un meccanismo omicida. In altre parole, che cosa avrei dovuto sopprimere in me stesso per poter sopprimere altri uomini, o anche soltanto accettare quella situazione in silenzio.
È evidente che tali interrogativi sono pertinenti non solo al periodo della Shoah ma anche a situazioni meno estreme. La vita moderna e la società umana costituitasi intorno a noi – aggressiva, anonima, aliena – ci sfidano a porci questi interrogativi in un’infinità di contesti e di circostanze.
Ognuno di noi può rispondervi a proprio modo. Io lo faccio scrivendo: immagino che questo sia il motivo per il quale avete deciso di concedermi oggi questa laurea ad honorem. Prometto che i miei libri continueranno a porre questi interrogativi e cercheranno di dar loro una risposta. Ancora e di nuovo e ancora.
Sempre resistere alle forze contrarie
Discorso tenuto alla cerimonia di consegna
del premio intitolato ai fratelli Sophie e Hans Scholl,
Monaco, 24 novembre 2008
Buona sera.
Innanzitutto vorrei ringraziare il comitato incaricato dell’assegnazione del Premio alla memoria dei fratelli Scholl, i dirigenti dell’Università di Monaco, le autorità cittadine, i miei editori e redattori in Germania, le mie traduttrici, i miei amici arrivati qui stasera da lontano e voi, caro pubblico.
Questo premio mi emoziona in modo particolare e vorrei spiegare perché è tanto importante e significativo per me.
Qualche anno fa un anziano ebreo mi raccontò la seguente storia: un giorno, durante l’occupazione nazista di Vilnius, stava giocando a calcio con alcuni suoi compagni, ebrei e cristiani, nel cortile della scuola. La partita era accanita ed entusiasmante. All’improvviso, in tutta la città gli altoparlanti annunciarono una retata.
Nel giro di pochi istanti, soldati tedeschi fecero irruzione nella scuola e arrestarono i ragazzi ebrei che, un’ora dopo, erano già su un treno che li portava allo sterminio. Il treno transitò in prossimità del cortile della scuola. I ragazzi ebrei sbirciarono dalle fessure del vagone e videro i loro compagni che continuavano a giocare a calcio.
Questo racconto non è particolarmente drammatico. A quei tempi, com’è noto, avvenivano cose ben più terribili. Eppure, da quando l’ho sentito, non ho smesso di pensarci perché, più di qualunque altro, rivela quella capacità umana, tanto ambigua e raffinata, di ignorare ciò che accade intorno a noi. Di non fare i conti con la propria coscienza. Di chiudere gli occhi e di andare avanti per la propria strada come se nulla fosse.
Signore e signori,
oggi mi consegnate questo premio prestigioso intitolato a due giovani che presero la decisione più difficile e pericolosa: quella di non chiudere gli occhi, di non andare avanti per la loro strada come se nulla fosse. Al contrario: decisero di vedere tutto. Se ne andarono in giro per il mondo come se avessero strappato loro le palpebre, chiedendo conto alla propria coscienza di ciò che vedevano.
E osarono chiamare le cose per nome: gli omicidi, omicidi, la malvagità, malvagità, la follia, follia. Rifiutarono il lessico e gli schemi di pensiero imposti dalle autorità, dall’esercito, dalla stampa, dal potente apparato di propaganda, dallo spirito del tempo. Durante il loro processo, il presidente del Tribunale del Popolo domandò a quei giovani come giustificassero ciò che avevano fatto e Sophie Scholl, con semplice e limpida ingenuità, rispose: «Qualcuno doveva cominciare, dopotutto».
E loro avevano cominciato. Furono molto coraggiosi. Non so chi fra noi, qui, in questa sala, sarebbe stato capace di fare lo stesso. Non so se io ne sarei stato capace. Se avrei avuto il coraggio di essere così diverso e solo, di mantenermi fedele a me stesso all’interno di una società – di un intero popolo – che pensava e agiva in maniera tanto dissimile dalla mia. Mi piacerebbe crederci, ma mentirei se dicessi che ne sono certo.
Ho scritto Vedi alla voce: amore, un romanzo sulla Shoah, per cercare di rispondere, tra l’altro, proprio a questo interrogativo: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca? Avrei osato – o sarei potuto – rimanere me stesso in un vortice tanto violento, travolgente, totale? Ovviamente, prima di tutto, me lo sono chiesto in quanto ebreo. Nei panni di chi era destinato allo sterminio ed era stato privato di tutto ciò che gli era caro. In che modo avrei cercato – se ne avessi avuto la forza – di serbare la mia indole, la mia scintilla di umanità, in una situazione totalmente programmata per cancellarmi dalla faccia della terra e dalla coscienza?
C’era però un’altra domanda che mi tormentava mentre scrivevo Vedi alla voce: amore. Se fossi stato tedesco, a quel tempo, sarei riuscito a resistere alla prepotente ondata che aveva investito e travolto la quasi totalità del mio popolo? A trovare dentro di me gli anticorpi contro la febbre nazionalista, razzista e violenta che aveva colpito un’intera nazione? A individuare per tempo il momento in cui avrei iniziato a collaborare con meccanismi estremamente sofisticati progettati per far sì che persone normali, equilibrate e dai ragionevoli principi morali rinunciassero gradatamente al libero pensiero, al libero arbitrio, ad avere una volontà propria e ai valori etici in base ai quali avevano vissuto fino a quel momento?
