lunedì 2 dicembre 2019


LE STRADE DELL'INNOCENZA
(Blood On The Moon, 1984)
James Ellroy

In ricordo
di Kenneth Millar
1915-1983

I lauri della nostra terra son tutti avvizziti,
E le meteore fan tremare le stelle fisse in cielo;
La pallida luna osserva insanguinata la terra,
E profeti dal volto scarno sussurrano terribili cambiamenti.

Shakespeare, Riccardo II

PARTE PRIMA
Primo sangue

1

Venerdì 10 giugno 1964 la stazione KRLA aveva dato ini¬zio a una rassegna di vecchi successi. I due cospiratori che esaminavano il territorio su cui inscenare il "seque¬stro" alzarono al massimo il volume della radio portati¬le, per coprire il rumore dei seghetti elettrici, dei mar¬telli e dei palanchini; il concerto dei lavori di restauro della classe al terzo piano e la musica dei Fleetwood combattevano per avere la supremazia del frastuono.
Larry Craigie, soprannominato "Birdman", con la ra¬dio attaccata all'orecchio, stupiva dell'assurdità di quel lavoro di costruzione che si svolgeva poco meno di una settimana prima che la scuola chiudesse per le vacanze estive. Proprio in quel momento fecero passare la can¬zone di Gary U. S. Bonds: "Finalmente è finita la scuola, ce l'ho fatta e sono felice", e Larry cadde sul pavimento di linoleum coperto di segatura, torcendosi dalle risate. Magari la scuola era anche finita, lui certamente non ce l'avrebbe fatta, ma tanto non gliene fregava un cazzo. Si rotolò sul pavimento senza pensare che stava sporcan¬do la camicia violetta Sir Guy appena lavata.
Delbert Haines, detto "Whitey", cominciò a provare disgusto e incazzarsi. O Birdman era completamente fuori di testa, oppure ci marciava, il che voleva dire che il suo tirapiedi di vecchia data era più sveglio di lui, per¬ciò stava proprio ridendo di lui. Whitey aspettò che Larry finisse di ridere e si mettesse in posizione per le flessioni. Sapeva cosa stava per dire: tutta una serie di osservazioni sconce del tipo che voleva fare le flessioni sopra Ruthie Rosenberg e farsi fare un pompino da lei mentre stava appeso agli anelli della palestra delle ra¬gazze.
La risata si interruppe, e Larry aprì la bocca. Whitey non lo lasciò neanche cominciare. Gli piaceva Ruthie Rosenberg, e odiava sentir parlare male delle ragazze carine. Spinse la punta dello stivale contro le scapole di Larry, dove sapeva che i foruncoli gli facevano male. Larry cacciò uno strillo e balzò in piedi, stringendo la radio contro il petto.
«Non avresti dovuto farlo.»
«No» disse Whitey «però l'ho fatto. Io ti leggo nel cervello, pazzoide. Psicopatico fasullo. Per cui non dire male delle belle ragazze. Dobbiamo sistemare quella merda, non una ragazza.»
Larry annuì. Far parte di un piano tanto importante toglieva un po' del gusto che provava nell'attacco. Andò alla finestra più vicina e guardò all'esterno, e pensò allo stronzo con quei suoi mocassini frangiati e il maglione a rombi e quella faccetta da bravo ragazzo e alla sua ri¬vista di poesia che faceva stampare al negozio di foto¬grafia di Alvarado, dove viveva pulendo il negozio in cambio di vitto e alloggio.
La Rassegna di poesia della Marshall High. Poesie del cazzo, da mezzeseghe. Stronzate d'amore lagnose: tutti sapevano che erano dedicate a quella boriosa ragazzina irlandese trasferita dalla scuola parrocchiale e alle altre puttanelle tronfie della sua corte di amanti della poesia. E frecciate cattive contro di lui e Whitey e tutti i ragazzi giusti della Marshall. Il giorno che Larry si era fatto di colla e aveva riempito di gavettoni il Club della Canzone Folk, la Rassegna aveva commemorato l'occasione pub¬blicando una sua caricatura in uniforme da soldato te¬desco e una didascalia acida: "Ecco tal Birdman, nazi¬sta inveterato; di poche parole, e molto illetterato. Col¬pisce nascosto la sua arma è un cervello spento; ma più che uccello, egli è un escremento."
Con Whitey era andata anche peggio: dopo che aveva preso a calci in culo Big John Kafesjian in combatti¬mento leale alla Rotunda Court, quel bastardo aveva de¬dicato un intero numero della Rassegna a un poema "epico" in cui si narrava l'evento nei dettagli, definendo Whitey "un bifolco provocatore bianco", terminando con una previsione del suo destino in forma di epitaffio:

Mai autopsia rivelerà ciò che tale oscuro cuore sem¬pre nasconderà, un tal becero gradasso, circondato da odio e terrore, mai nessun conosca, e sia questo il requiem di un peso mosca.

Larry si era offerto di vendicare Whitey e nello stesso tempo fare un favore anche a se stesso: il vicepreside aveva detto che se lo avessero preso a picchiarsi e a tira¬re ancora gavettoni lo avrebbero espulso, e bastava il pensiero di non dover più andare a scuola a farlo sbro¬dare tutto. Ma Whitey aveva rifiutato una soluzione semplice e rapida, dicendo: "No, sarebbe troppo como¬do. Quella merda deve soffrire come abbiamo sofferto noi. Ci ha fatto ridere dietro da tutti. Noi gli restituire¬mo il complimento, e anche qualcosina in più".
Così avevano escogitato il loro piano, consistente nel pestarlo per bene, svestirlo, pitturargli i genitali e rapar¬lo a zero. E ora, se tutto andava bene, era arrivato il mo¬mento. Larry guardava Whitey che disegnava svastiche nella segatura. A quel punto terminò Come Go With Me, cantata dai Del-Viking, e cominciò il notiziario. Voleva dire che erano le tre in punto. Dopo un istante Larry sentì gli schiamazzi, e rimase a guardare gli operai che raccoglievano i loro attrezzi e le apparecchiature elettri¬che per scendere lo scalone principale, lasciando i due soli ad aspettare il poeta.
Larry deglutì e diede di gomito a Whitey, timoroso di rovinargli quel capolavoro che stava ultimando in silen¬zio.
«Sei sicuro che viene? E se poi capisce che il bigliet¬to è fasullo?»
Whitey alzò gli occhi e scardinò con un calcio l'antina semiaperta di un armadietto a muro. «Arriverà. Vuoi che non creda a un biglietto di quella figa irlande¬se? Penserà che è una specie di incontro amoroso di merda. Sta' tranquillo. Ho fatto scrivere il biglietto da mia sorella. Carta da lettera rosa, calligrafia da ragazzi¬na. Solo che non sarà per niente un incontro amoroso. Mi segui?»
Larry annui. Lo sapeva bene.

I cospiratori attendevano in silenzio, Larry intento a sognare a occhi aperti, Whitey a frugare negli armadiet¬ti abbandonati per vedere se qualcuno aveva lasciato qualcosa. Quando sentirono i passi nel corridoio del se¬condo piano, sotto di loro Larry tirò fuori da un sac¬chetto di carta un paio di shorts e prese di tasca un tu¬betto di colla da modellismo. Ne spremette l'intero con¬tenuto sugli shorts, poi si nascose contro la fila di arma¬dietti vicina alla tromba delle scale. Whitey si accucciò al suo fianco, con un tirapugni artigianale sulla destra.
«Amore?»
Quel vezzeggiativo sussurrato con esitazione prece¬dette il suono dei passi che sembravano farsi più sicuri a mano a mano che si avvicinavano al pianerottolo dei due cospiratori.
Whitey contò a bassa voce, poi, quando ebbe calcola¬to che il poeta fosse a portata, spinse Larry da parte e si mise al suo posto vicino alle scale.
«Tesoro?»
Larry cominciò a ridere, e il poeta si bloccò a metà di un passo, con la mano sulla ringhiera delle scale. Whi¬tey gliela afferrò e tirò forte verso l'alto, facendo finire il poeta a sbattere contro gli ultimi due gradini. Tirò di nuovo, e rilasciò la pressione giusto quanto bastava per far rivoltare il poeta e metterlo in ginocchio. Quando il suo avversario lo fissò con occhi impotenti e suppliche¬voli, Whitey gli mollò un calcio nello stomaco, poi lo tirò in piedi mentre cominciava a tremare forte.
«Dài, Birdman!» strillò Whitey.
Larry avvolse gli shorts impastati di colla sulla bocca e le narici del poeta e spinse finché lui non cominciò a emettere gorgoglii vari e la pelle delle tempie gli diventò rossa e poi violacea mentre annaspava in cerca d'aria.
Larry mollò la presa e indietreggiò, mentre i calzon¬cini finivano a terra. Il poeta barcollò e cadde all'indietro, contro un armadietto semiaperto. Whitey rimase dov'era; a pugni stretti, fissando il poeta che si strozzava per cercare di respirare, sussurrando: «Lo abbiamo ammazzato. Dio Cristo, lo abbiamo ammazzato.»
Larry era in ginocchio, pregava e si faceva il segno della croce. Poi finalmente il poeta ritrovò l'ossigeno e sputò una gran boccata di catarro colloso, strillando una sillaba: «Ma... Ma...»
«Mascalzoni!»
Esclamò la parola tutta d'un fiato, e mentre si trasci¬nava in ginocchio il colore gli tornò al volto. «Mascal¬zoni! Luridi vermi, stupidi animali perversi e bifolchi!»
Whitey Haines cominciò a ridere, sentendosi solleva¬to. Larry Craigie cominciò a fare dei singhiozzi secchi e riadattò la sua preghiera stringendo le mani a pugno. La risata di Whitey cominciò a farsi isterica, e il poeta, che ora si era alzato, scaricò sui di lui tutta la sua furia: «Sporco gradasso, rifiuto puzzolente, rozzo buffone! Non c'è una donna che ti voglia toccare! Tutte le ragazze che conosco ridono di te e del tuo cazzettino di tre centi-metri! Castrato buffone...»
Whitey diventò rosso in faccia e prese a tremare. Tirò un calcio nei genitali al poeta con tutta la forza che ave¬va. Il poeta cacciò un urlo e cadde in ginocchio. Whitey gridò: «Accendi la radio, mettila al massimo!»
Larry obbedì, e in tutto il corridoio cominciò a echeg¬giare la musica dei Beach Boys, mentre Whitey prende¬va a calci e pugni il poeta, che si era rannicchiato in po¬sizione fetale e balbettava "Mascalzoni, mascalzoni" mentre i due lo coprivano di colpi.
Quando il volto e le braccia del poeta furono pieni di sangue Whitey indietreggiò per gustarsi la vendetta. Si tirò giù la lampo per il coop de grace liquido finale, e si accorse che gli era diventato duro. Anche Larry lo vide, e rivolse uno sguardo al suo capo per sapere cosa sareb¬be successo. D'un tratto, Whitey si sentì terrorizzato. Abbassò gli occhi sul poeta, che gemette di nuovo "Ma¬scalzoni", sputandogli poi un grumo di sangue sugli an¬fibi dalla punta in acciaio. Poi Whitey capì perché gli era diventato duro, e si inginocchiò accanto al poeta, gli tirò giù i Levi's e i boxer, gli divaricò le gambe e lo pene¬trò con forza. Il poeta urlò nel sentirlo entrare, poi i suoi ansiti si trasformarono in qualcosa di simile a una stra¬na risatina ironica. Whitey terminò, se lo rimise nei cal¬zoni e guardò il suo subalterno irrigidito dallo choc, in cerca di sostegno. Per rendergli le cose più facili, alzò il volume della radio finché la voce di Elvis Presley non di¬venne un gracchiare stridulo, dopo di che rimase a guardare Larry che seguiva il suo esempio.
Lo lasciarono dov'era, incapace anche di piangere o fare altro che non fosse perdersi nel vuoto di quella tra¬gedia umiliante. Mentre i due stavano per allontanarsi, alla radio cominciarono a trasmettere Cathy's Clown, degli Everly Brothers. I due scoppiarono a ridere, e Whitey gli tirò un ultimo calcio.
Lui rimase disteso là finché non fu sicuro che la corte dell'istituto fosse deserta. Pensò al suo solo e unico amore e provò a immaginare che si trovasse lì insieme a lui, che gli avesse posato la testa sul petto, che gli stesse dicendo quanto amava i sonetti che componeva per lei.
Alla fine si alzò in piedi. Era difficile riuscire a cam¬minare; ogni passo che faceva gli bruciava le viscere di un dolore lacerante che saliva fino al petto. Si toccò la faccia: era coperta di qualcosa di secco che doveva esse¬re sangue. Si strofinò furiosamente con la manica fin¬ché dalle ferite non sgorgò di nuovo il sangue. Questo lo fece sentire meglio, e il fatto di non essere scoppiato in lacrime meglio ancora.
Fatta eccezione per qualche gruppetto di ragazzini ancora in giro che giocavano alla lotta libera, il cortile era deserto, e il poeta lo attraversò a passi lenti e doloro¬si. Gradualmente, si rese conto di sentire un liquido caldo che gli scorreva sulle gambe. Si alzò la gamba dei pantaloni e vide che aveva il calzino inzuppato di san¬gue mescolato a qualcosa di bianco. Si tolse i calzini e raggiunse barcollando l'"Arco di Trionfo", un sentiero in marmo che commemorava le classi degli anni prece¬denti. Il poeta strofinò sulle fotografie degli Athenians della classe '63 il pugno che stringeva il cotone insan¬guinato e finì su quelle dei Delphians, classe '31, dopo di che si diresse al cancello meridionale della scuola, a pie¬di nudi, sentendo di riguadagnare forza e coraggio a ogni passo. Uscì sul Griffith Park Boulevard con la men¬te piena di versi e rime amorose, tutte dedicate a lei...
Quando vide il negozio del fioraio all'angolo fra Grif¬fith Park e Hyperion, capì che era quella la sua destina¬zione. Si fece forza per vincere la resistenza al contatto umano, entrò, comprò una dozzina di rose rosse, e chie¬se di mandarle a un indirizzo che conosceva a memoria, nonostante non ci fosse mai stato. Prese un bigliettino per accompagnarle, e sul retro scrisse qualche riga su un amore inciso nel sangue. Pagò il fioraio, che sorrise e gli assicurò che i fiori sarebbero stati consegnati entro un'ora.
Il poeta uscì dal negozio, considerò che c'erano anco¬ra un paio d'ore di luce e si rese conto di non avere un posto dove andare. Si sentì terrorizzato, e cercò di com¬porre un'ode alla luce del giorno che svaniva per tenere a bada la paura. Provò e riprovo, ma la mente non vole¬va aiutarlo, e la paura diventò terrore, e lui cadde in gi¬nocchio, singhiozzando, cercando una parola o una fra¬se che lo aiutasse a rimettere tutto a posto.

2

Il giorno in cui il quartiere Watts andò a fuoco, il 23 agosto 1965, Lloyd Hopkins stava costruendo castelli di sabbia sulla spiaggia di Malibu, popolandoli dei mem¬bri della sua famiglia e di tutta una serie di personaggi nati dalla sua fervida immaginazione.
Attorno all'allegro ventitreenne si era riunito un grup¬po di ragazzini, tutti ansiosi di divertirsi eppure, in qual¬che misura, pieni di timore reverenziale per la grande intelligenza che sentivano in quel giovanotto robusto che creava dalla sabbia ponti levatoi, fossati e parapetti con tanta destrezza. Lloyd era come una cosa sola con i bambini e la propria mente, che considerava un'entità separata. I bambini stavano a guardare, e lui percepiva la loro ansia e il loro desiderio di stare insieme a lui, e ca¬piva d'istinto quando era il momento di gratificarli con un sorriso o alzando le sopracciglia in modo da renderli felici per poter continuare con il vero divertimento.
Immaginò che i suoi antenati irlandesi protestanti stessero combattendo contro il suo fratello pazzo, Tom, per il dominio del castello. Era una battaglia fra i buoni lealisti dei tempi andati e Tom, con la sua corte di guer¬rafondai paramilitari convinti che i negri dovevano tor¬narsene in Africa e le autostrade dovevano essere priva¬tizzate. I cattivi avevano temporaneamente preso il pote¬re: Tom e il suo arsenale di granate e armi automatiche nascoste in giardino erano formidabili, ma i bravi lealisti erano tanto puri di cuore quanto Tom e la sua banda cor¬rotti, e, guidati dal futuro agente di polizia Lloyd, i buoni irlandesi avevano battuto la forza dei mezzi nemici. Sull'arsenale di Tom piovevano fuoco e fiamme, e tutto esplose. Lloyd immaginò le fiamme sulla sabbia di fron¬te a sé, e si chiese per l'ennesima volta in quel giorno co¬me sarebbe stata l'Accademia. Più dura dell'addestra¬mento primario? Meglio che lo fosse, perché altrimenti tutta Los Angeles si sarebbe trovata nei guai.
Lloyd sospirò. Lui e i suoi lealisti avevano vinto la battaglia e i suoi genitori, entrambi inspiegabilmente lucidi, erano arrivati a lodare il figlio vittorioso e scher¬nire il perdente.
"Non si può battere il cervello Doris" aveva detto suo padre a sua madre. "Vorrei tanto che non fosse così, ma sono le menti a dominare il mondo. Impara una lingua, Lloyd; Tom può benissimo farsela con quei mezzi delin¬quenti del posto telefonico pubblico, ma tu devi risolvere gli enigmi e dominare il mondo." Sua madre annuiva senza dire nulla; l'infarto l'aveva resa muta.
Tom ribolliva fra sé, sconfitto.
Lloyd sentì la musica provenire dal nulla e, lenta¬mente, si costrinse a voltarsi nella direzione da cui sen¬tiva provenire il frastuono rauco.
Una bambina stringeva una radio fra le braccia con trasporto, cercando di cantare al ritmo della musica. Quando Lloyd vide la bambina, si sentì sciogliere il cuo¬re. Lei non poteva sapere quanto odiasse la musica, quanto gli scombussolasse i pensieri. Avrebbe dovuto trattarla gentilmente, come sempre con le donne di ogni età. Attirò la sua attenzione parlando gentilmente, no¬nostante sentisse crescere l'emicrania: «Ti piace il mio castello, tesoro?»
«S... Sì» disse la bambina.
«È per te. I bravi lealisti si sono battuti per l'onore di una dolce damigella, e quella damigella sei tu.»
La musica si stava facendo assordante; Lloyd pensò per un istante che la potesse sentire il mondo intero. La bambina scosse il capo civettuola, e Lloyd disse: «Puoi spegnere la radio, dolcezza? E io ti farò vedere il tuo ca¬stello.» La bambina obbedì, e girò la manopola dalla parte sbagliata proprio mentre la musica cessava e un annunciatore dalla voce stentorea annunciava: "Il gover¬natore Edmund G. Brown ha appena dichiarato che alla Guardia nazionale è stato dato ordine di raggiungere in forze la zona sud del centro di Los Angeles per far cessa¬re i tumulti e i saccheggi che durano ormai da due giorni e che hanno provocato quattro morti. Tutti i membri del¬le seguenti unità a rapporto immediatamente..."
La bambina armeggiò con la radio e la spense pro¬prio mentre l'emicrania di Lloyd si trasformava improv¬visamente in una quiete perfetta. «Hai mai letto Alice nel Paese delle Meraviglie, tesoro?» le chiese.
«La mamma me l'ha letto e mi ha fatto vedere le fi¬gure» disse la bimba.
«Brava. Allora sai cosa significa seguire il coniglio nella tana?»
«Vuoi dire come Alice quando è andata nel Paese delle Meraviglie?»
«Proprio così. È proprio questo che va a fare il vec¬chio Lloyd. Lo ha detto la radio adesso.»
«Sei tu "il vecchio Lloyd"?»
«Sì.»
«Allora cosa succederà al tuo castello?»
«Lo avrai tu in eredità, dolce pulzella. Puoi farne quello che vuoi.»
«Davvero?»
«Davvero.»
La bambina fece un salto e atterrò proprio sul castello di sabbia, spiaccicandolo. Lloyd corse alla macchina, verso quello che sperava fosse il suo battesimo del fuoco.

Nell'armeria, il sergente maggiore Beller chiamò in disparte la sua squadra e disse a tutti che per pochi dol¬lari potevano ridurre notevolmente le loro probabilità di farsi mangiare a colazione dai negri e magari farsi anche quattro risate.
Fece cenno a Lloyd Hopkins e ad altri due soldati scelti di entrare nelle latrine e mostrò l'armamentario, spiegando: «Calibro 45 automatica. Classica arma da agente. Garantita come rimedio per tutti i negri armati a una trentina di metri di distanza, non importa dove li beccate. Assolutamente illegale, ma dà un ottimo van¬taggio. Questi giocattolini qua sono completamente au¬tomatici: pistole mitragliatrici con un caricatore gigan¬te di mia progettazione. Venti colpi, ricarica in cinque secondi secchi. Il pezzo surriscalda, ma vi offro un guanto. Allora: l'arma, due caricatori giganti e il guanto, è un buon equipaggiamento. Volontari?» e offrì le ar¬mi. I due soldati scelti motoristi le fissarono a lungo con passione, ma declinarono.
«Io non rischio, sergente» disse il primo soldato scelto.
«Io devo restare indietro alla postazione di comando con i mezzi, sergente» disse il secondo soldato scelto.
Beller sospirò e alzò gli occhi su Lloyd Hopkins, il tipo che gli dava i brividi. I ragazzi della compagnia lo chiamavano "La Mente". «E tu, Hoppy?»
«Le prendo tutte e due» disse Lloyd.
In perfetta divisa da combattimento, con gambali, bandoliere ed elmetti, la compagnia A del secondo bat¬taglione, quarantaseiesima divisione, della Guardia na¬zionale della California si trovava sul riposo nella sala principale dell'armeria Glendale, ad aspettare le istru¬zioni. Il comandante di battaglione, un dentista quaran¬taquattrenne di Pasadena che aveva il grado di tenente colonnello, raccolse pensieri e ordini in quello che spe¬rava fosse un sermone deciso e breve e si avvicinò al mi¬crofono. «Signori, stiamo per cacciarci nel casino. La polizia di Los Angeles ci ha appena informato che una zona di 80 chilometri quadrati del centro di Los Angeles sud è in preda alle fiamme, e che interi palazzi sono sta¬ti saccheggiati e incendiati. Noi stiamo per essere invia¬ti a proteggere le vite dei pompieri che combattono le fiamme e impedire, con la nostra presenza, i saccheggi e tutte le altre attività criminali. Questa è l'unica compa¬gnia di fanteria all'interno di una divisione armata. So¬no certo che voi sarete la punta di diamante di questa forza pacificatrice di soldati civili. Avrete altre informa¬zioni al raggiungimento dell'obiettivo. Buona giornata, e Dio sia con voi!»
Nessuno parlò più di Dio, mentre il convoglio di mez¬zi militari e trasporti truppe usciva da Glendale per im¬boccare la Golden State Freeway in direzione sud. I principali argomenti di conversazione erano le armi, il sesso e i negri, finché il soldato scelto Lloyd Hopkins, tutto sudato per il caldo che regnava nel camion coper¬to da un telone, si tolse il giubbino della mimetica e in¬trodusse nei discorsi i temi della paura e dell'immorta-lità: «Per prima cosa dovete dirlo a voi stessi, farlo sen¬tire, parlare chiaro: "Ho paura. Non voglio morire!" Chiaro? No, non ditelo ad alta voce, perde l'impatto. Di¬telo a voi stessi. Ecco, bravi. Secondo, dite anche que¬sto: "Sono un buono e bravo ragazzo bianco che adesso va all'università ed è entrato in questa Guardia nazionale del cazzo per togliersi dalle palle due anni di servizio attivo", giusto?»
I soldati civili, la cui età media era sui vent'anni, co¬minciarono a seguire Lloyd, e qualcuno borbottò: «Giusto.»
«Non vi sento!» urlò Lloyd, facendo il verso al ser¬gente Beller.
«Giusto!» gridarono tutti all'unisono gli uomini della Guardia.
Lloyd rise, e gli altri, sollevati da quel calo di tensio¬ne, fecero lo stesso. Lloyd espirò, e ingobbì la schiena muscolosa, imitando l'andatura pesante di un negro. «E voi avere baura di bovero negro?» disse scimmiot¬tando.
La domanda fu accolta dal silenzio, seguito poi dalla ripresa delle varie conversazioni a bassa voce. Lloyd si sentì infuriato, perché si accorgeva di perdere lo slan¬cio, che quel momento trascendentale della sua vita sta¬va per spegnersi.
Batté forte il calcio del suo M-14 sul pavimento metal¬lico del mezzo. «Giusto!» urlò. «Giusto, brutti cazzoni pigliainculo segaioli senzapalle cagasotto! Giusto?» Pestò di nuovo il fucile. «Giusto? Giusto? Giusto? Giusto?»
«Giusto!» Il camion sembrava traboccare di quel¬la parola, del nuovo candido orgoglio, e la risata che se¬guì era assordante, libera e spaccona.
Lloyd picchiò il calcio del fucile un'ultima volta, per richiamare il gruppo all'ordine. «E allora non possono farci del male. Lo avete capito?» Aspettò finché non ebbe visto ciascuno dei presenti annuire, poi trasse la baionetta dalla fondina e ritagliò un grosso buco nel te¬lone che copriva il trasporto militare. Era alto, per cui riuscì a vedere in lontananza con una certa facilità. Ve¬deva la distesa del suo amato Bacino di Los Angeles av-volta dallo smog. Lingue di fuoco e fumo ne coprivano il perimetro meridionale. Lloyd pensò che era la cosa più bella che avesse mai visto.
La divisione si accampò vicino al McCallum Park, all'incrocio tra Florence e la Novantesima Strada, a po¬co più di un chilometro dal centro del casino. Furono abbattuti degli alberi per dare spazio al centinaio di vei-coli militari che quella sera avrebbero percorso le stra¬de della zona di Watts, pieni di uomini armati fino ai denti, e da un autocarro da cinque tonnellate vennero distribuite le razioni da combattimento mentre i capiplotone informavano gli uomini sulle loro missioni.
Circolavano un mucchio di voci, alimentate dal Di¬partimento di polizia di Los Angeles e dagli agenti di collegamento dello sceriffo: si diceva che i Musulmani Neri stessero arrivando in forze per lavorarsi i numero¬si negozi di elettrodomestici vicino all'incrocio tra Ver¬mont e la Slauson; si diceva che bande minorili di negri pieni di anfetamine stessero rubando macchine e for¬mando "squadre kamikaze" dirette a Beverly Hills e Bel Air; che Rob "Magawambi" Jones e i suoi Sostenitori Afroamericani di Goldwater avessero compiuto una netta svolta politica a sinistra e ora pretendessero dal sindaco Yorty otto degli isolati commerciali di Wilshire Boulevard in riparazione per "i crimini contro l'uma¬nità commessi dal Dipartimento di polizia di Los Ange¬les", e che se le loro richieste non fossero state accolte entro 24 ore, quegli otto isolati sarebbero stati ridotti in cenere da bombe incendiare nascoste nelle profondità delle fogne di La Brea.
Lloyd Hopkins non credeva a una sola parola. Com¬prendeva le iperboli della paura e, ancora di più, capiva che i suoi colleghi soldati e i poliziotti stavano facendo¬si coraggio per avere la forza di uccidere, e che un muc-chio di poveracci negri che volevano solo rubare una TV a colori e una cassa di birra quel giorno ci avrebbero la¬sciato la buccia.
Lloyd fece fuori le razioni da combattimento e ascoltò il suo capoplotone, il tenente Campion, gestore notturno di un ristorante della catena Bob's Big Boy, mentre spie¬gava loro gli ordini che aveva ricevuto da altri soldati civi¬li di grado maggiore: «Siamo un corpo di fanteria, quindi faremo servizio di pattuglia a piedi e perlustreremo per conto dei tipi armati. Controlleremo ingressi, vicoli e ci preoccuperemo che si sappia della nostra presenza: baio¬nette fisse, posizioni da combattimento, stronzate del ge¬nere. Cercate di avere l'aria cattiva. Stanotte saremo in compagnia del plotone armato con cui abbiamo fatto ad¬destramento la scorsa estate. Qualche domanda? Sapete tutti chi è il vostro comandante di squadrone? Ci sono dei nuovi che vogliono fare domande?»
Il sergente Beller, disteso sull'erba in fondo al gruppo di uomini, alzò la mano: «Tenente, lei sa che il plotone è in sovrannumero di quattro uomini? Che ce ne sono 54?»
Campion si schiarì la gola. «Sì... Ah... Sì, sergente, lo so.»
«Signore, lei sa anche che qui ci sono tre uomini che provengono dai corsi speciali? Tre uomini che non fanno parte del corpo regolare?»
«Vuol dire...»
«Voglio dire, signore, che io, Hopkins e Jensen sia¬mo ricognitori specializzati della fanteria, e sono certo che sarà d'accordo con me sul fatto che possiamo essere di maggior aiuto a questa missione andando in avan-guardia rispetto al plotone armato. Dico bene, signore?»
Lloyd vide che il tenente esitava, e si rese improvvisa¬mente conto che lo voleva tanto quanto Beller. Alzò la mano e disse: «Signore, il sergente Beller ha ragione; noi possiamo camminare avanti e inoltre proteggere meglio il plotone, e inoltre renderlo più autonomo. Il plotone ha più uomini del necessario, e...»
Il tenente si diede per vinto. «E va bene» disse. «Beller, Hopkins e Jensen, voi restate a duecento metri di fronte al convoglio. Fate attenzione. Altre domande? Rompete le righe.»
Lloyd e Beller si ritrovarono proprio mentre i carri armati e i trasporti truppe accendevano i motori, riem¬piendo l'aria del frastuono della combustione. Beller sorrise, e Lloyd gli restituì il sorriso di complicità, in si¬lenzio.
«Andiamo in avanscoperta, sergente?»
«Certo, e molto, Hoppy.»
«E Jensen?»
«Lui è solo un ragazzino. Gli dirò di rimanere indie¬tro con la fanteria armata. L'importante è che noi siamo coperti. Noi abbiamo carta bianca, ed è questo che conta.»
«Dalle parti opposte della strada?»
«Mi sembra che vada bene. Fischia due volte se la storia si fa pericolosa. Perché ti chiamano "La Mente"?»
«Perché sono molto intelligente.»
«Quanto basta da capire che quei negri di merda stanno distruggendo tutto il paese?»
«No, sono troppo intelligente per bermi queste ca¬gate. Basta mezzo cervello per capire che questo è solo un casino temporaneo, e che quando sarà tutto finito la vita ricomincerà come al solito. Io voglio salvare delle vite innocenti.»
Beller disse in tono di scherno: «Puttanate. Dimo¬stri solo che le menti ormai sono sopravvalutate. Quello che conta è il fegato.»
«Sono le menti a dominare il mondo.»
«Ma il mondo sta andando in merda.»
«Non so. Proviamo a vedere come stanno le cose qui.»
«Già, proviamoci.» Beller cominciò a preoccupar¬si per lui. Da qualche tempo, Hoppy gli pareva un leccaculo dei negri.

Oltrepassarono completamente la divisione, dirigen¬dosi verso sud, dove le fiamme erano più alte e l'eco de¬gli spari più forte..
Lloyd prese la zona settentrionale della Novantatreesima Strada e Beller quella meridionale, con i fucili ad altezza d'uomo e le baionette inastate, scrutando con lo sguardo una fila dopo l'altra di case popolari in assicelle bianche abitate da famiglie di negri che sbirciavano dal¬le finestre illuminate o se ne stavano sedute sui portica¬ti a bere, fumare, chiacchierare e aspettare che final¬mente succedesse qualcosa.
Arrivarono alla Central. Lloyd deglutì e sentì il sudore scendergli lungo la maglietta, che gli tirava sulla schiena, appesantita dalle due automatiche speciali in¬filate nella cintura.
Beller fece un fischio dall'altra parte della strada e gli indicò un punto più avanti. Lloyd annuì nel sentire una zaffata di fumo arrivargli alle narici. Continuarono a camminare verso sud, e alla mente di Lloyd ci vollero lunghi minuti per entrare in azione e riuscire ad assimi¬lare le epifanie, la perfetta logica dell'autodistruzione cui stava assistendo.
Negozi di alcolici, night club e chiese inframmezzate da spiazzi deserti pieni di macchine abbandonate e bru¬ciate dall'interno. Vetrine in frantumi, una dopo l'altra, e una profusione di bottiglie di alcolici rotte; vetri in¬franti dappertutto; i vicoli ingombri di materiale elettri¬co da quattro soldi, oggetti vari non rivendibili eviden¬temente razziati nella fretta e in seguito gettati quando gli sciacalli si erano resi conto che si trattava di roba senza valore.
Lloyd infilava la punta dell'M-14 nelle vetrate distrut¬te, cercando di vedere qualcosa nel buio, aguzzando gli orecchi come aveva visto fare ai cani, ascoltando atten¬tamente in cerca del minimo suono o movimento. Ma non c'era niente, solo l'ululato delle sirene e il crepitio delle armi da fuoco in lontananza.
Beller attraversò la strada di buon passo proprio mentre un'auto del Dipartimento di polizia di Los Ange¬les svoltava nella Central venendo dalla Novantaquattresima. Due agenti con giubbetti antiproiettile saltaro¬no fuori all'improvviso, e l'autista raggiunse Lloyd gri¬dando: «Che cazzo ci fate qui, voi due?»
Fu Beller a rispondere, cogliendo di sorpresa i due poliziotti, che si voltarono portando le mani alle calibro 38. «Siamo in avanscoperta, agente! Io e il mio amico abbiamo l'incarico di rimanere davanti alla compagnia per cercare i cecchini. Siamo ricognitori specializzati della fanteria.»
Lloyd capì che i poliziotti non l'avevano bevuta, e che doveva assolutamente entrare nella cruenta meraviglia di Watts senza quel farabutto del suo compagno. Lan¬ciò un'occhiata feroce a Beller e disse: «Credo che ci siamo persi. Dovevamo stare avanti solo di tre isolati, ma dobbiamo aver sbagliato svolta. Le case di queste strade numerate sembrano tutte uguali.» Esitò un mo¬mento, cercando di darsi un'aria sperduta.
Beller capì al volo e disse: «Già. Sembrano tutte uguali, queste case. E anche tutti quei negri seduti sui gradini a bere.»
Il più vecchio dei due poliziotti annuì, poi indicò in direzione sud e disse: «Voi state con l'artiglieria giù vi¬cino alla Centoduesima? Quelli del reparto pesante?»
Lloyd e Beller si guardarono. Beller si leccò le labbra per non ridere. «Sì» dissero all'unisono.
«Allora salite in macchina. Vi facciamo trovare noi la strada.»
Mentre partivano diretti a sud senza lampeggiante né sirena, Lloyd disse ai poliziotti che lo avevano chiamato per il corso di ottobre all'Accademia e che voleva fare un po' di addestramento per conto suo in mezzo ai tumulti. Il poliziotto più giovane lanciò un grido e disse: «Allo¬ra questo casino è il posto giusto per addestrarti. Quan¬to sei alto, uno e 90? Uno e 92? Grosso come sei, ti man¬deranno dritto alla divisione della Settantasettesima Strada a Watts, proprio queste strade di merda che stia-mo percorrendo adesso. Una volta che il polverone sarà passato e quei garantisti rottinculo avranno finito di di¬re che i negri sono vittime della povertà, ci sarà da tene¬re a bada qualche stronzo di negro del cazzo particolar¬mente agitato, gente che ha voglia di vedere il sangue. Come ti chiami, ragazzo?»
«Hopkins.»
«Hai mai ucciso qualcuno, Hopkins?»
«No, signore.»
«Non chiamarmi "signore". Non sei ancora uno sbirro, e io sono solo un vecchio agente di pattuglia. Be', io ne ho ammazzati tanti, in Corea. Proprio tanti, e que¬sto mi ha cambiato. Adesso vedo le cose in modo diver-so. Molto diverso. Ne ho parlato con gli altri sverginati, e siamo tutti d'accordo: si apprezzano di più le cose di¬verse. Uno vede degli innocenti, come ad esempio i bambini, e vuole che lo rimangano per sempre, perché sa che lui l'innocenza non ce l'ha più. Le piccole cose, come i bambini, o i loro giocattoli e i cuccioli, fanno un altro effetto, perché sai benissimo che stanno per finire in questo cazzo di letamaio e tu non vuoi che succeda. E poi vedi altra gente che non ha il minimo riguardo per la gentilezza, per le cose buone, e allora con loro devi andarci giù duro. Devi proteggere quei due soldi di in¬nocenza che ci sono al mondo. È per questo che sono nella polizia. Tu mi sembri uno vergine, Hopkins. Capi¬sci cosa intendo dire?»
Lloyd annuì, sentendosi formicolare tutto. Sentì odo¬re di fumo arrivare dal finestrino aperto, e la sensazione cominciò ad attenuarsi mentre si rendeva conto che il poliziotto stava parlando, senza saperlo, dell'etica pro-testante irlandese di Lloyd. «Capisco perfettamente di cosa sta parlando» disse.
«Ottimo, ragazzo. Allora cominci stasera. Accosta, socio.»
Il poliziotto più vecchio frenò e accostò al marciapiede.
«È tutto tuo, ragazzo» disse il poliziotto più giova¬ne, allungandosi a dare un colpo sull'elmetto di Lloyd. «Noi portiamo il tuo amico alla compagnia. Vedi se riesci a fare un po' di movimento per conto tuo.»
Lloyd uscì dall'auto di pattuglia così in fretta che non ebbe la possibilità di ringraziare il suo mentore. Loro accesero la sirena per salutarlo.
L'incrocio fra la Centoduesima e la Central era un caos di rovine fumanti, un sibilo di idranti, lo stridio dei pneumatici sul selciato umido, tutto il rumore modula¬to dagli elicotteri della polizia sospesi nel cielo, che illu¬minavano i negozi per dare luce ai pompieri in modo che potessero lavorare.
Lloyd entrò in quel maelstrom con un gran sorriso, pensando ancora a quell'eloquente riassunto della sua filosofia. Rimase a guardare un semicingolato con una mitragliatrice calibro 50 che avanzava lentamente lungo la strada. Un soldato della Guardia che si trovava all'interno gridò in un potente megafono: «Coprifuoco tra cinque minuti! La zona è sotto legge marziale! Chiunque sarà trovato in strada dopo le nove in punto verrà arrestato. Su chiunque cerchi di oltrepassare le barriere della polizia verrà aperto il fuoco. Ripeto: co¬prifuoco tra cinque minuti!»
Quelle parole, evidentemente dette con forza e catti¬veria, echeggiarono forti per tutta la strada, e il risultato fu un grande movimento. Lloyd scorse decine di giovani schizzare fuori dai palazzi bruciati, correndo a tutta ve-locità in ogni direzione per non farsi sorprendere dai ri¬flettori. Si strofinò gli occhi e li socchiuse per vedere se gli uomini trasportavano con sé merce rubata, solo per rendersi conto che erano scomparsi prima ancora che potesse gridare qualcosa o puntare su di loro l'M-14.
Lloyd scosse il capo e oltrepassò un gruppo di pom¬pieri che si davano da fare di fronte a un negozio di al¬colici saccheggiato. Tutti si accorsero di lui, ma nessu¬no parve sorpreso nel vedere un soldato della Guardia da solo e di pattuglia a piedi. Incoraggiato, Lloyd decise di controllare se c'era movimento all'interno.
Gli piaceva. La tenebra dentro il negozio incendiato era riposante, e Lloyd sentì che quel silenzio immerso nelle ombre gli avrebbe dato delle informazioni vitali. Si fermò, prese un rotolo di nastro adesivo dalla tasca della mimetica e fissò la pila elettrica alla parte inferiore della baionetta. Mosse il fucile facendogli descrivere un arco a otto, e controllò il risultato: dovunque avesse puntato l'M-14, da quel momento in poi ci sarebbe stata luce.
Cumuli di legno bruciato, montagne di materiale iso¬lante bottiglie di alcolici in frantumi. Preservativi usati dappertutto. Lloyd fece una risatina nel pensare a gente che si accoppiava in un seminterrato che ospitava un negozio di alcolici, poi si sentì sprofondare quando la risata venne ripetuta e seguita da un orribile gemito profondo.
Girò l'M-14 a 360 gradi, tenendo la canna all'altezza della vita. Prima una volta, poi due. Alla terza trovò quello che cercava: c'era un vecchio disteso in cima a un mucchio di fibra isolante arrotolata. Lloyd si sentì tor-nare in vita. Quel povero stronzo era rachitico come un albero avvizzito, e non poteva minacciare nessuno. Gli si avvicinò e gli allungò la sua borraccia. Il vecchio l'af¬ferrò con mani tremanti, se la portò alle labbra e poi la gettò per terra, urlando: «Non voglio questa roba! Vo¬glio la mia Lucy! Datemi la mia Lucy!»
Lloyd era stordito. Il nonno stava chiedendo forse di sua moglie o di una vecchia fiamma ormai perduta?
Tolse la pila dalla sede della baionetta e la puntò al volto del vecchio, poi sussultò: aveva la bocca e il mento coperti di sangue raggrumato, da cui sporgevano fram¬menti di vetro simili ad aculei di un porcospino di cri-stallo. Lloyd indietreggiò, poi indirizzò il raggio di luce sul busto dell'uomo e indietreggiò ancora di più: le ma¬ni avvizzite erano coperte di ferite profonde fino alle os¬sa, e tre dita della destra erano state ridotte a moncheri¬ni insanguinati. La sinistra, nodosa, stringeva i resti frantumati di una bottiglia di vino Thunderbird.
«La mia Lucy! Datemi la mia Lucy!» piagnucolava il vecchio, sputando sangue a ogni parola.
Lloyd prese la torcia e attraversò di corsa le rovine coperte di vetri rotti, asciugandosi le lacrime dagli oc¬chi, cercando una bottiglia ancora intatta che contenes¬se la salvezza liquida. Alla fine ne trovò una, nascosta in parte da una trave ribaltata. Era un mezzo litro di Seagram's 7 di sei anni.
Lloyd la prese e imboccò il vecchio, reggendogli la te¬sta per i pochi capelli grigi, tenendo la bottiglia a qual¬che centimetro di distanza dalle labbra insanguinate per paura che tentasse di ingoiarla tutta. Pensò di cerca¬re un medico, ma decise di lasciar perdere. Sapeva che il vecchio voleva morire, che meritava almeno di morire ubriaco e che il servizio che gli stava recando era l'equi¬valente militare delle tante ore trascorse a parlare con sua madre, quella donna muta dal cervello malato.
Il vecchio sbavava e succhiava avidamente la botti¬glia ogni volta che questa gli toccava le labbra. Dopo qualche minuto, una volta consumata metà del mezzo litro, smise di tremare, e allontanò la mano di Lloyd.
«È la terza guerra mondiale» disse.
Lloyd fece finta di non avere sentito e disse: «Sono il soldato scelto Lloyd Hopkins, della Guardia nazionale della California. Vuoi che vada a cercare un medico?»
Il vecchio rise, sputando grandi boccate di catarro sanguinolento.
«Devi avere un'emorragia interna» disse Lloyd. «Posso portarti a un'ambulanza. Pensi di poter cammi¬nare?»
«Posso fare tutto quello che ci ho voglia» strillò il vecchio «ma voglio crepare! Non c'è posto per me in questa guerra, devo andare dall'altra parte!»
Gli occhi velati e iniettati di sangue fissarono Lloyd come se fosse un bambino scemo. Lui diede ancora da bere al vecchio, assistendo allo spettacolo della pace li¬quida che inondava il corpo decrepito. Quando la botti¬glia fu finita il vecchio disse: «Tu hai da farmi un favo¬re, bianco.»
«Parla» disse Lloyd.
«Io muoio. Tu hai da andare nella mia stanza a prendere i miei libri e le carte a venderla la roba per farmi un bel funerale. Una roba da cristiano, chiaro?»
«Dov'è la tua stanza?»
«Long Beach.»
«Posso andarci quando sarà tutto finito, non prima.»
Il vecchio scosse furiosamente la testa finché non co¬minciò a tremare anche lui come una bambola di pezza. «Devi andarci! Domani mi mandano via che non pago l'affitto! Poi la polizia mi butta nella fogna coi topi! Hai da andarci!»
«Calma» disse Lloyd. «Non posso andare così lontano. Non ora. Non hai amici nella zona con cui pos¬sa parlare? Qualcuno che possa andare a Long Beach per te?»
Il vecchio rifletté sulla proposta. Lloyd lo guardò compitare parole silenziose e poi decidersi a dire: «Vai alla missione dove c'è l'incrocio Avalon e Centoseiesima. La chiesa africana. Parla con sorella Sylvia. Digli che va in casa di Famous Johnson e prende la sua roba e la vende. C'ha la mia data di nascita nei registri della chiesa. Voglio una lapide buona. Gli dici che amo tanto Gesù, ma che amo più la mia Lucy.»
Lloyd si alzò. «Vuoi proprio morire?» chiese.
«Tanto, amico, tanto.»
«Perché?»
«Non c'è posto in questa guerra, amico.»
«Che guerra?»
«La terza guerra mondiale, coglione!»
Lloyd pensò a sua madre e allungò la mano per pren¬dere il fucile, ma non ci riuscì.

Lloyd corse fino all'incrocio fra la Centoseiesima e Avalon componendo mentalmente una serie di epitaffi per Famous Johnson. Il torace gli bruciava e le braccia e le spalle gli dolevano per aver tenuto a lungo il fucile ad altezza d'uomo, e quando vide l'insegna al neon che in¬dicava CHIESA EPISCOPALE METODISTA AFRICANA UNITA in¬spirò a fondo più volte per calmare il battito furioso del cuore. Voleva essere l'immagine della dignità in miseri¬cordiosa missione.
La chiesa era dietro una vetrina di negozio in un edifi¬cio di due piani con le luci accese, in violazione del copri¬fuoco. Lloyd entrò per trovarsi di fronte a un pandemo¬nio che sembrava in parte dovuto a un incontro di pre-ghiera e in parte a una distribuzione gratuita di caffè. Fra le file di panche di legno erano sistemati alcuni grandi ta¬voli, e c'erano negri anziani e di mezz'età inginocchiati in preghiera e intenti a servirsi di caffè e ciambelle.
Lloyd avanzò lentamente lungo le pareti coperte di di¬pinti che raffiguravano un Cristo nero in lacrime, con il sangue che colava dalla corona di spine. Cominciò a fis¬sare i volti della gente inginocchiata, in cerca di qualche segno di pietà o compassione. Non vide altro che paura.
Poi notò una donna di colore grassa in abito bianco, che sembrava quasi sorridere dentro di sé mentre dava pacche sulle spalle alla gente inginocchiata sulle pan¬che più vicine.
Quando la donna vide Lloyd gridò: «Benvenuto sol¬dato» e la sua voce spiccò su tutto il chiacchiericcio. Gli si avvicinò allungando la mano.
Stupefatto, Lloyd gliela strinse e disse: «Sono il sol¬dato scelto Hopkins. Sono qui in missione di carità per conto di uno dei vostri parrocchiani.»
La donna lasciò la mano di Lloyd e disse: «Io sono sorella Sylvia. Questa chiesa è riservata agli afroameri¬cani, ma stasera è un'occasione speciale. Sei venuto a pregare per le vittime di Armageddon? È questa la tua missione?»
Lloyd scosse il capo. «No, sono venuto a chiederle un favore. Famous Johnson è morto. Ma prima mi ha chiesto di venire qui e dirle di vendere le sue proprietà in modo da fargli avere un buon funerale. Mi ha detto che lei conosce l'indirizzo della sua casa a Long Beach e la sua data di nascita. Vuole una bella lapide. Mi ha det¬to di dirle che ama tanto Gesù.» Lloyd rimase di sasso nel vedere sorella Sylvia scuotere ironicamente il capo e sorridere. «Non vedo cosa ci sia di divertente» disse.
«Ah no?» ruggì sorella Sylvia. «Io sì, invece! Fa¬mous Johnson era un rifiuto, giovanotto bianco! Si me¬ritava di essere chiamato quello che era, un negro ba¬stardo! E quella stanza a Long Beach? È solo un'inven¬zione! Famous Johnson viveva nella sua macchina, con le sue cose peccaminose sul sedile dietro! Veniva in que¬sta chiesa a prendere ciambelle e caffè, ma niente altro! Famous Johnson non aveva niente da vendere!»
«Ma io...»
«Vieni con me, giovanotto. Ti faccio vedere, così di¬mentichi tutto di quell'infame Johnson e tieni la co¬scienza pulita.»
Lloyd decise di non protestare. Voleva vedere cosa in¬tendeva il donnone per peccaminoso.
Era una Cadillac del 1947, con il posteriore a pinne, il cofano squadrato e ribassata. Quella che Tom avrebbe definita "una macchina da muso nero".
Lloyd puntò il raggio della pila sul sedile posteriore mentre sorella Sylvia si metteva al suo fianco in posa trionfale, a gambe solidamente divaricate e braccia con¬serte come per dirgli "te lo avevo detto". Lui aprì la por¬tiera. I sedili col rivestimento strappato e ricacciato den¬tro erano coperti di bottiglie vuote di bibite e foto porno, in maggior parte rappresentanti coppie di negri che pra¬ticavano fellatio. Lloyd provò una grande compassione: la donna che succhiava e l'uomo erano vecchi e obesi, e le fotografie da quattro soldi erano molto diverse da quelle dei numeri di Playboy che lui collezionava dai tempi del liceo. Avrebbe voluto che non fosse così. Era una memo¬ria troppo sporca per qualsiasi essere umano.
«Cosa ti avevo detto!» latrò sorella Sylvia. «È que¬sta qui la casa di quell'infame Johnson! Vendi quelle fo¬to e riporta i vuoti delle bottiglie, ne ricaverai un dollaro e 98 che non ci compri altro che due bottiglie di Thunderbird da versare sulla tomba di Johnson l'Infame!»
Lloyd scosse il capo. Si sentiva percuotere il cervello dal rumore delle radio che veniva da un isolato di di¬stanza, e quell'orrenda scena si fece per un momento in¬distinta. «Ma non capisce, signora» disse. «Famous Johnson ha affidato a me questo compito. È il mio lavo¬ro, il mio dovere. Il mio...»
«Non parlarmi più di quel peccatore! Capito? Non seppellisco quel porco nel nostro cimitero neanche per tutti i soldi del mondo. Hai capito?» Sorella Sylvia non rimase ad aspettare risposta, e tornò di gran passo alla chiesa, lasciando Lloyd solo sul marciapiede a pensare che avrebbe tanto voluto sentir crescere il rumore delle armi da fuoco fino a soffocare quello delle radio.
Si sedette sul marciapiede e pensò ai due poveri di¬sgraziati delle fotografie, e a Janice che non voleva prenderglielo in bocca, ma che aveva acconsentito a passare ai fatti la sera del loro primo appuntamento, due settimane prima del diploma di liceo, lasciando Lloyd Hopkins, classe '59 alla Marshall High, pieno di gioia e felicità per l'amore che vedeva nel suo futuro. E ora, sei anni più tardi, Lloyd Hopkins, laureato summa cum laude alla Stanford University, diplomato alla Scuola di fanteria di Fort Polk e al corso di lettura rapi¬da Evelyn Wood, fidanzato da sei anni con Janice Marie Rice, era seduto su un marciapiede di Watts a chiedersi perché mai a lui non era concesso quello che un vecchio porco negro e obeso poteva avere sempre. Lloyd puntò di nuovo la pila contro il finestrino posteriore. Proprio come sospettava: quel tipo aveva l'uccello più lungo del suo di almeno cinque centimetri. Pensò che c'entravano Dio e la costanza. Quel coglione della foto non aveva quoziente di intelligenza, e come fisico faceva schifo, così Dio gli aveva donato una bella nerchia per aiutarlo ad avere successo nella vita. E aveva funzionato.
Janice diceva che gliel'avrebbe succhiato solo quan¬do avesse preso il diploma all'accademia e si fossero sposati. L'ultimo pensiero lo eccitò e lo rattristò al tem¬po stesso. Janice lo rendeva triste. Poi pensò alle figlie che avrebbero avuto. Janice, un metro e 76 a piedi nudi, slanciata ma con fianchi robusti, era fatta per dare alla luce bambine eccezionali. Figlie. Dovevano essere fi¬glie, da allevare nell'amore e nel rispetto della sua etica irlandese protestante...
Lloyd portò ai limiti estremi di bene e male le sue fan¬tasticherie su Janice e sulle sue figlie, poi passò a pensa¬re alle donne in generale. Donne pure, malvage, vulnera¬bili, bisognose d'aiuto, forti: tutte le stesse ambiguità di sua madre, ora immersa nella sua forza silenziosa, resa muta da tutti gli anni in cui aveva dato rifugio alla sua prole nevrotica di uomini dalla quale solo lui era emerso sano di mente e capace di procurarle sollievo.
Lloyd sentì uno scoppio di spari a breve distanza. Fuoco di armi automatiche. In un primo momento pen¬sò che fosse la radio o la TV, ma era un rumore troppo reale, troppo preciso, e veniva dal punto in cui c'era la chiesa africana. Raccolse l'M-14 e corse all'angolo. Nel voltarlo sentì urlare, e subito notò la vetrata della chiesa in frantumi. Quando vide il carnaio all'interno, urlò an¬che lui. Sorella Sylvia e tre parrocchiani erano distesi sul pavimento di linoleum in una massa di carne sfracellata e incollata da fiumi di sangue. Da un punto del cumulo di corpi contorti un'arteria tranciata sputò fuo¬ri uno schizzo di sangue. Lloyd, impietrito, lo guardò spegnersi e sentì il suo urlo trasformarsi in un'unica pa¬rola: «Cosa! Cosa! Cosa?»
Strillò finché non riuscì a distogliere gli occhi dai ca¬daveri per portare lo sguardo sulla sala della chiesa puz¬zolente di cordite. Dalle panche di legno emersero teste scure. Lloyd si rese vagamente conto che la gente era terrorizzata da lui. Con il volto rigato di lacrime, gettò il fucile a terra e urlò: «Cosa? Cosa? Cosa?» solo per sentirsi rispondere da un coro di voci che urlavano: «Assassino, assassino, assassino!» Era un grido di orro¬re e oltraggio.
Fu allora che lo udì, in lontananza ma distintamente, alla sua sinistra, qualcosa di così conciso che capì dove¬va essere vero, non una voce elettronica: "Auf wiedersehen, negri del cazzo. Auf wiedersehen, scimmie mer¬dose. Ci si vede all'inferno".
Era Beller.
Lloyd capì quello che doveva fare. Mostrò ai negri na¬scosti dietro le panche tutta la sua risolutezza e andò a inseguirlo, lasciando il fucile per terra, tenendosi na¬scosto dietro le auto in sosta mentre si dirigeva verso il distruttore dell'innocenza.
Beller correva piano verso nord, senza sapere di esse¬re seguito. Lloyd lo vedeva stagliato nettamente contro la luce dei lampioni che non erano stati distrutti, lo vide voltarsi ogni pochi istanti per guardarsi indietro e assa-porare il proprio trionfo. Controllò la lancetta dei se¬condi dell'orologio e fece un rapido calcolo. Era più che evidente: il subconscio di Beller lo spingeva a voltarsi per controllare la zona ogni venti secondi circa.
Lloyd si alzò e corse a tutta velocità, contando a bassa voce, abbassandosi a terra ogni volta che Beller si guar¬dava alle spalle. Era a una cinquantina di metri di distan¬za dall'assassino quando Beller si infilò in un vicolo e co¬minciò a urlare: «Non muoverti, negro, non muoverti!» Seguì una scarica di colpi di automatica. Lloyd capì che venivano dalla calibro 45 con il caricatore gigante.
Raggiunse il vicolo e si bloccò per riprendere fiato. Vicino all'estremità del vicolo cieco c'era una sagoma scura. Lloyd aguzzò la vista e riuscì a distinguere una mimetica verde. Un istante dopo sentì la voce di Beller sputare epiteti incoerenti.
Lloyd entrò nel vicolo, avanzando rasente il muro di mattoni. Prese una delle due calibro 45 dalla cintura e tolse la sicura. Era quasi arrivato a distanza di tiro quando colpì col piede una lattina, e il rumore improv¬viso riverberò tutto attorno come un tuono.
Sparò contemporaneamente a Beller, e i lampi delle pistole illuminarono il vicolo di una luce accecante, mo¬strando Beller chino sul cadavere di un negro, un uomo decapitato, fatto a pezzi dalle spalle in su, il collo ridot¬to una massa di carne insanguinata e bruciata. Lloyd urlò quando il rinculo della calibro 45 lo sollevò in aria e lo gettò a terra. Il muro sopra la sua testa venne colpito da una salva, e lui si rotolò freneticamente sul selciato coperto di frammenti di vetro mentre Beller sparava un'altra raffica mirando a terra, facendogli esplodere schegge di vetro e asfalto davanti agli occhi.
Lloyd cominciò a singhiozzare. Si protesse gli occhi con il braccio e pregò per avere coraggio e la possibilità di essere un buon marito per Janice. Le sue preghiere vennero interrotte da un rumore di passi che si allonta¬navano da lui. Lloyd si costrinse ad alzarsi in piedi. Gli tremavano le gambe, ma aveva la mente salda e decisa. Aveva visto giusto: sul petto del cadavere c'era l'M-14 ab¬bandonato da Beller, e a breve distanza la calibro 45, or¬mai scarica e bollente.
Lloyd respirò a fondo, ricaricò e rimase in ascolto. Sentì il rumore: in lontananza, alla sua sinistra, rumore di passi e un respirare affannoso. Seguì quei suoni per la via più breve possibile, scalando il muro di cemento del vicolo per ritrovarsi in un cortile invaso di erbacce, dove il rumore del respiro si confondeva con quello di una radio da cui trasmettevano jazz.
Lloyd attraversò il cortile a tentoni, borbottando pre¬ghiere per cancellare la musica dalla mente. Raggiunse un sentiero che portava in strada, e la luce che veniva dalla casa adiacente gli permise di distinguere una trac¬cia di sangue fresco. Vide che il sangue portava a un grande spiazzo deserto, completamente buio e silenzio¬so in modo spettrale.
Lloyd rimase in ascolto, cercando di costringersi ad avere gli orecchi di un animale selvatico. Proprio men¬tre gli occhi gli si abituavano alla tenebra e riusciva a di¬stinguere gli oggetti dello spiazzo, lo sentì: uno schiocco di metallo su metallo che veniva dal punto in cui si trova¬va un gabinetto prefabbricato per cantieri. Era impossi¬bile sbagliare: Beller aveva ancora una delle sue malefi¬che calibro 45 modificate, e sapeva che Lloyd era vicino.
Lloyd tirò una pietra contro la latrina. La porta si aprì con un cigolio e risuonarono tre colpi secchi, seguiti dal rumore delle porte che sbattevano in tutto l'isolato.
A Lloyd venne un'idea. Avanzò per la strada scrutan¬do i portici delle case finché non trovò quello che cerca¬va, nascosto fra un mucchio di sacchetti vuoti di patati¬ne e lattine di birra: una radio portatile. Facendosi for¬za, alzò il volume e si sentì bombardare dal ritmo della musica soul. Nonostante l'emicrania sorrise, poi abbas¬sò il volume. Una giustizia poetica per il sergente mag¬giore Richard A. Beller.
Lloyd portò la radio nello spiazzo e la mise per terra una decina di metri alle spalle della latrina, poi girò la manopola del volume e corse via nella direzione opposta.
Qualche secondo dopo Beller schizzò fuori dal gabi¬netto urlando: «Negri di merda! Negri! Negri bastardi!» Sparò qualche raffica alla cieca. La luce dei lampi di fuoco che venivano dalla canna lo illuminava alla perfe¬zione. Lloyd sollevò la calibro 45 e prese lentamente la mira, puntando ai piedi di Beller per compensare il rin¬culo. Premette il grilletto, la pistola gli sobbalzò nella mano e il caricatore gigante si svuotò. Beller urlò. Lloyd si gettò nella polvere, cercando di soffocare le urla che gli salivano alla bocca. Alla radio urlava il rhythm and blues, e Lloyd corse verso quel rumore, tenendo la cali¬bro 45 per la canna. Avanzò a tentoni nel buio, poi si in¬ginocchiò e uccise la musica a colpi di calci.
Lloyd si alzò traballando, poi raggiunse quello che ri¬maneva di Richard Beller. Si sentiva stranamente cal¬mo mentre portava nella latrina prima le frattaglie del soldato, poi la parte inferiore del corpo, poi le braccia amputate. Della testa di Beller rimanevano solo ossa frantumate e una poltiglia di materia cerebrale, che Lloyd lasciò nella polvere.
Borbottando "Dio, ti prego, ti prego, Dio, coniglio nella tana" Lloyd raggiunse la strada; notando con il suo istinto animale che non c'era nessuno in giro. Gli abitanti del quartiere dovevano farsela sotto dalla paura degli spari, oppure c'erano semplicemente abituati. Lloyd vuotò la borraccia nel vicolo e trovò un laccio emostatico nell'astuccio della baionetta. Una volta Bel¬ler gli aveva detto che era ottimo per strangolare la gen¬te. Accanto al marciapiede c'era una Ford Fairlane del '61. Manovrando con destrezza tubo e borraccia, Lloyd riuscì ad aspirare mezzo litro buono di benzina dal ser¬batoio. Tornò al gabinetto e la versò sopra i resti di Bel-ler, poi ricaricò la calibro 45 e indietreggiò di dieci me¬tri. Sparò, e la latrina saltò in aria. Lloyd tornò in Avalon Boulevard. Quando si voltò, vide che l'intero spiaz¬zo era avvolto dalle fiamme.
Due giorni dopo, i tumulti di Watts terminarono. Nei sobborghi devastati del centro di Los Angeles venne ri¬stabilito l'ordine. I morti ammontavano a 42: 40 dimo¬stranti, un vicesceriffo di contea e un soldato della Guardia nazionale il cui corpo non era mai stato ritro¬vato, ma che si presumeva morto.
I tumulti vennero attribuiti a svariate cause. L'Asso¬ciazione nazionale per lo sviluppo della gente di colore e la Lega urbana li attribuivano al razzismo e alla povertà. Il Partito musulmano nero alla brutalità della polizia. Il capo della polizia di Los Angeles, William H. Parker, a un "impoverimento dei valori morali". Per Lloyd Hopkins tutte quelle teorie erano solo sciocchezze inutili. Per lui la causa dei tumulti di Watts era stata la morte dei cuori innocenti, in particolare di quello di un vec¬chio ubriacone negro che si chiamava Famous Johnson.

