SOTTO IL FORNO
Estratto da : "La ragazza di Bube"
Carlo Cassola
Mara sbadigliò. Era una bella noia essere costretta a stare in casa per colpa del fratello! Le venne in mente che avrebbe potuto lo stesso andarsene fuori: Vinicio si sarebbe messo a strillare, e la sera lo avrebbe raccontato "alla madre; ma lei avrebbe potuto sempre dire che non" era vero. E, dopo, gliele avrebbe anche date, a Vinicio.
Le piacque talmente l'idea che le venne una gran voglia di farlo. Ma poi indugiò a guardarsi nello specchio ovale del cassettone. Si mise le mani sotto i capelli, per vedere come sarebbe stata se li avesse avuti gonfi. Il vetro era scheggiato per traverso, sì che non ci si poteva specchiar bene: la faccia non c'entrava tutta.
Dopo qualche minuto, scese in cucina.
«Dove vai?» le gridò dietro il fratello.
«Sto qui. Uggioso.»
«No, tu vai fuori» piagnucolò il fratello. Era incredibile la paura che aveva di restar solo.
«Non vado fuori. Sto qui». Si era messa alla finestra.
La finestra dava su uno spiazzo tra le case. In fondo lo spiazzo si restringeva in una specie di vicolo, che immetteva nell'unica strada del paese.
Mauro era seduto sullo scalino della casa di fronte.
«Ehi! Non ci sei andato a lavorare?» lo apostrofò Mara.
Mauro non rispose. Si alzò pigramente e attraversò il piazzale. I calzoni gli scivolavano lungo i fianchi magri, e ogni poco era costretto a tirarseli su.
«Vieni fuori» le disse.
«Non posso. Devo guardare a Vinicio.»
«Vengo io dentro.»
«Nemmeno.»
«E perché?.»
«Mamma non vuole che tu venga quando sono sola.» Aveva risposto così senza pensarci, e un momento dopo ne era già pentita. La faccia di Mauro si era infatti aperta in un sorriso malizioso.
«Lo so dov'è andata tua madre. A spigolare.»
«No» mentì Mara. «È andata qui vicino e ora torna.»
Mauro ridacchiò:
«È andata a spigolare» ripeté. «Sicché prima di buio non torna. Vedi che puoi farmi entrare.»
«Non voglio io.»
«E io entro lo stesso.»
«Non puoi. Ho messo il paletto.»
Se Mauro si fosse dato la pena di provare, si sarebbe avvisto che la porta era solo accostata. Ma non lo fece; e Mara fu molto soddisfatta della sua furberia. «Lasciami entrare» la supplicò. «Ti piacerebbe, eh?» lo stuzzicò lei.
Mauro stette zitto. Aveva una faccia larga, con l'attacco delle mascelle molto pronunciato; sopra il labbro gli cresceva una fitta peluria nera, ma le guance e il mento erano senza peli. I capelli li aveva sempre arruffati. «Hai paura?»
«Di che dovrei aver paura?» si risentì lei.
«Di me» e la sua faccia si allargò ancora di più in un sorriso compiaciuto. «Figuriamoci se ho paura di te.»
«Allora aprimi.»
«No.» E gli fece uno sberleffo.
«Bene, tu intanto devi stare in casa mentre invece io me ne vado in giro» disse dopo un po' Mauro. «M'importa assai.»
«Vado a trovare Annita.»
«Vacci.»
«Scommetto che ti dispiace.»
«Povero scemo.»
Mauro assunse l'aria di chi la sa lunga: «Voi donne fate finta di niente… ma poi vi rodete il fegato.»
«sentiamo perché mi dovrebbe dispiacere?»
«Perché Annita ti ha portato via l'amoroso.
«Saresti tu il mio amoroso?» Mara scoppiò a ridere. «Io te, guarda, nemmeno ti vedo. Se tu sparissi, nemmeno me ne accorgerei.»
«E a me, credi che me ne importi qualcosa di te?»
«E allora perché non te ne vai?»
«Da dove me ne devo andare?»
