LUNGO PETALO DI MARE
Isabel Allende
Unastoria che parte dal 3 settembre 1939, con quel piroscafo francese “Winnipeg” salpato il 4 agosto dal porto di Pauillac, con destinazione Valparaìso, “lungo petalo di mare”, e con a bordo oltre duemiladuecento fuggitivi dalla Guerra Civile Spagnola.
La scrittrice porta a termine una vera e propria opera di ricostruzione che va dalle condizioni del viaggio a quelle di maggiore integrazione. Fatti e persone citate e narrate sono reali e quei pochi che sono inventati sono il ispirati a uomini e donne realmente conosciuti e incontrati dall’Allende.
Unastoria che parte dal 3 settembre 1939, con quel piroscafo francese “Winnipeg” salpato il 4 agosto dal porto di Pauillac, con destinazione Valparaìso, “lungo petalo di mare”, e con a bordo oltre duemiladuecento fuggitivi dalla Guerra Civile Spagnola.
La scrittrice porta a termine una vera e propria opera di ricostruzione che va dalle condizioni del viaggio a quelle di maggiore integrazione. Fatti e persone citate e narrate sono reali e quei pochi che sono inventati sono il ispirati a uomini e donne realmente conosciuti e incontrati dall’Allende.
1. 1938
Prepariamoci, ragazzi, a uccidere di nuovo, a morire nuovamente, e a coprire di fiori il sangue. Pablo Neruda, Insanguinata fu ogni terra dell’uomo, in Il mare e le campane Il piccolo soldato apparteneva alla Quinta del Biberón, la leva dei ragazzini reclutati quando ormai non erano più rimasti né giovani né vecchi per la guerra. Víctor Dalmau accolse lui e gli altri feriti che senza molti riguardi, a causa della fretta, vennero estratti dal vagone merci e poi distesi come fasci di legna sulle stuoie che ricoprivano la pavimentazione di cemento e pietra della Estación del Norte ad attendere che altri veicoli li trasportassero negli ospedali dell’Esercito dell’Est. Era immobile, con l’espressione tranquilla di chi ha visto gli angeli e non teme più nulla. Chissà per quanti giorni era stato sballottato da una barella all’altra, da una stazione di posta all’altra, da un’ambulanza all’altra, fino ad arrivare in Catalogna su quel treno. Alla stazione c’erano diversi medici, sanitari e infermiere che accoglievano i soldati, mandavano subito i casi più gravi all’ospedale e smistavano gli altri a seconda delle ferite riportate – gruppo A le braccia, B le gambe, C la testa e così via in ordine alfabetico – e li indirizzavano con un cartello appeso al collo al luogo corrispondente. I feriti giungevano a centinaia; bisognava fare diagnosi e prendere decisioni nel giro di pochi minuti, ma il trambusto e la confusione erano solo apparenti. Tutti venivano presi in carico, tutti ricevevano assistenza. Chi era destinato in chirurgia veniva portato al vecchio edificio dell’ospedale Sant Andreu a Manresa, quelli che avevano bisogno di essere ricoverati venivano mandati in altri centri, e c’era anche chi era meglio che fosse lasciato dove stava, perché non si poteva fare più nulla per lui. Le volontarie inumidivano le labbra dei feriti, parlavano loro a bassa voce e li cullavano come fossero i propri figli, sapendo che da qualche altra parte c’era un’altra donna a confortare il loro figlio o il loro fratello. Più tardi i barellieri li avrebbero portati al deposito cadaveri. Il piccolo soldato aveva un buco nel petto e, dopo averlo visitato velocemente senza riuscire a sentirgli il polso, il medico stabilì che era troppo tardi per qualunque tipo di intervento e che non aveva nemmeno più bisogno di morfina né di conforto. Al fronte gli avevano coperto la ferita con uno straccio, l’avevano protetta con un piatto di ottone a rovescio e lo avevano fasciato con una benda, il tutto già da diverse ore o diversi giorni o diversi treni, impossibile saperlo. Dalmau si trovava lì per assistere i medici; avrebbe dovuto obbedire all’ordine di lasciar perdere il ragazzino per dedicarsi al ferito successivo, ma pensò che se era sopravvissuto al trauma, all’emorragia e a tutti quegli spostamenti fino ad arrivare a quella banchina della stazione, la sua voglia di vivere doveva essere molta ed era un peccato che si fosse arreso alla morte proprio all’ultimo momento. Rimosse con cura lo straccio e constatò meravigliato che la ferita aperta era pulita come se gliela avessero disegnata sul petto. Non riuscì a spiegarsi come il colpo avesse distrutto le costole e parte dello sterno senza spappolare il cuore. Nei quasi tre anni di esperienza durante la Guerra civile di Spagna, prima sui fronti di Madrid e Teruel e poi all’ospedale di evacuazione, a Manresa, Víctor Dalmau credeva di aver visto di tutto e di essere diventato immune dalle sofferenze altrui, ma non aveva mai visto palpitare un cuore dal vivo. Affascinato, osservò gli ultimi battiti, sempre più lenti e irregolari, fino a che non si fermarono del tutto e il piccolo soldato morì senza nemmeno emettere un sospiro. Per un breve istante Dalmau rimase immobile a contemplare la cavità rossa dove ormai non batteva più nulla. Fra tutti i ricordi della guerra, questo sarebbe stato il più vivido e ricorrente: il ragazzo di quindici o sedici anni, ancora imberbe, sporco di guerra e di sangue secco, disteso su una stuoia con il cuore in bella vista. Non sarebbe mai riuscito a spiegarsi per quale motivo decise di introdurre tre dita della mano destra nella spaventosa ferita, di avvolgere l’organo e di comprimerlo varie volte, in modo ritmico, con calma e naturalezza, per un lasso di tempo impossibile da ricordare, forse trenta secondi, forse un’eternità. E allora sentì che il cuore tornava a palpitare tra le sue dita, all’inizio con un tremito quasi impercettibile e poco dopo con forza e regolarità. “Ragazzo mio, se non lo avessi visto con i miei occhi, non ci avrei mai creduto,” disse in tono solenne uno dei medici che si era avvicinato senza che Dalmau se ne fosse accorto. Poi chiamò i barellieri urlando e ordinò loro di portare via il ferito il più in fretta possibile, perché era un caso speciale. “Dove ha imparato questa manovra?” domandò a Dalmau, non appena i barellieri si furono portati via il piccolo soldato, cereo ma vivo. Víctor Dalmau, che era di poche parole, in due frasi lo informò che era riuscito a frequentare tre anni di Medicina a Barcellona prima di partire per il fronte come ausiliare sanitario. “Dove l’ha imparata?” ripeté il medico. “Da nessuna parte, ma ho pensato che tanto non c’era niente da perdere…” “Vedo che zoppica.” “Femore sinistro. Teruel. Sta guarendo.” “Bene. Da ora in poi lavorerà con me, qui sta