Quando fu tutto finito, Lloyd andò a prendere la macchina nel parcheggio dell'armeria di Glendale e rag¬giunse l'appartamento di Janice. Fecero l'amore, e Janice cercò di confortarlo per quanto le era possibile, ma gli rifiutò il conforto orale richiesto. Così Lloyd lasciò il letto alle tre del mattino e andò a cercarselo da solo, quel conforto.
All'angolo fra la Western e la Adams trovò una prosti¬tuta negra disposta a succhiarglielo per dieci dollari, e lui raggiunse una stradina laterale e parcheggiò. Quando venne, Lloyd urlò, terrorizzando la battona che scappò via dalla macchina senza neppure prendere i soldi.
Lloyd girò senza meta fino all'alba, poi andò alla casa dei suoi genitori, a Silverlake. Mentre apriva la porta sentì suo padre russare, e vide che dalla porta della ca¬mera di Tom filtrava la luce. Sua madre era nello stu¬dio, sulla sedia a dondolo. Tutte le luci della sala erano spente, tranne quella colorata dell'acquario. Lloyd se¬dette per terra e raccontò tutta la storia alla donna muta e prematuramente invecchiata, terminando con l'ucci¬sione di chi aveva ucciso l'innocenza, e di come ora po¬teva proteggere gli innocenti come mai prima. Assolto e rinforzato, Lloyd baciò sua madre sulla guancia e si chiese come avrebbe passato le otto settimane che ri¬manevano prima di entrare all'accademia.
Tom lo aspettava fuori di casa, immobile sul sentiero che portava al marciapiede. Quando vide Lloyd, fece una risata e aprì la bocca per dire qualcosa. Lloyd non lo la¬sciò parlare. Estrasse la calibro 45 automatica dalla cin¬tura e gliela puntò contro la fronte. Tom cominciò a tre¬mare, e Lloyd disse dolcemente: «Se provi anche solo a nominarmi negri, comunisti o ebrei, o altre cazzate del genere, per il resto della vita, io ti ammazzo.» Il volto rubizzo di Tom diventò terreo, e Lloyd sorrise, per poi ri¬tornare ai miseri resti della propria innocenza distrutta.

PARTE SECONDA
Canzoni d'amore

3

Si diresse verso ovest sul Ventura Boulevard, assapo¬rando il nuovo giorno a ora legale, la limpidezza di quei pomeriggi più lunghi del solito e il tempo primaverile, insolitamente bello, che spingeva le meretrici a indossa¬re abiti e prendisole scollati e le vere donne a indossare con pudica modestia una profusione di colori pastello estivi: rosa, azzurro e verde chiaro, giallo pallido.
Dall'ultima volta erano passati molti mesi, e lui attri¬buiva quella pausa all'incostanza del tempo che si riflet¬teva anche sulla sua mente: un giorno era caldo, il suc¬cessivo freddo e piovoso. Non si poteva mai sapere cosa avrebbero indossato le donne, perciò era difficile fissare l'attenzione su una in particolare per poterla salvare. Non c'era modo di sentire i colori, la trama che compo¬neva la donna, finché non la si esaminava in un conte¬sto di concretezza. Lo sapeva Dio se gli innumerevoli piccoli flussi della vita femminile non diventavano subi¬to evidenti una volta dato inizio al piano. E se a quel punto perdeva l'amore, la compassione che seguiva gli serviva a riaffermare gli aspetti spirituali della sua mis¬sione e a dargli il distacco necessario a compiere il suo lavoro.
Ma la pianificazione ne costituiva almeno la metà, la parte costruttiva, quella che lo purificava, che lo separa¬va dalle cose insignificanti e gli dava una precaria immunità a quel mondo che divorava le creature raffinate e sensibili e le eliminava come escrementi.
Decise di passare da Topanga Canyon mentre ritor¬nava in città. Spense il condizionatore dell'automobile e mise nel riproduttore una cassetta di meditazione, quel¬la che enfatizzava il suo leit-motiv preferito: quello dell'uomo che si muoveva in silenzio, sicuro di sé e ras¬segnato, armato solo della sua missione caritatevole. Ascoltò il sacerdote con la voce da campagnolo che par¬lava di quanto fosse importante avere degli scopi. "Quello che distingue l'uomo in movimento dall'uomo che vive nell'inferno della stasi è la strada, sia quella che porta all'interno sia quella che conduce lontano, in dire¬zione di scopi degni. Percorrere questa strada è al tem¬po stesso viaggio e destinazione, un dono fatto e ricevu¬to. Voi potrete cambiare la vostra vita per sempre se se¬guirete un semplice programma mensile. Per prima co¬sa pensate a ciò che più desiderate in questo momento. Può essere qualsiasi cosa, l'illuminazione spirituale o una macchina nuova. Prendete nota di questo vostro obiettivo su un pezzo di carta e scriveteci sopra la data di oggi. Per i prossimi trenta giorni voglio che vi con¬centriate per raggiungere quell'obiettivo e non permet¬tiate al minimo pensiero distruttivo di entrarvi nella mente. Se tali pensieri vi disturbano, banditeli! Bandite ogni pensiero che non sia quello santo e puro di rag¬giungere il vostro scopo, e vedrete accadere miracoli!"
Lui ci credeva. Era un metodo che per lui aveva sem¬pre funzionato. C'erano venti pezzetti di carta ripiegati con cura a testimoniare della sua efficacia.
Aveva ascoltato quel nastro per la prima volta quindi¬ci anni prima, nel 1967, e ne era rimasto colpito. Ma a quel tempo non sapeva ancora cosa voleva. Tre giorni dopo aveva visto lei, e l'aveva capito. Si chiamava Jane Wilhelm. Nata e cresciuta a Grosse Point, era scappata dalla Bennington l'anno del diploma e se n'era andata a ovest in cerca di valori e amicizie nuove. Lei, con le sue camicie di tela oxford e i mocassini, si era ritrovata in mezzo ai drogati del Sunset Strip. L'aveva vista per la prima volta fuori dal WHISKY AU GO GO, mentre chiac¬chierava con un gruppo di delinquenti capelloni nell'evidente tentativo di mortificare la propria intelli-genza e l'educazione ricevuta. Lui l'aveva fatta salire in macchina e le aveva parlato della cassetta e del pezzo di carta. Lei era rimasta commossa, ma aveva riso a lungo. Aveva detto che se voleva farsi quattro salti, bastava che lo chiedesse. Per lei il romanticismo era inutile, ed era una donna emancipata.
Era stato allora, con quel rifiuto, che lui aveva scorto il proprio obbligo morale. Aveva capito qual era il suo obiettivo presente e futuro: salvare l'innocenza delle donne.
Aveva tenuto sotto stretta sorveglianza Jane Wilhelm fino al termine dei trenta giorni prescritti dal sacerdote, spiandola mentre girava per i meeting di amore libero, gli appartamenti in cui si fermava temporaneamente e i concerti rock. Poco dopo la mezzanotte del trentunesi¬mo giorno, Jane era uscita sola, barcollando, dal GAZZARI'S DISCO. Dalla sua macchina, parcheggiata dalla parte meridionale del Sunset, lui l'aveva osservata attraversa¬re la strada. Aveva acceso gli abbaglianti e l'aveva illu¬minata in pieno, memorizzando per sempre i lineamen¬ti stravolti dalle droghe e gli occhi sbarrati. Era l'ultimo atto della sua degenerazione. L'aveva strangolata là, sul marciapiede, poi aveva gettato il cadavere nel baule del¬la macchina.
Tre notti più tardi si era diretto a nord, verso i campi alla periferia di Oxnard. Dopo aver improvvisato un ser¬vizio funebre con l'aiuto della sua cassetta e delle sue parole salvifiche, aveva sepolto Jane nella terra morbi-da adiacente una cava di roccia. Per quanto ne sapeva, il cadavere non era mai stato ritrovato.
Svoltò sulla Topanga Canyon Road, ricordando i par¬ticolari della metodologia che gli aveva permesso di da¬re la salvezza a venti donne senza farsi sorprendere dal¬la frenesia dei massmedia o dagli sbirri. Era molto sem¬plice. Lui non faceva altro che diventare le sue donne, trascorrendo mesi interi ad assimilare ogni dettaglio delle loro vite, assaporandone ogni sfumatura, catalo¬gando ogni elemento di perfezione e imperfezione pri¬ma di decidere la tattica prevista per l'eliminazione, che era studiata in modo da adattarsi alla personalità, addi¬rittura all'anima stessa, della sua amata. Dunque la pia¬nificazione diveniva corteggiamento, e l'uccisione pro¬messa di matrimonio.
Pensare al corteggiamento gli riportò alla mente un fiotto di ricordi esaltanti, tutti che ruotavano intorno a dettagli concreti, alle piccole forme d'intimità che solo un amante poteva apprezzare.
Elaine, nel 1969, che tanto amava la musica barocca; una donna che, nonostante fosse graziosa, passava pra¬ticamente tutto il suo tempo libero ad ascoltare Bach e Vivaldi con le finestre dell'appartamento seminterrato aperte, perfino quando faceva molto freddo, perché de¬siderava condividere la gioia che provava con un mon¬do che faceva di tutto per ignorarla. Notte dopo notte era rimasto in ascolto con un microfono dal tetto di un'abitazione vicina, raccogliendo i deboli lamenti del¬la solitudine nascosti sotto la musica. Quasi piangeva mentre i loro cuori si univano nel tormento dei Concerti brandeburghesi.
Per due volte era entrato nell'appartamento, per rac¬cogliere elementi che gli avrebbero indicato il giusto modo di salvare l'anima di Elaine. Aveva deciso di aspettare, di meditare sulla fine della vita di quella don¬na, quando sotto ai maglioni aveva trovato una richie¬sta d'iscrizione a un servizio di appuntamenti via com¬puter. Vedere Elaine soccombere a quell'ultima volga¬rità era stato l'indicatore finale.
Aveva passato un mese a studiare la sua grafia, e un'altra settimana a comporre con la stessa scrittura un biglietto in cui annunciava il suicidio. Una gelida notte dopo il Giorno del Ringraziamento era entrato dalla fi-nestra e aveva vuotato tre capsule e mezza di Seconal nella bottiglia di succo d'arancia da cui Elaine beveva sempre prima di andare a dormire. Più tardi l'aveva os¬servata con un binocolo mentre consumava la letale comunione. Le concesse due ore di sonno prima di entra¬re nell'appartamento a lasciare il biglietto e aprire i ru¬binetti del gas. Come ultimo gesto d'amore aveva messo sullo stereo un concerto per flauto di Vivaldi in modo da accompagnare Elaine nella sua dipartita.
Si sentì riempire gli occhi di lacrime nel ricordare le altre sue amanti, mentre rammentava i momenti cru¬ciali: Karen che amava i cavalli e la cui casa era una te¬stimonianza della sua passione per gli equini. Karen, che cavalcava a pelo sulle colline oltre Malibu e che era morta in sella al suo roano quando lui era uscito di cor¬sa dal suo nascondiglio e aveva spinto a bastonate il ca¬vallo oltre il bordo di una scarpata. Poi Monica, di gusto squisito per le piccole cose, che avvolgeva il corpo polio¬mielitico tanto odiato in sete e lane pregiate. A mano a mano che lui coglieva frase dopo frase del suo diario e guardava crescere l'odio che la ragazza provava per il suo stesso corpo, si era convinto che smembrarla sareb¬be stato un atto di compassione. Dopo avere strangolato Monica nel suo appartamento di Marina Del Ray, l'ave¬va fatta a pezzi con una sega elettrica e aveva gettato le membra avvolte nella plastica nell'oceano, vicino a Manhattan Beach. La polizia aveva attribuito il delitto all'"Assassino della plastica".
Si asciugò le lacrime dagli occhi, sentendo i ricordi coagulare in una nuova ambizione. Era di nuovo il mo¬mento.
Raggiunse Westwood Village, trovò un parcheggio a pagamento e si incamminò, decidendo di non avere troppa fretta, ma neanche di essere più cauto dello stretto necessario. Stava calando il crepuscolo, facendo anche calare la temperatura, e le strade del Village bru¬licavano di vitalità femminile: donne dappertutto, che si infilavano maglioni, si tenevano accanto alle vetrine dei negozi mentre aspettavano di entrare nei cinema, curiosavano per le librerie, gli camminavano tutto in¬torno, lo oltrepassavano. Gli parve quasi di sentirsene attraversare.
Il crepuscolo divenne sera, e con il buio le strade si erano spopolate fino al punto in cui le singole donne spiccavano in tutta la loro unicità. Fu allora che la vide, di fronte alla Libreria Hunter, mentre guardava la vetri¬na come in cerca di un sogno. Era alta, slanciata, e ave¬va truccato appena il volto dolce che cercava ostentata¬mente di proiettare intorno a sé un'aura di allegra disin¬voltura. Sulla trentina, e lui pensò che era sicuramente una cercatrice, un'artigiana di buon carattere: sarebbe entrata nella libreria, avrebbe guardato prima i best sel¬ler, poi i grandi autori in brossura, e alla fine si sarebbe decisa a comprare un romanzo gotico o un giallo. Era sola. Aveva bisogno di lui.
La donna raccolse i capelli a crocchia e li fermò con una spilla. Con un sospiro, spinse la porta della libreria e si diresse con decisione al bancale su cui erano esposti vari libri su come migliorare se stessi. C'era di tutto, da Divorziare in modo creativo a Come vincere con lo yoga dinamico, e la donna, dopo qualche esitazione, prese una copia di Salvarsi la vita con il sinergismo dei campi vitali, e la portò alla cassiera.
Lui rimase continuamente a breve distanza dalla donna, e quando lei prese il libretto degli assegni per pa¬gare il libro, ne memorizzò nome e indirizzo stampati sugli assegni:

Linda Deverson
3583 Mentone Avenue
Culver City, California, 90408

Non aspettò di sentire Linda Deverson conversare con la cassiera. Corse fuori dal negozio e raggiunse la macchina, preso dal suo amore e dall'imperativo terri¬toriale: il poeta voleva esaminare la scena del suo nuovo corteggiamento.
Tre settimane dopo, mentre faceva sviluppare l'ulti¬ma serie di fotografie, pensò che Linda Deverson era molte cose. Tirò fuori le foto dalla soluzione e le appese ad asciugare, e la guardò delinearsi nettamente in bian¬co e nero sulla carta. Linda che lasciava l'ufficio dove lavorava come agente immobiliare; Linda con la faccia imbronciata, mentre cercava di fare il pieno alla mac¬china da sola; Linda che faceva jogging per San Vicente Boulevard; Linda con lo sguardo fisso oltre la finestra del soggiorno, intenta a fumare una sigaretta.
Lui chiuse il negozio, prese le foto e salì al piano di sopra, nel suo appartamento. Come sempre, mentre at¬traversava il suo oscuro regno, si sentì orgoglioso. Orgo¬glioso di aver avuto la pazienza di risparmiare e perse¬verare senza mai demordere nella sua determinazione a possedere quel luogo che gli aveva donato momenti fra i più belli della sua vita.
Quando i suoi genitori erano morti, lasciandolo sen¬za casa a 14 anni, era stato preso in amicizia dal pro¬prietario del Silverlake Camera, che gli dava venti dolla¬ri alla settimana per pulire il negozio ogni sera all'ora di chiusura e gli permetteva di dormire per terra e studiare nel gabinetto dei clienti. Lui aveva studiato duramente, e aveva reso il proprietario orgoglioso di lui. L'uomo giocava d'azzardo e scommetteva sui cavalli, e si serviva del negozio come garanzia per le scommesse. Aveva sempre pensato che il suo benefattore, che soffriva di cuore ed era senza famiglia, un giorno gli avrebbe la¬sciato il negozio di fotografo; ma si sbagliava. Quando morì il negozio passò ai bookmaker suoi creditori. I quali lo rovinarono subito: assunsero un branco di in¬competenti che trasformarono il piccolo e tranquillo lo¬cale in un raduno per delinquenti, organizzando scom¬messe sulle partite di football e sui cavalli e smerciando droga.
Quando si era reso conto di cosa era accaduto al suo santuario, lui aveva capito che doveva salvarlo, a qua¬lunque prezzo.
Si era guadagnato agevolmente da vivere come foto¬grafo free-lance, facendo servizi su matrimoni, banchet¬ti e prime comunioni, e aveva da parte denaro più che sufficiente ad acquistare il negozio, se mai l'avessero messo in vendita. Ma sapeva che i mascalzoni che lo possedevano non l'avrebbero mai venduto, perché i profitti illeciti che ne ricavavano erano troppo grandi. La cosa lo angosciava tanto che aveva completamente di-menticato il suo quarto corteggiamento e aveva devolu¬to ogni energia all'obiettivo di poter avere per sempre il suo rifugio ormai devastato.
Le continue telefonate alla polizia e al procuratore distrettuale non erano servite a niente. Nessuno era di¬sposto a fermare i traffici del Silverlake Camera. Ridot¬to alla disperazione, aveva cercato altri mezzi.
Dopo un'attenta sorveglianza, era venuto a sapere che il nuovo proprietario si ubriacava tutte le sere in un bar vicino al Sunset. Sapeva che all'ora di chiusura dovevano caricarlo su un taxi a forza, e che il tassista che lo andava a prendere al bar ogni notte alle due era un appassionato di cavalli che gli doveva molti soldi. Con la stessa diligenza con cui conduceva i suoi cor¬teggiamenti, lui si era messo all'opera, cominciando con l'acquistare trenta grammi di eroina pura, quindi avvicinando il tassista e facendogli un'offerta. Il tassi¬sta aveva accettato, e aveva lasciato Los Angeles il gior¬no successivo.
Due notti più tardi, al volante del taxi che si era fer¬mato davanti allo Short Stop Bar all'ora di chiusura, c'era lui. Alle due precise, il proprietario del Silverlake Camera era uscito barcollando e si era gettato sul sedile posteriore, perdendo immediatamente i sensi. Lui ave¬va portato l'uomo all'incrocio fra il Sunset e Alvarado, e gli aveva infilato nella tasca del soprabito un sacchetto di plastica pieno di eroina. Poi aveva trascinato l'ubria¬cone, ancora incosciente, al negozio e lo aveva sistema¬to in posizione seduta, metà dentro e metà fuori della porta d'ingresso, con la chiave nella destra.
Aveva raggiunto un telefono pubblico e aveva chia¬mato il Dipartimento di polizia di Los Angeles, denun¬ciando un tentativo di rapina in atto. Del resto si erano occupati loro. All'incrocio fra il Sunset e Alvarado erano state mandate tre auto di pattuglia. Quando la prima aveva inchiodato di fronte al Silverlake Camera, l'uomo si era risvegliato, si era alzato in piedi e aveva messo la mano nella tasca del soprabito. I due uomini di pattu¬glia avevano frainteso il gesto e avevano sparato, ucci¬dendolo. Il Silverlake Camera era andato all'asta la set¬timana successiva, e lui l'aveva acquistato per niente.
Il negozio di fotografia e l'appartamento di tre stan¬ze al piano di sopra divennero il suo sogno personale, un sogno che lui trasformò in una sinfonia, una perfet¬ta e decisa dichiarazione estetica radicata nel suo pas-sato, e soprattutto nelle storie nascoste delle tre perso¬ne che gli avevano donato la terribile catarsi da cui aveva tratto la libertà necessaria a proteggere l'inno¬cenza femminile.
Un'intera parete era dedicata ai suoi attaccanti, un collage fotografico che narrava dei loro squallidi pro¬gressi nella vita: quello muscoloso, vicesceriffo di Con¬tea di Los Angeles; il suo leccapiedi, un prostituto. Il breve incontro che avevano avuto con lui ne aveva pla¬smato le vite in negativo, e per il loro vuoto spirituale l'unico balsamo era il denaro e il potere sui traffici ille¬citi. Le fotografie scattate di nascosto e appese alla pa¬rete ne erano testimonianza: Birdman, fermo su un marciapiede del quartiere omosessuale, i fianchi in fuo¬ri, gli occhi avidi che cercavano poveri disgraziati soli a cui rubare qualche dollaro e pochi minuti di autocom¬piacimento; e poi l'uomo muscoloso, obeso e dal volto rubicondo, con lo sguardo rivolto oltre il finestrino del¬la sua auto di pattuglia nel suo regno personale a West Hollywood: quello dei finocchi di alto bordo che proteg¬geva con ogni cura, ma che rifiutavano la sua "protezio¬ne" e ridevano di lui, chiamandolo "Agente Porco".
Sulla parete opposta c'erano ingrandimenti di foto della sua amata, prese da album scolastici. La sua inno¬cenza era stata perpetuata in eterno dalla straordinaria nitidezza della sua abilità fotografica. Aveva ritagliato le foto il giorno del diploma, nel 1964, ma solo dieci an¬ni più tardi, quando era diventato un fotografo provet¬to, si era sentito sicuro di sé quanto bastava ad assumer¬si un'impresa complessa come quella di ingrandire e ri¬produrre una foto per tentare di renderla di dimensioni maggiori del vero. Accanto agli ingrandimenti erano at¬taccati venti gambi di rose rinsecchite e contorte, i resti dei tributi floreali che spediva alla sua adorata ogni vol¬ta che in suo nome prendeva la vita di una donna.
Voleva trasformare il suo santuario in un testamento sensorio globale in nome di quelle tre persone, ma era¬no anni che il metodo per farlo gli sfuggiva. Le aveva raggiunte visivamente, ma voleva che fossero così vive da sentirle respirare.
La soluzione gli era giunta in sogno. Vedeva giovani donne legate al perno di un gigantesco giradischi in mo¬vimento. Lui era seduto alla centralina di controllo di un complicato sistema elettrico a premere pulsanti e spingere leve nel tentativo vano di costringere le donne a urlare. Ridotto quasi al punto di urlare a sua volta, era riuscito a trovare la capacità di cancellare la propria frustrazione agitando le braccia per simulare il volo. Mentre calpestava l'aria con le membra, perse il fiato e si trovò sul punto di soffocare, quando le sue mani rag¬giunsero lunghi festoni di nastro magnetico che volava¬no nell'aria. Lui aveva afferrato il nastro, servendosene come balestra per ritornare alla centralina di controllo. Durante il suo volo tutte le luci del pannello si erano spente, e quando cominciò a premere i pulsanti le luci si accesero, poi vi fu un corto circuito e tutto esplose in una nuvola di sangue. Lui aveva cominciato a riempire di nastro i fori insanguinati. Il nastro era strisciato nelle aperture, finendo sul giradischi e intorno al perno, schiacciando le giovani donne prigioniere. Le urla lo avevano risvegliato da quel sogno, sciogliendosi in quel¬lo che aveva emesso lui nell'accorgersi di essere esploso con le mani strette all'inguine.
Quella mattina aveva comprato due registratori a transistor fra i migliori sul mercato, due microfoni, die¬ci metri di cavo elettrico e un alimentatore a transistor. Nel giro di una settimana gli appartamenti dell'Agente Porco e della sua amata di un tempo erano stati equi¬paggiati di dispositivi spia perfettamente nascosti, e lui aveva potuto entrare completamente nelle loro vite. Faceva sortite settimanali per cambiare il nastro, tornan¬do a casa quasi sul punto di scoppiare mentre guardava le foto sulla parete e ascoltava i loro sussurri, venendo a conoscenza di segrete intimità che neppure gli amanti più cari potevano conoscere.
E quelle intimità confermavano in ogni aspetto l'idea che si era fatto: la sua prima amata accoglieva i suoi amanti carnali con molta cautela. Erano tutti uo¬mini apparentemente sensibili, che l'amavano molto e non potevano che capitolare di fronte alla sua raffinata volontà. Lui capiva che sotto quella facciata a volte un po' stridente da femminista militante lei doveva sentir¬si molto sola, ma era naturale: era una poetessa di grande fama locale, e la solitudine era la maledizione di tutti i creativi. L'Agente Porco, naturalmente, era la corruzione incarnata: uno sbirro arrivista che si faceva pagare dai prostituti del quartiere omosessuale per guardare da un'altra parte insieme ai suoi squallidi amici poliziotti mentre si dedicavano alle loro perver¬sità. Birdman gli faceva da collegamento, e dopo ore passate ad ascoltare i due vecchi compagni di liceo che gongolavano sulle loro truffarelle da quattro soldi si era convinto che la miseria delle loro vite era in sé una splendida vendetta.
Passarono gli anni e lui ascoltava, nelle lunghe sere in cui si toccava nella tenebra assoluta mentre le voci incise sui nastri si susseguivano negli auricolari. Nel suo desiderio di essere in totale sincronia con le persone che avevano celebrato quella rinascita, lui si fece ancora più ardito, e il giorno dell'anniversario di quell'evento iniziale a cui pensava ormai raramente, elaborava i suoi fidanzamenti camuffandoli da suicidi, in modo da cele-brare la sua umiliazione in quel corridoio di liceo co¬perto di segatura. Lo aveva fatto quattro volte: due pro¬prio sotto la casa dell'Agente Porco, e una nel suo stesso condominio. In quegli istanti di memoria simbiotica, l'amore che provava aveva reso i suoi orgasmi a mani strette dieci volte più enormi, e lui sapeva che, con ogni sua traversia di arte fotografica e respiri e sangue, il suo sogno diventava sempre più inviolato. Ritornato al pre-sente, ripensò alle molte cose che era Linda Deverson, poi si sentì svuotare la mente nel cercare di trovare una linea narrativa da imporre al turbinio di immagini che costituivano il suo nuovo amore. Sospirò e si chiuse alle spalle la porta dell'appartamento, poi prese le foto di Linda e le attaccò alla finestra in vetro di Tiffany di fronte al suo scrittoio. Sospirando nuovamente, scrisse:

17/5/82
Dopo averla corteggiata per tre settimane non sono ancora riuscito a far breccia nel suo appartamento, tanto meno nel suo cuore. Tripla serratura sull'unica porta, ci vorrà coraggio per entrare. Dovrò rischiare presto: Linda rimane fuggevole. O forse no. Quello che mi ha colpito di lei finora è il suo senso dell'umo-rismo, il sorriso triste che le illumina il volto mentre prende una sigaretta dalla tuta dopo aver fatto jog¬ging per cinque chilometri verso San Vicente; il suo deciso e gioviale rifiuto di uscire con quel giovane e testardo agente che sta in ufficio con lei all'agenzia immobiliare; il modo con cui parla fra sé quando pensa che nessuno la veda e l'ostentazione con cui si copre la bocca quando un passante la sorprende. Due sere fa l'ho seguita al seminario sul sinergismo dei campi vitali. Ho visto quello stesso sorriso triste men¬tre firmava l'assegno per la tassa d'iscrizione e ancora al primo "raduno", quando le hanno detto che non era permesso fumare. Sono convinto che Linda pos¬sieda lo stesso distacco che ho notato in molti scritto¬ri: il desiderio di accomunarsi all'umanità, di condi¬videre un'esperienza o un sogno, e allo stesso tempo di rimanere in disparte, di trattenere le proprie verità (per quanto universali) al di sopra di quelle collettive. Linda è una donna molto acuta. Durante il corso del primo raduno (un'accozzaglia di sciocchezze ambi¬gue riguardo l'unità e l'energia) mi sono recato na¬scostamente all'ufficio d'iscrizione e ho rubato il mo¬dulo da lei compilato. Ora della mia amata so questo:
1. Nome: Linda Holly Deverson
2. Data di nascita: 29/4/52
3. Luogo di nascita: Goleta, California
4. Livello di educazione: Liceo 1 2 3 4
Università 1 2 3 4
Diplomi speciali? No.
5. Come avete saputo del S.C.V.? «Ho letto il vo¬stro libro.»
6. Descrivetevi con quattro di queste definizioni:
1. Ambizioso/a
2. Atletico/a
3. Aggressivo/a
4 Illuminato/a
5 In sintonia
6. Sognante
7. Curioso/a
8 Passivo/a
9. Infuriato/a
10 Sensibile
11. Appassionato/a
12. Estetico/a
13. Carnale
14. Moralista
15. Generoso/a
7. Perché siete venuto/a all'Istituto per il S.C.V.? «Onestamente non lo so. Ho letto nel vostro libro cose che mi hanno colpito come verità che forse potevano aiutarmi a migliorare.»
8. Pensate che il S.C.V. possa cambiare la vostra vi¬ta? «Non so.»

Una donna acuta. Ma io posso cambiare la tua vi¬ta, Linda; sono l'unico che può farlo.

Tre sere più tardi irruppe nel suo appartamento.
L'azione era stata accuratamente pianificata. Sapeva che sarebbe andata al secondo seminario che sarebbe durato dalle otto a mezzanotte. Alle otto meno un quar¬to si trovava dalla parte opposta della strada rispetto all'Istituto di S.C.V., all'incrocio fra la Quattordicesima e Montana, a Santa Monica, armato di un bloccacircuiti grande come una scatola di fiammiferi, con un paio di guanti in gomma da chirurgo.
Sorrise nel vedere Linda parcheggiare nello spiazzo e ricambiare saluti con lo sguardo agli altri apprendisti del S.C.V. che stavano arrivando, e aspirare poi voluttuo¬samente l'ultima sigaretta prima di correre nel grande edificio di mattoni rossi.
Lui attese dieci minuti, poi corse alla sua Camaro del '69, aprì il cofano motore e collegò il deviatore allo spin¬terogeno dell'auto. Se qualcuno avesse cercato di mette¬re in moto la Camaro, il motore avrebbe girato una vol¬ta e si sarebbe spento. Esilarato dalla perfezione di quell'oggettino così piccolo, richiuse il cofano e corse alla sua macchina, poi andò a casa della sua amata.
La notte di primavera era buia, e il vento caldo gli da¬va anche protezione uditiva. Parcheggiò a un isolato di distanza e raggiunse cautamente il 3583 di Mentone Avenue, portando con sé una chiave inglese e una radio a transistor nascosta in un sacchetto di carta. Proprio mentre veniva raggiunto da una forte corrente di vento, mise la radio per terra di fronte alla finestra del soggior¬no della casa di Linda e alzò il volume al massimo. La notte venne schiantata dal punk trasmesso alla radio, e lui fracassò la finestra colpendola con la chiave inglese a tutta forza, poi afferrò la radio e tornò di corsa alla macchina.
Aspettò venti minuti, finché non ebbe la certezza che nessuno aveva sentito alcun rumore e che non fossero suonati allarmi muti. Poi tornò alla casa ed entrò nell'appartamento buio.
Richiuse le tende di fronte alla finestra rotta, inspirò profondamente e aspettò che gli occhi si abituassero al buio, poi lasciò via libera alla propria curiosità più pres¬sante e si diresse senza esitare verso il punto in cui do-veva trovarsi il bagno. Accese la luce e frugò nell'arma¬dietto delle medicine, poi controllò il completo da truc¬co sopra il gabinetto e frugò perfino nel cesto della bian¬cheria da lavare. La sua anima tirò un sospiro di sollievo. Non c'era traccia di contraccettivi di alcun ge¬nere. La sua amata era una donna casta.
Lasciò la porta socchiusa ed entrò nella camera da letto. Notò subito che non c'era luce, e accese la lampa¬da accanto al letto. Lavorò al bagliore diffuso, spalan¬cando l'antina del guardaroba, ansioso di toccare i tes¬suti che ricoprivano la sua amata.
L'armadio era pieno di abiti appesi agli attaccapanni, e lui li prese tutti con una sola bracciata e li portò nel bagno. Erano in maggior parte completi, di grande va¬rietà di tessuti e stili. Tremante, lui fece passare gli abiti di poliestere e cotone, gonne-pantaloni di finta seta, abiti eleganti in tweed; decorazioni a righe, rombi, qua¬dri. Tutto estremamente femminile e che diceva molto della natura raffinata e cercatrice di Linda Deverson. "Non sa chi è" si disse "e così compra questi abiti per ri¬flettere tutte le svariate cose che potrebbe essere".
Riportò il fagotto di vestiti nell'armadio e risistemò tutto, com'era, poi continuò a cercare altre prove della castità di Linda. Le trovò sul piedistallo del telefono: tutti i numeri scritti nell'agendina appartenevano a donne. Con il cuore esultante di gioia, andò in cucina e frugò nell'armadietto sotto il lavello finché non trovò una lattina di vernice nera e un pennello duro. Aprì la lattina, prese una grande pennellata di tinta e scrisse sulla parete della cucina CLANTON 14 ST. - CULVER CITY -VIVA LA RAZA. Per migliorare la messinscena, prese un tostapane e un registratore a cassette portatile e se li portò via.
Sistemato il tostapane sul sedile accanto, tornò all'Istituto per il S.C.V. e tolse il deviatore dall'auto di Linda, poi tornò a casa per meditare sulla raffinatezza della sua donna.
Il mercoledì sera successivo ci fu il primo raduno del S.C.V. sul tema "Domande e risposte". Lui aveva com¬prato il biglietto due giorni prima alla biglietteria auto¬matica vicino al suo negozio, ed era curioso di sentire quali domande Linda avrebbe rivolto ai suoi programmatori del S.C.V., che fino a quel momento non avevano avuto dialogo con i loro discepoli. Era sicuro che la sua amata avrebbe fatto domande intelligenti e improntate allo scetticismo.
Fuori dall'istituto c'era un corteo di bigotti con car¬telli su cui era scritto IL SINERGISMO È PECCATO! GESÙ È L'UNICA VIA! Lui rise mentre li oltrepassava. Era convinto che Gesù fosse una volgarità. Uno dei bigotti notò il suo sorriso sardonico e gli domandò se era stato salvato.
«Certo, venti volte» ribatté lui.
Il bigotto spalancò la bocca. Era stato insultato da molti pazzoidi sacrileghi, ma quello era un tipo nuovo. Si fece da parte e lasciò entrare nel palazzo quell'eretico indefinibile.
Una volta entrato diede il biglietto alla guardia del servizio di sicurezza, che gli passò un grosso cuscino, indicandogli la sala di riunione. Lui attraversò il corri¬doio adornato dalle foto degli adepti più celebri ed en¬trò in una grande sala occupata da gruppetti di gente che aspettava ansiosamente chiacchierando e squa¬drando i nuovi arrivati. Sistemò il cuscino in fondo alla sala e sedette con gli occhi fissi alla porta.
Lei entrò un istante più tardi, piazzandosi a pochi metri di distanza da lui. Il cuore gli diede un balzo, e co¬minciò a battere così forte che gli parve cancellare tutto il ciarlare emozionato riguardo scemenze psicologiche che regnava intorno. Abbassando gli occhi in grembo, assunse una postura meditativa per scoraggiare qual¬siasi tentativo di conversazione. Serrò gli occhi e si strinse le mani con tanta forza che gli parve di essere una bomba pronta a esplodere.
Poi le luci della sala vennero abbassate due volte, per indicare che la seduta stava per avere inizio. L'assem¬blea si zittì mentre le luci si spegnevano del tutto e veni¬vano accese candele, sistemate poi in posizione strate¬gica per tutta la sala. L'oscurità improvvisa lo avvolse, stringendolo come un'amante. Voltò la testa e scorse la sagoma di Linda stagliata contro la luce delle candele. "Sei mia" si disse, "mia".
Dagli altoparlanti cominciò a provenire una musica di sitar, che si risolse in una gentile voce maschile. "Sen¬tite i campi che vi separano dal vostro io più elevato dis¬solversi. Ascoltate il vostro io interiore unirsi alla siner¬gia degli altri campi vitali sintonizzati, ascoltateli pro¬durre vera energia e unione. Sentite la sintesi di voi stes¬si con tutto ciò che di buono c'è nel cosmo."
La voce divenne un sussurro. "Questa sera sono qui per parlare con voi di persona, per aiutarvi ad applicare i principi del sinergismo dei campi vitali alle vostre vite. Questa è la vostra terza riunione. Ora avete le armi ne¬cessarie a cambiare per sempre la vostra vita, ma so che avete certamente molto da chiedere. È per questo che sono qui. Luci, prego!"
Le luci si accesero improvvisamente, stordendolo. Modulando attentamente il respiro per mantenere il controllo, guardò un uomo dai capelli bianchi con una giacca sportiva blu raggiungere un leggio da conferenze ornato di fiori all'altra estremità della sala. L'uomo ven¬ne accolto con applausi e sguardi estasiati.
«Grazie» disse l'uomo. «C'è qualche domanda?»
Un signore anziano nelle prime file sollevò la mano e disse: «Sì, ce l'ho io una domanda. Cosa intendete fare per i negri?»
L'uomo al leggio diventò rosso fino alla radice dei ca¬pelli argentei e disse: «Be', ecco, non credo che questa sia una domanda pertinente. Penso...»
«Io invece sì!» ruggì il vecchio. «Voi avete tolto questo palazzo all'Alce, e avete la responsabilità civile di risolvere il problema dei negri!» Il vecchio si guardò intorno in cerca di sostegno senza trovare altro che al-zate di spalle imbarazzate e sguardi ostili. L'uomo al leggio schioccò le dita e nella sala entrarono due adole¬scenti robusti in giacche sportive.
Il vecchio continuò a sbraitare. «Sono stato mem¬bro della Loggia dell'Alce per 38 anni, e maledico il gior¬no che abbiamo venduto tutto a voi luride checche! Chiederò un'assemblea del consiglio di quartiere, farò passare un'ordinanza che mandi tutti i negri e i pazzoidi religiosi fuori da Wilshire. Sono membro di rispetto del...» I due adolescenti afferrarono l'uomo per le braccia e le gambe e lo trascinarono fuori, mentre lui scalciava, mordeva e strillava.
L'uomo di fronte al leggio fece segno di stare calmi, alzando le mani in un gesto supplichevole per zittire il cicaleccio seguito all'uscita di scena dell'uomo. Passan¬dosi la mano fra i capelli d'argento, l'uomo disse: «Ec¬co, avete visto qualcuno che ha una debole sinergia karmica! Il razzismo è segno di un chakra povero! Adesso...»
Linda Deverson alzò con uno sforzo la mano e disse: «Ho una domanda da fare. Riguarda quell'anziano. Non potrebbe darsi che il suo io interiore sia malato e che i suoi campi vitali originari siano così sconvolti dal¬la paura e dalla rabbia che non riesce a trovare altro sfo¬go che la furia? Che abbia magari anche solo un poco di gentilezza e curiosità, e sia venuto qui stasera per quel¬lo? Voglio dire, dopo tutto ha pagato per venire a questa riunione, ha...»
«I soldi gli verranno restituiti» ribatté l'uomo al leggio.
«Non è questo che volevo dire!» urlò Linda. «Ma non capite che non si può liquidare un uomo con una battuta su un chakra povero? Non vi...» Linda picchiò le mani sul cuscino poi si alzò in piedi e corse alla porta.
«Lasciatela andare!» esclamò il capogruppo. «I suoi pochi denari le verranno restituiti se lascia il corso. Lasciate che paghi per il suo chakra!»
Trattenendo a malapena l'emozione, lui si alzò per seguirla e per poco non venne gettato a terra da una donna alta e formosa che indossava un completo panta¬lone di velluto a coste. Quando uscì nel parcheggio, vide la donna discutere con Linda, che stava fumando una sigaretta asciugandosi dagli occhi lacrime di rabbia. Al riparo di una siepe d'arbusti, sentì ogni parola della loro conversazione.
«Merda, merda, merda» borbottava Linda.
«Lascia perdere» diceva la donna. «Non si può averle tutte vinte. Io cerco la mia strada da molti anni più di te. Ascolta la voce dell'esperienza.»
Linda rise. «Probabilmente hai ragione. Dio, quan¬to vorrei bere qualcosa!»
«Anche a me andrebbe» disse la donna. «Ti va uno scotch?»
«Lo adoro!»
«Ottimo. Ho una bottiglia di Chivas, a casa. Abito a Palisades. Sei qui in macchina?»
«Sì.»
«Vuoi seguirmi?»
Linda annuì e spense la sigaretta pestandola a terra. «Certo.»
Lui le tallonò mentre percorrevano le tortuose strade del Santa Monica Canyon, finché non raggiunsero un tranquillo isolato di grandi case fronteggiate da ampi giardini. Guardò la prima auto che accendeva l'indica-tore di destra ed entrava in una lunga via privata circo¬lare. Linda la seguì, parcheggiando dietro. Lui proseguì e accostò all'angolo, poi raggiunse con aria noncurante la casa in cui erano entrate le due donne.
Il giardino circondava tutta la casa, e il perimetro era costituito da alte piante di ibisco. Si fece largo fra di esse, rimanendo nell'ombra, facendo il giro comple¬to della casa prima di scorgere le due donne sedute su grandi poltrone vicine in un soggiorno confortevole. Abbassandosi, osservò Linda che sorseggiava lo scotch e rideva, immaginandola piacevolmente intrattenuta da lui, dalla sua arguzia e dai versi gioviali che scriveva per lei sola. Anche l'altra donna rideva, battendosi la mano sul ginocchio e riempiendo ogni pochi minuti il bicchiere di Linda da una bottiglia posata sul tavolino accanto a loro.
Rimase a guardare dalla finestra, sperduto nelle risa¬te di Linda, quando improvvisamente si rese conto che c'era qualcosa di drasticamente fuori posto. Il suo istin¬to non lo ingannava mai, e proprio quando era sul pun¬to di localizzare la ragione della sua inquietudine, vide le due donne avvicinarsi lentamente e baciarsi sulle labbra in perfetta sincronia, in un primo momento con qualche esitazione, poi appassionatamente, rovescian-do la bottiglia di scotch mentre si abbracciavano avida¬mente. Lui fece per urlare, poi si trattenne ficcandosi la mano in bocca. Alzò l'altro pugno per fracassare la fine¬stra, ma la ragione lo trattenne, e colpì invece il terreno.
Guardò di nuovo la vetrata. Le donne non si vedeva¬no più. Schiacciò freneticamente il volto contro il vetro e sforzò il collo fin quasi a slogarselo, finché non vide due paia di gambe nude abbracciate che si contorceva¬no per terra. A quel punto urlò davvero e il suono spet¬trale della propria voce lo spinse fuori in strada. Corse fino a sentirsi bruciare i polmoni e tremare le gambe. Poi cadde in ginocchio e rimase completamente immo¬bile, schiacciato dalle confortanti visioni delle altre sue venti donne. Ripensò a loro com'erano nel momento della salvezza, e a quanto assomigliavano a quelle che avevano tradito la sua amata tanti anni prima.
Sentendosi donare nuova forza dalla certezza che il suo scopo era sacrosanto, si rialzò e tornò alla propria auto.

Esercitare i rituali della vita di tutti i giorni gli permi¬se di continuare la sua opera durante la settimana suc¬cessiva, impedendo ai ricordi del tradimento di spinger¬lo ad azioni disperate.
Da mattina fino a tardo pomeriggio si occupava del negozio, poi iniziava il suo giro per smaltire le chiamate ricevute. Come ogni primavera, i matrimoni comincia¬vano a farsi più frequenti, e quell'anno lui poté permet-tersi di scegliere i servizi, passando l'inizio della sera a interrogare i genitori delle coppiette di fidanzati con¬vinti di stare interrogando lui. Decise che non avrebbe accettato incarichi da persone brutte o ripugnanti. Di fronte alla sua macchina fotografica voleva solo gente alta e bella e giovane.
Dopo aver sbrigato i suoi affari tornava a Palisades e rimaneva a guardare Linda Deverson e Carol March mentre facevano l'amore. In un completo nero, scalava un palo delle linee telefoniche avvolto dalle ombre e sbirciava dalla finestra della camera, al piano superio¬re, dove le due donne si univano su un letto ad acqua co¬perto di trapunte colorate. Verso mezzanotte, quando cominciava a sentirsi le braccia indolenzite dopo lun-ghe ore in cui era rimasto abbracciato al palo del telefo¬no, guardava Linda, appagata, mentre si alzava dal letto e Carol cercava di convincerla a passare la notte da lei. Era sempre così: il suo cervello, volontariamente annul¬lato per tutto il periodo in cui osservava le due che face¬vano l'amore, ritornava improvvisamente in vita rincor¬rendo ipotesi disparate quando Linda se ne andava. Perché, si chiedeva, Linda voleva andarsene? Forse emer¬geva in lei il senso di colpa? Rimorso per la degradazio¬ne in cui era caduta?
Allora saltava giù dal palo e correva a prendere la macchina, portandosi a fari spenti dietro la Camaro di Linda proprio mentre lei usciva dalla casa. Poi la segui¬va, mentre Linda tornava a casa per la strada più pano¬ramica possibile, come se avesse bisogno di ritrovare la bellezza dopo la sua notte di depravazione. Mantenen¬dosi dietro di lei a distanza di sicurezza, la lasciava al¬lontanare all'incrocio fra il Sunset Boulevard e la Paci¬fic Coast Highway, domandandosi come e quando po¬terle portare la salvezza.
Dopo altre due settimane di accurata sorveglianza, scrisse nel suo diario:

7/6/82
Linda Deverson è una tragica vittima di questi tempi. Ha una sensualità autodistruttiva che indica un forte bisogno di affetto materno. La March se ne avvantag¬gia, da quella vipera che è. Linda rimane insoddisfat¬ta sia nella sua sensualità sia nella disperata ricerca di una madre (la March è più vecchia di lei di almeno 15 anni!). Le sue escursioni notturne in cui visita le zone più struggenti di Pacific Palisades e santa Moni¬ca parlano chiaramente del senso di colpa che nutre e della sua natura raffinata, di cercatrice. Sente un grande bisogno di bellezza, nel crepuscolo della pro¬pria autodistruzione. Devo prenderla ora, dev'essere ora l'esatto momento della sua salvezza.

Sapendo di poter contare sulla propria conoscenza del luogo, allontanò dalla mente ogni pensiero riguardo al tempo, perdendosi completamente nel suo corteggia¬mento. Ma per quelle notti passate fuori stava comin-ciando a pagare un prezzo fatto di piccole mancanze nella sua vita professionale: rullini di pellicola usati e poi stupidamente esposti alla luce, appuntamenti di¬menticati, ordini per servizi fotografici persi. Tutte quelle mancanze dovevano cessare, e sapeva come. Do¬veva consumare il suo amore per Linda Deverson.
Fissò la data: martedì 14 giugno, tre giorni dopo. L'emozione dell'attesa cominciò a montare.
Lunedì 13 andò a un negozio di forniture automobili¬stiche nella Valley e comprò una latta di olio per motori, poi raggiunse un cimitero d'auto e disse al proprietario che stava cercando stemmi cromati da prendere dai co-fani. Mentre il proprietario si dava da fare per cercarli, lui raccolse a grandi manciate la limatura di ferro dal terreno e la mise in un sacchetto di carta. Il rottamaio tornò di corsa qualche minuto più tardi, mostrandogli un piccolo bulldog cromato. Sentendosi in vena di ge¬nerosità, lui offrì all'uomo dieci dollari. L'altro accettò. Tornando al negozio, all'altezza di Cahuenga Pass, gettò il bulldog fuori dal finestrino e fece una risata nel sentirlo tintinnare contro l'asfalto.
Il giorno del rito della consumazione venne accurata¬mente pianificato e sincronizzato al secondo. Appena alzato attaccò alla vetrina il cartello CHIUSO PER MALATTIA e tornò al suo appartamento, dove mise ancora la cas¬setta per la meditazione e rimase a fissare le foto di Lin¬da Deverson. Poi distrusse le pagine del suo diario che la riguardavano e fece una lunga passeggiata per il quartiere, fino a Echo Park, dove trascorse alcune ore in barca sul laghetto a dare da mangiare alle anatre. Al cre¬puscolo sistemò tutti gli strumenti rituali nel baule della macchina e si diresse al primo e ultimo appuntamen¬to con la sua amata.
Alle 8,45 aveva già parcheggiato a quattro porte di di¬stanza dall'abitazione di Carol March, e spostava conti¬nuamente lo sguardo dalla strada buia all'orologio del cruscotto. Alle 9,03 Linda Deverson svoltò nel vialetto. Lui scoppiava di gioia per quella perfezione. Era pun¬tualissima.
Partì alla volta di Santa Monica Canyon, verso l'in¬crocio fra West Channel Road e Biscayne, dove la West Channel si biforcava per condurre a un piccolo parco pieno di tavolini da picnic e dondoli. Se i suoi calcoli erano esatti, Linda sarebbe arrivata esattamente dieci minuti prima di mezzanotte. Accostò la macchina al margine della strada, al bordo del parchetto, nascosta agli sguardi da un filare di sicomori. Poi andò a fare una lunga passeggiata.
Fu di ritorno alle 11,40 e tolse l'equipaggiamento dal baule, indossando per prima cosa l'uniforme da guardia forestale e il cappello con l'Orso Smoky, la camicia di la¬na verde e la cintura degli utensili, poi montò i cartelli di deviazione fatti con sostegni da taglialegna e li si¬stemò all'incrocio.
Quindi portò la latta da venti litri di olio per motori e la limatura di ferro in mezzo alla strada e versò tutto quanto con cura sull'asfalto, finché la strada appena prima dei cartelli di deviazione non divenne una distesa di liquido violetto e scivoloso in mezzo al quale luccica¬vano frammenti acuminati d'acciaio. Poi non rimase più altro da fare che attendere.
Alle 11,52 sentì arrivare la sua macchina. Quando vi¬de i fari, ebbe un brivido, e dovette fare uno sforzo per trattenere intestino e vescica.
L'auto rallentò nell'avvicinarsi ai cartelli, frenò e svoltò a destra, poi fece un testacoda e slittò andando a finire contro i sostegni da taglialegna. Vi fu uno schian¬to quando la lamiera si fracassò contro il legno, poi due forti scoppi quando gli pneumatici posteriori esplosero. L'auto si fermò e Linda uscì sbattendo la portiera e borbottando: «Oh cazzo, oh merda» e facendo il giro della macchina per accertare il danno.
Raccogliendo tutto il coraggio e tutta la signorilità che aveva, uscì dagli alberi e gridò: «Sta bene, signori¬na? Ha fatto una brutta scivolata.»
Linda rispose: «Sì, sto bene. Ma la macchina...!»
Lui estrasse la pila elettrica dalla cintura e la rivolse verso l'oscurità, muovendola ad arco per tutto il campo diverse volte, prima di spostare il fascio luminoso sulla sua adorata. Linda socchiuse gli occhi per il bagliore e alzò una mano per farsi schermo. Lui le si avvicinò, puntando la luce verso terra.
Lei sorrise nel notare il cappello. Era arrivato l'Orso Smoky ad aiutarla. Si sentì felice di avere fumato l'ulti¬ma sigaretta da Carol. «Oh Dio, sono tanto contenta che sia arrivato» disse. «Ho visto il segnale di devia¬zione e poi ho slittato non so su cosa. Credo di avere due gomme a terra.»
«Nessun problema» disse lui. «Ho il capanno de¬gli attrezzi proprio qui vicino. Chiameremo una stazio¬ne di servizio aperta anche la notte.»
«Oh Dio, che rottura di palle» disse Linda, allun¬gando a tentoni la mano per cercare il braccio del suo salvatore. «Non sa quanto sono contenta di averla in¬contrata.»
Lui provò un fremito nel sentirsi toccare da lei. Si sentì bruciare di gioia, e disse: «È da tanto che ti amo. Da quando eravamo piccoli. Fin da quan...»
Linda ansimò. «Che dia...» disse. «Chi dia...»
Fece per indietreggiare, poi inciampò e cadde a terra. Lui allungò una mano per aiutarla ad alzarsi. Lei esitò. «No, per favore» piagnucolò. Lui portò la mano alla cintura e staccò l'accetta da incendio, a doppio taglio. Si chinò di nuovo, afferrando il polso di Linda e tirandola su nel momento esatto in cui faceva calare l'accetta in un potente arco. Il cranio di Linda scoppiò e tutto l'amore che lui provava si mosse al rallentatore, mentre sangue e frammenti di materia cerebrale schizzavano in aria, sospendendo quell'istante in mille eternità differenti. Fece calare l'accetta ancora e ancora, finché non si vide inzuppato di sangue e non ebbe sangue sul volto e in bocca e nel cervello, e tutta la sua anima divenne di un rosso scintillante e amoroso, il rosso splendente dei fiori che il mattino successivo avrebbe spedito alla sua amata. Per te, per te, per te sempre, mormorava il poeta nell'abbandonare quello che rimaneva di Linda Deverson e faceva ritorno alla sua macchina. La mia anima, la mia vita per te.

4

Il sergente Lloyd Hopkins della Squadra investigativa celebrò il diciassettesimo anniversario del suo matri¬monio con il Dipartimento di polizia di Los Angeles co¬me al solito, cioè prendendo un tabulato di rapporto sui crimini più recenti e sugli interrogatori compilato dalla Divisione Rampart, per poi tornare al suo quartiere in modo da assaporare l'aria del passato e quella del pre¬sente dal proprio avamposto di uomo che proteggeva l'innocenza da 17 anni.
La giornata di ottobre era nebbiosa e quasi calda. Lloyd prese la sua Matador non ufficiale dallo spiazzo del Parker Center e si diresse a ovest verso il Sunset, im¬merso nei ricordi: quasi vent'anni in cui tutti i suoi so¬gni si erano realizzati. Lavoro, moglie e tre bambine meravigliose. Il lavoro era emozionante e poco appa¬gante; il matrimonio forte nel senso che erano diventati forti lui e Janice; le bambine erano una felicità suffi¬ciente a dare una ragione per vivere. Quello che manca¬va era solo la gioia, e nella serena nostalgia per i tempi andati Lloyd ne meditò l'assenza durante la sua matu-rità. Aveva quarant'anni, non 23; se quei 17 anni da agente gli avevano insegnato qualcosa, era che tutte le speranze scemavano a mano a mano che ci si rendeva conto di come l'umanità stava andando a puttane, e che occorreva inventarsi mille ragioni diverse e contraddit¬torie per mantenere in vita i sogni più importanti.
Mentre si fermava all'incrocio fra il Sunset ed Echo Park, alzando i finestrini per scacciare il rumore della strada pensò che - ironia della sorte - quelle "ragioni" erano sempre costituite da donne, in aperta violazione dei suoi voti presbiteriani di matrimonio. Un'ironia che Janice, forte e testarda, non avrebbe mai capito. Lloyd sentì che quelle meditazioni stavano decisamente uscendo dal seminato, e si gettò avanti, ansioso di dirlo a voce alta, a se stesso e all'aria vuota che lo circondava: "Tra noi non funzionerebbe niente, Janice, se non aves¬si la possibilità di scaricarmi in quel modo. Tutte le pic¬cole cose si accumulerebbero e io alla fine esploderei. E tu mi odieresti. E anche le bambine. È per questo che lo faccio. È per questo che ti..." Lloyd non riuscì a costrin¬gersi a pronunciare la parola "tradisco".
Pose fine a quelle meditazioni e si fermò nel parcheg¬gio di un negozio di liquori, poi si tolse di tasca il tabula¬to del computer e si mise a pensare.
I fogli erano di un color rosa pallido e coperti di ca¬ratteri neri, fiancheggiati da file di fori paralleli. Lloyd li lesse sistemandoli in ordine cronologico, cominciando da quelli datati 75/9/82. Cominciando dai rapporti cri¬minali, lasciò che nella mente, del tutto libera da pen¬sieri, gli scivolassero le brevi descrizioni di stupri, rapi¬ne, scippi, furti ai negozi e atti di teppismo. Le descri¬zioni dei sospetti e di ogni tipo di arma, dalle mazze da baseball alle mitragliatrici, erano registrate con periodi secchi e volontariamente smozzicati. Lloyd li lesse tre volte, sentendo di memorizzare sempre meglio fatti e cifre a ogni rilettura. Benedisse Evelyn Wood e il suo metodo, grazie al quale era in grado di divorare le paro¬le stampate al ritmo di tremila al minuto.
Poi passò ai rapporti degli interrogatori in loco. Gen¬te fermata per la strada, trattenuta per breve tempo e in¬terrogata, quindi rilasciata. Lloyd li lesse quattro volte, realizzando a ogni rilettura che c'erano dei collegamen¬ti da fare. Stava per ripassare un'altra volta tutto il pac¬co di tabulati, quando trovò il punto focale dell'intuizio¬ne che stava salendo alla superficie. Frugò accanitamente tra i fogli di carta rosa e trovò quello che cercava: Verbale 10691, 6/10/82. Rapina a mano armata.
Verso le 23,30 di giovedì 6 ottobre, il Black Cat Bar all'incrocio fra il Sunset e la Vendome era stato rapina¬to da due messicani. Età non definita, ma si presumeva fossero giovani. Avevano in testa calze di seta per ma-scherare i lineamenti, portavano "grossi" revolver e ave¬vano svuotato il registratore di cassa prima di costrin¬gere il gestore a chiudere il locale. Poi avevano costretto i clienti a stendersi per terra. Mentre erano distesi, i la¬dri li avevano alleggeriti di portafogli e gioielli. Un istante dopo erano scappati, avvertendo che il loro "rin¬calzo" sarebbe rimasto fuori armato di mitragliatrice per venti minuti. Prima di andarsene avevano tagliato i cavi del telefono. Cinque minuti dopo il barista era cor¬so fuori. Non c'era nessun rincalzo.
"Stupidi coglioni" pensò Lloyd, "rischiare minimo cinque anni di galera per un migliaio di dollari." Riles¬se il verbale d'indagine, compilato da un agente di pat¬tuglia della Rampart: 7/10/82, ore 1,05. "Interrogati due uomini bianchi fuori residenza al 2269 di Tracy. Bevevano vodka seduti su una Firebird vecchio model¬lo, targa HBS 027. Affermano che la macchina non è lo¬ro, ma che abitano nella casa. Perquisiti da me e dal collega, niente armi. Ricevuta chiamata urgente prima di poter controllare fedina." Sotto c'era scritto il nome dell'agente.
Lloyd rimescolò nel cervello le ultime informazioni, pensando che era triste che lui dovesse conoscere nei dettagli un quartiere meglio degli agenti che lo pattu¬gliavano. Il numero 2269 di Tracy Street era un vecchio rifugio per delinquenti fin da quando lui frequentava il liceo vent'anni prima, ai tempi in cui ospitava un istitu¬to di recupero sociale per ex carcerati L'ex gangster dal grande carisma che aveva condotto tutta l'impresa con i fondi dello stato si era appropriato indebitamente di un carico di droga dalle agenzie assistenziali locali prima di vendere la casa a un vecchio amico di Folsom per ta¬gliare poi la corda in direzione del confine e non farsi vedere più. Il suo amico aveva immediatamente assun¬to un avvocato per poter tenere la casa per sé. Aveva vin¬to la sua battaglia in tribunale e nella vecchia casa orna¬ta di legni smerciava droga di ottima qualità. Lloyd ri¬cordò che i suoi compagni di scuola c'erano andati a comprare degli spinelli, verso la fine degli anni Cin¬quanta. Sapeva che la casa era stata venduta a tutta una serie di tipi poco raccomandabili e nel quartiere veniva soprannominata "Casa dei Gangster".
Lloyd raggiunse il Black Cat Bar. Il barista capì subi¬to che era un poliziotto. «Desidera, agente?» disse. «Spero che non ci siano lamentele.»
«No, nessuna» disse Lloyd. «Sono qui per la ra¬pina del sei ottobre. Era lei a occuparsi del bar quella sera?»
«Sì. Ero qui. Avete scoperto qualche traccia? Sono arrivati due suoi colleghi il giorno dopo, poi più niente.»
«Per il momento nessuna pista. Lei sa...»
Lloyd venne distratto dal rumore del Jukebox che en¬trò in funzione in quel momento, sparando discomusic. «Può spegnere quella roba?» disse. «Non posso competere con un'orchestra.»
Il barista rise. «Non è mica un'orchestra, sono i Di¬sco Doggies. Non le piacciono?»
Lloyd non capiva se l'uomo voleva solo essere gentile o stava cercando di fargli delle avance. Gli omosessuali erano sempre difficili da capire. «Non sono molto al passo con la moda. Lo spenga, okay? Subito, per favore.»
Il barista si accorse del tono di voce teso di Lloyd e obbedì, facendo un po' di confusione nel tirare fuori dalla presa il cavo elettrico del jukebox. Tornò al banco e disse con cautela: «Cosa voleva sapere?»
Rinfrancato dal silenzio, Lloyd disse: «Solo una co¬sa. È certo che i due rapinatori fossero messicani?»
«No.»
«Non ha forse...»
«Erano mascherati, agente. Io ho solo detto ai poli¬ziotti che parlavano inglese con accento messicano. È questo che ho detto.»
«Grazie» disse Lloyd, e corse in macchina.
Andò direttamente al 2269 di Tracy Street, la Casa dei Gangster. Come aveva immaginato; la vecchia abita¬zione era deserta. Ragnatele, polvere e preservativi usa¬ti che coprivano il pavimento di legno sconnesso. Im¬pronte perfettamente nitide, che Lloyd capì essere re¬centi. Le seguì fino alla cucina. Tutti gli impianti erano stati strappati via, e il pavimento era pieno di escremen¬ti di topo. Lloyd aprì armadi e cassetti, trovando solo polvere, ragnatele e vecchi alimenti ammuffiti e infesta¬ti dai vermi. Poi aprì un cestino da pane decorato a dise¬gni floreali e fece un balzo in aria, immaginando di an¬dare diritto a canestro, urlando di gioia nel vedere quel-lo che c'era: una scatoletta nuova di zecca di pallottole Remington calibro 38 a punta cava, e due paia di collant Sheer Energy. Lloyd gridò di nuovo: "Grazie, o fecondi giardini della mia infanzia!".
Un paio di telefonate al Dipartimento della motoriz¬zazione civile della California e al Dipartimento di poli¬zia di Los Angeles gli diedero conferma. Una Pontiac Firebird del 1979, targata HBS 027, era registrata a nome di Richard Douglas Wilson, 11879 Saticoy Street, Van Nuys. Fu facile procurarsi le informazioni restanti: Ri¬chard Douglas Wilson, maschio di razza bianca, 34 an¬ni, era stato arrestato due volte per rapina a mano ar¬mata ed era recentemente uscito da San Quentin per buona condotta dopo aver scontato tre anni e mezzo dei cinque inflitti.
Sentendosi scoppiare il cuore di gioia, tranquillo e si¬curo nella cabina telefonica isolata, Lloyd fece un terzo numero, quello di casa dell'uomo che un tempo era sta¬to suo mentore e adesso era suo seguace, il capitano Arthur Peltz
«Dutch? Sono Lloyd. Che fai?»
Peltz disse, sbadigliando: «Facevo un pisolino, Lloyd. Oggi sono fuori servizio. Sto invecchiando, e ho bisogno di fare una siesta nel pomeriggio. Che succede? Mi sembri su di giri.»
Lloyd rise. «Infatti. Hai voglia di beccare un paio di tizi per rapina a mano armata?»
«Tu e io da soli?»
«Certo. Che ti prende? Lo avremo fatto un milione di volte.»
«Come minimo. Forse anche due. Facciamo un controllo?»
«Sì, nell'appartamento di uno dei due, a Van Nuys. Va bene alla stazione di Van Nuys fra un'ora?»
«Ci sarò. Guarda che se hai preso un granchio mi offri la cena.»
«Quando vuoi» disse Lloyd, e riattaccò.

