TRILOGIA DELLA CITTA’ DI K.
Di Agota Kristof
Il grande quaderno
La prova
La terza menzogna.
Il grande quaderno.
L’arrivo da Nonna.
Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.
Camminiamo a lungo. La casa di Nonna è lontana dalla stazione, all’altro capo della Piccola Città. Qui non ci sono tram, né autobus, né macchine. Circolano solo alcuni camion militari.
I passanti sono pochi, la città è silenziosa. Si può udire il rumore dei nostri passi; camminiamo senza parlare, nostra Madre tra noi due.
Davanti alla porta del giardino di Nonna nostra Madre dice:
Aspettatemi qui.
Aspettiamo un po’, poi entriamo in giardino, giriamo intorno alla casa, ci accovacciamo sotto una finestra da cui giungono delle voci. La voce di nostra Madre:
Non c’è più niente da mangiare in casa nostra, niente pane, carne, verdura, latte. Niente. Non posso più sfamarli.
Un’altra voce dice:
E allora ti sei ricordata di me. Per dieci anni non ti eri mai ricordata. Non sei venuta, non hai scritto.
Nostra Madre dice:
Sapete bene perché. A mio padre volevo bene, io.
L’altra voce dice:
Sì, e adesso ti ricordi che hai anche una madre. Arrivi qua e mi chiedi di aiutarti.
Nostra Madre dice:
Non domando niente per me. Vorrei solamente che i miei bambini sopravvivessero a questa guerra. La Grande Città è bombardata giorno e notte, e non c’è più da mangiare. I bambini sfollano in campagna, da parenti o estranei, dove capita.
L’altra voce dice:
Allora non avevi che da mandarli da qualche estraneo, dove capitava.
Nostra Madre dice:
Sono i vostri nipotini.
I miei nipotini? Non li conosco nemmeno. Quanti sono?
Due. Due bambini. Gemelli.
L’altra voce chiede:
E degli altri cosa ne hai fatto?
Nostra Madre chiede:
Quali altri?
Le cagne mollano lì quattro o cinque piccoli per volta. Se ne tengono uno o due, gli altri li annegano.
L’altra voce ride molto forte. Nostra Madre non dice niente e l’altra voce chiede:
Hanno un padre almeno? Non sei sposata, che io sappia. Non sono stata invitata al tuo matrimonio.
Sono sposata. Il Padre è al fronte. Non ho sue notizie da sei mesi.
Allora puoi farci una croce sopra.
L’altra voce ride ancora, nostra Madre piange. Ritorniamo davanti alla porta del giardino.
Nostra Madre esce dalla casa con una vecchia.
Nostra Madre ci dice:
Ecco vostra Nonna. Resterete con lei per un po’, fino alla fine della guerra.
Nostra Nonna dice:
La guerra può durare ancora molto. Ma li farò lavorare, stai tranquilla. Il cibo non è gratis nemmeno qui.
Nostra Madre dice:
Vi manderò dei soldi. Nelle valigie ci sono i loro vestiti. E nello scatolone lenzuola e coperte. Siate buoni, piccoli miei. Vi scriverò.
Ci bacia e se ne va piangendo.
Nonna ride molto forte e ci dice:
Lenzuola, coperte! Camicie bianche e scarpe di vernice! Vi insegnerò io a vivere!
Facciamo la lingua a nostra Nonna. Lei ride ancora più forte battendosi sulle cosce.
La casa di Nonna.
La casa di Nonna è a cinque minuti di cammino dalle ultime case della Piccola Città. Più avanti c’è solo la strada polverosa, subito interrotta da una sbarra. E’ proibito andare oltre, un soldato monta la guardia. Ha un mitra, un binocolo e quando piove si ripara sotto una garitta. Sappiamo che al di là della sbarra, nascosta dagli alberi, c’è una base militare segreta e, dietro la base, la frontiera e un altro paese.
La casa è circondata da un giardino in fondo al quale scorre un ruscello, poi è la foresta.
Il giardino è coltivato con ogni sorta di verdure e alberi da frutto. In un angolo ci sono una conigliera, un pollaio, un porcile e un capanno per le capre. Abbiamo provato a salire in groppa al più grosso dei maiali, ma è impossibile restarci sopra.
La verdura, la frutta, i conigli, le anatre, i polli sono venduti al mercato da Nonna, e anche le uova delle galline e delle anatre e i formaggi di capra. I maiali vengono venduti al macellaio che paga con i soldi, ma anche con dei prosciutti e delle salsicce affumicate.
C’è pure un cane per cacciare i ladri e un gatto per cacciare ratti e topi di fogna. Non bisogna dargli da mangiare, in modo che abbia sempre fame.
Nonna possiede anche una vigna, dall’altra parte della strada.
Si entra in casa dalla cucina che è grande e calda. Il fuoco brucia tutto il giorno nel forno a legna. Vicino alla finestra c’è un tavolo immenso e una panca ad angolo. E’ su questa panca che dormiamo.
Dalla cucina una porta conduce alla camera di Nonna, ma è sempre chiusa a chiave. Solo Nonna ci va la sera per dormire.
C’è un’altra camera in cui si può entrare senza passare dalla cucina, direttamente dal giardino. Questa camera è occupata da un ufficiale straniero. La sua porta è ugualmente chiusa a chiave.