«Da sotto la mia finestra. Se non te ne importa, perché ci stai?»
«Io sto dove mi pare.» Si frugò in tasca, tirò fuori un mozzicone, poi un fiammifero, e l'accese strofinandolo contro il muro.
Tanto per far vedere che non stava lì per lei, le aveva voltato le spalle; allora Mara, spenzolandosi dal davanzale, gli tirò i capelli.
«Ahi! stupida. Mi hai fatto male. Perché non mi lasci entrare in casa?»
«Te l'ho detto perché.»
«Ma non c'è nessuno che vede.»
«Perché vuoi venire in casa?»
«Per parlare.»
«Si può parlare anche così.»
«Ho da dirti una cosa. Un segreto.»
«Dimmelo.»
A un tratto il ragazzotto fece una faccia contrita: «Ti prometto che tengo le mani a posto.»
«Sì, e io sono così stupida da credere alle tue promesse!» Si arrabbiò: «Mi avevi giurato che non le parlavi più, a Annita; e invece, l'altro giorno, ti ci ho visto insieme.»
«Perché tu non mi dai più soddisfazione» rispose Mauro.
«E lei invece te la dà, vero? Bella soddisfazione ci dev'essere, ad andare con quella. È anche guercia» e rise. Abbassò la voce: «Lo sai come dice mio padre? Le donne di quella famiglia… sono tutte svelte ad alzare le sottane» e tornò a ridere.
Il ragazzo invece rimase serio. «Ti prego, fammi entrare» ripeté ostinato.
«No.»
«Un minuto solo.»
Mara lo guardava ironica. Le piaceva eccitarlo coi discorsi, per lasciarlo poi insoddisfatto.
A un tratto il ragazzo smise di supplicarla; si tirò su i calzoni, e disse con aria fiera: «È inutile che fai la schizzinosa con me; tanto quelle cose ce le hai fatte…»
«Parla piano, stupido.»
«Non è vero che ce le hai fatte?» ripeté lui a voce più bassa. «Quando? Io non me ne ricordo più.»
«Bugiarda. Ancora l'anno scorso, di questa stagione…»
«Sei tu bugiardo.»
«Guarda: ti dico anche il posto: lì sotto il forno. O vorresti negare?»
«Lo nego, sì, lo nego.»
«Sei una bugiarda e una vigliacca.»
«Tu sei un bugiardo e un vigliacco. Io le sottane non le ho alzate, se è questo che intenderesti dire.»
«Ma mi hai sbottonato i calzoni» replicò il ragazzo.
Mara non gli parlò più, smise anche di guardarlo. "Poteva essere morto", pensava con rabbia. Proprio la settimana avanti andava al campo insieme con una zia e a un'altra donna, e quest'ultima aveva messo il piede su una mina ed era saltata in aria. Anche la zia era rimasta ferita, ma leggermente, tanto che era già tornata dall'ospedale. E Mauro, nulla, nemmeno un graffio.
"Quanto avrei pagato che ce l'avesse messo lui il piede sulla mina", si ripeteva Mara. Erano cresciuti insieme in quella specie di cortile, lei, Annita e Mauro; c'erano anche altri ragazzi, ma loro tre erano inseparabili. E ne avevano fatte di porcherie (le chiamavano proprio così: «le porcherie»). Annita già allora era una svergognata, che andava con tutti i ragazzi, mentre lei solo con Mauro. Una volta per la verità anche con un altro, ma per far rabbia a Mauro. Quelle comunque erano cose da ragazzi, chi gli dava importanza; le facevano tutte. Liliana magari no, ma perché era una stupida, sempre attaccata alle sottane della mamma.
Il guaio era stato l'anno avanti, che ormai non erano più ragazzi, né lei né Mauro. Lui, che per anni nemmeno l'aveva guardata, a un tratto le s'era messo intorno, e ogni momento allungava le mani, quando la toccava davanti, quando di dietro; e Mara, schiaffi. Era un divertimento, perché lui quando era eccitato non era buono a reagire: si prendeva il ceffone, e zitto. Gliene aveva stampati in faccia con tutta la forza, da lasciarci l'impronta delle dita.