Arthur Peltz era stato il primo poliziotto di Los Ange¬les a riconoscere e annunciare al mondo il genio di Lloyd Hopkins. Era accaduto quando Lloyd aveva 27 anni e lavorava di pattuglia per la Divisione centrale. Era il 1969, e l'epoca hippy dell'amore libero e delle "buone vibrazioni" stava tramontando, lasciandosi alle spalle un popolo di giovani poveri e drogati che viveva¬no nei quartieri più miseri di Los Angeles, facevano la questua per le strade, rubavano nei negozi, dormivano nei parchi, nei cortili e sulle soglie delle abitazioni e contribuivano a far salire il numero degli arresti per piccoli reati e possesso di stupefacenti.
I bravi cittadini di Los Angeles avevano una grande paura dei nomadi hippy, soprattutto dopo gli omicidi Tate-La Bianca, attribuiti a Charles Manson e alla sua banda di capelloni. Il Dipartimento di polizia di Los Angeles veniva incalzato sempre di più perché desse una bella lezione a quei menestrelli d'amore ormai de¬caduti; e il Dipartimento aveva obbedito, organizzando battute contro i campi hippy, fermando spesso i veicoli in cui si trovavano capelloni dall'aria sospetta e, in ge¬nerale, facendogli capire che a Los Angeles erano con¬siderati personae non gratae. I risultati furono soddisfa¬centi: gli hippy cominciarono a evitare di uscire di casa e in generale vi fu la tendenza a "darsi una calmata". Poi cinque giovani capelloni erano stati uccisi a colpi di pistola per le strade di Hollywood nel giro di tre set¬timane.
Il caso era stato affidato al sergente Arthur Peltz, det¬to "Dutch", che a quei tempi aveva 41 anni e lavorava come agente investigativo alla Omicidi. Si era trovato con ben pochi indizi su cui lavorare, se non la decisa sensazione che gli omicidi di quei giovani, sconosciuti gli uni agli altri, fossero collegati al giro della droga, e che i cosiddetti "marchi rituali" incisi sui loro corpi, una lettera H, fossero solo uno stratagemma.
Le indagini sul passato delle vittime non avevano sor¬tito risultati. Erano gente inutile che viveva dentro una subcultura di gente inutile. Dutch Peltz era confuso. Ma era un intellettuale che amava la contemplazione, e così aveva deciso di prendersi le due settimane di vacanza che gli spettavano proprio in coincidenza con quel caso. Era andato nell'Oregon a pescare, e ne era tornato con la mente sgombra, rinnovato nello spirito e felice di sco-prire che il "Cacciatore di hippy", come lo aveva battez¬zato la stampa, non aveva fatto altre vittime.
Ma a Los Angeles stavano succedendo cose tragiche. La zona era stata invasa da un traffico di eroina brown messicana di alta qualità, che veniva da una sorgente ancora sconosciuta. L'istinto diceva a Dutch Peltz che fra quell'eroina e gli omicidi di poco prima c'era un col¬legamento. Ma non aveva la minima idea di quale fosse.
In una fredda serata, più o meno a quella stessa ora, l'agente Lloyd Hopkins aveva detto al suo collega che aveva voglia di qualcosa di dolce, e aveva suggerito di fermarsi a un supermercato o un negozio di liquori per comprare dei biscotti o dei pasticcini. Il suo collega ave¬va scosso la testa, borbottando che a quell'ora era aper¬to solo il Donut Despair. Lloyd aveva meditato sui pro e i contro: la sua golosità contro le peggiori ciambelle del mondo, servite da immigrati clandestini sempre sco¬stanti o troppo ossequiosi.
Vinse la gola, solo che gli immigrati non c'erano più. Lloyd spalancò la bocca nel sedersi al banco. Al Donut Despair (o meglio, il Donut Deelite, aperto tutta notte!), come il mondo lo conosceva, venivano assunti solo ed esclusivamente immigrati clandestini in tutte le filiali. Era la politica del proprietario della catena, Morris Dreyfus, ex capobanda: assumere dei clandestini e pa¬garli sotto il minimo salariale, compensando la diffe¬renza con un alloggio di fortuna nelle sue numerose proprietà del Southside. E ora, invece...
Lloyd guardò l'hippy annoiato che gli serviva una taz¬za di caffè e tre ciambelle glassate per poi ritirarsi in una stanza del retro, lasciando il banco incustodito. Poi sentì dei sussurri furtivi, seguiti da uno sbattere di por¬tiera e un motore che partiva. Il barista hippy riapparve dopo un istante e non guardò Lloyd negli occhi. Lloyd capì che era per qualcosa di più che per la sua uniforme. Capì che qualcosa non andava.
Il giorno seguente, armato di una copia delle Pagine Gialle di Los Angeles, Lloyd, in borghese, aveva fatto il giro di più di venti Donut Despair, per trovare ovunque capelloni a servire al banco. Per due volte si era seduto a ordinare del caffè, lasciando che il barista vedesse, ma come per sua disattenzione, la calibro 38 che portava fuori servizio. In entrambi i casi la reazione era stata di terrore gelido e violento.
"Droga" si era detto Lloyd nel tornare a casa quella sera. "Droga. Droga. Qualunque coglione con un mini¬mo di esperienza della strada avrebbe capito che uno grosso come me, con i capelli corti e la faccia onesta, è uno sbirro. Quei due ragazzi lo hanno capito appena so¬no entrato nel locale. Ma è stata la pistola a spaventarli. La pistola."
Era stato allora che Lloyd aveva pensato al Cacciato¬re di Hippy e a quel giro di eroina apparentemente non collegato a niente. Appena tornato a casa aveva chiama¬to la stazione di Hollywood, aveva lasciato nome e nu-mero di matricola, e aveva chiesto di parlare con qual¬cuno della Omicidi.
Dutch Peltz era rimasto più colpito dalla corporatura del giovane poliziotto che non dal fatto che avevano se¬guito quasi lo stesso percorso mentale. Aveva raggiunto un'ipotesi, cioè che Big Mo Dreyfus smerciava roba nei suoi locali e che per qualche ragione certa gente ci stes¬se rimettendo le penne. Ma era stato il giovane Hopkins, con quel suo fulgido e innato intuito per capire gli aspetti più tetri della vita, a sconvolgerlo.
Peltz era rimasto ad ascoltare Lloyd per ore mentre lui gli parlava del suo desiderio di proteggere l'innocen¬za, e di come si era allenato a captare le conversazioni più importanti che sentiva nei luoghi affollati, di come sapesse leggere le labbra e memorizzare insieme al mo¬mento e al luogo esatti qualsiasi faccia vista per almeno un secondo. Quando era tornato a casa, Dutch Peltz aveva detto a sua moglie: "Stasera ho incontrato un ge-nio. Credo che cambierà tutto".
Era stata un'affermazione profetica.
Il giorno seguente Peltz aveva cominciato a indagare sugli aspetti finanziari delle attività di Morris Dreyfus. Era venuto a sapere che Dreyfus aveva cambiato in con¬tanti tutte le azioni e i certificati di credito, e che stava contattando alcuni ex affiliati di bande per vendere a bassissimo prezzo l'intera catena Donut Deelite. Dopo ulteriori indagini aveva scoperto che Dreyfus aveva fat¬to da poco richiesta di passaporto e aveva venduto le sue case di Palm Springs e Lake Arrowhead.
Peltz aveva cominciato a sorvegliare Dreyfus, se¬guendolo mentre passava regolarmente in rassegna i suoi locali, dove altrettanto regolarmente chiamava il barista nel retro e ripartiva qualche momento dopo. Quella sera Peltz e un veterano della Narcotici avevano tallonato Dreyfus fino alla casa di Reyes Medina, a Benedict Canyon. Reyes era un messicano sospettato di fa¬re da collegamento fra i cartelli della coltivazione dei papaveri nel Messico meridionale e i grossi spacciatori americani di eroina. Dreyfus era rimasto nella casa per due ore, e ne era uscito con l'aria sconvolta.
La mattina successiva Peltz si era recato al Donut Deelite all'incrocio fra la Quarantatreesima e il Normandie. Aveva parcheggiato dall'altro lato della strada ed era rimasto ad aspettare finché non erano usciti tutti i clienti, poi era entrato e aveva mostrato il distintivo al giovane che serviva al banco, dicendogli che voleva informazioni, e non certo su come si facevano le ciam¬belle. Il giovane aveva cercato di scappare nel retro, ma Peltz lo aveva placcato e gettato a terra, sussurrandogli: "Dov'è la roba? Dove hai messo la merda, brutto capel¬lone del cazzo?" e alla fine il giovane aveva cominciato a balbettare la storiella che lui si era immaginato.
Mo Dreyfus passava l'eroina brown messicana agli spacciatori medi, che la rivendevano facendoci un mucchio di soldi. Quello che Peltz non si era aspettato era che Dreyfus aveva un cancro terminale, e che stava raccogliendo capitali per costosissime cure da parte di una specie di medico-stregone brasiliano. Si stava pas¬sando parola che tutti i Donut Deelite dovevano chiu¬dere con le vendite di roba entro la settimana seguente, quando sarebbe arrivato il nuovo proprietario. A quel punto Big Mo sarebbe già stato in viaggio verso il Bra¬sile, e tutti i pusher-baristi sarebbero stati contattati da un "ricco signore messicano" che avrebbe dato a tutti la "buonuscita".
Trovati novanta grammi di eroina sotto un congela¬tore per carni, Peltz aveva ammanettato il giovane e lo aveva portato alla prigione della Centrale, dove era sta¬to registrato come testimone oculare. Poi Peltz aveva preso l'ascensore ed era salito all'ottavo piano, agli uffi¬ci della Divisione narcotici del Dipartimento di polizia di Los Angeles.
Due ore dopo, ottenuti i mandati di perquisizione e arresto, quattro agenti investigativi armati di mitra era¬no entrati nella casa di Morris Dreyfus e lo avevano ar¬restato per possesso di eroina, possesso finalizzato allo spaccio, spaccio di stupefacenti e associazione per de¬linquere. Nella sua cella, contro i consigli del suo avvo¬cato, Morris Dreyfus aveva fatto il collegamento che aveva convinto Dutch Peltz oltre ogni possibilità di dub-bio che Lloyd Hopkins era un genio: a bassa voce, Drey¬fus aveva raccontato che dietro la morte dei cinque hippy c'era uno Squadrone della Morte di stranieri clandestini che ora voleva 250 mila dollari da lui per liquida¬re en masse tutta la sua forza lavoro di immigrati. Gli hippy erano stati uccisi in seguito a una tattica terrori¬stica, scelti a caso per sviare l'attenzione dalla catena Donut Deelite.
La mattina seguente una decina di auto della polizia aveva bloccato su entrambi i lati il 1100 di Wabash Street, nella zona est di Los Angeles. Gli agenti, con ad¬dosso giubbetti antiproiettile, avevano circondato il pa¬lazzo che ospitava i membri dello Squadrone della Mor¬te. Armati di AK-47 automatici, avevano sfondato la por¬ta sparando raffiche di avvertimento sopra la testa dei quattro uomini e delle tre donne intenti a fare colazio¬ne. I sette si erano stoicamente sottomessi all'ammanettamento, e una squadra di perquisizione aveva control¬lato il resto dell'edificio. In totale erano stati arrestati undici clandestini. Dopo una snervante serie di interro¬gatori, tre uomini avevano confessato di aver commes¬so gli omicidi di Hollywood. Erano stati accusati di cin¬que omicidi di primo grado e si erano presi l'ergastolo.
Il giorno dopo la confessione, Dutch Peltz era andato a cercare Lloyd Hopkins. Lo aveva trovato al parcheg¬gio della Divisione centrale, appena finito il turno di servizio. Nell'aprile la macchina, Lloyd si era sentito battere sulla spalla. Si era voltato e aveva visto Peltz che strisciava nervosamente i piedi per terra, con gli occhi fissi su di lui in quello che poteva sembrargli soltanto uno sguardo di amore sconfinato.
"Grazie, ragazzo" aveva detto il poliziotto più anzia¬no. "Mi hai fatto fare una gran figura. Volevo dirti..."
"Nessuno le crederebbe" lo aveva interrotto Lloyd. "Lasci che le cose vadano come sono."
"Non vuoi..."
"Ha fatto lei il lavoro, sergente. Io mi sono limitato a darle la teoria."
Peltz aveva riso tanto da far pensare a Lloyd che gli poteva venire un infarto. Poi, Peltz aveva ritrovato il fia¬to e aveva detto: "Ma tu chi sei?"
Lloyd aveva dato un colpetto all'antenna della sua macchina e aveva risposto: "Non lo so. Cristo, non lo so proprio."
"Io ti posso insegnare qualcosa" aveva detto Dutch Peltz. "Sono nella Omicidi da undici anni. Io ti posso dare molte informazioni concrete e pratiche, il frutto di molta esperienza."
"Cosa vuole da me?" aveva chiesto Lloyd.
Peltz aveva meditato sulla domanda per un istante. "Forse solo conoscerti" aveva risposto.
I due uomini si erano fissati in silenzio. Poi Lloyd aveva teso lentamente la mano, suggellando così il loro destino.
Era stato Lloyd il maestro, quasi fin dall'inizio. Dut¬ch gli forniva la sua esperienza sotto forma di aneddoti in cui Lloyd scopriva le umane verità nascoste sotto la superficie e le isolava per esaminarle. Avevano passato centinaia di ore a parlare, a rimasticare i vecchi crimini e discutere di argomenti di tutti i tipi, da come il carat¬tere delle donne si riflettesse nel loro modo di vestire a certi rapinatori che si portavano dietro i loro cani come sotterfugio. I due uomini avevano trovato rifugio l'uno nell'altro. Lloyd sapeva di avere finalmente trovato un poliziotto che non lo avrebbe mai guardato male quan¬do lui indietreggiava al rumore di una radio e non gli avrebbe serbato rancore quando insisteva per fare le co¬se a modo suo, Dutch, invece, sapeva di avere finalmen¬te trovato il più grande genio poliziesco della terra. Quando Lloyd era passato all'esame per il grado di ser¬gente, era stato Dutch a smuovere le sue amicizie per farlo assegnare alla Divisione investigativa, dando così inizio a una serie di favori mai ricambiati durata tutto l'arco della sua carriera.
Era stato allora che Lloyd Hopkins aveva potuto mo¬strare tutto il suo straordinario intuito, con risultati stu¬pefacenti: il maggior numero di arresti e condanne per qualsiasi agente di polizia in tutta la storia del Diparti-mento, in un periodo di cinque anni. La reputazione di Lloyd crebbe fino al punto in cui gli bastava chiedere per avere un'autonomia quasi totale e il rispetto anche dei poliziotti più recalcitranti e conservatori. E Dutch Peltz assisteva a tutto ciò con orgoglio, ben felice di es¬sere illuminato della maestosa luce del genio di un uo¬mo che amava più della sua stessa vita.
Lloyd raggiunse Dutch Peltz nella sala riunioni della stazione di polizia di Van Nuys, mentre camminava ra¬sente i muri leggendo i rapporti criminali appiccicati al¬le bacheche. Lui si schiarì la gola, e il poliziotto più an¬ziano si girò con le mani alzate, fingendo di arrendersi.
«Cristo, Lloyd» disse «in nome di Dio, quando imparerai a non camminare così silenziosamente quan¬do sei fra amici? Un orso bruno con un passo felino. Cri¬sto santo!»
Lloyd rise nel sentire quell'affetto. Lo rendeva felice. «Hai un bell'aspetto, Dutch. Stai sempre seduto a una scrivania e perdi anche peso! Cazzo, è un miracolo.»
Dutch strinse calorosamente la mano a Lloyd con en¬trambe le sue. «I miracoli non c'entrano, ragazzo mio. Ho smesso di fumare e sono calato di peso. Che c'è in pentola?»
«Un pigliainculo. Uno che lavora con un socio. Ha un appartamento nella Saticoy. Pensavo che potevamo fargli visita e vedere se c'è la sua macchina in giro. Se è in casa chiameremo un paio di unità di rinforzo, altri¬menti lo aspettiamo fuori e lo prendiamo noi due. Ti va?»
«Mi va. Ho qui il mio Ithaca a pompa. Come si chia¬ma lo stronzo?»
«Richard Douglas Wilson, bianco, 34 anni. Fregato due volte a San Quentin.»
«Sembra un gran simpaticone.»
«Già, proprio una merda in piena regola.»
«Mi dici il resto in macchina?»
«Sì, andiamo.»
Richard Douglas Wilson non era in casa. Dopo aver controllato ogni zona, stradina privata e parcheggio dell'isolato 11800 di Saticoy Street in cerca di una Firebird del 79, Lloyd fece il giro del numero 11879: una pa-lazzina diroccata a due plani, molto malmessa. Sulla cassetta delle lettere videro che Wilson abitava al numero 14. Lloyd trovò l'appartamento nel retro dell'edificio. C'era una finestra scorrevole coperta da uno schermo, spalancata. Lui diede un'occhiata all'interno, poi tornò da Dutch, che aveva parcheggiato dall'altra parte della via, all'ombra di una rampa d'uscita dell'autostrada.
«Niente auto e niente Wilson, Dutch» disse Lloyd «Ho guardato dalla finestra. Stereo nuovo di zecca, TV nuova, abiti nuovi. Soldi, un mucchio di soldi.»
Dutch rise. «Sei contento, Lloyd?»
«Certo. E tu?»
«Se lo sei tu, sì.»
I due poliziotti si misero in attesa. Dutch aveva porta¬to un thermos di caffè, e quando il crepuscolo attenuò il caldo e lo smog, ne versò due tazze. Porgendone una a Lloyd, spezzò quel silenzio lungo e fastidioso. «L'altro giorno ho incontrato Janice. Dovevo testimoniare a fa¬vore di un mio vecchio informatore a Santa Monica. Si era fatto prendere per rapina, così ero andato a fare quattro chiacchiere col procuratore distrettuale per dir¬gli che quel povero coglione si faceva le pere e chiedergli se poteva convincere il giudice a mandarlo in un centro di rieducazione per tossicomani. Be', per farla breve, mi sono fermato a una tavola calda, e vedo Janice. Con lei c'era una checca che le mostrava un campionario di tes¬suti, e ci dava dentro per cercare di fare affari. Poi la checca se ne va sculettando, e Janice mi invita a seder¬mi. E facciamo quattro chiacchiere. Mi dice del nego¬zio, che va bene, che si sta facendo un nome, che le bambine vanno a meraviglia. Mi dice che tu passi trop¬po tempo a lavorare, ma ormai sono anni che te lo dice e tanto ormai non può più cambiarti. Be', lei ha un'aria un po' schifata; così cerco di prendere le tue parti. Le faccio: "I geni non hanno regole, tesoro. Lloyd ti ama tanto. Vedrai che Lloyd cambierà se gli dai un po' di tempo". A quel punto Janice urla: "Lloyd non è capace di cambiare, e quel suo amore di merda non mi basta! " Ed è finita così, Lloyd. Non ha voluto parlare più. Io ho cercato di cambiare argomento, ma Janice continua a tirare frecciatine enigmatiche contro di te. Alla fine salta su e mi dà un bacio su una guancia, e dice: "Scusami, Dutch. Lo so che sono una stronza", e scappa via.»
Dutch smorzò la voce mentre cercava altre parole per terminare la storia. «Volevo solo dirtelo» finì. «Cre¬do che i compagni di squadra non debbano avere segre¬ti l'uno per l'altro.»
Lloyd sorseggiò il caffè, sentendosi la mente al tempo stesso quieta e turbolenta, come sempre quando si ren¬deva conto che nei suoi sogni si aprivano delle falle. «E qual è la conclusione, socio?»
«La conclusione?»
«Il segreto, crucco rincoglionito! Quello che c'era fra le righe! Possibile che non hai imparato un cazzo dai miei insegnamenti? Cosa stava cercando di dirti vera¬mente Janice?»
Dutch ingoiò il suo orgoglio ferito e sputò tutto con rabbia. «Per me ha capito che te la spassi con le altre, cervellone. Per me ha capito che il migliore dei migliori di Los Angeles corre dietro alla figa e se la fa con un mucchio di troie sfatte che non arrivano neanche alla suola della donna che ha sposato. È questo che penso.»
Lloyd raggiunse la calma dopo l'ira, e si accorse che le falle nei suoi sogni si allargavano. «Ti sbagli» disse stringendo gentilmente la spalla a Dutch. «Secondo me, se fosse così, Janice me lo farebbe sapere. E Dutch, ti dico un'altra cosa. Le altre donne della mia vita non sono troie.»
«Allora cosa sarebbero?»
«Donne, e basta. E io le amo tutte.»
«Cosa? Tu le ami?»
Lloyd capì mentre pronunciava le parole che quello era uno dei momenti più fulgidi della sua vita. «Sì. Amo tutte le donne con cui vado a letto, e amo le mie bambine e anche mia moglie.»
Dopo quattro ore di sorveglianza silenziosa, Dutch si era appisolato sul sedile di guida, con la testa appoggia¬ta al finestrino semiaperto. Lloyd rimaneva sveglio e at¬tento, sorseggiando caffè e tenendo gli occhi incollati al sentiero privato del numero 11879 di Saticoy Street. Erano passate da poco le dieci quando vide una Firebird ultimo modello accostare all'edificio.
Svegliò Dutch dandogli di gomito, posandogli una mano sulla bocca. «È arrivato il nostro amico, Dutch. Ha appena parcheggiato, e sta ancora in macchina. Per me è meglio se usciamo dalla mia parte e facciamo il gi¬ro per prenderlo da dietro.»
Dutch annuì e passò a Lloyd il fucile. Lloyd si strinse per uscire dalla portiera del lato passeggeri, tenendo il fucile schiacciato contro la gamba destra. Dutch gli die¬de corda: sbatté la portiera e mise un braccio sulla spal¬la di Lloyd, esclamando: «Dio, sono fatto!» e si esibì in un'ottima imitazione di un ubriacone barcollante, appoggiandosi a Lloyd e farfugliando scemenze.
Lloyd tenne gli occhi fissi sulla Firebird bianca, aspettando che si aprissero le portiere, domandandosi perché mai Wilson fosse ancora dentro. Quando arriva¬rono alla fine dell'isolato passò a Dutch l'Ithaca a pom¬pa e disse: «Tu prendi il guidatore, io mi occupo del passeggero.» Dutch annuì e infilò un proiettile in can¬na. Lloyd sussurrò: «Forza» e i due uomini si china¬rono e raggiunsero di corsa la macchina, arrivando dai due lati opposti, mentre Dutch puntava il fucile contro il finestrino del lato guida sussurrando: «Polizia. Non muovetevi o siete morti.» Lloyd appoggiò la calibro 38 al montante dell'auto e disse alla donna seduta accanto al guidatore: «Ferma dove sei, tesoro. Mani sul cru¬scotto. Vogliamo il tuo fidanzato, non te.»
La donna ricacciò indietro uno strillo e obbedì lenta¬mente agli ordini di Lloyd. L'uomo al volante cominciò a berciare: «Ehi, amico, ci dev'essere uno sbaglio, io non ho fatto niente!»
Dutch strinse il grilletto e appoggiò la canna sul naso all'uomo, dicendo: «Metti le mani dietro la testa. Ades¬so io apro la portiera lentamente. Tu esci altrettanto lentamente o ti faccio secco.»
L'uomo annuì e si intrecciò le mani tremanti dietro la nuca. Dutch ritrasse il fucile e fece per aprire la portiera dell'auto. Non appena la serratura scattò, l'uomo colpì la portiera con tutte e due le gambe. Dutch fu colpito al tronco e gettato indietro. Dal fucile esplose un colpo che finì in aria quando il dito gli si contrasse d'impulso sul grilletto. L'uomo saltò fuori dall'auto e ricadde sulla strada, poi si rialzò e cominciò a correre.
Lloyd lasciò perdere la donna e sparò un colpo di av¬vertimento in aria, gridando: «Fermati, fermati!»
Dutch si alzò in piedi e sparò alla cieca. Lloyd vide l'ombra in fuga che zigzagava per anticipare i colpi suc¬cessivi. Seguì l'ondeggiare dell'uomo e sparò tre colpi all'altezza delle spalle. L'uomo barcollò e cadde sul sel¬ciato. Prima che Lloyd potesse avvicinarglisi cautamen¬te, Dutch lo aveva già raggiunto e lo stava colpendo alle costole col calcio del fucile. Lloyd tirò indietro Dutch, poi ammanettò il sospetto con le mani dietro la schiena.
L'uomo era stato colpito due volte appena sotto la clavicola. Lloyd notò che erano due colpi puliti, i fori d'uscita erano netti. Lo sollevò con forza per farlo alzare e disse a Dutch: «Ambulanza e rinforzi.» Voltando lo sguardo verso la folla che si stava formando sui due lati della strada, aggiunse: «E di' a quella gente di togliersi dal marciapiede.»
Lloyd rivolse la sua attenzione al sospetto. «Ri¬chard Douglas Wilson, giusto?»
«Non sono obbligato a dirti niente» rispose l'uo¬mo.
«Già, proprio così. Okay, sistemiamo le formalità. Hai il diritto di non rispondere. Hai diritto alla presenza di un avvocato durante l'interrogatorio. Se non puoi permetterti un avvocato privato, te ne verrà fornito uno d'ufficio. Hai qualcosa da dire, Wilson?»
«Sì» disse l'uomo, agitando la spalla ferita. «Va' a sbatterlo in culo a tua madre.»
«Risposta scontata. Possibile che la gente come te non sia mai capace di tirare fuori niente di originale? Come per esempio "Mettilo in culo a tuo padre"?»
«Va' a dare via il culo, piedipiatti.»
«Bravo, così va meglio. Stai imparando.»
Ricomparve Dutch. «Ambulanza e rinforzi in ar¬rivo.»
«Bene. Dov'è la ragazza?»
«Ancora in macchina.»
«Occupati del signor Wilson, per favore. Io vado a dirle due paroline.»
Lloyd raggiunse la Firebird nera. La giovane donna era impietrita sul sedile passeggeri, le mani ancora ap¬piccicate al cruscotto. Stava piangendo, e il mascara le era colato fino sul mento. «Signorina?»
La donna si voltò verso di lui, cominciando a sin¬ghiozzare. «Non voglio avere la fedina sporca!» pia¬gnucolò. «Quello là l'ho incontrato da poco. Non sono una delinquente, volevo solo farmi un paio di canne e ascoltare della musica!»
Lloyd le lisciò una ciocca di capelli. «Come ti chia¬mi?» disse.
«Sarah.»
«Sarah Bernhardt?»
«No.»
«Sarah Vaughan?»
«No.»
«Sarah Coventry?»
La donna rise e si asciugò la faccia con la manica. «Sarah Smith» disse.
Lloyd le prese la mano. «Io mi chiamo Lloyd. Dove abiti, Sarah?»
«A West Los Angeles.»
«Adesso ascolta. Tu vai dove c'è la folla e aspetta. Io ho un paio di cose da sistemare qui, poi ti porto a casa. Okay?»
«Okay... Non mi segnerete la fedina, vero?»
«Non saprà mai nessuno che eri qui. Okay?»
«Okay.»
Lloyd guardò Sarah Smith ricomporsi e raggiungere il gruppo di guardoni sul marciapiede opposto. Si di¬resse verso Dutch e Richard Douglas Wilson, che era appoggiato alla Matador. Lloyd fece cenno a Dutch di andare via, e mentre l'altro si allontanava fissò Wilson con uno sguardo cattivo e scosse il capo in segno di di¬sgusto.
«I ladri non hanno onore, Richard» disse. «Pro¬prio no. Soprattutto quei bastardi della Casa dei Gang¬ster.» Lloyd vide Wilson tremare a quell'ultima paro¬la, e continuò. «Ci ho trovato una scatola di pallottole e un incarto di collant con sopra le tue impronte. Ma non è con questo che ti abbiamo incastrato. Ti hanno fatto la spia. Qualcuno ha mandato agli agenti della Rampart una lettera anonima indicando il tuo nome come autore della rapina al Black Cat. Nella lettera c'era scritto che ti lavori solo i bar dei finocchi perché a San Quentin ti hanno fatto il culetto, e ti è piaciuto. Ti piacciono le checche, ma li odi per quello che ti han¬no fatto diventare.»
«Merda, è una bugia!» urlò Wilson. «Mi sono fat¬to negozi di liquori, supermercati, merda, anche una di¬scoteca! Io ho...»
Lloyd lo interruppe con un gesto della mano e si pre¬parò a dare il colpo di grazia. «Nella lettera c'era scrit¬to che dopo la rapina sei andato a bere fuori dalla Casa dei Gangster, e ti vantavi di tutte le fighe che avevi ri-morchiato. Il tuo amico si pisciava sotto dalle risate per¬ché sapeva che ci godi a fartelo piantare in culo.»
Il volto pallido e sudato di Richard Douglas Wilson si contrasse. Lui strillò: «Quel cagacazzo figlio di troia! Sono stato io a salvargli le chiappe da tutti i negri che volevano farselo quando eravamo dentro! Ho tirato fuo-ri io quel bastardo da San Quentin, e adesso...»
Lloyd posò una mano sulla spalla di Wilson e disse dolcemente: «Richard, stavolta ti becchi minimo un deca. Dieci anni. Pensi di potercela fare? Sei un duro tu, lo so; sei uno coi coglioni. Anche io sono duro. Ma sai una cosa? Io non ce la farei per dieci anni là dentro. Là ci sono certi negri che mi mangerebbero a colazione. Dimmi chi è il tuo socio, Richard. Lui ti ha fatto la spia. Io vado...» Si interruppe nel vedere Wilson scuotere freneticamente il capo in segno di diniego. Scosse il ca¬po anche lui, fissandolo schifato. «Pezzo di merda rincoglionito» disse. «Va bene, segui pure il codice d'onore, lasciati sputtanare da un rotto in culo, sei nella merda fino al collo e ancora ti permetti queste sotti¬gliezze. Testa di cazzo.» Si voltò e fece per andarsene.
Si era allontanato solo di qualche metro quando Wil¬son disse: «Un momento. Aspetta. Senti...»
Lloyd cacciò indietro il sorriso soddisfatto che stava per illuminargli il volto e disse: «Andrò dal procura¬tore distrettuale, parlerò col giudice, farò in modo che ti mandino in custodia protettiva mentre aspetti il pro¬cesso.»
Richard Douglas Wilson soppesò i pro e i contro per un'ultima volta, poi cedette. «Si chiama John Gustodas. "Johnny il Greco". Abita a Hollywood. Incrocio tra Franklin e la Argylle. Il palazzo di mattoni rossi.»
Lloyd strinse la spalla sana di Wilson. «Bravo ra¬gazzo. Il mio socio prenderà nota delle tue dichiarazio¬ni all'ospedale, e io mi farò vivo.» Voltò la testa per cercare Dutch, e lo vide sul marciapiede intento a parla¬re con due agenti in uniforme. Fischiò due volte, e Dut¬ch lo raggiunse cautamente. «Stanco, vecchio Dutch?» domandò Lloyd.
«Un po'. Perché?»
«Wilson ha confessato. Ha venduto il suo socio. Abita a Hollywood. Io vado a casa. Ti va di prendere no¬ta delle dichiarazioni di Wilson, poi di chiamare i ragaz¬zi di Hollywood e dargli le informazioni su quel tipo?»
Dutch esitò un momento. «Certo, Lloyd» disse poi.
«Bene. Si chiama John Gustodas, detto"Johnny il Greco". Incrocio tra Franklin e la villetta di mattoni rossi all'angolo. Scriverò io tutti i verbali, non preoc¬cuparti.»
Lloyd udì la sirena dell'ambulanza e scosse il capo per ricacciare indietro quel frastuono. «Quelle sirene del cazzo dovrebbero essere vietate» disse, mentre l'ambulanza svoltava l'angolo e si fermava con un'inchiodata. «Ecco qua la salvezza su ruote. Io devo muo¬vermi. Avevo promesso di andare a prendere Janice per portarla fuori a cena alle otto. E sono quasi le undici.» I due poliziotti si strinsero la mano. «Ce l'abbiamo fat¬ta di nuovo, socio» disse Lloyd.
«Già. Mi spiace di essermela presa con te, ragazzo.»
«Stai dalla parte di Janice. Non c'è niente di male, è più attraente di me.»
Dutch fece una risata. «Ci sentiamo domani per la confessione di Wilson?»
«Va bene. Ti chiamo io.»
Lloyd vide Sarah Smith fra gli ultimi spettatori rima¬sti, intenta a fumare una sigaretta e a strisciare nervosa¬mente i piedi sul selciato. «Ciao, Sarah. Come ti senti?»
Sarah schiacciò la sigaretta per terra. «Bene, credo. Cosa succederà a quello là, quel comesichiama?»
Lloyd sorrise per la tristezza di quella domanda. «Andrà in prigione per un bel po'. Non ricordi neanche il suo nome?»
«Non sono brava a ricordare i nomi.»
«Ti ricordi il mio?»
«Floyd?»
«Quasi. Lloyd. Vieni, ti porto a casa. Raggiunsero la Matador non ufficiale ed entrarono.»
Lloyd esaminò apertamente Sarah mentre lei gli dava il suo indirizzo e frugava nella borsetta. Doveva essere una brava ragazza di buona famiglia, un po' sbandata. Ventotto anni o ventinove, capelli biondo chiaro a po¬sto, corpo slanciato e morbido sotto il completo panta¬lone di cotone nero. Un bel visino che cercava di sem¬brare duro. Probabilmente era una gran lavoratrice, qualunque lavoro facesse.
Lloyd si diresse alla più vicina rampa d'accesso per l'autostrada verso ovest, assaporando prima il suo trionfo "di anniversario" e poi immaginandosi l'incon¬tro con Janice, che sicuramente lo avrebbe rosolato a fuoco lento, se non addirittura picchiato per il suo ritar¬do. Sentendosi traboccare di tenerezza per aver rispar¬miato a Sarah Smith il rigore della legge, le toccò la spalla e disse: «Andrà tutto a posto, sta' tranquilla.»
Sarah rovistò nella borsetta in cerca delle sigarette e trovò solo un pacchetto vuoto. Borbottò: «Merda» e lo gettò fuori dal finestrino, poi sospirò. «Già, forse hai ragione. Ti diverti proprio a fare lo sbirro, vero?»
«È tutta la mia vita. Dove hai incontrato Wilson?»
«È così che si chiama? L'ho conosciuto in un bar country & western. Un vero posto da bisonti, ma alme¬no là trattano le donne con rispetto. Cosa ha fatto?»
«Ha rapinato un bar a mano armata.»
«Cristo! Io credevo che era solo uno che spacciava.»
"La voce dell'innocenza" pensò Lloyd. «Senti, non voglio farti la predica» disse «ma non dovresti passa¬re le serate in quei locali. Potrebbe capitarti qualcosa.»
Sarah fece un grugnito. «E allora dove dovrei anda¬re, per incontrare gente?»
«Intendi degli uomini?»
«Be'... Sì.»
«Prova con il metodo intellettuale. Prendi un caffè e mettiti a leggere un libro in uno di quei locali caratteri¬stici alla moda. Prima o poi arriverà un bel ragazzo e ti chiederà del libro che stai leggendo. Vedrai che così in-contrerai gente più di classe.»
Sarah fece una risata allegra e batté le mani, poi die¬de a Lloyd una gomitata sul braccio. Quando lui distol¬se lo sguardo dalla strada e la fissò con un volto ine¬spressivo, la risata diventò isterica. «Che buffo, buffissimo!» squittì.
«Non è mica divertente.»
«Invece sì! Perché non vai in televisione?» Sarah smise di ridere. Fissò Lloyd perplessa. «È così che hai incontrato tua moglie?»
«Non ti ho detto che sono sposato.»
«Ho visto la fede.»
«Molto osservatrice. Comunque mia moglie l'ho in¬contrata al liceo.» Sarah Smith si piegò in due dalle ri¬sate. Anche Lloyd rise, con più calma, poi si mise una mano in tasca per prendere il fazzoletto e asciugò il vol¬to rigato di lacrime di Sarah. Lei gli appoggiò il viso alla mano, strofinandogli il naso sulle nocche.
«Ti capita mai di chiederti perché continui a fare certe cose anche quando sai che non funzionano?» disse lei.
Lloyd le mise un dito sotto il mento e le sollevò la te¬sta verso di lui. «Perché al di fuori dei sogni più impor¬tanti il mondo continua a cambiare, e anche se si conti¬nua a fare le stesse cose, si cercano risposte nuove.»
«Ci credo» disse Sarah. «Esci alla prossima e gi¬ra a destra.»
Cinque minuti più tardi lui accostò al marciapiede di fronte a un condominio della Barrington. Sarah gli die¬de una gomitata sul braccio e disse: «Grazie.»
«Buona fortuna, Sarah. Prova col giochino del li¬bro.»
«Magari lo faccio. Grazie.»
«Grazie a te.»
«Per cosa?»
«Non lo so.»
Sarah diede un'ultima gomitata a Lloyd e schizzò fuori dalla macchina.

Janice Hopkins guardò l'orologio d'antiquariato del soggiorno e sentì la paura crescere mentre la lancetta delle ore si fermava sulle dieci, ricordando che quello era il "secondo grande anniversario" di suo marito, e che non poteva battersi con lui ad armi pari e razional¬mente per non essere venuto a cena con lei, e che non poteva servirsi né di quella bazzecola né di qualsiasi al¬tra sciocchezza disturbasse il loro matrimonio per co-stringerlo a una battaglia. Sapeva che non avrebbe po¬tuto far altro che dire: "Oh cazzo, Lloyd, si può sapere dove sei stato stavolta?" per sorridere poi nel sentire la brillante risposta che sicuramente le avrebbe dato, ren¬dendosi conto di quanto lui l'amava. E il giorno dopo avrebbe chiamato il suo amico George, che sarebbe ve¬nuto in negozio, e insieme si sarebbero lamentati degli uomini.
"Oh, George" avrebbe detto lei "Che tristezza, la vita di una musa!"
E George avrebbe ribattuto: "Ma tu lo ami?"
"Non so neanche io quanto."
"Anche se sai che gli mancano un paio di rotelle?"
"Anche più di un paio, caro mio, con tutte quelle pic¬cole fobie che ha. Ma questo non fa altro che renderme¬lo più umano, più mio."
E allora George avrebbe sorriso e si sarebbe messo a parlare del suo amante, e insieme avrebbero riso fino a far tintinnare il cristallo di Waterford e roteare i piattini di porcellana cinese sulle mensole.
Poi George le avrebbe preso la mano e avrebbe ac¬cennato con noncuranza alla loro breve relazione quan¬do George aveva deciso che doveva conoscere almeno qualcosa delle donne in modo da poter essere più donna lui stesso. Era durata una settimana, quando George l'aveva accompagnata a San Francisco per un semina¬rio sulla stima dei pezzi d'antiquariato. A letto non face¬va altro che parlare di Lloyd. Tutto ciò la disgustava, ma la emozionava anche, e gli divulgava i particolari più se-greti del suo matrimonio.
Quando si era resa conto che Lloyd sarebbe stato sempre un invisibile terzo incomodo, aveva piantato tutto. Era stata l'unica volta che aveva tradito suo mari¬to, e non per le solite ragioni, come sentirsi trascurata, maltrattata o annoiata sessualmente. Era stato per otte¬nere una specie di parità con lui, per quella vita avven¬turosa che lui viveva. Quando Lloyd era spaventato, o infuriato, e veniva da lei con quella espressione sul vol¬to, e lei si toglieva il reggiseno e gli porgeva i seni, allora era sua, completamente. Ma quando leggeva i rapporti, o discuteva in soggiorno con Dutch Peltz e gli altri suoi amici della polizia, e vedeva l'universo che c'era dietro quegli occhi grigi, capiva che era in luoghi a lei inacces¬sibili. I mezzi con cui gli stava alla pari - il successo del negozio, il libro sugli specchi Tiffany di cui era stata coautrice, il suo talento per gli affari - tutte quelle cose la soddisfacevano solo a livello logico. Perché Lloyd sa¬peva volare e lei no. Neanche dopo 17 anni di matrimo¬nio, Janice Rice Hopkins era in grado di capirne le ragioni. E, inspiegabilmente, cominciava a sentirsi terro¬rizzata dal fatto che suo marito sapeva volare.
Janice contrappose le prove più recenti dello strano comportamento di Lloyd a più di vent'anni di cono¬scenza intima: le sue pause di ore davanti allo spec¬chio, quando roteava gli occhi come in cerca di insetti; i periodi sempre più lunghi che trascorreva a casa dei suoi genitori a parlare a sua madre, che non aveva pro¬nunciato né compreso parola da 19 anni; la smorfia sardonica che gli contorceva il volto quando discuteva al telefono con suo fratello riguardo alla cura dei loro genitori.
Ma quello che la inquietava di più erano le storie che raccontava alle bambine: racconti di polizia che Janice sospettava fossero in parte parabole educative e in parte confessioni. Storie squallide ambientate nelle strade più malsane di Los Angeles, popolate di battone, droga¬ti e altri criminali e poliziotti spesso rozzi e brutali tanto quanto la gente che mandavano in prigione. Un anno prima Janice aveva detto a Lloyd di non raccontarle più quelle storie. Lui aveva obbedito, annuendo silenziosa¬mente con uno sguardo gelido, quindi aveva trasferito quelle parabole-confessioni sulle bambine, accompa¬gnando la loro adolescenza con resoconti dettagliati di malvagità e orrori. Anne non ci dava peso: aveva 14 anni e non pensava ad altro che ai ragazzi. Caroline, che ave¬va 13 anni e un enorme talento per la danza, le rimugi¬nava a lungo e poi portava a casa riviste sulla polizia chiedendo a suo padre di commentarle gli articoli. E Penny ascoltava e ascoltava e ascoltava, attraversando con gli occhi grigi e scintillanti sia il padre sia la sua narrazione per fissare un orizzonte lontano. Quando Lloyd concludeva il racconto, Penny lo baciava forte sulla guancia e saliva al piano di sopra, a ricamare i plaid in cashmere e madras con cui aveva già conquista¬to la copertina di cinque supplementi domenicali.
Janice rabbrividì. Possibile che l'innocenza di Penny fosse già irrimediabilmente corrotta? Una bambina di dodici anni artigiana e imprenditrice affermata? Rabbrividi nuovamente e guardò l'orologio. Un'ora di fanta¬sie impaurite e Lloyd non era ancora tornato. All'im-provviso si rese conto che le mancava, e che lo desidera¬va oltre i limiti del lecito per una relazione che durava da più di vent'anni. Andò al piano di sopra e si spogliò nella camera da letto buia, accendendo la candela pro-fumata per segnalare a Lloyd che voleva che la sveglias¬se per fare l'amore. Mentre si stendeva nel letto un ulti¬mo tetro pensiero le attraversò la mente, come uno stor¬mo di uccelli predatori che oscurasse un cielo sereno: più le bambine crescevano e più assomigliavano a Lloyd, soprattutto nello sguardo.
Un'ora dopo sentì entrare Lloyd, con il suo armeggia¬re rituale nell'atrio: un sospiro e uno sbadiglio, Lloyd che si toglieva il cinturone e lo deponeva sul tavolino del telefono, lo strascicare consueto dei passi mentre saliva le scale. Aspettando l'istante in cui avrebbe aperto la porta e l'avrebbe vista nella luce ambrata, Janice si stuz¬zicò fra le gambe con la mano.
Ma la porta della camera da letto non si aprì, e lei sentì Lloyd oltrepassarla in punta di piedi per andare in fondo al corridoio, verso la camera di Penny, per poi picchiare appena con le nocche alla porta e sussurrare: "Pinguino? Vuoi che ti racconti una storia?" Un secon¬do più tardi la porta si aprì con uno scricchiolio, e Jani¬ce sentì padre e figlia ridacchiare insieme come allegri cospiratori.
Concesse a suo marito mezz'ora, fumando rabbiosa¬mente una sigaretta dopo l'altra. Quando anche gli ulti¬mi resti di eccitamento furono scomparsi e cominciò a tossire a causa delle sei sigarette fumate, Janice si mise una vestaglia e andò nel corridoio ad ascoltare.
La porta della stanza di Penny era accostata, e dallo spiraglio Janice vedeva suo marito e la figlia minore se¬duti sul bordo del letto, intenti a stringersi le mani. Lloyd parlava dolcemente, con voce sognante da canta-storie: «...Una volta sistemato l'omicidio Haverhill-Jenkins, mi hanno assegnato a un caso di rapina, in aiu¬to alla squadra di West Los Angeles. Si era verificata una serie di furti notturni negli uffici di alcuni medici, tutti in grandi edifici della zona di Westwood. Il ladro prendeva solo contanti e droghe smerciabili; in poco più di un mese si era beccato più di cinquemila dollari e un sacco di stimolanti farmaceutici e narcotici duri. I ragazzi di West Los Angeles avevano un'ipotesi sul mo¬dus operandi: secondo loro il bastardo si nascondeva nel palazzo fino al tramonto, poi faceva il suo lavoro, entra¬va in un ufficio del secondo piano e saltava giù dalla fi¬nestra nello spiazzo del parcheggio. Avevano delle pro¬ve che avvaloravano la tesi: il cemento dei davanzali era scheggiato. Quelli della squadra pensavano che il colpe¬vole fosse un ginnasta, una specie di ladro atleta capace di saltare dal secondo piano senza farsi male. Il coman¬dante della squadra voleva far pattugliare i parcheggi per beccarlo. Ma quando il ladro colpì di nuovo in un palazzo della Wilshire sorvegliato da due squadre di agenti investigativi, la loro ipotesi andò al diavolo, e co¬sì chiamarono me.»
Lloyd fece una pausa. Penny gli appoggiò la testa sul¬la spalla e sussurrò: «Dimmi come hai beccato quell'idiota, papà.»
Lloyd fece calare la voce a una tonalità ancora più bassa: «Bimba mia, nessuno è capace di saltare dal se¬condo piano senza farsi niente. Io avevo già una mia idea: ero convinto che il ladro uscisse tranquillamente dall'edificio, magari salutando gli agenti della sicurezza al piano terra come se andasse tutto a meraviglia. C'era solo un particolare che mi lasciava perplesso. Dove te¬neva quello schifo che rubava? Andai a controllare le guardie in servizio durante le notti in cui erano avvenu¬te le rapine. In prima serata erano uscite dall'edificio persone conosciute e sconosciute, ma nessuno portava con sé borse o pacchi di sorta. Le guardie le avevano considerate come professionisti che lavoravano nel pa¬lazzo e non avevano fatto controlli. Mi sentii raccontare quella storia pari pari sei volte prima di connettere: il la¬dro si travestiva, magari da infermiera per sentirsi pro¬tetto, portando dentro una grossa borsa o un piccolo zaino. Verificai di nuovo con le guardie. Tombola! Per tutte e sei le notti delle rapine era stata vista uscire dagli edifici svaligiati una donna sconosciuta vestita da infer¬miera, con una borsa molto grande. Le guardie non me l'avevano saputa descrivere, ma dicevano tutti che era "brutta", "un cesso", e via così.»
Penny si agitò tutta quando Lloyd respirò profonda¬mente e sospirò. La bambina gli tolse la testa dalla spal¬la e lo tirò forte per il braccio. «Non tenermi sulle spi¬ne, papà!»
Lloyd rise e disse: «Va bene. A quel punto verificai al computer tutti i nominativi della Buoncostume e i colpevoli di reati sessuali con precedenti per furto. Altra tombola! Arthur Christiansen, alias "Misty Christie", alias "Arlene Regina" Christiansen. Specializzato nell'intrattenersi a pagamento con ubriachi convinti che fosse una donna vera e topo d'appartamento. Sorvegliai il suo appartamento per trentasei ore di fila e, dopo aver sentito i suoi clienti dire che la sua roba era buona, mi feci la convinzione che spacciava anfe e Percodan. Era già un buon punto di partenza, ma volevo pizzicarlo, cioè, pizzicarla, in flagrante. Il pomeriggio seguente il caro Arthur-Arlene uscì dall'appartamento con una grande borsa colorata e raggiunse Westwood, quindi entrò in un grande edificio commerciale a due isolati dall'UCLA. Quattro ore dopo, circa un'ora dopo il tra¬monto, dal palazzo uscì un mostro vestito da infermiera che aveva con sé una borsa identica. Io tiro fuori il di¬stintivo, urlo: "Polizia!" e mi butto su Arthur-Arlene, che si mette a strillare: "Maschilista! " e mi dà addosso. Ma non è in grado di farmi del male, e io sto per prende¬re le manette quando ad Arthur-Arlene saltano fuori dalla camicetta le tette finte. Io lo ammanetto e fermo un'autopattuglia di passaggio. Arthur-Arlene si mette a urlare: "La sorellanza è potente!" e "Gli sbirri sono dei violenti!", e a quel punto un gruppo di studenti dell'UCLA comincia a urlarmi parolacce. Io riesco a malapena a salire sull'auto della polizia. Il primo tumulto transes¬suale di Los Angeles.»
Penny rise istericamente, gettandosi sul letto e bat¬tendo i pugni sulla coperta. Affondò la testa nel cuscino per asciugarsi le lacrime e disse: «Ancora, papà, anco¬ra. Raccontamene ancora una prima di andare a letto.»
Lloyd si avvicinò a Penny e le scompigliò i capelli. «Divertente o seria?»
«Seria» rispose Penny. «Raccontami una storia lugubre per soddisfare la mia curiosità morbosa. Altri¬menti starò su tutta la notte a pensare alle tette finte di Arthur-Arlene.»
Lloyd disegnò cerchi immaginari sulla coperta. «Una storia di paladini?»
Penny si fece seria in volto. Prese la mano di suo pa¬dre e andò in fondo al letto in modo che Lloyd potesse appoggiarle la testa in grembo. Quando padre e figlia si sentirono a loro agio, Lloyd fissò la coperta scozzese ap-pesa al soffitto e disse: «Il valoroso paladino era vitti¬ma di un dilemma. In una giornata aveva due anniver¬sari: uno personale, l'altro professionale. Quello profes¬sionale ha avuto la precedenza, e il paladino ha sparato a un uomo, ferendolo. Un'oretta più tardi, portato l'uo¬mo sotto custodia, il paladino ha cominciato a tremare, come sempre dopo aver usato la pistola. E si è sentito cadere addosso tutte le domande che vengono in segui¬to: che succederebbe se una volta o l'altra facesse fuori qualcuno? Se una volta avesse delle informazioni sba¬gliate e mandasse all'altro mondo uno che non c'entra? Se cominciasse a vedere rosso da tutte le parti e il suo buon senso andasse a quel paese? Là fuori il mondo è uno schifo. Lo sai, vero, Pinguino?»
«Sì» sussurrò Penny.
«Lo sai che devi farti crescere gli artigli per combat¬terlo?»
«Sì, papà, tanto affilati.»
«Sai cosa c'è di strano nella storia del paladino? Che più aumentano i suoi dubbi e le domande che si fa e più si sente deciso. Solo che a volte le cose si fanno complicate. Tu cosa faresti se le cose si facessero dav¬vero difficili?»
Penny giocherellò coi capelli di Lloyd. «Mi affilerei gli artigli» disse, e affondò le dita nella testa del padre.
Lloyd fece una finta smorfia di dolore. «Sai, a volte il paladino vorrebbe tanto non essere un fottuto prote¬stante. Se fosse cattolico almeno avrebbe un'assoluzio¬ne formale.»
«Io ti assolverò sempre, papà» disse Penny mentre Lloyd si alzava in piedi. «Sai come dice la canzone: "Io non ho pretese".»
Lloyd guardò sua figlia. «Ti voglio tanto bene» disse.
«Anche io. Una domanda prima che vai via: pensi che avrei abbastanza pelo sullo stomaco per entrare nella Omicidi?»
Lloyd rise. «Per la Divisione rapine e omicidi sei perfetta anche senza peli.»
Janice guardò Penny squittire di gioia, e improvvisa¬mente si sentì profondamente violentata. Tornò nella camera da letto che divideva col marito e gettò via la ve¬staglia, preparandosi a combattere nuda la sua lotta. Qualche istante dopo Lloyd entrò, sentì il profumo della candela e sussurrò: «Jan? Ne hai voglia a quest'ora, amore? È passata mezzanotte.»
Mentre allungava la mano verso l'interruttore della luce, Janice scagliò il portacenere traboccante contro la parete opposta e sibilò: «Brutto figlio di puttana egoi¬sta e malato, possibile che non vedi quello che stai fa¬cendo a quella bambina? Per te essere un padre vuol di¬re riversare addosso alle tue figlie tutta quella violenza?» Impietrito in quell'istante tremendo, Lloyd premette l'interruttore, illuminando Janice che rabbrividiva, nu¬da. «È così, Lloyd, maledetto? È così?»
Lloyd si avvicinò a sua moglie a braccia tese, in un gesto di supplica, nella speranza che il contatto fisico placasse la tempesta.
«No!» esclamò Janice indietreggiando. «Questa volta no! Stavolta voglio che tu mi prometta, che tu mi giuri che non racconterai mai più alle nostre bambine quelle storie orribili!»
Lloyd allungò il braccio sottile e prese il polso a Janice. Lei si divincolò e sbatté per terra il comodino che si trovava fra loro.
«No, Lloyd. Non ti permetto di desiderarmi, o di calmarmi, o di toccarmi, finché non avrai giurato.»
Lui si passò una mano fra i capelli e cominciò a tre¬mare. Ricacciando indietro l'impulso di prendere a pu¬gni la parete, si chinò e rimise a posto il comodino. «Penny è una bambina molto sensibile, Jan, forse un ge¬nio in erba» disse. «Cosa dovrei fare, secondo te? Raccontarle la storia dei tre...»
Janice lanciò la sua lampada di porcellana preferita contro l'armadio e strillò: «È solo una bambina! Una bambina di dodici anni! Possibile che non lo capisci?»
Lloyd attraversò il letto saltandoci sopra e la afferrò per la vita, nascondendole la testa contro il ventre, sussurrando: «Deve saperlo. Deve, o morirà. Deve sa¬perlo.»
Janice alzò le braccia e strinse i pugni. Cominciò a tempestare di colpi la schiena di Lloyd, ma poi esitò nel sentirsi sommergere da tutte le mutevoli passioni dell'uomo, che si unirono a formare un epigramma troppo tremendo per poterlo recitare.
Abbassò le mani sul volto del marito e lo allontanò gentilmente. «Voglio vedere come stanno le bambine» disse. «Dovrò dire loro che abbiamo litigato. Credo che sia meglio che dorma da sola.»
Lloyd si alzò in piedi. «Mi spiace di essere arrivato così tardi.»
Janice annuì, assente, nel vedere confermate le sue previsioni. Poi si mise la vestaglia e uscì nel corridoio per andare dalle ragazze.
Lloyd capì che non sarebbe riuscito a dormire. Dopo aver dato la buonanotte alle bambine, gironzolò al pia¬no terra in cerca di qualcosa da fare. Ma non c'era altro da fare che pensare a Janice e a come non poteva avere lei senza rinunciare a qualcosa che gli era caro e alle sue figlie era essenziale. Non c'era altro luogo dove andare che indietro nel tempo.
Lloyd si sistemò il cinturone con la pistola e salì in macchina, diretto al vecchio quartiere.
Gli parve quasi che stesse aspettando solo lui, immu¬tabile alle prime luci dell'alba, con la familiarità di un vecchio amante. Lloyd percorse il Sunset Boulevard, si¬curo che fosse suo dovere usurpare l'innocenza con quelle parabole. "Che imparino lentamente" pensava "non come ho imparato io. Devono conoscere il mostro per mezzo di racconti, non di esempi continui. Sarà questa la nuova linea della mia trasgressione all'etica ir¬landese protestante."
Con questa nuova decisione, Lloyd schiacciò l'accele¬ratore e guardò il Sunset Boulevard esplodere nelle luci dei neon che sfrecciavano via come per risucchiarlo in una scia vorticosa. Guardò il contachilometri: 180 all'ora. Non bastava. Premette il pedale con tutta la for¬za che aveva, e i neon diventarono un biancore conti¬nuo. Poi chiuse gli occhi e decelerò finché l'auto non raggiunse una salita e le leggi della natura la costrinsero a rallentare gradualmente.
Lloyd riaprì gli occhi e li sentì pieni di lacrime, e si chiese per un lunghissimo istante dove diavolo fosse fi¬nito. Poi gli tornarono alla mente mille ricordi diversi, e si rese conto che il destino lo aveva portato all'angolo fra il Sunset e Silverlake, il cuore del vecchio quartiere. Spinto da un fato servizievole proseguì a piedi.
Le colline a terrazzi attirarono Lloyd dove passato, presente e futuro si fondevano.
Corse su per i gradini di Vendome, notando soddi¬sfatto che la terra sui due lati dei pilastri di cemento era morbida come sempre. Le colline di Silverlake erano state date da Dìo come nutrimento. Che rimanessero i poveri messicani felici e sazi, che si lamentasse pure la gente di quanto erano ripide, ma senza mai andarsene. Che venisse pure il terremoto previsto dai poveri scien¬ziati deficienti. Silverlake, quell'anomalia conservatrice e sprezzante, avrebbe resistito con orgoglio a qualsiasi devastazione mentre Los Angeles sarebbe caduta a pez¬zi come un guscio d'uovo.
In cima alla collina, Lloyd lasciò focalizzare la pro¬pria fantasia sulle poche case che avevano ancora le luci accese. Immaginò una grande solitudine tutto intorno, e gli parve che quelle luci gli chiedessero insistentemen¬te amore. Lui aspirò quell'amore e lo soffiò fuori insie¬me a ogni grammo di quello che aveva, poi si voltò verso ovest a guardare oltre la collina che lo separava dalla vecchissima casa in cui quel pazzoide di suo fratello ac¬cudiva i loro genitori. Lloyd rabbrividì nel sentire la no¬ta stonata in mezzo ai suoi ricordi. L'unica persona che odiava, a guardia delle due persone adorate che lo ave¬vano dato alla luce. L'unico suo compromesso consape¬vole. Inevitabile, ma...
Lloyd rammentò come era successo. Era la primavera del 1971. Lavorava alla stazione Hollywood e arrivava a Silverlake due volte la settimana per far visita ai suoi ge¬nitori mentre Tom era al lavoro. Suo padre aveva rag¬giunto uno stato di calma tranquilla e immemore e pas¬sava giornate intere nel capanno del cortile ad armeggia¬re con decine e decine di televisori e radio che occupava¬no quasi ogni centimetro quadrato di spazio; e sua madre, muta ormai da otto anni, fissava il vuoto e sogna¬va in silenzio, e doveva venire portata tre volte al giorno in cucina, altrimenti si sarebbe dimenticata di mangiare.
Tom viveva con loro, come aveva fatto per tutta la vi¬ta, aspettando che morissero e gli lasciassero la casa, già registrata a suo nome. Cucinava per i genitori e in¬cassava gli assegni della previdenza sociale, e gli legge¬va gli squallidi libri illustrati sulla Germania nazista che riempivano gli scaffali della sua camera da letto. Mor¬gan Hopkins aveva espressamente chiesto a Lloyd di poter trascorrere il resto dei suoi giorni insieme alla moglie nella vecchia casa di Griffith Park Boulevard. Lloyd rassicurava più volte suo padre: "La casa l'avrai sempre, papà. Lascia che sia Tom a pagare le tasse, tu non preoccupartene. Come uomo non vale niente, ma guadagna, e sa occuparsi bene di te e di mamma. La¬sciagli pure la casa, a me non interessa. Cerca di essere felice e non pensare a niente".
C'era un tacito accordo fra Lloyd e suo fratello, che allora aveva 36 anni e lavorava come imprenditore te¬lefonico ai margini della legalità. Tom sarebbe rimasto a casa e avrebbe vissuto insieme ai genitori, e Lloyd avrebbe fatto finta di non vedere il cumulo di armi auto¬matiche sepolte nel cortile dietro al capanno degli Hopkins. Lloyd rideva nel pensare alla sproporzione dell'accordo: Tom era vigliacco oltre ogni limite, e non avrebbe mai avuto il fegato di usare quelle armi, che sa¬rebbero comunque arrugginite irrimediabilmente dopo pochi mesi.
Ma un giorno di aprile del 1971 Lloyd aveva ricevuto una telefonata con cui era stato informato che nei suoi grandi sogni si era aperta una falla. Un vecchio amico dell'Accademia che lavorava alla stazione Rampart ave¬va fatto un giro dalle parti di casa Hopkins e aveva nota¬to nel giardino un cartello che diceva IN VENDITA. Per¬plesso, dato che aveva sentito Lloyd dire spesso che i suoi genitori sarebbero morti piuttosto che vendere la casa, aveva chiamato Lloyd alla stazione Hollywood per metterlo al corrente. Lloyd ascoltò quelle parole senten¬dosi pervadere da una rabbia silenziosa che gli diede le vertigini e gli fece sembrare che lo spogliatoio gli ro¬teasse davanti agli occhi. Con ancora addosso l'unifor¬me, era andato a prendere l'auto nel parcheggio ed era partito alla volta dell'ufficio di Tom, a Glendale.
L'"ufficio" era una cantina restaurata con una cin¬quantina di tavolini appiccicati l'uno all'altro contro le pareti, e Lloyd vi entrò senza far caso al venditore che annunciava urlando in un telefono panacee fatte di ri-vestimenti in alluminio e lezioni a domicilio di studi biblici.
La scrivania di Tom era nella parte frontale della stanza, accanto a una grande boccia di vetro piena di caffè alla benzedrina. Lloyd picchiò il manganello im¬bottito di piombo contro la boccia, incrinandola e fa¬cendo schizzare il liquido scuro e bollente in aria. Tom uscì dal gabinetto, vide la furia negli occhi del fratello e il manganello, e indietreggiò con la schiena alla parete. Lloyd avanzò, e stava per far calare il manganello in un arco che terminava proprio sulla testa di Tom quando il terrore che vedeva in quegli occhi grigi tanto simili ai suoi lo arrestò. Gettò il manganello per terra e corse alla prima fila di tavoli, mentre il rappresentante schizzava via in preda al terrore e cercava rifugio in fondo allo scantinato.
Lloyd cominciò a strappare i cavi del telefono dalle spine alla parete e a lanciare gli apparecchi per tutta la stanza. Una fila, poi due, poi tre. Quando tutti i rappre¬sentanti se ne furono andati dall'ufficio, e il pavimento fu coperto di frammenti di vetro, moduli per ordinazio¬ni sparpagliati e telefoni muti, lui si era avvicinato al fratello maggiore, che tremava come una foglia, e aveva detto: "Oggi stesso toglierai la casa dall'asta e non lasce¬rai mai più soli mamma e papà".
Tom aveva annuito senza dire una parola ed era sve¬nuto, cadendo in una pozzanghera di caffè drogato.
Lloyd guardò la collina scura. Tutto ciò era accaduto più di dieci anni prima. Sua madre e suo padre vivevano ancora le loro solitudini separate, e Tom era ancora il loro custode. Era uno stallo di cui non era felice, ma non poteva farci niente.
Rammentò la sua ultima conversazione con Tom. Lui era andato a far visita ai genitori e aveva trovato Tom nel cortile sul retro, intento a seppellire fucili con la protezione del buio.
"Parlami" aveva detto Lloyd.
"Di che, Lloydy?" aveva domandato Tom.
"Di' qualcosa di vero. Insultami. Domandami qualco¬sa. Non ti farò niente."
Tom era indietreggiato di qualche passo. "Mi uccide¬rai quando non ci saranno più mamma e papà?"
Lloyd era rimasto di sasso. "Perché dovrei ucciderti?"
Tom era indietreggiato ancora. "Per quello che è suc¬cesso a Natale quando avevi otto anni."
Lloyd si era sentito sopraffare da mostri antichi, morti da più di trent'anni all'ombra dell'uomo forte che era divenuto. Aveva rivolto lo sguardo al capanno dei televisori del padre, e la potenza di quei ricordi orripilanti era tale che aveva dovuto fare uno sforzo per ritornare al presente. "Tu sei pazzo, Tom. Lo sei sempre stato. Non mi piaci, ma non ti ucciderei mai."

