giovedì 19 gennaio 2023

LA PERLA John Steinbeck

 


LA PERLA

John Steinbeck 

Recensione

«Di colpo, alla perla di Kino tutti si trovarono legati, e la perla di Kino entrò nei sogni, nelle riflessioni, nei progetti, nei desideri, nelle fantasticherie, nei bisogni, negli appetiti, nelle brame di tutti; e poiché una sola persona li intrlaciava, ed era Kino, egli finì stranamente per essere il nemico di tutti.»

 Libro appassionante. Non ha la grandezza e la maestosità di Furore e della Valle dell'Eden, ma in poche pagine c'è un mondo intero, personaggi che conosci come amici e una storia immensa e universale per la morale che lascia.

1

Kino si svegliò nel buio. Le stelle brillavano ancora e il giorno aveva appena gettato una lieve spennellatura di luce sull'orlo inferiore del cielo, ad oriente. Per qualche tempo i galli avevano cantato, e i primi maiali avevano cominciato a grufolare tra frasche e pezzi di legno in cerca di cibo. Fuori della capanna di stoppie, nella brughiera, nidiate di uccellini tremavano e battevano le ali.

Gli occhi di Kino si aprirono, e per prima cosa guardò il quadrato di luce ch'era la porta, poi la cesta pensile in cui dormiva Coyotito. Infine volse la testa verso Juana, sua moglie, che giaceva accanto a lui sul materasso con lo scialle azzurro sul naso e sui seni e intorno alle spalle. Anche gli occhi di Juana erano aperti. Kino non ricordava di averli mai visti chiusi quando si destava; quegli occhi scuri che facevano come due piccole stelle riflesse, lo guardavano, ora, come sempre lo guardavano al risveglio. Kino udì lo sciacquio delle onde mattutine sulla spiaggia. Era molto bello - egli richiuse gli occhi per ascoltare la musica che gli risuonava dentro. Forse era il solo a farlo; forse tutti i suoi lo facevano. Erano stati grandi creatori di canzoni, i suoi, e tutto ciò che vedevano o pensavano o sentivano diventava canto. Ciò avveniva in tempi molto molto lontani, e le canzoni erano rimaste e Kino le conosceva, ma nessun nuovo canto vi si era aggiunto.

Non che non esistessero canti personali. Nella testa di Kino ce n'era uno proprio in quel momento, chiaro e dolce, e s'egli avesse potuto parlarne l'avrebbe chiamato la Canzone della Famiglia.

S'era tirato la coperta sul naso per difendersi dall'aria umida. Gli occhi gli batterono al fruscio di qualcosa che si muoveva lì accanto. Era Juana che si alzava, quasi senza far rumore. Coi suoi forti piedi nudi andò alla cesta in cui dormiva Coyotito, e vi si piegò sopra e disse una parolina dolce. Per un attimo Coyotito alzò gli occhi, poi li chiuse e si riaddormentò.

Juana andò al focolare e liberò dalla cenere un pezzo di carbone e lo ravvivò sventagliandolo, mentre vi spezzava sopra della sterpaglia.

Allora Kino si alzò e si avvolse la coperta sulla testa e sul naso e sulle spalle. Infilò i piedi nei sandali e uscì a guardare l'alba.

Si accoccolò sulla soglia e raccolse sulle ginocchia le estremità della coperta. Vide, alte nel cielo, fiammeggiare le chiazze di nuvole del Golfo. E una capra gli si avvicinò annusandolo e lo guardò fisso coi suoi freddi occhi gialli. Dietro, il fuoco di Juana si fece fiamma e gettò alabarde di luce attraverso le fessure della parete e un ondeggiante quadrato di luce fuori della porta. Una tarda falena entrò attirata dal fuoco. La Canzone della Famiglia veniva ora da dietro le spalle di Kino. E il ritmo della canzone era la macina sulla quale Juana lavorava il grano per il pane del mattino.