Sotto la casa c’è una cantina piena di cose da mangiare e sotto il tetto una soffitta in cui Nonna non sale più da quando abbiamo segato la scala e lei si è fatta male cadendo. L’ingresso della soffitta è proprio sopra la porta dell’ufficiale e noi ci saliamo con l’aiuto di una corda. E’ lassù che nascondiamo il quaderno dei compiti, il dizionario di nostro Padre e gli altri oggetti che siamo costretti a tenere segreti.
In poco tempo fabbrichiamo una chiave che apre tutte le porte e pratichiamo dei fori nel pavimento della soffitta. Grazie alla chiave possiamo circolare liberamente nella casa quando non c’è nessuno, e grazie ai fori possiamo osservare Nonna e l’ufficiale nelle loro camere senza che se ne accorgano.
Nonna.
Nostra Nonna è la madre di nostra Madre. Prima di venire ad abitare da lei non sapevamo che nostra Madre avesse ancora una madre.
La chiamiamo Nonna.
La gente la chiama la Strega.
Lei ci chiama figli di cagna.
Nonna è piccola e magra. Ha un fazzoletto nero sulla testa. I suoi vestiti sono grigio scuro. Porta dei vecchi scarponi militari. Quando fa bello cammina a piedi nudi. Il suo volto è coperto di rughe, macchie scure e porri da cui spuntano peli. Non ha più denti, almeno visibili.
Nonna non si lava mai. Si asciuga la bocca con un lembo del fazzoletto quando ha mangiato o quando ha bevuto. Non porta mutande. Quando ha bisogno di orinare, si ferma lì dove si trova, allarga le gambe e piscia per terra sotto la gonna. Naturalmente non la fa in casa.
Nonna non si spoglia mai. Abbiamo guardato in camera sua la sera. Si toglie una gonna, sotto c’è un’altra gonna. Si toglie la camicia, e sotto ne ha un’altra. Si corica così. Il fazzoletto non se lo toglie.
Nonna parla poco. Salvo la sera. La sera prende una bottiglia da un ripiano, beve a canna. Ben presto si mette a parlare una lingua che noi non conosciamo. Non è la lingua che parlano i militari stranieri, è una lingua completamente diversa.
In questa lingua sconosciuta Nonna si fa delle domande e si risponde. A volte ride, oppure si arrabbia e urla. Alla fine, quasi sempre, si mette a piangere, va in camera sua barcollando, cade sul letto e la sentiamo singhiozzare a lungo nella notte.
I lavori.
Siamo obbligati a fare certi lavori per Nonna altrimenti lei non ci dà niente da mangiare e ci lascia passare la notte fuori.
All’inizio rifiutiamo di obbedirle. Dormiamo in giardino, mangiamo della frutta e della verdura cruda.
La mattina, prima dell’alba, vediamo Nonna uscire di casa. Non ci parla. Va a dar da mangiare agli animali, munge le capre, poi le conduce in riva al ruscello, dove le lega a un albero. Dopo bagna l’orto e raccoglie la verdura e la frutta; carica tutto sulla carriola. Ci mette anche un paniere pieno di uova, una gabbia con un coniglio e un pollo o un’anatra con le zampe legate.
Se ne va al mercato, spingendo la carriola; la cinghia, passata attorno al suo collo secco, le fa abbassare la testa. Barcolla sotto il peso. Le gobbe e le pietre del sentiero le fanno perdere l’equilibrio, ma lei cammina con i piedi all’indentro come le anatre. Cammina verso la città fino al mercato, senza fermarsi, senza aver posato la carriola una sola volta.
Di ritorno dal mercato fa una zuppa con la verdura che non ha venduto e delle marmellate con la frutta. Mangia, va a fare il sonnellino nella sua vigna, dorme un’ora; poi si occupa della vigna, o, se non c’è niente da fare, torna a casa, taglia la legna, dà nuovamente da mangiare agli animali, porta indietro le capre, le munge, va nella foresta, torna con dei funghi e della legna secca, fa dei formaggi, fa seccare funghi e fagioli, fa delle conserve con le altre verdure, bagna ancora l’orto, ripone alcune cose in cantina, e così via fino a che non si fa notte.
La sesta mattina, quando esce di casa, abbiamo già bagnato l’orto. Le prendiamo di mano i secchi pesanti del cibo per i maiali, conduciamo le capre sulla riva del ruscello, l’aiutiamo a caricare la carriola. Quando ritorna dal mercato stiamo segando la legna.
A tavola Nonna dice:
Avete capito. Vitto e alloggio bisogna meritarseli.
Diciamo: - Non è per questo. Il lavoro è pesante, ma stare lì a far niente guardando qualcuno che lavora è ancora più pesante, soprattutto se è vecchio.
Nonna sghignazza.
Figli di cagna! Volete dire che vi ho fatto pena?
No, Nonna. Ci siamo soltanto vergognati di noi stessi.
Il pomeriggio andiamo a cercar legna nel bosco.
Ormai facciamo tutti i lavori che siamo in grado di fare.
La foresta e il ruscello.
La foresta è molto grande, il ruscello piccolo piccolo. Per andare nella foresta bisogna attraversare il ruscello. Quando c’è poca acqua possiamo attraversarlo saltando da una pietra all’altra. Ma a volte, quando è piovuto molto, l’acqua ci arriva alla cintola e quest’acqua è fredda e torbida. Decidiamo di costruire un ponte con i mattoni e le assi che troviamo intorno alle case distrutte dai bombardamenti.