Lloyd guardò l'alba che saliva all'orizzonte orientale, delineando Los Angeles in un profilo dorato. D'improv¬viso si sentì solo, e desiderò di essere con una donna. Si sedette sui gradini e meditò sulle possibilità che aveva. C'era Sybil, ma probabilmente era tornata da suo mari¬to. Ricordò che ci stava pensando l'ultima volta che ave¬vano parlato. O Colleen, ma doveva avere il turno infra¬settimanale di vendite a Santa Barbara. Leah? Meg? Con loro era tutto finito, e volerlo riportare in vita nella ferocia di quel desiderio mattutino non avrebbe fatto al¬tro che causare dolore in seguito. Rimaneva solo l'incer¬tezza di Sarah Smith.
Tre quarti d'ora dopo Lloyd bussò alla sua porta. Lei aprì, ancora con gli occhi gonfi di sonno, con addosso un accappatoio di cotone. Quando lo mise a fuoco co¬minciò a ridere.
«Sono tanto buffo?» domandò Lloyd.
Sarah scosse il capo. «Che è successo, tua moglie ti ha cacciato via?»
«Più o meno. Ha scoperto che in realtà sono un vampiro camuffato da poliziotto. Mi aggiro all'alba tra le strade di Los Angeles in cerca di donne belle e giovani che mi concedano una trasfusione. Sii la mia saggia musa.»
Sarah fece una risatina. «Io non sono mica bella.»
«Invece sì. Devi andare a lavorare?»
Sarah disse: «Sì, ma posso marcare visita. Non sono mai stata con un vampiro...»
Lloyd le prese la mano mentre lei lo faceva entrare «Allora concedimi di presentarmi» disse.

PARTE TERZA
Convergenza

5

Lloyd sedeva nel suo ufficio al Parker Center, scaraboc¬chiando campanili e giocando all'impiccato sulle carte che ingombravano la scrivania. Era il 3 gennaio 1983, e dal suo cubicolo al sesto piano vedeva nuvole scure, ca¬riche di pioggia, dirigersi verso nord. Sperò in cuore suo nell'arrivo di una tempesta purificatrice. Si sentiva soddisfatto e pieno di istinto paterno quando infuriava il brutto tempo.
La relativa solitudine dell'ufficio, fra il deposito delle macchine da scrivere e le sale delle fotocopiatrici, era piacevole, ma la ragione principale per cui Lloyd l'aveva voluto era la sua vicinanza all'ufficio ricevimento mes¬saggi, a tre porte di distanza. Prima o poi, tutte le de¬nunce di omicidio sotto la giurisdizione del Diparti¬mento di polizia di Los Angeles passavano per le linee telefoniche dell'ufficio, provenienti dagli agenti investi¬gativi che chiedevano assistenza o dalle parti in causa che chiamavano aiuto. Lloyd aveva collegato il telefono a una derivazione, e ogni volta che al centralino arriva¬va una chiamata una spia rossa si accendeva sulla sua segreteria telefonica, in modo che lui potesse alzare la cornetta e ascoltare. Grazie a quel sistema era spesso il primo poliziotto del Dipartimento di polizia di Los An¬geles a ottenere informazioni vitali riguardo certi omi¬cidi. Era un ottimo antidoto alle pratiche, al dover scri-vere pesanti verbali e comparire in tribunale; così, quando Lloyd vide lampeggiare la spia sull'apparec¬chio, il cuore gli diede un piccolo balzo. Sollevò la cor¬netta e ascoltò.
«Dipartimento di polizia di Los Angeles, Divisione rapine e omicidi» disse la centralinista.
«È qui che si denuncia un omicidio?» balbettò in risposta una voce d'uomo.
«Sì, signore» rispose la donna. «Si trova a Los Angeles?»
«Sto a Hollywood. Merda, non ci crederete mai a quello che ho visto...» Lloyd era incuriosito. L'uomo sembrava completamente scoppiato.
«Desidera denunciare un omicidio, signore?» La donna era brusca, addirittura un po' maleducata.
«Figa, non lo so mica se era vero o una di quelle al¬lucinazioni del cazzo. Sono tre giorni che mi strafaccio di polvere e pillole.»
«Posso sapere dove si trova, signore?»
«Un cazzo. Spedite gli sbirri agli appartamenti Aloha, incrocio fra Leland e Las Palmas. Stanza 406. Merda, sembra di vedere un film di Peckinpah. So un cazzo io, ma o devo piantarla di tirare polvere o avete per le mani un casino che metà basta.» L'uomo che aveva chiamato venne preso da un attacco di tosse, poi mormorò: «Hollywood di merda, figa, casino di mer¬da» e sbatté giù la cornetta.
A Lloyd parve quasi di sentire la perplessità della cen¬tralinista. Non capiva se quel tizio dicesse sul serio o no. Borbottò «Brutto coglione» e riagganciò. Lloyd balzò in piedi e si gettò sulle spalle la giacca sportiva. Lui sapeva che era vero. Corse in macchina e schizzò via alla volta di Hollywood.

L'Aloha Regency era un grande condominio di quat¬tro piani in stile spagnolo, coperto di rampicanti, dipin¬to di blu elettrico brillante. Lloyd attraversò l'atrio tra¬scurato e raggiunse l'ascensore, capendo subito che una volta quello doveva essere un grande palazzo di Hol¬lywood caduto in decadenza. Sapeva bene che nell'Aloha Regency abitavano sicuramente un branco di immigrati clandestini, alcolizzati e famiglie che viveva¬no di sussidio. Nei corridoi coperti da moquette con¬sunte aleggiava una tristezza quasi palpabile.
Salì sull'ascensore e premette il pulsante 4, poi tolse la calibro 38 dalla fondina, sentendo il tipico formicolio di quando si avvicinava alla morte. L'ascensore si arre¬stò con un sussulto e Lloyd uscì. Controllò il corridoio, notando segni di piede di porco sulle porte verso il nu¬mero 406, dal lato dei numeri pari. Dopo il 406 le scalfit¬ture cessavano. Il legno sugli stipiti era scheggiato di fresco, con i bordi taglienti, il che significava che le por¬te dovevano essere state forzate non più tardi di quella stessa mattina. Lloyd si era già fatto un'idea sua. Puntò la calibro 38 direttamente sulla porta del numero 406 e spalancò quest'ultima con un calcio.
Tenendo l'arma di fronte a sé per indicarsi la direzio¬ne, entrò in un piccolo soggiorno rettangolare alle cui pareti c'erano scaffali pieni di libri e alte piante in vaso. In un angolo c'era una scrivania posta in diagonale, tre poltrone sistemate a semicerchio col diametro rivolto verso la vetrata principale. Lloyd attraversò la stanza, assaporandone il gusto. Si girò lentamente verso il cuci¬nino sulla sinistra. Piastrelle e linoleum, tutto appena pulito. Piatti impilati vicino al lavello. Rimaneva solo la camera da letto, separata dal resto dell'appartamento da una porta dipinta di verde brillante a cui era attacca¬to un poster di Rod Stewart.
Lloyd abbassò gli occhi sul pavimento e si sentì rivol¬tare lo stomaco. Di fronte alla fessura tra la porta e il pa¬vimento c'era un cumulo di scarafaggi morti, incollati l'uno all'altro in una pozza di sangue raggrumato. Aprì la porta con un calcio, mormorando: "Coniglio nella ta¬na", chiudendo gli occhi finché non riuscì a sopportare il puzzo terribile della carne in putrefazione. Quando fu riuscito a interiorizzare il tremito ed ebbe capito che non avrebbe vomitato, aprì gli occhi e disse: «Oh Dio, ti prego, no.»
Una donna nuda era appesa per una gamba a una trave del soffitto, proprio sopra la trapunta che copriva il letto. Aveva il ventre squarciato dal bacino al costato, e gli intestini le si erano rovesciati sul torace, fino a co-prirle il volto rosso di sangue. Lloyd memorizzò tutta la scena: la gamba libera della donna gonfia e violacea, di¬storta ad angolo retto rispetto al corpo, sangue coagula¬to sui seni, il colore bluastro della pelle, la coperta così fradicia di sangue da esserne incrostata, sangue sul pa¬vimento e sui mobili e sullo specchio, tutto che incorni¬ciava il cadavere della donna in una perfetta simmetria di devastazione.
Lloyd andò in soggiorno e trovò il telefono. Chiamò Dutch Peltz alla stazione Hollywood, dicendo solo: «Leland 6819 appartamento 406. Omicidi, ambulanza, medico. Ti chiamo più tardi per dirti tutto.»
Dutch disse: «Okay, Lloyd» e riappese.
Lloyd girò l'appartamento una seconda volta, cancel¬lando dalla mente ogni pensiero in modo da lasciare che tutto gli arrivasse gradualmente, scrutando il sog¬giorno con lo sguardo finché non vide una borsa di cuoio accanto a una pianta grassa. Si chinò a prenderla, poi ne rovesciò il contenuto per terra. Scatoletta da trucco, Exedrina, spiccioli. Aprì il portafogli inciso a mano. La donna era Julia Lynn Niemeyer. Nel vedere la fotografia e i dati della patente di guida gli si strinse il cuore: graziosa, un metro e 62, 60 chili. Nata il 2 feb¬braio '54. Il mese successivo avrebbe compiuto 29 anni.
Lloyd lasciò cadere il portafogli e passò a esaminare gli scaffali della libreria. Netta predominanza di roman¬zi sentimentali e narrativa popolare. Notò che i libri sul¬le mensole in cima erano coperti di polvere, mentre quelli in fondo erano puliti.
Si abbassò per esaminarli più da vicino. Sulla menso¬la in fondo c'erano volumi di poesia, da Shakespeare a Byron a edizioni economiche di poetesse femministe. LÌoyd tirò fuori tre libri a caso e li sfogliò, sentendo cre¬scere il rispetto che già provava per Julia Lynn Nie¬meyer. Nei giorni precedenti alla morte stava leggendo cose buone. Finì di sfogliare i classici e prese una grande brossura intitolata La furia in seno: Antologia di pro¬sa femminista. Aprì alla pagina dell'indice, e si sentì mancare quando vide delle macchie brune sulla coper¬tina interna. Continuando a sfogliare il libro, trovò le pagine incollate di sangue raggrumato e sbavature in-sanguinate che si affievolivano a mano a mano che arri¬vava alla fine del libro. Quando arrivò alla quarta di co¬pertina patinata, diede un ansito. C'erano due impronte digitali parziali sanguinolente, nettamente delineate sulla carta bianca. Indice e mignolo, quanto bastava per fare un controllo.
Lloyd esultò, avvolse il libro nel suo fazzoletto e lo posò con cautela su una delle poltrone. D'istinto, tornò alla libreria e fece passare la mano nella fessura tra l'ul¬tima mensola e il pavimento. Prese alcune riviste por-nografiche comprate ai distributori automatici: "Notti a L.A.", "Linea Calda L.A.", "L.A. proibita".
Si sedette a sfogliarle, rattristato dalle lettere di squallide fantasie e dagli annunci che chiedevano di¬speratamente un rapporto. "Attraente divorziata qua¬rantenne cerca bendotati razza bianca per ore liete po¬meridiane. Mandare foto in erezione e lettera a C.P. 5816, Gardena, 90808, California", "Gay carino, 24 an¬ni, esperto giochi di bocca, incontrerebbe giovani uni¬versitari atletici, no baffi. Chiamate a qualsiasi ora, 7096404"; "Mi chiamano Puttaniere, e chiavare è il mio mestiere! Tutte le donne faccio godere! Passiamo insie¬me una sera perfetta, ho il cazzo duro se hai la fica stret¬ta! Mandare foto a gambe larghe a C.P. 6969, L.A. 90069, California."
Lloyd stava per rimettere a posto le riviste chiedendo perdono per la razza umana, quando la sua attenzione venne attratta da un annuncio cerchiato in rosso. "Chi ha più fantasie, voi o io? Troviamoci a parlarne. Tutte le persone sessualmente disinibite possono scrivermi alla C.P. 7512, Hollywood, 90036 California. (Sono una ra¬gazza attraente sulla trentina.)" Mise la rivista da parte e sfogliò le altre due. In entrambe c'era lo stesso annun¬cio, identico.
Si infilò le riviste nella tasca della giacca, tornò nella camera da letto e aprì le finestre. Julia Lynn Niemeyer ondeggiò alla brezza, roteando sull'asse della gamba ap¬pesa alla trave del soffitto, che scricchiolava per il peso. Lloyd le strinse dolcemente le braccia. "Oh, piccola" sussurrò "oh, bambina, cosa stavi cercando? Ti sei bat¬tuta? Hai urlato?"
Come in risposta, il braccio gelato della donna gli venne strappato di mano da una folata improvvisa. Lui lo afferrò e lo tenne stretto, spostando lo sguardo sulle vene bluastre nell'incavo del gomito. Due punture di ago, nette, in mezzo alla vena più grande. Controllò l'al¬tro braccio. Niente. Raschiò via il sangue secco dalle ca¬viglie e dietro le ginocchia. Non c'erano altri segni: la donna era stata abilmente narcotizzata prima di venire violata.
Lloyd sentì rumore di passi nel corridoio, e qualche secondo più tardi un poliziotto in borghese e due agenti di pattuglia in uniforme irruppero nell'appartamento. Lui tornò nel soggiorno per riceverli, indicando col pol-lice dietro di sé e disse: «Da quella parte, ragazzi.» Stava fissando il cielo scuro dalla finestra quando sentì le prime esclamazioni di orrore, e poi il rumore di qual¬cuno che vomitava.
Il poliziotto in borghese fu il primo a riprendersi, tor¬nando da Lloyd e balbettando con falsa baldanza: «Perdio, certo che è un bel macello! Lei è Lloyd Hopkins, no? Io sono Lundquist della Omicidi di Hollywood.»
Lloyd si voltò a guardare il giovane alto e prematura¬mente ingrigito, ignorando la mano che gli porgeva. Lo esaminò attentamente e giunse alla conclusione che era stupido e inesperto.
Lundquist si agitò, a disagio, sotto lo sguardo di Lloyd. «Per me è un caso di furto con scasso, sergente» disse. «Ho visto segni di grimaldelli sulla porta. Cre¬do che dovremmo iniziare l'indagine fermando tutti gli scassinatori con precedenti per vio...»
Lloyd scosse il capo, zittendo il giovane agente inve¬stigativo. «Si sbaglia. I segni del piede di porco sono freschi. I bordi si sarebbero smussati per l'umidità se il tentativo di furto fosse coinciso con l'assassinio. No, lo scassinatore era quello che ha denunciato l'omicidio. Senta, la borsa della donna sta su quella poltrona là. Identificazione accertata. C'è anche un libro in brossu¬ra con due impronte parziali insanguinate. Portate tut¬to al laboratorio e fatemi chiamare a casa dai tecnici quando avranno qualcosa di concreto, in un senso o nell'altro. Voglio che perquisiate tutto quanto e chiudia¬te bene. Niente giornalisti o stronzi della televisione. Chiaro?»
Lundquist annuì.
«Bene. Adesso chiami il medico e la Scientifica, che portino qui una squadra per la rilevazione delle im¬pronte e frughino questo posto da cima a fondo. Voglio un rapporto legale completo. Dica al medico di telefo¬narmi a casa con il rapporto dell'autopsia. Chi è il capo della squadra di Hollywood?»
«Il tenente Perkins.»
«Bene. Mi metterò io in contatto con lui. Gli dica che mi occupo io del caso, per la Divisione rapine e omi¬cidi.»
«Va bene, sergente.»
Lloyd tornò nella camera da letto. I due agenti di pat¬tuglia stavano fissando il cadavere e facendo battute. «Una volta avevo una ragazza un po' così» stava dicen¬do il poliziotto più anziano. «Bloody Mary. Le sue co-se duravano così tanto che potevamo uscire insieme so¬lo due settimane al mese.»
«Non è niente» disse il più giovane. «Una volta conoscevo un funzionario dell'obitorio che si era inna¬morato di un cadavere. Non lasciava mai fare l'autopsia al medico legale, perché diceva che le avrebbe tolto il sex appeal.»
L'altro fece una risata e si accese una sigaretta con mani tremanti. «Se è per quello, mia moglie non ce l'ha mai.»
Lloyd si schiarì la gola. Sapeva che i due facevano quelle battute per non lasciarsi sopraffare dall'orrore, ma si sentì comunque offeso, e non voleva che Julia Lynn Niemeyer sentisse quelle cose. Frugò nell'armadio in camera da letto finché non trovò un accappatoio di spugna, poi andò in cucina e prese un coltello da carne a lama seghettata. Quando rientrò nella camera da letto e salì sul letto insanguinato, il poliziotto più giovane dis¬se: «È meglio se la lascia com'è per il medico legale, sergente.»
Lloyd disse: «Chiudi quella fogna» e tagliò il cavo di nylon a cui Julia Lynn Niemeyer era appesa per la ca¬viglia. Prese il fardello martoriato fra le braccia e scese dal letto, appoggiandole la testa alla propria spalla. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Dormi, tesoro» disse. «Sta' tranquilla, troverò chi ti ha ammazzato.» Lloyd la depose a terra e la coprì con l'accappatoio. I tre poliziotti lo fissavano a occhi sgranati.
«Sigillate l'appartamento» disse Lloyd.

Tre giorni più tardi, Lloyd era nella sede principale dell'Ufficio postale di Hollywood, con gli occhi incollati alla parete su cui si trovavano le caselle dalla 7500 alla 7550, armato della notizia che Julia Lynn Niemeyer era andata a dettare gli annunci per le riviste in compagnia di una donna alta e bionda sulla quarantina. Il personale della redazione di "Notti a L.A." e "Linea Calda L.A." ave¬va identificato con certezza la donna morta dalla foto¬grafia della patente, e ricordava bene la sua compagna.
Lloyd era agitato, e cercò di ricacciare indietro rab¬bia e impazienza ricapitolando tutte le prove concrete che aveva sull'assassinio. Primo: Julia Lynn Niemeyer era stata uccisa da una dose massiccia di eroina, poi mutilata dopo la morte. Secondo: il medico legale aveva stimato il delitto a circa 72 ore prima del ritrovamento del cadavere. Terzo: nessuno, all'Aloha Regency, aveva sentito rumori strani, né sapeva molto della vittima, che viveva della rendita di un fondo fiduciario istituito dai genitori morti in un incidente stradale nel 1978. L'ulti¬ma informazione era stata data dallo zio, che aveva let¬to della morte sui giornali di San Francisco e aveva descritto Julia Niemeyer come "una ragazza molto sensi¬bile, molto tranquilla e intelligente, che non si lasciava mai avvicinare da nessuno".
Sui giornali c'erano stati molti articoli sull'uccisione, ed erano state evidenziate in dettaglio certe similitudini con gli omicidi Tate-La Bianca del 1969. Tutto ciò aveva fatto sì che i centralini del Dipartimento di polizia di Los Angeles fossero assaliti da un fiume di informazioni non richieste, e Lloyd aveva assegnato a tre agenti il compito di interrogare tutti quelli che chiamavano e non sembravano platealmente svitati. Le impronte in¬sanguinate sul libro in brossura, l'unico vero elemento concreto, erano state esaminate da esperti, quindi tra¬smesse via computer e telex a tutte le agenzie di polizia del territorio continentale degli Stati Uniti, con risultati di una negatività sconcertante: le impronte parziali di indice e mignolo non erano attribuibili a nessuno in nessun luogo, e questo significava che l'assassino non era mai stato arrestato, non era mai stato membro delle forze armate o in servizio civile, non aveva mai assunto obbligazioni e non aveva preso la patente in almeno 37 dei 50 Stati.
La tesi di Lloyd prese forma sulla base di quella che chiamava "Sindrome della Dalia Nera", facendo riferi¬mento al famoso caso del 1947 di omicidio con mutila¬zione mai risolto. Era sicuro che Julia Lynn Niemeyer fosse stata uccisa da un uomo di mezz'età molto intel¬ligente e che non aveva mai ucciso prima, un uomo con una debole carica sessuale la cui personalità era stata in qualche modo sopraffatta dalle sue psicosi la-tenti e alla fine lo aveva spinto a pianificare l'omicidio con estrema cura. Sapeva anche che l'uomo doveva avere una certa forza fisica ed essere in grado di opera¬re su ampio livello sociale: un cittadino al di sopra di ogni sospetto in grado allo stesso tempo di acquistare eroina.
Lloyd era colpito sia dall'assassino sia dalla sfida che gli si presentava. Scrutò l'ufficio postale a caso, poi ri¬portò lo sguardo sulla casella 7512. Sentì crescere l'impazienza. Se la "donna alta e bionda" non si fosse mo-strata entro mezzogiorno avrebbe spaccato la casella postale e l'avrebbe scardinata
La vide un'ora più tardi. Lloyd capì che era lei non appena varcò le grandi porte a vetri e si avvicinò alle ca¬selle. Una donna alta e dai lineamenti forti che sembra¬va fremere di ansia repressa. Lloyd sentì la tensione in lei mentre si guardava attorno in tutte le direzioni, inse¬riva la chiave e ritirava un pacchetto di lettere, poi cor¬reva fuori.
Lloyd la raggiunse mentre stava aprendo la portiera di una Pinto Hatchback parcheggiata in doppia fila. Lei si voltò nel sentire i passi, portandosi subito la mano al¬la bocca nel vedere il distintivo che lui le mise davanti agli occhi. Sconvolta, la donna si abbandonò contro la macchina e lasciò cadere il pacco di lettere sulla strada.
Lloyd si chinò e le raccolse. «Polizia» disse con calma.
«Oh Cristo» disse lei. «Buoncostume? Narcotici?»
Lloyd disse: «No, Squadra omicidi. Sono qui per Ju¬lia Niemeyer.»
Sul volto della donna comparve un'espressione irosa. «Dio Cristo» esalò «che sollievo. Avevo intenzione di chiamarvi. Immagino che lei voglia parlare.»
Lloyd sorrise. La donna esibiva una certa spavalderia. «Non possiamo parlare qui» disse «e non voglio co¬stringerla a venire al Dipartimento. Le dà fastidio anda¬re da qualche parte?»
«No» disse la donna, aggiungendo poi: «agente» con una lieve sfumatura di disprezzo nella voce.
Lloyd le disse di andare verso l'Hancock Park. En route venne a sapere che la donna si chiamava Joanie Pratt, 42 anni, ex ballerina, cantante, attrice, cameriera, coniglietta del Playboy Club, modella e mantenuta.
«E adesso di che si occupa?» le domandò mentre lei parcheggiava nello spiazzo dell'Hancock Park.
«È illegale» disse Joanie Pratt con un sorriso.
«Non mi importa» disse Lloyd restituendo il sorriso.
«Okay, smercio anfetamine e puttane per clientela selezionata e anziana che non vuole farsi coinvolgere.»
Lloyd rise e le indicò una serie di dinosauri di gesso che si trovavano su una collinetta a qualche metro dai Tar Pits. «Andiamo lì a fare quattro chiacchiere» disse.
Quando furono seduti sull'erba, Lloyd cominciò a de¬scriverle il cadavere di Julia Niemeyer con tutti i maca¬bri dettagli. Joanie Pratt diventò pallida, poi rossa in vi¬so e cominciò a singhiozzare. Lloyd non fece nulla per confortarla. Quando la donna ebbe smesso di piangere, lui disse piano: «Io voglio questo animale. So degli an¬nunci che lei e Julia avete fatto pubblicare su quelle rivi¬ste porno. Non m'importa se avete scopato mezza Los Angeles, né se avete scopato con i canguri dello Zoo di San Diego o vi siete scopate fra di voi. Non me ne sbatte un cazzo se spacciate droga, se ve la sniffate, la tirate in vena o la offrite ai bambini. Voglio sapere tutto quello che lei sa su Julia Niemeyer: la sua vita sentimentale, quella sessuale, e perché ha fatto uscire quegli annunci. Sa dirmelo?»
Joanie annuì in silenzio. Poi si asciugò la faccia e disse: «Va bene, le cose stanno così. Circa tre mesi fa ero alla Biblioteca di Hollywood per restituire dei libri. Vedo una bella topina in coda vicino a me che ha preso a prestito tutti quei saggi divulgativi sul sesso, sa, Kraft-Ebbing, Kinsey, il Rapporto Hite. Faccio una bat¬tuta alla ragazza, che poi è Julia. Alla fine usciamo a fumare una sigaretta e a fare quattro chiacchiere, sul sesso. Julia mi racconta che sta facendo una ricerca sulla sessualità, che vuole scrivere un libro. Io le rac¬conto del mio passato burrascoso e le dico che ho in ballo una storia, che organizzo orge. È una specie di truffa. Conosco gente che si occupa di vendite immobi¬liari ad alto livello, e gli fornisco la roba, chiedendo in cambio che mi subaffittino degli appartamenti di gran classe quando i proprietari sono fuori città. Poi metto degli annunci nelle riviste porno, in cui si offrono orge di prima qualità. Duecento dollari a coppia, in modo da tenere fuori la teppa. Io fornisco roba da mangiare e droga, musica e impianto luci. Be', comunque, que¬sta Julia... è fissata col sesso, ma non è una che scopa. È come una studiosa...»
Joanie fece una pausa e si accese una sigaretta. Quan¬do Lloyd disse nervosamente: «Vada avanti» lei disse «Be', questa Julia mi chiede di intervistare la gente che viene alle feste che organizzo. Io le dico: "Cazzo, non se ne parla neanche! Quella gente paga bene per entrare, non vogliono certo farsi infastidire da una che gli viene a fare domande sul sesso". Così Julia mi fa: "Guarda, io ho un sacco di soldi. Pagherò io per far venire della gente ai party, e come tariffa d'ammissione chiederò che si lasci¬no intervistare. Così potrò guardare mentre scopano". È per quello che Julia ha messo gli annunci. La gente la contattava, e lei si offriva di pagare loro l'ingresso alle orge se acconsentivano a farsi intervistare.»
Lloyd era impietrito, e fissò gli occhi azzurri di Joa¬nie Pratt finché la donna non cominciò ad agitargli una mano davanti alla faccia. «Torni sulla terra, sergente. Sembra che sia appena andato su Marte.»
Lloyd allontanò gentilmente la mano di Joanie. «Vada avanti.»
«Okay, bel marziano. Julia faceva le sue interviste e guardava la gente che trombava finché non le usciva¬no gli occhi dalle orbite. Aveva scritto quintali di ap¬punti e aveva già completato la prima bozza del libro, quando il suo appartamento è stato svaligiato, e il ma¬noscritto e tutti i suoi appunti e le schede sono stati ru¬bati. Mi ha de...»
«Cosa?» urlò Lloyd.
Joanie fece un balzo indietro, stupita. «Un momen¬to, sergente. Mi lasci finire. Questo è successo circa un mese fa. Qualcuno è entrato nell'appartamento e l'ha saccheggiato. Le mancavano stereo, televisione e mille dollari in contanti. Ha...»
Lloyd la interruppe. «Lo ha denunciato alla polizia?»
Joanie scosse il capo. «No, le ho detto io di non farlo. Le ho detto che poteva comunque riscrivere il libro a memoria e fare qualche altra intervista. Non volevo che venissero gli sbirri a ficcare il naso: hanno la fama di es¬sere puritani, e avrebbero subodorato i miei traffici. Ma senta qua. Circa una settimana prima di morire, Julia mi diceva che aveva la sensazione di essere seguita. C'era un uomo che vedeva spesso in tanti posti diversi: per strada, al ristorante, al mercato. Non faceva mai niente, tipo fissarla o altro, ma aveva come la sensazio¬ne che la stesse osservando.»
Lloyd si sentì gelare. «Aveva visto l'uomo alle orge?»
«Mi diceva che non ne era sicura.»
Lloyd rimase in silenzio a lungo. «Ha qualcuna del¬le lettere che Julia riceveva?»
Joanie scosse il capo. «No, solo quelle che ho ritira¬to poco fa.»
Lloyd allungò la mano, e Joanie prese le lettere dalla borsetta. Lui la fissò, battendosi piano il pacco di buste contro la gamba. «Quando c'è la prossima festicciola?»
Joanie abbassò gli occhi. «Stasera.»
Lloyd disse: «Ottimo, verrò anche io. Sarò il suo ca¬valiere.»
La festa era in una villetta a tre piani che si trovava in fondo a una strada chiusa dalla parte delle Hollywood Hills che dava sulla Valle. Lloyd indossava pantaloni di cotone con risvolti, mocassini, camicia polo a righe e maglione a girocollo sotto il quale teneva la calibro 38 a canna corta, e quando lo vide Joanie Pratt esclamò: «Cristo Dio, sergente! Siamo a un'orgia, mica a una festa di laurea! Dove hai messo il mazzolino di fiori per me?»
«Ce l'ho nelle mutande» disse lui.
Joanie rise, poi lo squadrò a occhi socchiusi. «Nien¬te male. Vuoi scopare stasera? Avrai delle richieste.»
«No, mi tengo in serbo per la padrona di casa. Ti va di mostrarmi l'ambiente?»
Fecero il giro della casa. Tutti i mobili del soggiorno e della sala da pranzo erano stati spinti contro le pare¬ti, e i tappeti arrotolati e ammucchiati in una catasta alta fino al soffitto, accanto a una fila di tavolini su cui erano pronti piatti freddi, antipasti e cocktail in coppe ghiacciate. Joanie disse: «Buffet e pista da ballo. Me¬gaimpianto stereo collegato ad altoparlanti sistemati dappertutto.» Indicò le luci appese al soffitto. «Lo stereo è collegato all'illuminazione, per cui musica e luci vanno insieme. Da brivido.» Gli prese la mano e lo condusse di sopra. Ai piani superiori c'erano camere da letto e saloni da parti opposte rispetto a un lungo corridoio. Sopra le porte aperte si accendevano a in¬termittenza luci rosse, e Lloyd vide che i pavimenti delle stanze erano coperti da materassi e lenzuola di seta rosa.
Joanie gli diede di gomito nelle costole. «Assumo sempre dei gorilla al mercato degli schiavi di Skid Row. Sono loro che si occupano del lavoro pesante. Gli allun¬go dieci dollari prima della festa, poi altri venti e una bottiglia di tequila quando portano via tutto quanto a cose fatte. Che c'è, sergente? Hai una faccia così scura...»
«Non so» fece Lloyd «ma è buffo. Io sto cercando un assassino, questa "festa" è con ogni probabilità ille¬gale, eppure credo di essere più felice di quanto lo sia mai stato da anni a questa parte.»
I convitati cominciarono ad arrivare una mezz'ora dopo. Lloyd mise Joanie al corrente di quello che vole¬va: lei doveva girare e indicargli tutte le persone che ri¬cordava intervistate o anche apparentemente interessa¬te a Julia Niemeyer. Doveva riferirgli di tutti gli uomini che avevano anche solo nominato Julia o accennato alla recente disgrazia. Doveva inoltre riferirgli di quello che le sembrasse diverso dal solito o allarmante, qualsiasi cosa andasse contro l'etica da lei stessa descritta per le orge: "Buona musica, buona roba, buone scopate". As¬solutamente nessuno doveva sapere che lui era un agen¬te di polizia.
Lloyd si mise dietro ai due muscolosi buttafuori che esaminavano gli ospiti in arrivo e prendevano gli inviti. I convitati, accoppiati per assicurare una giusta propor¬zione fra i partecipanti, gli parvero quasi un vero e pro-prio microcosmo di gente tediata dal denaro: abiti raffi¬natissimi e all'ultima moda su corpi tesi e flaccidi. Uomini di mezza età senza un briciolo di grinta, donne dall'aspetto duro e combattivo, sfrontate e tanto affetta¬te da sembrare finocchi della peggior specie. Mentre i gorilla chiudevano e sbarravano la porta dopo l'arrivo degli ultimi ospiti, Lloyd si sentì come se avesse appena assistito a una perfetta rappresentazione impressioni¬sta dell'inferno. Per reazione gli venne un tic al ginoc¬chio sinistro, e quando fece ritorno al buffet si rese con¬to che gli ci sarebbe voluto ogni grammo della sua etica irlandese protestante per impedirsi di odiarli tutti.
Decise di fare la parte del giocherellone. Quando Joanie Pratt gli passò accanto, lui sussurrò: «Fai sembra¬re che stiamo insieme.»
Joanie chiuse gli occhi. Lloyd si chinò piano per ba¬ciarla, allungando le mani a prenderla alla vita, alzan¬dola poi in modo da sollevarla a qualche centimetro da terra. Le loro labbra e le lingue si incontrarono in per¬fetto sincrono. Un coro di fischi e battute scherzose soffocò il pulsare furioso del cuore di Lloyd; a bacio concluso, depose Joanie a terra e capì di avere conqui¬stato il gruppo.
«Tutto finito, cari amici» disse con una falsa voce nasale, dando a Joanie un colpetto sulla spalla. «Voi divertitevi. Io salgo a fare un riposino.» L'ironia venne accolta da un lungo applauso, e lui corse verso la scala.
Lloyd raggiunse una camera da letto all'estremità del corridoio del terzo piano. Si chiuse dentro, orgoglioso della sua esibizione, ma vergognandosi della facilità con cui gli era venuta e perplesso nel rendersi conto che i gaudenti del piano di sotto cominciavano a piacergli. Si sedette sul materasso coperto dal lenzuolo di seta ro¬sa e tirò fuori le lettere che Joanie gli aveva dato, l'ulti¬ma corrispondenza recapitata alla casella postale 7512. Aveva pensato di leggerle più tardi, con l'aiuto di Joanie, ma in quel momento aveva bisogno di lavorare per ri¬cacciare indietro quella sua ambiguità che lo aveva qua¬si sconvolto.
Le prime due buste contenevano annunci da quattro soldi, circolari con pubblicità di vibratori elettrici giganti e abbigliamento sadomaso. La terza busta era scritta a mano. Lloyd guardò più da vicino e notò che le vocali e le consonanti dell'indirizzo erano perfettamen¬te allineate, evidentemente scritte con penna e righello. Qualcosa gli scattò nella mente. Strinse con dolcezza la busta per gli orli e la aprì con un colpo veloce di unghia. All'interno c'era una poesia, scritta sempre con l'aiuto del righello in inchiostro marrone. Lloyd girò il foglio di sbieco. C'era qualcosa che non gli andava di quell'in¬chiostro. Agitò la carta di fronte agli occhi, e si rese con¬to che la tinta marrone si stava scheggiando per lasciare posto a un colore più chiaro al di sotto. Sbavò di propo¬sito col dito una strofa, poi se lo annusò e sentì scattare di nuovo qualcosa nella mente: la poesia era scritta col sangue.
Lloyd cercò di costringere il proprio cervello a rima¬nere tranquillo, usando il suo metodo personale di re¬spirazione controllata e concentrandosi sulle linee ver¬ticali della coperta che Penny gli aveva fatto per Natale due anni prima. Quando nella mente gli si fu formato il vuoto per diversi minuti, cominciò a leggere le parole insanguinate:

Al tuo dolore
ti ho sottratta;
Come un ladro
ti ho rubata;
Mi lacerai il
cuore per darti
la pace;
Mi chiedesti di porre fine
al tuo tormento
E vita io ti diedi.
Il tuo corpo era
l'ellissi,
Il tuo cuore
mia moglie
I tuoi lubrici studi
mio fardello;
La tua morte, per me
vita.
Le tue parole leggo,
nel mio inferno;
Tristezza fin nel profondo
per ciò che di laido
hai trovato.
Tu mi addolorasti più
di ogni altra.
Eri la più colta,
Più gentile, peggiore
e migliore.
Il cuore mi tremò
nell'istante in cui
ti diedi il riposo.

Tributo nel passaggio
anonimo,
vita vissuta avvolto
in una cellula
cancerosa,
Solo l'amor della mia
spada lo dona:
Sollievo dai cancelli
di questo cruento
inferno.

Lloyd rilesse la poesia altre tre volte, mandandola a memoria, lasciando che le permutazioni di quelle paro¬le lo penetrassero e imponessero il loro ritmo al battito cardiaco, al fluire del sangue nelle vene e alla carica che gli percorreva il cervello. Si alzò e cercò la propria im¬magine nello specchio che copriva completamente la parete di fondo. Non riusciva a capire se stava fissando un paladino protestante irlandese o un mostro, e non gli importava: era al centro di un vortice di pulsioni mali¬gne circondate da un'aura di quasi divinità, e finalmen¬te capì la ragione precisa per cui gli era stato donato il genio.
Mentre la poesia lo avviluppava sempre più, cominciò ad assumere dimensioni quasi musicali, cadenze si¬mili a quelle delle sigle dei vecchi programmi televisivi che Tom lo costringeva a...
Le cadenze crebbero, e quel "vita vissuta avvolto in una cellula cancerosa" diventò un'improvvisazione sul tema da big band di Texaco Star Theatre, e all'improvviso si vide accanto Milton Berle, con il suo sigaro fra i dentoni da marmotta. Lloyd cacciò un urlo e cadde in gi-nocchio, con le mani premute contro gli orecchi. Vi fu un rumore gracchiante, e la musica cessò. Lloyd si strinse più forte gli orecchi. "Raccontami una storia co¬niglio nella tana" piagnucolò più volte, sentendosi sem¬pre meglio, finché non sentì un fruscio di fondo prove¬nire dal grande altoparlante impiantato nella parete del letto. I singhiozzi lasciarono il passo a una risata di sol¬lievo. Era la radio.
Lloyd si sentì invadere la mente dal desiderio razio¬nale di combattere. Poteva ridurre al silenzio la centrale strappando qualche filo e girando qualche commutato¬re. I partecipanti potevano anche scopare sans accom-pagnamento, visto che quella era oltretutto un'attività illegale.
Rimettendo con cura la poesia nella busta e siste¬mandosela in tasca, Lloyd scese al piano di sotto, le ma¬ni strette ai fianchi, dentro le tasche. Non fece caso alle coppie che fornicavano in piedi sulle soglie delle came-re da letto e si concentrò sulle brillanti luci cremisi che avvolgevano tutto il corridoio. Le luci erano la realtà, la benigna antitesi della musica, e se solo fosse riuscito a lasciarsi guidare da loro fino allo stereo, sarebbe stato tranquillo.
Il piano terra era un unico grande vortice di corpi che si muovevano insieme alla musica, alcuni seguendo il ritmo e altri no, membra abbandonate che si alzavano, pelle contro pelle, una brevissima carezza prima di ri¬prendere i movimenti convulsi, quasi spastici. Lloyd si fece strada in mezzo a quel turbine, sentendosi toccare, tirare e spingere da braccia sconosciute. Vide lo stereo al capo opposto della sala e Joanie Pratt poco lontano, intenta a esaminare una pila di dischi. Completamente vestita, assomigliava quasi a un faro, unico punto fermo in un mondo di rumore allucinante.
«Joanie!»
Si stupì per primo della paura nella sua voce, e lo stu¬pore lo allontanò dalla musica, in mezzo ai corpi nudi che si ritiravano mentre lui li attraversava come una strada. Corse alla cieca in cucina, lungo corridoi illumi¬nati da luci stroboscopiche per finire in un cortile buio pesto in cui regnava un tremendo silenzio. Lloyd cadde in ginocchio e si lasciò abbracciare dall'aria calma e dal profumo degli eucalipti.
«Sergente?»
Joanie Pratt gli si inginocchiò a fianco. Gli accarezzò la schiena e disse: «Cristo, stai bene? La faccia che avevi sulla pista da ballo... Non ho mai visto niente di si¬mile.» Lloyd si costrinse a ridere. «Non preoccupar¬ti. Non sopporto la musica o i rumori forti. Roba di mol¬ti anni fa.» Joanie si girò l'indice contro la tempia. «A te manca qualche rotella, lo sai?»
«Non parlarmi a quel modo.»
«Scusa. Sposato? Bambini?»
Lloyd annuì e si alzò in piedi. Aiutando Joanie a rial¬zarsi, disse: «Da diciassette anni. Ho tre figlie.»
«Va bene?»
«Le cose stanno cambiando. Le mie bambine sono meravigliose. Io gli racconto delle storie, e mia moglie mi odia per questo.»
«Perché? Che storie gli racconti?»
«Non importa. Ma quando avevo otto anni mia ma¬dre raccontava a me delle storie, e mi hanno salvato la vita.»
«Che razza di...»
Lloyd scosse il capo. «No, cambiamo argomento. Hai sentito qualcosa alla festa? Qualcuno ha parlato di Julia? Hai notato niente di insolito?»
«No, no e no Julia dava un nome finto quando inter¬vistava la gente, e la foto del notiziario non era venuta bene. Secondo me non se n'è neanche accorto nessuno.»
Lloyd rifletté. «La bevo» disse «L'istinto mi dice che l'assassino non verrebbe mai a un ricevimento co¬me questo, perché lo considererebbe una depravazione. Però voglio coprire ogni pista. In una di quelle lettere che mi hai dato c'era una poesia. Scritta dall'assassino, ne sono sicuro. Nella poesia c'erano vaghi riferimenti ad altre vittime, per cui sono sicuro che ha ucciso più di una donna.» Quando Joanie gli rivolse in risposta uno sguardo inespressivo, lui continuò: «Voglio che tu mi dia un elenco di tutti i tuoi partecipanti abituali.»
Joanie stava già scuotendo freneticamente la testa. Lloyd la prese per le spalle e disse piano: «Vuoi che questa belva uccida ancora? O meglio, che è più impor¬tante, preferisci salvare delle vite innocenti o l'identità di quattro coglioni arrapati?»
Una risatina isterica dall'interno dell'abitazione fece da sfondo alla risposta di Joanie. «Direi che non ho molta scelta, sergente. Andiamo a casa mia, ho uno schedario con i nomi di tutti i clienti.»
«E la festicciola?»
«Chi se ne frega. Farò chiudere tutto dai gorilla. Prendiamo la tua macchina o la mia?»
«La mia. È un invito?»
«No, una proposta.»

Più tardi, quando furono troppo pieni l'uno dell'al¬tra per riuscire a dormire, Lloyd si mise a giocherellare coi seni di Joanie, stringendoli con le mani e plasman¬doli in forme diverse, passando le dita sull'areola dei capezzoli.
Joanie rise e disse sottovoce: «Do-wah wah-wah, do-rann-rann.» Lloyd le domandò cosa significassero quegli strani versi, e lei disse: «Dimenticavo che non ascolti mai musica.»
"Okay, senti. Io sono arrivata qui da Saint Paul nel Minnesota, nel 1958. Avevo diciotto anni. Sapevo già cosa volevo dalla vita: essere la prima donna a sfondare nel rock and roll. Ero bionda, le tette le avevo, e secondo me sapevo cantare. Così scendo dal bus all'incrocio fra il Fountain e la Vine e mi dirigo a nord. A nord del Bou¬levard mi capita davanti agli occhi la torre della Capitol Records, e penso che dev'essere sicuramente una specie di messaggio, così mi metto in marcia e la raggiungo, portandomi dietro una valigia di cartone, con addosso l'abito della festa tutto crinoline e tacchi alti il giorno più freddo dell'anno.
"Alla fine mi siedo nella sala d'aspetto a guardare con gli occhi di fuori tutti quei dischi d'oro appesi alle pareti. E penso 'Un giorno anche io...' Poi salta fuori un tizio che viene da me e mi fa: lo sono Pluto Maroon, faccio l'agente. La Capitol Records non ti sgrana. Teliamo'. Io dico: 'Eh?' e alla fine teliamo. Pluto mi racconta che c'è un suo amiconeheheh che sta girando un filmoneheheh a Venice. Prendiamo una Cadillac fa¬miliare e ci andiamo. Salta fuori che l'amicone di Pluto è Orson Welles. Sul serio, sergente: proprio Orson Welles in palle e ossa. Stava girando Il tocco del male. Veni¬ce è solo una cittadina al confine messicano, ma la po¬polazione è raddoppiata.
"Fin dall'inizio mi accorgo che il vecchio Orson tratta Pluto con una certa condiscendenza, lo tiene accanto solo come cortigiano, una specie di buffone di corte. Be', Orson dice a Pluto di tirargli su qualche tipo extra, qualcuno dei paraggi disposto a lavorare una giornata per qualche verdone e una bottiglia. Così io e Pluto an¬diamo a fare una passeggiata sull'Ocean Front Walk. Che scena! La piccola, innocente Joanie in mezzo a beatnik, drogati e geni!
"Alla fine entriamo in una libreria beatnik. Alla cassa c'è un tipo che sembra un lupo mannaro. Pluto fa: 'Ti gi¬ra di fare quattro colpi con Orson Welles e metterti un cinque in tasca?' Il tipo dice: 'Forte', e così teliamo per la passeggiata e raccogliamo lungo il percorso un entoura¬ge di facce da forca allucinanti.
"Il tipo lupo mannaro comincia a puntarmi. 'Io sono Marty Mason' mi fa. 'Sono un cantante.' Io penso: 'Uau!' e gli dico: 'Mi chiamo Joanie Pratt, sono anche io una cantante.' Marty fa: 'Cantami Do-wah, wah-wah, do-rann-rann dieci volte.' Io glielo canto, e lui dice: 'Sta¬sera ho un concerto a San Berdoo. Vuoi farmi da cori¬sta?' Io dico: 'Cosa devo fare?' Marty risponde: 'Canta Do-wah, wah-wah, do-rann-rann.'
"E le cose sono andate così. L'ho fatto. Ho cantato 'Do-wah, wah-wah, do-rann-rann' per dieci anni. Ho sposato Marty, e lui è diventato Marty 'Monster' Mason, e abbiamo inciso Monster Stomp puntando sul suo look da licantropo, e abbiamo avuto un successo bestiale per un paio d'anni, poi Marty ha cominciato a farsi e abbia¬mo divorziato, e oggi sono una specie di affarista, Marty è in terapia col metadone e fa il cuoco in un Burger King della Valle, e io continuo a fare 'Do-wah, wah-wah, do-rann-rann'."
Joanie sospirò, si accese una sigaretta e soffiò dei cerchi di fumo contro Lloyd, che le disegnava linee im¬maginarie sulle cosce, pensando che aveva appena sen¬tito riassumere tutto l'esistenzialismo in due parole. Vo¬leva l'interpretazione di Joanie, così domandò: «Che significa?»
Lei disse: «Ogni volta che sta succedendo qualcosa, o che la situazione si fa brutta, o magari tende al bello, canto "Do-wah, wah-wah, do-rann-rann", e tutto sem¬bra tornare a posto, o almeno non ho più tanta paura.»
Lloyd si sentì come se gli si fosse staccato un pezzetto di cuore e fosse tornato indietro a Venice, nell'inverno del '58. «Posso venire ancora a letto con te?» do¬mandò.
Joanie gli baciò una mano. «Quando vuoi, sergente.»
Lloyd si alzò e si vestì, poi prese lo schedario portati¬le e se lo strinse al petto. «Userò la massima discrezio¬ne» disse. «Farò fare tutte le domande di cui c'è biso¬gno ad agenti in gamba e professionali.»
«Mi fido di te» disse Joanie.
Lloyd si chinò e la baciò sulla guancia. «Ho manda¬to a memoria il tuo numero di telefono. Ti chiamo.»
Joanie si allungò a prendere il bacio. «Stammi be¬ne, sergente.»
Era l'alba. Lloyd raggiunse il Parker Center, in città, estasiato dalla propria determinazione. Prese l'ascen¬sore e salì alla sala dei computer, al quarto piano. C'era solo un operatore in servizio. Quando vide Lloyd avvicinarsi l'uomo alzò gli occhi dal romanzo di fanta¬scienza che stava leggendo e si domandò se c'era un modo di prendere un po' per il culo il corpulento agen¬te investigativo che gli altri poliziotti chiamavano "la Mente". Quando vide la faccia di Lloyd, decise che era meglio di no.
Lloyd disse seccamente: «Buongiorno. Voglio un tabulato di tutti gli omicidi irrisolti di donne nella Con¬tea di Los Angeles negli ultimi quindici anni. Io sono in ufficio. Chiami l'interno 1179 quando avrà a disposizio¬ne le informazioni.»
Lloyd fece un'espressione di circostanza e salì le due rampe di scale che portavano al suo ufficio. La stanzetta era buia e tranquilla, pacifica, e lui si abbandonò sulla sedia, addormentandosi immediatamente.

6

Il poeta leggeva il manoscritto nella sua completezza per l'undicesima volta, arrivando così al termine del suo undicesimo viaggio nella vergognosa passione della sua ultima amata, il terzo da quando aveva consumato il lo¬ro amore.
Le mani gli tremavano nel voltare le pagine, e si rese conto che non riusciva a far altro che tornare al terzo capitolo, quello che gli ripugnava e lo affascinava allo stesso tempo, con quelle parole che laceravano e mor-devano, che lo costringevano a percepire tutti i suoi or¬gani e le loro funzioni, lo facevano sudare e avevano su di lui un effetto tale che gli oggetti gli sfuggivano di ma¬no e gli veniva da ridere anche quando non c'era nulla di divertente.
Il capitolo era intitolato Uomini etero e fantasie omo¬sessuali, e gli faceva tornare alla mente i suoi versi dei primi tempi, i giorni precedenti alla sua ossessione per la forma, in cui le strofe non dovevano necessariamente essere in rima, in cui riponeva completa fiducia nell'unità tematica del suo subconscio. In quel capitolo la sua amata era giunta a far ammettere a una varietà di. uomini normali cose come: "Almeno una volta mi pia¬cerebbe farmelo mettere in culo. Almeno una, e al dia¬volo le conseguenze. Magari dopo tornare a casa e fare l'amore con mia moglie per vedere se per lei è la stessa cosa", oppure: "Ho 34 anni, e sono 17 anni che mi scopo tutte le donne che me lo permettono, eppure non ho an¬cora trovato quell'eccitamento che credevo. A volte giro per il Santa Monica Boulevard e vedo quelli che batto¬no, e mi sento come fuori posto e mi viene da pensare e ci penso e ci penso... (a questo punto l'intervistato fa un sospiro di disgusto)... E poi penso di trovarmi un'altra donna, e mi viene in mente di venire a queste orge e pri¬ma di rendermene conto me ne vado dal Santa Monica Boulevard e penso a mia moglie e ai bambini e poi... Oh, merda!"
Depose la cartelletta con i fogli staccati e sentì di nuo¬vo tutte le piccole correnti corporee che avevano domi¬nato la sua vita fin dal giorno in cui aveva consumato il suo amore per Julia. Lei era morta da due settimane e quelle piccole correnti continuavano senza affievolirsi, intoccate dal coraggio da lui mostrato nello scrivere con il proprio stesso sangue l'anonimo tributo a quella don¬na, non respinte dal suo primo rito sessuale dai giorni in cui...

Aveva letto il terzo capitolo a fianco del corpo di Ju¬lia, desiderando la completezza della sua carne e delle sue parole. Gli uomini che avevano raccontato a Julia le loro storie erano così pervasi di cancrenosa disonestà da fargli venire da vomitare. Eppure... Aveva letto più volte le parole dell'uomo che percorreva il Santa Moni¬ca Boulevard, alzando gli occhi per fissare Julia che ro¬teava lentamente sul suo asse. Lei era stata sua, più to-talmente sua di tutte le altre ventuno, anche più di Lin¬da, che pure lo aveva mosso a grande compassione. Lei gli aveva dato delle parole, parole da conservare, doni d'amore tangibili che avrebbero messo radici per cre¬scere nel suo animo. Eppure... Il Santa Monica Boule¬vard... Eppure... Quel povero derelitto così tormentato dalla morale della sua società da non riuscire a...
Era andato in soggiorno. La furia in seno. Una poe¬tessa lesbica descriveva la sua amante come una serie di "pieghe d'umidore pluriunite". Lui si era sentito pene¬trare da visioni: toraci muscolosi, spalle ampie, schiene rigide e sode, tutto donato da Julia, che gli imponeva di ricercare un'unione ancora ulteriore, mostrando il suo coraggio dove quel povero codardo aveva fallito. Si era ritratto dentro di sé, cercando disperatamente delle pa¬role. Aveva provato ad anagrammare i nomi di Julia e Kathy, cinque lettere ciascuno. Ma non era servito a niente. Julia esigeva qualcosa più delle altre. Era torna¬to in camera da letto a osservare il cadavere un'ultima volta. Lei gli aveva inviato altre visioni: giovani arcigni in posa da maschio. Aveva obbedito. Si era diretto verso il Santa Monica Boulevard.
Li aveva trovati a qualche isolato a ovest di La Brea, ad aspettare di fronte ai chioschi taco, alle librerie por¬no e ai bar, stagliati su quei fili di neon che sembravano soffonderli di aloni e aure diverse, come appendici del corpo. Aveva pensato di cercare un'immagine o un cor¬po più specifici, ma aveva ricacciato indietro il pensie¬ro. Se lo avesse fatto avrebbe anche avuto il tempo di battere in ritirata, e voleva far colpo su Julia con la sua obbedienza cieca.
Aveva accostato al marciapiede e abbassato il fine¬strino, facendo un cenno al giovane che vedeva appog¬giato a un espositore di giornali con il fianco rivolto alla strada.
Il giovane si era avvicinato parlandogli dal finestrino. "Trenta, solo di bocca, prendere o lasciare" aveva detto, e in risposta aveva ricevuto un cenno che lo invitava a salire.
Aveva voltato l'angolo e parcheggiato. Aveva irrigidi¬to tutto il corpo finché non gli era parso che i muscoli stessero per contrarsi e soffocarlo, poi aveva sussurrato: "Kathy", e aveva permesso al ragazzo di sbottonargli i pantaloni e abbassare la testa su di lui. Le contrazioni continuarono finché non esplose, e l'orgasmo gli mo¬strò nuovi colori. Gettò qualche banconota al ragazzo, che uscì e scomparve. Continuava a vedere quei colori, e li aveva visti per tutto il viaggio di ritorno a casa e nei so¬gni di quella notte, irrequieti eppure meravigliosi.
La mattina successiva si era dedicato al rituale dei fiori, che svolgeva ogni volta che consumava un matri¬monio. Mentre tornava a casa dopo essere stato dal fio¬raio, si era accorto che non provava più la consueta sen-sazione di commiato. Aveva passato il pomeriggio a svi¬luppare pellicole e organizzare i servizi fotografici della settimana successiva, e pensare a Julia gli rendeva l'atti¬vità quotidiana una noia infinita.
Aveva letto di nuovo il manoscritto, senza dormire la notte, tornando a vedere quegli strani colori, sentendo nuovamente sul ventre il peso della testa del ragazzo. Poi era cominciato il terrore. Sentiva strani minuscoli organismi percorrergli il corpo. Piccoli melanomi e tu¬mori che gli scorrevano nel sangue quasi in maniera percepibile. Julia voleva ancora di più. Esigeva un tri¬buto scritto, parole che si accoppiassero alle sue parole. Con un coltello affilatissimo si era tagliato un'arteria dell'avambraccio destro, quindi aveva spremuto la feri¬ta fino a versare tanto sangue da riempire completa¬mente il fondo di una piccola bacinella da sviluppo. Una volta cauterizzata la ferita, aveva preso una penna d'oca e un righello, e meticolosamente aveva vergato il suo tributo. Quella notte aveva dormito bene.
In mattinata aveva spedito la poesia all'indirizzo di fermo posta che aveva letto sulla prima pagina del ma¬noscritto di Julia. La sensazione di essere ritornato alla normalità era divenuta più concreta. Ma quella notte il terrore era tornato. I piccoli tumori erano ricomparsi. Aveva ricominciato a far cadere gli oggetti. Vide di nuo¬vo quei colori, ancora più vividi. La fantasmagoria del Santa Monica Boulevard gli tornava continuamente agli occhi. Aveva capito che doveva fare qualcosa, se non voleva impazzire.

Il poeta possedeva il manoscritto ormai da due setti¬mane dalla morte di Julia. Cominciò a considerarlo un talismano malefico. Il terzo capitolo era malvagio in modo particolare, nemico dell'autocontrollo che aveva scandito tutta la sua vita. Quella notte bruciò il mano¬scritto nel lavello della cucina. Sulle parole carbonizza¬te versò l'acqua del rubinetto, e si sentì pervadere da una nuova decisione. C'era un solo modo per cancellare del tutto il ricordo della sua ventiduesima amante.
Doveva trovare un'altra donna.

7

Erano passati 17 giorni dalla scoperta del cadavere di Julia Niemeyer, e per la prima volta Lloyd si chiese se la sua etica irlandese protestante potesse veramente fargli attraversare quello che si stava rivelando l'episodio più tormentoso della sua vita, una crociata che prometteva di fargli perdere completamente l'autocontrollo.
Per quella che doveva essere la millesima volta da quando aveva avuto i tabulati, ricapitolò tutte le prove concrete riguardanti l'omicidio di Julia Niemeyer e gli omicidi di donne nella contea di Los Angeles mai risolti: il sangue con cui era scritta la poesia era di gruppo 0 po¬sitivo. Quello di Julia Niemeyer era di gruppo AB. Nes¬suna impronta sulla busta o sul foglio di carta. Gli inter¬rogatori degli inquilini dell'Aloha Regency non avevano sortito risultato; nessuno sapeva molto della donna uc¬cisa; nessuno ricordava fatti insoliti accaduti nel palaz¬zo durante i giorni precedenti la morte. La zona circo¬stante era stata frugata a fondo, con l'obiettivo di trova¬re il coltello a doppio taglio che si presumeva fosse stato usato per la mutilazione, ma non era stato trovato nien¬te neppure di lontanamente simile. La vaga speranza di Lloyd che l'assassino di Julia fosse collegato a lei tramite le orge si era dimostrata infondata. Investigatori di grande esperienza avevano interrogato tutte le persone dello schedario di Joanie Pratt, e non ne avevano ricava¬to altro che nuovi spunti di depravazione e resoconti di tristi adulteri. Due agenti avevano ricevuto l'incarico di verificare che nelle librerie specializzate in poesia e let¬teratura femminista non vi fossero state richieste insoli¬te, da parte di uomini, del libro La furia in seno, o anche notizie di uomini che si comportavano stranamente. Erano state coperte tutte le piste d'indagine.
E poi gli omicidi irrisolti: nell'archivio computerizza¬to centrale in cui si registravano i dati forniti dalle 23 agenzie di polizia della contea di Los Angeles ne erano segnati 410, risalenti fino al gennaio del 1968. Se si to-glievano 143 omicidi veicolari, rimanevano 267 casi ir¬risolti. Di questi 267, 79 avevano come vittime donne fra i 20 e i 40 anni, cioè la categoria che Lloyd conside¬rava come perimetro delle attività dell'assassino. Era si-curo che il mostro le cercasse giovani.
Fissò la cartina della contea di Los Angeles appesa al¬la parete in fondo del suo ufficio. Vi aveva infilzato 79 spilli che indicavano i punti in cui le 79 donne avevano incontrato la morte violenta. Lloyd esaminò il territorio rappresentato da quelle zone e cercò di far lavorare in concerto la sua profonda conoscenza dei dintorni di Los Angeles e il suo istinto. Gli spilli coprivano tutta la contea, dalle valli di San Gabriel e San Fernando fino alle lontane comunità balneari che ne formavano il pe¬rimetro meridionale e occidentale. Centinaia e centi¬naia di chilometri quadrati. Eppure, dei 79 casi, 48 era¬no localizzati nei sobborghi di quelle che la polizia defi¬niva "zone sottosviluppate bianche": aree a basso reddi¬to medio e alto tasso di criminalità, in cui alcolismo e tossicodipendenza erano epidemici. I dati statistici e il suo istinto di poliziotto dicevano a Lloyd che la maggior parte di quelle morti erano legate ad alcol, droga e infe¬deltà coniugali. Per cui rimanevano 31 omicidi di don¬ne giovani, sparsi fra i sobborghi e i comuni della con¬tea di Los Angeles in cui si raggruppavano i ceti medio, medio-alto e alto. Tutti omicidi mai risolti da almeno nove agenzie di polizia.
Lloyd aveva intrapreso con un grugnito di fastidio l'ultima azione diretta possibile e aveva richiesto foto¬copie di tutte le cartelle dei casi irrisolti, rendendosi conto che avrebbero potuto volerci anche due settima¬ne perché arrivasse la risposta. Si sentiva impotente e in balia di forze al di là della sua giurisdizione, e cominciò a immaginare una città di morti coesistente con Los An¬geles in una distorsione temporale, una città in cui belle donne lo imploravano con occhi terrorizzati di trovare il loro assassino.
Tre giorni prima quella sensazione di impotenza era arrivata all'apice, e Lloyd aveva telefonato personal¬mente agli agenti responsabili del collegamento fra i nove distretti, esigendo che i dossier venissero recapita¬ti al Parker Center nel giro di 48 ore. Le risposte dei no¬ve agenti erano state diverse, ma alla fine avevano tutti ceduto di fronte alla reputazione di Lloyd Hopkins co¬me uno dei migliori uomini della Omicidi, e gli avevano promesso la documentazione al massimo entro 72 ore.
Lloyd guardò l'orologio, un cronometro militare Rolex a 24 ore. Erano passate 70 ore. Aggiungendo due ore di ritardi burocratici, la documentazione gli sarebbe dovuta pervenire entro mezzogiorno. Schizzò fuori dal suo ufficio e scese le sei rampe di scale fino a uscire in strada. Un giro per i marciapiedi di quattro ore, senza destinazione e con la mente deliberatamente svuotata, lo avrebbero riportato alle sue capacità ottimali, cosa di cui avrebbe avuto sicuramente bisogno per poter divo¬rare i 31 dossier della omicidi.