Una sera, invece, che lei le aveva prese dalla madre, e si era rifugiata a piangere sotto il forno: era sopraggiunto Mauro, e si era messo a consolarla; poi aveva cominciato a farle le carezze, ma per bene, come un vero innamorato… "Era buio, nemmeno lo vedevo in faccia; sennò, non mi sarei lasciata abbracciare". Perché quel ragazzotto le era odioso, proprio, odioso. E a un tratto, nemmeno lei sapeva com'era stato… Certo, non si era fatta far niente; lui, da questo punto di vista, non aveva proprio di che vantarsi.
«Io da te non mi sono fatta far niente» gli disse.
Mauro ridacchiò:
«Ma a me qualcosa m'hai fatto.»
«Tanto non lo sa nessuno. Anche se lo vai a ridire, io dico che sei un bugiardo.»
«La gente crede ai giovanotti, non alle ragazze.»
«A un bugiardo come te non ci crede nessuno.»
«Facciamo un patto. Io ti giuro che non lo ridico, ma te, adesso, mi fai entrare cinque minuti.»
«Su che cosa lo giuri?»
«Sulla Madonna. Anzi, guarda, su santa Lucia, che possa rimanere accecato se non mantengo il giuramento.»
«Tu in testa ci hai le pigne, vedi» disse improvvisamente Mara. Gli rise in faccia e si tirò bruscamente indietro. Poi rimase ferma in ascolto.
«Mara» chiamò il ragazzo. «Mara, senti. Dove sei andata?»
Lei soffocava a stento le risate. «Ascoltami, Mara.»
Chiamò e supplicò ancora per un poco, quindi lo sentì che si allontanava.
Il pomeriggio del giorno dopo, Mara era di nuovo affacciata alla finestra di cucina. Guardava in fondo al vicolo, nel breve tratto di strada che era dato vedere, sperando che comparisse una macchina americana. Era stato così divertente i primi giorni dell'arrivo degli americani! Ce n'erano una quantità accampati sotto la canonica; arrivavano con le macchine in mezzo agli olivi, in un punto ci avevano anche spianato per giocarci col pallone. La sera erano sempre in giro per il paese, bussavano a tutte le porte chiedendo il vino: in cambio davano pacchetti di sigarette e roba in scatola.
A lei avevano regalato tavolette di cioccolata, caramelle e biscotti. Le dicevano: «Signorina, bella signorina». Ma lei ne aveva paura e scappava. A un tratto, erano partiti; ne erano arrivati degli altri, ma c'erano rimasti due giorni soltanto; dopo di allora, passava ogni tanto qualche macchina, ed era tutto.
Si sentì il rumore di una macchina. Ansava su per la salita breve ma ripida che immetteva in paese. Mara guardò ancora più intensamente da quella parte, sperando che fosse un camion americano.
Non era americano. Era un camion civile, piccolo e sgangherato; c'erano sopra la rete di un letto, un materasso, un comò, una catasta di sedie, altri mobili. C'era anche un giovanotto, che saltò giù prima ancora che il camion si fermasse. Aveva uno zaino in spalla, e un fazzoletto rosso al collo.
Benché un partigiano non fosse così interessante come un americano, Mara rimase a guardarlo. Lo vide parlare col conducente. Il camion ripartì. Il giovanotto si guardò intorno, come se non sapesse dove andare. Chiese qualcosa a una bimbetta, e questa gli rispose indicando proprio in direzione della loro casa.
Il giovane venne diritto verso di lei. Si fermò sotto la finestra:
«Sta qui Castellacci?»
«Sì» rispose Mara. «Ma ora non c'è.»
Di nuovo il giovane parve indeciso. Mordicchiandosi un dito, Mara lo osservava. Era magrolino, bruno, coi capelli lisci e i baffetti.
«Dov'è?» fece a un tratto.
«A Colle» rispose Mara.
«Ma torna?»