Cari amici,
non è semplice per me parlare della Shoah con dei tedeschi. Quasi sempre ho la sensazione di non riuscire a esprimere con precisione ciò che vorrei. Di essere troppo suscettibile, o di esagerare. Talvolta, invece di esternare il mio dolore personale, mi ritrovo a parlare come un “rappresentante” di qualcosa, o di qualcuno. Sono sospettoso nei confronti di me stesso e bado continuamente a non cadere in qualche involontaria manipolazione emotiva laddove occorre mantenere un rigore assoluto. Sono consapevole di quanto sia preponderante il sentimento di offesa dentro di me quando penso a ciò che è accaduto durante la Shoah. Non provo rabbia, odio, e neppure un desiderio di vendetta; piuttosto, una sensazione di amara offesa per il fatto che cose simili siano state fatte a degli esseri umani.
E so che nulla quanto l’offesa è in grado di cristallizzare in un individuo una sorta di cocente risentimento, che è di per sé umiliante.
Ma ecco che la vicenda di Sophie e Hans Scholl e dei loro compagni del movimento clandestino della Rosa Bianca mi permette (e forse non solo a me) di parlare di ciò che accadde qui, a Monaco, in Germania, in Europa, senza sentirmi intrappolato in quell’offesa.
I fratelli Scholl e i loro compagni crearono una minuscola e audace cellula clandestina in una realtà di cecità, di omertà e di deriva scaturita da un’ondata di pulsioni nazionaliste e razziste. Il loro modo di agire, per quanto raro, dimostra con chiarezza che esiste un margine di libertà di scelta in quasi ogni situazione (benché sia difficile da mettere in pratica) e che anche in un contesto dominato da un sistema totalmente arbitrario ognuno di noi ha la possibilità di definirsi in maniera autonoma, di sottrarsi alla sfera di controllo assoluto di quel sistema.
Il modo in cui gli esseri umani affrontano l’arbitrio e la tirannia ha suscitato il mio interesse da che sono scrittore. In quasi tutti i miei libri c’è un tentativo – o un desiderio – di creare “cellule” semiclandestine di libera scelta, di individualismo, di idiosincrasia nei confronti di una realtà dispotica, coercitiva e alienante. I personaggi che descrivo lottano quasi sempre contro un qualche “meccanismo” rigido, indifferente e insensibile. Contro l’umiliante realtà dell’occupazione militare della Cisgiordania, per esempio, o contro il modo in cui tutti noi impariamo a adattarci a un primo tipo di arbitrio, quello del corpo, per cui la nostra anima – libera, elastica, infinita all’apparenza – è costretta a rassegnarsi a una dimensione fisica e ristretta: alla complessa burocrazia del nostro organismo.
Nei miei libri, e soprattutto nell’ultimo, A un cerbiatto somiglia il mio amore, che sarà pubblicato il prossimo anno in Germania, ho cercato di descrivere, tra le altre cose, la vita odierna in Israele, il pericolo di soccombere alle ansie e alla disperazione causate dal protratto conflitto con i Paesi arabi, e l’immenso sforzo di proteggere la sfera familiare, delicata, intima e vulnerabile, in una realtà tanto brutale e violenta.
Guardando oggi gli israeliani – e anche i palestinesi – è possibile notare come le circostanze arbitrarie in cui sono intrappolati filtrino nelle loro cellule più intime. Da decenni sono imprigionati in un meccanismo quasi automatico di botta e risposta, di disperazione a cui fa seguito una fugace euforia, e tutti noi, israeliani e palestinesi, siamo prigionieri di una situazione in cui, giorno dopo giorno, la nostra libertà decisionale, di pensiero e di azione, si riduce sempre di più.
Io scrivo da trent’anni e, ormai lo so, ogni volta che parlo in maniera dettagliata della lotta di un singolo contro qualunque tipo di arbitrio, scopro che qualcosa in me cambia, si redime. E se insisto a descrivere accuratamente le sensazioni e le sottili sfumature di questa lotta, riformulando con parole mie una situazione che si va via via cristallizzando intorno a me, mi rendo conto di aver percorso un altro millimetro della distanza che mi separa da ciò che in passato mi sembrava irraggiungibile, e immutabile.
Non che scrivendo io abbia trovato un modo migliore di accettare le contraddizioni tra il corpo e l’anima. E nemmeno ho veramente capito come un essere umano possa cancellare se stesso fino a diventare parte di un meccanismo di sterminio. Né tantomeno mi illudo che, raccontando meticolosamente le ingiustizie dell’occupazione militare, questa finisca. Però il mio atteggiamento nei confronti di ciò che sembrava inalterabile cambia. Nel momento in cui comincio a scrivere non sono più paralizzato dinanzi all’arbitrio – qualunque tipo di arbitrio –, e situazioni che mi sembravano eterne, assolute, monolitiche – quasi condanne celesti, o umane – rivelano nuove sfumature. Riesco a muovermi con una certa libertà dinanzi a ciò che in precedenza, per paura o disperazione, mi impietriva. Non sono più una vittima.
E, da ebreo e da israeliano, questa sensazione di non essere più una vittima e di non dover più subire alcun arbitrio è forse il risultato più confortante dopo tutto ciò che ho vissuto e passato in questi ultimi anni.
“Allen Gewalten zum Trotz sich erhalten”a è, com’è noto, un verso di una poesia di Goethe che il padre di Hans Scholl era solito leggergli da bambino. E sono le parole che Hans scrisse a matita su un muro della prigione pochi minuti prima di essere condotto al patibolo.
Anche se Hans e Sophie e i loro compagni furono trucidati dal regime di quell’epoca ecco che, di fatto, non ne furono vittime. In una realtà tirannica e totalitaria, stabilirono le loro regole, le loro norme e i loro valori. In un luogo e in un tempo in cui decine di milioni di persone ruggivano all’unisono “noi”, loro dissero “io”.