Quattro ore più tardi, con la mente schiarita da una decina di giri rapidi della zona circostante il Civic Cen¬ter, Lloyd fece ritorno nel suo ufficio. Vide che la porta del suo stanzino era aperta, e qualcuno aveva acceso la luce. Un tenente in uniforme lo incrociò in corridoio e spiegò frettolosamente: "Sono arrivate le tue carte, Lloyd. Sono nell'ufficio".
Lloyd annuì e sbirciò dalla porta. La scrivania e le due sedie erano coperte di spesse cartelle piene di carta ancora con l'odore del processo fotostatico. Le contò, poi spostò le sedie, il cestino della spazzatura e lo sche¬dario nel corridoio, sistemando i dossier in cerchio sul pavimento e sedendovisi in mezzo.
Su ciascuna cartella erano segnati cognome, nome e data di morte delle vittime. Lloyd le divise prima per re¬gione, poi per anno, senza guardare nessuna delle foto¬grafie che sapeva graffettate sulla prima pagina. Co-minciò da Fullmer, Elaine D.: morta il 9/3/68, Distretto di polizia di Pasadena, e terminò con Deverson, Linda Holly, morta il 14/6/82, D.P. Santa Monica. Raccolse tutta la documentazione non proveniente dal Diparti¬mento di polizia di Los Angeles e la mise da una parte. Diciotto cartelle. Guardò le rimanenti 13 del diparti¬mento di Los Angeles. I dati sulla copertina erano leg¬germente più dettagliati di quelli degli altri dipartimen¬ti: subito sotto il nome erano indicati età e razza della vittima. Delle 13 donne assassinate, sette erano di razza nera e ispanica. Lloyd mise da parte queste ultime e ve¬rificò di nuovo i propri istinti, lasciando svuotare la mente per un minuto buono prima di tornare ai pensie¬ri coscienti. Alla fine decise che doveva avere ragione: l'assassino preferiva le donne bianche. Per cui rimane¬vano sei dossier del Dipartimento di polizia di Los An¬geles e 18 delle altre agenzie, in totale 24. Distogliendo gli occhi dalle foto sulla prima pagina, Lloyd guardò sulle cartelle delle altre agenzie i dati razziali. Otto delle vittime erano di razza non caucasica.
Dunque rimanevano 16 cartelle.
Lloyd decise di fare un collage di fotografie, prima di leggere i dossier dall'inizio alla fine. Cancellando di nuovo tutti i pensieri, sfilò le foto dalle cartelle in ordine cronologico, tenendole a faccia in giù. "Parlatemi" disse ad alta voce, girando le foto.
Quando vide i volti sorridenti di sei delle foto, Lloyd sentì la propria mente procedere a sobbalzi convulsi nel tentativo di afferrare l'orripilante certezza a cui stava arrivando. Voltò le foto restanti e si sentì afferrare dalla logica del terrore, come da una morsa insanguinata.
Le donne morte erano tutte della stessa categoria, sembravano quasi imparentate dalle caratteristiche an¬glosassoni dei volti; tutte con acconciature pudiche e femminili, tutte di aspetto sano e integerrimo che avrebbe fatto la gioia dei tradizionalisti. Lloyd sussurrò l'unica parola che riassumeva le caratteristiche di quel¬le donne morte: "Innocente, innocente, innocente". Esaminò le foto un'altra decina di volte, raccogliendo i dettagli: fili di perle e anelli col sigillo del liceo legati a catenine, niente trucco, collo e spalle coperti da maglio¬ni e abiti scuri anacronistici. Non c'era alcun dubbio che quelle donne fossero state uccise da un mostro che voleva distruggere l'innocenza da loro così mirabilmen¬te rappresentata.
Con mani tremanti Lloyd sfogliò le cartelle, prenden¬do parte al rito di morte che si era svolto per strangola¬mento, colpo d'arma da fuoco, decapitazione, ingestio¬ne forzata di liquidi caustici, uccisione a randellate, gas, overdose di stupefacenti, avvelenamento e suicidio. Me¬todi molto diversi, con l'intento di non far capire alla polizia che si trattava di un massacro. Unico denomina¬tore comune, l'assenza di indizi. Nessuna prova concre¬ta. Donne scelte come vittime solo per il loro aspetto. Julia Niemeyer era stata uccisa 16 volte, e chissà quante altre in altri luoghi. L'innocenza era l'epidemia della gioventù.
Lloyd rilesse le cartelle, uscendo dalla sua trance per rendersi conto che era rimasto seduto per terra tre ore ed era sudato. Mentre si alzava per allungare dolorosa¬mente le gambe intorpidite, si sentì sopraffare dall'orro¬re grande, quello vero: la genialità dell'assassino era im¬perscrutabile. Non c'erano indizi. La pista della Nie¬meyer era un vicolo cieco. Le altre ancora peggio. Non poteva fare assolutamente niente.
Ma poi pensò che c'era sempre qualcosa da poter fare.
Lloyd prese un rotolo di nastro adesivo dalla scrivania e cominciò ad appiccicare le fotografie sui muri del suo ufficio. Quando i volti sorridenti delle donne furono tutti rivolti verso di lui, Lloyd sussurrò: "Finis. Morte. Kaput. Muerto".
Poi chiuse gli occhi e lesse la pagina dei dati anagrafi¬ci di ciascuna cartella, cercando di costringersi a pensa¬re solo in termini di zona. Una volta raggiunto lo scopo, prese penna e taccuino e scrisse:

Centro Los Angeles:
1. Elaine Marburg, Data Morte 24/11/69
2. Patricia Petrelli, D.M. 20/5/75
3. Karen La Pellev, D.M. 14/2/71
4. Caroline Werner, D.M. 9/11/79

Comunità della Valle e di Foothill:
1. Elaine Fullmer, D.M. 9/3/68
2. Jeanette Wilkie, D.M. 15/4/73
3. Mary Wardell, D.M. ó/1/74

Hollywood - West Hollvwood:
1. Laurette Powell, D.M. 10/6/78
2. Carla Castleberry, D.M. 10/Ó/80
3. Trudy Miller, D.M. 12/12/68
4. Angela Stimka, D.M. 10/Ó/77
5. Marcia Renwick, D.M. 10/Ó/81

Beverly Hills - Santa Monica - Comunità balneari:
1. Monica Martin, D.M. 21/9/74
2. Jennifer Szabo, D.M. 3/9/72
3. Linda Deverson, D.M. 14/6/82

Pensando solo in termini di modus operandi, Lloyd rilesse la pagina dei dati e ne ricavò tre morti per colpi di corpo contundente, due mutilazioni, un incidente di equitazione che si sospettava essere un omicidio, due morti per arma da fuoco, due accoltellamenti, quattro suicidi con diversi mezzi, un avvelenamento e un'over¬dose più asfissia definita "omicidio-suicidio?" da un funzionario che non aveva saputo che pesci pigliare.
Passando alla cronologia, Lloyd rilesse le date di morte che aveva segnato accanto alla lista delle vitti¬me, trovando il primo indizio sulla metodologia dell'assassino. Con l'eccezione di un intervallo di 25 mesi fra Patricia Petrelli, D.M. 20/5/75, e Angela Stimka, D.M. 10/6/77, e un altro di 17 mesi fra Laurette Powell, D.M. 10/6/78, e Caroline Werner, D.M. 9/11/79, l'assassino agiva a intervalli variabili fra i sei e i 15 me¬si, e Lloyd ne dedusse che era quella la ragione per cui era riuscito a sfuggire alla legge per tanto tempo. Gli omicidi erano senza dubbio portati brillantemente a termine sulla base di un'accurata conoscenza maturata dopo lunghi periodi di sorveglianza. Proseguendo nel ragionamento, dedusse che in quelle lunghe pause c'erano state con tutta probabilità vittime non elencate a causa di perdita dei dossier e errori del computer. Qualsiasi agenzia di polizia era soggetta a un ragguar¬devole margine di errore.
Lloyd chiuse gli occhi e immaginò distorsioni tempo¬rali all'interno di altre distorsioni temporali all'interno di altre distorsioni temporali; si chiese a quanti anni prima potessero risalire quegli omicidi. Tutti i Diparti¬menti di polizia della contea di Los Angeles eliminava¬no i dossier insoluti dopo 15 anni, il che significava che non aveva modo di accedere alle informazioni prece¬denti il gennaio del 1968.
Fu a quel punto che mise perfettamente a fuoco tutti i pensieri, e, sussurrando: "Guarda la foresta e vedi gli alberi", Lloyd controllò l'elenco che si riferiva a Hol¬lywood e a West Hollywood, sentendo la pelle d'oca. Quattro "suicidi" erano avvenuti tutti nella stessa data, il dieci giugno: questo nel 1977, '78, '80 e '81. Era l'unico indizio che facesse pensare a un comportamento pato¬logico e ossessivo, estraneo al consueto comportamen-to freddo e imprevedibile dell'assassino.
Lloyd prese le quattro cartelle e lesse il contenuto dall'inizio alla fine, prima una volta e poi un'altra. Quando ebbe finito spense la luce dello stanzino e si se¬dette, volando sull'onda di quello che aveva appreso.
La sera di giovedì dieci giugno 1977 gli inquilini del condominio al numero 1167 di Larrabee Avenue, a West Hollywood, avevano sentito odore di gas venire dall'appartamento in cui viveva in affitto Angela Marie Stimka, 27 anni, cameriera in una sala da cocktail. Gli inquilini avevano chiamato lo sceriffo di contea che abitava nel condominio, e l'uomo aveva sfondato la porta di casa di Angela Stimka, poi aveva spento la stu¬fa a muro da cui proveniva il gas e aveva trovato Ange¬la Stimka morta, tutta gonfia e livida sul pavimento della camera da letto. Lo sceriffo aveva portato fuori il cadavere e aveva chiamato lo sceriffo di West Hol¬lywood, e nel giro di qualche minuto era arrivata una squadra di agenti investigativi che aveva frugato l'ap¬partamento da cima a fondo trovando un biglietto in cui Angela Stimka diceva di voler morire a causa di una vecchia relazione amorosa recentemente spezzata. Gli esperti avevano esaminato il diario di Angela Stimka e poi il biglietto, arrivando alla conclusione che erano stati scritti dalla stessa persona. La morte era stata definita come suicidio, e il caso chiuso.
Il dieci giugno dell'anno successivo, un'auto di pat¬tuglia dello sceriffo era stata chiamata una casetta di Westbourne Drive, a West Hollywood. I vicini si erano lamentati di uno stereo acceso nella casa a volume in-solitamente elevato, e un'anziana signora aveva detto agli agenti di essere sicura che c'era qualcosa di "asso¬lutamente fuori posto". Gli agenti bussarono a lungo, e, quando nessuno venne ad aprire entrarono da una fine¬stra semiaperta e trovarono la proprietaria della casa, Laurette Powell, 31 anni, morta su una grande poltrona di vimini. I braccioli, l'accappatoio che aveva addosso e il pavimento di fronte a lei erano fradici del sangue schizzato fuori dalle arterie tagliate dei polsi. A qualche metro di distanza, su un comodino, c'era un flaconcino vuoto di Nembutal preso su ricetta, e in grembo la don¬na aveva un coltello da cucina affilatissimo. Nessun bi-glietto per spiegare il suicidio, ma gli investigatori della Omicidi, visto che le ferite su entrambi i polsi mostravano l'esitazione di chi aveva usato il coltello e che Laurette Powell aveva numerose vecchie ricette per il Nembutal, avevano classificato rapidamente la morte come av¬venuta per suicidio. Il caso era chiuso.
Il meccanismo mentale di Lloyd girava silenziosa¬mente. Sapeva che gli indirizzi di Westbourne Drive e Larrabee Avenue distavano meno di un isolato, e che il "suicidio" di Carla Castleberry al Tropicana Motel il die¬ci giugno '80, avvenuto per colpo di pistola in bocca, si trovava a meno di un chilometro dalla scena dei primi due delitti. Lloyd scosse la testa disgustato: qualsiasi poliziotto con mezzo cervello e dieci minuti di esperien¬za sapeva bene che le donne non si uccidono mai con le pistole. I casi di donne suicidatesi con armi da fuoco erano assolutamente irrilevanti.
Lloyd dedusse che il quarto "suicidio", quello di Mar¬cia Renwick, 818 North Sycamore, doveva essere il di¬scriminante. Il più recente avvenuto il dieci giugno, set¬te chilometri a est dei primi tre, nella Sezione Hol¬lywood del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Un anno esatto dopo l'omicidio di Carla Castleberry, l'over¬dose di tranquillanti di Marcia Renwick aveva tutto l'aspetto di un assassinio commesso d'impulso, senza fantasia.
Lloyd rivolse l'attenzione al dossier della vittima pre¬cedente Julia Niemever. Sussultò nel leggere il rapporto del medico legale per Linda Deverson, D.M. 14/6/82: fat¬ta a pezzi con un'accetta da incendio a doppio taglio. I ricordi accecanti di Julia che pendeva dalla trave del soffitto si unirono a quello che aveva già capito, e Lloyd fu sicuro che in qualche modo, per qualche ragione al¬lucinante, insensata, la pazzia dell'assassino stava arri¬vando al culmine.
Abbassò il capo e rivolse una preghiera al suo Dio personale, raramente cercato e di comodo. "Per favore, fa' che lo prenda. Fa' che lo prenda prima che faccia del male a qualcun'altra."
Il pensiero di Dio gli rimase nella mente anche men¬tre percorreva il corridoio e bussava alla porta del suo superiore, il tenente Fred Gaffaney. Sapendo bene che il tenente era un cristiano baciapile e convertito che di-sprezzava e compativa i poliziotti arroganti e solitari, decise di fare molto appello alla divinità suprema per supplicarlo di concedergli potere d'indagine. Gaffaney gli aveva dato via libera di gestire i suoi casi come prefe¬riva, con la condizione implicita che non venisse a chie¬dergli favori; dato che aveva intenzione di chiedergli soldi, uomini e pressione sui media, voleva avvicinare il tenente dall'alto della loro mutua religiosità.
«Avanti!» esclamò Gaffaney in risposta al suo bus¬sare.
Lloyd entrò e si sedette su una sedia pieghevole da¬vanti alla scrivania del tenente. Gaffaney alzò gli occhi dalle carte che stava esaminando e si portò una mano alla spilla che aveva sul risvolto della giacca, una croce e una bandiera incrociate.
«Desidera, sergente?»
Lloyd si schiarì la gola e cercò di darsi un'aria umile. «Signore, come sa, è da un po' che lavoro a tempo pie¬no all'omicidio Niemeyer.»
«E allora?»
«Be', signore, un buco nell'acqua.»
«Allora continui a lavorarci. Ho fede in lei.»
«Grazie, signore. Sa, è strano che parli proprio di fede.» Lloyd aspettò che Gaffaney gli dicesse di prose¬guire. Quando vide in risposta un'espressione impassi¬bile, andò avanti. «Questo caso ha messo a dura prova la mia fede, signore. Non ho mai creduto molto in Dio, ma il modo in cui ho trovato le prove mi ha spinto ad avere dei dubbi sulle mie convinzioni. Ho...»
Il tenente lo interruppe con un gesto secco della ma¬no. «Vado in chiesa la domenica e ai raduni di pre¬ghiera tre volte la settimana, ma quando prendo la fon¬dina mi tolgo Dio dalla testa. Lei vuole qualcosa. Mi di¬ca di che si tratta, e ne discuteremo.»
Lloyd diventò rosso in faccia e balbettò: «Signore, ecco... Io...»
Gaffaney si accomodò sulla sedia e si passò le mani fra i capelli grigi tagliati a spazzola. «Hopkins, lei non chiama un superiore "signore" da quando era recluta. Lei è il donnaiolo più conosciuto della Divisione rapine e omicidi, e di Dio non gliene importa un cazzo. Si può sapere che vuole da me?»
Lloyd fece una risata. «Posso saltare le stronzate?»
«La prego.»
«Va bene. Durante le mie indagini sul caso Niemeyer ho trovato prove incontrovertibili e logiche che indicano almeno altri 16 omicidi di giovani donne, risa¬lenti ad almeno 15 anni fa. Il modus operandi varia, ma le vittime facevano tutte parte di un certo tipo fisico. Ho ricevuto i dossier completi di questi assassinii, e certe considerazioni cronologiche, oltre ad altri fattori, mi hanno convinto che tutte e 16 le donne sono state uccise dallo stesso uomo, quello che ha ucciso Niemeyer. Gli ultimi due omicidi sono stati particolarmente brutali. Secondo me ci troviamo di fronte a un intelletto psico¬patico particolarmente brillante, e a meno che non or-ganizziamo qualcosa di massiccio per catturarlo ucci¬derà impunemente fino al giorno della sua morte. Mi servono dieci o dodici agenti esperti al lavoro a tempo pieno, che sia istituito un collegamento con tutti i Di-partimenti della contea, e il permesso di richiedere agenti in uniforme per il lavoro pesante, oltre all'auto¬rità di farli lavorare in straordinario illimitato. Mi serve anche il sostegno della stampa, perché sento che quell'animale sta per esplodere, e voglio pungolarlo un po'. Ho...»
Gaffaney alzò entrambe le mani per interromperlo. «Lei ha qualche prova concreta?» domandò. «Un testimone, qualcosa da parte degli agenti investigativi di questo o altri Dipartimenti, che rendano credibile la sua ipotesi di omicidio plurimo?»
«No» disse Lloyd.
«Quante di queste sedici indagini sono ancora aperte?»
«Nessuna.»
«Ci sono altri agenti del Dipartimento di polizia di Los Angeles in grado di convalidare questa sua ipotesi?»
«No.»
«Negli altri Dipartimenti?»
«No.»
Gaffaney picchiò le palme delle mani contro il ripia¬no della scrivania, poi si toccò la spilla sul risvolto della giacca. «No. Non le affiderò una cosa simile. È una storia troppo vecchia, troppo vaga e costosa e potenzial-mente imbarazzante per tutto il Dipartimento. So che lei è un ottimo agente investigativo con un magnifico curriculum...»
«Merda, ho il miglior fottutissimo curriculum di ar¬resti di tutto il Dipartimento!» urlò Lloyd.
Gaffaney urlò in risposta: «Mi fido del suo curricu¬lum, ma di lei no! Lei è solo un megalomane cacciatore di fica, un fanatico per quanto riguarda le donne assas¬sinate!» Abbassò la voce e aggiunse: «Se davvero le interessa Dio, gli chieda aiuto per la sua vita privata. Dio risponderà alle sue preghiere, e vedrà che non sarà più così sconvolto da cose che non può controllare. Guardi come sta tremando. Lasci perdere questa storia, Hopkins. Passi un po' più di tempo con la sua famiglia. Sono sicuro che lo apprezzerebbe molto.»
Lloyd si alzò in piedi, tremante, e andò alla porta. Ve¬deva rosso. Si voltò a guardare Gaffaney, che disse con un sorriso: «Se ne parla ai giornalisti, la farò crocifig¬gere. La farò rimettere in uniforme a pulire il piscio de¬gli ubriachi nei vicoli.»
Lloyd restituì il sorriso e si sentì crescere dentro una strana spavalderia. «Io prenderò quell'animale, e a lei le sue parole gliele ficcherò in culo» disse.

Lloyd mise i 16 dossier nel cofano della macchina e andò alla stazione Hollywood, con la speranza di trova¬re Dutch Peltz prima che finisse il suo turno di servizio. Ebbe fortuna. Dutch si stava infilando gli abiti civili nel¬lo spogliatoio degli agenti anziani, impegnato ad anno¬darsi la cravatta guardandosi distrattamente in uno specchio a tutta altezza.
Lloyd andò da lui, schiarendosi la gola. Senza spostare gli occhi dallo specchio, Dutch disse: «Mi ha chia¬mato Fred Gaffaney. Sapeva che saresti venuto da me. Guarda che ti ho salvato le chiappe: intendeva farti il culo con uno dei suoi amici baciapile delle alte sfere, ma io gli ho detto di non farlo. Lui mi deve dei favori, e così ha obbedito. Tu sei un sergente, Lloyd. Vuol dire che puoi fare il coglione solo con gli altri sergenti e i gra¬di inferiori. Dai tenenti in su, verboten. Comprende, cer¬vellone?»
Dutch si voltò, e Lloyd si accorse che il suo sguardo assente era velato di paura. «Gaffaney ti ha detto tut¬to?» domandò Lloyd.
Dutch annuì. «Quanto ne sei sicuro?»
«Completamente.»
«Sedici donne?»
«Come minimo.»
«Cosa vuoi fare?»
«Spingerlo fuori in qualche modo. Magari da solo. Il Dipartimento non darà mai l'autorizzazione a un'in¬dagine, perché li farebbe sembrare tutti degli incompe¬tenti. Sono stato stupido io ad andare da Gaffaney. Se lo scavalco e faccio una scenata, mi toglieranno dal caso Niemeyer e mi daranno un incarico del cazzo, come una rapina o stronzate del genere. Sai come mi sento, Dutch?»
Dutch alzò gli occhi verso il suo colossale genio-men¬tore, poi si voltò nel sentire le lacrime di orgoglio che gli stavano riempiendo gli occhi. «No, Lloyd.»
«Mi sento come se questa storia fosse fatta per me» disse Lloyd, fissando il proprio riflesso. «Come se non potessi mai sapere chi sono o chi posso essere fin¬ché non avrò preso questo bastardo e non avrò scoperto perché ha distrutto questa innocenza.»
Dutch mise una mano sul braccio di Lloyd. «Ti aiu¬terò» disse. «Non posso darti agenti, ma ti darò una mano io. Possiamo...» Dutch si fermò quando vide che Lloyd non lo stava ascoltando. Fissava come incantato nello specchio i propri occhi luminosi, o forse un mirag¬gio lontano di redenzione.
Dutch ritrasse la mano. Lloyd si riscosse, girò lo sguardo e disse: «Due anni dopo il mio ingresso in ser¬vizio, mi avevano mandato a fare conferenze nelle scuo¬le medie. Raccontavo ai ragazzini storie pittoresche di poliziotti e li avvertivo sui pericoli della droga e di non accettare passaggi dagli sconosciuti. Quell'incarico mi piaceva, perché mi piacciono i bambini. Un giorno un'insegnante mi parlò di una bambina della seconda media che aveva dodici anni e faceva pompini in cam¬bio di un pacchetto di sigarette. L'insegnante mi chiese se potevo parlarle.
«Andai a cercarla un giorno dopo le lezioni. Era una bella bambina, bionda. Aveva un occhio nero. Le chiesi cosa era successo, ma lei non voleva dirmelo. Le chiesi della situazione familiare. Una storia tipica: madre al¬colizzata che viveva di sussidi, padre dentro a San Quentin. Niente soldi, niente speranza e niente possibi¬lità. Ma a quella bambina piaceva leggere. Io la portai a una libreria all'incrocio fra la Sesta e il Western e la pre¬sentai al proprietario. Poi gli diedi cento dollari dicen¬dogli che erano di credito per lei. Feci lo stesso a un ne¬gozio di liquori e tabacco in fondo all'isolato. Con cento dollari ci si compra un sacco di sigarette.
«La bambina fu molto felice, e voleva farmi piacere. Disse che l'occhio nero lo aveva avuto da un tizio perché mentre lo spompinava lo aveva ferito con le bretelle. Mi chiese se volevo che me lo succhiasse. Le feci una gran predica. Ma continuo a vederla. Abita nel mio quartiere e la vedo sempre, con la sigaretta in bocca e un libro in mano. Sembra felice.
«Un giorno mi ferma mentre sono di pattuglia da solo sulla macchina. Mi dice: "Tu mi piaci tanto, voglio dav¬vero succhiartelo". Io le dico: "No", e lei comincia a piangere. Non sopporto cose del genere, così la abbrac¬cio e le dico di studiare come una pazza per poter essere capace un giorno di raccontare storie anche lei.»
A Lloyd tremò la voce. Si asciugò le labbra e cercò di rammentare quello che voleva dire. «Oh, già» fece al¬la fine. «Mi ero dimenticato di dirti che adesso quella bambina ha 27 anni ed è laureata in letteratura inglese. Avrà una buona vita. Ma... Ma c'è fuori questo tipo in gi¬ro che vuole ucciderla. E vuole uccidere le tue bambine, e le mie... Ed è molto furbo... Ma io non gli lascerò fare del male a nessuno. Te lo giuro. Lo giuro.»
Quando vide gli occhi grigi di Lloyd velati di una tri¬stezza inesprimibile a parole, Dutch disse: «Prendilo.»
Lloyd disse: «Lo prenderò» e se ne andò, renden¬dosi conto che il suo vecchio amico gli aveva concesso un'assoluzione in carta bianca per tutto quello che avrebbe dovuto fare, per qualsiasi regola avesse dovuto infrangere.

8

La mattina successiva, dopo una notte insonne passata a digerire i dati dei 16 dossier, Lloyd andò alla bibliote¬ca pubblica in centro, ricapitolando mentalmente du¬rante il percorso i dettagli logistici dei movimenti da fa¬re, spostando in un angolo del cervello i dettagli secon¬dari e gli stratagemmi burocratici necessari a coprirsi le spalle, in modo da poter arrivare al primo giorno di la¬voro duro in condizione di assoluto silenzio mentale.
Con i finestrini chiusi e il gracchiare della radio in¬tercomunicante staccata per enfatizzare il silenzio, Lloyd accantonò tutti i dettagli esterni dell'indagine. Aveva le spalle perfettamente coperte con Fred Gaffaney e i pezzi grossi della Divisione rapine e omicidi: do¬po aver chiesto notizie del caso Niemeyer ai due agenti investigativi che lavoravano ai suoi ordini e aver saputo che le loro perquisizioni delle librerie nella zona centra¬le di Los Angeles non avevano sortito risultati concreti, aveva detto loro di affidarsi completamente e in piena autonomia all'istinto, nonché di fare rapporto a Gaffaney due volte la settimana, in modo da far sapere al be-ghino, disprezzato da entrambi, che il sergente Hopkins stava lavorando duro nella tetra solitudine che era il ter¬ritorio di caccia dei geni. Gaffaney lo avrebbe accettato come parte del loro tacito accordo, e se si fosse lamenta¬to dell'assenza di Hopkins al Parker Center, Dutch Peltz si sarebbe fatto avanti e avrebbe messo a tacere le la¬mentele usando tutta l'autorità di cui disponeva. Era al sicuro.
Per quanto riguardava l'indagine in sé, non c'erano ancora fatti concreti che Lloyd non avesse già saputo dalla prima lettura dei dossier. Tutto si era svolto in un silenzio assoluto: Janice e le bambine erano andate a dormire all'appartamento dell'amico George in Ocean Park, e Lloyd aveva tutta la casa a disposizione per leg¬gere in una quiete perfetta. Nel desiderio di sovrapporre la distruzione dell'innocenza tramite assassinio ai pro¬pri sforzi di annullarla con le storie che raccontava, ave¬va letto quelle cartelle infernali nella camera da letto di Penny, con la speranza che l'aura della figlia minore gli donasse la lucidità necessaria a creare fatti concreti dai labirinti della propria psiche. Non era emerso nulla di nuovo, ma lo studio psicocaratteriale dell'assassino ave¬va aggiunto al tutto una nuova dimensione soffusa di verosimiglianza gelida, raffinata.
Anche se non aveva possibilità di accedere ai dossier degli omicidi irrisolti prima del 1968, Lloyd era sicuro che gli assassinii non risalissero a molto prima di quell'anno. L'ipotesi era basata su una deduzione carat-teriale così forte da non poterla ignorare: l'assassino era un omosessuale. Tutta la genealogia di quelle morti vio¬lente era un tentativo di nasconderlo a se stesso. Non lo sapeva, non lo sapeva ancora. Gli omicidi precedenti a quelli di Linda Deverson e Julia Niemeyer, anche se brutali, tradivano una certa soddisfazione per un lavoro ben fatto, oltre a un assoluto desiderio di anonimato. Quell'uomo non aveva la benché minima idea di ciò che era. Linda e Julia, orribilmente massacrate, erano degli spartiacque, i punti di divisione irrevocabile, basati sul terrore di una sessualità emergente così forte e vergo¬gnosa da dover essere affogata nel sangue.
Lloyd ripercorse all'indietro nel tempo i nessi che gli venivano istintivi. L'assassino doveva vivere a Los Angeles. Doveva possedere una forza spaventosa per poter troncare membra con un solo colpo d'accetta. Senza dubbio era fisicamente attraente, in grado di muoversi con una certa grazia all'interno del mondo gay. Era qualcosa che desiderava disperatamente, ma doversi sottomettere alla vulnerabilità necessaria per un rap¬porto sessuale avrebbe distrutto il suo desiderio di ucci¬dere. La sessualità si forma durante l'adolescenza. Im¬maginando che l'assassino si trovasse ancora su una curva sessuale ascendente, e che gli omicidi fossero ini¬ziati pressappoco verso il gennaio del 1968, poteva dare al mostro un periodo d'incubazione di cinque anni, per cui doveva aver raggiunto la pubertà verso la metà degli anni Sessanta, il che significava che attualmente era sulla trentina, al massimo quarant'anni.
Mentre usciva dall'autostrada all'incrocio fra la Se¬sta e il Figueroa, Lloyd sussurrava: "Dieci giugno, dieci giugno, dieci giugno". Parcheggiò in sosta vietata dal lato sbagliato della strada e mise sotto il tergicristallo un distintivo che diceva VEICOLO UFFICIALE DI POLIZIA. Correndo su per gli scalini della biblioteca si sentì fru¬stare da un'improvvisa epifania, come da un'accetta in mezzo agli occhi: il mostro uccideva perché voleva amare.

Il viaggio microfilmato nel tempo di Lloyd durò quat¬tro ore, e toccò tutti i dieci giugno dal 1960 al 1982. Ini¬ziando dal Times di Los Angeles per finire con l'Herald-Express e il suo derivato, l'Examiner, fece passare i titoli di testa, gli articoli e i resoconti che coprivano ogni ar¬gomento dal baseball in prima divisione alle insurrezio¬ni nei paesi stranieri fino alle sfilate di moda e ai risulta¬ti delle primarie. Niente, in quella parata d'informazio¬ni, gli balzò all'occhio come possibile fattore contri¬buente a una pulsione omicida, e niente gli mise in moto il cervello per espandersi sulla sua ipotesi, a nessun li¬vello. Il dieci giugno era l'unico indizio d'importanza de¬cisiva per trovare l'assassino, ma per i giornali di Los Angeles sembrava un giorno come qualsiasi altro.
Nonostante Lloyd si fosse aspettato risultati negativi, rimase comunque deluso, e fu felice di aver tenuto per ultimo il microfilm con le notizie dei quattro "suicidi", nel 1977, '78, '80 e '81.
La delusione crebbe. Le morti di Angela Stimka, Laurette Powell, Carla Castleberry e Marcia Renwick erano relegate nei trafiletti di quarta pagina. Per descrivere tutti e quattro i "suicidi" entrambi i giornali avevano usato l'aggettivo "tragico"; lo spazio restante era occu¬pato dalle parole "I funerali si svolgeranno in data" e poi dai nomi e indirizzi dei parenti.
Lloyd riavvolse il microfilm, lo mise sulla scrivania del bibliotecario e uscì al sole. Il riflesso sul marciapie¬de e le lunghe ore passate davanti allo schermo gli cau¬sarono un dolore pulsante che dal collo salì alla testa. Cercando di ridurre il dolore a un ronzio di fondo, Lloyd meditò sulle alternative. Interrogare i parenti? No, non avrebbe ottenuto altro che tristi dinieghi. Visi¬tare le scene delle morti? Cercare indizi, inseguire intui¬zioni? "Lavorare duro!" gridò Lloyd ad alta voce. Corse a prendere la macchina, e il mal di testa scomparve.

Lloyd raggiunse West Hollywood ed esaminò i primi tre luoghi in cui erano avvenuti gli omicidi del dieci giugno.
Angela Stimka, morta il 10/6/77, aveva abitato in un condominio color malva di dieci appartamenti, orripi¬lante come era costume del boom edilizio degli anni Cinquanta, costruito evidentemente con materiali sca-denti, che come unica fonte di prestigio aveva la vici¬nanza ai bar gay di Santa Monica e all'intreccio di pro¬miscuità sessuale notturna del Sunset Strip.
Lloyd andò in macchina e scrisse una descrizione dell'isolato, allontanando lo sguardo solo una volta, quando notò un cartello, dalla parte opposta della stra¬da rispetto al numero 1167 di Larrabee, che diceva SO-STA NOTTURNA VIETATA. Sentì il cervello scattare. Era nel cuore del ghetto degli omosessuali. Con tutta probabi¬lità l'assassino aveva scelto la Stimka per il luogo in cui si trovava il suo palazzo, oltre che per l'aspetto fisico della donna, desiderando in qualche modo negare al proprio subconscio ciò che era, scegliendo una vittima in un quartiere in maggioranza omosessuale; e gli uo¬mini dello sceriffo di West Hollywood erano diabolici in fatto di soste vietate.
Lloyd sorrise e percorse i due isolati successivi fino alla piccola casa in legno di Westbourne Drive in cui Laurette Povvell era morta di Nembutal e ferite d'arma da taglio "autoinflitte". Un altro cartello che diceva SO¬STA NOTTURNA VIETATA, e di nuovo la mente di Lloyd fece un piccolo balzo avanti.
Al Motel Tropicana i balzi diventarono numerosi, e risuonarono dentro Lloyd come colpi di fucile che lace¬ravano senza pietà corpi innocenti. Carla Castleberry, morta il 10/6/80, uccisa da una pallottola calibro 38 che le era entrata nel palato e di lì nel cervello. Le donne non si facevano mai saltare la testa. Classico simbolismo omosessuale, perpetrato in una squallida camera d'al¬bergo del quartiere omosessuale.
Lloyd esaminò il marciapiede di fronte al Tropicana. Poppers di nitrato di ammile frantumati per terra, battoni tossicomani appoggiati alle pareti della caffetteria. Quando la spinta simbiotica cominciò a emergere alla luce dell'esplosione che lo sconvolse, Lloyd provò terro¬re. Cercò di ignorarlo e corse a una cabina telefonica per comporre un numero familiare, di sette cifre. Quan¬do all'altro capo sentì una voce egualmente familiare di¬re: «Stazione Hollywood, parla il capitano Peltz» Lloyd sussurrò: «Dutch, ho capito perché uccide.»

Un'ora più tardi Lloyd sedeva nell'ufficio di Dutch Peltz a esaminare le informazioni inconcludenti che lo avevano spinto a sbattere frustrato le mani sul piano della scrivania del suo migliore amico. Dutch era im¬mobile vicino alla porta, a guardare Lloyd che leggeva i telex appena arrivati dal Dipartimento di polizia di Los Angeles e dai computer centrali dello sceriffo. Avrebbe voluto accarezzare i capelli al suo figlio adottivo o lisciargli la camicia, qualsiasi cosa pur di alleviare l'ango¬scia che gli contorceva di rabbia i lineamenti. Sentendo¬si impotente di fronte a quella furia, Dutch disse: «Ve¬drai che andrà tutto bene, ragazzo.»
Lloyd urlò: «E invece no! È stato violentato, ne sono sicuro, ed è successo un dieci di giugno, quando era adolescente! Le registrazioni di violenze sui minori non vengono mai cestinate! Se non c'è nel computer, allora non è successo nella contea di Los Angeles, oppure non è mai stato denunciato! In questi tabulati del cazzo del¬la buoncostume minorile non si parla di altro che pro¬stituzione e pompini nelle auto in sosta, e uno stronzo non si mette a massacrare gente solo perché si è lasciato ciucciare il cazzo da un vecchio porco a Griffith Park!»
Lloyd prese un fermalibri in quarzo e lo scagliò dall'altra parte della stanza. Il fermalibri atterrò sul pa¬vimento vicino alla finestra che dava sul parcheggio del¬la stazione. Dutch sbirciò all'esterno gli agenti di pattu¬glia notturna che controllavano le loro auto ufficiali, e si chiese come poteva amarli tanto, eppure per niente a paragone di Lloyd. Rimise il fermalibri al suo posto sul¬la scrivania e passò la mano fra i capelli di Lloyd.
«Va meglio, ragazzo?»
Lloyd rivolse a Dutch un sorriso impulsivo simile a un breve sussulto. «Sì, va meglio. Comincio a capire questa belva, ed è già qualcosa.»
«E i tabulati delle auto in sosta? Le schede delle da¬te in cui sono avvenuti gli omicidi?»
«Niente da fare. Neanche il minimo rapporto sulle date e le strade richieste, e le uniche schede di ricono¬scimento dello sceriffo riguardano donne, battone che lavorano sul Sunset Strip. Il raggio d'azione è enorme, e il nostro dipartimento non aveva schede computerizza¬te quando quella Renwick è stata uccisa. Dovrò rico¬minciare tutto da zero, fare interrogazioni segrete ai ve¬terani della minorile, vedere se riesco a trovare qualco¬sa sui vecchi casi di stupro mai registrati.»
Dutch scosse il capo. «Se questo tizio è stato aggre¬dito, o stuprato o quel che era vent'anni fa, come pensi tu, la maggior parte degli agenti in grado di sapere qual¬cosa ormai sarà in pensione.»
«Lo so. Ma metti le mani avanti, va bene? Smuovi le conoscenze, chiedi qualche favore. Io voglio conti¬nuare a girare per le strade, è lì che mi trovo meglio.»
Dutch prese una sedia e sedette di fronte a Lloyd, cer¬cando di misurare la luce che gli brillava negli occhi. «Okay, ragazzo. Ricordati del mio ricevimento di giovedì sera, e cerca di riposarti un po'.»
«Non posso. Stasera ho un appuntamento. Tanto, Janice e le bambine saranno comunque in giro con quel loro amico frodo. Voglio rimanere in movimento.»
Lo sguardo di Lloyd vagò per un istante. Dutch lo se¬guì con lo sguardo. «C'è qualcosa che vuoi dirmi, ra¬gazzo?»
Lloyd fece: «Sì. Ti voglio bene. Adesso lasciami al¬zare i tacchi prima che ci mettiamo a fare i sentimen¬tali.»
In strada, senza la documentazione a cui fare riferi¬mento e con altre tre ore da far passare prima di andare da Joanie Pratt, Lloyd rammentò che i suoi subordinati dovevano ancora setacciare le librerie della zona di Hol-lywood.
Raggiunse una cabina telefonica e sfogliò le Pagine Gialle dove trovò l'indirizzo di un negozio specializzato in poesia e un altro in letteratura femminista.
Il New Guard Poetry, a La Brea vicino a Fountain, e il Feminist Bibliophile, all'incrocio fra Yucca e la Highland.
Scelto un itinerario che gli permettesse di passare da entrambe le librerie e poi dirigersi verso casa di Joanie, sulle Hollywood Hills, Lloyd andò prima al New Guard Poetry, dove un tizio tediato e dall'aria intellettuale che indossava un'incoerente salopette da agricoltore gli dis¬se che no, non erano passati clienti dall'aria sospetta, né erano state vendute antologie di prosa femminista a uo¬mini massicci sulla trentina, per la semplice ragione che il negozio non vendeva testi di poesia femminista, in quanto anticlassicista e aberrante. La maggior parte dei clienti era costituita da accademici che preferivano ordinare dal catalogo, e niente più.
Lloyd ringraziò l'uomo e salì sulla Matador non uffi¬ciale dirigendosi a nord, per parcheggiare di fronte al Feminist Bibliophile alle sei precise, nella speranza che la piccola libreria ricavata da un vecchio appartamento fosse ancora aperta. Proprio mentre saliva i gradini sentì chiudere la porta dall'interno, e quando vide dalla finestra le luci che si spegnevano, batté sullo stipite del¬la porta e gridò: «Polizia. Aprite, per favore.»
Un istante dopo la porta venne socchiusa, e la donna che l'aveva aperta venne stagliata contro la luce prove¬niente dall'interno, in posa di sfida. Lloyd rabbrividì impercettibilmente nel sentire con quale orgoglio lei ri-maneva in quella postura, e prima che potesse dar voce a quel tono di sfida disse: «Sono il sergente Lloyd Hopkins, Squadra investigativa del Dipartimento di po¬lizia di Los Angeles. Posso parlarle un momento?»
La donna non disse niente. Il silenzio era snervante, così, per trattenersi dal cominciare a saltellare imbaraz¬zato, Lloyd memorizzò le caratteristiche fisiche della donna, tenendo su di lei uno sguardo fisso che lei resti¬tuì senza la minima esitazione. Vide un corpo morbido e forte sul quale pesava una certa angolosità; dai 34 ai 36 anni, e come unica concessione all'età un trucco leg¬gerissimo; occhi castani, pelle chiara, capelli castani, apparentemente segni di buona educazione; un severo abito di tweed che sembrava più un'armatura. Intelli¬gente, sprezzante e infelice. Un'esteta timorosa delle passioni. «È dei servizi segreti?»
Lloyd spalancò la bocca, colpito da quella domanda fuori luogo e dalla forza che la donna aveva nella voce. Si riprese e spostò il peso sulle gambe, poi disse: «No, perché?»
La donna fece un sorriso malinconico. «Si sa che il Dipartimento di polizia di Los Angeles cerca da anni di infiltrarsi nei progetti definiti sovversivi, e le mie poesie sono state pubblicate in periodici femministi che hanno spesso criticato il vostro Dipartimento. Il catalogo di questa libreria comprende molti libri in cui si distrug¬gono i miti di cui è circondata la mentalità maschilista.»
La donna si interruppe nel vedere il gran sorriso sul volto del robusto poliziotto. Lloyd capì che in qualche modo lo sconcerto era identico per entrambi, e disse: «Se volessi infiltrarmi in una libreria femminista sarei venuto in uniforme. Posso entrare, signorina...»
«Mi chiamo Kathleen McCarthy» disse la donna. «Non mi piace essere chiamata "signorina", e non la lascerò entrare finché non mi avrà detto di che si tratta.»
Era la domanda in cui Lloyd aveva sperato. «Sono il più onorato agente investigativo della Omicidi sulla co¬sta occidentale» disse gentilmente. «Sto indagando sugli omicidi di una ventina di donne. Uno dei cadaveri l'ho trovato personalmente. Non intendo insultarla de¬scrivendole in che modo era mutilato. Sulla scena del delitto ho trovato un libro, La furia in seno. Sono sicuro che l'assassino si interessi di poesia, forse di poesia fem-minista in particolare. È per questo che sono qui.»
Kathleen McCarthy era impallidita, e la sua posa sprezzante era crollata per poi riprendersi dopo che si fu sostenuta allo stipite. Lloyd entrò, mostrandole il di¬stintivo e il tesserino di riconoscimento. «Chiami la stazione Hollywood» disse. «Chieda del capitano Peltz. Lui le confermerà quanto le ho detto.»
Kathleen McCarthy fece cenno a Lloyd di entrare, poi lo lasciò solo in una grande sala piena di scaffali. Quan¬do sentì il rumore del numero che veniva composto al telefono si sfilò la vera nuziale ed esaminò i libri che co¬privano tutte e quattro le pareti ed erano anche sistema¬ti su tavoli, sedie e mensole metalliche rotanti. Il suo ri¬spetto per quella poetessa arrogante crebbe. Aveva si¬stemato i propri testi nei punti più in vista della sala, in-sieme a quelli di Lessing, Plath, Millett e altre icone del femminismo. Lloyd ne dedusse che era una grande esi¬bizionista. Quella donna cominciava a piacergli.
«Le chiedo scusa per averla giudicata prima di sen¬tire cosa aveva da dirmi.»
A quelle parole Lloyd si voltò. Kathleen McCarthy non era affatto mortificata nel domandare scusa. Lui cominciò a percepirla, e disse una battuta calcolata per ottenere a sua volta il rispetto della donna. «Capisco come si sente. Gli agenti dei servizi segreti sono fin troppo zelanti, al limite della paranoia.»
Kathleen sorrise. «Posso dirlo in pubblico?»
Lloyd restituì il sorriso. «No.»
Seguì un silenzio imbarazzato. Sentendo che quella mutua attrazione cresceva, Lloyd indicò un divano co¬perto di libri e disse: «Possiamo sederci? Le racconto tutto.»
A bassa voce e con sguardo deliberatamente ine¬spressivo, Lloyd raccontò a Kathleen McCarthy di come aveva trovato il cadavere di Julia Niemeyer e di come una copia insanguinata di La furia in seno, insieme alla poesia spedita alla casella postale di Julia, lo avevano convinto che il presunto assassino era in realtà un pluriomicida. Terminando con un resoconto del suo lavoro di analisi cronologica e del profilo psicologico che ne aveva dedotto, Lloyd disse: «È incredibilmente intelli¬gente, e sta perdendo completamente il controllo. Ha la fissazione della poesia. Secondo me il suo subconscio desidera veramente perdere il controllo, e probabilmen¬te vede la poesia come un mezzo per raggiungere quello scopo. Mi serve il suo aiuto riguardo La furia in seno, e mi serve sapere se ha visto arrivare nel suo negozio uo¬mini strani, in particolar modo sulla trentina, a com¬prare opere femministe, comportandosi in modo furti¬vo o con un sottofondo di rabbia o in qualsiasi altro mo¬do inconsueto.»
Lloyd si accomodò sul divano assaporando la reazio¬ne di Kathleen, un'ira gelida, dura e tesa. Lei rimase in silenzio per un minuto buono, e lui capì che stava rac¬cogliendo i pensieri in forma breve e seria, e che quando avrebbe parlato la risposta sarebbe stata perfettamente controllata, priva di retorica o qualsiasi espressione di dolore.
Aveva visto giusto. «La furia in seno è un libro di protesta» disse piano Kathleen. «Una polemica, un attacco contro molte cose, in particolare la violenza sul¬le donne. Sono anni che non l'ho più in magazzino, e quando lo avevo dubito di averne mai venduta una co¬pia a un uomo. A parte questo, gli unici clienti maschi della libreria sono quelli che vengono con le loro fidan¬zate, e studenti universitari, tutti giovani sulla ventina. Non ricordo di avere mai visto un uomo sulla trentina qui dentro. Il negozio è mio e lo gestisco da sola, per cui i clienti li vedo tutti. Ho...»
Lloyd interruppe Kathleen con un gesto della mano. «E gli ordini per posta? Ha un catalogo per corrispon¬denza?»
«No, non ho i servizi per vendere per corrisponden¬za. Tutto quello che vendo lo vendo qui nel negozio.»
Lloyd borbottò: «Merda» e batté il pugno sul brac¬ciolo del divano. Kathleen disse: «Mi spiace, ma stia a sentire... Ho molti amici che vendono libri. Letteratura femminista, poesia e altro. Agenti privati che forse lei non conosce. Farò qualche chiamata. Insisterò. Voglio veramente essere d'aiuto.»
«Grazie» disse Lloyd. «Il suo aiuto mi farebbe davvero comodo.» Con uno sbadiglio ostentato, ag¬giunse: «Avrebbe un po' di caffè? Sono allo stremo.»
Kathleen disse: «Un momento» e andò nella stan¬za sul retro. Lloyd sentì i rumori dei piattini e delle taz¬zine che venivano preparati, seguiti dal crepitio elettri¬co di una radio e il frastuono di una specie di sinfonia o concerto. Quando la musica salì di tempo, lui disse ad alta voce: «Può spegnere, per favore?» Kathleen ri¬spose: «Va, bene, ma parli di qualcosa.»
La musica si affievolì e cessò del tutto. Lloyd, solleva¬to, disse: «Di cosa vuole che parli, del mio lavoro nella polizia?»
Un istante dopo Kathleen tornò nel soggiorno, por¬tando un vassoio con due tazze di caffè e biscotti assor¬titi. «Parli di qualcosa di carino» disse, togliendo i li¬bri da un tavolino basso. «Di qualcosa che le è caro.» Squadrando Lloyd apertamente, aggiunse: «Mi sem¬bra pallido. Si sente male?»
Lloyd disse: «No, sto benissimo. Ma il rumore mi dà fastidio. È per questo che le ho domandato di spegnere la radio.» Kathleen gli porse una tazza di caffè. «Quello non era rumore. Era musica.» Lloyd ignorò quelle parole. «Mi è difficile descrivere quello che mi è caro» disse. «Mi piace frugare nelle fogne cercando di vedere come fare giustizia, poi battermela in tutta fretta e andare da qualche parte, in qualche posto caldo e tranquillo.»
Kathleen sorseggiò il caffè. «Cioè con una donna?»
«Sì. La cosa la offende?»
«No. Perché dovrebbe?»
«Per questa libreria. Le sue poesie. Il 1983. Scelga lei la ragione.»
«Dovrebbe leggere i miei diari, prima di giudicar¬mi. Sono una brava poetessa, ma come scrittrice di diari sono anche meglio. Intende prendere questo as¬sassino?»
«Certo. Sono colpito dalla sua reazione alla mia presenza. Vorrei proprio leggere i suoi diari, sentire i suoi pensieri più intimi. A quando risalgono?»
Kathleen sussultò leggermente alla parola "intimi". «A molto tempo fa» disse «dai giorni in cui ero alla Marshall Clarion. Ho...» Kathleen si arrestò e fissò il poliziotto grande e grosso, che stava ridendo e scuoten¬do il capo allegramente. «Si può sapere che c'è?» do¬mandò.
«Niente, solo che siamo andati alla stessa scuola. Ti avevo fraintesa completamente, Kathleen. Pensavo che fossi una irlandese della costa occidentale, e invece sei una del mio quartiere. Lloyd Hopkins, classe '59 alla Marshall High, poliziotto di nonni irlandesi protestanti, incontra Kathleen McCarthy, ex residente a Silverlake e diplomata alla Marshall High, classe...»
Il volto di Kathleen si illuminò di gioia. «Classe '64» terminò per lui. «Dio, com'è buffo. Ricordi la roton¬da?» Lloyd annuì. «E il signor Juknavarian e le sue storie sull'Armenia?» Lloyd annuì di nuovo. «E la si-gnora Cuthbertson e il suo cane impagliato? Ricordi che lo chiamava la sua musa?» Lloyd si piegò in due dalle risate. Kathleen continuò a raccontare di quel ri¬cordi nostalgici fra le sue risatine allegre. «E i Pachucos che si battevano con i Surfers, e il signor Amster e quelle magliette che aveva fatto? I "Roditori di Amster"? Quando facevo il quarto anno qualcuno aveva legato un topo morto all'antenna della sua macchina e gli aveva messo un biglietto sotto il tergicristallo, con scritto: "I Roditori di Amster gli rodono il pisello!".»
L'attacco di risate di Lloyd crebbe fino a farlo tossire, e gli venne paura di sputare il caffè e i biscotti dapper¬tutto. «Basta, basta, per favore, altrimenti muoio» riuscì a balbettare. «Non voglio morire così.»
«E come, allora?» chiede scherzosamente Kath¬leen.
Lloyd capì che quella domanda serviva a sondarlo. «Non so» disse «o molto vecchio o in modo molto ro¬mantico. E tu?»
«Molto vecchia e saggia. Con la serenità dell'autun¬no che sfuma in un lungo inverno, e le mie parole accu¬ratamente pianificate per i posteri.»
Lloyd scosse il capo. «Cristo, non riesco a credere a quello che stiamo dicendo. Dove abitavi a Silverlake?»
«All'incrocio fra Tracy e Micheltorena. E tu?»
«All'incrocio fra Griffith Park e St. Elmo. Quando ero bambino giocavo spesso al "pulcino bagnato", sulla Micheltorena. Era appena uscito Gioventù bruciala, e fare quel gioco era molto di moda. Dato che eravamo troppo giovani per guidare, lo facevamo con degli slitti¬ni a cui avevamo attaccato rotelle di gomma. Partivamo in cima alla collina che sovrastava il Sunset, alle due e mezzo del mattino, penso che fosse l'estate del '55. Lo scopo del gioco era passare tutto il Sunset contromano. A quell'ora del mattino c'era traffico a sufficienza per rendere la cosa leggermente rischiosa. Io lo facevo ogni sera per tutta l'estate. E non ho mai frenato coi piedi o col freno a mano. Non rifiutavo mai le sfide.»
Kathleen sorseggiò il caffè, chiedendosi quanto scoperta dovesse essere la sua domanda successiva. All'in¬ferno, pensò poi, e disse: «Cosa intendevi dimostrare?»
«È una domanda provocatoria, Kathleen» disse Lloyd.
«Come te. Ma io credo nella parità. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi, e io risponderò.»
Il volto di Lloyd si illuminò mentre lui esaminava le possibilità che gli apriva quella domanda. «Stavo cer¬cando di inseguire il coniglio nella tana» rispose. «Volevo accendere il fuoco sotto il culo al mondo. Volevo che gli altri pensassero che ero un duro, così Ginny Skakel mi avrebbe fatto un lavoretto di mano. Volevo re¬spirare la luce bianca della purezza. È una buona rispo¬sta?»
Kathleen sorrise e fece un piccolo applauso a Lloyd. «Buona davvero, sergente. E perché hai smesso?»
«Due ragazzi erano rimasti uccisi. Stavano corren¬do sulla slitta, e una Packard Caribbean li ha fatti a pez¬zetti. Uno dei ragazzi rimase decapitato. Fu mia madre a chiedermi di smettere. Mi raccontò che c'erano modi più sicuri per esprimere il proprio coraggio. Mi raccon¬tava storie per togliermi il dolore.»
«Il dolore? Vuoi dire che volevi continuare a gioca¬re quell'assurdo gioco?»
Lloyd assaporò lo sguardo incredulo di Kathleen e disse: «Naturalmente. Il romanticismo adolescenziale è duro a morire. Vale anche per te, Kathleen?»
«Naturalmente.»
«Bene. Sei romantica?»
«Sì... Sostanzialmente... Io...»
Lloyd la interruppe. «Bene. Posso vederti domani sera?»
«Cosa hai in mente? Una cena?»
«Non proprio.»
«Un concerto?»
«Molto divertente. A dire il vero, pensavo che avremmo potuto fare un giretto per Los Angeles a vede¬re come se la passa il romanticismo urbano.»
«Questa sarebbe un'avance?»
«Assolutamente no. Dovremmo fare qualcosa che nessuno dei due ha mai fatto prima, il che esclude quel¬lo. Ci stai?»
Kathleen strinse la mano tesa di Lloyd. «Ci sto. Va bene qui alle sette?»
Lloyd portò la mano della donna alle labbra e la ba¬ciò. «Ci sarò» disse, dirigendosi alla porta prima che potesse accadere qualcosa per spegnere la forza di quel momento.
Alle sei, Lloyd non era ancora arrivato, e Janice si preparò per la sera, sentendosi sollevata su tutti i fron¬ti. Era contenta che le assenze del marito diventassero sempre più frequenti e prevedibili, che le bambine fos¬sero così assorte nei loro hobby e nella loro vita di gruppo da non sentire apparentemente la mancanza del padre, che il proprio amoroso distacco sembrasse crescere sempre più, fino al punto in cui un giorno o l'altro, ma presto, sarebbe riuscita a dirgli: "Tu sei sta¬to l'amore della mia vita, ma ora è tutto finito. Non rie¬sco più a capirti. Non sopporto più le tue ossessioni. È proprio finita".
Mentre Janice si vestiva per la sua serata danzante rammentò l'episodio che le aveva dato per la prima volta lo stimolo a riflettere sull'idea di lasciare per sempre suo marito. Era successo due settimane prima. Lloyd era rimasto via per tre giorni. Le era mancato, e lo desiderava fisicamente, tanto da essere pronta a chiudere un occhio su eventuali scappatelle. Era anda¬ta a letto nuda e aveva lasciato accesa la candela a fianco del letto, sperando di venire svegliata dalle ma¬ni di Lloyd che le stringevano i seni. Quando alla fine si era risvegliata, aveva visto Lloyd sopra di lei, nudo, mentre le divaricava gentilmente le gambe. Aveva a malapena trattenuto un urlo nel sentirsi penetrare, con negli occhi l'immagine dei suoi lineamenti contor¬ti. Quando lui era arrivato al culmine e il corpo gli si era contratto in uno spasmo, lei lo aveva stretto forte e aveva capito che le era stato donato il potere di forgia¬re una nuova vita.
Janice indossò un completo di lamé argentato, su cui si sarebbero riflesse tutte le luci roteanti dello Studio One. Si sentiva percorrere da impeti schiavistici di lealtà, e d'impulso definì mentalmente suo marito in termini clinici, gelidi: "È un uomo ossessionato e mala¬to. Anacronistico. Incapace di cambiare, un uomo che non ha mai ascoltato."
Janice chiamò le figlie e le portò all'appartamento di George, in Ocean Park. Il suo amante, Rob, si sarebbe preso cura di loro mentre lei e George passavano la not¬te fra una discoteca e l'altra. Rob avrebbe raccontato lo¬ro delle belle storie e avrebbe preparato un grande ban¬chetto vegetariano.

Lo Studio One era affollato, traboccante di uomini vestiti alla moda che ondeggiavano e si allontanavano l'uno dall'altro, i contorni distorti dalle luci strobosco¬piche sintonizzate sulla musica. Janice e George si fe¬cero un po' di coca nel parcheggio immaginando il loro ingresso come una delle parate più sfarzose e seguite della storia. Come unica donna sulla pista da ballo, Ja¬nice sapeva di essere il corpo più desiderato sotto quel¬le luci: desiderata non sessualmente, ma con un'ansia di trasferimento. Alta, regale, abbronzata e piena di grazia: ogni uomo del locale voleva letteralmente esse¬re lei.

Quando fece ritorno a casa molto tardi quella notte, Llovd la aspettava a letto. Fu particolarmente dolce, e lei restituì le sue carezze con grande dispiacere. Nella sua mente si susseguivano immagini sconnesse con cui lei cercava di non soccombere all'amore. Janice pensò a molte cose, ma non capì neppure lontanamente che lui aveva fatto l'amore con un'altra donna solo due ore prima, una donna che si considerava "un po' un'affari-sta" e che un tempo aveva cantato canzoni rock'n roll dai testi incomprensibili; e neppure che con quella donna, come con la moglie ora, aveva sempre pensato a una ragazza irlandese che abitava nel suo vecchio quartiere.

Quella notte Kathleen scrisse nel suo diario:

Oggi ho incontrato un uomo, e penso che il destino lo abbia messo sulla mia strada per una ragione precisa. Ai miei occhi rappresenta un paradosso e una serie di possibilità a cui non posso neppure cominciare ad accedere; a tanto arriva la sua forza incoerente. Fisi¬camente enorme e orgoglioso, eppure, nonostante tutto ciò, è un uomo felice di vivere da poliziotto! So che mi desidera (quando ci siamo incontrati ho visto che portava una vera nuziale. Più tardi, una volta che la sua attrazione per me si è fatta più evidente, ho no¬tato che se l'era sfilata: un sotterfugio molto contorto e rivelatore). Sono convinta che il suo io e la sua vo¬lontà siano ugualmente potenti, tanto da conformar¬si alla sua taglia e alla sua autoproclamata intelligen¬za. E sento... o meglio, so... che desidera cambiarmi, che vede in me un'anima gemella, da poter toccare in profondità ma anche da manipolare. Devo stare mol¬to attenta a ciò che dico o faccio con quest'uomo. Per il beneficio della mìa crescita, deve esserci uno scam¬bio, un prendere e dare. Ma devo mantenere separata da lui la mia anima più profonda e pura. Il mio cuore deve rimanere inviolato.

9

Lloyd passò la mattinata al Parker Center, a costruirsi tutta un'apparenza rituale per ingraziarsi il tenente Gaffaney e magari altri superiori che avessero notato le sue assenze prolungate. Dutch Peltz chiamò presto; aveva già iniziato delle indagini informali riguardo vec¬chi casi di violenza omosessuale, delegando due agenti in servizio sedentario a telefonare a tutta la lista di agenti investigativi della Minorile in pensione e nella li¬sta "privata" del personale fuori servizio del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Dutch avrebbe telefo¬nato di persona agli agenti della Minorile ancora in ser¬vizio e con più di vent'anni di esperienza, e lo avrebbe richiamato non appena raccolta una discreta quantità di informazioni per poterle esaminare. Con Kathleen McCarthy a controllare la pista delle librerie, a Lloyd non rimaneva molto da fare se non immergersi nei do-cumenti: leggere e rileggere i dossier dei suicidi finché qualcosa che in precedenza gli era sfuggito o aveva ma¬le interpretato non gli balzasse alla mente.
Gli ci vollero due ore e migliaia di parole per riuscire a trovare un collegamento, e quando il numero 408 comparve nello stesso contesto in due cartelle diverse, Lloyd non avrebbe saputo dire se si trattava di un indi-zio o di una semplice coincidenza.
Il cadavere di Angela Stimka era stato trovato dal vici¬no di casa, il vicesceriffo della contea di Los Angeles, Delbert Haines, matricola 408, ed erano stati altri vicini a chiamarlo mentre era fuori servizio, dopo aver sentito l'odore di gas che veniva dall'appartamento della donna. Esattamente un anno più tardi, gli agenti T. Rains, ma¬tricola 408, e W. Vandervort, matricola 691, erano stati chiamati sulla scena del "suicidio" di Laurette Powell. Rains, Haines: uno stupido errore. I numeri di matricola uguali indicavano evidentemente lo stesso agente.
Lloyd lesse il dossier del terzo "suicidio" avvenuto a West Hollywood: Carla Castleberry, morta il 10/6/80 nel Tropicana Motel di Santa Monica Boulevard. Il verbale era stato stilato da agenti completamente diversi, e i no¬mi degli occupanti il motel interrogati sulla scena del delitto, Duane Tucker, Lawrence Craigie e Janet Mandarano, non apparivano in nessun altro dossier.
Lloyd prese il telefono e fece il numero dello sceriffo di West Hollywood. Rispose una voce tediata. «Ufficio dello sceriffo. Desidera?»
Lloyd disse seccamente: «Sono il sergente Hopkins, Squadra investigativa del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Da voi c'è un agente Haines, o Rains, matricola 408, che lavora fuori dalla stazione?» L'agente annoiato borbottò: «Sissignore, Big Whitey Haines. Pattuglia diurna.»
«È in servizio oggi?»
«Sissignore.»
«Bene. Si metta in contatto con lui alla radio. Gli di¬ca che lo aspetto fra un'ora alla pizzeria all'incrocio tra Fountain e La Cienega. È urgente. Ha capito?»
«Sissignore.»
«Bene. Lo faccia subito.» Lloyd riappese. Proba¬bilmente non sarebbe servito a niente, ma almeno avrebbe potuto muoversi.