solo perdendo tempo. Come si chiama?” “Víctor Dalmau, compagno.” “Non si rivolga a me così. Non mi chiami compagno, ma dottore, e non le venga in mente di darmi del tu. Tutto chiaro?” “Tutto chiaro, dottore. E che la cosa sia reciproca. Può chiamarmi signor Dalmau, ma gli altri compagni la prenderanno malissimo.” Il medico accennò un sorriso. Il giorno seguente Dalmau iniziò a esercitarsi nella professione che avrebbe determinato il suo destino. Víctor Dalmau seppe, come lo seppe tutto il personale del Sant Andreu e quello degli altri ospedali, che l’équipe di chirurghi ci aveva messo sedici ore a resuscitare un morto, che era uscito vivo dalla sala operatoria. Miracolo, dissero molti. Progressi della scienza e la costituzione da cavallo del ragazzo, ribatterono coloro che avevano rinunciato alla fede in Dio e nei santi. Víctor si ripropose di andarlo a trovare ovunque lo avessero trasferito, ma nella frenesia di quei tempi sarebbe poi stato impossibile tenere il conto degli incontri mancati, dei presenti e dei dispersi, dei vivi e dei morti. Per un certo periodo sembrò che si fosse dimenticato di quel cuore che aveva tenuto in mano, perché la vita gli si complicò molto e altre questioni urgenti lo tennero occupato, ma alcuni anni dopo, dall’altra parte del mondo, l’avrebbe ritrovato nei suoi incubi; da quel momento il ragazzo gli avrebbe fatto visita ogni tanto, pallido e triste, con il cuore esanime su un vassoio. Dalmau non si ricordava il suo nome, o forse non lo aveva mai saputo, e lo soprannominò Lázaro per ovvie ragioni, ma il piccolo soldato non si dimenticò mai del suo salvatore. Non appena riuscì a mettersi seduto e a bere dell’acqua da solo, gli venne raccontata la prodezza di quell’infermiere della Estación del Norte, un certo Víctor Dalmau, che l’aveva fatto tornare indietro dal regno della morte. Lo subissarono di domande; tutti volevano sapere se il Paradiso e l’Inferno esistessero veramente o se si trattava solo di un’invenzione del clero per seminare la paura. Il ragazzo si ristabilì prima della fine della guerra e due anni dopo, a Marsiglia, si fece tatuare il nome di Víctor Dalmau sul petto, sotto la cicatrice. Una giovane miliziana, con il berretto messo sulle ventitré per cercare di compensare la bruttezza della divisa, aspettava Víctor Dalmau sulla porta della sala operatoria e quando lui uscì, con una barba di tre giorni e il camice sporco, gli passò un foglio piegato con un messaggio delle centraliniste. Dalmau era in piedi da molte ore, gli faceva male la gamba e si era appena reso conto, dal profondo brontolio del suo stomaco, che era dall’alba che non mangiava. Era un lavoro faticosissimo, ma era grato dell’opportunità di imparare dai migliori chirurghi di Spagna. In altre circostanze uno studente come lui non avrebbe potuto affiancarli, ma a quel punto della guerra gli studi e i titoli valevano meno dell’esperienza e di quella lui ne aveva in abbondanza, come decretò il direttore dell’ospedale quando gli permise di fare l’assistente in chirurgia. A quell’epoca Dalmau poteva lavorare per quaranta ore di seguito senza dormire, grazie al tabacco e al caffè di cicoria, e senza badare al fastidio alla gamba. Quella gamba gli aveva risparmiato il fronte consentendogli di partecipare alla guerra dalle retrovie. Era entrato nell’Esercito repubblicano nel 1936, come quasi tutti i ragazzi della sua età, ed era partito con il suo reggimento per andare a difendere Madrid, in parte occupata dai nazionalisti, come si autoproclamarono le truppe insorte contro il governo; lì si prendeva cura dei feriti, perché grazie ai suoi studi di Medicina era più utile in quel ruolo che non con un fucile nelle trincee. In seguito era stato destinato ad altri fronti. Nel dicembre del 1937, nel corso della battaglia di Teruel, in un freddo glaciale, Víctor Dalmau si spostava su un’eroica ambulanza per prestare i primi soccorsi alle vittime, mentre l’autista, Aitor Ibarra, un basco immortale che canticchiava di continuo e rideva rumorosamente per farsi beffe della morte, si destreggiava per riuscire a guidare su sentieri dissestati. Dalmau confidava nel fatto che la buona stella del basco, sopravvissuto incolume a mille peripezie, proteggesse anche lui. Per eludere i bombardamenti, spesso viaggiavano di notte; quando non c’era la luna, qualcuno li precedeva a piedi con una lanterna per indicare ad Aitor la strada, se ce n’era una, mentre Víctor prestava soccorso agli uomini all’interno del veicolo con pochissimi mezzi, alla luce di un’altra lanterna. Sfidavano il terreno disseminato di ostacoli e la temperatura di molti gradi sotto zero, avanzando lenti come lumache sul ghiaccio, sprofondando nella neve, spingendo l’ambulanza quando dovevano risalire un pendio per tirarla fuori dai fossi e dai crateri delle esplosioni, aggirando pezzi di ferro attorcigliati e carcasse pietrificate di muli, sotto il mitragliamento della formazione nazionalista e le bombe della Legione Condor che volava a bassa quota. Niente distraeva Víctor Dalmau, concentrato com’era a tenere in vita gli uomini a lui affidati, che si dissanguavano a vista d’occhio, contagiato dal folle stoicismo di Aitor Ibarra che guidava mantenendo la calma e con la battuta sempre pronta. Dall’ambulanza Dalmau passò all’ospedale da campo, allestito in alcune grotte di Teruel per evitare le bombe, dove si lavorava alla luce di candele, torce impregnate di olio da motore e lampade al cherosene. Si combatteva il freddo grazie ai bracieri sistemati sotto i tavoli operatori, ma ciò non impediva che gli strumenti congelati rimanessero attaccati alle mani. I medici operavano velocemente quelli che riuscivano a rappezzare alla bell’e meglio prima di trasferirli negli ospedali, sapendo che molti sarebbero morti lungo il tragitto. Gli altri, quelli per cui era ormai troppo tardi per qualunque tipo di soccorso, aspettavano la morte sotto morfina, quando ce n’era, comunque sempre razionata, come lo era l’etere. Se non c’era null’altro con cui offrire sollievo agli uomini che urlavano di dolore, Víctor dava loro dell’aspirina dicendo che si trattava di una portentosa droga americana. Le bende venivano lavate con ghiaccio e neve sciolta per poter essere riutilizzate. Il compito più ingrato era preparare i roghi per le gambe e le braccia amputate; Víctor non riuscì mai ad abituarsi a quell’odore di carne bruciata. Lì, a Teruel, incontrò di nuovo Elisabeth Eidenbenz, che aveva conosciuto sul fronte a Madrid, dove era arrivata come