Conoscete forse un coraggio e una libertà più grandi di questi?
Vi ringrazio per avermi ritenuto degno di ricevere questo premio.
a. Dalla poesia di J.W. Goethe Feiger Gedanken (Di pensieri ignavi). I versi originali sono: “Allen Gewalten / zum Trutz sich erhalten” (“Sempre resistere / alle forze contrarie”, trad. it. Cento Poesie, Einaudi, Torino 2011).
Combattere l’arbitrio
Discorso tenuto in occasione del conferimento
del Premio per la pace
dell’Associazione librai di Francoforte, 10 ottobre 2010
Signore e signori,
quando cominciai a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore sapevo di voler raccontare la storia di Israele che da più di cent’anni – da ancor prima che diventasse una nazione – si trova in uno stato di guerra. E sapevo che l’avrei raccontata attraverso la storia privata, intima, di una famiglia. Sarete forse d’accordo con me che il vero grande dramma dell’umanità è quello della famiglia. E poiché siamo tutti nati in una famiglia, ognuno di noi è un personaggio di questo dramma. Ai miei occhi, i momenti più salienti della storia non sono avvenuti sui campi di battaglia, in saloni di palazzi o nei parlamenti, bensì in cucine, in camere da letto o nelle camerette dei bambini. In A un cerbiatto somiglia il mio amore ho cercato di mostrare come il conflitto mediorientale si proietti con brutalità sulla fragile e delicata sfera familiare e come, inevitabilmente, ne modifichi il tessuto. Ho tentato di descrivere la lotta che persone intrappolate in questo conflitto, o in un qualunque scontro violento e protratto, devono affrontare per mantenere il sottile e complesso intreccio dei rapporti umani, per serbare sentimenti di tenerezza, sensibilità e compassione, in un contesto difficile e indifferente, nel quale il volto del singolo viene cancellato. Talvolta paragono il tentativo di preservare questi sentimenti nel pieno di una guerra a quello di camminare con una candela in mano durante una violenta tempesta.
Permettetemi ora di condurvi, con una candela in mano, in mezzo a questa violenta tempesta.
Se mi chiedeste che cosa mi auguro per il conflitto israelo-palestinese, la mia risposta, ovviamente, sarebbe che finisca al più presto, che si trovi una soluzione, che regni la pace. Ma forse, allora, insistereste a chiedere: “E se dovesse durare ancora a lungo, quale sarebbe il tuo più grande desiderio?”. Dopo aver provato una fitta di dolore per questa domanda risponderei che, in quel caso, vorrei imparare a non rinchiudermi in me stesso per cercare di proteggermi, ma a essere il più possibile esposto alle atrocità e alle ingiustizie, grandi e piccole, che il conflitto crea e ci presenta ogni giorno. Per me, trovarmi in un confronto tanto prolungato significa soprattutto osservare, tenere gli occhi ben aperti. Non sempre ci riesco, non sempre ho la forza d’animo di farlo, però so per lo meno di dover tentare, per essere consapevole di ciò che succede, di che cosa viene fatto a nome mio e di ciò a cui sto collaborando, malgrado lo disapprovi nella maniera più assoluta. Devo vedere per reagire e dire a me stesso e agli altri ciò che provo. E devo descrivere quegli eventi con parole mie, senza farmi tentare da definizioni e termini che il governo, l’esercito, le mie paure, o persino il nemico, cercano di impormi.
E vorrei ricordare – e spesso è questa la cosa più difficile – che anche chi mi sta di fronte, il nemico che mi odia e vede in me una minaccia alla sua esistenza, è un essere umano che ha una famiglia, dei figli, una propria idea di giustizia, speranze, angosce, paure, limitatezze.
Signore e signori, oggi mi conferite questo prestigioso Premio per la pace, e della pace voglio parlare. È indispensabile parlarne, insistere a parlarne, soprattutto in una realtà come la nostra. È importante praticare una rianimazione costante e intensa alla coscienza spaventata e paralizzata degli israeliani e dei palestinesi per i quali la parola “pace” è quasi un sinonimo di illusione, di visione, se non di trappola mortale.
Dopo cent’anni di guerra, infatti, e decenni di occupazione e di terrorismo, la maggior parte di noi e dei nostri avversari non crede più nella possibilità di una vera pace. Non osa nemmeno immaginare una situazione di pace. È rassegnata al fatto di essere probabilmente costretta a vivere in una spirale infinita di violenza e di morte.
Ma chi ha rinunciato a questa possibilità è già sconfitto, si è autocondannato a una guerra perpetua. E talvolta occorre ricordare – e a maggior ragione su questo autorevole palco – ciò che è ovvio: le due parti, israeliani e palestinesi, hanno il diritto di vivere in tranquillità, liberi da occupazioni, dal terrorismo, dall’odio. Hanno il diritto di guarire dalle ferite provocate da un secolo di guerre e di condurre un’esistenza dignitosa, sia come singoli che come popoli indipendenti in un loro Stato sovrano. E non solo ne hanno il diritto: ne hanno anche bisogno. Un bisogno estremo e vitale.
Non posso dire che cosa si aspettino i palestinesi dalla pace. Non sono autorizzato a sognare per loro. Posso solo augurargli, dal profondo del cuore, che conoscano al più presto un’esistenza di libertà e di sovranità dopo anni di oppressione e di occupazione sotto turchi, inglesi, egiziani, giordani, israeliani; che costruiscano la loro nazione, uno Stato democratico, in cui crescere i figli senza paura, condurre una vita normale, pacifica, e godere di ciò che questa può offrire a qualunque essere umano.
