martedì 31 dicembre 2019


COLPEVOLI!

"Giacché sappiate, cari, che ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra." (Fratelli Karamazov). Presunzione di colpevolezza. Prima di Davigo. È la presunzione di delitto il peso aprioristico che sopporta l’occidente. Eredità secondo me sciagurata dell'ideologia soprattutto della sinistra (terzomondismo d'accatto) europea. Ma anche certa area liberal Usa va pesante.
Noi europei siamo educati a crescere nell’odio di noi stessi. Siamo condannati a pensare che soffriamo di un male congenito che reclama vendetta senza speranza di perdono misericordioso. Le colpe sono il colonialismo e l’imperialismo di cui ci sentiamo raccontare. Viviamo schiacciati dal ricordo dei milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. E in questi anni Irak, Siria, etc.
È a causa di questa infamia che consideriamo  la nostra civiltà come la peggiore. Utile leggere Pascal Bruckner “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, pubblicato nel 1984 (Guanda).

IL SINGHIOZZO DELL'UOMO BIANCo
Pascal Bruckner
Guanda (1984)

NOTA INTRODUTTIVA (1998)
Venticinque anni mi separano da questo libro, scritto in uno 
stato di giubilo febbrile: i suoi temi non mi hanno più lascia￾to, continuano a lavorarmi dentro come una questione mai 
sopita. Al piacere di demolire una mitologia, si è aggiunto 
quello di esplorare universi illimitati. Nato da un'intuizione 
avuta in India, mentre scoprivo il sottocontinente e opponevo 
alla realtà intravista laggiù le retoriche imperanti presso di 
noi, il Singhiozzo dell'uomo bianco (devo questo titolo al mio 
amico François Samuelson), ebbe una genesi difficile: tutti co￾loro cui sottoposi il progetto, nel 1981, tentarono di dissua￾dermi dall'intraprenderlo. Il tale, grande intellettuale parigi￾no, temendo a torto di avere le mani legate a causa del pro￾prio impegno politico, mi scongiurava di non sprofondare in 
una cultura della denuncia; il talaltro, editore di fama, spaven￾tato da un testo che avrebbe potuto fare scalpore, e complica￾re i rapporti con i potenti del momento, insisteva affinché ri￾nunciassi e, per scoraggiarmi, evocava i provvidenziali Lévi￾Strauss e Sartre. Ci vollero tutta l'energia e il coraggio di 
Jean-Claude Guillebaud, presto seguito da Denis Roche e 
Jean-Marc Roberts, per far accettare l'opera all'editore Seuil. 
Desidero qui ringraziarli ancora una volta. Un giovane autore 
non dimentica chi gli ha teso una mano nelle situazioni diffici￾li, soprattutto se ha già avuto modo di rompersi la testa con￾tro il muro dei benpensanti. 
L'accoglienza riservata al saggio fu burrascosa: entusiasmo 
degli uni, furore degli altri, sale ostili, urlanti, silenzio imba￾razzato degli organi della sinistra ufficiale, pubblicazioni, rivi￾ste o giornali che pure, in seguito, avrebbero adottato il mio 
punto di vista senza mai ammetterlo. Per qualche tempo do￾vetti indossare l'abito del reprobo, accusato di aver tradito il 
proprio campo calpestando uno dei suoi più rigidi tabù, quello del buon selvaggio rivoluzionario, nuovo soggetto della sto￾ria dopo il proletario, la donna, il bambino. 
Tutto ciò sembra oggi sorpassato, dopo che i miei più 
grandi detrattori si sono tutti convertiti a un antiterzomondi￾smo accanito, per non dire oltranzista, confondendo una spe￾cifica ideologia con il ripiegamento nelle fortezze della vec￾chia Europa. Le polemiche vengono evitate e appartengono 
al passato. Questo libro non è certo privo di alcune ingenuità 
giovanili: a parte il fatto che lo svanire del conflitto tra Orien￾te e Occidente ha cambiato la situazione, a quei tempi avevo 
sottovalutato il carattere profondamente tragico dell'impegno 
politico che, anche quando è giusto, comporta in ogni mo￾mento una quota di sofferenza e di abominio difficilmente 
sopportabili. Insomma, avevo troppo attenuato la necessità 
della rivolta per certi popoli o minoranze oppressi, e tutta l'o￾pera è segnata dalla grande delusione seguita alla conquista 
delle indipendenze e ai successivi disastri della Cina, del Viet￾nam, della Cambogia, dell'Etiopia, dell'Angola, dell'Iran. 
Alla domanda: di chi è la colpa? nel senso metafisico del 