L'alba, ora, veniva rapida, una spennellatura, un chiarore, un baleno, infine un'esplosione di fuoco quando il sole balzò su dal Golfo. Kino abbassò gli occhi per proteggerli dal bagliore. Sentiva il colpo secco dei pani, il loro profumo denso sulla piastra del forno. Sul pavimento si affannavano le formiche, talune grosse e nere e dal corpo lucido, talaltre piccole e veloci e coperte di polvere. Col distacco di un dio, Kino seguì i disperati sforzi di una formica per uscire dal trabocchetto che una formicaleone le aveva scavato nella sabbia. Poi gli venne vicino un timido cane tutt'ossa, e a una sua parola affettuosa si acciambellò, sistemò con grazia la coda sui piedi e posò delicatamente il mento sulla pila. Era un cane nero, con macchie giallo–oro là dove avrebbero dovute essere le sopracciglia.

Una mattina come tutte le altre, e tuttavia perfetta tra le mattine.

Kino udì il cigolio della fune quando Juana tirò dalla cesta Coyotito, e lo pulì, e lo posò vicino al seno nell'amaca di una piega dello scialle. Tutte queste cose Kino poté vederle senza guardare. Juana cantava piano un'antica canzone che aveva solo tre note e una grande varietà di intervalli. E anche essa faceva parte della Canzone della Famiglia. Tutto vi entrava. E a volte il canto saliva a una vibrazione dolorosa che prendeva alla gola, annunciando che lì era pace e calore, che lì era Il Tutto.

Di là dalla siepe di sterpi c'erano altre capanne di stoppie, e anche da loro usciva fumo, anche da loro usciva il suono della colazione del mattino. Ma erano altri canti, i maiali erano altri maiali, le donne non erano Juana. Lui era giovane e forte, e i suoi capelli scendevano neri sulla fronte bruna. I suoi occhi erano caldi e fieri e luminosi, e i suoi baffi fini e duri. Abbassò la coperta perché l'aria nera e corrotta era ormai svanita, e la gialla luce del sole cadeva sulla capanna. Presso la siepe due galli si affrontavano in inchini e schermaglie, le ali spiegate e le penne del collo erte. Sarebbe stata una battaglia da poco: non erano bestie da combattimento. Per un attimo Kino li osservò, poi i suoi occhi seguirono un volo di colombi selvatici librantisi in un frusciare d'ali verso le colline dell'interno. Il mondo era desto, ormai, e Kino si alzò ed entrò in casa.

Quando entrò dalla porta, Juana si alzò dalla pietra ardente del focolare. Rimise Coyotito nella cesta e si pettinò i capelli neri e li attorcigliò in due trecce e ne legò i capi con un sottile nastro verde.

Kino si accovacciò accanto al fuoco e arrotolò una focaccia calda e la intinse nella salsa e la mangiò.

E bevve un sorso di pulque, e la colazione era fatta.

Era l'unica colazione che avesse mai conosciuto, all'infuori dei giorni di festa e di una scorpacciata di dolci che per poco non l'aveva ucciso. Quando ebbe finito, Juana tornò al focolare e mangiò. Una volta si parlavano; ma non c'è nessun bisogno di parlare se non è che un abito. Kino sospirò soddisfatto e questo era conversare.

Il sole stava ora scaldando la casa di stoppia, irrompendo in lunghe alabarde attraverso le sue fessure.

E una delle alabarde cadde sulla cesta pensile in cui dormiva Coyotito, e sulle funi che la sostenevano.

Fu una piccola vibrazione che attirò i loro occhi verso la cesta e diede loro un brivido. Lungo la fune che la teneva sospesa al tetto, uno scorpione scendeva lentamente. Il pungiglione gli usciva dritto dalla coda, ma in un baleno avrebbe potuto vibrarlo.

Il respiro fischiò nelle narici di Kino, ed egli aprì la bocca per trattenerlo. E di colpo lo sguardo fisso lo lasciò e la rigidità abbandonò il suo corpo. Nella sua testa una nuova canzone era nata, la Canzone del Male, la musica del nemico, di tutti gli avversari della famiglia, una selvaggia, segreta, minacciosa melodia, sotto la quale la Canzone della Famiglia piangeva in un lamento.

Delicatamente, lo scorpione scendeva lungo la corda. In un soffio, Juana ripeté un'antica formula magica contro quel malanno, e subito dopo, a denti stretti, balbettò un'Ave Maria. Ma Kino agì. Silenzioso, elastico, il suo corpo scivolò attraverso la stanza.

Lo precedevano le mani, col palmo in giù, e gli occhi erano fissi allo scorpione. Sotto, nella cesta pensile, Coyotito rideva tendendo la mano per afferrarlo.

