sabato 28 gennaio 2023

SU ALCUNI TEMI FONDAMENTALI DELLA «GAIA SCIENZA» DI NIETZSCHE Pierre Klossowski

 


SU ALCUNI TEMI FONDAMENTALI DELLA «GAIA SCIENZA» DI NIETZSCHE

Estratto da  Nietzsche, il politeismo e la parodia Pierre Klossowski

Introduzione

Nella sterminata serie di esegeti di Nietzsche che si sono susseguiti, Klossowski ha qualcosa di unico: per l'irriducibile libertà, per la capacità rabdomantica con cui si inoltra negli ingannevoli meandri degli scritti di Nietzsche. Qui con gesto risoluto sgombera subito il campo da banalizzanti interpretazioni tanto diffuse quanto fuorvianti – come quella «erronea del "superuomo" deliberatamente separata dal suo corollario della dottrina dell'eterno ritorno» –, perché occorre innanzitutto «liberare l'esperienza che porta il nome di Nietzsche sia dal suo contesto storico sia dalle malversazioni di cui è stata fatalmente oggetto presso la posterità», l'inevitabile prezzo che doveva pagare «un'anima condotta all'incandescenza». E incandescenti sono anche queste pagine di Klossowski, in una lettura di Nietzsche dove s'intrecciano il recupero della dimensione mitica, il legame di reversibilità tra verità e finzione, la tensione tra il poeta, il filosofo e il profeta. Una lettura contrassegnata dalla complicità e dalla piena identificazione con un aforisma della Gaia scienza: «Noi senza patria siamo per razza e provenienza troppo multiformi e ibridi» – vale a dire, precisa Klossowski, «troppo legati a tutto ciò che da sempre è stato vissuto e provato in diversi luoghi; insomma troppo ricchi e quindi troppo liberi per poter rinunciare a questa ricchezza e a questa libertà in favore di un'appartenenza concretamente determinata dal tempo e dallo spazio».


SU ALCUNI TEMI FONDAMENTALI DELLA «GAIA SCIENZA» DI NIETZSCHE


Il nome di Nietzsche sembra irrimediabilmente associato al concetto di volontà di potenza; e non tanto al concetto di volontà, quanto alla pura e semplice potenza. L’interpretazione più diffusa è quella che vede nel suo pensiero una sorta di giustificazione metafisica del fatto compiuto, una morale dell’atto di forza; ed ecco che allora tutto finisce nel calderone: i laboratori dediti ai più inconfessabili esperimenti, la soppressione dei degenerati, dei folli e dei vecchi, i forni crematori, i malviventi, la bomba atomica, tutto e tutti oggi possono appellarsi al padre dell’immoralismo moderno; il superman attuale, che sia capitano d’industria, esploratore, grande cardiologo, chimico, ingegnere, benefattore dell’umanità, viene considerato un prodotto diretto del maestro dell’«energia vitale». «Chi è dunque Nietzsche?» chiede l’ignaro, e il Larousse gli risponde»: «I suoi aforismi hanno avuto una grande influenza sui teorici del razzismo germanico». Invano, a quanto pare, invano l’aforisma 377 della Gaia scienza proclama con voce remota, remotissima: «Noi senza patria siamo per razza e provenienza troppo multiformi e ibridi, come “uomini moderni”, e di conseguenza scarsamente tentati a prender parte a quella mendace autoammirazione e libidine razziale che si mette in mostra oggi in Germania, quale indice di sentimenti tedeschi, e che suona doppiamente falsa e indecorosa nel popolo del “senso storico”».

Nel presentare ai lettori questa nuova traduzione della Gaia scienza, la terza in lingua francese, ci chiediamo se spetti allo svolgersi degli eventi la verifica del valore di un pensiero e della sua attualità. Certo, uno spirito che da solo rappresenta le sorde istanze di un’intera epoca in qualche misura acquisisce «importanza» se certe accezioni primarie sono capi d’imputazione per avere ispirato esperimenti aberranti: l’erronea interpretazione del «superuomo» deliberatamente separato dal suo corollario, ossia la dottrina dell’eterno ritorno; la «morte di Dio», il «nulla è vero, tutto è permesso», divenuti slogan rifritti da una cinquantina d’anni in ambito etico e sociale, e tutto questo nel contesto di iniziative politiche che, se venisse dichiarata la colpevolezza di ogni parola pronunciata o scritta, non sarebbero altro che l’inevitabile prezzo da pagare per un momento spirituale vissuto nella esclusiva felicità di un’anima condotta all’incandescenza; la distanza, lo scarto, ma anche la distorsione di una visione del mondo rispetto a ciò che davvero fu nella sua unicità: solo ravvisando tutto questo è possibile liberare opportunamente l’esperienza che porta il nome di Nietzsche sia dal suo contesto storico sia dalle manipolazioni di cui è stata fatalmente oggetto presso la posterità.

Ebbene, da questa esperienza si trae una lezione che possiamo cogliere nella sua forma più intelligibile nelle prime parole del passo citato sopra: «Noi senza patria ... troppo multiformi e ibridi, come “uomini moderni” ...» – e nella sua forma più familiare, per quanto riguarda noi che la leggiamo oggi. Troppo multiformi e ibridi, ossia troppo legati a tutto ciò che è stato vissuto nel corso del tempo, esperito in luoghi diversi; insomma, troppo ricchi e quindi troppo liberi per rinunciare a questa ricchezza e a questa libertà in favore di un’appartenenza concretamente determinata dal tempo e dallo spazio; e dunque dotati di una polivalenza del sentire tale che nessuna iniziativa limitata a un qualsivoglia interesse concreto potrebbe esaurire la nostra capacità di dispendio; ecco in che cosa consiste, secondo Nietzsche, la «modernità». Ma non ci si inganni: non si tratta, qui, di una qualche vaga forma di cosmopolitismo; moderno significa un’attitudine a una simpatia mai raggiunta prima, in virtù della quale lo spirito entra direttamente in contatto non solo con ciò che appare quanto mai estraneo, ma anche con il mondo più lontano nel tempo, con il passato più remoto. La conquista di una nuova possibilità di vivere! Noi senza patria; verso quale luogo si volgono costoro, dove vivono, di fatto?