Il nostro ponte è solido. Lo facciamo vedere a Nonna. Lei lo prova e dice:
Molto bene. Ma non allontanatevi troppo nella foresta. La frontiera è vicina, i militari vi sparerebbero addosso. E soprattutto non perdetevi. Non verrò a cercarvi.
Costruendo il ponte abbiamo visto dei pesci. Si nascondono sotto le grosse pietre o nell’ombra dei cespugli e delle piante i cui rami si congiungono qua e là sopra il ruscello. Scegliamo i pesci più grossi, li acchiappiamo e li mettiamo nell’innaffiatoio pieno d’acqua. La sera, quando li portiamo a casa, Nonna dice:
Figli di cagna! Come li avete presi?
Con le mani. E’ facile. Bisogna semplicemente stare immobili e aspettare.
Allora acchiappatene tanti. Più che potete.
L’indomani Nonna carica l’innaffiatoio sulla carriola e vende i nostri pesci al mercato.
Andiamo spesso nella foresta, non ci perdiamo mai, sappiamo da quale parte si trova la frontiera. Dopo un po’ le sentinelle ci conoscono. Non ci sparano mai addosso. Nonna ci insegna a distinguere i funghi commestibili da quelli velenosi.
Dalla foresta riportiamo fascine di legna sulla schiena, funghi e castagne nei panieri. Accatastiamo la legna contro i muri della casa, sotto la tettoia, e facciamo arrostire le castagne sulla stufa, se Nonna non c’è.
Una volta, lontano nella foresta, sull’orlo di un grosso buco fatto da una bomba, troviamo un soldato morto. E’ tutto intero, gli mancano solo gli occhi per via dei corvi. Prendiamo il suo fucile, le sue cartucce, le sue bombe: il fucile nascosto in una fascina, le cartucce e le bombe nei nostri panieri, sotto i funghi.
Arrivati da Nonna, avvolgiamo con cura questi oggetti nella paglia dentro i sacchi per le patate, e li sotterriamo sotto la panca, davanti alla finestra dell’ufficiale.
La sporcizia.
A casa nostra, nella Grande Città, nostra Madre ci lavava spesso. Sotto la doccia o nella vasca. Ci metteva abiti puliti, ci tagliava le unghie. Per tagliarci i capelli ci accompagnava dal barbiere. Ci lavavamo i denti dopo ogni pasto.
Da Nonna è impossibile lavarsi. Non c’è un bagno, non c’è nemmeno acqua corrente. Bisogna andare a pompare l’acqua del pozzo in cortile e portarla in un secchio. Non c’è sapone né dentifricio né prodotti per il bucato.
In cucina tutto è sporco. Il pavimento rosso, irregolare, si appiccica ai piedi e il grande tavolo si appiccica alle mani e ai gomiti. Il fornello è completamente nero di grasso, anche i muri tutto intorno per via della fuliggine. Benché Nonna lavi le stoviglie, piatti, cucchiai e coltelli non sono mai veramente puliti, e le pentole sono ricoperte da uno spesso strato di unto. Gli strofinacci sono grigiastri e mandano un cattivo odore.
All’inizio non abbiamo neanche voglia di mangiare, soprattutto quando vediamo come Nonna prepara il pranzo, senza lavarsi le mani e pulendosi il naso con le maniche. Dopo un po’ non ci facciamo più caso.
Quando fa caldo, andiamo a fare il bagno nel ruscello, ci laviamo la faccia e i denti al pozzo. Quando fa freddo è impossibile lavarsi completamente. Non c’è nessun recipiente abbastanza grosso nella casa. Le nostre lenzuola, le nostre coperte, i nostri asciugamani, è tutto scomparso. Non abbiamo più visto la grossa scatola in cui nostra Madre li ha portati.
Nonna ha venduto tutto.
Diventiamo sempre più sporchi, e i nostri vestiti pure. Prendiamo dei vestiti puliti nelle nostre valigie, sotto la panca, ma in poco tempo non ci sono più vestiti puliti. Quelli che portiamo si strappano, le nostre scarpe si consumano, si bucano. Quando è possibile camminiamo a piedi nudi e non portiamo che le mutande o i pantaloni. La pianta dei nostri piedi si indurisce, non sentiamo più le spine né i sassi. La nostra pelle si scurisce, le gambe e le braccia sono coperte di sbucciature, tagli, croste, punture d’insetto. Le unghie, mai tagliate, si spezzano, i capelli, quasi bianchi a causa del sole, ci arrivano alle spalle.
La latrina è in fondo al giardino. Non c’è mai carta. Ci puliamo con le foglie più grandi di certe piante.
Abbiamo un odore misto di letame, pesce, erba, funghi, fumo, latte, formaggio, melma, fango, terra, sudore, orina, muffa.
Puzziamo come Nonna.
Esercizio di irrobustimento del corpo.
Nonna ci picchia spesso, con le sue mani ossute, con una scopa o uno strofinaccio bagnato. Ci tira per le orecchie, ci agguanta per i capelli.
Altre persone ci danno anche dei ceffoni e dei calci, non sappiamo nemmeno perché.