La bestia avvertì il pericolo quando Kino stava già per prenderla. Si fermò, e la coda si levò sulla sua schiena in brevi scatti rapidi, e la punta curva all'apice della coda brillò.

Kino rimase perfettamente immobile. Sentiva Juana ripetere piano l'antica formula magica, e sentiva dentro di sé la musica cupa del nemico. Non poteva muoversi finché lo scorpione non si muoveva cercando di colpire la sorgente della morte che incalzava.

La mano venne avanti lentissima, estremamente cauta. La coda puntuta scattò verso l'alto.

Proprio in quell'istante, Coyotito diede uno scrollone alla fune e lo scorpione cadde.

La mano di Kino balzò ad afferrarlo, ma la bestiola sfiorò le dita, cadde sulla spalla del bimbo e punse. Allora, ringhiando, Kino l'afferrò con le dita e lo pigiò fra le mani, poi lo buttò a terra e lo pestò col pugno sull'impiantito, mentre nella cesta Coyotito urlava di dolore. Ma Kino batté e calpestò il nemico finché non fu che un frammento e una chiazza umida nella polvere. Stringeva i denti, e nei suoi occhi fiammeggiava l'ira, e la Canzone della Famiglia urlava nelle sue orecchie.

Juana prese in braccio il bambino. Trovò la puntura con l'eritema che cominciava a dilatarsi, e vi posò le labbra e succhiò forte e sputò e succhiò ancora mentre Coyotito strillava.

Kino vacillò: non poteva più far nulla, non era che d'impiccio.

Gli strilli del bimbo avevano richiamato i vicini.

Uscivano dalle loro capanne di stoppie, e il fratello di Kino, Juan Tomás, e la sua grassa moglie Apolonia e i loro quattro figli si assieparono sulla porta bloccandone l'accesso, mentre alle loro spalle altri cercavano di guardar dentro, e un piccolo sgattaiolava incuriosito fra le gambe dei grandi. E quelli di prima fila passarono la voce a quelli dietro: "Scorpione. Il bimbo punto." Per un attimo Juana smise di succhiare. Il buco si era lievemente allargato e gli orli erano divenuti bianchi a forza di succhiare, ma intorno il gonfiore si allargava in una dura palla linfatica. Tutti i presenti sapevano dello scorpione, e come un adulto potesse star molto male per la puntura, ma niente di più facile che un bambino ne morisse. Per prima cosa, sapevano, sarebbero venuti gonfiore e febbre, e gola chiusa, poi crampi allo stomaco, e infine, se il veleno era entrato in quantità sufficiente, la morte.

Ma intanto il dolore lancinante della puntura stava passando e gli strilli del bimbo si mutarono in gemiti.

Kino aveva spesso ammirato il ferro nella sua fragile ed umile donna. Ella, ch'era sottomessa e rispettosa e mite e paziente, poteva indurirsi quasi senza un grido ai dolore del bimbo, e reggere alla fatica e alla fame anche meglio di lui. E nella canoa era forte come un uomo. Ma la sorpresa maggiore doveva dargliela ora.

"Il medico," disse. "Andate a prendere il medico." La parola passò tra i vicini nel cortiletto dietro la siepe dove stavano raccolti in un mucchio. Ed essi si ripeterono: "Juana vuole il dottore." Una cosa straordinaria, una cosa memorabile, volere il dottore.

Il dottore non veniva mai alle capanne di stoppie.

Perché avrebbe dovuto venirci, quando aveva da fare più del necessario per tener dietro ai ricchi che vivevano nelle case di pietra e di gesso della città?

"Non verrà," diceva la gente nel cortiletto.

"Non verrà," diceva la gente sulla porta, e il pensiero si trasmise a Kino.

"Il dottore non verrà,." disse a Juana.

Ella lo guardò, gli occhi freddi come gli occhi di una leonessa. Era il primo bimbo di Juana, quello - era l'unica cosa che esistesse nel mondo di Juana. E Kino vide la sua decisione, e la musica della famiglia risuonò nella sua testa con un timbro di acciaio.