termine, il terzomondista risponderà spontaneamente: del￾l'Occidente, e soprattutto dell'America. Smettere di ragionare 
in questo modo vuole dire riconoscere che tutti i paesi condi￾vidono la stessa responsabilità e non possono annullare i pro￾pri errori servendosi di un capro espiatorio, per quanto co￾modo e adattabile, come gli Stati Uniti. Ognuno deve fare 
un'autocritica, anche a costo di ribadire le ingiustizie e le ine￾guaglianze reali del sistema internazionale. Il terzomondismo 
come struttura mentale, cioè la ragione data al nemico nel 
momento in cui si sottopone se stessi al giudizio, non è certo 
scomparso, anche perché è parte costitutiva dello spirito eu￾ropeo sin dal Rinascimento; almeno, però, esso è ormai pre￾sente sotto una forma più accademica che politica. Se ne tro￾vano tracce nel multiculturalismo nordamericano, con il suo 
odio per « l'uomo bianco, maschio, europeo, morto » e in cer￾ti eccessi dell'afrocentrismo che si limita a ricalcare fedelmen￾te l'eurocentrismo di un tempo, rovesciandolo. In Francia, 
nella riverenza tributata ai « giovani delle banlieu », esonerati 
da qualsiasi debito morale perché rappresentano la figura della vittima per eccellenza, due volte dannati sulla terra, per via 
della discendenza dai colonizzati e per lo stato di esclusione in 
cui sono mantenuti. L'idea chiave secondo la quale apparte￾niamo a una civiltà maledetta, destinata a scomparire, malata 
e infame a un tempo, continua a essere l'asse centrale di nu￾merose riflessioni e permea ancora di sé ogni tipo di discipli￾na, comprese la sociologia e l'etnologia. Si vedono così degli 
onorati dipendenti del ministero dell'Istruzione, ormai in riti￾ro e doverosamente pensionati, che godono di tutte le garan￾zie dello Stato di diritto, celebrare a gran voce, per loro con￾forto, la figura del terrorista e vantarsi delle proprie posizioni 
radicali. E che dire della marea di pentimenti che invade co￾me un'epidemia le nostre latitudini, se non che essa è la mi￾gliore delle cose, ma a patto di ammettere la reciprocità e di 
estenderla alla totalità della specie umana? Il giorno in cui 
gli Stati, le religioni, le culture riconosceranno i loro errori 
senza che ciò diminuisca in alcun modo gli orrori particolari 
di cui si sono macchiate l'Europa e l'America del Nord, sarà 
un giorno di grande progresso per l'umanità intera. La contri￾zione non verrà più riservata ad alcuni, e l'innocenza concessa 
agli altri. Che alcuni si flagellassero, mentre molti altri conti￾nuavano a indossare la candida veste dei perseguitati, fu parti￾colarmente evidente nel corso della conferenza contro il razzi￾smo di Durban, in Sudafrica, nell'autunno del 2001, termina￾ta al grido di « morte ai giudei » e con il totale occultamento 
della responsabilità degli arabi nella tratta dei neri. L'ingresso 
nella Storia è necessariamente una cosa sporca, e Israele ne è 
la prova. Non esistono popoli innocenti o eletti, vi sono solo 
regimi più o meno democratici, capaci di correggere le loro 
colpe e di accettare gli sconvolgimenti del passato. Bisogna 
però ancora riflettere su ciò che nel 1995, in un altro saggio, 
definii la gara del vittimismo, ossia la corsa al riconoscimento 
cui partecipano da oltre mezzo secolo i paria del pianeta, 
brandendo le loro disgrazie per vedersi attribuire il titolo di 
popolo maggiormente sfavorito. 
In un momento in cui quello che ieri chiamavamo Sud 
emerge come attore protagonista, vorrei infine ricordare i due 
principali approcci adottati nel libro: la discordanza e la meraviglia. Le diverse umanità che esistono sul globo si attirano 
quanto si respingono, e comunicano tra loro sotto le due spe￾cie dell'allergia e della fascinazione. Chiunque dimentichi uno 
dei due termini pecca di spiritualismo esagerato o di disprezzo: 
violenza degli Stati o delle nazioni, sempre tentati di imporsi 
gli uni sugli altri con la forza, e attrazione per costumi, lingue, 
credenze differenti, in un mondo che non smette mai di aggre￾garsi e diversificarsi. L'incontro con l'altro avviene sempre in 
un contesto di reticenza e meraviglia, e il peggio è guastare la 
meraviglia con la paura o la pigrizia, restando prigionieri di se 
stessi, nel provincialismo della propria identità.