"Giacché sappiate, cari, che ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra." (Fratelli Karamazov). Presunzione di colpevolezza. Prima di Davigo. È la presunzione di delitto il peso aprioristico che sopporta l’occidente. Eredità secondo me sciagurata dell'ideologia soprattutto della sinistra (terzomondismo d'accatto) europea. Ma anche certa area liberal Usa va pesante.
Noi europei siamo educati a crescere nell’odio di noi stessi. Siamo condannati a pensare che soffriamo di un male congenito che reclama vendetta senza speranza di perdono misericordioso. Le colpe sono il colonialismo e l’imperialismo di cui ci sentiamo raccontare. Viviamo schiacciati dal ricordo dei milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. E in questi anni Irak, Siria, etc.
È a causa di questa infamia che consideriamo la nostra civiltà come la peggiore. Utile leggere Pascal Bruckner “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, pubblicato nel 1984 (Guanda).
IL SINGHIOZZO DELL'UOMO BIANCo
Pascal Bruckner
Guanda (1984)
NOTA INTRODUTTIVA (1998)
Guanda (1984)
NOTA INTRODUTTIVA (1998)
Venticinque anni mi separano da questo libro, scritto in uno
stato di giubilo febbrile: i suoi temi non mi hanno più lasciato, continuano a lavorarmi dentro come una questione mai
sopita. Al piacere di demolire una mitologia, si è aggiunto
quello di esplorare universi illimitati. Nato da un'intuizione
avuta in India, mentre scoprivo il sottocontinente e opponevo
alla realtà intravista laggiù le retoriche imperanti presso di
noi, il Singhiozzo dell'uomo bianco (devo questo titolo al mio
amico François Samuelson), ebbe una genesi difficile: tutti coloro cui sottoposi il progetto, nel 1981, tentarono di dissuadermi dall'intraprenderlo. Il tale, grande intellettuale parigino, temendo a torto di avere le mani legate a causa del proprio impegno politico, mi scongiurava di non sprofondare in
una cultura della denuncia; il talaltro, editore di fama, spaventato da un testo che avrebbe potuto fare scalpore, e complicare i rapporti con i potenti del momento, insisteva affinché rinunciassi e, per scoraggiarmi, evocava i provvidenziali LéviStrauss e Sartre. Ci vollero tutta l'energia e il coraggio di
Jean-Claude Guillebaud, presto seguito da Denis Roche e
Jean-Marc Roberts, per far accettare l'opera all'editore Seuil.
Desidero qui ringraziarli ancora una volta. Un giovane autore
non dimentica chi gli ha teso una mano nelle situazioni difficili, soprattutto se ha già avuto modo di rompersi la testa contro il muro dei benpensanti.
L'accoglienza riservata al saggio fu burrascosa: entusiasmo
degli uni, furore degli altri, sale ostili, urlanti, silenzio imbarazzato degli organi della sinistra ufficiale, pubblicazioni, riviste o giornali che pure, in seguito, avrebbero adottato il mio
punto di vista senza mai ammetterlo. Per qualche tempo dovetti indossare l'abito del reprobo, accusato di aver tradito il
proprio campo calpestando uno dei suoi più rigidi tabù, quello del buon selvaggio rivoluzionario, nuovo soggetto della storia dopo il proletario, la donna, il bambino.
Tutto ciò sembra oggi sorpassato, dopo che i miei più
grandi detrattori si sono tutti convertiti a un antiterzomondismo accanito, per non dire oltranzista, confondendo una specifica ideologia con il ripiegamento nelle fortezze della vecchia Europa. Le polemiche vengono evitate e appartengono
al passato. Questo libro non è certo privo di alcune ingenuità
giovanili: a parte il fatto che lo svanire del conflitto tra Oriente e Occidente ha cambiato la situazione, a quei tempi avevo
sottovalutato il carattere profondamente tragico dell'impegno
politico che, anche quando è giusto, comporta in ogni momento una quota di sofferenza e di abominio difficilmente
sopportabili. Insomma, avevo troppo attenuato la necessità
della rivolta per certi popoli o minoranze oppressi, e tutta l'opera è segnata dalla grande delusione seguita alla conquista
delle indipendenze e ai successivi disastri della Cina, del Vietnam, della Cambogia, dell'Etiopia, dell'Angola, dell'Iran.