"E noi andremo da lui," disse Juana, e con una mano sistemò sulla testa lo scialle azzurro scuro e di un capo fece una benda da avvolgere il bimbo che gemeva e dell'altro uno schermo per proteggerne gli occhi dalla luce.

La gente sulla porta rifluì contro la gente ch'era fuori, per lasciarla passare. Kino la seguì. Raggiunsero il sentiero rotto da solchi profondi e i vicini li seguirono.

La cosa era divenuta una faccenda comune del vicinato. Una rapida processione di passi felpati si avviò verso il centro della città, in testa Kino e Juana, dietro Juan Tomás e Apolonia coi grandi seni ondeggianti al ritmo marziale, in coda i vicini con al fianco i bimbi trotterellanti. E il sole dorato gettò davanti a loro le loro ombre nere, così che camminavano sulla propria ombra.

Giunsero là dove le capanne di stoppie finivano e cominciava la città di pietra e gesso, la città dai muri ruvidi e dai freschi giardini interni in cui una piccola fonte giocherellava e la bougainvillea chiazzava i muri di porpora, di rosso–mattone e di bianco.

Dai giardini nascosti veniva il canto di uccelli in gabbia e il chioccolìo dell'acqua fresca sulle calde lastre di pietra. La processione attraversò l'abbagliante plaza e passò davanti alla chiesa. S'era ingrossata, ora, e ai margini i nuovi venuti erano informati sottovoce come il bimbo fosse stato punto da uno scorpione, come padre e madre lo portassero dal medico.

E gli accorsi, specialmente gli accattoni davanti alla chiesa, che erano grandi esperti di analisi finanziarie, lanciarono rapidi sguardi alla vecchia sottana azzurra di Juana, videro le lacrime nel suo scialle, valutarono il nastro verde nelle sue trecce, lessero l'età della coperta di Kino e i mille lavaggi che i suoi vestiti avevano subito, e li catalogarono fra la povera gente e si unirono alla processione per vedere che razza di dramma ne sarebbe uscito. I quattro accattoni di fronte alla chiesa sapevano tutto, della città. Essi studiavano l'espressione delle giovani quando andavano al confessionale, e le guardavano quando uscivano e leggevano la natura del loro peccato. Conoscevano ogni minimo scandalo e alcuni grandissimi delitti. Sedevano sui loro stalli nell'ombra della chiesa in modo che nessuno potesse entrare a trovarvi un conforto senza che loro lo sapessero. E conoscevano il dottore. Conoscevano la sua ignoranza, la sua crudeltà, la sua avarizia, la sua avidità, i suoi peccati. Conoscevano i suoi aborti da macellaio, e i soldi che dava con parsimonia ai poveri.

Avevano visto i suoi cadaveri entrare in chiesa.

E poiché la prima messa era finita e gli affari andavano a rilento, seguirono il corteo, instancabili ricercatori della perfetta conoscenza del prossimo, per vedere che cosa avrebbe fatto il grasso e pigro dottore davanti a un bimbo povero con una puntura di scorpione.

La frettolosa processione giunse infine al portale della casa del dottore. E udì il chioccolìo della fonte e il canto degli uccelli ingabbiati e i colpi delle lunghe scope sulle lastre di pietra dell'impiantito. E annusò l'odore di fritto della pancetta.

Kino esitò un momento. Quel dottore non era della sua gente. Quel dottore era di una razza che da quasi quattrocento anni batteva e derubava e affamava e disprezzava la razza di Kino, e, non contenta, la terrorizzava affinché l'indigeno venisse umile e sottomesso alla sua porta. E come sempre quando si avvicinava ad uno di quella razza, Kino si sentì debole e atterrito e rabbioso ad un tempo. Rabbia e terrore si fusero in lui. Avrebbe potuto uccidere il dottore più facilmente che parlargli, perché tutta la razza del dottore parlava a tutta la razza di Kino come se fossero soltanto animali. E mentre Kino alzava la destra all'anello di ferro del battaglio, l'ira ribolli in lui, e la musica martellante del nemico batté nelle sue orecchie, e le sue labbra si strinsero contro i denti: ma la sinistra fece l'atto di togliere il cappello. L'anello di ferro batté contro la porta.

Kino si tolse il cappello e rimase ad aspettare. Coyotito frignò per un attimo nelle braccia di Juana, ed essa gli parlò dolcemente. La processione si strinse il più possibile intorno a loro, per vedere e sentire.