I colpi fanno male e ci fanno piangere.
Le cadute, le sbucciature, i tagli, il lavoro, il freddo e il caldo sono ugualmente causa di sofferenza.
Decidiamo di irrobustire il nostro corpo per poter sopportare il dolore senza piangere.
Cominciamo con il darci l’un l’altro dei ceffoni, poi dei pugni. Vedendo il nostro volto tumefatto Nonna domanda:
Chi vi ha fatto questo?
Noi, Nonna.
Vi siete picchiati? Perché?
Per niente, Nonna. Non vi arrabbiate, è solo un esercizio.
Un esercizio? Siete completamente suonati! Bah, se la cosa vi diverte...
Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo a ogni colpo:
Non fa male.
Colpiamo più forte, sempre più forte.
Passiamo le mani sopra una fiamma. Ci incidiamo una coscia, il braccio, il petto con un coltello e versiamo dell’alcol sulle ferite. Ogni volta diciamo:
Non fa male.
Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. E’ qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre.
Non piangiamo più.
Quando Nonna è arrabbiata e grida, noi le diciamo:
Smettetela di gridare, Nonna, picchiate invece!
Quando ci picchia, le diciamo:
Ancora, Nonna, ancora! Guardate, porgiamo l’altra guancia, com’è scritto nella Bibbia. Colpite anche l’altra guancia, Nonna.
Lei risponde:
Andate al diavolo, voi, la vostra Bibbia e le vostre guance.
L’attendente.
Siamo coricati sulla panca ad angolo della cucina. Le nostre teste si toccano. Non dormiamo ancora, ma i nostri occhi sono chiusi. Qualcuno spinge la porta. Apriamo gli occhi. La luce di una pila ci acceca. Domandiamo:
Chi è?
Una voce di uomo risponde:
No paura. Voi no paura. Due essere voi, o io troppo bere? Ride, accende la lampada a petrolio sul tavolo e spegne la sua pila. Ora lo vediamo bene. E’ un militare straniero, senza gradi. Dice:
Io attendente di capitano. Voi fare cosa lì?
Diciamo:
Noi abitiamo qui. Da nostra Nonna.
Voi nipoti di Strega? Io mai visto voi. Voi essere qui da quando?
Da due settimane.
Ah! Io essere partito licenza a casa, in mio villaggio. Molto divertito.
Domandiamo:
Com’è che parla la nostra lingua?
Lui dice:
Mia madre nascere qui, in vostro paese. Venire lavorare da noi, cameriera dentro osteria. Conoscere mio padre, sposarsi insieme. Quando io essere piccolo mia madre parlare me vostra lingua. Vostro paese e mio paese, essere paesi amici. Combattere nemico insieme. Voi due venire da dove?
Dalla Grande Città.
Grande Città molto pericolo. Bum! Bum!
Sì, e più niente da mangiare.
Qui bene per mangiare. Mele, maiali, polli, tutto. Voi restare molto? O solo vacanza?
Noi resteremo qui fino alla fine della guerra.
Guerra finita presto. Voi dormire là? Panca nuda, dura, fredda. Strega non volere prendere voi in camera?
Noi non vogliamo dormire nella camera di Nonna. Russa e ha un cattivo odore. Avevamo delle coperte e delle lenzuola, ma lei le ha vendute.
L’attendente prende dell’acqua nel paiolo sopra il fornello e dice:
Io dovere pulire camera. Anche capitano ritornare licenza stasera o domani mattina.
Esce. Pochi minuti dopo ritorna. Ci porta due coperte militari grigie.
Non vendere queste, vecchia Strega. Se lei troppo cattiva voi dire me. Io pum pum, io uccide.
Ride ancora. Ci copre, spegne la lampada e se ne va.
Durante il giorno nascondiamo le coperte in soffitta.
Esercizio di irrobustimento dello spirito.
Nonna ci dice:
Figli di cagna!
La gente ci dice:
Figli di una Strega! Figli di puttana!
Altri dicono:
Imbecilli! Mascalzoni! Mocciosi! Asini! Maiali! Porci! Canaglie! Carogne! Piccoli merdosi! Pendagli da forca! Razza di assassini!
Quando sentiamo queste parole, il nostro volto diventa rosso, le orecchie ronzano, gli occhi bruciano, le ginocchia tremano.
Non vogliamo più arrossire né tremare, vogliamo abituarci alle ingiurie e alle parole che feriscono.
Ci sistemiamo al tavolo della cucina uno di fronte all’altro e, guardandoci negli occhi, ci diciamo delle parole sempre più atroci:
Uno:
Stronzo! Buco di culo!
L’altro:
Vaffanculo! Bastardo!
Continuiamo così finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano nemmeno nelle nostre orecchie.
Ci esercitiamo in questo modo una mezz’ora circa ogni giorno, poi andiamo a passeggiare per le strade.
Facciamo in modo che la gente ci insulti e constatiamo che finalmente riusciamo a restare indifferenti.
Ma ci sono anche le parole antiche.
Nostra Madre ci diceva:
Tesori miei! Amori miei! Siete la mia gioia! Miei bimbi adorati!
Quando ci ricordiamo di queste parole, i nostri occhi si riempiono di lacrime.
Queste parole dobbiamo dimenticarle, perché adesso nessuno ci dice parole simili e perché il ricordo che ne abbiamo è un peso troppo grosso da portare.