«E chi lo sa. Certe sere torna, e certe altre rimane a dormire a Colle.»
«Allora era meglio se mi fermavo a Colle» disse il giovane, come parlando tra sé. «Lei chi è? La figlia?» Mara annuì. «Non c'è nessuno in casa?» Mara fece segno di no. «Io ero un compagno del povero Sante» disse a un tratto il giovane.
Mara non rispose nulla. Le dava fastidio quando rammentavano il fratello.
«Be', ormai che ci sono, lo aspetto» si decise bruscamente il giovane. Mara si scostò dalla finestra, ma senza andargli incontro.
Il giovane entrò, salì i due scalini che immettevano in cucina, si sfilò lo zaino e lo appoggiò contro il muro. Poi si guardò intorno incerto; e, di nuovo, ebbe un'uscita brusca:
«Sua madre c'è?»
«No» rispose Mara. Continuava a osservarlo. Sembrava molto giovane, perché aveva la barba fatta solo sul mento. E nello stesso tempo aveva un aspetto serio, da uomo. Era tutto stracciato: una tasca della giacca era scucita; uno strappo su un pantalone gli metteva a nudo il ginocchio.
Il giovane si guardò anche lui lo strappo:
«Ha mica un po' di filo e un ago? Almeno, mentre aspetto, mi ricucio qui.» E aggiunse: «C'è da vergognarsi, a tornare a casa in queste condizioni.»
Mara salì nella camera di sopra. Vinicio dormiva mezzo fuori del lenzuolo, con la faccia rossa sudata. Mara prese in un cassettino del comò un gomitolo di filo nero e una pezza in cui erano infilati gli aghi; si specchiò per qualche momento, e tornò abbasso.
Lo trovò che s'era tolto la giacca. In camicia, sembrava anche più magro. Dalle maniche rimboccate sbucavano due avambracci sottili e senza muscoli.
Senza parlare, Mara tese la mano per farsi dare la giacca.
Il giovane si confuse.
«Sono buono anche da me… Con la vita che s'è fatto, abbiamo imparato anche a rammendare.»
Tuttavia le diede la giacca, e Mara andò nel vano della finestra e ricucì la tasca.
«No, qui non importa» disse il giovane, quasi avesse ritegno a farsi mettere le mani addosso. Mara ridacchiò dentro di sé: era proprio un giovanottello timido. Gli fece segno di sedere e gli s'inginocchiò accanto: «Non abbia paura, non la buco» disse vedendo che istintivamente si tirava indietro.
«È mica perché ho paura» fece il giovane, serio.
«Ecco servito» disse Mara alzandosi. Anche al giovane venne fatto di alzarsi. Per un po' stettero in piedi l'una di fronte all'altro, lei guardandolo con disinvoltura, anzi con sfacciataggine, e lui che invece non sapeva da che parte guardare.
Al solito, uscì dall'imbarazzo in modo brusco:
«Me lo aveva detto Sante di lei. Ma credevo… voglio dire, non è che gli somiglia tanto.»
«Non eravamo proprio fratelli» rispose Mara.
«Cosa?»
Ancora una volta le venne da ridere, ma si contenne:
«Eravamo fratellastri» spiegò.
«Ah» fece il giovane, aggrottando la fronte. Si rimise seduto e per darsi un contegno cominciò a tamburellare con le dita sul tavolo. Fischiettava, anche, ma in modo goffo, gonfiando esageratamente le gote e sporgendo troppo le labbra.
Smise di colpo:
«Sante e io eravamo come fratelli» disse. «Voi in che modo l'avete saputo?»
«Venne un contadino di quelle parti» rispose Mara. Ne parlava con ripugnanza, perché le tornavano in mente le scene che c'erano state in casa… la madre che gridava al padre che la colpa era sua se a Sante gli era venuta quell'idea di andare tra i partigiani. Quanto a lei, non gliene era importato nulla; anzi, era contenta che ormai la camera di Sante era diventata sua, mentre prima le toccava dormire in cucina.