Passò un secondo, e il portone si aprì di uno spiraglio.

Kino poté vedere la verde frescura del giardino e la piccola fontana chioccolante. L'uomo che si affacciò allo spiraglio era uno della sua razza. Kino gli parlò nell'antico linguaggio. "Il piccolo - il primo - è stato punto dallo scorpione," disse. "Ci vuole l'abilità di un medico." La porta si socchiuse, e il servitore rifiutò di parlare nell'antico linguaggio. "Un momento," disse. "Vado, a informarmi," e chiuse la porta e sprangò il catenaccio. Il sole abbagliante dardeggiò le nere ombre affacciate degli uomini contro il muro bianco.

Nella sua stanza il dottore sedeva sull'alto letto.

Portava la vestaglia di seta rossa che veniva da Parigi, un po' stretta al busto ora che era abbottonata.

In grembo aveva un vassoio d'argento con una cioccolatiera d'argento e una tazzina di porcellana trasparente, così delicata che faceva uno strano effetto quando l'alzava con la sua grossa mano; l'alzava con la punta del pollice e dell'indice e allargava le altre dita per scostarla. I suoi occhi giacevano in piccole e gonfie amache di carne e la bocca si piegava in una smorfia di noia. Stava diventando massiccio, e la sua voce era roca per il grasso che premeva sulla gola. Accanto a lui, su un tavolo, c'erano un piccolo gong orientale e una scatola di sigarette.

Il mobilio era pesante e scuro e tetro. I quadri erano religiosi, perfino la grande fotografia a colori della sua defunta moglie, che, aiutando le messe pagate coi soldi della sua fattoria, doveva ormai essere in cielo. Il dottore era stato per qualche tempo uomo del gran mondo e tutta la sua vita successiva era ricordo e nostalgia della Francia. "Quella era vita civile," diceva, intendendo dire che con poco era riuscito a mantenere un'amante e mangiare al restaurant.

Si versò una seconda tazza di cioccolata e sbriciolò con le dita un biscotto. Il servo si affacciò alta porta e restò immobile aspettando d'essere notato.

"Sì?" chiese il dottore.

"è un piccolo indiano con un bimbo. Dice che uno scorpione l'ha punto." Il dottore posò la tazza con garbo prima di permettere alla collera di traboccare.

"Non ho niente di meglio che curare punture d'insetti per piccoli indiani? Sono un dottore, io, non un veterinario." "Sì, padrone," disse il servo.

"Ha soldi?" domandò il dottore. "No, soldi non ne hanno mai. Io, io solo al mondo dovrei lavorare per nulla, e ne ho abbastanza. Vedi un po' se ha del denaro." Il servo aprì il portone solo di uno spiraglio e guardò fuori. E questa volta parlò nell'antico linguaggio.

"Hai soldi per pagar la cura?" Kino affondò la mano in un posto sotto la coperta e ne tirò fuori un pezzo di carta piegato mille volte. Piega per piega lo svolse, finché apparvero alla luce otto piccole perle informi, brutte e quasi prive di valore. Il servo prese la carta e chiuse il portone, ma questa volta non restò via molto tempo.

Riaprì il portone appena quel tempo per restituire l'involto.

"Il dottore è uscito," disse. "L'hanno chiamato per un caso grave." E per la vergogna richiuse in fretta la porta.

Allora un'onda di umiliazione passò sul corteo.

La gente si squagliò. Gli accattoni tornarono ai gradini della chiesa, i viandanti si allontanarono, i vicini filarono via perché la pubblica umiliazione di Kino non fosse nei loro occhi.

A lungo Kino rimase davanti al portone con Juana accanto. Lentamente ripose in testa il supplice cappello. Poi, d'improvviso, assestò un pugno alla porta. Si guardò sorpreso le nocche ammaccate e il sangue che colava fra le dita.


2.

La città giaceva su un ampio estuario con le vecchie case gialle raccolte lungo la riva. E sulla riva erano tirate in secco le canoe bianche e blu che venivano da Nayarit e che uno speciale intonaco duro e impermeabile, segreto dei pescatori, aveva permesso di conservare intatte per generazioni.

Canoe alte e graziose con la prua e la poppa curve, e rinforzi a metà chiglia per piantarvi l'albero da sostenere la piccola vela latina.