volontaria dell’Associazione di soccorso ai bambini in guerra. Era un’infermiera svizzera di ventiquattro anni con un viso da vergine rinascimentale e un coraggio da guerriero navigato; Víctor se ne era mezzo innamorato a Madrid e lo sarebbe stato completamente se lei gli avesse concesso anche solo una minima possibilità, ma nulla distoglieva la ragazza dalla sua missione: alleviare le sofferenze dei bambini in quei tempi brutali. Durante i mesi in cui non l’aveva vista, la giovane infermiera aveva perso l’innocenza di quando era arrivata in Spagna. Le si era indurito il carattere nella lotta contro la burocrazia militare e la stupidità degli uomini, ma continuava a riservare affetto e dolcezza alle donne e ai bambini di cui si prendeva cura. Durante una tregua, tra due attacchi nemici, Víctor se la ritrovò davanti, vicino a uno dei camion degli approvvigionamenti alimentari. “Ehi, ciao, ti ricordi di me?” lo salutò Elisabeth nel suo spagnolo arricchito dai suoni gutturali tipici della lingua tedesca. Non avrebbe mai potuto dimenticarla, ma vedendola rimase senza parole. Gli sembrò più matura e più bella di prima. Si sedettero su un cumulo di macerie, lui a fumare e lei a bere del tè da una borraccia. “Che ne è del tuo amico Aitor?” gli domandò lei. “Come al solito, sempre sotto i colpi di mitraglia e senza un graffio.” “Non ha paura di niente. Salutamelo tanto.” “Che piani hai per quando sarà finita la guerra?” le domandò Víctor. “Andare dove ce ne sarà un’altra. C’è sempre una guerra da qualche parte. E tu?” “Se ti va, potremmo sposarci,” le propose lui, la voce strozzata dalla timidezza. Lei rise e per un momento tornò a essere la donzella rinascimentale di altri tempi. “Neanche per sogno! Non ci penso proprio a sposarmi, né con te né con nessun altro. Non ho tempo per l’amore.” “Magari cambi idea. Pensi che ci incontreremo di nuovo?” “Certo, se riusciremo a sopravvivere… Conta pure su di me, Víctor, per qualsiasi cosa io possa fare per te…” “Vale lo stesso per me. Posso darti un bacio?” “No.” In quelle grotte a Teruel, Víctor temprò i propri nervi e acquisì tutte le conoscenze mediche che nessuna università avrebbe mai potuto dargli. Imparò che ci si abitua quasi a tutto: al sangue, tanto sangue, agli interventi chirurgici senza anestesia, al fetore della cancrena, alla sporcizia, alla marea interminabile di soldati e di feriti, talvolta anche donne e bambini, alla stanchezza infinita che logora la volontà e, peggio ancora, al dubbio atroce che quel sacrificio potesse essere inutile. E fu lì, mentre estraeva morti e feriti dalle macerie di un bombardamento, che un crollo tardivo gli rovinò addosso, rompendogli la gamba sinistra. Lo prese in cura un medico inglese delle Brigate internazionali. Chiunque altro avrebbe optato per una rapida amputazione, ma l’inglese aveva appena iniziato il suo turno dopo un riposo di qualche ora. Farfugliò un ordine all’infermiera e si preparò a rimettere le ossa al loro posto. “Sei fortunato, ragazzo, ieri sono arrivati i rifornimenti della Croce Rossa e ti possiamo addormentare,” gli disse l’infermiera, mettendogli la mascherina dell’etere. Víctor attribuì l’incidente al fatto che Aitor Ibarra non fosse insieme a lui a proteggerlo con la sua buona stella. Fu lo stesso Aitor ad accompagnarlo al treno che lo avrebbe portato a Valencia insieme ad altre decine di feriti. La gamba era stata immobilizzata con due assi legate con delle stringhe, visto che non potevano ingessarlo a causa delle ferite; era avvolto in una coperta, stremato dal freddo e dalla febbre, martoriato da ogni sobbalzo del treno, ma grato, perché si trovava in condizioni migliori rispetto alla maggior parte degli uomini che giacevano insieme a lui sul pianale del vagone. Aitor gli aveva dato le sue ultime sigarette e una dose di morfina con la raccomandazione di usarla solo in caso di estrema necessità perché non ne avrebbe avuta altra. All’ospedale di Valencia si congratularono per l’ottimo lavoro del medico inglese; salvo complicazioni, la gamba sarebbe tornata come nuova, anche se un po’ più corta dell’altra, gli dissero. Quando le ferite iniziarono a cicatrizzarsi e riuscì a rimettersi in piedi appoggiandosi a una stampella, venne rimandato, ingessato, a Barcellona. Rimase a casa dai suoi genitori a giocare interminabili partite a scacchi con suo padre, fino a quando non fu in grado di muoversi da solo. Allora tornò al lavoro presso un ospedale della città che prestava soccorso ai civili. Era come essere in vacanza perché, in confronto all’esperienza del fronte, quello era un paradiso di pulizia ed efficienza. Rimase lì fino a primavera, quando fu mandato al Sant Andreu, a Manresa. Si congedò dai genitori e da Roser Bruguera, un’allieva di musica che i Dalmau avevano accolto nella loro casa, alla quale, durante le settimane di convalescenza, era arrivato a voler bene come a una sorella. Quella ragazza umile e gentile, che dedicava le sue ore a interminabili esercizi al pianoforte, era la compagnia di cui Marcel Lluís e Carme Dalmau avevano bisogno da quando i loro figli se ne erano andati. Víctor Dalmau aprì il foglio che gli aveva portato la miliziana e lesse il messaggio di Carme, sua madre. Nonostante l’ospedale si trovasse a soli settantacinque chilometri da Barcellona, non la vedeva da sette settimane perché non aveva avuto nemmeno un giorno libero per poter prendere l’autobus. Una volta alla settimana, ogni domenica alla stessa ora, lei gli telefonava e, sempre di domenica, gli mandava qualche piccolo regalo: una barretta di cioccolato delle Brigate internazionali, un salame o del prosciutto recuperato al mercato nero e qualche volta anche delle sigarette, che per lei rappresentavano un vero e proprio tesoro, visto che non poteva vivere senza nicotina. Suo figlio si domandava come facesse a procurarsele. Il tabacco era introvabile ma spesso gli aerei nemici lo lanciavano dal cielo insieme al pane, per prendersi gioco della fame dei repubblicani e ostentare l’opulenza che regnava tra i nazionalisti. Un messaggio di sua madre di giovedì poteva significare solamente un’emergenza: “Sarò al centralino. Chiamami”. Suo figlio calcolò che stava aspettando da circa due ore, il tempo che lui aveva trascorso in sala operatoria prima di ricevere il messaggio. Scese negli uffici dei sotterranei e chiese a una delle centraliniste di metterlo in contatto con la stazione telefonica di Barcellona. Carme rispose con la voce rotta dagli attacchi di tosse e ordinò a suo figlio