giovedì 26 gennaio 2023

TUTTE LE NOSTRE TRISTEZZE Estratto da "Lettere a un giovane poeta" Rainer Maria Rilke



TUTTE LE NOSTRE TRISTEZZE

Estratto da "Lettere a un giovane poeta" Rainer Maria Rilke


Borgeby gård, Flädie (Svezia), 12 agosto 1904

 

Voglio tornare a parlarvi ancora un tratto, caro signor Kappus, se anche non posso dirvi quasi nulla che rechi qualche aiuto, a pena qualcosa di utile. Voi avete avuto molte e grandi tristezze, che se ne sono andate. E dite che anche quel loro andarsene fu per voi difficile e irritante. Ma vi prego, riflettete se quelle grandi tristezze non siano piuttosto passate attraverso di voi. Se molto in voi non si sia trasformato, se in qualche parte, in qualche punto del vostro essere non vi siate mutato, mentre eravate triste. Pericolose e maligne sono quelle tristezze soltanto, che si portano tra la gente, per soverchiarle col rumore; come malattie, che vengano trattate superficialmente e in maniera sconsiderata, fanno solo un passo indietro e dopo una breve pausa erompono tanto più paurosamente; e si raccolgono nell’intimo e sono vita, sono vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può morire. Ci fosse dato di veder più oltre che non giunga il nostro sapere e un poco più in là dei bastioni del nostro presentimento, forse allora sopporteremmo noi le nostre tristezze con maggior fiducia che le nostre gioie. Ché sono esse i momenti, in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto; i nostri sentimenti ammutoliscono in casta timidezza, tutto in noi indietreggia, sorge una calma, e il nuovo, che nessuno conosce, vi sta nel mezzo e tace.

Io credo che quasi tutte le nostre tristezze siano momenti di tensione, che noi risentiamo come paralisi, perché non udiamo più vivere i nostri sentimenti sorpresi. Perché noi siamo soli con la cosa straniera ch’è entrata in noi; perché quanto ci era confidente e abituale per un momento ci è tolto; perché noi siamo in un trapasso, dove non possiamo fermarci. Perciò anche passa la tristezza; il nuovo in noi, il sopravvenuto, è entrato nel nostro cuore, è penetrato nella sua camera più interna e anche là non è più, – è già nel sangue. E noi non apprendiamo che fosse. Ci si potrebbe facilmente persuadere che nulla sia accaduto, e pure noi ci siamo trasformati, come si trasforma una casa, in cui sia entrato un ospite. Noi non possiamo dire chi sia entrato, forse non lo sapremo mai, ma molti indizi suggeriscono che il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in noi, molto prima che accada. E però è tanto importante essere soli e attenti, quando si è tristi: perché il momento vuoto in apparenza e fisso, in cui il futuro entra in noi, è tanto più vicino alla vita, di quell’altro sonoro e casuale istante in cui esso, come dal di fuori, ci accade. Quanto più calmi, pazienti e aperti noi siamo nella tristezza, tanto più profondo e infallibile entra in noi il nuovo, tanto meglio noi ce lo conquistiamo, tanto più sarà esso nostro destino, e noi ci sentiremo, se un giorno più tardi «accadrà» (cioè da noi uscirà verso gli altri) nel più intimo affini e prossimi a lui. E questo è necessario. È necessario – e su questo cammino si svolgerà successivamente il nostro sviluppo, – che nulla ci accada di estraneo, ma solo quanto da lungo tempo ormai ci appartiene. Si sono già dovuti ripensare rovesciando tanti concetti di movimento, si imparerà anche a poco a poco a riconoscere che quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non entra in essi da fuori. Solo perché tanti non assorbirono e trasformarono in se stessi i loro destini, finché vivevano in loro, non riconobbero che cosa usciva da essi; era a loro così estraneo ch’essi credettero, nel loro terrore smarrito, che dovesse appunto ora essere entrato in loro, ché giuravano non avere in sé prima ritrovato mai cosa simile. Come a lungo ci si è ingannati sul movimento del sole, così ci s’inganna ancora sempre sul movimento dell’avvenire. Il futuro sta fermo, caro signor Kappus, ma noi ci moviamo nello spazio infinito.