Lloyd raggiunse il ristorante in anticipo, ordinò un caffè e si sedette a un separé che dava sulla vetrata del parcheggio, il posto migliore per dare un'occhiata a Haines prima del loro incontro.
Cinque minuti più tardi un'auto ufficiale entrò nel parcheggio. Ne uscì un agente in uniforme, stringendo gli occhi miopi per il riverbero del sole. Lloyd misurò l'uomo: alto, biondo, corpo muscoloso ma inflaccidito. Trenta o trentacinque anni. Capelli acconciati in modo ridicolo, basette troppo lunghe per quella faccia grassoccia; l'uniforme stretta sul torace muscoloso e lo stomaco floscio come una seconda pelle. Lloyd lo guardò mentre si infilava degli occhiali da sole e si metteva il cinturone. Non sembrava un tipo intelligen¬te, ma sicuramente sapeva il fatto suo. Meglio andarci piano con lui.
L'agente andò direttamente al tavolo di Lloyd. «Ser¬gente?» disse, tendendogli la mano.
Lloyd gliela strinse e indicò il posto a sedere di fron¬te, aspettando che l'uomo si togliesse gli occhiali. Quan¬do lo vide sedersi senza toglierli e grattarsi un focolaio di acne sul mento Lloyd pensò: anfetamine. Bisogna fa¬re il duro.
Haines si agitò, a disagio, sotto lo sguardo di Lloyd. «Cosa posso fare per lei?» domandò.
«Da quanto sta con lo sceriffo, Haines?»
«Nove anni» disse Haines.
«E da quanto alla stazione Hollywood?»
«Otto anni.»
«Lei abita sulla Larabee?»
«Esatto.»
«Mi sorprende. West Hollywood è piena di checche.»
Haines s'irrigidì leggermente. «Sono dell'idea che un buon poliziotto deve vivere nella sua zona.»
Lloyd sorrise. «Anche io. Come la chiamano i suoi amici? Delbert? Del?»
Haines cercò di sorridere, mordendosi involontaria¬mente il labbro. «Whitey. Co-co-cosa è...»
«Per cosa sono venuto? Glielo dirò fra un momento. La sua zona di lavoro comprende Westbourne Drive?»
«S... Sì.»
«Ha sempre lavorato sullo stesso circuito da quan¬do è alla stazione?»
«C... Certo. Tranne per una volta che sono andato a fare servizio con la Buoncostume. Ma di cosa si...»
Lloyd picchiò la mano sul piano del tavolo. Haines fece un balzo indietro sulla panca, alzando le mani e poi sistemandosi gli occhiali da sole. A un angolo della boc¬ca gli cominciò un tic nervoso. Lloyd sorrise. «Mai la¬vorato con la Narcotici?»
Haines diventò rosso e sussurrò: «No» raucamen¬te, con le vene che gli pulsavano forte sul collo.
Lloyd disse: «Solo un controllo. Sono venuto più che altro per farle qualche domanda riguardo un cada¬vere che ha trovato lei nel '78. Una donna che si era ta¬gliata le vene nella Westbourne. Ricorda?»
Haines si afflosciò completamente. Lloyd lo guardò mentre i muscoli si rilassavano in un riflesso sollevato, quasi stupito. «Certo. Io e il mio socio abbiamo avuto una chiamata e ci hanno detto di problemi non meglio identificati. Una vecchia che abitava nella casa accanto diceva che c'era un giradischi a tutto volume. Abbiamo trovato quella bella ragazza tutta bl...»
Lloyd lo interruppe. «Lei ha trovato un'altra suicida nel suo condominio l'anno prima, vero, Whitey?»
«Sì» disse Haines. «Proprio così. Sono rimasto intossicato dal gas, mi hanno dovuto portare all'ospeda¬le. Ho avuto un encomio ufficiale e la fotografia sul bol¬lettino d'onore della stazione.»
Appoggiandosi allo schienale e allungando le gambe sotto il tavolo, Lloyd disse: «Tutte e due le donne si so¬no uccise il dieci giugno. Non pensa che sia una strana coincidenza?»
Haines scosse il capo. «Forse. O forse no. Non so.»
Lloyd rise. «Neanche io. È tutto, Haines. Può an¬dare.»

Dopo che Haines si fu allontanato, Lloyd rimase a be¬re caffè e a pensare. Un poliziotto chiaramente stupido e oltretutto pieno di anfetamine. Nessun coinvolgimen¬to negli omicidi-suicidi, ma non c'era dubbio che fosse dentro fino ai capelli in tanti traffici da quattro soldi e che sentirsi fare domande su due vecchi omicidi era per lui come vedersi graziato sotto la ghigliottina. Non ave¬va neppure chiesto perché fosse venuto a interrogarlo. Poteva aver scoperto i due cadaveri per coincidenza? Viveva nella stessa zona che pattugliava. A livello logi¬co, tutto calzava.
Ma a livello istintivo, c'era qualcosa fuori posto. Lloyd misurò i pro e i contro di un'irruzione diurna nel¬la sua casa. Vinsero i pro. Prese la macchina e si diresse al 1167 di Larrabee Avenue.

Il residence color malva era completamente silenzio¬so, le porte dei dieci appartamenti chiuse, nessun movi¬mento sul sentiero che portava al parcheggio. Lloyd esaminò le cassette della posta davanti al complesso di edifici. Haines abitava al numero cinque. Passando lo sguardo sui numeri incisi sulle porte del primo piano, trovò subito l'obiettivo: l'appartamento sul retro. Niente porta blindata, né parti in ottone a indicare serrature di sicurezza.
Lavorando simultaneamente con un coltellino a la¬ma corta e una carta di credito in plastica, Lloyd fece scattare la serratura e aprì la porta. Accendendo la luce, chiuse la porta ed esamino il soggiorno completamente privo di gusto che si era aspettato di trovare: divano e sedie imbottite da poco prezzo, tavolino da caffè in for¬mica, spessa moquette di tessuto scadente ormai logo¬ra. Alle pareti c'erano stampe di paesaggi. Sulle mensole della libreria non c'erano libri, solo un mucchio di rivi¬ste porno.
Andò in cucina. Muffa sul pavimento di linoleum scheggiato, piatti sporchi nel lavello, uno spesso strato di unto su armadietti e soffitto. Il bagno era anche peg¬gio: arnesi da barba sparpagliati su una mensola vicino al lavandino, schiuma da barba raggrumata sullo spec¬chio e le pareti, uniformi sporche appese a uno stendiabiti.
In camera da letto, Lloyd trovò i primi indizi caratte¬riali che non mostrassero solo miseria estetica e sciattezza. Sopra il letto disfatto c'era una rastrelliera di mo¬gano con vetrina in cui si trovavano cinque o sei fucili. Uno era a canne doppie segate, illegale. Alzando il mate¬rasso, trovò una Browning calibro 9 e una baionetta ar¬rugginita con un cartellino attaccato all'impugnatura: VERA SPADA VIETCONG DA ESECUZIONE! GARANTITA AUTENTI¬CA! Nei cassetti accanto al letto c'erano un grande sac¬chetto di plastica pieno di marijuana e una bottiglia di Dexedrina.
Dopo aver passato armadi e cassetti senza trovare al¬tro che abiti civili sporchi, Lloyd tornò nel soggiorno, sollevato nel vedere confermate le sue intuizioni sul conto di Haines, eppure inquieto per il fatto che niente gli aveva ancora parlato. Cancellando dalla mente ogni pensiero, sedette sul divano e lasciò vagare lo sguardo per la stanza in cerca di qualsiasi cosa gli stimolasse il cervello. Un giro completo, poi due, poi tre. Dal pavi¬mento al soffitto, poi le pareti e di nuovo da capo.
Al quarto giro, Lloyd notò qualcosa nella forma e nel colore del rivestimento all'attaccatura delle due pareti appena sopra il divano. Salì su una sedia ed esaminò il punto. La pittura era stata assottigliata, e un oggetto delle dimensioni di una moneta da un quarto di dollaro era stato appiccicato al legno e ridipinto dello stesso co¬lore. Lloyd strinse gli occhi e si sentì gelare. L'oggetto era coperto di forellini, proprio come un microfono a condensatore ad alta potenza. Passando un dito lungo la parte superiore dello stipite, Lloyd sentì il cavetto. Il soggiorno era sotto controllo spia.
Alzandosi sulle punte dei piedi, seguì il percorso del cavo lungo le pareti fino alla porta d'ingresso, lungo lo stipite fino alla passatoia consumata e a un cespuglio immediatamente adiacente ai gradini che portavano all'appartamento. Una volta all'esterno della casa, il ca¬vo era coperto da uno stucco colorato di malva, identico al colore dell'edificio. Frugando dietro il cespuglio, Lloyd vide dove finiva il cavo, una scatola metallica dall'aria inutile unita al muro, appena al livello del terre¬no. Afferrò la scatola con entrambe le mani e tirò con tutta la forza che aveva. La copertura si staccò. Lloyd si chinò e guardò in direzione della passatoia a vedere se vi fossero testimoni. Nessuno. Spinse da parte cespuglio e coperchio metallico e guardò il tesoro che aveva trovato.
Nella scatola c'era un registratore a bobine ad alta tecnologia. La bobina era ferma, il che significava che chiunque sorvegliasse la casa doveva venire ad accende¬re il registratore ogni volta, o, più probabilmente, aveva installato un dispositivo di accensione, che lo stesso Haines faceva scattare senza saperlo.
Lloyd guardò la porta, a meno di tre passi da dove si trovava. Doveva essere quello il dispositivo.
Andò alla porta, la aprì dall'interno, poi la richiuse e tornò al registratore. Le bobine non si muovevano. Ri¬peté la procedura, questa volta aprendo la porta da fuo¬ri e richiudendola. Chinandosi accanto al cespuglio, ammirò il risultato. Si era accesa una spia rossa, e le bo¬bine giravano silenziosamente. Whitey Haines lavorava alla pattuglia diurna. Chiunque fosse la persona interes¬sata alle sue attività, ne era al corrente e voleva registra¬re le sue serate. Lo dimostrava il dispositivo che si azio¬nava aprendo la porta per entrare.
Lloyd richiuse la porta. Che fare? Portare il registratore con sé, o sorvegliare l'appartamento per aspettare che lo spione tornasse a riprendere i nastri? E tutto ciò poteva avere un collegamento col suo caso? Guardando di nuovo la passatoia per controllare che non ci fosse nessuno, Lloyd cercò di decidersi. Quando si sentì riem¬pire di una curiosità che cancellò ogni altra considera¬zione, tagliò il cavetto con il coltello, prese il registrato¬re e corse in macchina.

Tornato al Parker Center, Lloyd si infilò dei sottili guanti di gomma da chirurgo ed esaminò la macchina. Era identica a un prototipo che aveva visto a un semina¬rio dell'FBI sugli equipaggiamenti elettronici da sorve-glianza: un modello a "bobine super" con quattro bobi¬ne gemelle separate, disposte dai due lati delle testine autopulenti che scattavano automaticamente non appe¬na le otto ore di autonomia del nastro terminavano. Un sistema che permetteva una registrazione ininterrotta di 32 ore senza doversi avvicinare alla macchina.
Guardando dentro il registratore, Lloyd vide che le bobine primarie e le tre ausiliarie avevano tutte il na¬stro, e che quello della prima era registrato per metà, il che voleva dire che la macchina non conteneva più di quattro ore circa di materiale. Cercando una conferma, Lloyd controllò il compartimento in cui finivano le bo¬bine usate. Era vuoto.
Lloyd tolse i nastri ausiliari e li mise nel cassetto in cima alla scrivania, pensando che quella piccola quan¬tità di nastro registrato era una specie di mezza benedi¬zione: con tutta probabilità non avrebbe potuto ricava¬re molte informazioni da sole quattro ore di registrazio¬ne, ma presumendo che il colpevole conoscesse bene le abitudini di Whitey Haines e avesse nascosto nel suo appartamento qualche dispositivo di spegnimento in modo da registrare solo un tot di ore per notte, quella mancanza di nastro usato avrebbe dato a Lloyd un muc¬chio di tempo per organizzare una sorveglianza per prendere lo spione con le mani nel sacco quando fosse tornato a mettere delle bobine nuove nella macchina. Chiunque fosse tanto in gamba da sistemare un impian¬to elettronico tanto complesso avrebbe i rischiato sola¬mente lo stretto necessario di sortite per rimpiazzare i nastri.
Lloyd fece il corridoio di corsa per raggiungere il cu¬bicolo degli interrogatori del sesto piano, accanto alla sala ragguagli. Prese un vecchio e logoro registratore a bobine da un tavolo coperto di bruciature di cicche e lo portò nel suo ufficio. "Fa' il bravo" disse nel sistemare il nastro registrato sul portabobine. "Niente musica, nien¬te rumore. Fa il bravo."
Il nastro cominciò a girare, e l'altoparlante sibilò e crepitò di elettricità statica. Poi si sentì il rumore di una porta che veniva chiusa, un grugnito in voce baritonale seguito da un rumore che Lloyd riconobbe immediata-mente: il tonfo di una fondina che veniva lasciata cade¬re su un tavolo o una sedia. Quindi un rumore di passi appena udibili, e un altro grugnito, di qualche ottava più acuto del precedente. Lloyd sorrise. Nell'apparta¬mento di Haines c'erano almeno due persone.
Poi Haines parlò. "Devi darmi di più, Bird. Taglia la coca con quelle anfe che prendo alla Narcotici, alza il prezzo, figa, trovati qualche cliente nuovo o fa' quel che cazzo vuoi. Stanno arrivando tipi nuovi, e se non gli passo una parte, non basterà neanche il culo che mi fac¬cio a salvare te e quelle mezzeseghe dei tuoi amici dagli sbirri. Mi segui, ragazzo?"
Rispose una voce maschile, stridula. "Whitey, dicevi che non mi avresti alzato la quota! Ti dò già sei testoni al mese, metà dei soldi della roba e prendi buste da metà della gente che c'è in strada! Avevi detto..."
Lloyd senti un rumore che si risolse in uno schianto secco. Silenzio poi la voce di Haines. "Se mi rompi di nuovo i coglioni con queste cagate ti pesto sul serio. Apri bene le orecchie, Bird. Senza di me, tu sei solo una merda. Hai le palle più dure in tutto il ghetto dei froci solo perché sono stato io a farti fare sollevamento pesi e a farti curare quel corpiciattolo, e perché sono stato io a fare in modo che i bulli ti mandassero via la minorile dal territorio, e perché sono io a farti avere la roba e la protezione che rendono te e quei cagacazzo dei tuoi amici i migliori del quartiere. Finché sono in cima nella Buoncostume, puoi stare tranquillo. E per rimanere in cima ci vogliono soldi. È arrivato un comandante per la pattuglia diurna che continua a trasferire gente, e se non sto attento a lisciargli il culo potrei finire a mettere dentro negri ubriachi a Compton. Ci sono due pesci nuovi che girano dentro la Buoncostume, e non ho una sega di idea se riesco o no a tenerteli lontani dal culo. La mia tariffa è di duemila al mese prima che riesco a vede¬re un centesimo di guadagno. E la tua da oggi sale del venti per cento. Chiaro, Bird?"
L'uomo dalla voce stridula balbettò: "Ce-ce-certo, Whitey". Haines fece una risatina, poi disse, con voce dolce e insinuante: "Mi sono sempre preso cura di te. Basta che tieni il naso pulito e lo farò sempre. Devi solo passarmi di più. Adesso vieni in camera, che ti do lo zuccherino".
"Non voglio, Whitey."
"E invece lo fai, Birdy. Fa parte della tua protezione."
Lloyd ascoltò il rumore dei passi che sfumava in un silenzio pietoso e mostruoso. Il silenzio durò ore. Venne improvvisamente interrotto dal suono di singhiozzi soffocati e una porta che sbatteva. Poi il nastro non gli riferì altro.
Protettori di battoni, agenti della Buoncostume cor¬rotti, droga e un poliziotto brutale indegno di portare il distintivo. Possibile che tutto ciò fosse collegato a un pluriomicida? E chi aveva messo il microfono nell'ap-partamento di Whitey Haines, e per quale motivo?
Lloyd fece due telefonate rapide, alla Divisione per gli affari interni del Dipartimento di polizia di Los An¬geles e a quella dello sceriffo. Facendo forza sulla pro¬pria reputazione, riuscì a ottenere risposte oneste dai pezzi grossi della DIA. Gli dissero che il vicesceriffo Delbert Haines, matricola 408, non era sotto indagine da parte di nessuna delle due divisioni. Inquieto, Lloyd fe¬ce passare mentalmente la lista delle possibili parti interessate ai traffici di Whitey Haines: clan rivali di spac¬ciatori e prostituti, un collega che lo odiava. Era tutto possibile ma nessuna di quelle intuizioni gli metteva in moto la mente. Una specie di legame omosessuale con l'assassino? Difficile. Andava contro la sua teoria che l'omicida avesse mantenuto la castità per diversi anni, e Haines non si sentiva in colpa per i due suicidi del dieci giugno che aveva scoperto.
Lloyd prese il registratore nascosto e lo portò al terzo piano, negli uffici della Scientifica, e lo mostrò a un analista dati che sapeva particolarmente appassionato dei dispositivi per la sorveglianza. L'uomo fece un fi¬schio quando Lloyd gli posò l'apparecchio sul tavolo, e allungò con entusiasmo le mani per toccarlo.
«Non ancora, Artie» disse Lloyd. «Voglio far controllare che non siano rimaste impronte.» Artie fi¬schiò di nuovo, spingendo indietro la sedia e alzando gli occhi estasiati al cielo. «È meraviglioso, Lloyd. È la perfezione incarnata.»
«Spiegami, Artie. Senza dimenticare niente.»
L'analista sorrise e si schiarì la gola. «È un Watanabe AFZ 999. Prezzo di listino, circa settecento bigliettoni. Disponibile solo nei migliori negozi di stereo. Usato principalmente da due categorie di persone alquanto differenti: amanti della musica che vogliono registrare festival rock o lunghe opere liriche in un solo colpo, e agenzie di polizia interessate a mettere qualcuno sotto controllo di nascosto per lungo tempo. Ogni singolo componente di questa macchina è il migliore in assolu¬to del mercato, il meglio della tecnologia giapponese. Ti trovi davanti alla perfezione assoluta.»
Lloyd fece un applauso ad Artie. «Splendido. Un'al¬tra domanda. Ci sono numeri di serie nascosti da qual¬che parte? Numeri individuali o di prototipo in modo da poter risalire alla data di vendita dell'apparecchio?»
Artie scosse il capo. «L'AFZ 999 è uscito sul mercato intorno alla metà degli anni Settanta. Un solo tipo, niente numero di serie, unico colore della gamma, nero. La Watanabe è molto tradizionalista, e non cambia mai i propri prodotti. Non hanno poi tutti i torti. Chi può migliorare la perfezione?»
Lloyd guardò il registratore. Era in perfetto stato, non c'era neppure un graffio. «Merda» disse «spe¬ravo di poter restringere l'elenco dei possibili acquiren¬ti. Senti, questo arnese è segnato negli Archivi venditori della Scientifica?»
«Certo» disse Artie. «Vuoi che ti faccia una lista?» Lloyd annuì. «Sì. Fallo subito, ti spiace? Io porto questo giocattolino in fondo al corridoio a controllare se ci sono impronte. Torno subito.»
Al Laboratorio criminale centrale della Scientifica c'era un perito delle impronte digitali. Lloyd gli porse il registratore e disse: «Impronte latenti, un telex nazio¬nale. Voglio che le confronti personalmente con quelle del Bollettino omicidi del Dipartimento di polizia di Los Angeles numero 16222, Niemeyer Julia L., tre gennaio 1983, indice e mignolo destro parziali. Le impronte era¬no insanguinate. Se hai dubbi per il confronto sul bol¬lettino, fai l'esame del sangue alle nuove impronte e riconfrontale. Chiaro?»
Il tecnico assentì distrattamente, poi domandò: «Pensi che ne troveremo?»
«Difficile, ma dobbiamo almeno provare. Lavora bene, è molto importante.» Il tecnico aprì la bocca per rassicurarlo, ma Lloyd stava già scappando via.
«Diciotto negozianti» disse Artie quando Lloyd schizzò nella sala. «Ed è anche aggiornata. Te l'avevo detto che il nostro amico era un raffinato.» Lloyd prese la stampa e se la mise in tasca, guardando d'im¬pulso l'orologio sopra la scrivania di Artie. Le sei e mezzo. Troppo tardi per cominciare a chiamare i ne¬gozi di apparecchi stereo. Ricordando che aveva un ap-puntamento con Kathleen McCarthy, disse: «Devo scappare. Stammi bene, Artie. Un giorno o l'altro forse ti racconto tutto.»

Kathleen McCarthy chiuse la libreria in anticipo e tornò al suo appartamento a scrivere e a prepararsi per la serata con il grande poliziotto. La giornata lavorati¬va era stata molto frustrante. Non aveva venduto nien-te, ma in compenso aveva visto sfilare una serie inter¬minabile di clienti che volevano discutere di femmini¬smo mentre lei stava al telefono nel tentativo di trovare qualche informazione in modo da poter assicurare alla polizia un assassino di donne psicopatico. L'ironia era al tempo stesso profondissima e scontata, e nell'occuparsene Kathleen sentì in qualche modo diminuire la propria stima di sé. Aveva odiato la polizia così a lungo che, anche se sapeva che era suo dovere morale aiuta¬re, le costava un brandello del suo ego. Facendosi forza tramite la logica, Kathleen afferrò idealmente quel brandello e lo distrusse a parole. Una dialettica per aiutare gli altri. Orgoglio. Intrattabile cuore irlandese. La retorica non colpì il segno, e Kathleen sorrise nel rendersi conto di dove stava la vera ironia: il sesso. De¬siderava il poliziotto, e non sapeva neanche come si chiamava.
Kathleen andò in bagno e si spogliò di fronte allo specchio a tutta altezza. Corpo forte, sufficientemente agile; seni sodi, belle gambe. Una donna alta e attraente. Trentasei anni, eppure... Kathleen si sentì riempire gli occhi di lacrime, e si fece forza mantenendo lo sguardo fisso sulla propria immagine. Funzionò. Le lacrime si spensero senza neppure sgorgare.
Infilandosi una vestaglia, Kathleen andò nello studio in soggiorno e sistemò carta, penna e dizionario, quindi seguì il consueto rituale che precedeva l'atto dello scri¬vere: lasciò turbinare nella propria mente frammenti incoerenti di prosa e pensieri riguardanti il suo amante misterioso. Come sempre, l'amante misterioso prese possesso della sua mente, e Kathleen si toccò distratta¬mente l'inguine attraverso la vestaglia, abbandonandosi al profumo dei fiori che arrivavano sempre quando più ne aveva bisogno, nei momenti in cui la sua vita rag¬giungeva in un modo o nell'altro un punto cruciale. Al¬lora, senza sapere da dove venissero e con perfetto sin¬cronismo psichico, trovava i fiori sulla porta di casa, e lei, estasiata, si chiedeva chi potesse essere, per ritro¬varsi poi a fissare i volti degli sconosciuti in cerca di qualche segno di comunione, o compassione, o di un in¬teresse particolare.
Sapeva che doveva essere alto e intelligente, circa della sua età. Diciotto anni di tributi floreali e neppure un indizio riguardo la sua identità! Sapeva solo che do¬veva provenire dal vecchio quartiere, doveva averla vi¬sta mentre andava a scuola seguita dalla sua corte...
Ripensando alla corte, Kathleen trovò l'ispirazione. Prese la penna e scrisse:

Richiamate i morti
Succhiateli
Ricordate le loro canzoni
E le loro parole.
Da un'adolescenza protratta
A una senilità prematura
Mi pento con rimorso;
Per epifanie mai possedute
E gioie mai incontrate.

Sospirando, Kathleen si abbandonò sulla sedia. So¬spirando una seconda volta, prese il diario e scrisse:

Sembra proprio che la prosa mi schizzi fuori da ogni poro, per cui penso che farò la cattiva e mi prenderò una pausa per riesaminare il presente, iniziando per la milionesima volta con la storiella della prosa che mi schizza fuori da ogni poro. Che strane giornate. Perfino una prosa buona e funzionale sembra artefat¬ta. Questo diario (che probabilmente non verrà mai pubblicato!) sembra quasi più reale. Forse sto en¬trando in un periodo della mia vita nel quale mi sie¬derò a lasciare che tutto accada, e intanto cercherò di capire cosa stia succedendo per poi lasciar perdere tutto e sedermi a cavare fuori un altro libro. Il poli¬ziotto sembra una prova lampante. D'accordo, è inte¬ressante e attraente, ma anche se non fosse così, pro¬babilmente gli presterei attenzione. Ancora più strano: possibile che questo atteggiamento di "lasciar correre" provenga dal desiderio di costruire qualcosa o forse dalla solitudine, dalla durezza e dal desiderio di rinunciare finalmente a quella parte tremenda di me stessa che vuole rimanere separata dalla razza umana per vivere solo attraverso le parole? In termini empirici, chi può saperlo? La mia solitudine mi ha donato splendide parole, proprio come i miei tragici rapporti con gli uomini. Di nuovo (per la miliardesi¬ma volta) a meditare su chi sia lui? No, non oggi. Og¬gi è un giorno strettamente dedicato al regno del pos¬sibile. Spero che quel poliziotto non sia troppo di de¬stra. Spero che sia capace di adattarsi.

Kathleen depose la penna sopra quelle parole, sor¬presa nel vedere che la combinazione fra il suo amante misterioso e il poliziotto le avessero ispirato sentimenti così tristi. Sorridendo nel pensare all'imprevedibilità delle muse, guardò l'orologio. Le sei e mezzo. Mentre faceva la doccia per prepararsi all'appuntamento, si chiese dove l'avrebbero portata quelle prime strofe, e come avrebbe reagito nel sentire suonare il campanello alle sette.

Il campanello squillò alle sette precise. Quando Kath¬leen aprì la porta si trovò di fronte a Lloyd, che indossa¬va calzoni logori e un pullover. Lei vide il revolver nella fondina stagliarsi contro il fianco destro e si maledisse mentalmente: il completo pantalone Harris di tweed che aveva indossato era fin troppo elegante. Per correg¬gere l'errore disse: «Ciao, sergente» e, afferrando l'arma che sporgeva, tirò dentro Lloyd. Lui si lasciò gui¬dare, e Kathleen si diede di nuovo della stupida nel ve¬derlo sorridere.
Lloyd sedette sul divano e allargò le lunghe braccia in una specie di posa da crocifisso. «Ho fatto le te¬lefonate» disse lei. «Ad almeno una decina di vendi¬tori. Niente. Nessuno dei miei amici ricorda di avere visto o parlato con un uomo come quello che hai descritto. Era ridicolo. Io che aiutavo la polizia a trovare un omicida pazzo, e quelle donne che continuavano a interrompermi per chiedermi dell'Emendamento sulla parità dei diritti.»
«Grazie» disse Lloyd. «Non che mi fossi vera¬mente aspettato qualcosa. Al momento è come se stessi pescando un po' in giro. Matricola 1114, pescatore della Omicidi in servizio.»
Kathleen si sedette. «Sei il supervisore dell'indagi¬ne?» domandò.
Lloyd scosse il capo. «No, al momento si può dire che sono io tutta quanta l'indagine. Nessuno dei miei superiori mi ha autorizzato a prendere degli agenti ai miei ordini, perché i pluriomicidi che ammazzano impunemente sono una preoccupazione per la carrie¬ra e il prestigio del Dipartimento. Naturalmente ho anche supervisionato delle indagini per omicidio, so¬no compiti normalmente assegnati a tenenti e capita¬ni, ma io...»
«Ma tu sei più bravo.» Kathleen lo disse come se fosse una grande verità.
Lloyd sorrise. «Anche meglio.»
«Sai leggere i pensieri, sergente?»
«Chiamami Lloyd.»
«Va bene, Lloyd.»
«La risposta è: a volte.»
«E sai quello che penso io?»
Lloyd passò il braccio sulle spalle di Kathleen, coper¬te dalla giacca di tweed. Lei si agitò, ma non oppose re¬sistenza. «Più o meno» disse lui. «Correggimi se sbaglio. Chi sarà mai quest'uomo? È un fanatico di de¬stra, come la maggior parte dei piedipiatti? Chissà se passa le ore a fare battute sui negri e a parlare di scopa¬te con i suoi amici poliziotti. Chissà se gli piace fare del male. Se gli piace uccidere. Chissà se pensa che ci sia una congiura di ebrei comunisti negri omosessuali che vogliono prendere il potere. Chissà...»
Kathleen gli posò gentilmente la mano sul ginocchio per interromperlo e disse: «Touché. Sostanzialmente hai ragione su tutta la linea.» Sorrise suo malgrado, ri¬tirando lentamente la mano.
Lloyd sentì il sangue che cominciava a corrergli al ritmo di quelle battute. «Vuoi sentire le risposte?» domandò.
«No. Mi hai già risposto.»
«Altre domande?»
«Sì, due. Tradisci tua moglie?»
Lloyd rise e si mise la mano nella tasca dei calzoni per prendere la vera nuziale. Se la infilò all'anulare e disse: «Sì.»
Il volto di Kathleen era inespressivo. «Hai mai ucci¬so qualcuno?» disse.
«Sì.»
Kathleen fece una smorfia. «Avrei fatto meglio a non chiederlo. Basta parlare di morte e di assassini, per favore. Andiamo?»
Lloyd annuì e le prese la mano mentre lei chiudeva la porta.
Girarono in macchina senza meta, ritrovandosi alla fine sulle colline a terrazzi del vecchio quartiere. Lloyd fece attraversare alla Matador la topografia del loro passato comune, chiedendosi cosa stesse pensando Kathleen.
«I miei genitori sono morti» disse lei finalmente. «Erano tutt'e due già anziani quando sono nata, e con¬tavano molto su di me perché sapevano che mi avrebbe¬ro avuto solo per una ventina d'anni. Mio padre mi dice¬va che si era trasferito a Silverlake perché le colline gli ricordavano Dublino.»
Guardò Lloyd, che capì che lei voleva dare un taglio al suo atteggiamento coriaceo ed essere gentile. Acco¬stò al marciapiede all'incrocio fra Vendome e Hyperion, nella speranza che lo splendido paesaggio la spin¬gesse a parlare di cose intime, cose che l'avrebbero spinto a volerle bene. «Ti dispiace se ci fermiamo?» domandò.
«No» disse Kathleen «questo posto mi piace. Venivo spesso qui con la mia corte. Leggevamo poesie in memoria di John Kennedy quando lo hanno assas¬sinato.»
«La tua corte?»
«Sì, la corte. La "Korte di Kathy", con due K. Al li¬ceo avevo il mio gruppetto di seguaci. Eravamo tutte poetesse, tutte con gonne in tartan e maglioni di cashmere, e non uscivano mai con i ragazzi, perché pensa¬vamo che in tutto il Liceo John Marshall non ce ne fosse uno degno di noi. Non uscivamo coi ragazzi e non davamo loro confidenza. Ci tenevamo in serbo per il Principe Azzurro, e pensavamo tutte che sareb¬be arrivato il giorno che saremmo diventate poetesse di grande fama. Eravamo uniche nel nostro genere. Io ero la più in gamba, e la più carina. Mi feci trasferire dalla scuola parrocchiale perché la madre superiora cercava sempre di costringermi a mostrarle i seni. Ne parlavo alle lezioni d'igiene e mi attirai un seguito di ragazze sole e amanti dei libri. E loro divennero la mia corte. Io diedi loro un'identità. Diventarono don¬ne vere grazie a me. Tutti ci lasciavano sole, eppure avevamo un seguito di ragazzi altrettanto soli e aman¬ti dei libri. Li chiamavamo "i Klown di Kathy", perché non ci abbassavamo neppure a rivolgere loro la paro¬la. Noi... Noi..»
La voce di Kathleen diventò stridula, quasi un lamen¬to, e lei allontanò la mano che Lloyd cercava di metterle sulla spalla. «Noi... Noi... Ci amavamo e avevamo cura l'una dell'altra, e so che sembra patetico, ma eravamo forti. Forti! Forti...»
Lloyd aspettò un minuto buono prima di chiedere: «E cosa ne è stato della tua corte?»
Kathleen sospirò, rendendosi conto che la risposta faceva crollare la tensione. «Oh, si sono disperse. Han¬no trovato dei ragazzi. Hanno deciso di non tenersi in serbo per il Principe Azzurro. Sono diventate più cari¬ne. Hanno deciso che non gli interessava la poesia. Non... Non avevano più bisogno di me.»
«E tu?»
«Io sono morta, e il cuore mi è sprofondato per riemergere in cerca di distrazioni da poco e di un amore vero. Sono andata a letto con un mucchio di donne, pensando che in quel modo avrei potuto avere una nuo¬va corte. Ma non ha funzionato. Mi sono fatta scopare da un sacco di uomini, il che mi ha assicurato il seguito che volevo, ma erano tutti dei vermi. E ho scritto e scrit¬to e scritto e mi hanno pubblicato, e poi ho comprato una libreria ed eccomi qua.»
Lloyd stava già scuotendo il capo. «E poi?»
Kathleen sbottò irosa: «E poi sono diventata un'ot¬tima poetessa e una scrittrice di diari ancora migliore! Chi diavolo sei tu per chiedermi di rendere conto? E poi? E poi cosa?»
Lloyd le sfiorò il collo gentilmente con la punta delle dita e disse: «E vivi solo nella tua testa, e hai trent'anni o qualcosa di più, e continui a domandarti se un giorno andrà meglio. Dimmi che è così, Kathleen, oppure fam¬mi cenno di no.» Kathleen scosse il capo. «Bene. È per questo che sono qui, perché voglio che per te le cose vadano meglio. Mi credi?» Kathleen fece cenno di sì con la testa e abbassò gli occhi, stringendosi le mani. «Voglio farti una domanda» disse Lloyd. «Una do¬manda retorica. Lo sapevi che il Dipartimento di polizia di Los Angeles ricopre la parte inferiore di tutte le mac¬chine non ufficiali con un rivestimento a prova di urto e abrasione?»
Kathleen rise educatamente per quel cambio d'argo¬mento. «No» disse.
Lloyd si sporse dall'altra parte e le tirò la cintura di si¬curezza sulle spalle. Quando la vide rimanere inespres¬siva, mosse le sopracciglia e disse: «Tienti forte» e ac¬cese la macchina, poi scalò marcia, lasciò il freno a ma-no e schiacciò contemporaneamente al massimo il pe¬dale dell'acceleratore, facendo schizzare l'auto in avanti quasi in verticale. Kathleen cacciò un urlo. Lloyd aspettò che la macchina cominciasse a ridiscendere verso terra, poi schiacciò gentilmente l'acceleratore cin¬que o sei volte finché le ruote posteriori non seguirono l'attrito e la macchina avanzò sobbalzando, nel tentati¬vo di mantenere sollevata la parte anteriore. Kathleen urlò di nuovo. Lloyd sentì la gravità battersi con la forza del motore e avere la meglio. Mentre il frontale della Matador calava, lui premette l'acceleratore e l'auto tornò a punta in alto, rimanendo così finché lui non vi¬de che stavano raggiungendo un incrocio e schiacciò il freno, facendo inchiodare la macchina in uno stridio di gomme. L'auto stava per rivoltarsi in direzione di un fi¬lare d'alberi quando il frontale picchiò sull'asfalto con uno schianto. Lloyd e Kathleen sobbalzarono sui sedili come marionette spastiche. Zuppo di sudore nervoso, Lloyd abbassò il finestrino e vide un gruppo di ragazzini messicani che gli tributavano un grande applauso, bat¬tendo i piedi e rivolgendogli un brindisi alzando le bot¬tiglie di birra.
Lui soffiò loro un bacio e si voltò verso Kathleen. La donna stava piangendo, e non gli riuscì di capire se di paura o di gioia. Le tolse la cintura e l'abbracciò. La la¬sciò sfogare, e sentì gradualmente sfumare i singhiozzi in una risata. Quando Kathleen gli alzò finalmente la te¬sta dal petto, Lloyd vide che aveva il volto di una bambi¬na felice. Glielo baciò con la stessa tenerezza con cui ba¬ciava il volto delle figlie.
«Romanticismo urbano» disse Kathleen. «Cri¬sto. E adesso cosa vuoi fare?»
Lloyd rifletté e disse: «Non so. Ma vediamo di rima¬nere in movimento. D'accordo?»
«Prometti di non violare il codice stradale?»
Lloyd disse: «Sul mio onore di scout» e riaccese il motore, fissando Kathleen e sollevando scherzosamen¬te le sopracciglia finché lei non scoppiò a ridere pregan¬dolo di smetterla. I ragazzini applaudirono di nuovo quando lui ripartì.
Percorsero il Sunset, l'arteria principale del vecchio quartiere. Lloyd fece da guida mentre avanzavano, mo¬strandole i luoghi storici del suo passato: «Là c'è Myron, quello delle auto usate. Myron era un genio sban¬dato della chimica. Era diventato eroinomane, e si era fatto cacciare dall'USC, dove insegnava. Aveva ideato una soluzione corrosiva per cancellare i numeri di serie dai blocchi motore. Rubava centinaia di auto, immerge¬va i motori in una vasca piena di soluzione e così era di¬ventato il re delle auto di Silverlake. Non era un tipo cat¬tivo. Era un grande sostenitore della squadra di football della Marshall, e prestava sempre una macchina ai gio¬catori più famosi quando avevano degli appuntamenti. Poi, un giorno che era strafatto di roba, è caduto nella sua vasca per motori. La soluzione gli ha mangiato via le gambe fino al ginocchio. Adesso è invalido, ed è il più grande misantropo che conosca.»
Kathleen raccontò a sua volta, indicando un edificio dall'altra parte della strada: «L'emporio Cathcart. Ci andavo sempre a rubare la cancelleria per la mia corte. Rubavo carta profumata, color porpora. Un giorno mi hanno beccata. Il vecchio Cathcart mi ha presa e si è messo a frugare nella mia borsetta. Ha trovato delle poesie che avevo scritto proprio su quella carta. Mi te¬neva ferma e intanto leggeva le poesie ad alta voce a tut¬ti quelli che erano nel negozio. Poesie molto intime. Non mi sono mai vergognata tanto.»
Lloyd sentì una certa tristezza intromettersi in quella serata. Il Sunset Boulevard era troppo rumoroso, trop¬pe luci multicolori. Senza dire una parola, diresse la macchina verso nord, sull'Echo Park Boulevard, e oltre-passò il Bacino idrico di Silverlake. Entro breve si trova¬rono all'ombra della centrale elettrica, e lui si voltò a guardare Kathleen in cerca di approvazione.
«Sì» disse lei «è perfetto.»
Salirono lentamente sulla collina tenendosi per ma¬no. Le zolle d'erba si spaccavano sotto i piedi, e per due volte Lloyd dovette tirare avanti Kathleen. Una volta raggiunta la cima, si sedettero per terra senza preoccuparsi dei vestiti, appoggiandosi alla rete di re¬cinzione che circondava la centrale. Lloyd sentì che Kathleen si allontanava da lui, spinta dalle lacrime. Per colmare quel vuoto improvviso, disse: «Mi piaci, Kathleen.»
«Anche tu. E mi piace questo posto.»
«È tranquillo.»
«Ti piace la calma e odi la musica. Tua moglie dove crede che sei?»
«Non so. Da un po' di tempo esce a ballare con una checca che conosce. Una specie di amica del cuore. Ti¬rano cocaina e vanno a una discoteca gay. E anche a lei piace la musica.»
«E non ti dà fastidio?» disse Kathleen.
«Be'... Più che altro non riesco a capirlo. Posso ca¬pire perché ci si mette a rapinare banche, o si diventa eroinomani o si scopa, o si diventi poliziotti e poeti e assassini, ma non capisco proprio perché la gente deb¬ba menarsela nelle discoteche o ascoltare musica quando potrebbe invece piantare un pungolo elettrico nel culo all'universo. Capisco te, e perché hai scopato con lesbiche e stronzi. Capisco i bambini innocenti e il loro amore, e il trauma che provano quando si accor¬gono di come le cose diventano tristi, ma non capisco come facciano a non voler combattere. Io racconto sto¬rie alle mie bambine, per insegnargli a combattere. La più piccola, Penny, è un genio. Lei sa combattere. Del¬le due più grandi non sono tanto sicuro. Janice, mia moglie, non è una che combatte. Secondo me non è mai stata innocente. È nata con uno spirito pratico e stabile, ed è rimasta così. Credo... Forse... Forse è per questo che l'ho sposata. Credo... Io sapevo, sapevo di non avere più innocenza, e non ero tanto sicuro di sa¬per combattere. Poi ho scoperto che invece lo sapevo, e ho avuto paura del prezzo che dovevo pagare, così ho sposato Janice.»
La voce di Lloyd era diventata monocorde, quasi in¬corporea. Kathleen pensò per un istante che fosse solo come il pupazzo di un ventriloquo, e che chiunque lo muovesse voleva in realtà arrivare a lei, lasciando indizi in quella strana confessione che aveva appena sentito. Ne emergevano due parole: "assassini" e "prezzo", e nel¬la sua ansia al dare un senso a quella storia Kathleen disse: «E così sei diventato un poliziotto per dimostrare che sapevi combattere, e poi hai ucciso per fare il tuo dovere e l'hai capito.»
Lloyd scosse il capo. «No, prima ho ucciso un uo¬mo. Un uomo malvagio. È stato dopo che sono entrato nella polizia e ho sposato Janice. A volte perdo il senso del tempo. A volte... Non molto spesso... Quando cerco di ricordare il mio passato sento rumore... Musica... Un rumore tremendo... E devo smettere subito.»
Kathleen sentì che Lloyd faticava a mantenere il con¬trollo, e capì di aver raggiunto la sua essenza. Disse: «Voglio raccontarti una storia. È una storia vera, molto romantica.»
Lloyd le appoggiò la testa sulle gambe e disse: «Rac¬conta.»
«Ecco. C'era una volta una bambina tranquilla, che amava i libri e scriveva poesie. Non credeva in Dio né nei suoi genitori, né nelle ragazze che la seguivano. Cer¬cava con tutte le sue forze di credere in se stessa. Per qualche tempo non fu difficile. Poi le sue seguaci la la¬sciarono. Rimase sola. Ma c'era qualcuno che la amava. Un uomo gentile che le mandava fiori. La prima volta accompagnati da una poesia anonima. Una poesia tri-ste. La seconda volta solo i fiori. Questo amante miste¬rioso continuò a mandarle fiori anonimi per molti anni. Più di diciotto. E sempre quando la donna era più sola e ne sentiva più il bisogno. La donna crebbe come poetes¬sa e scrittrice di diari, e incorniciava tutti i fiori con la data. Pensava spesso a quell'uomo, ma non cercava mai di scoprirne l'identità. Accoglieva quel tributo anonimo nel suo cuore e decise che avrebbe ricambiato mante¬nendo segreti i propri diari fino a dopo la morte. E così la donna viveva e scriveva e ascoltava musica, prose¬guendo con calma. Fa quasi venir voglia di credere in Dio, vero, Lloyd?»
Lloyd alzò la testa dal morbido giaciglio di tweed, scuotendola per mettere meglio a fuoco quella storia triste. Poi si alzò e aiutò Kathleen ad alzarsi a sua volta. «Secondo me il tuo spasimante misterioso combatte in modo strano» disse «e vuole possederti, non ispirarti. Secondo me non sa quanto sei forte. Vieni, ti por¬to a casa.»

Rimasero per un po' sulla soglia dell'appartamento-libreria di Kathleen, abbracciandosi con dolcezza. Kathleen appoggiò la testa sulla spalla di Lloyd, e quando la alzò lui pensò che volesse essere baciata. Mentre si chinava su di lei, Kathleen lo allontanò gen¬tilmente. «No. Non ancora. Per favore, non forzare le cose, Lloyd.»
«Va bene.»
«È solo che tutto questo è inaspettato. Tu sei così speciale, e io non...»
«Anche tu sei speciale.»
«Lo so, ma non ho la minima idea di chi sei, del tuo habitat naturale. Le piccole cose importanti. Capisci?»
Lloyd rifletté. «Credo di sì. Senti, ti andrebbe di ve¬nire a un ricevimento domani sera? Con tutti i poliziotti e le mogli? Probabilmente ti annoierai, ma dovrebbe es¬sere un'esperienza illuminante.»
Kathleen sorrise. Quella proposta era il segno della resa: era disposto ad annoiarsi, pur di compiacerla. «Sì. Vieni alle sette.» Indietreggiò per entrare nel sog¬giorno buio e si chiuse la porta alle spalle. Quando sentì i passi di Lloyd allontanarsi accese la luce e prese il dia¬rio. Si sentì penadere la mente di pensieri profondi, poi alla fine borbottò: «Oh, cazzo» e scrisse: "Sa adattar¬si. Sarò io la sua musica".
Lloyd arrivò a casa. Parcheggiò sul sentiero e vide che la macchina di Janice non c'era più, e tutte le luci di casa erano accese. Aprì la porta ed entrò, e vide subito il biglietto:

Lloyd, tesoro, questo è un addio, almeno per qualche tempo. Io e le bambine siamo andate a San Francisco a stare con un amico di George. So che è la cosa mi¬gliore da fare, perché tu e io non comunichiamo più da molto tempo, e i nostri valori sono molto diversi. Il tuo comportamento con le bambine è stato l'ultima goccia. Mi sono resa conto quasi fin dall'inizio del no¬stro matrimonio che in te c'è qualcosa che non va, qualcosa che (almeno in maggior parte) hai saputo nascondere molto bene. Ma non intendo tollerare che lo trasmetta anche a loro. I tuoi racconti sono danno¬si, e Anne, Caroline e Penny devono rimanerne libere. Per quanto riguarda loro, intendo iscriverle a una scuola Montessori di San Francisco, e farò in modo che ti chiamino almeno una volta la settimana. Il compagno di appartamento di George, Rob, si occu¬perà del negozio in mia assenza. Nei prossimi mesi deciderò se chiedere o no il divorzio. Ti amo molto, ma non posso vivere con te. Non ti farò sapere il no¬stro indirizzo a San Francisco finché non sarò sicura che non farai niente di azzardato. Quando mi sarò si¬stemata, ti farò sapere. Fino ad allora, abbi cura di te e non preoccuparti.
Janice

Lloyd posò il biglietto e passò per le stanze deserte. Tutto quanto c'era di femminile era stato portato via. Gli oggetti personali delle bambine erano stati tolti dal¬le camere; nella camera da letto che divideva con Janice ora rimanevano solo l'aura solitaria di Lloyd e la coper¬ta cashmere color blu notte che Penny gli aveva fatto per il suo trentasettesimo compleanno.
Lloyd si tirò la coperta sulle spalle e uscì. Alzò gli oc¬chi verso il cielo, sperando nell'arrivo di una tempesta distruttrice. Quando si rese conto che non poteva ri¬chiamare tuoni e lampi cadde in ginocchio e pianse.

10

Quando il poeta vide la scatola metallica vuota, lanciò un urlo. Gli parve che tante cellule cancerose si fossero materializzate all'improvviso nelle prime luci dell'alba, per venirgli poi scagliate contro gli occhi, facendolo fi¬nire sul selciato gelido. Lui si nascose il capo fra le braccia e si raggomitolò in posizione fetale, per impe¬dire che i minuscoli cancri lo raggiungessero alla gola, poi si fece dondolare avanti e indietro fino ad aneste¬tizzare i sensi e a far dolere il corpo, che presto diven¬ne insensibile. Quando sentì che si stava soffocando respirò, e lo spettacolo familiare di Larrabee Avenue tornò a fuoco. Niente cellule cancerose nell'aria. Il suo splendido registratore non c'era più, ma l'Agente Porco dormiva ancora, e il paesaggio mattutino della Larra¬bee era normale. Niente auto della polizia, né veicoli sospetti, né uomini in trench che facevano finta di leg-gere il giornale per nascondersi. Aveva cambiato il na¬stro 48 ore prima, per cui era molto probabile che l'ap¬parecchio fosse stato scoperto quando era ormai vuoto o in funzione, o quando aveva contenuto solo un mini¬mo di registrazioni. Se non avesse voluto tanto colpir¬si, non si sarebbe mai arrischiato a fare quella sortita mattutina, ma aveva bisogno di sentirsi stimolato dall'Agente Porco e dal suo servo, che ormai da setti¬mane facevano insieme delle cose, cose di cui Julia aveva scritto nel suo orribile manti...
Non gli riuscì di completare il pensiero. Era troppo vergognoso.
Si alzò in piedi e guardò in ogni direzione. Nessuno lo aveva visto. Si morsicò gli avambracci. Il sangue che ne sgorgò era rosso brillante, in apparenza sano. Aprì la bocca per parlare, per essere sicuro che le cellule cance¬rose non gli avessero distrutto le corde vocali. Ne uscì una sola parola: "Salvo". La ripeté una decina di volte, con inflessione sempre più convinta. Alla fine la urlò e corse in macchina.
Mezz'ora più tardi si trovava sul tetto della libreria, con la calibro 32 con il silenziatore nella tasca della giacca a vento, e sorrise nel vedere il Sanyo 6000 ancora ben nascosto sotto un grande foglio di isolante incatra¬mato per tubature. Prese le due bobine di nastro com¬pletato dall'apposito compartimento dell'apparecchio. Salvo. Salvo. Salvo. Salvo. Ripeté quella parola più e più volte durante il viaggio di ritorno a casa, e la stava ancora ripetendo quando mise la prima bobina sul vecchio registratore del soggiorno, per poi sedersi ad ascoltare, spostando lo sguardo sui gambi di rose e sulle fotografie appese alle pareti.
Lo scatto di un interruttore, poi la luce del porticato che si accendeva, il dispositivo di azionamento. La sua prima amata che mormorava qualcosa fra sé, poi silen¬zio assoluto. Lui sorrise, sfiorandosi le cosce. Stava scrivendo.
Il silenzio si allungò. Un'ora. Due. Tre. Quattro. Poi uno sbadiglio, e l'interruttore che scattava di nuovo.
Si alzò in piedi, si stirò e cambiò le bobine. Di nuovo la luce del portico che faceva partire il registratore. La sua amata, puntualissima, alle 6,55: come un orologio.
Si sedette, chiedendosi se era il caso di farsi venire mentre ancora sentiva il rumore dei passi, o dovesse in¬vece aspettare di sentire magari la sua amata che parla¬va da sola. Poi sentì suonare un campanello. La sua vo-ce: "Ciao, sergente". Passi strascicati. Di nuovo la sua vo¬ce: "Ho fatto le telefonate. Ad almeno una decina di ven¬ditori. Niente. Nessuno dei miei amici ricorda di avere visto o parlato con un uomo come quello che hai descrit¬to. Era ridicolo. Io che aiutavo la polizia a trovare un omicida pazzo, e quelle donne che continuavano a..."
A quelle ultime parole lui cominciò a tremare. Gli sembrò di gelare, poi di bruciare. Schiacciò il pulsante di arresto e cadde in ginocchio. Si graffiò la faccia fino a farla sanguinare, piagnucolando: salvo, salvo, salvo. Strisciò alla finestra a osservare la gente che passava lungo l'Alvarado. Si sentì rinfrancare da ogni piccola di¬mostrazione del fatto che la vita procedeva come sem¬pre: il rumore del traffico, donne messicane con il loro carico di bambini, drogati che aspettavano la loro dose di fronte al chiosco Burrito. Cominciò a dire: "Salvo", poi esitò e sussurrò "forse". Quel "forse" gli crebbe nella mente finché il poeta non urlò e tornò di corsa al regi¬stratore.
Premette il pulsante di avvio. La sua prima amata stava dicendo qualcosa riguardo a qualche donna che la interrompeva. Poi una voce d'uomo: "Grazie. Non che mi fossi veramente aspettato qualcosa. Al momento è come se stessi pescando un po' in giro. Matricola 1114, pescatore della Omicidi in servizio".
Cercò di costringersi ad ascoltare, schiacciandosi i genitali con entrambe le mani per non urlare di nuovo. Gli tornarono alla mente i giorni del liceo, le sue poesie e la sua santa crociata. L'ora di inglese della signora Cuthbertson. Pecche logiche: post hoc, propter ergo hoc. "Dopo, dunque a causa di." Conoscere un crimine non significa conoscerne l'autore. Non c'erano poli¬ziotti pronti a irrompergli in casa. "Lloyd", quel "pe¬scatore della Omicidi, matricola 1114", non immagina¬va che la casa della sua amata fosse sotto controllo, e forse non aveva niente a che fare con il furto del primo registratore. Quel "Lloyd" stava "pescando" in acque infestate dagli squali, e se mai gli si fosse avvicinato lui lo avrebbe divorato. Conclusione: non potevano avere idea della sua identità, e perciò la vita continuava co¬me sempre.
Quella sera avrebbe consumato l'amore con la sua ventitreesima donna, il corteggiamento più rapido della sua vita. E non c'era "forse". Stavolta era un "sì" puro e semplice, sottolineato con forza dalla sua cassetta di meditazione e da tutte le sue amanti, da Jane Wilhelm fino all'ultima. Sì. Sì. Il poeta andò alla finestra e l'urlò al mondo intero.

11

La notte insonne nella casa vuota era stata il preludio a una giornata di terribili frustrazioni burocratiche, e tutti quegli eventi negativi distruggevano Lloyd pezzo per pezzo, come indicatori che annunciavano la fine di tutti i legami più buoni e onesti della sua vita. Janice e le bambine non c'erano più, e finché non avesse cattu¬rato quel geniale assassino, non c'era modo di poterle riavere.
Mentre la giornata sfumava nella sera, Lloyd ricapi¬tolò le alternative, che ormai andavano riducendosi, e si domandò cosa mai avrebbe fatto se le avesse viste spari¬re tutte e non gli fossero rimasti altro che la mente e la volontà.
Gli ci erano volute sei ore per chiamare i 18 negozi di apparecchiature stereo e ottenere una lista di 55 persone che avevano acquistato un registratore Watanabe AFZ 999 negli ultimi otto anni. Ventiquattro degli acquirenti erano donne, perciò rimanevano 31 sospetti maschi, e Lloyd sapeva per esperienza che gli interro¬gatori telefonici non sarebbero serviti a niente: investi¬gatori esperti avrebbero dovuto misurare gli acquirenti di persona, e l'innocenza o la colpevolezza sarebbero risultate dalle risposte dei sospetti alle domande che venivano fatte. E se il registratore fosse stato comprato fuori della contea di Los Angeles... E se la pista di Haines non avesse avuto niente a che vedere con gli omici¬di... E gli sarebbero serviti degli aiutanti per gli inter¬rogatori... E se Dutch gli avesse negato il suo aiuto al party quella sera...
Quella serie di risposte negative continuò a tormen¬tarlo, sottolineata dai ricordi di Penny, delle sue coper¬te e di Caroline e Anne che ascoltavano felici i suoi rac¬conti. Dutch non aveva ricavato niente di positivo dai contatti con gli agenti in pensione e con lunga espe¬rienza nella minorile, e nei dossier per soprannomi al¬la voce "Bird" e "Birdy" erano segnati solo i nomi di una decina di neri nel ghetto. Inutile. La voce stridula nel soggiorno di Whitey Haines apparteneva senza dubbio a un bianco.
Ma la cosa più frustrante era la mancanza di qualsia¬si impronta sul registratore. Lloyd era passato più volte dal laboratorio della Scientifica a cercare il tecnico a cui aveva lasciato l'apparecchio, chiamandolo poi a ca-sa, solo per scoprire che suo padre aveva avuto un infar¬to e l'amico era andato a San Bernardino, portando con sé la macchina con l'intenzione di usare i servizi del Dipartimento dello sceriffo di San Bernardino per portare a termine i suoi test di rilevazione e confronto.
"Ha detto che lei voleva che facesse i test di persona, sergente" aveva detto la moglie del tecnico. "Telefonerà domani mattina da San Bernardino coi risultati." Lloyd aveva riappeso, imprecando contro chi prendeva le pa-role alla lettera e il proprio autoritarismo.
Per cui rimanevano due ultime possibilità per lui solo: interrogare per conto suo i 31 acquirenti oppure pren¬dere qualche anfetamina e sorvegliare l'appartamento di Whitey Haines finché lo spione non si fosse fatto ve¬dere. Tattiche disperate, le uniche rimaste.
Lloyd salì in macchina e si diresse a ovest, in direzio¬ne dell'appartamento-libreria di Kathleen. Quando uscì dall'autostrada si rese conto che era stanco morto e che il suo corpo era affamato, così deviò verso nord, diretto alla casa di Joanie Pratt, a Hollywood Hills. Avrebbero fatto l'amore e parlato, e forse il corpo di Joanie avrebbe soffocato quei presentimenti lugubri che lo sovrastava¬no da ogni lato.
Joanie saltò addosso a Lloyd mentre lui varcava la so¬glia, esclamando: «Sergente, willkommen! Sei in cerca d'amore? Allora la camera da letto è sulla tua destra.» Lloyd rise. Il gran cuore sensuale di Joanie era il punto giusto in cui riversare tutta la sua tenerezza.
«Fammi strada.»
Quando ebbero fatto l'amore e scherzato guardando il tramonto dal balcone della camera da letto, Lloyd dis¬se a Joanie che sua moglie e le bambine se n'erano anda¬te, e che in quell'abbandono non rimanevano che lui e l'assassino. «Manderò avanti l'indagine altri due gior¬ni» disse «poi porterò tutto in pubblico. Porterò tutto al notiziario del Canale 7 e butterò la carriera nel cesso. L'ho capito mentre eravamo a letto. Se le piste che sto seguendo non mi portano a niente, pianterò un casino tale che tutte le agenzie di polizia della contea di Los Angeles saranno obbligate a cercare quella belva. Se non ho sbagliato a leggere il suo carattere, esporlo in pubblico lo spingerà a fare qualcosa di così avventato che gli andrà completamente buca. Secondo me è tre¬mendamente presuntuoso, e vuole a tutti i costi farsi co¬noscere, e quando si mostrerà al mondo io sarò là a prenderlo.»
Joanie rabbrividì, poi gli mise una mano sulla spalla per confortarlo. «Vedrai che lo prendi, sergente. Glielo metterai dove fa più male.»
Lloyd sorrise nel pensare a quell'immagine. «Le mie possibilità di scelta si stanno riducendo» disse. «È un bene.» Si ricordò di Kathleen e disse: «Devo an¬dare.»
«Un appuntamento importante?» domandò Joanie.
«Già. Con una poetessa.»
«Mi fai un favore prima di andare?»
«Sputa.»
«Voglio una foto ricordo di noi due.»
«E chi ce la farà?»
«Io. Ho una Polaroid con autoscatto di dieci secon¬di. Dài, vieni.»
«Ma sono nudo, Joanie!»
«Anche io. Vieni.»
Joanie andò in soggiorno e tornò con una macchina fotografica fissata a un treppiede. Premette un paio di pulsanti e corse a fianco di Lloyd. Arrossendo, lui la pre¬se per la vita e sentì che gli stava venendo duro. Il flash scattò. Joanie contò qualche secondo e tirò fuori la stampa dalla macchina. La foto era perfetta: Lloyd e Joanie nudi, lei sorridente e sensuale, lui rosso in faccia e per metà in erezione. Lloyd sentì una grande tenerez¬za nel guardarla. Prese il volto di Joanie fra le mani e disse: «Ti amo tanto.»
Joanie disse: «Ti amo anch'io, sergente. Adesso ve¬stiti. Abbiamo tutti e due un appuntamento, e io sono già in ritardo.»

Kathleen aveva passato l'intera giornata a prepararsi per la sera. Aveva trascorso lunghe ore al settore moda femminile di Brooks-Brothers e Boshard-Doughty a cercare il perfetto abbigliamento romantico in grado di svelare con eloquenza il suo passato e far risplendere il presente. C'erano volute ore, certo, ma alla fine l'aveva trovato: camicia di tela Oxford rosa, calzini blu notte al¬la caviglia e mocassini con frangia in cuoio cordovano, maglione a girocollo blu e la pièce de résistance: una gonna al ginocchio pieghettata in tartan rosso.
Sentendosi al tempo stesso appagata e ansiosa, Kathleen andò a casa ad assaporare l'attesa del suo romanti¬co compagno di congiura. Aveva quattro ore da far pas¬sare, e pensò di aiutarsi con una piccola fumata e un po' di musica. Dal momento che quella sera avrebbe subito un confronto iconoclasta con un'assemblea di poliziotti tutti d'un pezzo e le loro mogli, scelse di mettere sul gi¬radischi un pot pourri di musica rivoluzionaria del-l'epoca dei figli dei fiori e si sedette in vestaglia a fumare canne e ascoltare, ben consapevole che quella sera avrebbe insegnato qualcosa al poliziotto corpulento. Lo avrebbe stupito con le sue poesie, gli avrebbe letto brani classici dei suoi diari, e forse gli avrebbe addirittura permesso di baciarle i seni.
Mentre la colombiana le entrava in circolo, Kathleen si trovò a cullare una nuova fantasticheria. Pensò che Lloyd fosse il suo amante misterioso. Che fosse lui quel¬lo che le aveva mandato fiori per tutti quegli anni, e che avesse aspettato la tremenda molla della caccia a un as¬sassino per unirsi a lei. Un semplice incontro casuale non gli sarebbe bastato. E la sua passione per lei doveva essere nata al Silverlake. Erano cresciuti a meno di sei isolati di distanza.
Kathleen si accorse che quelle fantasticherie si allon¬tanavano a mano a mano che l'effetto della droga dimi¬nuiva. Per impedirlo, fumò l'ultima stecca di thailande¬se. Nel giro di pochi minuti si sentì unire alla musica, e vide Lloyd nudo di fronte a lei mentre confessava il suo profondo amore quasi ventennale, senza fiato per il de¬siderio di possederla. E con regale magnanimità, Kath¬leen accettava e glielo guardava diventare sempre più grosso e duro, finché lei, Lloyd e il basso dei Jefferson Airplane non esplosero tutti insieme, e tolse la mano che l'accarezzava in mezzo alle gambe per guardare pensosa l'orologio, accorgendosi che mancavano dieci minuti alle sette.
Kathleen andò in bagno e aprì la doccia, poi gettò la vestaglia e si lasciò scorrere addosso l'acqua prima cal¬da e poi fredda, fino a sentir riemergere vagamente la parte sobria di sé. Si vestì e si rimirò nello specchio: era perfetta, e felice di accorgersi che non provava nep¬pure il minimo rimorso nell'indossare quegli abiti no¬stalgici.
Il campanello suonò alle sette. Kathleen spense lo stereo e aprì in fretta la porta. Vedersi di fronte Lloyd, così grande eppure in qualche modo aggraziato, la ri¬portò alle sue fantasie. Quando lui sorrise e disse: «Cristo, sei strafatta» lei ritornò al presente, fece una ri¬satina sentendosi in colpa e disse: «Scusa. Ho degli strani pensieri. Ti piace la mia tenuta?»
Lloyd disse: «Sei bellissima. L'abbigliamento tradi¬zionale ti sta molto bene. Non sapevo che eri una tossi¬ca. Vieni, andiamocene da qui.»