La riva era di sabbia gialla, ma a livello dell'acqua la sostituiva un impasto di conchiglie e di alghe.

Nelle loro tane di sabbia i granchi gorgogliavano e, sui fondali, minuscoli gamberi entravano ed uscivano dai loro rifugi nella sabbia e nella poltiglia.

Il fondo del mare brulicava di cose che strisciavano e nuotavano nelle correnti quiete e la verde erba delle anguille tremolava, portando sugli steli piccoli cavallucci marini. Botete chiazzati indugiavano ai piedi delle alghe, e grandi natanti dai colori vivaci si arrampicavano sul loro dorso.

Sulla spiaggia i cani famelici e gli affamati maiali della città non si stancavano di cercare pesci morti o uccelli marini gettati a riva dalla marea.

Per quanto giovane fosse il mattino, la foschia della fatamorgana era già alta. L'atmosfera incerta che ingrandisce alcune cose e ne cancella altre galleggiava sul Golfo rendendo irreali le immagini e dubbia la vista, e mare e terra avevano le lucentezze nitide e le improbabilità dei sogni. Questo. spiega perché la gente del Golfo potesse prestar fede a cose dello spirito e a cose della fantasia, ma non ai propri occhi come misura di distanze e come garanzia di precisione visiva. Così, visto dalla città, un gruppo di mangrovie al di là dell'estuario si levava limpido e chiaro come in un telescopio, mentre un altro ciuffo delle stesse piante appariva una confusa massa verde–nera. Lontano, una parte della riva dileguava in un luccichio che pareva acqua.

Non v'era certezza nella vista, non v'era garanzia che quello che si vedeva esistesse. E la gente del Golfo credeva che tutti i posti fossero a quel modo, e non se ne stupivano. Una nebbia di rame pesava sull'acqua, e il caldo sole del mattino, battendo su di essa, la faceva vibrare e rilucere.

Le case di stoppie dei pescatori sorgevano dietro la spiaggia sul lato destro della città, e di fronte a loro erano tirate a riva le canoe.

Kino e Juana scesero lentamente verso la spiaggia, dov'era la canoa di Kino, unico oggetto di valore che possedessero al mondo. Era un'antica ca noa. L'aveva portata da Nayarit il nonno di Kino, e da lui era passata a suo padre, e infine era giunta a lui. Ed era insieme proprietà e fonte di cibo, poiché un uomo che possiede una barca può garantire a una donna che qualcosa da mangiare per lei ci sarà sempre. è un argine contro la fame. E ogni anno Kino rifiniva la canoa con l'intonaco duro e impermeabile, seguendo il metodo che gli era stato trasmesso da suo padre.

Quel giorno, Kino si avvicinò alla canoa e, come sempre, ne toccò con tenerezza la prua. E posò sulla sabbia presso la canoa la pietra da palombaro e il paniere e le due funi. E piegò la coperta e la mise nella canoa.

Juana posò Coyotito sulla coperta e sopra gli mise il suo scialle, perché il sole ardente non lo colpisse.

Era calmo, ora, ma dalla spalla il gonfiore era salito su per il collo e fino all'orecchio, e la faccia era turgida e febbricitante. Juana scese all'acqua e vi entrò. Raccolse delle alghe brune e ne fece una poltiglia umida e piatta che applicò alla spalla gonfia del bimbo, rimedio buono quant'altri mai e forse migliore di quelli che il medico avrebbe potuto consigliare, ma privo di autorità perché era semplice e non costava nulla. Coyotito non aveva avuto i crampi allo stomaco. Forse Juana aveva fatto in tempo a succhiarne il veleno, ma in lei l'ansia era rimasta. E Juana aveva finito per pregare non direttamente per la guarigione del figlio, ma perché potessero trovare una perla con cui pagare il dottore e darglielo in cura - giacché l'anima della gente è priva di costanza come i miraggi del Golfo.

Kino e Juana spinsero giù per la spiaggia la canoa e, quando la prua galleggiò nell'acqua, Juana vi si arrampicò, mentre Kino spingeva la poppa ed entrava in mare a mezza gamba, finché dondolò lievemente sulle piccole onde increspate. Poi, ritmicamente, Juana e Kino immersero i remi a doppia pala e la canoa tagliò l'acqua e fischiò. Gli altri pescatori di perle erano già partiti da tempo. In breve Kino poté vederli, raggruppati nella nebbia, incrociare sull'ostricaio.