Come dovremmo non sentirne fatica?

E se torniamo a parlare della solitudine, si chiarisce sempre più che non è cosa che sia dato scegliere o lasciare. Noi siamo soli. Ci si può ingannare su questo e fare come se non fosse così. È tutto. Ma quanto meglio è comprendere che noi lo siamo, soli, e anzi muovere di lì. E allora accadrà che saremo presi dalle vertigini; ché tutti i punti, su cui il nostro occhio usava riposare, ci vengono tolti, non v’è più nulla di vicino, e ogni cosa lontana è infinitamente lontana. Chi dalla sua stanza, quasi senza preparazione e trapasso, venisse posto sulla cima di una grande montagna, dovrebbe provare un senso simile: una incertezza senza uguali, un abbandono all’ignoto quasi l’annienterebbe. Egli vaneggerebbe di cadere o si crederebbe scagliato nello spazio o schiantato in mille frantumi; quale enorme menzogna dovrebbe inventare il suo cervello per recuperare e chiarire lo stato dei suoi sensi. Così si mutano per colui che diviene solitario tutte le distanze, tutte le misure; di queste mutazioni molte sorgono d’improvviso e, come in quell’uomo sulla cima della montagna, nascono allora straordinarie imaginazioni e strani sensi, che sembrano crescere sopra ogni misura sopportabile. Ma è necessario che noi consumiamo anche questa esperienza. Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca; tutto, anche l’inaudito, deve essere ivi possibile. È questo in fondo il solo coraggio, che a noi si richieda: il coraggio di fronte all’esperienza più strana, più prodigiosa e inesplicabile, che si possa incontrare. Che gli uomini fossero in questo senso vili, ha recato un danno infinito alla vita; le esperienze che si chiamano «apparizioni», tutto il così detto «mondo degli spiriti», la morte, tutte queste cose a noi così affini sono state tanto cacciate per difesa quotidiana dalla vita che i sensi, con cui le potremmo afferrare, sono rattrappiti. Non parliamo poi di Dio. Ma l’angoscia davanti all’inesplicabile non solo ha impoverito l’esistenza del singolo, anche le relazioni da uomo a uomo ne sono state ristrette, come trasportate da un alveo d’infinite possibilità su un argine incolto, a cui nulla accade. Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono così indicibilmente monotone e senza novità da caso a caso, ma alla paura di un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo la sua propria esistenza. Ché come noi pensiamo questa esistenza del singolo quale uno spazio o più grande o più piccolo, si mostra così che i più imparano a conoscere soltanto un angolo del loro spazio, un posto alla finestra, una striscia, su cui vanno su e giù. Così hanno essi una certa sicurezza. E pure è quella incertezza piena di pericoli tanto più umana, che spinge i prigionieri nelle storie di Poe a palpare le forme del loro pauroso carcere e a non estraniarsi agli indicibili terrori del loro soggiorno. Ma noi non siamo prigionieri. Non reti e trappole sono tese intorno a noi, e non v’è nulla che ci debba angosciare o tormentare. Noi siamo posti nella vita come nell’elemento più conforme a noi, e inoltre per adattamento millenario ci siamo tanto assimilati a questa vita, che, se ci teniamo immobili, per un felice mimetismo appena ci si può distinguere da tutto quanto ci attornia. Noi non abbiamo alcuna ragione di diffidare del nostro mondo, ché non è esso contro di noi. E se ha terrori, sono nostri terrori; se ha abissi, appartengono a noi questi abissi, se vi sono pericoli, dobbiamo tentare di amarli. E se solo indirizziamo la nostra vita secondo quel principio, che ci consiglia di attenerci sempre al difficile, quello che ora ci appare ancora la cosa più estranea, ci diventerà la più fida e fedele. Come possiamo dimenticarci di quegli antichi miti, che stanno alle origini di tutti i popoli? i miti dei draghi, che si tramutano nel momento supremo in principesse; sono forse tutti i draghi della nostra vita principesse, che attendono solo di vederci un giorno belli e coraggiosi. Forse ogni terrore è nel fondo ultimo l’inermità, che vuole aiuto da noi.

