I miei aedi: racconti di donne contadine attorno a na rota
A casa mia si trascorrevano dunque le serate tra chiacchiericci concernenti i sogni, l’aldilà, i vivi ed i morti. E si udivano anche grandi risate. “Ho sognato l’altra notte a cummare Lavretta, bonanima, e le ho chiesto chi vvita si tire a l’attru mundu“. ” E chi vi rispundiu?” “Mi ha risposto che il lavoro che facciamo sulla terra dovremo farlo nell’altro mondo. Futtuta, ho esclamato io: se devo lavorare come mi tocca fare qua sulla terra, povera me!”. Ricordo anche che raccontavano del loro andare in campagna per lavorare e che quei campi ad ogni crocicchio, ad ogni burrone, ad ogni piè sospinto, erano abitati da fantasmi che regolarmente si facevano vedere dalle contadine. Va’ a capire cosa può immaginare e creare l’uomo! I latini si figuravano tutti i luoghi occupati da ninfe e divinità ed Esiodo addirittura discorreva con le Muse! Anche i parti a Cortale non sempre erano eventi normali. Stando ai racconti sentiti in quelle mie sere soavi, soprattutto le donne più ricche spesso partorivano esseri mostruosi: mezzi diavoletti che bisognava rincorrere nelle stanze, esseri metà umani e metà serpenti. Dei monstra, degli esseri prodigiosi che, come compiendo una fatica degna di Ercole, bisognava far morire affinché non fossero dannosi. Io non so se si adombrassero in tal modo gli inconfessabili e indicibili aborti procurati o se i poveri immaginassero pure la nascita dei ricchi strana, come il loro tenore di vita. Le stesse persone, che così fantasticamente parlavano e pensavano, decidevano anche di mandare i propri figli a scuola: in paese cominciavano ad arrivare dalla Svizzera i soldi mandati dai nostri emigrati, grazie ai quali tanti figli di contadini abbiamo in quegli anni potuto studiare.
In quella nostra società continuamente immaginato era soprattutto l’aldilà e sulla terra era un continuo andirivieni di morti, realizzandosi in questa maniera l’antico sogno di Orfeo. Si diceva che quando uno moriva venisse accolto nell’oltretomba da tutti i suoi parenti defunti. Per i vivi si addolciva così il dolore per la nuova perdita ed era bello credere che il proprio caro non fosse da solo nel momento del trapasso. Era altrettanto una meravigliosa “corrispondenza d’amorosi sensi” il ritenere che i morti continuassero a pensare ai familiari ancora in vita. Quando si verificava qualche decesso, c’era infatti sempre qualcuno che giorni prima aveva sognato un parente defunto che si era mostrato particolarmente triste. I morti cioè preannunciavano, anche se oscuramente, le disgrazie ai congiunti che continuavano ad amare, ma non avevano il potere di evitarle. “Non è che non vogliono, non possono”, si diceva con elegiaca bellezza in quel mondo contadino che forse aveva avvocati difensori solo i propri morti. Ad un ormai deceduto nemico ( perché era un mondo con solidarietà, ma anche con forti inimicizie, visto che l’esistenza era dura ed amara) si augurava invece “Mu piste fierru!”, cioè di lavorare il ferro rompendosi in perpetuo la schiena per la fatica. Si auspicava dunque che il nemico subisse le pene dell’inferno, che ben si si sapeva immaginare, visto che lo si viveva in terra. Le donne sedute attorno a quella rota erano tutte credenti: si distinguevano fra chi era più praticante e chi meno, mia madre sosteneva tra chi aveva tempo libero e chi no. Ma nella loro religiosità c’era del paganesimo e come un felice sincretismo in cui convergevano cristianesimo, credenze magiche, saggezze popolari, acquisizioni millenarie., ecc. Ad un parente, spesso un figlio, che si presupponeva sarebbe stato il proprio erede ed a cui si davano disposizioni per il futuro, si intimava affettuosamente: “Se una volta che sarò morto tu non farai come dico io, tornerò e ti tirerò dai piedi”, cioè lo si minacciava di trascinarlo con sé nel buio dell’oltretomba. Non molti anni fa, una signora si era inventata un mestiere, perché veniva nelle case e diceva di avere sognato i nostri morti, i quali avevano chiesto, ad esempio, un caffè. E tutti, pe l’anima de li muarti, davamo quanto chiesto ad una persona che in un mondo di emarginati era chiaramente un po’ più ai margini degli altri.
La civiltà contadina e le donne del mio inverno di pittrice incapace possedevano in verità l’arte del raccontare. Ai funerali di mia madre, durante la veglia notturna, le donne fino al mattino hanno bisbigliato con consumati bizantinismi sul dover o non dover dare ai nascituri i nomi dei nonni. Era un rispettoso chiacchierare che in qualche modo indicava che la vita ritornava a chi era immerso nel lutto. Invece io e mio fratello, che avevamo potuto passare la vita sui libri, eravamo muti, annichiliti dal dolore. Quando risento dentro di me le risate di quelle donne che chiacchieravano attorno a nu vrascieri, l’unico conforto per me, che non ignoro e non dimentico l’ingiustizia e la sofferenza insite nel loro vivere, è il sapere che sono miracolosamente riuscite come tutti sulla terra ad essere a volte contente. Se quelle donne sono adesso da qualche parte, spero che non debbano più lavorare e che beatamente si divertano: futtuta, c’è giustizia anche se tardiva, amiche mie! Allorché rammento quel canto che ha accompagnato il mio paziente disegnare in quell’inverno del ’64-’65, unisco al mio affettuoso ricordo un’idea che mi è cara: a proposito di Omero a me piace pensare che abbia ragione il vecchio Vico, il quale ha sostenuto che tutto il popolo greco sia stato creatore e narratore dei due divini poemi. Anche quelle donne raccolte attorno a na rota sono prova dell’inesauribile capacità creativa della fantasia popolare, la quale si trova sovente all’origine dei generi letterari più importanti. Mariuzza, Bettina, Tiresuzza, Francischina: sono le mie donne-aedi, le mie aedi del cuore. Amo credere che in quel femminile momento di ritrovo serale a casa mia abbiano saputo essere felici, nonostante la povertà. Io a quel tavolo, nel cercare di migliorare se non la mia capacità di disegnare almeno quella di rendere il tratto della mia matita meno pesante ( solo per la buona volontà ho avuto quell’anno l’ unico otto in disegno della mia vita! ), con alle spalle loro ed il loro canto, sono stata in armonia con la vita, perché a Demodoco, aedo divino, un dio donò in sommo grado il canto, a darci diletto, comunque il cuore lo spinga a cantare.