Alla domanda: di chi è la colpa? nel senso metafisico del
termine, il terzomondista risponderà spontaneamente: dell'Occidente, e soprattutto dell'America. Smettere di ragionare
in questo modo vuole dire riconoscere che tutti i paesi condividono la stessa responsabilità e non possono annullare i propri errori servendosi di un capro espiatorio, per quanto comodo e adattabile, come gli Stati Uniti. Ognuno deve fare
un'autocritica, anche a costo di ribadire le ingiustizie e le ineguaglianze reali del sistema internazionale. Il terzomondismo
come struttura mentale, cioè la ragione data al nemico nel
momento in cui si sottopone se stessi al giudizio, non è certo
scomparso, anche perché è parte costitutiva dello spirito europeo sin dal Rinascimento; almeno, però, esso è ormai presente sotto una forma più accademica che politica. Se ne trovano tracce nel multiculturalismo nordamericano, con il suo
odio per « l'uomo bianco, maschio, europeo, morto » e in certi eccessi dell'afrocentrismo che si limita a ricalcare fedelmente l'eurocentrismo di un tempo, rovesciandolo. In Francia,
nella riverenza tributata ai « giovani delle banlieu », esonerati
da qualsiasi debito morale perché rappresentano la figura della vittima per eccellenza, due volte dannati sulla terra, per via
della discendenza dai colonizzati e per lo stato di esclusione in
cui sono mantenuti. L'idea chiave secondo la quale apparteniamo a una civiltà maledetta, destinata a scomparire, malata
e infame a un tempo, continua a essere l'asse centrale di numerose riflessioni e permea ancora di sé ogni tipo di disciplina, comprese la sociologia e l'etnologia. Si vedono così degli
onorati dipendenti del ministero dell'Istruzione, ormai in ritiro e doverosamente pensionati, che godono di tutte le garanzie dello Stato di diritto, celebrare a gran voce, per loro conforto, la figura del terrorista e vantarsi delle proprie posizioni
radicali. E che dire della marea di pentimenti che invade come un'epidemia le nostre latitudini, se non che essa è la migliore delle cose, ma a patto di ammettere la reciprocità e di
estenderla alla totalità della specie umana? Il giorno in cui
gli Stati, le religioni, le culture riconosceranno i loro errori
senza che ciò diminuisca in alcun modo gli orrori particolari
di cui si sono macchiate l'Europa e l'America del Nord, sarà
un giorno di grande progresso per l'umanità intera. La contrizione non verrà più riservata ad alcuni, e l'innocenza concessa
agli altri. Che alcuni si flagellassero, mentre molti altri continuavano a indossare la candida veste dei perseguitati, fu particolarmente evidente nel corso della conferenza contro il razzismo di Durban, in Sudafrica, nell'autunno del 2001, terminata al grido di « morte ai giudei » e con il totale occultamento
della responsabilità degli arabi nella tratta dei neri. L'ingresso
nella Storia è necessariamente una cosa sporca, e Israele ne è
la prova. Non esistono popoli innocenti o eletti, vi sono solo
regimi più o meno democratici, capaci di correggere le loro
colpe e di accettare gli sconvolgimenti del passato. Bisogna
però ancora riflettere su ciò che nel 1995, in un altro saggio,
definii la gara del vittimismo, ossia la corsa al riconoscimento
cui partecipano da oltre mezzo secolo i paria del pianeta,
brandendo le loro disgrazie per vedersi attribuire il titolo di
popolo maggiormente sfavorito.
In un momento in cui quello che ieri chiamavamo Sud
emerge come attore protagonista, vorrei infine ricordare i due
principali approcci adottati nel libro: la discordanza e la meraviglia. Le diverse umanità che esistono sul globo si attirano
quanto si respingono, e comunicano tra loro sotto le due specie dell'allergia e della fascinazione. Chiunque dimentichi uno
dei due termini pecca di spiritualismo esagerato o di disprezzo:
violenza degli Stati o delle nazioni, sempre tentati di imporsi
gli uni sugli altri con la forza, e attrazione per costumi, lingue,
credenze differenti, in un mondo che non smette mai di aggregarsi e diversificarsi. L'incontro con l'altro avviene sempre in
un contesto di reticenza e meraviglia, e il peggio è guastare la
meraviglia con la paura o la pigrizia, restando prigionieri di se
stessi, nel provincialismo della propria identità.