maggiore di tornare a casa, perché al padre restava poco da vivere. “Che cosa gli è successo? Papà stava bene!” esclamò Víctor. “Il cuore non gli regge più. Avvisa tuo fratello, digli che venga anche lui a salutarlo; può andarsene da un momento all’altro.” Gli ci vollero trenta ore per rintracciare Guillem sul fronte di Madrid. Quando alla fine riuscirono a comunicare via radio, in mezzo a un baccano di scariche elettrostatiche e stridii assordanti, suo fratello gli spiegò che era impossibile ottenere un permesso per tornare a Barcellona. La sua voce gli arrivava così remota e stanca che Víctor quasi non lo riconobbe. “Chiunque sia in grado di usare un’arma è indispensabile, Víctor, lo sai bene. I fascisti ci superano in numero e armamenti, ma no pasarán,” gli disse Guillem, ripetendo il motto reso popolare da Dolores Ibárruri, chiamata a ragione la Pasionaria per via della sua capacità di accendere un entusiasmo fanatico tra i repubblicani. I militari ribelli avevano occupato la maggior parte della Spagna, ma non erano ancora riusciti a prendere Madrid, la cui difesa disperata, strada per strada, casa per casa, l’aveva fatta assurgere a simbolo di quella guerra. Gli occupanti contavano sull’ausilio delle truppe coloniali del Marocco, i temuti mori, e sul formidabile aiuto di Mussolini e Hitler, ma la resistenza dei repubblicani li aveva fermati prima della capitale. Allo scoppio della guerra, Guillem Dalmau aveva combattuto a Madrid nella colonna Durruti. A quell’epoca, i due eserciti si fronteggiavano nella Ciudad Universitaria, così vicini l’uno all’altro che in alcuni punti erano divisi solamente dall’ampiezza di una strada; potevano vedersi in faccia e insultarsi senza dover gridare troppo forte. Stando a quanto diceva Guillem, che era barricato all’interno di uno degli edifici, i colpi degli obici stavano perforando i muri della facoltà di Lettere e Filosofia, di quella di Medicina e della Casa de Velázquez; non c’era modo di difendersi dai proiettili, ma avevano calcolato che tre tomi di filosofia potevano fermare le pallottole. Gli toccò presenziare alla morte del leggendario anarchico Buenaventura Durruti, che era giunto a combattere a Madrid con parte della sua colonna dopo aver propagato e rinvigorito la rivoluzione nelle terre d’Aragona. Morì a causa di una pallottola sparata a bruciapelo che lo colpì al petto in circostanze poco chiare. La colonna fu decimata, trovarono la morte più di mille miliziani e, tra i sopravvissuti, Guillem fu uno dei pochi che ne uscì illeso. Due anni più tardi, dopo aver combattuto su altri fronti, lo avevano destinato nuovamente a Madrid. “Papà capirà se non puoi venire, Guillem. Siamo comunque tutti qui ad aspettarti. Vieni quando puoi. Anche se non farai in tempo a vederlo ancora vivo, la tua presenza sarà certamente di conforto alla mamma.” “Immagino che Roser sia con loro, giusto?” “Sì.” “Salutamela. Dille che le sue lettere mi sono di grande compagnia e che mi dispiace non riuscire sempre a risponderle.” “Ti aspettiamo, Guillem. Abbi cura di te.” Si congedarono con un rapido saluto e Víctor si ritrovò con la sensazione di aver ricevuto un pugno nello stomaco e a pregare che suo padre resistesse ancora per un po’, che suo fratello tornasse sano e salvo, che la guerra finisse una volta per tutte e che la Repubblica riuscisse a salvarsi. Il padre di Víctor e Guillem, il professore Marcel Lluís Dalmau, aveva insegnato musica per cinquant’anni, aveva formato con determinazione e diretto con passione l’orchestra sinfonica giovanile di Barcellona; aveva composto una decina di concerti per pianoforte, che nessuno eseguiva più da quando era cominciata la guerra, nonché diverse canzoni che in quegli stessi anni erano tra le preferite dei miliziani. Aveva conosciuto Carme, sua moglie, quando era una quindicenne infagottata nell’austera divisa della scuola, e lui un giovane maestro di musica, di dodici anni più grande di lei. Carme era figlia di uno scaricatore portuale, allieva affidata alla carità delle suore che la stavano preparando al noviziato sin dall’infanzia e che non le perdonarono mai di aver lasciato il convento per andare a vivere nel peccato insieme a uno scansafatiche ateo, anarchico e forse persino massone, che si faceva beffe del sacro vincolo del matrimonio. Marcel Lluís e Carme vissero nel peccato per alcuni anni, fino all’arrivo imminente di Víctor, il loro primogenito; allora si sposarono per evitare al bambino la condizione di bastardo, che a quei tempi implicava ancora una serie di limitazioni. “Se i nostri figli fossero nati ora, non ci saremmo dovuti sposare, perché nessuno è bastardo nella Repubblica,” aveva dichiarato Marcel Lluís Dalmau in un momento d’ispirazione agli inizi della guerra. “In questo caso io sarei rimasta incinta da vecchia e i tuoi figli avrebbero ancora il pannolino,” gli aveva risposto Carme. Víctor e Guillem Dalmau vennero educati in una scuola laica e crebbero in un piccolo appartamento nel Raval, in una casa della classe media, in cui la musica del padre e i libri della madre sostituirono la religione. I Dalmau non militavano in nessun partito politico, ma la diffidenza di entrambi nei confronti dell’autorità e di qualsiasi tipo di governo li portava a schierarsi con gli anarchici. Oltre alla musica nelle sue forme più varie, Marcel Lluís trasmise ai figli la curiosità per la scienza e la passione per la giustizia sociale. La prima spinse Víctor a studiare Medicina, mentre la seconda fu l’ideale assoluto di Guillem, che fin da bambino se ne andava in giro arrabbiato con il mondo, a predicare contro i latifondisti, i commercianti, gli industriali, gli aristocratici e i preti, soprattutto i preti, più con appassionato fervore che con argomentazioni. Era un ragazzo allegro, chiassoso, ben piantato e sfrontato, il preferito dalle ragazze, che si facevano in quattro per sedurlo, inutilmente, dal momento che lui si curava poco dell’effetto sortito su di loro, dedito com’era, anima e corpo, a sport, taverne e amici. Sfidando i genitori, a diciannove anni si arruolò nelle prime milizie di operai organizzati a difesa del Governo repubblicano contro i fascisti ribelli. Aveva la vocazione del soldato, era nato per impugnare le armi e comandare altri uomini meno determinati di lui. Suo fratello Víctor, invece, sembrava un poeta, con le sue ossa lunghe, gli indomabili capelli e l’espressione preoccupata, sempre con un libro in mano e taciturno. A scuola Víctor doveva sopportare l’implacabile