lunedì 30 dicembre 2019



IL CANTORE DI NATALE  © Rosa Maria Corti

Il velato sole di dicembre era ormai scomparso da un pezzo e nell’aria fredda le ombre erano scese a fugare la pallida luce dell’ovest che aveva indugiato sui muri delle cascine.
Allora dal minuscolo campanile della chiesetta di Erbonne si propagò il suono dell’Angelus e i rintocchi salirono attraverso la Val Breggia fino all’Alpe e al passo di Orimento e si diffusero anche oltre il confine svizzero verso Scudellate e Muggio.
In quell’inverno del 1915 la neve era venuta presto e ce n’era talmente tanta che per andare alla fontana del lavatoio bisognava camminare dentro una bianca trincea orlata di lucenti merletti e cristalli che parevano capolavori di traforo. Così per andare di casa in casa, per raggiungere l’unica osteria.
 Ma, in quell’ora di attesa, di Vigilia, quei sentierini stretti scavati dentro un bianco candore s’erano di colpo svuotati: anziani, donne e, ultimi, i ragazzini con le guance arrossate dal gelo, si erano ritirati nelle loro abitazioni lasciando fuori degli usci i primi fiocchi di neve che vorticando scivolavano lentamente verso terra.
Nel silenzio greve di malinconia che era calato sul piccolo paese nemmeno la presenza amica del Monte Generoso sembrava di conforto a coloro che avevano figli o mariti al fronte. A tutta la comunità sarebbe mancata in particolare la presenza di Pietro che aveva il dono di saper consolare tutti e una bellissima voce; senza di lui il canto della mezzanotte sarebbe sembrato spento e l’armonium sarebbe rimasto muto.
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Sandro e Maria nella loro baita all’Alpe di Gotta, al centro di una grande conca prativa situata a circa 1200 metri di altitudine, sorridevano finalmente contenti per essere riusciti, invero dopo aver molto insistito, a convincere la loro mamma a lasciarli scendere a Erbonne dai nonni paterni. Fra questi ultimi, d’origine svizzera, e i nonni materni, d’origine italiana, c’erano stati in passato forti screzi per via di un campo di patate e di un bosco maldivisi.  Anche se non erano una novità queste storie in quel piccolo lembo di terra dove tutti erano imparentati fra loro, (pochissimi, infatti, erano i cognomi che si potevano leggere sulle lapidi del piccolo cimitero, per lo più Cereghetti e Puricelli), la giovane donna non riusciva a metterci una pietra sopra. Ma, si sa, anche in guerra vengono ordinate delle tregue e per la notte di Natale Teresa decise di accontentare i figli che volevano vedere il presepe fatto dal nonno e speravano in una licenza miracolosa per poter ascoltare le dolci melodie del cantore di Natale. Pietro, infatti, che sapeva suonare l’armonium, aveva una voce sonora che incantava tutti, grandi e piccini, ciascuno nel suo canto udiva le parole desiderate, il conforto sperato ed era come se, dimenticata ogni offesa ed affanno, tutta la comunità si allacciasse in un unico abbraccio.
      Nel primo pomeriggio dunque i bambini partirono contando di giungere dai nonni prima del tramonto del sole. La mamma sarebbe rimasta nella baita per accudire all’ultimo nato, mentre il padre avrebbe badato alle mucche, alle pecore, alle capre, che abbisognavano d’altrettanto amore e che producevano tante cose necessarie alla famigliola che era destinata ad ingrandirsi ancora.
Arrivati al valico detto “Barco dei Montoni” Sandro e Maria, che avevano percorso la ripida salita a passo sostenuto, si fermarono a prendere fiato ma, recuperate in breve le forze, incominciarono a giocare.
 Il sole faceva luccicare la distesa immacolata del pascolo e fu divertente osservare le evoluzioni di uno scoiattolo sui rami di un larice, leggere sulla neve, come fosse il sussidiario di scuola, le orme dei selvatici e seguire quelle di un capriolo forse alla ricerca della corteccia di maggiociondolo, per lui gustoso nutrimento dell’inverno, imitare il “crit crit” dello scricciolo, gettarsi l’urlo ed ascoltarne l’eco mentre si perdeva lontano.