Dutch Peltz e sua moglie Estelle abitavano a Glendale, in una casa costruita come un ranch adiacente a un campo da golf. Lloyd e Kathleen la raggiunsero in un si¬lenzio teso, Lloyd intento a pensare alle sue tattiche di-sperate e Kathleen a pensare a come recuperare la pa¬rità perduta mostrandosi "fatta".
Dutch li accolse sulla soglia, facendo un inchino a Kathleen. Fu Lloyd a fare le presentazioni.
«Dutch Peltz, Kathleen McCarthy.»
Dutch prese la mano a Kathleen. «Piacere, signori¬na McCarthy.»
Kathleen restituì l'inchino con ironica eleganza. «Devo chiamarla col suo grado, signor Peltz?»
«Mi chiami Arthur o Dutch, come i miei amici.» Girandosi verso Lloyd, disse: «Fatti un giro, ragazzo. Io mostrerò la casa a Kathleen. Dobbiamo fare quattro chiacchiere prima che te ne vai.»
Sentendo che Dutch parlava con un tono strano, Lloyd disse: «Anche prima. Io vado a farmi un drink. Kathleen, se Dutch diventa palloso, fatti mostrare il trucchetto dello stivale.»
Kathleen abbassò gli occhi sui piedi di Dutch. Anche se indossava un abito elegante, l'uomo portava anfibi neri da paracadutista con la suola spessa. Dutch rise e picchiò per terra il tallone destro. Dal lato dello stivale schizzò fuori un lungo pugnale a doppio taglio. «Il mio segno di riconoscimento» disse. «Ero in una squadra speciale in Corea.»
Kathleen fece un sorriso forzato. «Che maschio.»
Dutch sorrise. «Touché. Venga, Kathleen, la presen¬to agli altri.»
Dutch portò Kathleen al buffet in sala da pranzo, dove le donne preparavano piatti con insalate, chine sui vassoi di carne fumante e cavolfiore, ridacchiando e tessendo le lodi del buffet e del party. Lloyd guardò i due allontanarsi, poi andò in soggiorno, e fece un fi¬schio nel vederlo gremito di pezzi grossi: comandanti, ispettori, e via di questo passo a salire. Li contò: sette comandanti, cinque ispettori e quattro vicecapi. Quello col grado più basso nella sala era il tenente Fred Gaffa¬nev, in piedi vicino al focolare insieme a due ispettori che avevano appuntate sulla giacca spillette con la cro¬ce e la bandiera. Gaffanev voltò la testa e incrociò lo sguardo di Lloyd, poi distolse in fretta gli occhi. I due ispettori fecero lo stesso, e indietreggiarono appena quando Lloyd li guardò fisso. C'era qualcosa che non andava.
Lloyd raggiunse Dutch in cucina, mentre stava in¬trattenendo Kathleen e un vicecapo con uno dei suoi aneddoti coloriti. Quando l'ufficiale se ne andò scuoten¬do la testa fra le risate Lloyd disse: «C'è qualcosa che mi tieni nascosto, Dutch? Dev'esserci qualcosa di nuo¬vo. Non ho mai visto tanti culi di pietra insieme in tutta la carriera.»
Dutch deglutì. «Ho fatto gli esami da comandante e sono passato a pieni voti. Non te l'ho detto perché...» Indicò Kathleen con un cenno del capo.
«No» disse Lloyd «lei resta qui. Perché non me l'hai detto, Dutch?»
«Credo che sia meglio che Kathleen non stia a senti¬re» fece Dutch.
«Non me ne frega un cazzo. Dimmelo!»
Dutch sputò tutto. «Non te l'ho detto perché se aves¬si saputo che stavo per diventare comandante non l'avresti più finita di chiedermi favori. Intendevo dirtelo se fossi passato e una volta ricevuto l'incarico. È stato dopo che Fred Gaffaney mi ha dato la notizia che mi of¬friranno il comando della Divisione affari interni quan¬do l'ispettore Eisler andrà in pensione. Gaffaney è in li¬sta per diventare capitano, e quasi sicuramente sarà mio superiore diretto. Poi tu gli hai fatto quella scenata, e mi hai fatto perdere un bel po' di reputazione. Io ho si¬stemato tutto: il vecchio Dutch bada sempre al suo pic¬colo genio focoso. Le cose stanno cambiando, Lloyd. Il Dipartimento è stato attaccato dai media: i negri am¬mazzati, la brutalità della polizia, quei due poliziotti dentro per possesso di coca. Vogliono ripulire tutto. La DIA è piena di puritani, e il capo in persona vuole far ro-tolare le teste di tutti gli ufficiali che incontrano altre donne, che vanno con le puttane o a caccia di fica, e tut¬te queste cagate. Io dovrò seguire la corrente, e non vo¬glio che succeda qualcosa a te! Avevo detto a Gaffaney che gli avresti chiesto scusa, e pensavo che ti saresti fat¬to vedere insieme a tua moglie, non con una delle tue amichette del cazzo!»
«Janice mi ha lasciato!» urlò Lloyd. «Ha portato via le bambine, e io non chiederei scusa a quel bigotto mezzasega neanche se ne andasse della mia vita!»
Lloyd si guardò attorno. Kathleen era irrigidita con¬tro la parete, sconvolta, i pugni serrati. Sulla soglia della cucina c'era un gruppetto di agenti insieme alle mogli. Quando nei loro occhi non vide altro che sgomento e sa¬cra indignazione, Lloyd sussurrò: «Mi servono cinque uomini, Dutch. Per interrogare trentuno sospetti. Solo per qualche giorno. Non ti chiederò mai più niente. Non credo di poterlo prendere da solo.»
Dutch scosse la testa. «No, Lloyd.»
Il sussurro di Lloyd diventò un singhiozzo. «Per fa¬vore.»
«No. Non ora. Pensaci su un po'. Riposati. Hai lavo¬rato troppo.»
Il gruppetto sulla soglia era entrato nella cucina. Spostando gli occhi su tutta l'assemblea, Lloyd disse: «Due giorni, Dutch. Poi porterò tutto in televisione. Guarda il notiziario delle sei, ci sarò anch'io.»
Lloyd si voltò per andarsene, poi esitò. Fece una smorfia e colpì Dutch al volto con la mano aperta. Il tonfo della carne che colpiva la carne si smorzò per ve¬nire rimpiazzato da un ansito sgomento collettivo. «Giuda» sibilò Lloyd.
Kathleen si strinse a Lloyd in macchina, desideran¬do tremendamente quel coraggio sconsiderato. Aveva paura di dire qualcosa di sbagliato, così rimase in si¬lenzio e cercò di non indovinare quello che lui stava pensando.
«Che cos'è che hai in odio?» domandò Lloyd. «In particolare.»
Kathleen ci pensò un istante. «Il Klondike Bar» disse. «È un locale gay all'incrocio tra Virgil e il Santa Monica. Un ritrovo per sadici. Gli uomini che parcheg¬giano le moto davanti mi fanno paura. So che avresti voluto che dicessi qualcosa sugli assassini, ma non me la sento.»
«Non occorre chiedere scusa. È una buona risposta.»
Lloyd fece inversione di marcia, gettando Kathleen dall'altra parte del sedile. Nel giro di qualche minuto si trovarono davanti al Klondike Bar, a guardare un grup¬petto di uomini coi capelli corti in giacche di pelle che sniffavano nitrato di ammile, poi si abbracciavano ru¬demente ed entravano.
«Un'altra domanda» disse Lloyd. «Vuoi passare il resto della vita come una Emily Dickinson da quattro soldi o vuoi avere un po' di luce bianca e di purezza?»
Kathleen deglutì. «Voglio la luce bianca della pu¬rezza.»
Lloyd le indicò l'insegna al neon sopra l'ingresso del locale per pervertiti. Rappresentava un muscoloso av¬venturiero dello Yukon, con addosso solo un cappello da poliziotto canadese e un perizoma, che li fissava ma¬ligno. Lloyd mise la mano nel cassettino del cruscotto e passò a Kathleen la calibro 38 che usava fuori servizio. «Sparagli» disse.
Kathleen chiuse gli occhi e sparò alla cieca fuori dal finestrino fino a scaricare l'arma. L'avventuriero dello Yukon scoppiò agli ultimi tre colpi, e all'improv¬viso Kathleen si trovò a respirare cordite e una luce bianca e pura. Lloyd fece partire l'auto e sgommò per due isolati interi, guidando con una mano sul volante e l'altra in grembo a Kathleen, che strillava come una pazza.
Quando accostarono al marciapiede davanti alla li¬breria, Lloyd disse: «Stasera hai fatto conoscenza con la mia etica irlandese protestante.»
Kathleen si asciugò le lacrime delle risate dalle guan¬ce e disse: «Sono cattolica.»
«Non importa. Hai cuore e passione, è questo che conta.»
«Rimani?»
«No. Devo stare un po' solo a pensare cosa fare.»
«Ma tornerai presto?»
«Sì. In un paio di giorni.»
«E faremo l'amore?»
«Sì.»
Kathleen chiuse gli occhi e Lloyd si sporse a baciarla prima dolcemente e poi forte, finché non sentì scorrerle le lacrime sulle labbra, e lei si liberò dall'abbraccio e scappò dall'auto.

A casa, Lloyd cercò di pensare. Niente. Quando non riusciva a mettere a fuoco nella mente piani, ipotesi e strategie aveva un breve istante di panico. Poi sentì co¬me un colpo: la risposta era semplice e classica. Tutta la sua vita era stata un preludio a quella terribile pausa prima di spiccare il volo. Non poteva più tornare indie¬tro. Il suo geniale e tenebroso istinto lo avrebbe portato all'assassino. Il coniglio era scappato nella tana, e non sarebbe mai più tornato alla luce.

PARTE QUARTA
Al calare della luna

12

La sua amata si chiamava Peggy Morton, e l'aveva scelta anche per la sfida che gli proponeva, oltre che per la sua personalità.
Dai giorni di Julia Niemeyer e del suo manoscritto, con la missione di carità che aveva portato a termine sul marciapiede, si era sentito sprofondare su tutti i fronti. Il suo corpo agile e forte era sempre lo stesso, ma non importava: lui si sentiva flaccido e pigro. Quando si guardava allo specchio vedeva gli occhi azzurri, nor¬malmente limpidi, divenuti evasivi, velati di paura. Per combattere tutte quelle piccole mancanze il poeta aveva riesumato molte delle discipline che usava prima di co¬noscere Jane Wilhelm. Passò ore a fare pratica di judo e karate e a tirare al poligono NRA con le sue pistole, poi a fare flessioni e sollevamenti e addominali finché il cor¬po non gli diventò un unico dolore pesante. Tutto ciò servì solo da palliativo, e si sentiva ancora tormentare dagli incubi. Andare a prendere giovani in strada era per lui come mimare oscene ouvertures; come banchi di nubi contorte che scrivevano il suo nome in modo che tutti gli abitanti di Los Angeles potessero leggerlo.
Poi il suo registratore era stato rubato, e lui aveva incontrato una nemesi senza volto: il sergente Lloyd, pescatore della Squadra omicidi. Nelle undici ore dal momento in cui aveva per la prima volta sentito la sua voce registrata era venuto quattro volte, mentre le sue fantasie sempre più dettagliate sul ghetto degli omo¬sessuali lo portavano a una situazione di quasi torpore che svaniva in pochi minuti e lo lasciava pronto a esplodere nuovamente, ma allo stesso tempo impauri¬to dal prezzo. Guardare le reliquie appese alle pareti non serviva a niente: era solo quella voce a eccitarlo. Poi pensò a Peggy Morton, che abitava a pochi isolati di distanza da una strada piena di giovani che si vende¬vano al miglior offerente, ragazzi a cui poter attribuire la voce anonima del nastro, giovani che condividevano il disgustoso stile di vita dell'Agente Porco e del suo servo. Prese l'auto e si diresse verso West Hollywood, per consumare il suo amore.
Peggy Morton abitava in un palazzo "sorvegliato" di Flores Avenue, due isolati a sud del Sunset Strip. L'ave¬va seguita una mattina fino a casa dal mercato aperto tutta notte all'incrocio fra il Santa Monica e Sweetzer, rimanendo all'ombra degli alberi che fiancheggiavano il marciapiede, ascoltandola coniugare sottovoce verbi francesi. In lei c'era qualcosa di molto semplice e pudi¬co, e nei traumatici postumi di Julia aveva scelto quella semplicità come base della propria passione.
Gli ci era voluto meno di una settimana per capire che la graziosa creatura dai capelli rossi era estrema¬mente abitudinaria: lasciava il suo posto di cassiera alla Tower Records a mezzanotte precisa, e il suo fidanzalo, Phil, il gestore notturno del negozio, l'accompagnava al supermercato a fare la spesa, poi a casa. Phil passava la notte con lei solo al martedì e al venerdì.
"Abbiamo fatto un patto, tesorino" aveva sentito dire Peggy cinque o sei volte. "Devo studiare il francese. Hai promesso che non avresti fatto pressione."
Phil era di buon carattere e un po' tonto, e protestava brevemente, poi stringeva Peggy e la sua borsa della spesa in un abbraccio esasperato e se ne andava scuo¬tendo il capo. Poi Peggy scuoteva la testa a sua volta co¬me per dire: "Gli uomini", e tirava fuori dalla borsa un mazzo di chiavi per aprire la prima delle molte porte che le permettevano di arrivare al suo appartamento al quarto piano.
Il condominio lo affascinava, era come una sfida. Sette piani di vetro, acciaio e cemento, reclamizzato dai cartelli di fronte all'ingresso come AMBIENTE A SICUREZZA TOTALE CONTROLLATO ELETTRONICAMENTE 24 ORE SU 24. Lui scosse il capo nel pensare a quanto era triste che la gente avesse bisogno di simili protezioni, e si gettò nella sfida. Sapeva che Peggy aveva quattro chiavi nel mazzo, e che servivano tutte quante per raggiungere il suo ap¬partamento. Aveva sentito Phil fare battute al riguardo. Sapeva anche che l'atrio era costantemente sorvegliato da telecamere elettroniche montate alle pareti. Il primo passo era ottenere le chiavi...
L'impresa era riuscita facilmente, ma gli aveva pro¬curato solo un accesso parziale. Dopo tre giorni passati a studiare la vita quotidiana di Peggy, aveva visto che quando arrivava al lavoro alle quattro in punto andava per prima cosa nella "sala di ristoro" per i dipendenti nel retro del negozio. Poi lasciava la borsetta su un tavo¬lo accanto al distributore della Coca-Cola e andava nel deposito adiacente a controllare i dischi appena arriva¬ti. Lui aveva osservato tutto per tre giorni da una porta scorrevole a vetri. Il quarto giorno aveva fatto la sua mossa, rischiando di rovinare tutto quando il rumore dei passi di Peggy che stava tornando lo aveva costretto a scappare nel ripostiglio con una sola chiave in mano.
Ma era la chiave dell'atrio principale, e quella sera, vestito da donna e stringendo a sé una grande borsa del¬la spesa per camuffarsi, aveva aperto la porta in tutta tranquillità andando direttamente alla fila delle casset¬te postali, dove aveva visto che Peggy abitava nell'appar¬tamento 423. Aveva fatto il giro dell'atrio e aveva sco¬perto che per la porta dell'ascensore occorreva un'altra chiave. Non si lasciò sviare. Notò una porta alla sua si-nistra. Era aperta. La spalancò e percorse un corridoio sudicio fino a una lavanderia in cui si trovavano lavatri¬ci e asciugatrici a gettone. Controllò la stanza e vide che nel soffitto c'era un ampio pozzo di ventilazione. Sentì rumore provenire dagli appartamenti più su, e la mente cominciò a metterglisi in moto...
Di nuovo vestito da donna, ma stavolta con una tuta aderente di cotone sotto gli abiti femminili, parcheggiò dalla parte opposta della strada e aspettò che Peggy tor¬nasse a casa. Fremeva tanto per l'ansia che non gli ven¬ne in mente neppure una volta il pescatore della Squa¬dra omicidi.
Peggy arrivò alle 12 e 35. Passò il sacchetto della spe¬sa nell'altra mano e infilò a tentoni la chiave nuova nella serratura, poi entrò. Lui aspettò una mezz'ora, poi si av¬vicinò furtivamente e fece lo stesso, nascondendosi in parte il volto con il sacchetto di provviste che portava. Attraversò l'atrio e raggiunse la lavanderia, mise sulla porta un cartello scritto a mano che diceva LOCALE IN RI¬PARAZIONE, poi la chiuse dall'interno. Respirando stu¬diatamente, si tolse l'abito largo di percalle e prese i suoi attrezzi da lavoro dalla borsa: cacciavite, bulino, mazza, seghetto per metalli e automatica calibro 32 silenziata. Infilò tutto nelle tasche di un cinturone milita¬re residuato di guerra, poi se l'avvolse ai fianchi e infilò un paio di guanti da chirurgo.
Riportando alla mente i dolci ricordi di Peggy, si mi¬se in cima a una lavatrice proprio sotto il pozzetto di ventilazione e sbirciò oltre nell'oscurità, poi respirò profondamente, portò le mani sopra la testa come se vo¬lesse tuffarsi e balzò verso l'alto finché non fece presa con le braccia sul rivestimento interno di metallo corru¬gato del pozzetto. Con uno sforzo enorme che gli fece bruciare i polmoni, si tirò su lungo il canale, allargando braccia, spalle e gambe per fare presa e spingersi in al¬to. Sentendosi come un verme condannato a una peni¬tenza infernale, avanzò lentamente, pochi centimetri alla volta, modulando il respiro in sintonia con i movi¬menti. Il pozzetto era bollente, e il metallo gli bruciava la pelle attraverso la tuta.
Raggiunse il pozzetto di collegamento del secondo piano, e scoprì che era abbastanza ampio per poterci passare. Lo percorse assaporando la gioia di muoversi di nuovo orizzontalmente. Lo spazio terminava con una placca di metallo coperta di piccoli fori. Dalla placca proveniva aria fresca, e lui vide stringendo gli occhi che si trovava all'altezza del soffitto dalla parte opposta del corridoio rispetto agli appartamenti 212 e 214. Si spo¬stò sulla schiena e tolse bulino e martello dal cinturone, poi si rimise carponi e spinse la testa del bulino contro il bordo della piastra, strappandola con un colpo secco di martello. La placca cadde sulla moquette blu del corri¬doio, e lui uscì dall'apertura ricadendo a terra. Riprese fiato e sistemò la piastra metallica di sbieco sul pozzet¬to, poi percorse il corridoio, scrutando sempre ogni an¬golo in cerca di dispositivi di sicurezza nascosti. Non ne vide, e attraversò due porte comunicanti, salì due ram¬pe di scale di servizio, sentendo pulsare forte il cuore fi¬no a un crescendo per ogni scalino.
Il corridoio del quarto piano era deserto. Andò alla porta dell'appartamento 423 e vi appoggiò l'orecchio. Silenzio. Prese l'automatica calibro 32 e controllò che il silenziatore fosse ben avvitato sulla canna. Concentran¬dosi per imitare il timbro della voce stolida di Phil, bus¬sò alla porta e disse: «Peg? Sono io, tesoro.»
Sentì rumore di passi dall'interno, seguito da poche parole mormorate dolcemente: «Sei il solito pazzoi¬de...» La porta si spalancò un istante più tardi. Quan¬do Peggy Morton vide l'uomo con la tuta nera portò la mano alla bocca per la sorpresa. Lo guardò negli occhi azzurri e vi lesse la passione. Quando vide la pistola che teneva in mano cercò di urlare, ma non ci riuscì.
«Ricordati di me» disse, e le sparò allo stomaco.
Vi fu un piccolo tonfo secco, e Peggy cadde in ginoc¬chio, mentre la bocca terrorizzata cercava di dire la pa¬rola "No". Lui le appoggiò la canna contro il seno e pre¬mette il grilletto. Lei venne gettata all'indietro verso il soggiorno e sputò un debole "No" insieme a una bocca¬ta di sangue. Lui entrò e si chiuse la porta alle spalle. Peggy sbatteva le palpebre e annaspava. Lui si chinò e le aprì la vestaglia. Era nuda. Appoggiò la canna sopra il cuore e sparò. Il corpo della donna ebbe un sussulto e la testa le scattò in alto. Il sangue sgorgò dalla bocca e dal¬le narici. Le palpebre sbatterono un'ultima volta, poi si chiusero per sempre.
Andò in camera da letto e trovò un abito da lavoro di taglia grande che sembrava andargli bene, poi frugò nei cassetti finché non vide una parrucca bruna e un gran¬de cappello di paglia. Indossò tutto e si guardò allo specchio. Era bellissimo.
Nella cucina prese una grande borsa da spesa rinfor¬zata e una catasta di giornali. Portò tutto nel soggiorno e mise i giornali per terra accanto al corpo della sua ulti¬ma amata. Tolse a Peggy la vestaglia zuppa di sangue e impugnò il seghetto. Lo abbassò e chiuse gli occhi, e sentì gli schizzi di sangue nell'aria. Nel giro di pochi mi¬nuti carne, ossa e viscere erano state separate le une del¬le altre, e la moquette color giallo pallido si era fatta ros-so scuro.
Andò al balcone e guardò il flusso silenzioso di auto che percorrevano il Sunset Strip. Si chiese per un istan¬te dove stesse andando tutta quella gente, poi tornò dal¬la sua ventitreesima amante e raccolse le braccia e le gambe amputate. Le portò al balcone e le gettò al mon¬do, una dopo l'altra, guardandole sparire zavorrate dal¬la sua forza.
Ora rimanevano solo testa e tronco. Lasciò quest'ulti¬mo dov'era e avvolse la testa in un giornale, poi la mise nella borsa della spesa. Con un sospiro, uscì dall'appar¬tamento e percorse il palazzo, uscendo in strada. Quan¬do fu giù si tolse l'abito di Peggy Morton, poi la parruc¬ca e il cappello e gettò tutto in un vicolo, consapevole di avere affrontato l'equivalente di tutte le guerre della razza umana e di esserne uscito vincitore.
Tolse il suo trofeo dalla borsa e percorse il marciapie¬de. All'angolo vide una Cadillac splendida e bianchissi¬ma. Sistemò la testa di Peggy Morton sul cofano. Era una dichiarazione di guerra. Si sentì percorrere la men¬te da slogan guerreschi. "Al vincitor le spoglie" fu quello che gli rimase impresso. Salì in auto e andò a festeggia¬re come era suo diritto.
Le dolci voci interiori lo spinsero verso il Santa Mo¬nica Boulevard. Percorse lentamente la corsia di destra sentendosi stringere le mani sul volante dagli aderenti guanti di gomma. C'era poco traffico, e la mancanza di rumore gli lasciava la libertà di ascoltare, di sentire let¬teralmente i pensieri dei giovani in attesa contro i car¬telli di stop e sulle panchine delle fermate d'autobus. Era difficile mantenere un contatto visivo, e sarebbe stato ancora più difficile decidersi basandosi solo sull'aspetto fisico, così guardò fisso di fronte a sé, la¬sciando che il suo incontro fosse guidato dal destino.
Vicino a Plummer Park si sentì assalire dai rozzi ri¬chiami dei prostituti che lo importunavano. Procedette senza fermarsi: meglio nessuno che persone brutte.
Attraversò la Fairfax, uscendo dal quartiere omoses¬suale, terrorizzato e contento che la prova fosse termi¬nata. Poi si fermò al semaforo a Crescent Heights e si sentì sommergere dalle voci come da un'esplosione: «Hai roba buona, Birdy. Con quelle bustine per i tuoi clienti farai un sacco di soldi.»
«Ho già incassato, per chi cazzo mi hai preso, un impiegato statale?»
«Non sarebbe una cattiva idea, bello mio. Gli impie¬gati prendono la pensione, i bei culetti come te lo scolo.»
Le tre voci sfumarono in una risata. Lui guardò me¬glio. Due giovani biondi e il servo. Strinse il volante così forte che le mani insensibili tornarono in vita e si con¬torsero come se fossero spastiche, premendo per sba¬glio il clacson. A quel rumore le voci cessarono. Si sentì i loro sguardi addosso. Il semaforo diventò verde, e quel colore gli fece venire in mente un nastro che scivolava attraverso fori insanguinati. Rimase dov'era: scappare a quel punto sarebbe stata una vigliaccheria. Vide le cel¬lule cancerose che strisciavano sul parabrezza, e poi una voce gentile dal finestrino del lato passeggeri.
«Cerchi compagnia?»
Era il servo. Fissando il semaforo verde, lui recitò la litania delle sue 23 amanti. Le loro immagini gli fecero riacquistare la calma: erano loro a volerlo.
«Ehi, ho chiesto se cerchi compagnia.»
Lui annuì. Le cellule cancerose svanirono di fronte a quell'atto di coraggio. Si costrinse ad aprire la portiera e sorridere. Il servo ricambiò il sorriso, senza mostrare di riconoscerlo. «Fai il misterioso, eh? Guarda, guarda pure. Lo so che sono bello. Ho una stanza vicino La Cienega. Fra cinque minuti Larry Bird ti porta dritto dritto in paradiso.»
I cinque minuti diventarono 23 diverse eternità, 23 voci femminili che dicevano "Sì". Lui annuì a ciascuna e si sentì scaldare tutto.
Parcheggiarono nello spiazzo di fronte al motel, e Larry gli fece strada fino alla sua stanza, chiudendo la porta e sussurrando: «Cinquanta. Anticipati.» Il poe¬ta mise una mano nella tasca della tuta e prese due bi-glietti da venti e uno da dieci. Li diede a Larry, che li mi¬se in una scatola da sigari sul comodino e disse: «Co¬me lo vuoi fare?»
«Alla greca» disse lui.
Larry rise. «Vedrai che ti piacerà, bello. Non sei sta¬to inculato finché non ti ha inculato Larry Bird.»
L'uomo scosse il capo. «No, il contrario. Sono io che inculo te.»
Larry soffiò irosamente. «Ehi, amico, guarda che hai capito male. Io non lo prendo in culo, lo do. È da quando stavo al liceo che rompo i buchi. Io sono Larrv Bir...»
Il primo colpo raggiunse Larry all'inguine. Cadde contro la cassettiera, poi scivolò a terra. L'uomo lo guardò dall'alto e cantò: «Orsù, nobile Marshall, avan¬za sul campo, alta la bandiera, mai ci arrenderem.»
Gli occhi di Larry sì accesero. Aprì la bocca, e l'uomo gli infilò dentro il silenziatore e sparò sei colpi. La parte posteriore della testa di Larry e la cassettiera scoppiaro¬no. L'uomo tolse il caricatore e ricaricò, poi mise carpo¬ni il cadavere del battone e gli tolse calzoni e boxer. Al¬largò le gambe a Larry e gli infilò la canna della pistola nel retto, poi sparò sette volte. Gli ultimi due proiettili rimbalzarono sulla spina dorsale e ruppero la giugulare nell'uscire, e schizzi di sangue si alzarono nell'aria acre di cordite.
Il poeta si alzò in piedi, sorpreso nel vedere che si reg¬geva bene. Tenne le mani diritte di fronte a sé e notò che non tremavano. Si tolse i guanti di gomma e sentì le ma¬ni tornargli simbolicamente in vita. Ora aveva ucciso 23 volte per amore, e una per vendetta. Era in grado di da¬re la morte a uomo e donna, amante e stupratore. Si in¬ginocchiò accanto al cadavere e immerse le mani nei vi¬sceri sanguinolenti, poi accese tutte le luci della stanza e scrisse sulla parete con le dita insanguinate: NON SONO IL KLOWN DI KATY.
Ora che lo aveva dimostrato a se stesso, meditò sul modo migliore di annunciare al mondo la notizia. Prese il telefono e chiamò il centralino, poi chiese il numero della Divisione omicidi del Dipartimento di polizia di Los Angeles. La centralinista glielo diede e lui lo compo¬se tamburellando le dita insanguinate sul piano del co¬modino mentre ascoltava il segnale. Alla fine una voce rauca rispose: «Divisione rapine e omicidi. Parla l'agente Huttner. Desidera?»
L'uomo spiegò che un sergente molto gentile aveva salvato la vita al suo cane. Disse che la sua bambina vo¬leva mandare una Valentina a quel poliziotto così cari¬no, e che aveva dimenticato il nome ma ne ricordava il numero di matricola: 1114. Chiese se l'agente Huttner poteva mandare un messaggio a quel poliziotto così simpatico.
L'agente Huttner borbottò fra sé: «Merda» e poi: «Certo signore, qual è il messaggio?»
L'uomo disse: «La guerra è cominciata» e poi strappò il cavo dalla parete e scagliò il telefono dall'altra parte della stanza sporca di sangue.

13

Lloyd raggiunse il Parker Center all'alba, sentendosi battere nella testa come un fragore metallico il pensiero delle possibili conseguenze del suo sfogo al party. Qualunque fosse l'esito, che poteva andare da un'accu¬sa formale di violenza a superiore a una censura di¬partimentale, Lloyd sarebbe stato soggetto a un'inda¬gine da parte della DIA, che gli avrebbe assegnato un'indagine specifica a tempo pieno, impedendogli di conseguenza di seguire quegli omicidi. Era il momen¬to di proseguire le indagini in segreto, di non farsi tro¬vare dal Dipartimento in generale e dai cacciatori di streghe della DIA in particolare, per scusarsi con Dutch in seguito e trovare l'assassino, qualunque fosse il prezzo per la carriera.
Lloyd fece di corsa le sei rampe di scale fino al suo uf¬ficio. Sulla scrivania c'era un biglietto scritto dall'agen¬te di guardia notturna: "Matricola 1114. La guerra è co¬minciata? Dev'essere un testa di cazzo. Huttner." Lloyd pensò che doveva essere una specie di guerra psicologi¬ca da parte della DIA; i fanatici religiosi non erano mai molto raffinati.
Lloyd percorse il corridoio fino alla sala dei subalter¬ni, nella speranza che non ci fosse nessuno del turno di guardia notturno. Sarebbe dovuto rimanere in strada per lungo tempo, e solo col caffè non ce l'avrebbe fatta.
La sala era deserta. Lloyd guardò sotto ai tavolini da pranzo, i classici posti in cui i poliziotti nascondevano la roba per le "vigilanze a lungo termine". Al quarto ten¬tativo trovò quello che cercava: un sacchetto di plastica pieno di pastiglie di Benzedrina. Prese tutto il sacchet¬to. Trentuno nomi sulla lista di acquirenti di apparec¬chiature stereo, e per di più dover sorvegliare da solo l'appartamento di Whitey Haines. Meglio prendere troppe anfetamine che troppo poche.
I corridoi del Parker Center cominciavano a riempir¬si di agenti che arrivavano in anticipo. Lloyd si vide scrutare da diverse facce nuove, uomini con i capelli ta¬gliati corti e l'aria tutta d'un pezzo, e capì subito che erano agenti investigativi della DIA.
Tornato nel suo ufficio, vide che qualcuno aveva fru¬gato fra i documenti sulla sua scrivania. Stava alzando il pugno per sbatterlo contro il ripiano del tavolo, quan¬do squillò il telefono.
«Lloyd Hopkins» disse alzando la cornetta. «Chi parla?»
Rispose una voce d'uomo stressata. «Sergente, so¬no il capitano Magruder, stazione dello sceriffo di We¬st Hollywood. Abbiamo due omicidi, in luoghi diversi. Sono sicuro che le impronte corrispondono a quelle del telex che ci ha mandato sull'assassinio Niemever. Può...»
Lloyd si sentì gelare. «Sarò lì in venti minuti» disse.
Ce ne vollero venticinque, con la sirena accesa e pas¬sando tutti i semafori rossi. Trovò Magruder al banco delle informazioni, in uniforme, intento a esaminare un mucchio di dossier. Lloyd guardò il cartellino di identi¬ficazione e disse: «Capitano, sono Lloyd Hopkins.»
Magruder fece un salto come se lo avesse assalito uno sciame di api. «Grazie a Dio» fece, allungando la ma¬no tremante. «Andiamo nel mio ufficio.»
Attraversarono un corridoio gremito di agenti in uniforme intenti a parlare sussurrando animatamente. Magruder aprì la porta del suo ufficio e fece cenno a Lloyd di sedersi, poi sedette a sua volta dietro la scriva¬nia e disse: «Due omicidi. Tutti e due la notte scorsa. Una donna e un uomo. In località distanti un chilome¬tro l'una dall'altra. Tutte e due le vittime fatte fuori con una calibro 32 automatica. Bossoli identici in tutti e due i casi. La donna è stata smembrata, probabilmente con una sega. Le braccia e le gambe sono state trovate nella piscina di un condominio adiacente. La testa era avvol¬ta in un giornale e sistemata sul cofano di un'auto appe¬na fuori del condominio. Una bella ragazza, 28 anni. La seconda vittima è un battone. Lavorava fuori da un mo¬tel a qualche isolato da qui. Il killer gli ha infilato la cali¬bro 32 in bocca e poi nel culo e lo ha fatto saltare in aria. L'amministratrice notturna, che abita proprio al piano di sotto, non ha sentito niente. Ci ha chiamati quando si è vista gocciolare il sangue dal soffitto.»
Lloyd, esterrefatto nel sentire di una vittima di sesso maschile, guardò Magruder che apriva un cassetto e ti¬rava fuori una mezza di bourbon. Ne versò una buona dose in una tazza da caffè e mandò giù tutto in un sorso. «Cristo, Hopkins» disse. «Cristo di Dio beato.»
Lloyd rifiutò gentilmente la bottiglia quando gli ven¬ne offerta. «Dove avete trovato le impronte?» do¬mandò.
«Nella camera d'albergo del finocchio» disse Ma¬gruder. «Sul telefono, sul comodino e vicino a una scritta fatta col sangue sulla parete.»
«Violenza sessuale?»
«Impossibile capirlo. Quel tizio aveva il retto sfracel¬lato. Il medico legale ha detto che non aveva mai visto...»
Lloyd alzò la mano per interromperlo. «I giornali ne sanno qualcosa?»
«Credo di sì... Ma noi non abbiamo rilasciato infor¬mazioni. Cosa ha trovato sul caso Niemeyer? Qualche traccia da far seguire ai miei uomini?»
«Non ho trovato niente!» urlò Lloyd. Abbassando la voce, disse: «Mi parli del prostituto.»
«Si chiamava Lawrence Craigie, alias Larry "Bird", alias "Birdman". Sulla trentina, biondo, muscoloso. Credo che battesse la strada vicino a Plummer Park.»
Lloyd si sentì esplodere la mente, e poi seguì l'incre¬dibile serie di collegamenti: Craigie, testimone del suici¬dio del dieci giugno 1980; il "Bird" della registrazione nell'appartamento di Whitey Haines. Calzava tutto quanto.
«Lei "crede"?» urlò Lloyd. «E la sua fedina?»
Magruder balbettò: «Abbiamo... Abbiamo control¬lato. Non c'era altro che qualche citazione in giudizio per infrazioni al codice stradale. Non...»
«E questo tizio era un prostituto di fama nel quar¬tiere e non aveva niente sulla fedina?»
«Be'... Potrebbe aver corrotto un avvocato per farsi cancellare le accuse.»
Lloyd scosse il capo. «E gli archivi della Buoncostu¬me? Che sanno di lui gli agenti?»
Magruder si versò un'altra dose di bourbon e la mandò giù d'un fiato. «La Buoncostume non entra in servizio fino al turno di notte» disse «ma ho già controllato nei loro archivi. Di quel Craigie non se ne parla.»
Lloyd si sentì pesare addosso tutti quei collegamenti. «Il Tropicana Motel?» disse.
«Sì» fece Magruder. «Come fa a saperlo?»
«Il cadavere è stato rimosso? Il locale sigillato?»
«Sì.»
«Vado a dare un'occhiata. Ci sono degli agenti di guardia?»
«Sì.»
«Bene. Chiami il motel e dica che sto arrivando.»
Lloyd cercò di calmare il tremito che gli percorreva la mente e corse fuori dell'ufficio di Magruder. Percorse i tre isolati che lo separavano dal Tropicana Motel sapen¬do che lo attendevano scene infernali e presagi del pro¬prio destino.
Trovò una specie di mattatoio che puzzava di sangue e carne maciullata. Il giovane di guardia alla porta gli ri¬ferì dettagli raccapriccianti: «Se crede che sia un brut¬to spettacolo, sergente, avrebbe dovuto venire qui pri¬ma. Il cervello del nostro amico era tutto sparso su quel¬la cassettiera. Il medico legale ha dovuto raccoglierlo pezzo per pezzo e metterlo in un sacchetto di plastica. Non sono neanche riusciti a segnare la sagoma col ges¬so, hanno dovuto usare del nastro. Cristo Dio.»
Lloyd andò alla cassettiera. La moquette azzurra era ancora inzuppata di sangue. In mezzo alla grande mac¬chia rosso scuro era segnato con nastro metallico il con¬torno di un uomo disteso a braccia e gambe allargate. Esaminò il resto della camera: un grande letto con una coperta leggera di felpa violetta, statuette raffiguranti ragazzi muscolosi, una scatola di cartone piena di cate¬ne, fruste e falli di gomma.
Esaminando di nuovo la stanza, Lloyd vide che un'ampia porzione della parete sopra il letto era stata coperta con carta da pacchi marrone. Disse al vice: «Perché c'è questa carta sul muro?»
Il vice disse: «Oh, avevo dimenticato di dirglielo. Serve per coprire una scritta. Fatta col sangue. Gli agen¬ti l'hanno coperta in modo che quelli della televisione e dei quotidiani non la vedessero. Pensano che sia un in¬dizio.»
Lloyd prese la carta per un angolo e la strappò via. Si trovò di fronte le parole insanguinate NON SONO IL KLOWN DI KATHY. Per un secondo, il computer che aveva al posto del cervello si mise in moto con uno stridio. Poi Lloyd sentì scoppiare tutto, e quelle parole si sfuocarono e si trasformarono in un rumore improvviso seguito da un silenzio perfetto.
Kathleen McCarthy e la sua corte. "Avevamo un se¬guito di ragazzi altrettanto soli e amanti dei libri. Li chiamavamo 'i Klown di Kathy'." Donne assassinate fi¬sicamente simili a ragazze sane e pulite di un liceo dei primi anni Sessanta. Un prostituto morto e il suo amico sbirro perverso e corrotto, e... e...
Lloyd sentì che il giovane gli stava tirando la manica. Il silenzio diventò un rumore satanico. Prese il vice per le spalle e lo spinse contro il muro. «Dimmi di Haines» sussurrò.
Il giovane sussultò balbettando: «Co... Cosa?»
«Il vicesceriffo Haines» ripeté Lloyd lentamente. «Parlami di lui.»
«Whitey Haines? È un solitario. Sta sempre sulle sue. Dicono in giro che si droga. No... Non so altro.»
Lloyd lo lasciò andare. «Non fare quella faccia spa¬ventata, ragazzo» disse.
Il giovane deglutì e si raddrizzò la cravatta. «Non sono spaventato» disse.
«Bene. Non parlare a nessuno di quello che abbia¬mo detto.»
«Sì... signore.»
Squillò il telefono. Rispose il vice, che poi passò la cornetta a Lloyd. «Sergente, sono l'agente Nagler della Scientifica» disse freneticamente una voce nervosa. «Sono ore che cerco di rintracciarla. Al centralino mi hanno detto...»
Lloyd lo interruppe. «Che c'è, Nagler?»
«Sergente, corrispondono. L'indice e il mignolo del telex sul caso Niemeyer sono gli stessi che ho trovato sul registratore.»
Lloyd lasciò cadere la cornetta e andò al balcone. Ab¬bassò gli occhi sullo spiazzo del parcheggio, gremito di curiosi e cacciatori di emozioni tristi che volevano vede¬re qualcosa, poi spostò gli occhi sulla strada. Era tutto spaventoso, come il primo sguardo di un bambino che usciva dall'utero della madre.

14

Spinto da quel vortice di destini intersecati, Lloyd si di¬resse a casa di Kathleen McCarthy. Sulla porta d'ingres¬so c'era un biglietto: SONO ANDATA A COMPRARE DEI LIBRI. TORNERÒ A MEZZOGIORNO, SERVIZIO POSTALE: LASCIARE PAC¬CHI SUGLI SCALINI.
Lloyd fece saltare la serratura con un calcio. La porta si spalancò, e lui se la chiuse alle spalle, dirigendosi sen¬za esitare verso la camera da letto. Prima la cassettiera: trovò biancheria intima, candele profumate e un sac-chetto con della marijuana. Controllò nello sgabuzzino. Tutto lo spazio del pavimento e degli scaffali era occu¬pato da scatole di libri e dischi. In fondo c'era una men¬sola parzialmente nascosta da un'asse per stirare e un tappeto arrotolato. Lloyd vi passò la mano e sentì un og¬getto di legno rifinito che si mosse quando lo toccò. Alzò entrambe le mani e lo tirò fuori. Era una grande cassetta di splendido legno di quercia verniciato, con il coperchio montato su cerniere d'ottone. Era pesante. Lloyd fece uno sforzo e se lo abbassò sulle spalle, poi lo portò in camera da letto.
Tirò la cassetta vicino al letto e vi si inginocchiò a fianco, schiodando la serratura ornamentale dorata con il portamanette.
Nella cassetta c'erano delle cornici sottili bordate in oro, sistemate per il lungo. Lloyd ne tirò fuori una. Dietro il vetro c'erano petali avvizziti di rosa rossa, schiac¬ciati su un foglio di pergamena. Sotto i petali era scritto qualcosa in grafia minuta. Portò la cornice vicino a una lampada e accese la luce, poi strinse gli occhi per legge¬re meglio. Sotto il primo petalo a sinistra c'era scritto: "13/12/68: Avrà saputo che io e Fritz ci siamo lasciati? Chissà se mi odia per le mie avventure. Era lui quell'uo¬mo alto che ho visto passare al Farmer's Market? Capi¬sce forse quanto ho bisogno di lui?"
Lloyd seguì quei tributi floreali incorniciati col pas¬sare del tempo: "24/11/69: Oh, amatissimo, riesci a leg¬germi nella mente? Saprai mai come io ricambio i tuoi omaggi nel mio diario? E come sarei disposta a rifiutare in eterno la fama pur di proseguire la crescita che il no¬stro rapporto mi dona?" E poi: "15/2/71: Amore, ti scri¬vo queste righe nuda, proprio come so che fai tu quando scegli i fiori da mandarmi. Senti i miei poemi telepatici? Vengono dal mio corpo, dal mio corpo".
Lloyd posò la cornice, e si rese conto che c'era qual¬cosa che non andava. Avrebbe dovuto sentirsi più com¬mosso dalle parole di Kathleen. Rimase perfettamente immobile, e capì che se avesse cercato di costringersi non ci sarebbe mai arrivato. Chiuse gli occhi per au¬mentare la profondità di quel silenzio, e poi...
Nello stesso momento in cui si sentiva colpire dall'in¬tuizione, scosse la testa in segno di diniego. Non poteva essere, era troppo incredibile.
Lloyd rovesciò la cassetta sul letto. Una dopo l'altra, mise le cornici accanto alla luce e lesse le date sotto i pe¬tali avvizziti. Le date corrispondevano a quelle degli assassinii delle donne risultanti dai tabulati del computer, perfettamente o al massimo con approssimazione di un paio di giorni. Ma i petali di rosa erano più di 16: ce n'erano 23, che risalivano fino all'estate del 1964.
Lloyd rammentò quello che Kathleen gli aveva detto alla centrale. "La prima volta c'era una poesia, la secon¬da solo dei fiori. E arrivarono continuamente, per più di 18 anni." Fece passare di nuovo tutte le cornici. I petali più vecchi erano datati 10 giugno 1964, più di 18 anni prima. I successivi erano del 29 agosto 1967, più di tre anni dopo. Cosa aveva fatto il mostro, in quei tre anni? Quante altre ne aveva uccise, e perché? Perché? Perché?
Lloyd lesse le parole di Kathleen e gli tornarono alla mente i cadaveri a cui corrispondevano. Jeanette Wilkie, morta il 15/4/1973, avvelenamento da fluidi caustici: i fiori erano datati 16/4/73. "Tesoro, ti sei mantenuto casto per me? Io sono pura da quattro mesi per te." Mary Wardell, morta il 6/1/74, strangolata: fio¬ri dell'8/1/74. "Grazie per i fiori, amore mio. Mi hai vi¬sta la notte scorsa alla finestra? Ero nuda in tuo ono¬re." E ancora, e ancora, fino ad arrivare a Julia Niemeyer, morta il 2/1/83, overdose di eroina e mutilazio¬ne dopo la morte; i fiori erano del 3/1/83. "Questa pergamena è bagnata delle mie lacrime, adorato. Ho tanto bisogno di sentirti in me."
Lloyd si sedette sul letto, cercando di ridurre al silen¬zio la propria mente sconvolta. Kathleen, innocente e romantica, oggetto dell'ossessiva attrazione amorosa di un pluriomicida. "Avevamo un seguito di ragazzi altret¬tanto soli e amanti dei libri."
Un pensiero lo costrinse ad alzarsi di scatto in piedi. Gli annuari scolastici, i Marshall Baristonians. Frugò nei cassetti, sulle mensole, negli armadi, finché non li trovò infilati dietro un vecchio televisore. Le edizioni del 1962, 1963 e 1964, rilegate in similpelle a colori pa¬stello. Sfogliò quelli del '62 e del '63.
Non c'era Kathleen, né la Korte di Kathy, né i Klown di Kathy.
Era arrivato a metà di quello del 1964 quando fece tombola: Delbert Haines, detto "Whitey", ritratto per i posteri mentre faceva una pernacchia. Sulla stessa pa¬gina c'era un ragazzo magro e foruncoloso di nome Lawrence Craigie detto "Birdman", sagacemente de¬scritto come "Una sciagura per la Sacra Società L.B.J." Lloyd fece passare un'altra decina di pagine di morte dell'innocenza prima di trovare la Korte di Kathy: quat¬tro ragazze graziose che indossavano gonne di tweed e maglioni cardigan, occhi sollevati a fissare con ammirazione Kathleen McCarthy, una Kathleen così giovane da spezzare il cuore. Quando capì quello che significa¬va, Lloyd cominciò a tremare. Le donne assassinate era¬no tutte variazioni sul tema delle ragazze della Korte. Gli stessi lineamenti da brave ragazze, la stessa fatua in¬nocenza, la stessa rassegnazione sconfitta.
I tremiti di Lloyd si trasformarono in brividi violenti. Sussurrando: "Coniglio nella tana", tirò fuori di tasca la lista di acquirenti di registratori a bobine e guardò l'in¬dice del Baristonian del 1964. Qualche secondo più tar¬di arrivò l'ultimo collegamento, quello definitivo. Verplanck, Theodore J., Liceo Marshall, Classe 1964; Theodore Verplanck, che nel 1976 aveva acquistato un regi¬stratore Watanabe AFZ 999.
Lloyd esaminò la foto del genio assassino, un adole¬scente con il sorriso sulle labbra. Il volto era il ritratto dell'intelligenza, e un'arroganza tenibile rendeva quel sorriso gelido come ghiaccio. Theodore Verplanck ave¬va l'aria di un ragazzo che viveva dentro se stesso, capa¬ce di crearsi un suo mondo personale, armato fino ai denti delle proprie ossessioni adolescenziali. Con un brivido, Lloyd pensò a come la freddezza di quegli occhi potesse essere stata amplificata da vent'anni di omicidi. Quel pensiero lo spaventò.
Lloyd prese il telefono e fece il numero del Diparti¬mento della motorizzazione civile di Sacramento, a cui richiese i dati completi di Theodore J. Verplanck. All'operatore del centralino ci vollero cinque minuti per fornirgli le informazioni: Theodore John Verplanck, na¬to il 21/4/46 a Los Angeles. Capelli castani, occhi azzur¬ri, un metro e 80, 75 chili. Fedina pulita, nessuna infra¬zione grave al codice stradale. Due mezzi: furgone Dodge Fiesta del 1978 targato P-O-E-T e Datsun 280Z del 1980 targata DLX-191. Indirizzo: Teddy's Silverlake Ca¬mera, 1893 North Alvarado, Los Angeles 90048. Telefo¬no: (213) 663-2819.
Lloyd sbatté giù la cornetta e terminò di copiare le informazioni sul taccuino. La paura che provava di¬ventò qualcosa di assurdo: l'assassino abitava ancora nel vecchio quartiere. Con un profondo respiro, compo¬se il 663-2819. Dopo tre squilli sentì un messaggio regi¬strato. "Ciao, sono Teddy Verplanck. Grazie per aver chiamato il Teddy's Silverlake Camera. Al momento so¬no assente, ma se volete fare quattro chiacchiere con me sui miei ricambi per apparecchi fotografici, lo svi¬luppo ultrarapido o ritratti di alta qualità e servizi per cerimonie, lasciate un messaggio dopo il segnale acusti¬co. Arrivederci!"
Una volta riappeso, Lloyd si sedette sul letto, assapo¬rando il ricordo della voce dell'assassino, poi si schiarì la mente per l'ultima decisione: se prendere Verplanck da solo o chiamare il Parker Center per farsi mandare una squadra di rinforzo. Rimase indeciso per diversi minuti, poi fece il numero privato del suo ufficio. Se lo avesse fatto squillare a lungo, qualcuno avrebbe sicura¬mente risposto, e Lloyd avrebbe potuto farsi un'idea di quali agenti degni di fiducia fossero disponibili.
Risposero al primo squillo. Lloyd fece una smorfia. C'era qualcosa che non andava. Non aveva acceso la segreteria telefonica. Sentì una voce che non conosce¬va. "Parla il tenente Whelan, della Divisione affari in¬terni. Sergente Hopkins, questo messaggio è stato regi¬strato per informarla che è stato sospeso dal servizio per la durata di un'indagine della DIA sul suo conto. La sua linea normale con l'ufficio è aperta. Chiami il nu¬mero diretto, e un agente della DIA le predisporrà il pri¬mo interrogatorio. Ha diritto alla presenza di un avvo¬cato e riceverà tutto lo stipendio finché l'indagine non sarà conclusa."
Lloyd gettò il telefono sul letto. "E così finisce", pen¬sò. La decisione finale: loro non potevano e non voleva¬no credergli perciò dovevano ridurlo al silenzio. L'iro¬nia più grande: non lo amavano quanto lui amava loro. La piena realizzazione della sua etica irlandese prote¬stante gli sarebbe costata il distintivo.
Lloyd vide dalla finestra della camera da letto che nel retro c'era un piccolo giardino, e uscì. Si vide accogliere da filari di margherite che crescevano nella terra appena pressata e un rudimentale stendiabiti. Si inginocchiò e raccolse una margherita, poi la annusò e la schiacciò sotto il tallone. Probabilmente Teddy Verplanck non si sarebbe mai arreso senza combattere. Sarebbe stato co¬stretto a ucciderlo, e questo significava non sapere mai il perché. Per prima cosa doveva avere qualche spiega¬zione da Whitey Haines, e se a Verplanck fosse saltato in mente di uccidere ancora o fuggire mentre lui tor¬chiava Haines, avrebbe...
I pensieri di Lloyd vennero interrotti quando sentì qualcuno piangere. Tornò in camera da letto. Kathleen era accanto al letto, intenta a rimettere a posto i fiori in¬corniciati nella cassetta di legno di quercia. Mentre lo faceva si asciugava le lacrime dagli occhi, senza neppu¬re accorgersi della sua presenza. Lloyd la guardò in fac¬cia: era l'espressione più stravolta dal dolore che avesse mai visto.
Le si avvicinò. Kathleen cacciò un urlo nello scorgere la sua ombra. Si portò le mani al volto e fece per indie¬treggiare, poi riconobbe Lloyd e gli si gettò fra le brac¬cia. «C'è stato un ladro» piagnucolò. «Voleva fare del male ai miei ricordi speciali.»
Lloyd strinse forte Kathleen. Era come stringere fra le braccia una donna ipnotizzata. Le cullò la testa avan¬ti e indietro finché lei non mormorò: «I miei Baristonians» e si liberò dal suo abbraccio per correre verso gli annuari sparsi sul pavimento. Lloyd si sentì infasti¬dito da quel suo sfogliare disperato le pagine, e disse: «Avresti potuto farti fare delle copie. Non sarebbe stato difficile. Ma dovrai sbarazzarti di quelle cose. Ti stanno uccidendo. Possibile che non te ne accorgi?»
Kathleen emerse di colpo dalla sua trance. «Di cosa stai parlando?» disse, alzando gli occhi verso Lloyd. «Sei... Sei stato tu a entrare in casa per fare del male ai miei ricordi? Ai miei fiori? Sei stato tu?» Lloyd si spor¬se per prenderle le mani, ma lei le ritrasse. «Rispondi, maledizione!»
«Sì» disse Lloyd.
Kathleen guardò i suoi annuari, poi di nuovo Lloyd. «Belva» sibilò. «Volevi ferire me attraverso i miei tesori.» Strinse le mani a pugno e si gettò contro di lui. Lloyd lasciò che quei colpi innocui gli martellassero spalle e torace. Quando vide che non gli stava facendo alcun male, Kathleen afferrò un mattone fermalibri e glielo tirò mirando alla testa.
Lo spigolo prese Lloyd al collo. Kathleen diede un an¬sito e si ritrasse spaventata. Lloyd si asciugò con la ma¬no il rivolo di sangue e poi l'alzò a mostrargliela. «So¬no fiero di te» disse. «Mi vuoi?»
Kathleen lo guardò negli occhi e vide la pazzia, il po¬tere e un bisogno terribile. Non sapendo cosa dire, gli prese la mano. Lo strinse a sé e chiuse la porta, poi spense la luce.
Si spogliarono nella semioscurità. Kathleen tenne sempre la schiena rivolta a Lloyd. Si tolse il vestito e poi le calze, nel timore che se lo avesse guardato di nuovo negli occhi non sarebbe riuscita a portare a termine quel rito di passaggio. Quando furono tutti e due nudi si gettarono sul letto, fra le braccia dell'altro. Si abbrac¬ciarono rabbiosamente, uniti nei punti più inconsueti: il mento della donna contro lo sterno di Lloyd, i piedi di lui avvinghiati alle sue caviglie, i polsi di lei contro il suo collo insanguinato. Ben presto divennero come una for¬za sola, e la pressione delle membra li costrinse a sepa¬rarsi, a mano a mano che si sentivano sempre più legge¬ri e insensibili. In perfetto sincronismo crearono uno spazio fra di loro, offrendosi vicendevolmente un prelu¬dio incerto per coprire quel varco, accarezzandosi le braccia, le scapole e il ventre, carezze così leggere che presto smisero di colpire la carne, e lo spazio fra di loro divenne l'oggetto del loro amore.
In quello spazio Lloyd cominciò a vedere la luce bianca della purezza che cresceva tutto attorno, prove¬nendo da Kathleen. Si abbandonò nelle permutazioni di quella luce, e tutte le creature che lo raggiunsero gli parlarono di gioia e gentilezza. Stava ancora vagando quando sentì la mano di Kathleen fra le gambe, per ec¬citarlo e fargli riempire il vuoto luminoso fra i due corpi. Per un istante fu sommerso dal panico, ma poi lei sussurrò: «Ti prego, ho bisogno di te» e lui la seguì, violò quella luce ed entrò in lei, muovendosi finché la luce non si dissipò e insieme si contorsero, arrivando insieme al culmine e lui capì di avere espulso sangue. Poi un rumore terribile gliela strappò dalle braccia, e lei disse dolcemente nel vederlo contorcersi fra le lenzuola: «Stai calmo, amore. Stai calmo È solo lo stereo dei vi¬cini. Non è qui. Ci sono io, con te.»
Lloyd si immerse fra i cuscini fino a trovare il silen¬zio. Sentì le mani di Kathleen accarezzargli la schiena, e si voltò verso di lei. I capelli della donna erano soffusi di un alone ambrato. Lui si allungò ad accarezzarglieli, e l'alone si disperse nella luce. Lo guardò svanire e disse: «Devo... Devo avere eiaculato sangue.»
Kathleen rise. «No, ho le mestruazioni. Ti dà fasti¬dio?»
Poco convinto, Lloyd disse: «No» e si mise al cen¬tro del letto. Fece un rapido inventario del proprio cor¬po, toccandosi in varie parti, cercando ipotetiche ferite e tessuti rovinati. Non trovò altro che il flusso interno di Kathleen, e disse: «Penso che vada tutto bene. Credo.»
Kathleen rise. «Lo credi? Io sto benissimo. Perché adesso so, dopo tutti questi anni, che eri veramente tu. Diciotto lunghissimi anni, e adesso so. Oh, amore mio!» Si chinò a baciargli il torace, passandogli le dita sulle costole per contarle.
Quando le mani gli scesero all'inguine, Lloyd le allon¬tanò. «Non sono il tuo spasimante misterioso» disse «ma so chi è. È lui l'assassino, Kathleen. Sono sicuro che uccide per una specie di contorto amore che prova per te. Ha ucciso più di venti donne, a partire dalla metà degli anni Sessanta. Giovani donne che assomigliavano alle ragazze della tua corte. E ti manda fiori ogni volta che uccide. So che può sembrarti incredibile, ma è così.»
Kathleen ascoltò ogni parola, annuendo di quando in quando. Quando Lloyd ebbe finito, lei si sporse ad ac¬cendere la lampada accanto al letto. Vide che era com¬pletamente serio, e dunque doveva essere completamente pazzo, sconvolto dall'aver distrutto quell'anoni¬mato dopo quasi vent'anni di corteggiamento.
Decise di portarlo per gradi allo scoperto, come avrebbe fatto una madre col proprio figlio intelligente ma mentalmente turbato. Gli posò la testa sul petto e finse di avere bisogno di conforto, mentre i suoi pensie¬ri volavano per cercare un varco in cui far presa per rompere la sua paura e che le desse accesso al profondo del suo cuore. Pensò agli opposti: Yin e Yang, tenebra e luce, verità e illusione. Dopo un istante, arrivò al punto: fantasia e realtà. "Deve pensare che io creda alla sua storia, e per questo devo strappargli la sua storia vera, quella che mi permetta di uscire dalla fantasia e rendere reale la consumazione del rito. Odia la musica e ne ha paura. Se voglio essere io la sua musica, devo scoprire il perché."
Lloyd allungò un braccio e trasse Kathleen a sé.
«Sei triste?» le chiese. «Ti dispiace che sia dovu¬ta finire così? Hai paura?»
Kathleen gli sfiorò il petto col volto. «No, mi sento al sicuro.»
«Con me?»
«Sì.»
«La verità è che adesso hai un amante.»
Le accarezzò distrattamente i capelli. «Dobbiamo fare quattro chiacchiere» disse. «Dobbiamo toglier¬ci dai piedi il Liceo Marshall, più o meno nel '64, per poter essere veramente uniti. Devo capire l'assassino prima di poterlo prendere. Devo sapere tutto il possibi¬le su di lui, devo aggiustare tutto nella mente prima di agire. Capisci?»
Kathleen annuì, schermandosi gli occhi. «Capisco» disse. «Vuoi che scavi nel mio passato per te. Così potrai risolvere l'enigma e potremo essere amanti. Giusto?»
Lloyd sorrise. «Giusto.»
«Ma il mio passato è triste, amore. È un dolore ri¬tornarvi. Soprattutto visto che tu sei un mistero ancora più grande.»
«Vedrai che lo sarò di meno andando avanti.»
Irritata da quella condiscendenza, Kathleen alzò la testa. «No, non è vero. Devo poterti conoscere, non ca¬pisci? Nessuno ti conosce. Io devo.»
«Senti, tesoro...»
Kathleen allontanò la mano che voleva placarla. «Devo sapere quello che ti è successo» disse. «Devo sa¬pere perché hai paura della musica.»
Lloyd cominciò a tremare, e Kathleen vide lo sguardo negli occhi grigio chiaro dell'uomo rivolgersi all'inter¬no, pieno di terrore. Lei gli prese la mano. «Racconta¬melo» disse.
La mente di Lloyd tornò indietro nel tempo e cercò di raccogliere tutti gli istanti di gioia per bilanciare l'orro¬re di cui solo lui e sua madre sapevano. Gradualmente acquistò forza e quando la sua macchina del tempo ce¬rebrale si arrestò nella primavera del 1950, capì di avere trovato il coraggio di raccontare la sua storia. Con un profondo respiro, iniziò a parlare.
«Nel 1950, verso il mio ottavo compleanno, il mio nonno materno venne a Los Angeles per morire in pace. Era irlandese, un pastore presbiteriano. Era vedovo, non aveva famiglia tranne mia madre, e voleva rimane¬re con lei mentre il cancro lo divorava. Si trasferì da noi in aprile, e portò con sé tutto quello che aveva. Per lo più era robaccia: collezioni di pietre, ammennìcoli religiosi, teste di animali impagliate, cose del genere, ma anche una meravigliosa serie di mobili antichi: banchi, casset¬tiere, guardaroba. Tutto di palissandro, così lucido che ci si poteva specchiare. Il nonno era un uomo amareg¬giato e pieno d'odio, un fervente anticattolico. Era an¬che un grande narratore. Portava sempre me e mio fra¬tello Tom di sopra per raccontarci della rivoluzione ir¬landese e di come i coraggiosi Black and Tans avevano spazzato via la plebaglia cattolica. A me le storie piace¬vano, ma ero abbastanza sveglio da capire che il nonno era distorto dall'odio, e che non dovevo prendere per buono tutto quello che diceva. Ma con Tom era diverso. Aveva sei anni più di me, ed era già distorto di suo. Lui prendeva molto seriamente quello che diceva il nonno, e quei racconti diedero forma al suo odio. Cominciò a fare sua l'avversione del nonno per i cattolici e gli ebrei.
«Tom aveva 14 anni, e non aveva un amico al mondo. Mi costringeva a giocare con lui. Era più grosso di me, così dovevo obbedirgli o mi avrebbe picchiato. Mio pa¬dre era elettricista. Era ossessionato dalla televisione. Era ancora una novità, e secondo lui era il dono più grande che Dio avesse mai fatto alla razza umana. Ave¬va un capanno dove lavorava nel cortile dietro casa. Traboccava di apparecchi televisivi e radio. Ci passava ore a cambiare e mescolare valvole e relé elettrici. Non guardava mai la televisione per divertimento: ne era os¬sessionato in quanto elettricista. Ma Tom l'adorava. Credeva a tutto quello che vedeva e a tutto quello che sentiva nei vecchi radiodrammi. Ma non gli piaceva sta¬re da solo mentre guardava la televisione o ascoltava la radio. Non aveva amici, e così mi costringeva a sedermi con lui nel capanno a guardare Hopalong Cassidy e Mar¬tin Kane, Detective Privato e cose del genere. Io non lo sopportavo. Volevo stare fuori a giocare col cane o a leg¬gere. A volte cercavo di scappare, e Tom mi legava per farmi guardare. Lui... Lui...»
Lloyd esitò, e Kathleen vide lo sguardo nei suoi occhi farsi sfuocato, come se non sapesse più con certezza quale periodo del tempo stesse ricordando. Gli posò gentilmente una mano sul ginocchio e disse: «Ti pre-go, continua.»
Lloyd si fece forza inspirando un'altra boccata di ri¬cordi gioiosi.
«Il nonno peggiorò. Cominciò a sputare sangue. Io non sopportavo di guardare, così cominciai a scappare via, saltando la scuola e rimanendo nascosto anche di¬versi giorni alla volta. Mi feci amico un vecchio mendi-cante che abitava in una tenda in uno spiazzo deserto vicino alla centrale elettrica di Silverlake. Si chiamava Dave. Era impazzito per i bombardamenti della prima guerra mondiale, e i negozianti del quartiere si prende¬vano più o meno cura di lui, passandogli pane raffermo e scatolette rovinate di fagioli e minestre invendibili. Tutti pensavano che Dave fosse ritardato, ma non era vero. Aveva dei momenti di lucidità. A me piaceva. Era un tipo tranquillo, e mi lasciava leggere nella sua tenda quando scappavo di casa.»
Lloyd esitò ancora, poi si lanciò di nuovo, e la voce assunse un tono che Kathleen non aveva mai sentito da nessuno.
«I miei genitori decisero di portare il nonno al La¬go Arrowhead per Natale. Per un'ultima scampagnata in famiglia prima che morisse. Il giorno della partenza io litigai con Tom. Voleva che stessi a guardare la tele-visione con lui. Io gli resistevo, e così lui mi picchiò e mi legò a una sedia nel capanno dove lavorava papà. Mi chiuse addirittura la bocca con del nastro adesivo. Quando arrivò il momento di partire, Tom mi lasciò dov'ero. Lo sentii dal cortile mentre diceva a mamma e papà che ero scappato. Loro gli credettero e se ne an¬darono lasciandomi solo nel capanno. Non riuscivo a muovere un muscolo o emettere suono. Rimasi là per più di un giorno, in preda a dolori atroci, quando sen¬tii qualcuno che cercava di entrare nel capanno. In un primo momento ebbi paura, poi la porta si aprì, e vidi che era Dave. Ma non mi liberò affatto. Accese tutte le televisioni e le radio che c'erano nel capanno, e mi puntò un coltello alla gola e mi costrinse a prenderglie¬lo in mano e in bocca. Mi bruciò con dei tester per val¬vole e strappò i cavi della corrente e me li infilò nel cu¬lo. Poi mi stuprò e mi picchiò, e mi bruciò ancora e an¬cora e ancora, sempre con quelle televisioni e le radio a tutto volume. Dopo avermi violentato per due giorni, se ne andò. Senza spegnere gli apparecchi. E il rumore cresceva e cresceva e cresceva... Alla fine la mia fami¬glia tornò a casa. La mamma entrò di corsa nel capan¬no. Mi tolse il nastro adesivo dalla bocca e mi slegò, mi abbracciò e domandò cosa era successo. Ma io non riuscivo più a parlare. Avevo urlato in silenzio così a lungo che avevo le corde vocali a pezzi. La mamma mi fece scrivere quello che era successo. Poi mi disse: "Non parlarne con nessuno. Sistemerò tutto io".
«La mamma chiamò un medico. Lui mi disinfettò le ferite e mi diede un calmante. Io mi risvegliai nel mio letto molto più tardi. Sentii Tom che urlava dalla came¬ra da letto. Andai a sbirciare. La mamma lo stava fru-stando con una cinghia dalle borchie d'ottone. Sentii papà chiedere cosa stava succedendo e la mamma che gli diceva di stare zitto. Io tornai di sopra. Circa un'ora dopo, la mamma uscì a piedi. Io la seguii tenendomi a distanza di sicurezza. Andò fino alla centrale elettrica di Silverlake. Andò direttamente alla tenda di Dave. Lui era seduto per terra a leggere un fumetto. La mamma prese una pistola dalla borsetta e gli sparò in testa sei volte, poi se ne andò.
«Quando vidi quello che aveva fatto, corsi da lei, e lei mi abbracciò e mi accompagnò a casa. Quella notte mi portò a letto con sé e mi diede il seno, e quando la voce mi ritornò lei mi insegnò a parlare di nuovo e mi crebbe raccontandomi tante storie diverse. Dopo la morte del nonno mi portava in soffitta e rimanevamo là a parlare, circondati dai mobili antichi.»
Irrigidita dalla compassione e dal terrore, con le la¬crime che le scorrevano sulle guance, Kathleen sus¬surrò: «E poi?»
«Poi» disse Lloyd «mia madre mi donò l'etica ir¬landese protestante e mi fece promettere di proteggere l'innocenza e cercare il coraggio. Mi raccontò storie e mi fece tornare a essere forte. Adesso è muta, ha avuto un attacco cardiaco anni fa e non parla più, così vado io a parlarle. Non mi può rispondere, ma so che compren¬de. E io continuo a cercare il coraggio e a proteggere l'innocenza. Nei Tumulti di Watts ho ucciso un uomo. Era malvagio. Io l'ho inseguito e l'ho ucciso. Nessuno ha mai sospettato la mamma di aver ucciso Dave, nes¬suno ha mai sospettato me di aver ucciso Richard Beller e, se dovrò farlo, nessuno sospetterà mai che io abbia li-berato il mondo da Teddy Verplanck.»
Kathleen impietrì nel sentire le parole "Teddy Verplanck". Si sentì presa nella rete dei ricordi più dolci e disse: «Teddy Verplanck? Lo conoscevo, al liceo. Era un ragazzo debole, inconcludente. Era...»
Lloyd la interruppe. «È lui il tuo amante misterioso. Al liceo era uno dei Klown di Kathy, ma tu non l'hai mai saputo. E altri due tuoi compagni di scuola sono coin¬volti negli omicidi. Un uomo di nome Delbert Haines e un altro che è stato ucciso la notte scorsa, Lawrence Craigie. Ho trovato un dispositivo spia, un registratore, nell'appartamento di Haines. È stato quello a mettermi sulla pista di Verplanck. Adesso ascolta bene... Teddy ha ucciso più di venti donne. Devi darmi informazioni su di lui, ho bisogno del tuo intuito, del...»
Kathleen balzò a sedere sul letto. «Allora sei davve¬ro pazzo» disse gentilmente. «Dopo tutti questi anni, devi ancora costruire queste fantasticherie da poliziotto per proteggerti? Dopo tutti questi anni...»
«Non sono il tuo spasimante, Kathleen. Sono un agente di polizia. Ho un dovere da compiere.»
Kathleen scosse freneticamente la testa. «Ti co¬stringerò ad ammetterlo. Ho ancora la poesia del 1964. La copierai e poi faremo un confronto di calligrafia.»
Corse nuda nel soggiorno. Lloyd la sentì mormorare qualcosa fra sé, e capì improvvisamente che non sareb¬be mai riuscita ad accettare la realtà. Si alzò e indossò i vestiti, accorgendosi che dopo quella confessione il suo corpo madido di sudore era allo stesso tempo rilassato e vibrante di forza. Kathleen fu di ritorno un istante do¬po, con in mano un biglietto sbiadito. Lo porse a Lloyd. Lui lesse:

10/6/64

Il mio amore per te
inciso nel sangue;
Le mie lacrime avvolte
di passione decisa;
L'odio perpetrato su di me
Si trasformerà in amore
Clandestinamente
tu sarai mia.