Così non dovete, caro signor Kappus, sgomentarvi, se una tristezza si leva davanti a voi, grande come ancora non ne avete viste; se una inquietudine, come luce e ombra di nuvole, scorre sulle vostre mani e su quanto voi fate. Dovete pensare che qualcosa accade in voi, che la vita non vi ha dimenticato, che vi tiene nella sua mano; non vi lascerà cadere. Perché volete voi escludere alcuna inquietudine, alcuna sofferenza, alcuna amarezza dalla vostra vita, poiché non sapete ancora che cosa tali stati stiano lavorando in voi? Perché mi volete voi perseguitare con la domanda di dove possa venire tutto questo e dove voglia finire? Quando pure sapete che siete in trapasso e nulla avete tanto desiderato quanto trasformarvi. Se qualcosa dei vostri processi ha l’aspetto d’una malattia, riflettete che la malattia è il mezzo con cui l’organismo si libera dall’estraneo; allora bisogna solo aiutarlo a essere malato, con tutta la sua malattia, che scoppi poiché questo è il suo progresso. In voi, caro signor Kappus, accadono ora tante cose: dovete essere paziente come un malato e guardingo come un convalescente, ché voi siete l’uno e l’altro. E più: voi siete anche il medico, che deve vigilare se stesso. Ma in ogni malattia ci sono molti giorni, in cui il medico non può fare altro che attendere. E questo è quello che voi, in quanto siete voi il vostro medico, ora anzitutto dovete fare.

Non vi osservate troppo. Non ricavate conclusioni troppo rapide da quello che vi accade; lasciate che semplicemente vi accada. O troppo facilmente arriverete a guardare con risentimento (cioè: moralmente) il vostro passato, che naturalmente è compartecipe a tutto quello che ora vi accade. Ciò che in voi opera ancora degli errori, desideri e brame della vostra fanciullezza, non è però quello che ricordate e giudicaste. Le straordinarie condizioni di un’infanzia solitaria e inerme sono così difficili, così complicate, abbandonate a tante influenze e nello stesso tempo così sciolte da tutte le reali connessioni della vita, che dove un vizio entra in essa, non lo si può senz’altro chiamare vizio. Si deve in generale esser così prudenti coi nomi, è spesso il nome di un delitto, a cui la vita s’infrange, non l’azione stessa senza nome e personale, che forse era una necessità assolutamente determinata di quella vita e senza fatica potrebbe venirne assunta. E lo spreco di forza solo perciò vi appare così grande, perché stimate troppo la vittoria; non è essa la cosa «grande», che voi credete di avere compiuta, se anche il vostro sentimento ha ragione; grande è che già qualcosa esisteva, che poteste mettere al luogo di quell’inganno, qualcosa di vero e di reale. Senza di questo anche la vostra vittoria sarebbe stata soltanto una reazione morale, senza vasto significato, così invece è divenuta una fase della vostra vita. Della vostra vita, caro signor Kappus, a cui io penso con tanti voti. Vi ricordate come questa vita bramava di uscire dall’infanzia incontro ai «grandi»? Io vedo come ora dai «grandi» si tende oltre verso più grandi. Perciò resta difficile, ma perciò anche non finirà di crescere.

E se vi debbo dire ancora una cosa, è questa: non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole.

 

Il vostro
RAINER MARIA RILKE