Allora ricominciamo il nostro esercizio in un altro modo:
Diciamo:
Tesori miei! Amori miei! Vi voglio bene... Non vi lascerò mai... Non vorrò bene che a voi... Sempre... Siete tutta la mia vita...
A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua.
La scuola.
Questo è accaduto tre anni fa.
E’ sera. I nostri genitori credono che noi stiamo dormendo. Nella stanza accanto parlano di noi.
Nostra Madre dice:
Non sopporteranno d’essere separati.
Nostro Padre dice:
Saranno separati solo durante le ore di scuola.
Nostra Madre dice:
Non lo sopporteranno.
Dovranno, invece. E’ necessario per loro. Lo dicono tutti. Gli insegnanti, gli psicologi. All’inizio sarà difficile, ma si abitueranno.
Nostra Madre dice:
No, mai. Lo so. Li conosco. Sono una sola, unica persona. Nostro Padre alza la voce:
Appunto, non è normale. Pensano insieme, agiscono insieme. Vivono in un mondo a parte. Un mondo tutto loro. Tutto questo non è molto sano. E’ anche preoccupante. Sì, mi preoccupano. Sono strani. Non si sa mai quello che possono pensare. Sono troppo maturi per la loro età. Sanno troppe cose.
Nostra Madre ride:
Non vorrai rimproverarli per la loro intelligenza?
Non è divertente. Perché ridi?
Nostra Madre risponde:
I gemelli pongono sempre dei problemi. Non è un dramma. Andrà tutto a posto.
Nostro Padre dice:
Sì, tutto può andare a posto se li separiamo. Ogni individuo deve avere una propria vita.
Qualche giorno dopo iniziamo la scuola. Ciascuno in una classe diversa. Ci sediamo in prima fila.
Siamo separati da tutta la lunghezza dell’edificio. Questa distanza tra noi ci pare mostruosa, il dolore che proviamo è insopportabile. E’ come se ci avessero asportato metà del corpo. Non abbiamo più equilibrio, ci vengono le vertigini, cadiamo, perdiamo conoscenza.
Ci risvegliamo nell’ambulanza che ci sta conducendo all’ospedale.
Nostra Madre viene a prenderci. Sorride, dice:
Da domani sarete nella stessa classe.
A casa nostro Padre dice soltanto:
Simulatori!
Ben presto parte per il fronte. E’ giornalista, corrispondente di guerra.
Noi andiamo a scuola per due anni e mezzo. Anche gli insegnanti partono per il fronte; sono rimpiazzati da delle insegnanti. Dopo un po’ la scuola chiude perché ci sono troppi allarmi e bombardamenti.
Sappiamo leggere, scrivere e fare i conti.
Da Nonna decidiamo di continuare i nostri studi senza insegnanti, da soli.
L’acquisto della carta, del quaderno e delle matite.
Da Nonna non c’è carta né matite. Andiamo a prenderne nel negozio che si chiama «Cartolibreria». Scegliamo un blocco di carta a quadretti, due matite, un grande quaderno spesso. Posiamo tutto sul banco, davanti al signore grasso che sta lì dietro. Gli diciamo:
Abbiamo bisogno di queste cose, ma non abbiamo i soldi. Il libraio dice:
Come? Ma... bisogna pagare.
Ripetiamo:
Non abbiamo soldi ma abbiamo assolutamente bisogno di queste cose.
Il libraio dice:
La scuola è chiusa. Nessuno ha bisogno di quaderni né di matite.
Diciamo:
Facciamo la scuola da soli, per conto nostro.
Chiedete i soldi ai vostri genitori.
Nostro Padre è al fronte e nostra Madre è rimasta nella Grande Città. Noi abitiamo da nostra Nonna, anche lei non ha soldi.
Il libraio dice:
Senza soldi non potete comprare niente.
Non diciamo più niente, lo guardiamo. Anche lui ci guarda. La fronte bagnata di sudore. Dopo un po’ esclama:
Non guardatemi così! Andate via!
Diciamo:
Siamo disposti a effettuare qualche lavoro per lei in cambio di queste cose. Innaffiare il suo giardino, per esempio, strappare le erbacce, portare dei pacchi...
Esclama di nuovo:
Non ho nessun giardino! Non ho bisogno di voi! E poi non potete parlare normalmente?
Noi parliamo normalmente.
Dire alla vostra età: «disposti a effettuare», vi sembra normale?
Noi parliamo correttamente.
Troppo correttamente, sì. Non mi piace proprio per niente il vostro modo di parlare! E anche il vostro modo di guardarmi! Andate fuori di qui!
Chiediamo:
Ha delle galline, signore?
Si asciuga la faccia bianca con un fazzoletto bianco. Domanda senza alzare la voce:
Delle galline? Perché delle galline?
Perché se non ne ha, noi possiamo disporre di una certa quantità di uova e portargliene in cambio di queste cose che ci sono indispensabili.
Il libraio ci guarda, non dice niente.
Diciamo:
Il prezzo delle uova aumenta ogni giorno. Per contro il prezzo della carta e delle matite...
Scaglia la nostra carta, le nostre matite, il nostro quaderno verso la porta e urla:
Fuori! Non ho bisogno delle vostre uova! Prendete tutto, e non tornate più!