strafottenza dei compagni – “Vediamo se ti fai prete, finocchio” –; allora interveniva Guillem, tre anni più giovane di lui, ma più robusto e sempre pronto a fare a botte per un buon motivo. Guillem abbracciò la rivoluzione come una fidanzata; aveva incontrato la causa per la quale valesse la pena di morire. I conservatori e la Chiesa cattolica, che avevano investito soldi, propaganda e prediche apocalittiche dal pulpito, furono sconfitti alle elezioni generali del 1936 dal Fronte popolare, una coalizione di partiti di sinistra. La Spagna, ancora scossa dal trionfo repubblicano di cinque anni prima, si spaccò come se un violento colpo d’ascia l’avesse divisa in due. Argomentando che era necessario mettere ordine in una situazione caotica, che in verità era ben lontana dall’esserlo, la destra iniziò subito a cospirare con i militari per rovesciare il governo legittimo, formato da liberali, socialisti, comunisti, sindacalisti ed euforicamente appoggiato da operai, contadini, lavoratori e dalla maggior parte di studenti e intellettuali. Guillem aveva concluso a fatica le superiori e secondo suo padre, amante delle metafore, aveva un fisico da atleta, un coraggio da torero e il cervello di un moccioso di otto anni. L’ambiente politico era l’ideale per Guillem, che approfittava di qualsiasi occasione per fare a pugni con gli avversari, anche se gli risultava difficile addurre motivazioni ideologiche e avrebbe continuato a risultargli difficile finché non entrò a far parte delle milizie, dove la preparazione politica era importante come quella alle armi. La città era divisa e gli estremi si toccavano solo per aggredirsi. C’erano taverne, balli, sport e feste di sinistra e altri di destra. Già prima di diventare un miliziano era un tipo rissoso. Quando si scontrava con qualche spavaldo figlio di papà, Guillem tornava a casa pieno di lividi, ma felice. I suoi genitori non sospettavano che bruciasse i raccolti e rubasse gli animali nelle fattorie dei proprietari terrieri, che incendiava e danneggiava, fino a che un giorno non si presentò con un candelabro d’argento. Sua madre glielo sottrasse a forza dalle mani e glielo scagliò addosso; se fosse stata più alta, gli avrebbe rotto la testa, ma il candelabro colpì Guillem alla schiena. Carme lo obbligò a confessare quanto ad altri era già noto, ma che lei si era rifiutata di ammettere fino a quel momento: suo figlio, oltre ad altre azioni riprovevoli, nelle sue scorribande profanava le chiese, aggrediva preti e suore e in sostanza faceva esattamente quello di cui la propaganda dei nazionalisti li accusava. “Una serpe in seno! Mi farai morire di vergogna, Guillem! Adesso lo prendi e vai a restituirlo, hai capito?” gridò. A testa bassa, Guillem uscì con il candelabro avvolto nella carta di giornale. Nel luglio del 1936 i militari insorsero contro il governo democratico. La sollevazione fu subito capeggiata dal generale Francisco Franco, il cui aspetto insignificante celava un temperamento freddo, vendicativo e brutale. Il suo sogno più ambizioso era restituire la Spagna alla gloria imperiale del passato e il suo obiettivo immediato reprimere definitivamente il disordine della democrazia per governare con pugno di ferro supportato dalle Forze armate e dalla Chiesa cattolica. Gli insorti si aspettavano di occupare il paese nell’arco di una settimana, ma si scontrarono con la resistenza inaspettata dei lavoratori, organizzati in milizie, decisi a difendere i diritti ottenuti con la Repubblica. Ebbe allora inizio l’epoca dell’odio implacabile, della vendetta e del terrore, che sarebbe costata alla Spagna un milione di morti. La strategia degli uomini al comando di Franco era di versare più sangue possibile e di seminare il terrore, unico modo per estirpare anche la più piccola forma di resistenza nel popolo sconfitto. A quel tempo Guillem Dalmau era pronto per prendere pienamente parte alla Guerra civile. Non si trattava più di rubare candelabri ma di imbracciare il fucile. Se prima Guillem aveva dovuto trovare dei pretesti per i suoi eccessi, ora con la guerra non ne aveva più bisogno. Si astenne dal commettere atrocità, perché i princìpi che gli avevano inculcato glielo impedivano, ma non difese nemmeno le vittime, spesso innocenti, dalle rappresaglie dei suoi compagni. Vennero perpetrati migliaia di assassinii, soprattutto di preti e suore; e ciò obbligò molte persone di destra a trovare rifugio in Francia per sfuggire alle orde rosse, come venivano soprannominate dalla stampa. I partiti politici della Repubblica diedero immediatamente ordine di sospendere tali atti di violenza, contrari agli ideali della rivoluzione, ma essi continuavano a verificarsi. Tra i soldati di Franco, invece, gli ordini erano diametralmente opposti: dominare e mettere tutto a ferro e fuoco. Nel frattempo Víctor, completamente assorbito dai suoi studi, compì ventitré anni e lasciò la casa dei genitori quando fu reclutato dall’Esercito repubblicano. Finché aveva vissuto con loro, si alzava all’alba e prima di andare in università preparava la colazione per tutti, suo unico contributo alle faccende di casa; tornava molto tardi e cenava con quanto sua madre gli lasciava in cucina – pane, sardine, pomodori e caffè – per poi rimettersi subito a studiare. Rimaneva estraneo alla passione politica dei genitori e all’esaltazione di suo fratello. “Stiamo facendo la storia. Riusciremo a far uscire la Spagna dal feudalesimo di secoli, siamo un esempio per l’Europa, la risposta al fascismo di Hitler e Mussolini,” predicava Marcel Lluís Dalmau ai figli e agli amici del Rocinante, la bettola tenebrosa nell’aspetto ma elevata nello spirito dove si riunivano ogni giorno gli stessi clienti a giocare a domino e a bere vino da quattro soldi. “Porremo fine ai privilegi dell’oligarchia, della Chiesa, dei latifondisti e di tutti gli altri sfruttatori del popolo. Dobbiamo difendere la democrazia, amici, ma ricordatevi che la politica non può essere tutto. Senza scienza, industria e tecnologia non c’è progresso, e senza musica né arte l’anima non esiste,” affermava. In linea di principio, Víctor era d’accordo con suo padre, ma cercava di sottrarsi alle sue arringhe, sempre uguali, con poche variazioni. Nemmeno con sua madre affrontava questi temi: lui e Carme, insieme, si limitavano ad alfabetizzare i miliziani nello scantinato di una birreria. Carme era stata insegnante per molti anni e credeva che l’educazione fosse importante quanto il pane, e che chiunque sapesse leggere e scrivere