«Sui monti, in disparte, “da inattuali”, in secoli già trascorsi o imminenti...»; e per Nietzsche non c’è soluzione di continuità: al punto culminante della conoscenza, lo spirito rivendica per sé stesso ogni singolo momento vissuto della storia, identificando l’Io con i suoi diversi paradigmi quali altrettante versioni di sé stesso. Ed è così che la vis contemplativa finisce per assorbire la volontà di potenza, giacché questa volontà non ha mai avuto altro fine se non la propria intima necessità: re-integrare quell’universo che, nella sua molteplicità, si vuole e permane identico a sé stesso.

Ebbene, tale situazione dello spirito nella sua «modernità», tale es-patrio del volere nello spirito risale all’avventura del sapere vissuta dagli umanisti della «ri-nascita», e in particolare dagli umanisti tedeschi dell’età della Riforma, che Faustus, il dottore Fortunato – la cui fortuna consiste nel ri-vivere la sua vita –, incarna meravigliosamente. Per questi umanisti, permeati del concetto platonico di reminiscenza, la conoscenza del passato – ri-nascita nel passato –, che deve rivelare il segreto dell’av-venire, si accompagna al conflitto teologico fra libero e servo-arbitrio, fra libertà umana e grazia divina, fra dannazione ed elezione. SE SONO FRA GLI ELETTI, TUTTO MI È PERDONATO FIN D’ORA. SE SONO FRA I DANNATI, TUTTO MI È ANCORA PERMESSO QUAGGIÙ. Dove sta la differenza? Nell’eternità. Mutatis mutandis, per l’ateo Nietzsche, erede della speculazione umanistica protestante e nel contempo platonica (con le relative componenti: nostalgia dell’Antichità, attrazione per il mondo latino, contraddittorio prestigio del pontificato neroniano, «Cesare-Cristo», ecc.), sapere se la conoscenza del passato mi assicura l’eternità resta ancora il tema oscuro del suo pensiero, verificabile sui diversi piani della filosofia della storia e della dottrina dell’eterno ritorno dell’identico. Per Nietzsche il mondo «moderno», con i suoi conflitti sociali e la sua morale nichilista del progresso, non è che un intermezzo di tenebre, così come per gli umanisti lo era il mondo scolastico: è al di là di questo intermezzo che, dal passato decifrato, sorgerà il sole a venire. Il dilemma – libero o servo-arbitrio? – traspare ancora nelle espressioni «Volontà di potenza», «morte di Dio», «nulla è vero, tutto è permesso», e così pure la sua risoluzione nel senso della predestinazione. Ossia della necessità dell’eterno ritorno (tutto è perdonato: questo il senso ultimo della benedizione di Zarathustra). Per l’umanesimo (Faust), il sapere, la gnosi si collocano sotto il segno del Serpente che, con la sua predizione politeista – eritis sicut dii –, promette l’eternizzazione dell’uomo attraverso il sapere. Verrà il giorno in cui alla volontà dell’«assassino di Dio» sarà concesso il perdono; quando cioè il Serpente simboleggerà, doppiamente, l’oblio del sapere e la consumazione dell’eterno ritorno di tutte le cose. La dannazione verrà da quel «senso storico» che opprime l’uomo moderno perché lo allontana dal passato, dunque dalle sue risorse originarie, e dunque dal suo avvenire; in altre parole, il nichilismo di chi non può rimettersi dal crimine dei crimini. E vedremo che essere moderno, per Nietzsche, vuol dire affrancarsi, grazie alla conoscenza della storia, dalla progressione rettilinea dell’umanità – l’irreversibile marcia «dialettica» del materialismo storico – per tentare di vivere secondo una rappresentazione del circolo dove non solo tutto è perdonato, ma addirittura dove tutte le cose sono restituite: e qui ritroviamo il concetto di grazia reintegrato nel mito, entro i limiti in cui la possibilità del mito si confonde con la grazia.

Risalirò ora a un testo di Nietzsche che precede di vent’anni la pubblicazione della Gaia scienza, e precisamente alla fondamentale Considerazione inattuale del 1876, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita, al fine di evidenziare tre concetti primari: l’istante, l’oblio e il volere, la triade che è appunto all’origine del sapere, e forse potremo allora comprendere meglio come dalla scienza del passato si giunga, nel sentimento dell’avvenire, non solo a un sapere, ma a una gaia scienza, a una gaya scienza che coincide con un recupero del passato, ma la cui gioia è quella della riscoperta non già di un passato storico propriamente detto, ma di un passaggio non storico dell’avvenire nel passato, del presente nell’eterno.

Il pretesto della Considerazione inattuale del 1876 è il rischio di un’ipertrofia del senso storico, e dunque dell’ossessione del passato, problema specificamente tedesco, caratteristico di quell’epoca; ma ciò che qui più ci interessa è il modo assolutamente paradossale in cui Nietzsche, a partire da questo momento, è portato a sviluppare la sua concezione dell’esistenza, e in particolare a screditare il «senso storico» del passato, col pretesto di liberarne il presente, mentre è in apparenza mediante una nozione positiva dell’oblio ma in realtà mediante un ricordo inconscio che Nietzsche cerca di ristabilire, sul piano della cultura, un contatto più immediato con il più remoto passato. Come punto di partenza di questa Inattuale Nietzsche sceglie il diverso modo in cui l’istante è vissuto rispettivamente dall’animale, dal bambino e dall’uomo adulto. Se l’animale, «che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante», suggerisce la prima immagine di una vita senza storia, il bambino offre all’adulto il commovente spettacolo di una vita che «non ha ancora nessun passato da ripudiare», perché «giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro». Per l’uomo, al contrario, «l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via – e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo”». Strappato alla cieca serenità dell’infanzia occultata dall’oblio, l’uomo imparerà a capire la parola fu, atta a rammentargli in che cosa sostanzialmente consista la sua esistenza, «qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare sé stessa, del contraddire sé stessa». Frase, questa, che già contiene in nuce e già prepara la futura ed estrema dottrina di Nietzsche, come lascia presagire la proposizione seguente: «Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini né paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri ... Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità ... Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio». E, in effetti, quando il volere, liberato del «senso storico», si sarà identificato in quella cosa che non vive d’altro che della sua propria contraddizione, allora nell’istante, vissuto non più come spettro di un istante precedente ma come serenità, non più cieca ma ludica, l’universo apparirà non più come «qualcosa di imperfetto» ma sotto l’aspetto di un bambino che gioca. Invece:

«... c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà. Per determinare questo grado e poi per mezzo suo il limite in cui il passato deve essere dimenticato, se non vuole diventare l’affossatore del presente, si dovrebbe sapere con esattezza quanto sia grande la forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su sé stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee». Ci sarebbe dunque un modo di esistere nella storia e fuori dalla storia. Quanto al «senso storico» in un determinato momento della storia, esso instaura un rapporto ingannevole dell’istante vissuto con il passato storicamente riflesso e il tempo che resta da vivere; se esalta il passato, svuota il presente; se fissa i compiti del presente sulla base di quelli assolti nel passato, squalifica il passato non meno di quanto restringa le opportunità del presente: poiché non potremmo giudicare in stato di consapevolezza ciò che un tempo fu compiuto nell’inconsapevolezza, così come l’uomo non può mai agire nel presente senza sospendere la coscienza del proprio passato; e infatti la storia è costituita essenzialmente da atti o da opere di individui che, nel momento stesso in cui creavano o agivano, procedevano spontaneamente per accecamento o per ingiustizia, e quindi per oblio; cosicché la storia non è fatta d’altro che di atti e creazioni nati dall’oblio: di qui lo stretto rapporto che intercorre fra l’oblio e la volontà creatrice. Ciò che la storia insegna è in realtà l’opposto di ciò che lo spirito «storico» vi proietta: non già un progresso via via più consapevole dell’uomo, ma il continuo ritorno delle stesse inclinazioni mai esauritesi nel corso delle generazioni che si sono succedute; comprendere la storia in questo senso, in contrasto con la scienza che proclama il suo fiat veritas pereat vita, significa appunto arrivare, grazie allo stimolo del concetto di ritorno, a una vita fuori dalla storia; «ciò che fu possibile una volta potrebbe presentarsi come possibile per la seconda volta», e l’uomo, lungi dal trovare in questo un motivo di smarrimento o di sterilità, deve agire per agire; ciò che avrà voluto sarà sempre il compimento di ciò che pensava di non volere; perché egli non può sfuggire a questa esistenza se tenta di sfuggirle consapevolmente, mentre questa stessa esistenza saprà indurlo a dimenticare al momento giusto per ritrovare immancabilmente quell’integrità che caratterizza qualsiasi opera o qualsiasi azione di rilievo. È quanto testimoniano le potenze «sovrastoriche» per eccellenza, l’arte e la religione, che «distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile ... La scienza ... reputa infatti vera e giusta ... solo la considerazione delle cose che vede dappertutto un divenuto, un elemento storico, e in nessun luogo un ente, un eterno», ragion per cui non può che detestare queste forze eternizzanti, queste forze dell’oblio – negazione stessa della scienza – che sono l’arte e la religione, nelle quali passato, presente e futuro si confondono.