Raccogliamo con cura gli oggetti e diciamo:
Tuttavia saremo obbligati a tornare quando non avremo più carta, o le nostre matite saranno consumate.
I nostri studi.
Per i nostri studi, abbiamo il dizionario di nostro Padre e la Bibbia che abbiamo trovato qui da Nonna, nella soffitta.
Facciamo lezioni di ortografia, composizione, lettura, calcolo, matematica ed esercizi mnemonici.
Usiamo il dizionario per l’ortografia, per ottenere spiegazioni, ma anche per imparare parole nuove, sinonimi, antonimi.
La Bibbia serve per la lettura ad alta voce, per i dettati e gli esercizi mnemonici. Dunque impariamo a memoria pagine intere della Bibbia.
Ecco come si svolge una lezione di composizione.
Siamo seduti al tavolo della cucina con i nostri fogli a quadretti, le matite e il Grande Quaderno. Siamo soli.
Uno di noi dice:
Il titolo del tuo tema è: «L’arrivo da Nonna».
L’altro dice:
Il titolo del tuo tema è: «I lavori».
Ci mettiamo a scrivere. Abbiamo due ore per trattare l’argomento e due fogli di carta a disposizione.
Alla fine delle due ore ci scambiamo i fogli; ciascuno corregge gli errori di ortografia dell’altro con l’aiuto del dizionario e, in fondo alla pagina, scrive: Bene o Non Bene. Se è Non Bene gettiamo il tema nel fuoco e cerchiamo di trattare lo stesso argomento nella lezione seguente. Se è Bene, possiamo ricopiare il tema nel Grande Quaderno.
Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo.
Ad esempio, è proibito scrivere: «Nonna somiglia a una strega»; ma è permesso scrivere: «La gente chiama Nonna la Strega».
E’ proibito scrivere: «La Piccola Città è bella», perché la Piccola Città può essere bella per noi e brutta per qualcun altro.
Allo stesso modo, se scriviamo: «L’attendente è gentile», non è una verità, perché l’attendente può essere capace di cattiverie che noi ignoriamo. Quindi scriveremo semplicemente: «L’attendente ci regala delle coperte».
Scriveremo: «Noi mangiamo molte noci», e non: «Amiamo le noci», perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. «Amare le noci» e «amare nostra Madre», non può voler dire la stessa cosa. La prima formula designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento.
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe, è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.
La nostra vicina e sua figlia.
La nostra vicina è una donna meno vecchia di Nonna. Abita con sua figlia nell’ultima casa della Piccola Città. E’ una catapecchia tutta scalcinata, con il tetto sfondato in più punti. Attorno c’è un giardino, ma non è coltivato come l’orto di Nonna. Non ci crescono che erbacce.
La vicina sta seduta tutto il giorno su uno sgabello nel suo giardino e guarda davanti a sé, non si sa cosa. La sera, o quando piove, sua figlia la prende per il braccio e la fa rientrare in casa. A volte sua figlia la dimentica o non è lì, allora la madre resta fuori tutta la notte, non importa con quale tempo.
La gente dice che la nostra vicina è matta, che ha perso la ragione quando l’uomo con cui ha fatto la figlia l’ha abbandonata.
Nonna dice che la vicina è semplicemente pigra e preferisce vivere in povertà piuttosto che mettersi a lavorare.
La figlia della vicina non è più alta di noi ma è un po’ più vecchia. Durante il giorno chiede l’elemosina in città, davanti alle osterie, agli angoli delle strade. Al mercato raccoglie la verdura e la frutta marcia che la gente butta via, e la porta a casa. Ruba anche tutto quello che può rubare. Abbiamo dovuto cacciarla più volte dal nostro giardino, dove cercava di prendere della frutta e delle uova.
Una volta la sorprendiamo mentre beve il latte succhiando la mammella di una delle nostre capre.
Quando ci vede, si alza, si asciuga la bocca col dorso della mano, indietreggia, dice:
Non fatemi del male!
E aggiunge:
Corro molto forte. Non mi raggiungerete.
Noi la guardiamo. E’ la prima volta che la vediamo da vicino. Ha il labbro leporino, è strabica, ha il moccio al naso, e agli angoli degli occhi arrossati delle croste giallastre. Le gambe e le braccia sono coperte di pustole.
Dice:
Mi chiamano Labbro-leporino. Mi piace il latte.
Sorride. Ha i denti neri.
Mi piace il latte, ma più di tutto mi piace succhiare la mammella. E’ buona. E’ dura e tenera insieme.
Non rispondiamo. Lei si avvicina.
Mi piace anche succhiare dell’altro.
Tende la mano, noi indietreggiamo. Dice:
Non volete giocare con me? Mi piacerebbe tanto. Siete così belli.
Abbassa la testa, dice:
Vi faccio schifo.
Diciamo:
No, non ci fai schifo.
Capisco. Siete troppo giovani, troppo timidi. Ma con me non dovete sentirvi a disagio. Vi insegnerò dei giochi molto divertenti.
Le diciamo:
Noi non giochiamo mai.
Cosa fate allora tutto il giorno?
Lavoriamo, studiamo.
Io chiedo l’elemosina, rubo e gioco.
Ti occupi anche di tua madre. Sei una brava ragazza.
Lei dice avvicinandosi:
Mi trovate brava? Davvero?