aveva l’obbligo morale di insegnarlo agli altri. Per lei, le lezioni impartite ai miliziani erano semplice routine, ma per Víctor rappresentavano un vero e proprio supplizio. “Sono dei somari!” concludeva, frustrato, dopo aver passato due ore sulla lettera A. “Ma quali somari! Questi ragazzi non hanno mai visto un sillabario. Vorrei vedere come te la caveresti tu dietro a un aratro,” gli rispondeva sua madre. Su istigazione di Carme, che predicava la necessità di convivere con il resto della comunità e temeva diventasse un eremita, Víctor imparò a suonare le canzoni più popolari con la chitarra. Aveva una voce carezzevole da tenore, che contrastava con il fisico impacciato e l’espressione ruvida. Dietro la chitarra celava la timidezza, evitava le conversazioni banali, che lo irritavano, e dava l’impressione di saper stare in gruppo. Le ragazze non lo consideravano finché non iniziava a cantare; allora gli si avvicinavano e finivano per canticchiare con lui. Poi, bisbigliando, decidevano che il più grande dei Dalmau non era affatto male, anche se non poteva competere, ovviamente, con suo fratello Guillem. La pianista più brillante tra gli allievi di musica del professor Dalmau era Roser Bruguera, una ragazza del paesino di Santa Fe, che senza il generoso intervento di Santiago Guzmán si sarebbe dedicata solo ad allevare capre. Guzmán apparteneva a una famiglia illustre, impoveritasi dopo generazioni di signorotti oziosi che avevano dilapidato fortuna e terre. Trascorreva gli ultimi anni in solitudine nella sua tenuta in un appezzamento incolto di colline e pietre, piena però di ricordi affettivi. Si manteneva attivo, nonostante l’età avanzata, visto che era già docente di Storia presso la Universidad Central ai tempi di Alfonso XII. Usciva ogni giorno, sotto il sole inclemente di agosto o il vento gelido di gennaio, e camminava per ore con il suo bastone da pellegrino, il logoro copricapo di cuoio e il cane da caccia. Sua moglie era intrappolata nei labirinti della demenza e trascorreva i suoi giorni, segregata all’interno della casa, a creare mostruosità con carta e pennelli. Nel paese veniva chiamata la Matta Mansueta e lo era davvero; non dava problemi, a parte la tendenza a perdersi camminando verso l’orizzonte e a imbrattare le pareti con la sua cacca. Roser poteva avere più o meno sette anni, anche se nessuno ricordava la sua data di nascita, quando durante una delle sue passeggiate don Santiago la vide intenta a sorvegliare alcune capre denutrite; gli bastò scambiare due parole con lei per capire che si trovava davanti a una mente sveglia e curiosa. Il professore e la piccola pastorella intrecciarono una particolare amicizia basata sulle lezioni di cultura che lui le impartiva e il desiderio di lei di imparare. Un giorno d’inverno la trovò rannicchiata in un fosso insieme alle sue tre caprette, tremante dal freddo, fradicia di pioggia e ardente per la febbre altissima. Don Santiago legò le capre e si caricò la bambina sulle spalle, grato del fatto che fosse così piccola e pesasse poco. Lo sforzo comunque gli fece quasi scoppiare il cuore e dopo pochi passi si arrese; la lasciò lì e andò a chiamare uno dei suoi lavoranti, che la portò fino a casa. Ordinò alla cuoca di dar da mangiare alla bambina, alla domestica di preparare un bagno e un letto, e al ragazzo della scuderia di andare a Santa Fe a chiamare il dottore e poi a recuperare le capre, per evitare che le rubassero. Il medico confermò che la bambina aveva la febbre molto alta ed era seriamente denutrita. Aveva anche la scabbia e i pidocchi. Visto che nessuno si presentò alla proprietà dei Guzmán a chiedere di lei né quel giorno né quelli successivi, diedero per scontato che fosse orfana, fino a quando non venne loro in mente di domandarglielo; lei spiegò che la sua famiglia viveva sull’altro versante della collina. A dispetto del corpicino da pernice, la bambina si rimise in sesto velocemente, rivelandosi più forte di quanto fosse sembrato. Si lasciò radere la testa per debellare i pidocchi e sopportò il trattamento a base di zolfo contro la scabbia senza opporre resistenza, mangiava voracemente e dimostrò di avere un temperamento equilibrato nonostante le sue tristi condizioni. Nel corso delle settimane che trascorse in quella casa, tutti, dalla signora matta fino all’ultimo dei servitori, si innamorarono di lei. Non c’era mai stata una bambina in quella cupa magione di pietra dove si aggiravano gatti mezzi selvatici e fantasmi di altre epoche. Il più affascinato era il professore, che ricordava il privilegio di poter insegnare a una mente avida; ma la permanenza della piccola non poteva protrarsi all’infinito. Don Santiago aspettò che si ristabilisse del tutto e che aggiungesse un po’ di carne alle ossa prima di recarsi dall’altra parte della collina a dirne quattro a quei genitori negligenti. Fece salire la bambina ben infagottata sulla carrozza, fingendo di ignorare le suppliche di sua moglie, e la portò via. Arrivarono davanti a una piccola casa d’argilla appena fuori dal paese, misera come tutte quelle della zona. I contadini sopravvivevano con retribuzioni da fame, arando la terra in qualità di servi nelle proprietà dei signori o della Chiesa. Il professore si mise a urlare e dalla porta spuntarono diversi bambini spaventati, seguiti da una megera in nero, che non era la bisnonna, come aveva pensato, bensì la madre di Roser. Quelle persone non avevano mai ricevuto visitatori che giungessero su una carrozza trainata da splendidi cavalli e rimasero perplesse quando videro Roser scendere dopo quel signore così distinto. “Sono qui per parlarle di questa bambina,” annunciò don Santiago con quel tono autoritario che all’università faceva tremare i suoi studenti; ma prima che potesse aggiungere qualcosa, la donna prese Roser per i capelli, aggredendola a suon di urla e schiaffi per aver abbandonato le capre. Allora lui capì che non aveva senso rimproverare quella madre angosciata e in un istante formulò il piano che avrebbe cambiato il destino della bambina. Roser trascorse il resto della sua infanzia nella casa dei Guzmán, ufficialmente in qualità di bambina in affido e serva personale della signora, ma anche come allieva del padrone. In cambio dell’aiuto dato alle domestiche e della compagnia con cui rallegrava le giornate della Matta Mansueta, ottenne ospitalità e istruzione. Lo studioso di storia condivise con lei buona parte della biblioteca, le insegnò più di quanto avrebbe potuto imparare in una