Tornò per primo il padre. «Mamma dov'è?» chiese con malgarbo.
«A spigolare» rispose Mara. E, vedendo che il padre faceva l'atto di salire in camera: «Guarda, c'è questo…» si scostò e indicò il giovane.
Il padre si fermò, interdetto.
«Ero un compagno di Sante» disse il giovane.
«Ah» fece il padre. «Piacere, giovane. Sono contento…» Non trovava le parole. «E mamma?» ripeté voltandosi verso la figliola.
«Te l'ho detto, è a spigolare.»
«Ah, sì.» Sembrò rammentarsi di qualcosa: «E Vinicio? Ha sempre la febbre? Ma accendi, che non ci si vede un accidente.»
«Non hanno ancora dato la luce» rispose Mara.
«Ah.» Tornò a rivolgersi al giovane: «Accomodati. Fai come se fossi in casa tua. Dunque, tu eri con Sante…»
«Anche quella volta a Montespertoli» rispose il giovane.
«Ah.» E il padre si passò una mano sulla faccia nera di barba. «E dimmi: sei di queste parti?»
«Di Volterra» rispose il giovane. «Ora sono in viaggio per tornare a casa. Potevo magari arrivare in serata; ma ho pensato, giacché ero sulla strada, di fermarmi a casa di…»
«E hai fatto bene. Ti ho visto con tanto piacere. Questa è casa tua, figliolo. I compagni di Sante, per me sono come figlioli. Ora appena torna mamma si cena, e poi te ne vai a dormire. Lo mettiamo in camera di Sante» aggiunse rivolto a Mara. «Te, magari, puoi andare da zia.»
«Ma io non voglio arrecare disturbo» si affrettò a dire il giovane. «Io posso adattarmi anche qui in cucina. Sono abituato a dormire in terra» aggiunse con un leggero sorriso.
«Neanche per idea» fece il padre. «Te l'ho detto, qui devi far conto di essere a casa tua. Puoi restare tutto il tempo che vuoi. E, scusa la mia curiosità, giovane… Come ti chiami?»
«Cappellini Arturo. Però m'hanno sempre chiamato Bube.»
«Ma da partigiano, come ti chiamavi?»
«Vendicatore» rispose il giovane.
«Ah, sì. L'avevo sentito fare il tuo nome, da Sante… Vendicatore, appunto» ripeté come per convincersi che quel nome gli era noto.
Era entrata la madre. Il giovane si alzò di scatto. Per qualche istante rimasero tutti quanti zitti.
«Mamma, questo era un compagno del nostro figliolo» disse il padre.
La donna guardò con indifferenza il giovane, poi riprese a salire e sparì per le scale.
«Eh» fece il padre scuotendo il capo. «Tu devi capire» disse rivolto al giovane «per una madre è un colpo troppo duro… Anche per me, s'intende, è stata dura. Ma, cosa vuoi? noi uomini sappiamo farcene una ragione.»
«Per tutti è stata dura» disse il giovane. «Sante per me era come un fratello.»
«Eh» fece il padre. «Purtroppo, nelle rivoluzioni, nelle guerre, non si può pretendere di arrivare in fondo tutti… Ogni causa esige i suoi caduti.»
«Ecco la corrente» disse Mara, che dalla finestra aveva visto accendersi la luce nella casa di fronte.
Al tasto trovò l'interruttore. La stanza s'illuminò fiocamente.
«Oh, ora ci vediamo meglio in faccia» disse il padre soddisfatto. «Perbacco, sei più giovane di come m'eri sembrato… Quanti anni hai?»
«Diciannove.»
«Un anno meno del mio Sante» commentò il padre. «Avanti, dacci da bere» disse alla figliola. Mara aprì la credenza, prese il fiasco e due bicchieri e li posò sul tavolo. Il padre mescé facendo traboccare i bicchieri, e ne porse uno al giovane.
«Alla salute» disse questi bevendo un piccolo sorso.
«Alla tua, compagno» rispose il padre. Vuotò il bicchiere e se ne versò subito un altro. «Perché sei un compagno anche tu, no?»