Posso però parlare dei miei desideri e delle mie speranze di israeliano e di ebreo. Ai miei occhi, la parola “pace” non definisce solamente una situazione in cui la guerra, con tutte le sue paure, sarà finalmente finita e Israele manterrà buoni rapporti con i suoi vicini. La vera pace, per Israele, significherà un nuovo modo di essere nel mondo, la possibilità di guarire lentamente dalle distorsioni causate da duemila anni di diaspora, di persecuzioni, di antisemitismo e di demonizzazione. E forse, tra molti anni, se questa fragile pace resisterà, se Israele rafforzerà le basi della propria esistenza e potrà sfruttare appieno il suo grande potenziale umano, spirituale e culturale, anche la sensazione di estraneità esistenziale, di isolamento, che il singolo e il popolo ebreo provano in mezzo agli altri, svanirà.
Con la pace Israele avrà finalmente dei confini, cosa non da poco, soprattutto per un popolo che per gran parte della sua storia è stato disperso in altre nazioni, e molte delle sue tragedie sono scaturite proprio da questo. Pensate: ormai da sessantadue anni Israele non ha confini definiti. Le sue frontiere sono instabili e vengono modificate, ampliate o ridotte, ogni decennio. E, nel nostro mondo, chi non possiede dei confini chiari è paragonabile a chi vive in una casa dove i muri ondeggiano e la terra trema costantemente sotto i suoi piedi. A chi non possiede una vera casa.
Nonostante la sua grande forza militare, Israele non è ancora riuscito a infondere nei suoi cittadini quel senso di naturale serenità che contraddistingue chi è al sicuro nel proprio Paese. Non è riuscito – ed è questa la tragedia – a guarire gli ebrei da un’amarezza di fondo: dal disagio di non sentirsi quasi mai a casa da nessuna parte.
Dopotutto, Israele è stato creato per essere il rifugio del popolo ebraico. Era questo il sogno all’origine della sua creazione. Ma fintanto che non avremo la pace, dei confini definiti e concordati, e non proveremo un vero senso di sicurezza, noi israeliani non avremo la dimora che ci meritiamo e di cui abbiamo bisogno. Non ci sentiremo a nostro agio nel mondo.
Di sicuro ve ne rendete conto: certe parole, pronunciate da un ebreo israeliano in Germania, producono un’eco come in nessun’altra parte del mondo. Ciò di cui parlo, i termini che utilizzo, i palpiti della memoria che risvegliano, provengono dalla ferita della Shoah e lì fanno ritorno. Molto di ciò che avviene in Israele, sia in ambito privato (nei rapporti di un uomo con la famiglia o con gli amici), sia in quello pubblico, politico e militare, intrattiene un dialogo complesso con la Shoah, con il modo con cui questa ha forgiato la coscienza ebraica e israeliana. Anche le cose che dico qui, nella Paulskirche, sede del primo parlamento tedesco democraticamente eletto nel 1848, le mie parole, tornano sempre “lassù” e a quei giorni, come un colombo viaggiatore della Shoah.
Al tempo stesso, però, e senza fare paragoni inaccettabili tra situazioni storiche completamente diverse, ricordo a me stesso che qui, in Germania, si può anche vedere come un popolo sia riuscito a risollevarsi non solo dalla distruzione fisica ma anche dallo sgretolamento di ogni genere di umanità, dal superamento di ogni limite e remora, impegnandosi a rispettare valori etici e democratici e a educare i giovani all’idea della pace.
Ma torniamo alla realtà del Medio Oriente: solo la pace potrà curare Israele dal profondo timore che palpita nei cuori dei suoi cittadini circa il futuro del loro Paese e dei loro figli. Credo che non ci sia nessun altro Stato al mondo che vive in preda a una tale ansia esistenziale. Quando voi leggete sul giornale che la Germania ha grandi progetti per il 2030, la cosa vi sembra logica e naturale, mentre nessun israeliano farebbe progetti così a lungo termine. Se penso a Israele nel 2030 provo una stretta al cuore, come se avessi profanato un qualche tabù concedendomi di immaginare un futuro tanto lontano...
Solo la pace darà a Israele una casa, un domani, generazioni future. E solo la pace permetterà a noi israeliani di vivere in una situazione, o di provare una sensazione, mai sperimentata prima: quella di un’esistenza stabile.
Chi è stato esiliato, deportato, perseguitato, cacciato ripetutamente per gran parte della sua storia, chi ha errato, sospeso tra la vita e la morte, per migliaia di anni, può solo aspirare a un’esistenza stabile e sicura nella propria patria, alla sensazione di essere un popolo radicato nella propria terra con confini protetti e riconosciuti dalla comunità internazionale, accettato dai vicini, in buoni rapporti con loro, integrato nel tessuto delle loro vite, con la prospettiva di un futuro e finalmente a casa nel mondo.
Eccomi qui a parlarvi della pace. È strano. Io che non ho mai conosciuto un solo istante di vera pace, vengo a parlarne a voi? Eppure ritengo che a darmi il diritto di farlo sia proprio ciò che conosco della guerra. Già da molti anni la mia vita e i miei libri si dipanano in un miscuglio di scontri, timori delle loro conseguenze, ansia per Israele e per i miei cari, lotta per avere una vita privata, intima, non eroica, in una situazione spesso monopolizzata dal conflitto, dalla tempesta, dalla candela.
E più conosco la distruzione e la devastazione di una vita in uno stato di guerra, più sento il bisogno di scrivere, di creare, come se così facendo potessi rivendicare il mio diritto all’individualità, a dire “io” anziché “noi”.