Questa concezione, agli antipodi di ogni filosofia della storia derivante da Hegel, ci interessa qui solo nella misura in cui ci mostra come Nietzsche sfrutti ulteriormente per sé stesso questo concetto di vita fuori dalla storia, e verifichi tale pensiero a monte del flusso della storia mediante la sua stessa vita, per scoprirvi infine il proprio destino. Se le possibilità dell’umanità scomparsa sono sempre valide in ciascun individuo, in ciascun momento della storia, allora per Nietzsche si tratta di condurre una guerra spietata a tutto ciò che vorrebbe soffocare nell’uomo il sempre possibile: una guerra, dunque, tanto alla morale utilitarista (sottinteso: mercantilista) quanto a quell’organizzazione scientifica della vita sociale che la posterità hegeliana trarrà come conseguenza dell’agonia del cristianesimo. Per contro, poiché il cristianesimo rappresenta nel nostro mondo una parte dell’antichità di cui è stato la via d’uscita, Nietzsche lo considera come una via d’accesso o di ritorno all’antichità, e volge il suo sguardo al di là dei duemila anni di morale cristiana. Del resto in un altro passo di quella stessa Considerazione inattuale del 1876 affermava: «Ma anche se volessimo accontentarci di buon grado di questo destino di essere discendenti dell’antichità, se almeno ci risolvessimo a prenderlo molto energicamente sul serio e con grandezza, e a riconoscere in quest’energia il nostro privilegio distintivo e unico – saremmo nondimeno costretti a chiedere se il nostro destino debba essere in eterno quello di essere discepoli dell’antichità declinante. In un qualche giorno potrà essere consentito fissare la nostra meta progressivamente più in alto e più lontano, in un qualche giorno dovremmo poterci far l’elogio di aver ricreato in noi – anche mediante la nostra storiografia universale – lo spirito della civiltà alessandrino-romana in modo così fruttuoso e grandioso, da poterci poi porre, come il più nobile compenso, l’ancor più poderoso compito di spingerci dietro questo mondo alessandrino e oltre di esso, e di cercare con sguardo coraggioso i nostri modelli nel primitivo mondo greco antico del grande, del naturale e dell’umano. Ma là troviamo anche la realtà di una cultura essenzialmente antistorica, e di una cultura nonostante ciò o piuttosto a causa di ciò indicibilmente ricca e piena di vita». In questa pagina troviamo quella tenace nostalgia di Nietzsche che, come nel caso di Hölderlin, lo ha sempre opposto alla sua epoca, e che è la vera ispiratrice della concezione antihegeliana e sovrastorica secondo la quale il mondo, lungi dal procedere verso una qualsivoglia forma di salvezza finale, si ritrova in ogni istante della sua storia compiuto e giunto al suo termine ultimo. Ragion per cui «il passato e il presente sono la stessa e identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono, come onnipresenza di tipi non transitori, una struttura immobile di valore immutato e di significato eternamente uguale». Così, collocandosi innanzitutto sul piano della cultura filologica e storica, questo tentativo paradossale di vivere la storia controcorrente, recuperando attraverso l’oblio il passato più remoto, avrebbe fatto precipitare Nietzsche nella sua esperienza decisiva. Giacché «quanto più la natura intima di un uomo ha radici forti, tanto più egli si approprierà o impadronirà del passato; e se si immaginasse la natura più potente e immane, essa si potrebbe riconoscere dal fatto che per lei non ci sarebbe nessun limite del senso storico, ove questo agisse in modo soffocante e dannoso; ogni cosa passata, propria ed estraneissima, essa l’attirerebbe a sé, l’introdurrebbe in sé, trasformandola per così dire in sangue». Venti anni più tardi, il problema del «senso storico» e della vita «fuori dalla storia» si è confuso a tal punto con la sua stessa esistenza che egli può scrivere nella Gaia scienza (afor. 337): «... chi sa sentire la storia degli uomini nella sua totalità come la sua propria storia, prova, generalizzandolo enormemente, tutto quell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa alla salute, del vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato all’amata, del martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe, la sera della battaglia che non ha deciso nulla, e che tuttavia gli ha recato ferite e la perdita dell’amico – ma sopportare questo cumulo immenso d’afflizioni d’ogni specie, poterlo sopportare, ed essere pur sempre ancora l’eroe che, allo spuntar di un secondo giorno di battaglia, saluta l’aurora e la sua felicità, essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni davanti e dietro di sé, l’erede di ogni tratto aristocratico di tutto lo spirito passato, erede gravato di obblighi, essendo il più nobile di tutti i nobili dell’antichità, e al contempo il capostipite di una nobiltà nuova, di cui nessun tempo vide e sognò l’eguale: assumersi tutto questo carico, il più antico come il più nuovo, le perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie dell’umanità: infine possedere tutto ciò, e tutto insieme stringerlo in un unico sentimento: questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che finora l’uomo non ha mai conosciuto – la felicità di un dio colmo di potenza e d’amore, di lacrime e di riso, una felicità, che, come il sole alla sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora – umanità!».

Ora, questa condensazione dell’umanità passata in una sola anima può realizzarsi soltanto nell’oblio di un presente «storicamente» determinato, in un oblio con il favore del quale si liberano le risorse dell’anima, che sono poi la sua forza plastica di assimilazione; così, nel progetto di risalita verso il mondo originario della Grecia arcaica, Nietzsche faceva appello alle immagini «non storiche» soggiacenti alle loro elaborazioni razionali, e dunque al mito; proprio lui, l’erudito, lui, la cui sapienza aveva raggiunto un grado d’insonnia, lui attribuiva all’oblio la funzione positiva di un sov-venire tanto più fecondante in quanto è necessariamente «inattuale», tanto più attualizzante in quanto agisce nell’inconsapevolezza. Parleremo qui di «cultura» vissuta; ma questo termine non è che una mediocre traduzione del fatto perturbante di uno spirito che dice a sé stesso: Io sono molti. In effetti, l’abbondanza del sapere «convertito in sangue» accresce la facoltà spirituale di essere altro molto più di quanto non lo esiga una verità normativa esclusiva: «“Non io, non io! bensì un Dio attraverso di me!”. Fu nell’arte e nella forza mirabile di plasmare dèi – il politeismo – che questo istinto poté disgravarsi, purificarsi, giungere a perfezione, nobilitarsi: infatti, in origine, era questo un istinto volgare e meschino, affine alla testardaggine, alla disobbedienza e all’invidia. Essere ostili a questo istinto di un ideale proprio: era questa, una volta, la legge di ogni eticità. Non c’era, allora, che una sola norma: “l’uomo” – e ogni popolo credeva di possedere quest’unica e ultima norma. Ma, al di sopra e fuori di sé, in un lontano oltremondo, si poteva vedere una molteplicità di norme: un dio non era la negazione o la bestemmia di un altro dio!» (La gaia scienza, afor. 143); forse il Serpente, con il suo sicut dii, intendeva insinuare questa idea del vantaggio più grande del politeismo. E nella misura in cui il sapere sviluppa così la facoltà di metamorfosi, una vita vissuta una volta per tutte appare all’improvviso più povera rispetto a un solo istante ricco di molteplici modi di esistenza; ecco perché un solo istante così carico, così «sov-venuto» nella sospensione della coscienza del presente, basta a ribaltare l’intero corso di una vita. Di qui il carattere illuminativo della Gaia scienza, un’opera in cui molti aforismi testimoniano momenti di estatica serenità: sia che, a partire da quell’istante, egli abbia avuto la sensazione (formulata sette anni più tardi, alle soglie della follia) che «in fondo io sono tutti i nomi della storia», e quindi di perdere la propria identità nella certezza di ritrovarsi, comunque, molteplice, nella permanenza identica dell’universo; sia che simili momenti gli riservassero, proprio in virtù della loro familiarità, intensa sino allo straniamento, come la prova manifesta della natura ciclica dell’esistenza; allora gli sov-venne di ciò che sarebbe avvenuto, ossia dello stesso essere sov-venuto nell’oblio nel momento voluto. Tali momenti hanno trovato espressione nel seguente aforisma: «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!”. – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!”? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello?» (La gaia scienza, afor. 341).