Sì, e se ti serve qualcosa per tua madre o per te non hai che da chiederlo. Ti daremo della frutta, della verdura, dei pesci, del latte.
Si mette a urlare:
Non voglio la vostra frutta, i vostri pesci, il vostro latte! Tutto questo lo posso rubare. Quello che voglio è che mi vogliate bene. Nessuno mi vuole bene. Neanche mia madre. Ma anch’io non voglio bene a nessuno. Né a mia madre né a voi! Vi odio!
Esercizio di accattonaggio.
Indossiamo abiti sporchi e laceri, ci togliamo le scarpe, ci sporchiamo la faccia e le mani. Andiamo in strada. Ci fermiamo, aspettiamo.
Quando un ufficiale straniero passa davanti a noi, alziamo il braccio destro per salutare e tendiamo la mano sinistra. Nella maggior parte dei casi l’ufficiale passa senza fermarsi. senza vederci, senza guardarci.
Finalmente un ufficiale si ferma. Dice qualcosa in una lingua che non capiamo. Ci fa delle domande. Non rispondiamo; restiamo immobili, un braccio alzato, l’altro teso in avanti. Allora fruga nelle tasche, posa una moneta e un pezzetto di cioccolato sul nostro palmo lercio e se ne va scuotendo la testa.
Continuiamo ad aspettare.
Una donna passa. Tendiamo la mano. Lei dice:
Poveri bambini. Non ho niente da darvi.
Ci accarezza i capelli.
Diciamo:
Grazie.
Un’altra donna ci dà due mele, un’altra dei biscotti.
Una donna passa. Tendiamo la mano, lei si ferma e dice: - Non vi vergognate a chiedere l’elemosina? Venite da me, ci sono dei lavoretti facili per voi. Tagliare la legna, per esempio, o lucidare la terrazza. Siete abbastanza grandi e forti. Dopo, se lavorate bene, vi darò della minestra e del pane.
Rispondiamo:
Non abbiamo voglia di lavorare per lei, signora. Non abbiamo voglia di mangiare la sua minestra né il suo pane. Non abbiamo fame.
Lei domanda:
E allora perché chiedete l’elemosina?
Per sapere che effetto fa e per osservare la reazione della gente.
Andandosene grida:
Piccole sporche canaglie! Screanzati, fare queste cose!
Rientrando, gettiamo nell’erba alta che costeggia la strada le mele, i biscotti, il cioccolato e anche le monete.
La carezza sui capelli è impossibile gettarla.
Labbro-leporino.
Peschiamo con la lenza nel ruscello. Labbro-leporino arriva di corsa. Non ci vede. Si corica nell’erba, alza la sottana. Non ha mutande. Vediamo le sue natiche nude e i peli tra le gambe. Noi non abbiamo ancora i peli tra le gambe. Labbro-leporino ne ha, ma molto pochi.
Labbro-leporino fischia. Arriva un cane. E il nostro cane. Lo prende tra le braccia, si rotola con lui nell’erba. Il cane abbaia, si divincola, si scuote e parte di corsa. Labbro-leporino lo chiama con voce dolce accarezzandosi il sesso con le dita.
Il cane torna, annusa più volte il sesso di Labbro-leporino e si mette a leccarlo.
Labbro-leporino allarga le gambe, spinge la testa del cane sul ventre con entrambe le mani. Respira molto forte e si contorce.
Il sesso del cane diventa visibile, è sempre più lungo, è sottile e rosso. Il cane solleva la testa, cerca di arrampicarsi su Labbro-leporino.
Labbro-leporino si volta, è sulle ginocchia, volge il didietro al cane. Il cane posa le zampe anteriori sul dorso di Labbro-leporino, con gli arti posteriori che tremano. Cerca, si avvicina sempre di più; si mette fra le gambe di Labbro-leporino, s’incolla alle sue natiche. Si muove molto rapidamente, avanti e indietro. Labbro-leporino grida e, dopo un momento, cade sul ventre.
Il cane si allontana lentamente.
Labbro-leporino resta coricata per un po’, poi si alza, ci vede, arrossisce. Grida:
Piccoli spioni! Cos’avete visto?
Rispondiamo:
Ti abbiamo vista giocare con il nostro cane.
Chiede:
Sono sempre vostra amica?
Sì, e ti permettiamo di giocare col nostro cane quando vuoi.
E non direte a nessuno quello che avete visto?
Non diciamo mai niente a nessuno. Puoi contare su di noi.
Si siede sull’erba e piange:
Solo le bestie mi vogliono bene.
Domandiamo:
E’ vero che tua madre è matta?
No. E’ soltanto sorda e cieca.
Cosa le è successo?
Niente. Niente di speciale. Un giorno è diventata cieca e dopo un po’ è diventata anche sorda. Dice che per me sarà la stessa cosa. Avete visto i miei occhi? La mattina, quando mi sveglio, le mie ciglia sono incollate, i miei occhi pieni di pus.
Diciamo:
E’ certamente una malattia che la medicina può curare.
Dice:
Può darsi. Ma come faccio ad andare da un dottore senza soldi? A ogni modo non ci sono dottori. Sono tutti al fronte.
Domandiamo:
E le tue orecchie? Hai male alle orecchie?