La guerra, per sua natura, cancella le sfumature che fanno sì che un individuo sia unico, annulla la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano. E con la stessa violenza rinnega la somiglianza fra gli esseri umani, le cose che ci rendono uguali, il nostro comune destino.
La letteratura – non solo scrivere libri, ma anche leggerli – è l’opposto di tutto ciò. È la totale dedizione all’individuo, al suo diritto di essere, al destino che condivide con l’intera umanità. La letteratura è la stupefazione per l’uomo, per la sua complessità, per la sua ricchezza, per le sue ombre.
Quando scrivo, cerco con tutte le mie forze di redimere ogni personaggio dalla morsa dell’estraneità, della banalità, degli stereotipi, dei cliché, dei pregiudizi. Talvolta lotto per anni per cercare di capire ogni aspetto di una figura umana, per essere lei.
C’è un che di tenero, quasi materno, nel modo in cui uno scrittore cerca di percepire con tutti i suoi sensi i sentimenti e le emozioni dei personaggi che crea. C’è un che di vulnerabile e di candido nella sua disponibilità a dedicarsi senza difese alle figure di cui scrive. E forse è questo il grande dono che può offrire la letteratura a chi vive in uno stato di guerra, di alienazione, di discriminazione, di povertà e di esilio, con la sensazione che il suo “io” venga continuamente calpestato: la capacità di restituirci un volto umano.
Signore e signori, ho esordito parlando di come ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore. Forse sapete che il romanzo narra di un soldato israeliano che parte per la guerra e della madre che, in ansia per il figlio, fugge di casa perché la comunicazione della sua morte non la raggiunga.
Tre anni e tre mesi dopo avere cominciato la stesura del libro, in seguito a un improvviso attacco di Hezbollah a una pattuglia israeliana in ricognizione dentro i confini di Israele, scoppiò la seconda guerra del Libano.
La sera di sabato 12 agosto 2006, poche ore prima del cessate il fuoco, mio figlio Uri, che faceva parte dell’equipaggio di un carro armato, fu colpito da un razzo di Hezbollah e rimase ucciso insieme ai suoi tre compagni.
Dirò solo questo: pensate a un ragazzo che si affaccia alla vita con tutte le speranze, l’entusiasmo, la gioia di vivere, l’ingenuità, l’umorismo e i desideri di un giovane uomo. Così era Uri. Così erano le migliaia di israeliani, palestinesi, libanesi, siriani, giordani ed egiziani che hanno perso e continuano a perdere la vita in questo conflitto. Al termine della settimana del lutto ripresi a scrivere.
Quando a un uomo capita una tragedia, una delle sensazioni più forti che prova è quella di sentirsi esiliato da tutto ciò in cui credeva e di cui era certo, dalla storia della sua vita. All’improvviso niente è più scontato.
Per me, tornare a scrivere è stato un atto istintivo. Avevo la sensazione che così facendo sarei potuto, in un certo senso, tornare dall’esilio.
Mi rimisi a scrivere. Ripresi in mano quella storia che, stranamente, era uno dei pochi aspetti della mia vita che ancora riuscivo a capire. Mi misi a tavolino e cominciai a riannodare i fili lacerati della trama. Dopo qualche settimana tornai ad assaporare, per la prima volta, e con un certo stupore, il piacere di creare. Mi ritrovai a cercare per ore una parola che descrivesse con esattezza un determinato sentimento. Sapevo di non potermi accontentare di un termine che non rispecchiasse fedelmente ciò che intendevo esprimere, e a tratti mi meravigliavo che qualcosa di così piccolo attirasse tanto la mia attenzione, quando tutto intorno a me era crollato. Ma non appena trovavo quella parola, avvertivo una soddisfazione che pensavo non avrei mai più assaporato in vita mia: quella di fare qualcosa di giusto in un mondo tanto caotico. Talvolta mi sentivo come chi, dopo un terremoto, esce dalle macerie della propria casa, si guarda intorno, e comincia ad accatastare un mattone sull’altro.
E mentre scrivevo a poco a poco riaffiorava in me il piacere di immaginare, di inventare, lo stimolo del gioco e della scoperta che palpitano in ogni creazione. Ideavo personaggi, soffiavo in loro la vita, il calore e la fantasia che non credevo più di avere in me. Davo loro una realtà, una quotidianità. Ritrovavo il desiderio di toccare tutte le sfumature di un sentimento, di una situazione, di un rapporto. E non temevo il dolore che talvolta tutto questo implica.
Riscoprivo che scrivere, per me, è il modo migliore di combattere l’arbitrio – qualunque tipo di arbitrio – e la sensazione di essere una vittima impotente. E ho imparato che in certe situazioni l’unica libertà che un uomo ha è quella di descrivere con parole sue il proprio destino. Talvolta è un modo per non essere più una vittima. E questo è vero sia per il singolo che per le comunità, per i popoli.
Mi auguro che il mio Paese, Israele, trovi la forza di riscrivere la propria storia. Di porsi in maniera nuova e coraggiosa dinanzi al suo tragico passato e di rinascere da esso. Mi auguro che tutti noi troveremo la forza necessaria per distinguere i veri pericoli dai potenti echi delle sciagure e delle tragedie che ci hanno colpito in passato, per non essere più vittime dei nostri nemici o delle nostre angosce e per arrivare, finalmente, a casa.
Grazie e shalom.
Gettare un’àncora nel futuro. Riflessioni sulla libertà
Discorso tenuto in occasione del 75° compleanno
del presidente tedesco Joachim Gauk, Berlino, 29 gennaio 2015
Illustri ospiti, caro presidente Gauk,
quando lei oggi, dall’alto dei suoi settantacinque anni, si guarda indietro, credo possa essere orgoglioso della sua vita. Non molte persone hanno superato come lei tante difficoltà. E ancora meno sono quelle che hanno avuto il privilegio di vedere realizzato il sogno di libertà per il quale avevano combattuto, di diventarne il portavoce e uno dei simboli.