Brano che, nella sua forma di parabola, non può essere elucidato in modo razionale, giacché non è razionale il suo oggetto: la vita eterna ricoperta dall’oblio. L’io apprende qui qualcosa di cui non può ricordarsi: questa stessa vita, da lui già vissuta innumerevoli volte. Se l’ha dimenticata, è perché l’ha vissuta in tutti i suoi dettagli esattamente come quella che sta vivendo nell’hic et nunc. Ora, poiché l’ha vissuta in modo così identico, quando la rivivrà ancora, in essa non vi sarà alcunché di nuovo. E quindi l’io non potrà ricordarsi non solo di averla già vissuta, ma neanche di averla voluta, allorché l’eternità di questa vita voluta sta per sov-venirgli. E tuttavia l’eternità del volere emerge qui nella temporalità dell’istante come un evento nuovo: vale a dire nella forma della domanda: «Vuoi ancora una volta questo e quello?». E allora la risposta affermativa fornisce «l’eterna conferma». Ma a questo punto la parola del demone elimina di nuovo la distanza dall’«una volta per tutte»: cosicché anche questa domanda verrà posta innumerevoli volte. E poiché l’eternità del volere si colloca necessariamente al di qua del Lete,1 e non si può nel contempo volersi di nuovo e già vivere, la parabola del «peso più grande» si presenta alla mente come un’aporia: a meno che non si veda, qui, nella coincidenza tra l’estrema disperazione e la suprema speranza, tra la maledizione e la benedizione ultime, la vertigine dell’esistenza impossessarsi dello spirito, mentre lo spirito riprende di nuovo il controllo all’estremo della vertigine, come la «dea della vittoria» di cui proiettava l’immagine, capace di star ritta «su un punto, senza vertigini né paura»; esso crea in quanto principio di ogni evento, e dunque di quella stessa vertigine cui giunge e che in qualche modo conquista; e in effetti, mentre enuncia una sentenza che esclude ogni creazione – «non ci sarà ... niente di nuovo» in questa vita «come tu ora la vivi e l’hai vissuta» –, esso forgia, per conformarvisi, l’immagine di quel demone che gli rivela la sua legge, l’immagine di quella clessidra in cui vuole rovesciarsi... giacché lo spirito, identificandosi, nella sua eternità, con la legge del cerchio temporale in cui passato e futuro necessariamente coincidono, ritorna su sé stesso nell’istante, ma questa volta sotto la forma dell’imperiosa domanda che la sua stessa eternità gli rivolge: in virtù della quale l’io, in quanto essere volente e responsabile, si vede costretto a compiere il proprio destino come se esso non fosse già compiuto per il solo fatto di esistere: se non scegliessi liberamente la reiterazione (apparentemente incomprensibile e assurda) dei miei atti, già compiuti innumerevoli volte, cesserei di essere me stesso in quanto padrone del mio segreto, in quanto incarnazione di questa legge sovrana, senza tuttavia cessare, con ciò, di agire necessariamente come sua suprema conferma: io non posso essere me stesso se non volendo liberamente la mia vita necessariamente rivissuta. Ma la legge dell’eterno ritorno elimina il dilemma nel momento stesso in cui lo pone nuovamente: non responsabile del proprio esserci reiterato, perduto e subito ritrovato, l’io ridiventa ogni volta responsabile di ri-volersi quale fu necessariamente da sempre e sempre necessariamente sarà: la sua libera decisione non esaurirà mai l’eternità del suo essere, il cui moto circolare ricondurrà sempre all’imperativo «Che tu voglia te stesso!», per poi eliminarlo al momento voluto. E tuttavia la domanda posta riguardo a qualsiasi cosa – «Vuoi tutto ciò innumerevoli volte?» – deve fare di me, quale sono, un altro: giacché in virtù di questa legge opprimente, più ne avvertirò la gravità, meno importanza darò al pretesto delle mie azioni, e più seriamente prenderò la mia disinvoltura... L’eternarsi del sé, la cui aspirazione all’eternità vuol qui esplicitarsi mediante una concezione ciclica dell’essere, consiste nel razionalizzare un momento estatico per sua natura inspiegabile che, in sé, attraverso l’identificazione del tempo vissuto con l’eternità, sopprime qualsiasi espressione comunicabile al di fuori dell’immagine del circolo: tanto che un brano tardo, redatto all’epoca della Trasvalutazione di tutti i valori (1885), ribadisce: «l’ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l’eternità, tutto questo, così come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente: da capo non soltanto a sé stesso, ma all’intero dramma e spettacolo, e non soltanto a uno spettacolo, ma fondamentalmente a colui che proprio di questo spettacolo ha bisogno – e lo rende necessario: poiché egli ha sempre di nuovo bisogno di sé stesso – e si rende necessario – – Come? E non sarebbe questo – circulus vitiosus deus?».