«Vorrei vedere» fece il giovane, con aria quasi offesa.
«Io sono comunista da quando fu fondato il Partito. Vedi qui?» disse indicando una cicatrice sulla fronte. «È un segno di quando quei vigliacchi mi bastonarono, in tempo di elezioni, nel '24…»
Seduta su uno sgabello, Mara aspettava che fosse pronta l'acqua per rigovernare. Rigovernare toccava sempre a lei, perché alla madre era un periodo che le faceva male mettere le mani nell'acqua. Quella sera poi non aveva nemmeno cenato e se n'era andata subito a letto.
Bube e il padre erano rimasti a tavola a chiacchierare e a bere. Per la verità, chiacchierava e beveva soltanto il padre; e a un tratto, come gli accadeva sempre in questi casi, rimase con un discorso a mezzo; chiuse gli occhi, e abbassò il capo sul petto. Un momento dopo russava.
Il giovane si voltò a guardarla, sconcertato.
«Quello fa venire il mal di capo, da quanto chiacchiera» rispose Mara, e rise.
«Mi stava parlando… delle cose del Partito» disse serio il giovane.
«E lei ci provava gusto a starlo a sentire?»
Il giovane fece una faccia meravigliata. «La politica, certo, non è fatta per le donne» disse dopo un po', con una sfumatura di disprezzo nella voce. «È una cosa che guarda noi uomini» e si batté in petto, per dare maggior forza all'affermazione. Si alzò, aprì lo zaino, cominciò a frugarci dentro. A un tratto Mara se lo vide davanti con una rivoltella.
«Ma che le piglia?» fece spaventata. «La posi subito.» Bube sorrise:
«Non abbia paura, è scarica.» Guardò la rivoltella con aria compiaciuta: «Questa qui, vede? ha già sistemato diversi conti. E non è mica finita.» Alzò la voce: «Cosa credevano? Che il nome di Vendicatore lo avessi preso per nulla?»
Mara cominciò a rigovernare. Con la coda dell'occhio o vedeva che si dava di nuovo da fare intorno allo zaino. Da ultimo tirò fuori una pezza gialla: «Prenda, gliela regalo.» Aggiunse: «È stoffa di paracadute. Seta.»
Mara si affrettò ad asciugarsi le mani, strofinandole contro il grembiule ruvido. Era proprio seta, e anche 0ande abbastanza da farci una camicetta.
«Le piace?»
«Certo che mi piace.»
Il giovane sembrò soddisfatto. «Ah» fece stirandosi, «comincio proprio a non poterne più. È da stamani che sono in piedi.»
«E Allora, perché non se ne va a dormire?»
«Le tengo compagnia finché non ha finito. Anzi, guardi, mentre lei lava, io le asciugo, così fa prima.»
Mara ogni tanto gli dava un'occhiata: le veniva da ridere, a vederlo che asciugava piatti e bicchieri con la sua solita espressione seria.
Quando ebbe finito, si slacciò il grembiule e diede un urtone al padre, che si svegliò con gli occhi stralunati: «Che c'è?» disse.
«C'è che devi andare a letto. A smaltire il vino» e si mise a ridere. Si rivolse a Bube: «Allora, arrivederci; e… grazie del regalo.»
«Ma le pare? Nulla, nulla» balbettò il giovane. Di colpo cambiò tono: «Avevo due pezze con me… una la porto a mia sorella, e l'altra, l'ho voluta dare alla sorella di Sante.»
Alla finestra si affacciò una forma nera: «Sei tu? Ora scendo.»
C'era la luna piena, che dava un risalto esagerato alle ombre. Si distinguevano nitidamente la vallata, e i profili delle colline al di là. E si udiva distintamente il canto dei grilli. A un tratto echeggiò l'urlo rauco della civetta: Mara si spaventò.
La porta fu socchiusa: era Liliana, in camicia da notte, col candeliere in mano.
«Come mai? E andata via la luce?»
«Non lo sai che la levano sempre a quest'ora?»
«Ma è molto tardi?»