Caro Joachim Gauk, noi ci conosciamo solo da quattro anni. Ci siamo incontrati in varie occasioni, a Gerusalemme e in Germania, e ogni volta mi sono detto: “Quest’uomo è un vero mentsch”. Non nell’accezione tedesca del termine Mensch – essere umano –, però: in quella yiddish, nel senso di una persona sulla quale si può contare in ogni occasione, un uomo che si dimostra tale anche in una realtà in cui è difficile esserlo, in cui non è facile mostrarsi umani.
E lei, durante i suoi anni di lotta a Rostock, ha dato prova di essere un vero mentsch.
Vorrei ringraziarla per avere scelto me, uno scrittore israeliano, come oratore nel giorno del suo compleanno, qui a Berlino. Non è una scelta ovvia e mi commuove in modo particolare. Soprattutto, però, la ringrazio di avermi chiesto di parlare del concetto di libertà, dandomi così l’opportunità di formulare pensieri rimasti finora a livello di sensazioni, o di istinti, dentro di me. In fondo, una persona sa – talvolta in maniera del tutto inconscia – in quali aspetti della propria vita e della propria anima è libera, e in quali, invece, la libertà gli è negata. Il suo invito mi ha aiutato a chiarire a me stesso questi aspetti, nonché il complesso contesto della società in cui vivo, in Israele e nel conflitto mediorientale, e anche di questo la ringrazio.
Quando sono libero?
Sono libero quando non soffro la fame, il freddo, privazioni fisiche e mentali. Sono libero quando non sono oggetto di discriminazione e di scherno. Sono libero quando mi è concesso di stare con le persone che mi sono care senza alcuna restrizione. Sono libero quando non temo l’arbitrarietà di altri esseri umani. Sono libero quando so di poter essere diverso, dissimile dagli altri e persino fuori dal comune, senza però dover soffrire ed essere “punito” per questo in alcun modo. Sono libero quando posso esprimere i miei pensieri e le mie opinioni, e non quelle impostemi da altri. Sono libero quando posso descrivere con le mie parole una particolare situazione senza che nessuno me lo impedisca, o mi costringa a usare termini e frasi che non mi appartengono.
Ognuno dei presenti in questa sala potrebbe aggiungere le proprie definizioni di “libertà”. Non dimentico, per esempio, che qualcuno potrebbe sentirsi libero interiormente malgrado non sussistano tutte le condizioni sopraccitate. E so anche che io non sarò libero fintanto che negherò a qualcun altro – a un individuo, o a un intero popolo – anche una sola di queste condizioni.
Mentre scrivevo queste righe affiorava in me la sensazione che la libertà, in sostanza, sia indissolubilmente legata al concetto di “speranza”. Quasi che questa parola, “libertà”, contenesse in sé un verbo declinato al futuro, in costante movimento verso qualcosa, e anche una qualche promessa non ancora del tutto adempiuta. Forse perché persino nelle società e nei Paesi più liberi e tolleranti ci sono libertà che devono ancora essere definite, ottenute, e per le quali si deve continuare a combattere. O forse perché il progresso e l’evoluzione umani creano immancabilmente nuove e inaspettate limitazioni alla libertà, quando non vere e proprie forme di subordinazione.
La libertà è intrinsecamente correlata alla speranza e la speranza è imprescindibilmente legata alla forza dell’immaginazione umana, alla nostra capacità di concepire, con grande vitalità, situazioni che trascendono quelle in cui ci troviamo, permettendoci così di affrancarci dalla loro morsa.
Lei, signor Presidente, ha ben formulato tutto questo nel suo libro Libertà!, quando ha scritto: “Nel luogo in cui ho trascorso la mia vita (nella RDT, cioè) non c’era libertà se non nei desideri e nei pensieri”.
Con queste semplici parole ha espresso il ruolo della speranza e dell’immaginazione nello slancio verso la libertà, nonché quel senso di affrancamento interiore intrinseco alla capacità di sperare, di aggrapparsi alla speranza, persino quando si è oppressi da un regime di prevaricazione e di terrore. Anche chi non ha vissuto in prima persona una simile situazione può immaginare quanto sia arduo serbare una qualsiasi capacità di slancio interiore, fluida e creativa, quando l’animo è rattrappito dalla paura e teme il contatto con la realtà. Non è difficile intuire come, nella mente delle vittime della tirannia e dell’intimidazione, i “canali interiori” in cui scorre la linfa vitale dell’uomo si ostruiscano.
La speranza e l’immaginazione umane possiedono strane qualità: apparentemente si focalizzano al di fuori dell’uomo e del presente, in una dimensione futura dalle possibilità ancora inattuate. Ma affinché gli oppressi possano liberarsi dalle loro catene devono, grazie all’immaginazione, serbare l’idea viva e dinamica della libertà a cui aspirano. In altre parole, la speranza è frutto di un esercizio mentale e, in un certo senso, può essere considerata un atto creativo, in quanto dipinge agli occhi di chi è sottomesso, o di una società asservita, un quadro di vita ricco e vivace, diverso da quello in cui si è imprigionati.
E si potrebbe anche dire che la speranza è una sorta di àncora che, da un’esistenza assoggettata e disperata, viene gettata in una realtà ancora inesistente, costituita per lo più da intime aspirazioni. E questo atto di “gettare” un’àncora nel futuro, la capacità di farlo, è già un modo di delineare uno spazio libero nell’animo di chi osa sperare.