qualsiasi scuola e mise a sua disposizione il pianoforte a coda della moglie, che ormai non ricordava nemmeno più a cosa diavolo servisse quel catafalco nero. Roser, che aveva trascorso i suoi primi sette anni di vita senza ascoltare altra musica se non la fisarmonica degli ubriachi la notte di San Juan, si rivelò dotata di un orecchio straordinario. In casa c’era un fonografo, ma quando si accorse che la sua protetta era in grado di suonare le melodie al piano dopo averle ascoltate una sola volta, don Santiago ordinò a Madrid un grammofono moderno con una collezione di dischi. In poco tempo Roser Bruguera, i cui piedi non arrivavano ancora ai pedali, eseguiva i brani dei dischi a occhi chiusi. Estasiato, le trovò un’insegnante di pianoforte a Santa Fe. La mandava a lezione tre volte alla settimana e verificava personalmente che eseguisse gli esercizi. Per Roser, in grado di suonare qualsiasi cosa a memoria, non aveva molto senso imparare a leggere gli spartiti ed esercitarsi per ore a fare le scale, ma non si sottraeva per rispetto nei confronti del suo mentore. A quattordici anni Roser superò di gran lunga l’insegnante di pianoforte e a quindici don Santiago la mandò in un pensionato per signorine rispettabili a Barcellona, affinché potesse studiare musica. Avrebbe desiderato trattenerla al suo fianco, ma il dovere di educatore prevalse sul sentimento paterno. La ragazza aveva ricevuto dal Signore un talento speciale e quindi la sua missione consisteva nell’aiutarla a farlo fiorire. A quell’epoca la Matta Mansueta aveva iniziato lentamente a spegnersi e infine morì senza far rumore. All’anziano professore, solo nella sua grande casa, iniziarono a pesare molto gli anni, dovette rinunciare alle sue passeggiate con il bastone da pellegrino e iniziò a passare il tempo seduto di fronte al caminetto a leggere. Anche il suo cane da caccia morì e lui non volle prenderne un altro, per evitare di lasciare la povera bestia senza padrone nel caso fosse morto prima di lei. Con l’avvento della Seconda repubblica, nel 1931, il carattere di Santiago Guzmán si inasprì definitivamente. Appena furono noti i risultati delle elezioni, favorevoli alla sinistra, Alfonso XIII fuggì in esilio in Francia e l’anziano, monarchico, conservatore a oltranza e cattolico, vide che il suo mondo iniziava a sgretolarsi. Non avrebbe mai tollerato i rossi e ancor meno si sarebbe abituato alla loro volgarità: quei criminali erano i lacchè dei sovietici e andavano in giro a dare fuoco alle chiese e a fucilare preti. Il fatto che tutti siano uguali può anche essere un astruso argomento sul piano teorico, diceva, ma nella pratica era un’aberrazione: davanti a Dio non siamo uguali, dal momento che Lui stesso ha stabilito classi sociali e altre differenze tra gli uomini. Con la Riforma agraria gli venne espropriata la terra, che valeva poco, ma era sempre appartenuta alla sua famiglia. Da un giorno all’altro i contadini presero a parlargli senza togliersi il cappello né abbassare lo sguardo. La superbia dei suoi inferiori lo feriva più dell’aver perso la terra, poiché si trattava di un affronto alla sua dignità e alla posizione che aveva sempre occupato in quel mondo. Licenziò i domestici, che avevano vissuto per decenni sotto il suo tetto, fece imballare i volumi della biblioteca, le opere d’arte, le collezioni e i ricordi e sigillò per bene la magione. Riempì tre camion, ma non riuscì a portarsi via i mobili più ingombranti né il pianoforte, che non ci stavano nel suo appartamento di Madrid. Mesi più tardi il sindaco repubblicano di Santa Fe avrebbe confiscato la casa per ospitarvi un orfanotrofio. Tra le profonde delusioni e i molti motivi degli attacchi di collera di cui don Santiago fu vittima in quegli anni andava annoverata la trasformazione della sua protetta. Sotto la cattiva influenza dei rivoltosi dell’università, specialmente quella di un tale professor Marcel Lluís Dalmau, comunista, socialista o anarchico, faceva lo stesso, un bolscevico perverso, insomma, la sua Roser era diventata una rossa. Aveva lasciato il pensionato per signorine rispettabili e viveva con delle sgualdrine che si vestivano da soldato e praticavano l’amore libero, come allora era uso chiamare la promiscuità e l’indecenza. Ammetteva, questo sì, che Roser non gli aveva mai mancato di rispetto, ma visto che si era permessa di non far caso ai suoi avvertimenti, si vide costretto a toglierle il sostegno economico. Con una lettera, la ragazza lo ringraziò di cuore per tutto quello che aveva fatto per lei, gli promise che avrebbe cercato di rimanere sempre sulla retta via, nel rispetto dei suoi princìpi, e gli disse che lavorava di notte in una panetteria, mentre di giorno continuava a studiare musica. Don Santiago Guzmán, piazzato nel suo lussuoso appartamento di Madrid, dove a fatica ci si poteva muovere tra il gran numero di mobili e oggetti vari, isolato dal rumore e dalla volgarità della strada da spesse tende di tessuto color sangue di toro, e tagliato fuori dalla società a causa della sordità e dell’orgoglio smisurato, non ebbe modo di rendersi conto di come stesse affiorando il più terribile rancore all’interno del suo paese, un rancore alimentato per secoli dalla miseria degli uni e dalla prepotenza degli altri. Morì solo e furioso nel suo appartamento del quartiere Salamanca, quattro mesi prima dell’insurrezione delle truppe di Franco. Rimase lucido fino all’ultimo istante e così ben disposto alla morte che scrisse il suo stesso necrologio, poiché non voleva che qualche ignorante pubblicasse falsità sul suo conto. Non si congedò da nessuno, forse perché non gli era rimasto più nessuno, ma si ricordò di Roser Bruguera e in un nobile gesto di riconciliazione le lasciò il pianoforte a coda, che si trovava ancora imballato in una stanza del nuovo orfanotrofio di Santa Fe. Il professor Marcel Lluís Dalmau notò ben presto Roser tra gli studenti. Nella smania di insegnare ai suoi alunni quello che sapeva della musica e della vita, lasciava trapelare anche idee politiche e filosofiche che sicuramente influirono su di loro più di quanto lui stesso potesse pensare. Su quel punto Santiago Guzmán aveva ragione. Per esperienza, Dalmau diffidava degli alunni dal talento innato per la musica perché, come diceva spesso, non gli era capitato ancora di trovare nessun Mozart. Ne aveva visti di casi come quello di Roser, giovani ragazzi che grazie al loro buon orecchio potevano suonare qualsiasi tipo di strumento e quindi si impigrivano, convinti