Attraverso l'acqua la luce filtrava sul fondo grezzo, disseminato di valve rotte ed aperte, su cui giacevano increspate di conchigliette le ostriche. Era quello il fondale che molti anni prima aveva fatto del Re di Spagna uno dei potenti d'Europa, gli aveva dato di che pagare le guerre e aveva adornato le chiese per la salvezza della sua anima. Ostriche grigie con pieghettature sui gusci come sottane, ostriche incrostate con frammenti d'alghe aderenti ai bordi e piccoli granchi che vi passeggiavano sopra.

Un accidente poteva capitare a quelle ostriche, un granello di sabbia poteva posarsi fra le pieghe del muscolo e irritare le carni, finché queste, per autodifesa, l'avvolgevano in uno strato di morbido cemento. Ma una volta cominciato, le carni continuavano a rivestire il corpo estraneo finché non si liberava in un colpo di mare o finché l'ostrica non si rompeva. Per secoli, uomini s'erano tuffati e avevano strappato le ostriche al loro letto e le avevano aperte, cercando il granello di sabbia rivestito di carne. Sciami di pesci vivevano nei pressi del fondale per buttarsi sulle ostriche rigettate dai pescatori, e frugare nell'interno luccicante dei gusci.

Ma le perle erano accidenti, e trovarle era una fortuna, un piccolo colpetto affettuoso sulle spalle da parte di Dio o degli dèi o di entrambi.

Kino aveva due funi, una legata a una grossa pietra, l'altra al paniere. Si tolse camicia e pantaloni e posò il cappello sul fondo della canoa. L'acqua era un olio. Prese in una mano la pietra e nell'altra il paniere, e scivolò in mare a piedi in giù e la pietra lo trascinò verso il fondo. Dietro a lui salirono bollicine d'aria finché l'acqua si schiarì ed egli poté vedere. In alto, la superficie del mare era uno specchio dondolante di luce in cui egli vedeva incastrato il fondo delle canoe. Manovrò con cautela in modo che l'acqua non si velasse di sabbia o di fango. Infilò il piede nel cappio della pietra e le sue mani lavorarono rapide a staccare le ostriche, alcune isolate, altre a mazzi, e a infilarle nel paniere. In qualche punto, le ostriche aderivano talmente le une alle altre, che si staccavano solo a brandelli.

Ora, la gente di Kino aveva cantato di tutto ciò che accade od esiste. Avevano creato canzoni ai pesci, al mare in collera e al mare in quiete, alla luce e alle tenebre e al sole e alla luna, e tutti i canti vivevano in Kino e nella sua gente - qualsiasi canto fosse mai stato fatto, anche quelli caduti in oblio. E, mentre riempiva il paniere, il canto era in Kino, e il ritmo del canto era il suo cuore che batteva divorando l'ossigeno dal suo fiato trattenuto, e la melodia del canto era l'acqua grigioverde e i piccoli animali guizzanti e le nuvole di pesci che lo sfioravano e in un baleno erano scomparsi.

Ma dentro il canto c'era una piccola e segreta canzone, appena percettibile e tuttavia sempre presente, dolce e misteriosa e tintinnante, quasi nascosta nella contromelodia, ed era la canzone della perla che potrebbe esserci, perché ogni guscio buttato nel paniere poteva contenere una perla. Le probabilità erano contro di lei, ma la fortuna e gli dèi potevano esserle a favore. E nella canoa lì sopra Kino sapeva che Juana recitava la formula magica della preghiera, il volto rigido e i muscoli tesi per forzare il destino, per strappare la fortuna dalle mani degli dèi, giacché della fortuna essa aveva bisogno per la spalla gonfia di Coyotito. E poiché grande era il bisogno e grande il desiderio, quel mattino la piccola melodia segreta della perla che potrebbe esserci era ancora più forte. Intere frasi di essa entravano limpide e carezzevoli nel Canto delle Profondità Marine.