Quando lo spettacolo della risacca sulla riva del mare (afor. 310) gli rivelava, nel moto avido delle onde, così bramose di tesori sepolti, la natura stessa del volere come proprio segreto: «Così vivono le onde – così viviamo noi, i dotati di volere!», questo segreto non risiedeva già forse nel «come se ci fosse qualcosa da raggiungere!»? E invece non esiste nient’altro che questo moto avido, nient’altro che questa brama di tesori sepolti: nient’altro, di fatto, che questo volersi raccogliere nell’andirivieni delle onde: l’anima, riappropriandosi della propria sovranità, non ha nemmeno bisogno dell’enunciazione di una legge dell’eterno ritorno dell’identico: la vediamo qui vivere fuori dalla storia nella fiabesca compagnia delle onde: «Fate a vostro talento, voi tracotanti, urlate di piacere e di malvagità – o immergetevi ancora, versate nel fondo degli abissi i vostri smeraldi, sparpagliate alla superficie il vostro infinito, bianco merletto di schiuma spumeggiante – per me tutto va bene, poiché tutto vi sta così bene e di tutto vi sono così grato: come potrei tradirvi? Giacché – statemi a sentire! – io conosco voi e il vostro segreto, conosco la vostra stirpe! Sì, voi ed io, apparteniamo a una sola stirpe! – Voi ed io abbiamo anzi un solo segreto!». E questo segreto – che è poi la lezione della Gaia scienza – è che tale esaltazione del movimento per il movimento annienta il concetto di un qualsivoglia fine nell’esistenza e glorifica l’inutile presenza dell’essere nell’assenza di qualsiasi fine: in mancanza di pretesti in forza dei quali la vita vale la pena di essere vissuta, la specie umana languisce; ma «l’istinto di conservazione» ne crea sempre di nuovi, atti a preservarla dalla vertigine dell’essere, dall’angoscia di un’esistenza senza scopo; ma se i pretesti hanno sempre la funzione di celare l’inutilità dell’esistenza («come se ci fosse qualcosa da raggiungere»), solo i simboli di una religione, così come i simulacri dell’arte, danno conto dell’adesione dell’uomo all’idea dell’inutilità dell’essere.

«Il più grande avvenimento recente» si dice all’inizio del quinto libro della Gaia scienza «– che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa. A quei pochi almeno, i cui occhi, la cui diffidenza negli occhi è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto che un qualche sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio: a costoro il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni giorno più crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più “antico”. Ma in sostanza si può dire che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione dei più perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che veramente è accaduto con questo avvenimento – e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea». E, più avanti (afor. 357): «Mentre respingiamo in tal modo da noi l’interpretazione cristiana, condannandone il “senso” come un’opera di falsari, ecco che subito ci si viene avvicinando, spaventosamente, il quesito di Schopenhauer: ha dunque l’esistenza in generale un senso? – quel quesito che soltanto per essere udito in tutta la sua completezza e profondità avrà bisogno di un paio di secoli». Ma è nella morte di Dio, l’evento degli eventi, sentito, nella parabola dell’Uomo folle (afor. 125), come il crimine dei crimini che si collocherà l’istante decisivo del volere nella necessità circolare dell’essere; qui invece l’evento emerge in qualche modo dall’oblio come un’azione passata: «Quest’azione è ancor sempre più lontana dagli uomini delle stelle più lontane – eppure son loro che l’hanno compiuta!». E in effetti per Nietzsche il nichilismo, conseguenza della situazione storica dell’«agonia del cristianesimo», può essere superato soltanto se preso in carico dal volere come un atto sacrilego: «Dio è morto ... E noi lo abbiamo ucciso!... Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli – chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti espiatòri, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare?»... Il concetto di sovr-umanità non significa niente se lo si separa dal contesto in cui il nichilismo deve essere assunto come sacrilegio: il sovrumano si annuncia come nuova maturità dello spirito tornato al sempre possibile, dove la caduta al di qua dell’umano e lo slancio al di là sembrano coincidere, indiscernibili l’uno dall’altro; malinteso che deve essere risolto e superato dal fatto stesso di volere. La libertà in cui si ritrova l’assassino di Dio (il nichilismo morale), derivando dalla soppressione del Decalogo (del tu devi), si rovescia improvvisamente in una cieca necessità in cui l’io sopravvive solo se impone a sé stesso un nuovo tu devi, il tu devi volere. Ma volere che cosa? Volere il nulla? Questa è, né più né meno, la situazione di fatto dell’Occidente; un volere inconscio, poiché l’umanità non può volere il nulla in quanto tale, pur consegnandosi al nulla nella sua impotenza a volere. (E Nietzsche, che altrove stigmatizza la mistica del nulla, parla qui [afor. 347] dei «miserabili cantucci» in cui si perdono con veemenza «i nostri più assennati contemporanei ... o in anguste professioni di fede estetica sul tipo del naturalisme parigino ... ovvero nel nichilismo alla moda di Pietroburgo [vale a dire nel credere nel non credere portato al martirio]». D’altra parte, egli considera conseguenze del nichilismo il senso di vacuità generale e la sua compensazione, ovvero il bisogno di eccitanti, caratteristica del mondo moderno). La reazione che Nietzsche mira a indurre contro il nichilismo, dopo averlo portato alla consapevole formulazione di una situazione storica, ha la sua molla nel concetto non più soltanto di morte, ma di messa a morte di Dio, in quanto atto sacrificale da parte di una volontà sacrilega, a partire dal momento in cui il volere ritrova l’integrità dell’essere come reintegrazione della propria sovranità; ed è assecondando quel moto che trascina l’io nel punto più basso (e qui morte di Dio e deicidio si confondono) per poi ricondurlo sulla più alta vetta che la volontà si afferma in un atto estremo, nell’istante in cui il tu devi volere, diventando un volere sé stesso, approda all’io sono come fui e come sarò sempre; ora, questa reintegrazione della sovranità dell’essere nell’enunciato «Io sono» non è qui concepita nel senso di un io fortuito che lo pronuncerebbe escludendo qualsiasi altro enunciato possibile, come nel caso del post-hegeliano Max Stirner, che, per parte sua, proclama l’assunzione pura e semplice del nulla da parte del proprio io: «Ho fondato la mia causa sul nulla». E in effetti, se Nietzsche ha inteso conferire al nichilismo de facto, all’ateismo volgare l’accento patetico del deicidio proclamato dall’Uomo folle, non lo ha certo fatto per promuovere il nulla fine a sé stesso, la negazione fine a sé stessa, bensì l’acquiescenza all’essere di cui il Dio morale dei cristiani, secondo lui, non è che un’alienazione utilitaria, alienazione della ricchezza dell’esistenza per via della morale (per Nietzsche sinonimo di avarizia); e poiché la distruzione della morale cristiana non ha affatto come scopo la licenza nel senso ottuso dell’ateismo volgare, il rifiuto del cristianesimo non mira a sopprimere una religione della sofferenza in quanto passione dell’esistenza, ma in quanto mercanteggiamento in cui la passione, ridotta a mero dolore, rivendica la salvezza esclusivamente in nome del dolore. «Noi siamo, in una parola – e deve essere, questa, la nostra parola d’onore! –, buoni Europei, gli eredi dell’Europa, i ricchi, stracolmi, ma, anche negli obblighi, smisuratamente ricchi eredi d’un millenario spirito europeo: in questo senso siamo cresciuti troppo anche per il cristianesimo, ostili a esso proprio perché è nel cristianesimo che abbiamo le nostre radici, perché i nostri antenati furono cristiani, di un’onestà assoluta come tali, essi che hanno sacrificato di buon animo alla loro fede sostanze e sangue, ceto sociale e patria. Noi – facciamo lo stesso. Per che cosa dunque? Per la nostra incredulità? Per ogni genere d’incredulità? No, voi lo sapete bene, amici miei! Quel nascosto  dentro di voi è più forte di tutti i no e i forse di cui siete malati insieme al vostro tempo: e se dovete tentare il mare, voi emigranti, è perché anche voi siete incalzati da – una fede!...». Se per Nietzsche il concetto di Dio «riassume tutto l’odio da sempre rivolto contro la vita», il sovrumano, nelle parabole di Zarathustra, non reintegra la sovranità dell’essere se non con il divino, in senso mitico, rinnovando così il mito di un’antica divinità come divinità a venire: Dioniso, figura suprema del sempre possibile, e che, mediante il pessimismo dionisiaco, libererà l’uomo dal suo nichilismo attuale (afor. 370).