che quel dono fosse sufficiente per padroneggiare l’arte a prescindere dallo studio e dalla disciplina. Parecchi finivano col guadagnarsi da vivere suonando in qualche banda, alle feste, negli hotel e nei ristoranti, trasformati in musicanti da matrimoni, come li chiamava lui. Si ripropose di salvare Roser Bruguera da quella fine infausta e la prese sotto la sua ala. Quando scoprì che viveva sola a Barcellona, le aprì le porte di casa sua e tempo dopo, quando venne a sapere che aveva ereditato un pianoforte e non sapeva dove metterlo, si liberò dei mobili della sala per far posto allo strumento e lasciare eseguire le interminabili scale alla ragazza, che andava da lui ogni giorno dopo le lezioni. Carme, sua moglie, prestava a Roser il letto di Guillem, che era al fronte, affinché si potesse riposare un po’ prima di andare in panetteria alle tre di mattina a infornare il pane e così, avendo dormito tanto a lungo sul cuscino del figlio minore dei Dalmau e respirato la scia del suo odore di giovane uomo, la ragazza si innamorò di lui senza che la distanza, il tempo o la guerra la scoraggiassero. Roser finì per far parte della famiglia in modo naturale, quasi avesse il loro stesso sangue; divenne la figlia che i Dalmau avevano sempre desiderato. Vivevano in una casa modesta, un po’ tetra e piuttosto malmessa a causa dei molti anni trascorsi senza opere di manutenzione, ma comunque spaziosa. Quando anche l’altro figlio partì per la guerra, Marcel Lluís propose a Roser di andare a vivere da loro. Così avrebbe potuto ridurre le spese, lavorare meno ore, esercitarsi al pianoforte quando voleva e già che c’era dare ogni tanto una mano a sua moglie nelle faccende domestiche. Anche se era parecchio più giovane del marito, Carme si sentiva più vecchia perché aveva sempre l’affanno e ansimava, mentre lui aveva vitalità da vendere. “Le forze mi bastano a malapena per alfabetizzare i miliziani e quando non ce ne sarà più bisogno, non mi rimarrà che morire,” sospirava Carme. Durante il primo anno del corso di Medicina, suo figlio Víctor le diagnosticò che aveva i polmoni ridotti come cavolfiori. “Cazzo, Carme, se morirai sarà per colpa del fumo,” la rimproverava il marito quando la sentiva tossire, senza far mente locale sulla quantità di tabacco che anche lui consumava e senza immaginare che la morte avrebbe portato via prima lui. E fu così che Roser Bruguera, ormai parte della famiglia Dalmau, si occupò del professore nei giorni successivi all’infarto. Smise di frequentare le lezioni, ma continuò a lavorare alla panetteria facendo i turni con Carme per assisterlo. Nelle ore di ozio lo intratteneva con brani al pianoforte che riempivano la casa di musica e confortavano il moribondo. Siccome si trovava lì, sentì le ultime raccomandazioni che il professore fece al maggiore dei suoi figli. “Quando non ci sarò più, Víctor, sarai tu responsabile di tua madre e di Roser, dal momento che Guillem morirà combattendo. Abbiamo perso la guerra, figlio mio,” gli disse tra lunghe pause per riprendere fiato. “Non dica così, padre.” “L’ho capito in marzo, quando hanno bombardato Barcellona. Erano aerei italiani e tedeschi. Abbiamo la ragione dalla nostra parte, ma ciò non eviterà la disfatta. Siamo soli, Víctor.” “Può cambiare tutto se interverranno Francia, Inghilterra e Stati Uniti.” “Dimenticati degli Stati Uniti, non ci aiuteranno affatto. Mi hanno detto che Eleanor Roosevelt ha provato a convincere suo marito a intervenire, ma il presidente ha l’opinione pubblica contro.” “Non tutta, padre. Ci sono già tanti ragazzi nella Brigata Lincoln che sono venuti fin qui disposti a morire con noi.” “Sono idealisti, Víctor. Ce ne sono pochissimi al mondo come loro. Molte delle bombe che ci hanno lanciato addosso a marzo erano americane.” “Padre, il fascismo di Hitler e Mussolini dilagherà per l’Europa se non lo fermiamo qui in Spagna. Non possiamo perdere la guerra; significherebbe la fine di tutto ciò che il popolo ha conquistato e il ritorno al passato, alla miseria feudale in cui abbiamo vissuto per secoli.” “Non verrà nessuno a salvarci. Dammi retta, figlio mio, persino l’Unione Sovietica ci ha abbandonato. A Stalin non interessa più nulla della Spagna. Quando cadrà la Repubblica, la repressione sarà atroce. Franco ha imposto la sua linea, vale a dire, il massimo terrore, l’odio totale, la più sanguinosa vendetta. Non scende a patti né perdona. Le sue truppe commettono atrocità indicibili…” “Anche noi,” rispose Víctor, che ne aveva viste tante di cose. “Come osi fare un paragone del genere! In Catalogna ci sarà un bagno di sangue. Non vivrò abbastanza per esserne vittima, figlio mio, e voglio morire tranquillo. Devi promettermi che porterai tua madre e Roser lontano da qui, all’estero. I fascisti si accaniranno contro Carme perché ha alfabetizzato i miliziani, fucilano per molto meno. Si vendicheranno su di te perché lavori in un ospedale dell’esercito e su Roser perché è giovane. Lo sai cosa fanno alle ragazze, no? Le danno ai mori. Ho già pianificato tutto. Andrete in Francia fino a quando la situazione non si sarà calmata e potrete fare ritorno. Sulla mia scrivania troverai una mappa e un po’ di soldi che ho messo da parte. Promettimi che farai come ti ho detto.” “Glielo prometto, padre,” rispose Víctor, senza alcuna intenzione di obbedire. “Devi capire, Víctor, che non si tratta di codardia, ma di sopravvivenza.” Marcel Lluís Dalmau non era l’unico a nutrire dubbi circa il futuro della Repubblica, ma nessuno osava esprimerli, perché il peggior tradimento sarebbe stato fomentare lo sconforto o il panico in una popolazione stremata, che aveva già sofferto troppo. Il giorno successivo seppellirono il professor Marcel Lluís Dalmau. Avevano pensato a una cerimonia discreta, perché non erano tempi in cui concentrarsi sui propri lutti, ma la voce si sparse e si presentarono al cimitero di Montjuïc gli amici della taverna Rocinante, i colleghi di università e studenti di una certa età, perché i più giovani si trovavano al fronte o già sotto terra. Carme, in lutto stretto, dal velo fino alle calze nere nonostante il caldo di giugno, camminò dietro la bara di quello che era stato l’uomo della sua vita, sostenuta da Víctor e Roser. Non ci furono orazioni, né discorsi, né lacrime. Gli studenti lo salutarono eseguendo il Secondo movimento del Quintetto per archi di Schubert, la cui malinconia si addiceva all’occasione, e infine cantarono una delle canzoni dei miliziani che il professore aveva composto.