«Sì. Ormai credevo che non venissi più.»
La camera di Liliana era piccola, col soffitto che spioveva. Ma almeno c'era tutto: il comodino, il cassettone l'armadio. Nella sua, invece, pensava Mara con rabbia, c'era soltanto un cantonale.
Quando furono a letto, Liliana le chiese:
«Chi è questo giovane?»
«Un amico di Sante.»
«Di dov'è, di Colle?»
«No. Di Volterra» rispose Mara. L'insistenza della cugina le faceva pensare che si fosse messa in testa qualcosa. Subito si sentì in dovere di alimentare i suoi sospetti: «Pensa, doveva andare a casa, sono nove mesi che non vede la sua famiglia; ma prima, s'è voluto fermare da noi.»
«Aveva da riportarvi della roba di Sante?»
«No. La roba di Sante l'aveva riportata quel contadino. Lui è venuto… perché aveva da portare un regalo a me.» Liliana fece un movimento. «Ma perché tieni la candela accesa? Spengi. Si può parlare anche al buio.» Al buio le riusciva più facile dire le bugie.
Dopo che ebbe spento la candela, Liliana rimase per un po' zitta e ferma; poi tornò ad agitarsi, e alla fine chiese:
«Che regalo?»
«Una pezza di seta, per farci una camicetta. Domani te la mostro.»
«Ma tu quando lo avevi conosciuto?»
Mara fu lì lì per inventare chissà che storia. Ma sapeva che Liliana non avrebbe mancato di venire a informarsi dalla madre; perciò disse: «No, io non lo conoscevo. Ma lui sì: mi aveva visto in fotografia». Questo del resto poteva esser vero, Sante s'era portato dietro una fotografia dei genitori, e c'era anche lei, ma figuriamoci, quando era ancora una bambina.
«Come, in fotografia?» Ormai Liliana non cercava nemmeno più di nascondere la sua curiosità; e Mara dovette raccontarle per bene com'erano andate le cose. Dunque Sante aveva con sé una fotografia di lei: «Sai quella che mi son fatta l'anno passato». L'aveva mostrata a Bube, e Bube se l'era tenuta. Una volta poi che Sante era venuto a casa, Mara gli aveva detto: «Rendimi la fotografia». Sante allora aveva dovuto confessarle di averla data a un amico. «Io mi sono arrabbiata, figurati… Non volevo che una mia foto fosse finita in tasca a un giovanotto.» Liliana non fiatava. Finalmente disse: «E allora?»
«E allora cosa?»
«Che ti ha detto quando ti ha visto?»
«Mi ha detto che ero come in fotografia. Anzi, meglio ancora che in fotografia. Ma io, figurati, l'ho trattato male; gli ho detto che non aveva il diritto di tenersi una mia foto, dal momento che non c'era nulla tra noi e nemmeno ci conoscevamo. E lui sai
come mi ha risposto? "Signorina da quando ho visto la sua foto non ho fatto che pensare a lei". Poi mi ha dato la pezza in regalo, ma io non la volevo accettare.»
«Però l'hai accettata» disse pronta Liliana.
«Mica subito. Dopo cena, quando ci siamo riparlati. Lui mi ha detto che se non avessi accettato il suo regalo, gli avrei dato un dolore da morire… E allora, che dovevo fare? Ho accettato.»
«Secondo me hai fatto male.»
«E perché?»
«Perché ti sei legata.»
«Niente affatto. Io non ho detto mezza parola che glielo potesse lasciar credere.»
«Insomma, faresti bene a pensarci due volte, prima di metterti con uno che in fin dei conti l'hai conosciuto soltanto oggi.»
«E chi ha intenzione di mettercisi? Io, figurati, non è mica il solo giovanotto che mi sta dietro. Ora però basta, è tardi, dormiamo» e le voltò la schiena.
Liliana non osò più dir nulla, ma la sentì cambiare posizione parecchie volte. "Mangiati il fegato, vai", pensava Mara, lasciandosi scivolare soddisfatta nel sonno