È interessante che una persona, o un’intera società, lanci lontano – nel futuro – un sogno, o una visione, e che, a partire da quel momento, quel sogno o quella visione agiscano su chi li ha concepiti come una potente calamita, attirandolo a sé.
La speranza di essere liberi, come lei sa per esperienza, signor presidente, talvolta esiste a dispetto di tutto, contro ogni probabilità, spesso contro la realtà dei fatti. Per anni lei, da pastore protestante, ha mantenuto vive le sue speranze e quelle dei membri della sua congregazione. Lei sa che la speranza non è una vacua illusione (malgrado all’apparenza non abbia alcuna possibilità di vedersi avverata), nemmeno quando l’asservimento – nelle sue mille forme e varianti – è totale. In un clima di disperazione generale, quando la forza di volontà della maggioranza si affievolisce, coloro che non si danno per vinti ma si impegnano a realizzare le proprie aspirazioni continuano a serbare nel profondo un angolo di libertà che nessuno potrà usurpare, contaminare o sottrargli, e grazie al quale sono consapevoli di come dovrebbe, o potrebbe essere una vita libera. E quanto valga la pena di lottare per averla.
Tale consapevolezza è forse la leva di Archimede con la quale queste persone iniziano a sgretolare una realtà oppressiva o un regime tirannico e a produrre un cambiamento.
Signore e signori, io vengo da Israele, dal cuore di un conflitto che prosegue da oltre cento anni e di cui non si vede la fine. Nella realtà delle nostre vite in Medio Oriente, parole quali “pace” o “speranza” potrebbero risuonare come vuoti slogan. La pace, infatti, o anche la sola speranza di pace, è oggi ritenuta da molti in Israele un’idea delirante, infantile, ingenua; un’illusione pericolosa e ingannevole che potrebbe indurci a rinunciare alla nostra capacità di diffidare degli altri, di rimanere all’erta, di sopravvivere.
Sempre più persone in Israele, e anche in Palestina, sostengono che “La situazione non cambierà mai”, che “Vivremo in eterno con la spada in mano”, che “Siamo condannati a vivere e a morire di spada”. Frasi che si ripetono da decenni. Ciò che è cambiato, negli ultimi tempi, è il tono con cui vengono pronunciate: come un lamento querulo, che racchiude un senso di rassegnazione a una situazione percepita come una sorta di “legge della natura”, o un assioma. Una specie di destino ineluttabile che non permetterà mai a queste due nazioni, Israele e Palestina, di arrivare alla pace.
In mancanza di un processo politico e di speranza è la disperazione a dettare la realtà. E come la speranza implica libertà e movimento, la disperazione paralizza, limita, sottomette. Oggi, in Israele e nei Territori dell’Autorità palestinese, prevale una sensazione generale di paralisi e di stallo. Ma è una sensazione fuorviante, che pregiudica in maniera pericolosa la percezione della realtà. Laddove ci sono esseri umani, infatti, in special modo oppressi, non c’è vero stallo. Al contrario: c’è una fiamma che brucia sempre più forte. Ci sono frustrazione, umiliazione, desiderio di vendetta. E tutti questi sentimenti, addensandosi, rinfocolano il fanatismo religioso e nazionalista, rischiando di esplodere con una forza e una violenza forse persino più letali di quelle registrate l’estate scorsa, durante la guerra a Gaza.
Considero l’affermazione che il conflitto tra Israele e i palestinesi sia irrisolvibile come un’ammissione di sconfitta di entrambe le parti. Una sconfitta non sul campo di battaglia o nell’arena politica, ma umana. Nel momento in cui abbandoniamo la speranza di raggiungere la pace, di remare costantemente verso la pace, qualcosa di profondo e di vitale ci viene portato via.
Quando un popolo rinuncia a desiderare una vita migliore e più ricca, quando rinuncia al senso di libertà interiore che può attizzare questo desiderio, di fatto si proclama vittima. Vittima passiva e indifesa delle azioni altrui, di circostanze al di fuori del suo controllo.
Da ebreo e da israeliano, faccio fatica ad accettare una cosa simile. La grande e miracolosa idea alla base dello Stato di Israele sta nel fatto che il popolo ebraico è tornato alla sua terra natale, a casa, dove non sarà più impotente di fronte alla volontà e alle azioni altrui. Dove non sarà più vittima.
Oggi Israele è il Paese più forte del Medio Oriente. Il suo esercito è il decimo al mondo per dimensioni e potenza. È un Paese sovrano e prospero che gode del sostegno di potenze quali gli Stati Uniti, la Germania, la Gran Bretagna e la Francia. È uno Stato intraprendente, pionieristico, all’avanguardia in molti campi: agricoltura, scienza, cultura, industria, tecnologia e informatica. Solo sulla questione più vitale per la sua esistenza – quella della pace – si mostra spaventato, intrappolato, passivo.
Israele, ovviamente, ha molte ragioni di preoccuparsi, di sentirsi in ansia. Il Medio Oriente è una regione turbolenta, violenta, in cui operano forze e correnti fondamentaliste. Gran parte dei Paesi arabi è estremamente ostile allo Stato ebraico e aspira apertamente a distruggerlo. I palestinesi combattono fra di loro. Il movimento fanatico di Hamas si rafforza e non è affatto chiaro se la leadership palestinese sia pronta a un vero compromesso. Ma proprio dinanzi a questi pericoli e minacce, l’inattività, la mancanza di iniziativa e la paralisi che i governi israeliani mostrano da anni non rappresentano una strategia efficace. Di fatto, una situazione di paralisi non può essere considerata una strategia politica.