Quando Sandro si accorse che s’era fatto tardi decise di prendere una scorciatoia che, dopo aver superato alcune radure dove nel mese di luglio egli andava con la sorellina a raccogliere mirtilli, s’inoltrava in ripida discesa nel bosco. 
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Al posto di vedetta sopra il Gavia, il giovane alpino Pietro in quella vigilia di Natale osservava la vallata sottostante bianca di neve e pensava ai suoi cari, alla sua casa, al suo villaggio, piccola frazione del comune di San Fedele Intelvi, in cui ci si conosceva tutti, dal bambino più piccolo al pastore più anziano. Com’era lontano ciò che amava di più e che gli apparteneva. In quei mesi in cui s’era assoggettato ad ogni sorta di fatica con la stessa umiltà con cui si avviava alle fatiche dei campi e dell’alpe, aveva però imparato a comprendere il senso tragico della vita e il pensiero della morte gli si affacciava alla mente senza procurargli angoscia.
Una cosa gli dispiaceva: di non poter occupare in quella notte santa il suo posto in chiesa, accanto all’armonium. Gli sembrava di vedere il banco dove sedevano le donne del coro, di sentire il fruscio delle loro vesti, i bisbigli dei bambini, ma era solo la voce del vento che annunciava l’arrivo della tormenta. Così, quando Pietro si sporse dal suo appostamento per controllare se stessero salendo i portatori con i muli carichi di rifornimenti e le lettere dei parenti lontani, confuse quella voce col sibilo della pallottola che lo colpì in fronte.
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Sandro e Maria scendevano velocemente sulla neve ghiacciata che scricchiolava appena sotto il peso leggero dei loro corpi quando ad un tratto una nebbia grigia prese a discendere dalla pineta del Monte Generoso che s’erano lasciati alle spalle e fu subito un mulinare di fiocchi, di grani di neve rabbiosi che picchiavano con forza sul viso. In breve le nuvole furono ai piedi dei due piccoli, li avvolsero e oscurarono tutto.
“Così ci perderemo” disse Maria con un accenno di pianto nella voce.
“Non avere paura” rispose Sandro aggiustando alla sorellina il passamontagna di lana grezza fatto dalla nonna, “presto arriveremo ad Erbonne”. In realtà non ne era così sicuro. Si sentiva colpevole per essersi attardato nel gioco e gli tornavano alla mente certi spaventosi racconti fatti dai pastori più anziani, senza contare che tutto quel buio lo aveva completamente disorientato.
Continuarono a camminare senza sapere se quella seguita fosse la direzione giusta. Intanto le ore passavano.
“Sandro”, piagnucolò Maria, “ho le mani e i piedi gelati”.
“Non preoccuparti, adesso ci ripariamo in quella grotta che ci ha mostrato papà dove un tempo si rifugiavano gli orsi con i loro piccoli e facciamo quel gioco che ti piace tanto”.
Sandro però sapeva che la grotta era molto più in alto, lontana da loro che si erano sicuramente persi nella bufera di neve.
All’improvviso, come ad una muta invocazione d’aiuto, davanti ai due bambini si materializzò un’ombra possente.
“Oh, ma è Pietro” esclamò Maria, “Siamo salvi!”.
Intanto, come se qualcuno avesse tirato un immaginario tendaggio, la nebbia scomparve e nella vallata tornata limpida e illuminata dal chiarore delle stelle i due bambini poterono scorgere il piccolo campanile di Erbonne.
Si precipitarono allora correndo verso la chiesa facendovi ingresso proprio mentre il parroco di San Fedele che quella sera aveva parlato molto di amore, invitando a pregare per chi era lontano, al fronte, intonava il Credo.
I bambini, raggiunto il banco dove stavano i nonni, unirono la loro voce al canto sul quale si levò altissima e piena di tono anche quella di Pietro, mentre il suono dell’armonium risuonava nella piccola navata fumigante d’incenso con note ora dolci, ora tristi, ora alte e solenni, ora basse e fievoli, proprio come fanno i fiocchi di neve che dopo aver sfarfallato nell’aria come risucchiati verso l’alto si posano dolcemente a terra. Quando canto e suono si spensero i due bambini corsero con lo sguardo all’armonium ma ciò che videro fu solamente un raggio di luna che illuminava la tastiera proprio là dove erano solite posarsi le mani di Pietro, il cantore di Natale.