Nel suo orgoglio e nella sua forza e nella sua giovinezza, Kino poteva rimanere sott'acqua senza fatica più di due minuti, in modo da lavorate con cura e scegliere i gusci più grossi. Essendo disturbate, le valve s'erano fortemente richiuse. Ma a poca distanza dalla sua destra spuntava uno scoglio di roccia grezza coperto di giovani ostriche non ancora pronte per la pesca. Kino gli si avvicinò, e di fianco, sotto una sporgenza, vide una grossa ostrica tutta sola, staccata dalle sue sorelle. Protetto dalla sporgenza il guscio era semiaperto, e nel muscolo a forma di labbro Kino vide un chiarore spettrale.

Il guscio si richiuse. E il cuore di Kino batté un ritmo pesante e nelle sue orecchie trillò la melodia della perla che potrebbe esserci. Lentamente staccò l'ostrica e se la strinse al seno. Poi sfilò il piede dal cappio, e il suo corpo salì alla superficie e i suoi capelli neri brillarono nella luce del sole.

Tese la mano verso il fianco della canoa e vi depose l'ostrica.

Juana tenne ferma la canoa mentre lui vi si arrampicava.

I suoi occhi brillavano di eccitazione, ma, controllandosi, egli tirò su la pietra e subito dopo il paniere delle ostriche e le rovesciò nella canoa. Juana sentì la sua eccitazione, e fece finta di guardare altrove. Non sta bene desiderare troppo una cosa. A volte ricaccia indietro la fortuna. Bisogna desiderarla appena il necessario, e aver molto tatto con Dio o con gli dèi. Ma Juana cessò di respirare.

Con ferma decisione, Kino aprì il breve e forte coltello e guardò pensoso nel paniere. Era forse meglio aprire per ultima l'ostrica grossa. Ne tirò fuori una piccola dal paniere, tagliò il muscolo, frugò le pieghe della carne, e la buttò in acqua.

Poi fu come se per la prima volta vedesse l'ostrica grossa. Si accoccolò sul fondo della canoa, prese il guscio, lo esaminò. Le scanalature luccicavano dal nero al bruno, e solo qualche piccola conchiglia aderiva al guscio. Ora Kino esitava ad aprirlo. Quello che aveva visto poteva essere un riflesso, un frammento di guscio piatto portato alla deriva, o addirittura un miraggio. In quel Golfo di luce incerta, c'erano più illusioni che realtà.

Ma gli occhi di Juana erano su di lui, ed ella non poteva aspettare. Posò la mano sulla testa coperta di Coyotito. "Aprilo," disse con dolcezza.

Con abile mossa Kino infilò il coltello nell'orlo del guscio. Attraverso il coltello, sentì il muscolo tendersi. Manovrò la lama a guisa di leva e il muscolo si aprì e il guscio si staccò. La carne simile a un labbro si contorse, afflosciandosi. Kino sollevò la carne, e lì era, la grande perla, perfetta come la luna. E assorbiva la luce e la filtrava, per rifrangerla in un'incandescenza d'argento. Era grossa come un uovo di gabbiano. Era la più grossa perla del mondo.

Juana trattenne il fiato e mugolò. E in Kino la melodia segreta della perla che forse c'era scoppiò limpida e bella, ricca e calda e amorosa, ardente e ammiccante e trionfale. Sulla superficie della grande perla egli vide forme come di sogno. La staccò dalla carne morente e la tenne nel palmo della mano, e la rivoltò e vide che la sua curva era perfetta.

Juana venne a guardarla nella sua mano, ed era la stessa mano che s'era ammaccata contro la porta del dottore, e la carne ferita delle nocche era divenuta grigiastra al contatto dell'acqua marina.

Istintivamente, Juana andò dove Coyotito giaceva sulla coperta di suo padre. Sollevò la poltiglia di alghe marine e guardò la spalla. "Kino," gridò forte.

Egli alzò gli occhi dalla perla, e vide che il gonfiore stava uscendo dalla spalla del bimbo e il veleno abbandonava il suo corpo. Il pugno di Kino si chiuse sulla perla e l'emozione lo sopraffece. Buttò indietro la testa e ululò. I suoi occhi si rovesciarono ed egli ululava e il suo corpo era rigido. Nelle altre canoe gli uomini alzarono ìe teste stupiti, poi affondarono i remi nel mare e accorsero verso la canoa di Kino.