In quale misura questa dottrina può essere insegnata? È almeno comunicabile? E a chi potrebbe essere comunicata? A chi si rivolge, oggi? A chi? Oppure questi interrogativi sono ormai del tutto superati? Questa dottrina non è separabile dalla sua vita, che, nel nostro mondo moderno, tenta di rinnovare l’antico significato di fatumsono l’uomo del fato. Resta da capire se l’amor fati, dunque un fatum «voluto», non sia appunto il paradosso della coscienza moderna, che ha «reintegrato», «interiorizzandolo», il Proclama di Lachesi2 E questo fatum voluto è incomunicabile, inalienabile perfino nella sua «alienazione» nel senso patologico del termine. A partire da Nietzsche, per il quale si trattava dell’unica possibile versione «moderna» della discesa empedoclea nell’Etna, «l’alienazione mentale» ha fatto la sua comparsa nelle vite degli uomini di lettere e, di conseguenza, ha cominciato a subire la deliberata indiscrezione della volgarizzazione pubblicitaria. Oggi un poeta sa già che, se gli capiterà di impazzire, la sua consacrazione sarà certa. Lo sa già: «Ancora qualche millennio sulla scia dell’ultimo secolo! – e in tutto l’operare dell’uomo si rivelerà la più alta saggezza; ma appunto con ciò la saggezza avrà perduto tutta la sua dignità. Allora sarà bensì necessario, ma allo stesso tempo così consueto e comune, essere saggi che un gusto aristocratico sentirà questa necessità come qualcosa di volgare. E allo stesso modo con cui una tirannide della verità e della scienza sarebbe in grado di far salire il prezzo della menzogna, così una tirannide della saggezza potrebbe far germogliare un nuovo genere di nobiltà interiore. Essere nobili – potrebbe allora forse voler dire: “Avere delle follie per la testa”». La gaia scienza, nel collocarsi in corrispondenza di una svolta decisiva nella vita di Nietzsche, contiene appunto alcune considerazioni riguardo alla comunicabilità delle sue esperienze. Nietzsche aveva nostalgia di discepoli e, forse ancor di più, di una comunità attiva ma chiusa. Forse ha vagheggiato un’azione di ampio respiro, tesa al rovesciamento di assetti sociali o istituzioni politiche (almeno a Torino, quando, trascinato dalle prime vertigini della follia, vale a dire al culmine della lucidità, diventato Dioniso e al tempo stesso il Crocifisso, vuole convocare a Roma i sovrani d’Europa per far fucilare il giovane Kaiser e gli antisemiti). E, mentre soppesava le possibilità di essere compreso, di trovare delle affinità con altri, nel contempo presagiva anche quell’infallibile legge della svalutazione di un’esperienza rara e autentica non appena quest’ultima entra a far parte delle abitudini di un maggior numero di individui, fino a diventare lo slogan popolare di una massa che se ne appropria senza passare attraverso i tormenti, i dolori e le gioie squisitamente inalienabili del singolo. La celebre sentenza di Gide – «dal momento che è dovuto diventare pazzo, noi non siamo più tenuti a impazzire» – è veridica soltanto se si ricava una lezione pratica dal suo magistero, e in particolare dall’«immoralismo». Ma da questo punto di vista la svalutazione ha compiuto la sua opera per via della standardizzazione industriale. Se vi è una lezione che la lettura di Nietzsche fornisce a ogni lettore attento, è l’orrore per la futilità: ebbene, oggi ormai immoralismo e futilità sono diventati sinonimi. Le «zitelle, le oche che dalla natura hanno ricevuto solamente l’innocenza» – con cui Nietzsche identificava i benpensanti del suo tempo – sono sparite dalla circolazione. Quasi quasi ci piacerebbe vederne ancora! La donna tentata è una mosca bianca. Questo segno dei tempi farebbe cambiare prospettiva a Nietzsche. Lo segnalo solo en passant, giusto per rammentare la confusione che si viene a creare, agli inizi del Novecento, fra il «nietzschianesimo» e l’emancipazione femminile, il movimento delle suffragette, il femminismo, nel quale Nietzsche vedeva un sintomo di decadenza. Nella prospettiva del nichilismo ascendente (in particolare, la socializzazione e la proletarizzazione massicce determinate dal mondo industrializzato, con la sua produzione a oltranza, il suo culto della produttività fine a sé stessa, tutte condizioni propizie a un generale impoverimento morale), Nietzsche prevedeva due movimenti che situava nel suo personale contesto, il clima della «morte di Dio». Due movimenti sono dunque possibili; uno è assoluto: «... livellamento dell’umanità, grandi formicai, ecc. ... L’altro movimento: il mio movimento: è, al contrario, l’inasprimento di ogni contraddizione e scissione, l’eliminazione dell’uguaglianza, la creazione di superpotenti. Quel movimento genera l’ultimo uomo. Il mio il superuomo. Il fine NON è assolutamente quello di concepire i secondi come signori dei primi: le due specie devono sussistere l’una accanto all’altra – il più possibile separate; l’una, come gli dèi di Epicuronon curandosi dell’altra» (cfr. La volontà di potenza). Insisto sull’ultima frase per sottolineare come qualsiasi idea di organizzazione «ideologica» per l’esercizio del potere si situasse esattamente agli antipodi delle sue aspirazioni, che qui si inscrivono addirittura sotto il segno dell’utopia. È nondimeno interessante rilevare ciò che pensava riguardo alle possibilità di esistenza di una comunità chiusa: «Ogni volta che la Riforma di tutto un popolo fallisce e a drizzare il capo sono soltanto le sètte, si può inferire che il popolo è già in sé molto differenziato, e che comincia a sbarazzarsi dei grossolani istinti del gregge e dell’eticità del costume: un significativo stato di sospensione che si è soliti denigrare come decadimento di costumi e corruzione: mentre, invece, esso annuncia il maturare dell’uovo e l’imminente infrangersi del guscio ... Quanto più universale e incondizionato può essere l’influsso d’un singolo, ovvero del pensiero di un singolo, tanto più indifferenziata e degradata deve essere la massa su cui si esercita questo influsso: mentre tentativi opposti tradiscono opposti bisogni interiori, tesi anch’essi a trovare appagamento e successo. Inversamente, si può sempre inferire una effettiva altezza della civiltà quando nature possenti e dominatrici finiscono per dar luogo soltanto a un effetto scarso e settario: questo vale anche per le singole arti e per i settori della conoscenza. Laddove si esercita un dominio, esistono masse: laddove esistono masse, ivi c’è un bisogno di schiavitù. Dove c’è schiavitù, gli individui non sono che pochi, e questi hanno contro di loro gli istinti del gregge e la coscienza» (La gaia scienza, afor. 149).