Questo stato di cose, sommato alla crescente violenza nei Paesi limitrofi, sta spingendo la popolazione ebraica di Israele verso disposizioni d’animo vulnerabili e pericolose. In noi, nel 2015, tornano ad affiorare ricordi di traumi del passato e di persecuzioni, l’angoscia per il destino del popolo ebraico e un senso di alienazione esistenziale.
Per tutte queste ragioni e, ovviamente, per l’inconcepibile fatto che Israele domina un altro popolo ormai da quarantasette anni, non ci troviamo oggi in una condizione di libertà. Israele, e lo dico con rammarico e dolore, è un Paese indipendente e sovrano, ma non è ancora libero. Non come potrebbe essere. Non è una “casa” nel vero senso della parola e noi, suoi cittadini, non siamo liberi secondo lo spirito del nostro inno nazionale, Hatikva (“la Speranza”), che recita: “Ancora non è andata persa la speranza / una speranza di duemila anni / di essere un popolo libero nella nostra terra / la terra di Sion e Gerusalemme”.
Solo mentre scrivevo queste righe mi sono reso conto che quando penso alla pace, in realtà, penso alla libertà. Alla libertà dalla paura, dalla disperazione (divenuta una costante della vita), dalla sensazione di oppressione connaturata a un’esistenza trascorsa in mezzo alla guerra e all’odio.
Sì: pace è libertà. Libertà esteriore che può condurre a una libertà interiore. È un tipo di libertà che io non conosco perché in tutta la mia vita non ho mai conosciuto un singolo momento di vera pace. Di vera libertà.
La pace è un genere di libertà che cerco di tenere vivo con la fantasia per lasciare aperto in me il canale che vi conduce. Per impedire che quel canale si ostruisca a causa delle mie angosce, delle incessanti esplosioni di violenza intorno a me, del dolore per tutti coloro che hanno perso la vita nel conflitto, compreso mio figlio, della sofferenza per guerre che avrebbero potuto essere evitate.
Quale speranza può esserci in una situazione tanto complessa come quella attuale tra Israele e i palestinesi? In un certo senso, la stessa che ha motivato lei, presidente Gauck, e i suoi compagni a lottare nell’estate del 1989 (un periodo da lei definito “inverno in piena estate”), quando all’orizzonte non si profilava alcuna possibilità di cambiamento. Una speranza che, pur non ignorando i pericoli e le minacce reali, rifiuta di vedere solo quelli.
Nel cuore di israeliani e palestinesi (di pochi, in verità) palpita ancora l’auspicio che, se le fiamme del conflitto si placheranno, a poco a poco torneranno a svelarsi i tratti sani e razionali dei due popoli, sui quali agirà il potere curativo della quotidianità, l’assennatezza del compromesso, un senso di sicurezza esistenziale, l’augurio che in futuro potremo crescere i figli senza timori per le loro vite, senza l’umiliazione dell’occupazione e l’angoscia del terrorismo. Allora potremo soddisfare le nostre fondamentali aspirazioni umane. Quelle connesse alla vita familiare, al lavoro, allo studio, alla creazione. Al tessuto della vita.
E forse, in futuro, ognuno dei due popoli si aprirà lentamente alla complessità dell’altro, alla sua tragedia, alla sua unicità e bellezza, alla sua storia. Ci sarà un riavvicinamento più profondo e si instaureranno persino legami di amicizia. È già successo in passato. Senza fare paragoni storici fuori luogo, persino il fatto che io, oggi, mi trovi qui, davanti a voi, in questo solenne evento (uno scrittore ebreo israeliano che ebbe così tanti familiari, ottanta persone, trucidati durante la Shoah e al quale lei, signor presidente, il presidente della Germania, ha chiesto di tenere un discorso nella settimana in cui il mondo celebra il settantesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz...) – persino questo fatto, dicevo, racchiude un moto di libertà e di speranza.
Quest’anno si celebrerà il cinquantesimo anniversario delle relazioni tra Germania e Israele e, per quanto oggi queste relazioni siano buone e articolate, rimangono, e rimarranno, comunque complesse, delicate e traumatiche. Non c’è e non potrà esserci perdono per quel terribile capitolo della storia tedesca. E non potrà esserci guarigione da parte nostra. Nel punto di incontro tra ebrei e tedeschi la ferita della Shoah rimarrà inevitabilmente aperta. Lo ha detto lei stesso la settimana scorsa, durante il discorso che ha tenuto ad Auschwitz: «Non esiste identità tedesca senza Auschwitz».
In Germania, però, è nata una nuova generazione, alla quale ne sono seguite altre che lei, signor presidente, con il suo approccio alla Shoah e a Israele, rappresenta in maniera ammirevole ed encomiabile. Gli appartenenti a queste generazioni (non tutti, ovviamente, e ognuno a modo proprio) vedono nella Shoah un grande banco di prova per se stessi, per le loro scelte di vita, per l’educazione dei figli, per la determinazione con cui aspirano alla libertà, alla democrazia e all’uguaglianza tra gli esseri umani.
Molti ebrei e tedeschi si sforzano di guardare in faccia le tenebre e l’orrore della Shoah, che permea ogni minima parte della loro vita e della loro memoria, e di creare ponti su questo abisso. E così facendo riaffermano qualcosa di profondo che è parte dell’uomo, delle sue possibilità, della sua complessità, della sua tragicità e della sua grandezza.
E in questa capacità di ricordare, di assumersi le proprie responsabilità, di provare dolore e di guardarsi l’un l’altro come esseri umani, c’è una grande libertà.
Signor presidente, le auguro ancora molti anni di attività e di innovazione. Anni che siano di ispirazione a tutti noi.