No, con le orecchie non ho nessun problema. E credo che non li abbia neanche mia madre. Fa finta di non sentire niente, le fa comodo quando le chiedo qualcosa.
Esercizio di cecità e sordità.
Uno di noi fa il cieco, l’altro fa il sordo. Per allenarsi, all’inizio, il cieco si lega un fazzoletto nero di Nonna davanti agli occhi, il sordo si tappa le orecchie con dell’erba. Il fazzoletto puzza come Nonna.
Ci diamo la mano, andiamo a passeggio durante gli allarmi, quando la gente si nasconde nelle cantine e le strade sono deserte.
Il sordo descrive quello che vede:
La strada è lunga e dritta. E’ fiancheggiata da case basse, a un solo piano. Sono di colore bianco, grigio, rosa, giallo e blu. Alla fine della strada si vede un parco con degli alberi e una fontana. Il cielo è azzurro, con qualche nuvola bianca. Si vedono degli aerei. Cinque bombardieri. Volano bassi.
Il cieco parla lentamente, perché il sordo possa leggere sulle sue labbra.
Sento gli aerei. Producono un rumore irregolare e profondo. Il loro motore fatica. Sono carichi di bombe. Ora sono passati. Sento di nuovo gli uccelli. Per il resto tutto è silenzioso.
Il sordo legge sulle labbra del cieco e risponde:
Sì, la strada è vuota.
Il cieco dice:
Non per molto. Sento dei passi che si avvicinano nella strada laterale, a sinistra.
Il sordo dice:
Hai ragione. Ecco un uomo.
Il cieco domanda:
Com’è?
Il sordo risponde:
Come tutti gli altri. Povero, vecchio.
Il cieco dice:
Lo so. Riconosco il passo dei vecchi. Sento anche che è a piedi nudi, quindi è povero.
Il sordo dice: - E’ calvo. Ha una vecchia giacca dell’esercito. Ha dei pantaloni troppo corti. I suoi piedi sono sporchi.
I suoi occhi?
Non li vedo. Guarda per terra.
La bocca?
Labbra troppo incavate. Non deve avere più denti.
Le mani?
In tasca. Le tasche sono enormi e piene di qualcosa. Di patate, o di noci, che fanno delle piccole gobbe. Alza la testa e ci guarda. Ma non riesco a distinguere il colore dei suoi occhi.
Non vedi nient’altro?
Delle rughe, profonde come cicatrici, sul suo volto.
Il cieco dice:
Sento le sirene. E’ la fine dell’allarme. Rientriamo.
Dopo un po’, col tempo, non abbiamo più bisogno di un fazzoletto per gli occhi né di erba per le orecchie. Chi fa il cieco volta semplicemente lo sguardo verso l’interno, il sordo chiude le orecchie a tutti i rumori.
Il disertore.
Troviamo un uomo nella foresta. Un uomo vivo, un uomo giovane, senza uniforme. E’ coricato dietro un cespuglio. Ci guarda senza muoversi.
Gli chiediamo:
Perché sta lì coricato?
Risponde:
Non posso più camminare. Vengo dall’altra parte della frontiera. Cammino da due settimane. Giorno e notte. Soprattutto la notte. Adesso sono troppo debole. Ho fame. Non mangio niente da tre giorni.
Chiediamo:
Perché non ha l’uniforme? Tutti gli uomini giovani hanno un’uniforme. Sono tutti soldati.
Dice:
Non voglio più essere soldato.
Non vuole più combattere il nemico?
Non voglio combattere nessuno. Non ho nemici. Voglio tornare a casa.
Dov’è casa sua?
E’ ancora lontana. Non ci arriverò se non trovo qualcosa da mangiare.
Chiediamo:
Perché non va a comperare qualcosa da mangiare? Non ha soldi?
No, non ho soldi e non posso farmi vedere. Devo nascondermi. Bisogna che non mi vedano.
Perché?
Ho lasciato il mio reggimento senza permesso. Sono scappato. Sono un disertore. Se mi ritrovassero sarei fucilato o impiccato.
Domandiamo:
Come un assassino?
Sì, proprio come un assassino.
Eppure lei non vuole uccidere nessuno. Vuole solo tornare a casa sua.
Sì, soltanto tornare a casa mia.
Domandiamo:
Cosa vuole che le portiamo da mangiare?
Qualunque cosa.
Latte di capra, uova sode, pane, frutta?
Sì, sì, qualunque cosa.
Domandiamo:
E una coperta? Le notti sono fredde e piove spesso.
Dice:
Sì, ma bisogna che non vi vedano. E non direte niente a nessuno, vero? Neanche a vostra madre.
Rispondiamo:
Non ci vedranno, noi non diciamo mai niente a nessuno e non abbiamo una madre.
Quando ritorniamo con il cibo e la coperta, dice:
Siete gentili.
Diciamo:
Non volevamo essere gentili. Le abbiamo portato queste cose perché ne aveva bisogno. E’ tutto.
Lui dice ancora:
Non so come ringraziarvi. Non vi dimenticherò mai.
I suoi occhi si bagnano di lacrime.
Noi diciamo:
Sa che piangere non serve a niente? Noi non piangiamo mai. Eppure non siamo ancora uomini fatti come lei.
Sorride e dice:
Avete ragione. Scusatemi, non lo farò più. Era solo per via dello sfinimento.