La gaia scienza, frutto della più grande solitudine che si possa immaginare, parla essenzialmente a degli individui che sapranno, loro sì, ritrovare quella solitudine, dunque a quelle nature che un fondo di nobiltà induce a rifiutare tanto la distrazione a ogni costo quanto il lavoro a ogni costo, e quindi a sopportare la noia: e qui veniamo ai benefici della solitudine, i quali, a dispetto dell’estremo isolamento di Nietzsche, gli davano la sensazione di essere sempre «entre nous»: «Tutto ciò che è della mia specie nella natura e nella storia, mi parla, mi loda, mi spinge innanzi, mi consola: il resto non lo intendo o lo dimentico subito. Noi siamo costantemente soltanto entre nous» (afor. 166). Quanto agli «stati d’animo elevati», gli sembra – così dice – che la maggior parte delle persone non creda affatto alla realtà di simili stati d’animo, ad eccezione di coloro che hanno avuto accesso per esperienza diretta a uno stato di elevazione di lunga durata. Nietzsche aggiunge che il fatto di essere l’individuo in cui s’incarna uno stato d’elevazione unico non è stato, fino allora, nient’altro che una «incantevole possibilità», ma che un giorno potrebbe anche accadere che la storia metta al mondo uomini del genere, «allorquando si sarà costituita e stabilita una quantità di condizioni preliminari favorevoli, che oggi neppure il caso più fortunato riesce ad accozzare insieme. Forse per queste anime dell’avvenire sarebbe lo stato d’animo abituale, quello che fino a oggi è entrato solo una volta ogni tanto nelle nostre anime, come un qualcosa d’eccezionale avvertito con un brivido: un movimento continuo tra l’alto e il basso e il sentire l’altezza e la profondità, un continuo salire per le scale e al tempo stesso riposare sulle nubi». Non è forse sorprendente, qui, che sia proprio dalla storia, vale a dire dall’evoluzione umana, che Nietzsche si aspetta la creazione di quelle «condizioni preliminari» grazie alle quali uno stato d’animo eccezionale diventerebbe uno stato ordinario? Certo, qui non viene detto che quelle anime future così dotate saranno tutte le anime; ma quand’anche egli avesse immaginato un ristretto novero di eletti, se non addirittura una casta quasi «sacerdotale» – lui che tanto apprezzava le Leggi di Manu –, una casta in grado di creare quelle condizioni preliminari di natura ascetica proprie delle comunità religiose, egli sembra tuttavia aver previsto, ancora una volta, che i suoi momenti privilegiati – il senso di «un movimento continuo tra l’alto e il basso» –, dovuti alle sue condizioni di vita, alla sua solitudine, non sarebbero comunque sfuggiti a quella inesorabile legge della svalutazione – voglio dire: alla legge dell’espropriazione di un caso personale – che accompagna necessariamente la creazione di condizioni preliminari: una legge a partire dalla quale queste ultime sono accessibili a molti, e poi a tutti; a meno che l’intero genere umano non acceda a un livello spirituale superiore... In entrambi i casi, è confermato l’eterno ritorno, che implica l’abolizione di qualsiasi vita personale, la quale è restituita all’essere, per la più gran gloria dell’essere.