Lloyd le diede il biglietto. «Teddy, povero bastardo pazzo.» Si chinò a baciare la guancia a Kathleen. «Devo andare» disse «ma tornerò appena sistemata questa storia.»
Kathleen lo guardò uscire dalla porta, chiudendola su tutto il suo passato e le speranze che aveva avuto per il futuro. Prese il telefono e fece il numero del servizio informazioni, ottenendone due numeri di telefono. Fe-ce il primo con ansia, e quando sentì rispondere una vo¬ce d'uomo, disse: «Il capitano Peltz?»
«Sì.»
«Capitano, sono Kathleen McCarthy. Si ricorda di me? Ci siamo incontrati al suo party l'altra sera.»
«Ma certo, l'amica di Lloyd. Come sta, signorina McCarthy?»
«Io... Penso... Credo che Lloyd sia impazzito, capi¬tano. Mi ha detto di avere ucciso un uomo nei Tumulti di Watts, e che sua madre ha ucciso un uomo e che...»
Dutch la interruppe. «Signorina McCarthy, cerchi di stare calma. Lloyd è un po' in crisi col Dipartimento, e forse si sta comportando in modo strano.»
«Ma non capisce! Parla di uccidere della gente!»
Peltz rise. «I poliziotti parlano spesso di cose del ge¬nere. Per favore, gli dica di chiamarmi. Gli dica che è importante. E non si preoccupi.»
Quando sentì chiudere, Kathleen si fece forza per la telefonata successiva e compose il numero. Dopo sei squilli una morbida voce tenorile rispose: «Teddy's Silverlake Camera, desidera?»
«S... È... Parlo con Teddy Verplanck?»
«Sì.»
«Grazie a Dio! Ascolta, forse tu non ti ricordi di me, mi chiamo Kathleen McCarthy, e...»
La voce si ammorbidì ancora di più. «Ti ricordo be¬nissimo.»
«Bene... Senti, non ci crederai, ma c'è un poliziotto impazzito che ti sta dando la caccia. Ho...»
La voce la interruppe. «Chi sarebbe?»
«Si chiama Lloyd Hopkins. È sulla quarantina, molto alto e robusto. Ha un'auto scura della polizia sen¬za contrassegni. Vuole farti del male.»
La voce gentile disse: «Lo so. Ma io non glielo per¬metterò. Nessuno può farmi del male. Grazie, Kathleen. Serbo un dolcissimo ricordo di te. Arrivederci.»
«A... Arrivederci...»
Kathleen posò il telefono e si sedette sul letto, sorpre¬sa nel rendersi conto di essere ancora nuda. Andò in ba¬gno e si guardò nello specchio. Il suo corpo sembrava sempre lo stesso, ma lei sapeva che in realtà era cambia¬to e non sarebbe mai più stato completamente suo.

15

Passando tutti i semafori rossi e con la sirena accesa, Lloyd raggiunse il centro città. Lasciò l'auto in un vicolo e fece di corsa i quattro isolati che lo separavano dal Parker Center, prendendo poi un ascensore di servizio fino al terzo piano, dove si trovavano gli uffici della Scientifica, pregando silenziosamente che Artie Cranfield fosse l'unico analista in servizio. Aprì una porta con un cartello che diceva IDENTIFICAZIONE DATI e vide che le sue preghiere erano state accolte. Cranfield era solo nel suo ufficio, chino su un microscopio.
Il tecnico alzò gli occhi nel sentire Lloyd che si chiu¬deva la porta alle spalle. «Sei nei guai, Lloyd» disse. «Stamattina sono arrivati due gorilla della DIA. Hanno detto che vai in giro a dire che vuoi fare la soubrette in televisione. Volevano sapere se eri passato a chiedere analisi su delle prove ultimamente.»
«Cosa gli hai detto?» domandò Lloyd.
Artie fece una risata. «Che mi devi ancora dieci dol¬lari per il torneo di biliardo dell'anno scorso. Guarda che è la verità.»
Lloyd si sforzò di ridere a sua volta. «Posso fare di meglio. Che ne diresti di un bel Watanabe AFZ 999 tutto per te?»
«Cosa?»
«Hai sentito bene. Lo ha Nagler, dell'Ufficio im¬pronte. Ora si trova a casa di suo padre a San Bernardi¬no. Chiama il Dipartimento di polizia di San Bernardi¬no, loro ti daranno il numero di telefono.»
«E che vuoi in cambio, Lloyd?»
«Che mi prepari un registratore portatile e sei car¬tucce a salve calibro 38.»
Artie si fece scuro in volto. «E quando, Lloyd?» domandò.
«Subito.»
Per preparare il tutto ci volle mezz'ora. Una volta soddisfatto del dispositivo nascosto e dopo averlo con¬trollato, Artie disse: «Mi sembri spaventato, Lloyd.»
Stavolta la risata di Lloyd fu incerta. «Infatti lo sono» disse.

Lloyd arrivò a West Hollywood. Il registratore gli premeva sul torace, e a ogni battito furioso del suo cuo¬re gli sembrava di essere sempre più prossimo a un'asfissia da cortocircuito.
Nell'appartamento di Whitey Haines le luci erano tutte spente. Lloyd controllò l'ora e si lavorò la serratura con una carta di credito. Erano le 5,10. Il turno di servi¬zio diurno finiva alle cinque, e se Haines si dirigeva a casa immediatamente dopo aver smontato, sarebbe do¬vuto arrivare entro una mezz'ora.
L'appartamento non era cambiato dalla sua prece¬dente visita. Lloyd mandò giù tre compresse di Benzedrina con l'acqua del rubinetto e si mise di guardia vi¬cino alla porta, abituando lentamente la vista al buio. Dopo qualche minuto le compresse si fecero sentire, schizzandogli direttamente alla testa e cancellando la sensazione di soffocamento che provava. Se non fosse partito troppo, avrebbe avuto in corpo energia a suffi¬cienza per una caccia all'uomo anche di diversi giorni.
La calma che Lloyd provava divenne più profonda, e poi andò in mille pezzi quando sentì il rumore di una chiave inserita nella serratura. Un secondo più tardi la porta si spalancò, e la luce accecante lo costrinse ad al-zare la mano per schermarsi gli occhi. Prima che potes¬se muoversi, sentì un colpo di karate col taglio della ma¬no sul collo, e le unghie lunghe lo ferirono sopra la cla¬vicola. Lloyd cadde in ginocchio mentre Whitey Haines, con un urlo, attaccava col manganello puntando alla te¬sta. Il manganello si schiantò contro il muro e rimase bloccato, e mentre Haines cercava di strattonarlo via Lloyd si rotolò sulla schiena e vibrò un calcio con tutte e due le gambe all'inguine di Haines, colpendolo a piena forza e scagliandolo a terra.
Haines cercò di riprendere fiato e fece per afferrare il revolver nella fondina, riuscendovi proprio mentre Lloyd si rimetteva in piedi. Puntò l'arma verso l'alto e Lloyd si bloccò, prese il manganello e glielo picchiò sul torace. Haines strillò e la pistola gli cadde di mano. Lloyd la allontanò con un calcio e tirò fuori la calibro 38 dalla cintura. La puntò contro il naso di Haines e anna¬spò: «In piedi. Mettiti contro la parete. Lentamente.»
Haines si alzò lentamente, massaggiandosi il torace, poi allargò le gambe contro la parete, tenendo le mani sopra il capo. Lloyd spinse la calibro 38 sul pavimento in un punto da dove poté raccoglierla senza perderlo d'occhio. Quando ebbe l'arma al sicuro nella cintura, passò la mano libera sul corpo di Haines. Nella fodera della giacca dell'uomo trovò quello che cercava: una cartella piena di documenti. Craigie, Lawrence D., alias Bird, Birdy, Birdman, data di nascita 29/1/46. Tutto bat¬tuto a macchina sulla copertina.
Haines cominciò a balbettare nel vedere gli occhi di Lloyd scrutare dentro la cartella. «Non... Non... Non l'ho ammazzato io. È... De... Dev'essere stato qualche frocio impazzito. Ascoltami. Devi a...»
Lloyd fece perdere a Haines l'equilibrio con un calcio nelle gambe. Haines cadde per terra, ricacciando indie¬tro un urlo. Lloyd gli si accucciò vicino e disse: «Non provarti a prendermi per il culo, Haines. Io ti mangio a colazione. Adesso vai a sederti sul divano mentre io leg¬go un po'. E poi faremo quattro chiacchiere sui bei tem¬pi a Silverlake. Sono anche io un ragazzo di Silverlake, e sicuramente ti divertirai un mondo a riesumare i vecchi tempi in compagnia. In piedi.»
Haines raggiunse traballando il divano e si sedette, stringendo e rilasciando continuamente i pugni e fis¬sandosi le punte lucide degli stivali. Lloyd prese una se¬dia e gli si sedette di fronte, con la cartella in una mano e la calibro 38 nell'altra. Tenendo un occhio puntato su Haines, lesse i dossier della Buoncostume.
Le annotazioni risalivano a una decina d'anni prima. Nel primi anni Settanta, Lawrence Craigie era stato ar¬restato periodicamente per incitamento ad atti omoses¬suali e aveva subito diversi interrogatori quando era stato trovato nei pressi dei gabinetti pubblici. I vecchi rapporti erano stati firmati da tutti gli otto membri del¬la Buoncostume. Dopo il 1976, le schede relative a Law¬rence Craigie erano state firmate dal vice Delbert W. Haines, matricola 408. I rapporti erano così ripetitivi da essere ridicoli, e sugli ultimi erano segnati punti di do¬manda in segno di perplessità. Quando vide il rapporto in data 29/8/78, Lloyd rise forte. «"Oggi ho assunto Lawrence Craigie come mio informatore per la Buon¬costume. Ho detto agli uomini della squadra di non dar¬gli fastidio. È un buon contatto. In fede, Delbert W. Hai¬nes, matricola 408".»
Lloyd rise forte, una gran risata per coprire il rumore del pulsante del registratore nascosto che veniva pre¬muto. Quando si sentì avvolgere il torace dalle ragnate¬le di energia elettrica, disse: «Un vicesceriffo della contea di Los Angeles che traffica in droga e prostituti e prende bustarelle da tutti i battoni del quartiere dei froci. Cosa farai, adesso che Birdman è morto? Dovrai tro¬varti un'altra fogna, e quando gli agenti dello sceriffo ti collegheranno a Craigie dovrai cambiare carriera.»
Whitey Haines continuava a fissarsi i piedi. «Io so¬no pulito» disse. «Non so di che cazzo parli. Non so niente dell'omicidio di Craigie o di quelle troiate che spari. Sei venuto da me senza un cazzo di legittimazio¬ne, se no avresti portato anche un altro poliziotto. Sei solo uno sbirro di merda che ci gode a rompere i coglio¬ni agli altri agenti. L'ho capito subito l'altro giorno quando mi hai chiesto di quei suicidi che ho verbalizza¬to. Se vuoi incastrarmi per aver preso quel dossier della Buoncostume, allora fallo subito, perché sul mio conto non hai nient'altro.»
Lloyd si sporse avanti. «Guardami, Haines. Guar¬dami bene.»
Haines alzò gli occhi dal pavimento. Lloyd lo fissò e disse: «Questa sera tu pagherai i tuoi debiti. In un mo¬do o nell'altro, risponderai alle mie domande.»
«Va' a prenderlo in culo» disse Whitey Haines.
Lloyd sorrise, poi alzò la calibro 38 a canna corta e aprì il tamburo. Si lasciò cadere in mano cinque delle sei pallottole, poi richiuse il tamburo e lo fece roteare con un colpo di mano. Alzò il cane e appoggiò la canna al naso di Haines. «Teddy Verplanck» disse.
Il volto rubicondo di Haines si fece terreo. Strinse le mani così forte che Lloyd sentì i tendini scricchiolare. Sul collo cominciò a pulsargli un nodo di vene, e allon¬tanò la testa dalla canna della pistola. Le labbra gli si riempirono di saliva e balbettò: «U... Un tipo d... del li¬ceo, e... e basta.»
Lloyd scosse il capo. «Così non mi piace, Whitey. Verplanck è un pluriomicida. Ha fatto fuori Craigie e Dio sa quante donne. Ogni volta che ne ammazza una manda dei fiori alla vostra compagna di scuola, Kathleen McCarthy. Ha messo sotto controllo il tuo apparta¬mento. È così che ti ho collegato a Craigie. Teddy Ver¬planck era ossessionato da voi, e tu mi dirai perché.»
Haines si strofinò il distintivo appuntato sopra il cuo¬re. «Non... Non so niente.»
Lloyd fece roteare di nuovo il tamburo. «Hai cinque possibilità, Whitey.»
«Non hai il fegato» sussurrò Haines con voce rauca.
Lloyd puntò la canna in mezzo agli occhi di Haines e premette il grilletto. Il cane scattò a vuoto. Haines co¬minciò a singhiozzare. Artigliò il divano con le mani e ne strappò via brani di pelle e gommapiuma.
«Quattro possibilità» Disse Lloyd. «Ti darò un pic¬colo aiuto. Verplanck era innamorato di Kathy McCarthy. Era uno dei Klown di Kathy. Ricordi la Korte di Kathy e i Klown di Kathy? Ti dice qualcosa la data del dieci giugno 1964? È stato quello il giorno che Ver¬planck è entrato in contatto con Kathy McCarthv per la prima volta. Le ha mandato una poesia che parlava di sangue e lacrime e odio di cui era stato vittima. Tu, Ver¬planck e Birdman eravate tutti al Liceo Marshall High. Tu e Craigie avete fatto male a Verplanck, Haines? Lo odiavate, e lo avete ferito, e...»
«No! No! No!» urlò Haines, stringendosi le braccia intorno al corpo e battendo la testa sul divano. «No! No!»
Lloyd si alzò in piedi. Guardò Haines e sentì l'ultimo pezzo del mosaico andare al suo posto per unire il Nata¬le del 1950 a tutta una serie di dieci giugno per fonderli in un cancello che si schiudeva sul profondo dell'infer-no. Appoggiò la pistola sulla testa di Haines e schiacciò due volte il grilletto. Al primo colpo a vuoto Haines cac¬ciò uno strillo; al secondo si strinse le mani e cominciò a mormorare preghiere. Lloyd gli si inginocchiò accanto. «È finita, Whitey. Per te, per Teddy, forse anche per me. Dimmi perché tu e Craigie lo avete stuprato.»
Lloyd ascoltò le preghiere di Haines cessare, e lo sentì recitare l'ultima parte del rosario in latino. Quan¬do ebbe finito, Haines si aggiustò la camicia kaki zuppa di sudore e il distintivo. Quando parlò, lo fece con voce calmissima: «Ho sempre pensato che qualcuno lo avrebbe saputo, e che Dio avrebbe mandato qualcuno a punirmi per quello che avevo fatto. Sono anni che so¬gno preti. Ho sempre pensato che Dio avrebbe mandato un prete a prendermi. Non avrei mai immaginato che mandava un poliziotto.»
Lloyd si sedette di fronte a Haines, fissando i suoi lineamenti ammorbidirsi come preludio alla confes¬sione.
«Teddy Verplanck era fuori dal mondo» disse Whitey Haines. «Non ci poteva entrare e non gliene importava. Non si ubriacava, non era né un atleta né un duro. Non era un solitario, era solo diverso dagli al¬tri. Lui non aveva bisogno di mettersi in mostra facen¬do stronzate, non faceva altro che vagare per la scuola con addosso quei vestiti eleganti da checca, e ogni vol¬ta che ti guardava lo capivi subito che ti considerava una merda. Faceva stampare un giornale di poesia e lo infilava in tutti gli armadietti di quella scuola del caz¬zo. Prendeva in giro me e Birdy e i Surfers e i Vatos, e nessuno poteva dargli addosso, perché lui aveva come una specie di aureola, come se fosse capace di leggere nella mente, e se qualcuno gli rompeva i coglioni lui lo avrebbe scritto sul suo giornale e sarebbero venuti a saperlo tutti.
«Nel suo giornale metteva sempre delle poesie d'amo¬re. Mia sorella era sveglia, e aveva capito tutto di quei paroloni e di quelle cagate simboliche. Mi diceva che le poesie erano copiate da quelle dei grandi poeti, tutte de-dicate a quella vacca con la puzza sotto il naso, Kathleen McCarthy. Mia sorella era sua compagna di banco nell'ora di economia domestica, e mi diceva che quella McCarthy del cazzo viveva in un suo mondo di fantasia dove pensava che metà dei ragazzi della Marshall corre¬vano dietro a lei e a quelle altre stronzette boriose con cui stava sempre. Allora c'era la canzone, Cathy's Clown, che aveva fatto un grande successo, e quella Mc-Carthy diceva a mia sorella che aveva cento Clown di Cathy tutti per lei. Ma l'unico era Verplanck, e aveva paura di mostrarsi alla McCarthy, e lei non se ne accor¬geva neanche di lui.
«Poi Verplanck fece stampare delle poesie in cui at¬taccava Bird e me. Nella scuola cominciarono a guar¬darci storto. Io stavo facendo delle battute quando Ken¬nedy era stato appena ammazzato, e Verplanck mi guardava fisso. Come se volesse tirarmi via la forza. Aspettai un bel po', fino a poco prima del diploma, nel '64. Poi capii tutto. Feci scrivere a mia sorella un bigliet¬to fasullo da parte di Kathy McCarthy indirizzato a Verplanck, in cui gli diceva che voleva vederlo nella sala del campanile dopo la fine delle lezioni. C'eravamo io e Birdy. Volevamo solo pestarlo. E lo facemmo bene, ma anche pestato duro lui aveva lo stesso più coglioni di noi. È per questo che l'ho fatto. Birdy mi ha seguito, co¬me sempre.»
Haines esitò. Lloyd lo guardò mentre cercava le paro¬le per terminare la sua storia. Quando non riuscì a tro¬varne, disse: «Provi vergogna, Haines? Compassione? Non senti niente?»
Whitey Haines irrigidì i lineamenti in una maschera di roccia che non chiedeva pietà. «Sono contento di avertelo raccontato» disse «ma non sento proprio niente. Mi dispiace per Birdman, ma era nato per mori¬re da bestia. È tutta la vita che mi vendico. Verplanck è semplicemente capitato nel posto sbagliato nel momen¬to sbagliato. Ha avuto quello che chiedeva. Peggio per lui, non me ne frega un cazzo. Io ho pagato tutti i miei debiti. In culo a tutti, e in culo a quelli che mi seppelli¬ranno.» Era il momento più ispirato di tutta la sua vi¬ta. Haines guardò Lloyd e disse: «Be', sergente. Adesso che fai?»
«Non hai il diritto di essere un poliziotto» disse Lloyd, aprendo la camicia per mostrare a Haines il regi¬stratore nascosto. «Meriteresti di morire, ma io non ammazzo a sangue freddo. Questa cassetta arriverà sul¬la scrivania del capitano Magruder domani mattina. La tua carriera di vicesceriffo è finita.»
Haines respirava lentamente nell'ascoltare la senten¬za. «Cosa farai di Verplanck?» domandò.
Lloyd sorrise. «Lo salverò. O lo ammazzerò. Una delle due.»
Haines ricambiò il sorriso. «Bravo, ragazzo. Bravo.»
Lloyd prese un fazzoletto e pulì la maniglia della por¬ta, i braccioli della poltrona e il calcio della pistola di servizio di Haines. «Ci vorrà solo un secondo, Whitey» disse.
Haines annuì. «Lo so.»
«Non sentirai molto.»
«Lo so.»
Lloyd andò alla porta. Haines disse: «Avevi la pisto¬la caricata a salve, vero?» Lloyd alzò una mano in se¬gno di addio, come un'assoluzione. «Già. Stammi be¬ne, ragazzo mio.»
Quando la porta si richiuse, Whitey Haines andò in camera da letto e aprì la rastrelliera delle armi. Si al¬lungò e prese il suo pezzo preferito: un fucile a canne mozze calibro 10, l'arma che aveva tenuto in serbo per l'apocalisse che sapeva sarebbe arrivata un giorno o l'al¬tro. Dopo aver infilato due cartucce nelle canne, Whitey ritornò con la mente alla Marshall High e ai bei tempi. Quando i ricordi cominciarono a fargli male, si infilò le canne in bocca e premette tutti e due i grilletti.
Lloyd stava aprendo la macchina quando sentì la de¬tonazione. Chiese pietà per lui e si diresse a Silverlake.

16

Teddy Verplanck aveva parcheggiato di fronte al suo santuario-negozio di apparecchi fotografici ad aspetta¬re l'arrivo di un'auto della polizia non ufficiale scura. Nel giro di pochi minuti da quell'incredibile telefonata aveva gettato tutti i suoi attrezzi da corteggiamento in una borsa di tela ed era corso a prendere l'auto di sicu¬rezza, quella non registrata, per recarsi al combatti¬mento faccia a faccia che avrebbe deciso del suo desti¬no. In qualche modo, per puro caso o intervento divino, gli era stata data l'opportunità di combattere per il pos¬sesso dell'anima della sua adorata Kathy. Kathy stessa gli aveva passato la torcia, e un'alleanza durata 18 anni stava per giungere a compimento. Pensò all'armamen¬tario che ora si trovava nel baule dell'auto: calibro 32 silenziata, carabina M-1 calibro 30, accetta da incendio a doppio taglio, Derringer personalizzata a sei colpi, maz¬za da baseball appesantita col piombo e chiodata. Aveva i mezzi che gli servivano, e l'amore necessario a farli funzionare.
Due ore dopo la chiamata, vide l'auto accostare al marciapiede. Teddy guardò uscire un uomo alto che esaminò la facciata del negozio, camminandovi di fron¬te e controllando le finestre. L'uomo massiccio sembra¬va assaporare il momento, mentre raccoglieva istintiva¬mente dati da poter usare contro di lui. Teddy comin¬ciava a godersi quel primo contatto con il nemico, quando l'uomo schizzò in macchina, fece inversione di marcia e si diresse a sud, sull'Alvarado.
Teddy respirò profondamente e decise di seguirlo. Aspettò dieci secondi e partì, vedendo la macchina scu¬ra all'incrocio fra Alvarado e Tempie e mantenendosi a distanza di sicurezza più indietro, facendosi condurre alla Hollywood Freeway, verso ovest. Quando passò sul¬la rampa d'accesso, la Matador accelerò a tavoletta e si infilò nella corsia di mezzo. Teddy fece lo stesso, sicuro che il poliziotto sarebbe stato così immerso nei suoi pensieri da non notare i fari che lo seguivano.
Dieci minuti dopo la Matador uscì a Cahuenga Pass. Teddy lasciò passare altre due auto, guardando con un occhio la strada e con l'altro la lunga antenna radio del nemico. Arrivarono alle colline che circondavano l'Hollywood Bowl. Teddy vide l'auto scura fermarsi di colpo davanti a una casetta col tetto coperto di paglia. Accostò al marciapiede a diverse porte di distanza e uscì con cal¬ma dalla parte del passeggero, fissando il suo avversario poliziotto salire i gradini e bussare alla porta.
Qualche istante dopo una donna aprì la porta ed esclamò: «Sergente! Come mai qui?»
La voce che rispose era roca, secca. «Non ci crede¬rai mai a quello che sta succedendo. Non so neanche se ci credo io.»
«Allora racconta» disse la donna, chiudendo la porta.
Teddy tornò alla macchina e si mise ad aspettare, valutando i tetri aspetti della situazione. Sapeva che dove¬va trattarsi di una caccia personale iniziata da un uomo solo, il sergente Lloyd Hopkins della Squadra investiga¬tiva, altrimenti avrebbe avuto guai con la polizia già da prima. La verità doveva essere che Hopkins voleva Kathy per sé soltanto ed era disposto a fare il necessario per averla.
Sollevato nel capire che l'esercito che lo stava inse¬guendo era composto da un uomo solo, Teddy formulò un piano per la sua eliminazione, quindi ritornò con la mente alla strada che lo aveva portato al punto in cui era.
Aveva trascorso i giorni successivi al dieci giugno 1964 ritornando alla sua arte e assistendo all'ammuti¬namento della Korte di Kathy.
La sua rabbia iniziale contro chi lo aveva violentato era divenuta una tragica affermazione d'arte: per essa aveva pagato col sangue, ed era venuto il momento di portare con sé la consapevolezza del sangue e sollevarsi a toccare le stelle. Ma le pagine che riempiva erano pompose e vuote, pavide, ossessionate dalla forma. Ed erano totalmente asservite al dramma che si stava svol¬gendo nel cortile scolastico: un tradimento così brutale da rivaleggiare con la tragedia che lo aveva colpito poco tempo prima.
Una dopo l'altra, armate della loro prosa distruttri¬ce, le ragazze della Korte di Kathy avevano attaccato la loro condottiera proprio nel punto in cui lei aveva dato loro ogni grammo del suo amore a sostenerle. Dissero che era frigida, una mangiapatate irlandese senza il minimo talento. Dissero che la sua politica di non in¬contrare ragazzi era una tattica da quattro soldi con lo scopo di tenerle in serbo per sconcezze lesbiche in cui lei era troppo vigliacca per prendere l'iniziativa. Disse¬ro che era una poetessa plagiaria e fatua. Non le aveva¬no lasciato altro che lacrime, e lui aveva capito che do¬vevano pagare.
Ma il prezzo gli sfuggiva, ed era troppo perso a segui¬re la propria vita per inseguire quella ricompensa. Passò un anno a scrìvere un poema epico incentrato sulla violenza e il tradimento. Una volta terminatolo, capì che quel poema era indegno e lo bruciò. La perdita della sua arte gli costava dolore, e così si dedicò alla triste praticità dell'imparare un mestiere: quello del foto¬grafo. Conosceva i rudimenti, aveva lo spirito del com¬merciante e più di tutto sapeva che gli avrebbe dato i mezzi necessari per vivere agiatamente e cercare la bel¬lezza in un mondo osceno.
E così divenne un fotografo tanto abile quanto privo d'estro, guadagnandosi da vivere decentemente venden¬do le proprie foto a giornali e riviste. Ma Kathy era sem¬pre con lui, e ripensare a lei lo riportò in pieno all'orrore di quel giugno 1964. Sapeva che doveva combatterlo, che non poteva essere degno del ricordo di Kathy finché non avesse vinto la paura che lo accompagnava sempre. Così, per la prima volta in vita sua, aveva cercato la fisi¬cità più completa.
Ore e ore di sollevamento pesi e ginnastica trasfor¬marono il corpiciattolo che aveva sempre segretamente disprezzato in una macchina granitica; lo stesso tempo servì poi a ottenere una cintura nera di karate. Imparò a usare le armi e divenne esperto nell'uso di fucili e pisto¬le. A mano a mano che apprendeva quelle discipline ter¬rene, la paura cominciò a scemare. A mano a mano che diventava sempre più forte, la sua paura divenne furia, e cominciò a pensare a come uccidere le traditrici della Korte di Kathy. Nei suoi pensieri non c'erano altro che schemi di morte, eppure le ultime vestigia della paura gli impedivano di entrare in azione.
Il disgusto che provava per sé aveva cominciato a ri¬tornare sempre più forte, quando alla fine raggiunse la soluzione. Aveva bisogno di un rito di sangue per met¬tersi alla prova prima di dare inizio alla sua vendetta. Aveva trascorso settimane a meditare sui propri mezzi senza risultato, finché una notte gli balzò in mente una frase di Eliot, che gli era rimasta impressa: "Ed ecco mastino e cinghiale seguire la propria strada come sem¬pre, e pure riconciliati fra le stelle."
Capì subito dove quella strada lo voleva portare: le regioni interne di Catalina Island, in cui si trovavano branchi di cinghiali selvatici. Vi si diresse la settima¬na successiva, con una Derringer a sei colpi e una mazza da baseball appesantita da chiodi aguzzi con¬ficcati all'estremità. Portando con sé solo quelle armi e una borraccia d'acqua, raggiunse il centro di Catali¬na Island al calare della notte, pronto a uccidere o morire.
All'alba aveva localizzato tre cinghiali vicino a un fiume. Alzando la mazza da baseball, era partito alla carica. Uno degli animali sì era ritirato, ma gli altri erano rimasti snudando le zanne verso di lui. Era a di¬stanza di tiro quando caricarono. Fintò, e gli animali lo oltrepassarono. Aspettò un paio di secondi, poi fintò nella direzione opposta, e quando i cinghiali grugniro¬no forte per la frustrazione e si voltarono per gettarsi contro di lui, si spostò ancora e calò la mazza su quello più vicino colpendolo alla testa. L'impatto gli strappò la mazza di mano.
Il cinghiale ferito cominciò a contorcersi per terra, ululando e cercando di colpire con le zampe la mazza conficcata nel cranio. L'altro animale si voltò, poi si alzò sulle zampe posteriori e saltò verso di lui. Lui non cercò di evitarlo. Rimase perfettamente immobile, e quando si trovò le zanne del cinghiale quasi sul volto sollevò la Derringer e gli fece saltare il cervello.
Esultante, nel viaggio di ritorno lasciò in pace le de¬cine di cinghiali che incontrò sulla sua strada. Final¬mente "riconciliato fra le stelle", prese il vaporetto tu¬ristico e fece ritorno a Los Angeles e cominciò a piani¬ficare la morte di Midge Curtis, Charlotte Reilly, Laurel Jensen e Mary Kunz, localizzandole per prima cosa con alcune telefonate all'ufficio dei registri della Mar¬shall High. Quando venne a sapere che le quattro ra¬gazze avevano ottenuto una borsa di studio per alcune università a est, il suo odio per loro crebbe smisurata¬mente. Era evidente per quale motivo avevano tradito Kathy. Pronte per l'università, ed emozionate all'idea di andare via da Los Angeles, avevano distrutto i piani della loro guida, che contava di farle rimanere in città per essere loro insegnante, attribuendole invece moti¬vazioni indegne. Sentì la propria rabbia sfumare in un profondo disprezzo. Avrebbe vendicato Kathy, e pre¬sto.
Elaborò l'itinerario delle università e partì per la co¬sta il giorno di Natale del 1966. Intendeva svolgere la sua missione con due morti accidentali accuratamente pianificate, una overdose forzata e un omicidio esegui¬to sulla base del modus operandi dello Strangolatore di Boston.
Era arrivato a Philadelphia con la neve e aveva affit¬tato una camera d'albergo per tre settimane, poi era uscito con l'auto presa a nolo a fare il giro delle Univer¬sità Brandeis, Tempie Columbia e Wheaton. Era arma¬to di liquidi caustici, corde per strangolare, stupefacen¬ti e una riserva inesauribile di amore cruento. Era invul¬nerabile a ogni livello tranne uno, perché quando vide Laurel Jensen seduta da sola nella Sala studenti della Brandeis, aveva capito che lei apparteneva a Kathy, e che non avrebbe mai potuto fare del male a qualcuno tanto vicino alla sua amata. Nell'intravedere Charlotte Reilly che girava per la libreria della Columbia, la po¬tenza simbiotica di quell'unione gli venne confermata. Non si prese la briga di cercare le altre due ragazze. Sa¬peva che vederle lo avrebbe reso vulnerabile come un bambino al seno della madre.
Ritornò a Los Angeles, domandandosi come era pos¬sibile pagare un prezzo tanto alto senza avere neppure la propria arte o una missione come ricompensa. Si do¬mandò cosa avrebbe fatto della sua vita. Combatté la paura con la più stretta osservanza della disciplina delle arti marziali e facendo penitenza con digiuni prolunga¬ti, seguiti da viaggi ascetici nel deserto in cui uccideva i coyote a bastonate per arrostirne le carcasse su fuochi che creava con i suoi attrezzi di sopravvivenza nel de¬serto e manteneva in vita col fiato. Ma non servì a nien¬te. Sentiva ancora la paura. Era sicuro di stare per impazzire, che la sua mente fosse come un diapason che attirava belve affamate pronte un giorno a divorarlo. Non poteva pensare a Kathy, perché quelle bestie gli avrebbero sicuramente letto nella mente e sarebbero calate su di lei.
Poi, improvvisamente, era cambiato tutto. Aveva ascoltato per la prima volta la cassetta di meditazione. E aveva incontrato Jane Wilhelm.
Confortato da quel ritorno al passato, Teddy rag¬giunse l'abitazione col tetto di paglia e si mise accanto all'enorme pianta di ibisco adiacente il portico fronta¬le. Dopo qualche minuto sentì alcune voci provenire dall'interno, e qualche secondo più tardi la porta si aprì e il poliziotto uscì rabbrividendo all'aria fredda della notte.
La donna lo raggiunse, stringendolo fra le braccia e dicendo dolcemente: «Mi prometti che farai atten¬zione e mi chiamerai dopo aver preso quel figlio di puttana?»
L'uomo robusto disse: «Sì» e la baciò sulle labbra. «Niente lunghi addii» disse la donna nel chiudersi la porta alle spalle.
Teddy si alzò in piedi nel guardare l'auto scura che se ne andava. Prese di tasca un pugnale a serramanico. Lloyd Hopkins sarebbe morto presto, e sarebbe morto pentendosi di avere fatto un'ultima visita alla sua si¬gnora.
Andò alla porta d'ingresso e batté leggermente con le nocche. Una risata allegra rispose a quel battere dolce. Sentì un rumore di passi che si avvicinavano alla porta e si appiattì contro la parete a lato, tenendo il coltello contro la gamba. La porta si spalancò di colpo e la don¬na disse: «Sergente? Lo sapevo che eri troppo in gam¬ba per rifiutare la mia offerta. Sapevo...»
Balzò fuori dal suo nascondiglio e vide la donna sta¬gliata contro la porta, piena di desiderio. Dopo qualche secondo l'espressione di speranza sul volto si fece di terrore, e quando lui vide nei suoi occhi che aveva ca¬pito sollevò il coltello e glielo mise di fronte, poi diede un colpetto leggero sulla guancia. Lei portò le mani al volto nel sentire il sangue schizzare negli occhi, e lui le serrò la gola con una mano per impedirle di urlare. E aveva ancora la mano sul collo del suo maglione quan¬do scivolò sullo zerbino e cadde in ginocchio. Il ma¬glione di Joanie gli si strappò in mano, e mentre cerca¬va di alzarsi lei gli picchiò la porta contro il braccio e lo colpì con un calcio al volto. La punta della scarpa gli ruppe la bocca. Lui sputò il sangue e vibrò un colpo al¬la cieca nella fessura fra la porta e lo stipite. Joanie urlò e lo calciò di nuovo al volto. All'ultimo istante lui la evitò e le afferrò la caviglia, sollevandola e facendo cadere la donna in un contorcersi spasmodico. Lei si tirò indietro mentre l'uomo si alzava in piedi ed entra¬va in casa, agitando il pugnale di fronte a sé lentamen¬te, descrìvendo un otto. Si voltò per chiudere la porta, e lei scalciò ancora e gli fece precipitare una lampada sulla schiena. Stordito, lui balzò indietro, facendo chiudere la porta col peso del corpo.
Joanie scattò in piedi e barcollò fino alla sala da pranzo. Si asciugò il sangue dagli occhi e allungò le braccia in cerca di armi, senza distogliere lo sguardo dalla figura in tuta aderente che avanzava lentamente verso di lei. Toccò col braccio destro lo schienale di una sedia, e gliela lanciò contro. Lui la allontanò con un calcio e avanzò lentamente, in una parodia furtiva, descrivendo col coltello figure sempre più complicate. Joanie cadde contro il tavolo e afferrò alla cieca una pila di piatti, facendoli cadere e riuscendo a prenderne solo uno per poi scoprire che non aveva la forza di ti¬rarlo.
Lasciò cadere il piatto e indietreggiò. Quando arrivò al muro si rese conto che non poteva più scappare da nessuna parte e aprì la bocca per urlare. Quando ne uscì solo un rumore gorgogliante, Teddy sollevò il pugnale e glielo scagliò al cuore. La lama arrivò al bersaglio e Joa¬nie si sentì esplodere, e poi la vita le scivolò via come at¬traverso una ragnatela di incrinature. Il lampo di luce sfumò nella tenebra, e lei scivolò a terra mormorando: "Do-wah, wah-wah, do..." e si abbandonò al buio.
Teddy raggiunse il bagno e si disinfettò le labbra spaccate con un liquido per gargarismi, irrigidendosi per il dolore, ma si versò tutto il contenuto della botti¬glia sulle ferite come penitenza per essersi lasciato fa¬re del male. Il dolore lo rendeva furioso. L'odio per Lloyd Hopkins e il disprezzo per la squallida burocra¬zia che rappresentava gli schizzavano fuori da ogni poro.
Che sapessero, decise: che il mondo sapesse di come lui era pronto a giocare fino in fondo. Prese il telefono e compose lo 0. «Mi trovo a Hollywood, e voglio denun¬ciare un omicidio» disse.
Teddy parlò concisamente: «Venite al numero 8911 di Bowlcrest Drive. La porta è aperta. C'è una donna morta. Dite al sergente Lloyd Hopkins che è aperta la stagione di caccia per le ragazze degli sbirri.»
«Il suo nome, signore?» domandò la centralinista.
Teddy rispose: «Il mio nome fra poco lo conosce¬ranno tutti» e riappese.
Quella strana chiamata venne riferita dalla centrali¬nista all'agente di turno, che sussultò al nome "Lloyd Hopkins" e ricordò che Hopkins era un ottimo amico del capitano Peltz, il comandante del turno diurno. Da¬to che aveva sentito voce che Hopkins fosse nei guai con la DIA, l'agente chiamò Peltz a casa sua e gli diede l'infor¬mazione. «La centralinista deve avere fatto un po' con¬tusione col messaggio, capitano» disse. «Secondo lei era uno fuori di testa, ma mi ha parlato di una donna morta e del suo amico sergente Hopkins, così ho pensa¬to di chiamarla.»
Dutch Peltz si sentì gelare da capo a piedi. «Cosa di¬ce esattamente il messaggio?» domandò.
«Non lo so. Solo qualcosa riguardo una donna mor¬ta e il suo ami...»
Venne interrotto dalla voce preoccupata di Dutch. «Chi ha chiamato ha dato un indirizzo?»
«Sì, signore. 8911 Bowlcrest.»
Dutch lo segnò e disse: «Faccia venire da me due agenti entro venti minuti e non parli a nessuno di que¬sta chiamata. Chiaro?»
Dutch non aspettò risposta, e non si prese la briga di riappendere. Si infilò un paio di calzoni e un maglione sopra il pigiama e corse alla macchina.

17

Sagome tonacate lo inseguivano lungo un campo strin¬gendo fra le mani crocifissi affilati come rasoi. In lonta¬nanza, una grande casa di pietra brillava al bagliore di un riflettore incandescente. La casa era circondata da uno steccato in ferro tenuto insieme da chiavi musicali, e lui capì che se avesse potuto colpire la palizzata e cir¬condarsi di suoni benevoli sarebbe riuscito a sopravvi¬vere all'attacco degli assassini con la croce.
Quando lo toccò, lo steccato esplose, lanciandolo ol¬tre barriere di legno, vetro e metallo. Si vide passare ge¬roglifici davanti agli occhi, e tabulati di computer che si trasformavano nelle forme di membra contorte e lo bombardavano facendogli oltrepassare un'ultima bar¬riera di luce rossa pulsante, per arrivare a un soggiorno dall'arredamento incolore sulla cui parte frontale c'era¬no bovindi triangolari. Le pareti erano coperte di foto sbiadite e gambi di fiori vizzi. Nell'avvicinarsi lui si ac¬corse che le foto e i gambi formavano una porta, che lui poté aprire con la sola forza della volontà. Stava preci¬pitando in una trance nera e profonda, quando venne improvvisamente colpito da una serie di croci che lo in¬chiodarono al muro. Le foto e i gambi calarono su di lui.
Lloyd si svegliò con un sussulto, picchiando le gi¬nocchia contro il cruscotto. Era l'alba. Guardò dal pa¬rabrezza e vide una stradina laterale di Silverlake, in parte familiare, poi guardò nel retrovisore il proprio volto provato, e sentì che tutto tornava a posto: Haines, Verplanck e il turno di sorveglianza che aveva pianifi¬cato all'angolo del Silverlake Camera. Le pasticche lo avevano sconvolto e si erano unite alla tensione nervo¬sa, mandandolo fuori combattimento. L'assassino era a un isolato di distanza, immerso nel sonno. Era il mo¬mento.
Lloyd raggiunse l'Alvarado. La strada era completa¬mente deserta, e il palazzo di mattoni rossi in cui si trovava il negozio di apparecchiature fotografiche ave¬va tutte le luci spente. Ricordando che dalla registra¬zione dei veicoli di Verplanck risultava che l'indirizzo dell'abitazione e del lavoro era lo stesso, alzò gli occhi verso le finestre del secondo piano, poi controllò il par¬cheggio adiacente. Il furgone Dodge e la berlina Datsun di Verplanck erano parcheggiate l'uno accanto all'altra.
Lloyd fece il giro e passò nel vicolo dietro l'edificio. C'erano una scala antincendio che arrivava fino al se¬condo piano e un'uscita di sicurezza in metallo. La porta sembrava inattaccabile, ma c'era una finestra con un davanzale di mattoni molto profondo, circa un metro e mezzo alla sua sinistra. Era l'unica possibile via d'accesso.
Lloyd fece un balzo per raggiungere l'ultimo gradino della scala antincendio. Lo afferrò e si trasse in alto. Al pianerottolo del secondo piano spinse gentilmente la porta metallica. Inutile: era chiusa dall'interno. Lloyd diede un'occhiata alla finestra, poi si alzò sulla ringhie¬ra e si appiccicò al muro. Controllò la distanza dal cor¬nicione e saltò, finendovi proprio sopra, afferrandosi al¬lo spigolo verticale per tenersi saldo. Quando il cuore ri¬prese a battere normalmente e lui riuscì a pensare di nuovo, abbassò gli occhi e vide che la finestra portava in una stanzetta buia piena di scatole di cartone. Se fosse riuscito a entrare, poteva raggiungere l'appartamento senza svegliare Verplanck.
Inginocchiandosi sul cornicione, Lloyd mise la mano sotto la guida della finestra e spinse in dentro verso l'al¬to. La finestra si aprì con un cigolio e lui scese sul pavi¬mento di uno sgabuzzino che puzzava di prodotti chi¬mici e muffa. Vide una porta. Lloyd estrasse la calibro 38 e aprì lentamente la porta per ritrovarsi in un corri¬doio coperto da una moquette. Puntando la pistola per indicarsi la direzione, lo percorse finché non arrivò a una porta aperta.
Rimase contro il muro e diede un'occhiata. Una ca¬mera da letto vuota, col letto appena fatto. Stampe di Picasso sulle pareti. Una porta comunicante con il ba¬gno. Silenzio assoluto.
Lloyd entrò in punta di piedi nel bagno. Porcellana bianca immacolata, rubinetteria d'ottone lucidato. Vici¬no al lavandino c'era una porta semiaperta. Diede un'occhiata dalla fessura e vide degli scalini che porta-vano al piano di sotto. Li discese procedendo con len¬tezza esasperante, il braccio che reggeva la pistola com¬pletamente disteso, il dito sul grilletto.
La scala terminava in fondo a una grande sala piena di espositori per fotografie in cartone. Lloyd sentì la tensione scaricarsi completamente. Verplanck se n'era andato. Lo sentiva.
Lloyd esaminò la parte frontale del negozio. Era co¬me qualsiasi altro negozio di fotografia: banco di legno, macchine fotografiche disposte ordinatamente in teche di vetro, alle pareti ritratti di bambini sorridenti e cuc¬cioli da coccolare.
Camminando silenziosamente, tornò al piano di so¬pra, chiedendosi dove Verplanck avesse trascorso la notte e come mai non avesse preso uno dei suoi due vei¬coli.
Il secondo piano era immerso in un silenzio tetro. Lloyd passò il bagno e la camera da letto, e ritornò nel corridoio fino a una porta intagliata di legno di quercia. La aprì con la canna della pistola e urlò. Sulla parete frontale c'erano bovindi triangolari. Le pareti laterali erano coperte di gigantografie di Whitey Haines e Birdman Craigie, inframmezzate di gambi di rosa, e tutto il collage era unito da sbavature di sangue secco.
Lloyd camminò lungo le pareti, cercando dettagli che dimostrassero che il suo sogno era falso, una semplice coincidenza, qualsiasi cosa non fosse quello che lui non voleva. Sulle foto vide incrostazioni di liquido seminale secco sopra i genitali di Haines e Craigie, e la parola KATHY scritta con un dito insanguinato. Sotto le foto c'erano fori nella parete riempiti di escrementi. I fori erano all'altezza del bacino. Più su, nella tappezzeria bianca intorno alle foto, c'erano segni di unghiate e morsi.
Lloyd urlò di nuovo. Tornò nel corridoio e poi nella camera da letto e da basso. Quando raggiunse il piano terra inciampò su una fila di scatole di cartone e uscì barcollando dalla porta principale. Se il sogno era vero, allora la musica lo avrebbe salvato. Sgusciando via in mezzo al traffico, corse sull'Alvarado e raggiunse la pro¬pria macchina. La fece partire e accese a tentoni la ra¬dio, sentendo terminare una musichetta pubblicitaria. Il suo arcobaleno mentale e le sensazioni che provava stavano tornando alla normalità, quando si sentì assali¬re da una voce elettronica sconvolta: "Il 'Massacratore di Hollywood' ha fatto la sua terza vittima nel giro di 24 ore, e la polizia si sta preparando per la più grande cac¬cia all'uomo nella storia di Los Angeles! Questa notte, nella sua casa di Hollywood Hills, è stato trovato il cor¬po della attrice e cantante quarantaduenne Joan Pratt, la terza persona morta di morte violenta nella zona di Hollywood negli ultimi due giorni. Il tenente Walter Perkins della Divisione Hollywood del Dipartimento di polizia di Los Angeles, e il capitano Bruce Magruder dell'ufficio dello sceriffo di West Hollywood terranno una conferenza stampa questa mattina al Parker Center per descrivere l'enorme operazione di caccia all'uomo che si sta per intraprendere e per indicare alla popola-zione della zona di Hollywood le misure necessarie per difendersi dall'assassino, o dagli assassini. Il capitano Magruder ha detto ai giornalisti questa mattina che 'Il Dipartimento dello sceriffo e il Dipartimento di polizia di Los Angeles hanno messo in moto la più imponente forza di agenti mai vista allo scopo di prendere questo assassino. Abbiamo tutte le ragioni di credere che la pazzia di quest'uomo stia arrivando al culmine, e che cercherà presto di uccidere ancora. Le zone di Hol¬lywood e West Hollywood saranno pattugliate da elicot¬teri e squadre di agenti a piedi. Non risparmieremo al¬cuno sforzo per ridurre all'impotenza l'assassino. Tutta la nostra forza di agenti sta seguendo ogni pista dispo¬nibile. Nel frattempo ricordate che sono stati uccisi sia uomini sia donne. Chiedo a tutti gli abitanti di Hol¬lywood di non rimanere, ripeto, di non rimanere, soli questa notte. Restate in casa, ne va della vostra vita. Sia¬mo certi...'"
Lloyd cominciò a piagnucolare. Diede un calcio alla plancia della radio, poi strappò via la scatola metallica dal cruscotto e la gettò fuori dal finestrino. Joanie era morta. Il genio di Lloyd si era trasformato in un can-cello che si schiudeva su un ossario telepatico. Lui riu¬sciva a leggere i pensieri di Teddy, e Teddy i suoi. Il so¬gno e la morte di Joanie: una logica che sfidava ogni vincolo fraterno, che poteva solo dare vita ad altri e al¬tri orrori, che sarebbero potuti cessare solo con la fine del suo gemello simbiote. Si guardò nello specchietto retrovisivo e vide riflessa l'immagine di Teddy Verplanck, ritratto nella foto dell'annuario scolastico. La trasmutazione era totale. Lloyd si diresse al quartiere della sua infanzia per dire alla sua famiglia che l'etica irlandese protestante era un biglietto di sola andata per l'inferno.

Dutch Peltz era seduto nel suo ufficio alla stazione Hollywood, pronto al tradimento, armato di una istan¬tanea Polaroid che raffigurava un uomo e una donna nudi.
Da quando si era rifiutato di denunciare Lloyd per attacco a un superiore, gli agenti della Divisione affari interni che indagavano su Lloyd gli erano sciamati in¬torno come mosche nel tentativo di dissotterrare altri capi d'accusa in modo da impedirgli di portare a termi¬ne la sua minaccia di rivolgersi ai mezzi d'informazio¬ne. Non avevano idea che l'agente investigativo più brillante del Dipartimento di polizia di Los Angeles era stato intimo amico di Joanie Pratt, la terza vittima del Massacratore di Hollywood. Quella fotografia era una prova sufficiente a porre come minimo termine alla carriera di Lloyd e nella peggiore delle ipotesi fargli sparare addosso a vista.
Dutch andò alla finestra e guardò fuori, pensando che forse aveva già detto addio ai suoi anni migliori. Il suo rifiuto di firmare i capi d'accusa gli sarebbe costa¬to il comando della DIA, e se qualcuno fosse venuto a scoprire che non aveva fatto sapere a nessuno della foto e della telefonata anonima in cui si era fatto il nome di Lloyd, avrebbe subito un processo diparti¬mentale e forse il disonore di vedersi giudicare penal¬mente. Dutch deglutì e si fece l'unica domanda che avesse un qualche senso. Lloyd poteva essere un as¬sassino? Il suo protetto-mentore-figlio adottivo pote¬va veramente essere un assassino ingegnosamente na¬scosto sotto un'aura di genio? Possibile che fosse un caso clinico di schizofrenia, un mostro dalia doppia personalità svelabile solo da un analista? Impossibile. "Impossibile".
Eppure c'era una certa linea logica che gli diceva "forse". Lo strano comportamento di Lloyd negli ultimi anni, la sua recente ossessione riguardo le donne assas¬sinate, lo sfogo inaspettato al party. Erano indizi che aveva visto con i suoi occhi.
E se univa il tutto al trauma dell'abbandono della moglie e delle figlie e della chiamata di Kathleen McCarthy e il corpo di Joanie Pratt e quella foto con loro due nudi e...
Dutch non riuscì a terminare il pensiero. Guardò il telefono. Poteva chiamare la DIA e salvare se stesso con¬dannando Lloyd a morte, ma forse avrebbe salvato delle vite innocenti. Poteva non fare niente o rintracciare Lloyd di persona. La notte insonne trascorsa pensando all'immagine del corpo di Joanie Pratt gli aveva dato di¬verse alternative. Poi Dutch si fece la seconda domanda che avesse il minimo senso. Chi contava di più? Quando si rispose "Lloyd", strappò la fotografia. Avrebbe siste¬mato il caso di persona.

Quando arrivò alla vecchia casa di legno all'incro¬cio fra Griffith Park e St. Elmo, Lloyd andò diretta¬mente in soffitta e trovò ad aspettarlo un tesoro di mobili antichi vecchio di 32 anni. Si mise a disegnare forme geometriche sulle superfici di palissandro co¬perte di polvere e stupì ancora dell'intuito di sua ma¬dre. Non aveva mai venduto quel mobilio perché sape¬va che un giorno o l'altro suo figlio avrebbe sentito il bisogno di entrare in comunione con l'unico punto della casa che aveva formato il suo carattere. Lloyd sentì un'altra mano posarsi sulla sua e guidarla nei ghirigori. Una mano che lo costringeva a disegnare te¬schi e fulmini. Diede un'ultima occhiata a quello che era il suo passato e il suo futuro, poi scese da basso a svegliare suo fratello.
Sotto gli occhi di Lloyd, Tom Hopkins strappò via da terra i riquadri di erba finta che coprivano il terreno adiacente il capanno del padre. Quando scoprì la terra si mise a piagnucolare. Lloyd gli passò una pala e dis¬se: «Scava.» Lui obbedì, e dopo qualche minuto Lloyd cominciò a tirare fuori scatole di legno piene di mitragliette, pistole e fucili automatici. Esterrefatto nel vedere tutte le armi oliate alla perfezione e pronte all'uso, guardò il fratello e scosse il capo. «Ti sottova¬lutavo» disse.
Tom disse: «I tempi si stanno facendo duri, Lloydy. La mia roba dev'essere sempre pronta.»
Lloyd si chinò nella fossa e prese un sacchetto di pla¬stica rinforzata pieno di 44 Magnum impacchettate sin¬golarmente. Ne scelse una e la soppesò, poi se la infilò nella cintura. «Cos'altro hai?» domandò.
«Una dozzina di AK-47, cinque o sei canne mozze e un casino di munizioni» disse Tom.
Lloyd picchiò le mani contro le spalle a Tom, costrin¬gendolo a inginocchiarsi. «Due cose, Tommy» disse «e potremo mettere una pietra sopra a tutto. Primo: la tua roba, come la chiami, è solo un gran mucchio di merda. Secondo: continua ad avere paura di me e so¬pravviverai.»
Lloyd afferrò un Remington 30.06 e un pugno di cartucce. Tom prese di tasca una mezza di bourbon e ne trasse una lunga sorsata. Quando gli offrì la botti¬glia, Lloyd scosse il capo e alzò gli occhi verso la fine¬stra della camera da letto di sua madre. Dopo un se¬condo l'anziana donna muta comparve al davanzale. Lloyd capì che lei sapeva tutto e voleva tributargli un addio silenzioso. Le mandò un bacio e si diresse verso la propria auto.
Non rimaneva altro che decidere luogo e momento.
Lloyd andò a una cabina telefonica e fece il numero del Silverlake Camera. Rispose al primo squillo, proprio come aveva immaginato.
«Teddy's Silverlake Camera, desidera?»
«Sono Lloyd Hopkins. Pronto a morire, Teddy?»
«No, ho troppo per cui vivere.»
«Basta innocenti, Teddy. Per tutti questi anni non hai aspettato altri che me. Sono pronto, ma non fare più del male a nessuno.»
«Certo. Solo io e te. Mano a mano?»
«Sì. Vuoi scegliere ora e luogo, ragazzo?»
«Sai dov'è la centrale elettrica di Silverlake?»
«Sì, è una mia vecchia amica.»
«Ci vediamo là a mezzanotte.»
«Ci sarò.» Lloyd riappese, sentendosi scoppiare la mente di fulmini e visioni di morte.

Kathleen si svegliò tardi e si mise a scaldare il caffè. Rivolse lo sguardo fuori dalla finestra della camera da letto per seguire la crescita delle margherite e vide che erano state calpestate. Pensò che dovevano essere sta¬ti i ragazzini del quartiere, poi notò una grande im¬pronta nella terra e improvvisamente sentì riunirsi in¬torno a un filo conduttore preciso tutti gli stratagem¬mi che aveva elaborato per togliersi dai pensieri quel poliziotto fuori di senno. Invece di trascorrere la giornata come aveva progettato, aprendo il negozio e oc¬cupandosi delle scartoffie, avrebbe consegnato all'oblio il suo spasimante misterioso, abbandonando¬lo alla sua malvagità sulle ali di una dura invettiva contro tutti gli uomini deboli e ossessionati dalla vio¬lenza. Avrebbe incontrato il sergente Lloyd Hopkins della Squadra investigativa a viso scoperto e lo avreb¬be sconfitto.
Dopo il caffè, Kathleen sedette al tavolo da lavoro. Sentì volare le parole nella mente, ma si rifiutava di col¬legarle. Pensò di farsi uno spinello per sbloccarsi, ma poi decise di no. Era ancora troppo presto per conce¬dersi una ricompensa. E dato che, dentro di lei, cresce¬vano allo stesso tempo riluttanza e decisione, andò nel soggiorno e fissò il tavolo vicino al registratore di cassa. I libri che aveva scritto, tutti e sei, erano disposti in cer¬chio intorno all'ingrandimento di una recensione di Ms. che le dava quattro stelle.
Kathleen frugò a caso fra le parole che aveva scritto, in cerca di qualche modo vecchio di dire cose nuove. Trovò passaggi in cui venivano descritte gerarchie ma¬schili, ma capì che il simbolismo era tutto incentrato sul vetro. Trovò ritratti sarcastici di uomini bisognosi di madri, ma capì che il tema centrale era il bisogno che lei stessa provava di nutrire affetto. Quando capì che anche nella sua prosa più traboccante di sacro sde¬gno il tema sottostante era di dolce redenzione, Kath¬leen sentì morire la propria nostalgia narcisista. Le sei antologie di poesia che aveva pubblicato le avevano fruttato 7400 dollari di anticipi e neanche un centesi¬mo di diritti d'autore. Gli anticipi per Castità di rasoio e Appunti da un non-regno le erano serviti per sistema¬re il conto da tempo in rosso della carta Visa, che ave¬va in seguito provveduto a svuotare completamente, per rimpinguarlo l'anno successivo con l'anticipo per Paralisi a Hollywood. Con Lo sguardo nell'abisso, Bru¬ghiera di donna e Sull'orlo del vuoto aveva comprato la libreria, che ora si trovava sull'orlo del fallimento. Con gli altri volumi aveva pagato un aborto e un viaggio a New York, dove il suo editore si era ubriacato e le ave¬va infilato una mano su per la gonna nella Sala da tè russa.
Kathleen corse in camera da letto e prese i petali di rosa che aveva fatto incorniciare. Portò le cornici nel soggiorno-libreria e le scagliò una per una contro le pa¬reti, e il rumore del vetro che andava in frantumi e delle mensole che cadevano a terra soffocò le oscenità che stava urlando. Quando vide la stanza devastata dai resti degli ultimi diciotto anni della sua vita, si asciugò le la¬crime dagli occhi e assaporò quello scenario di distru-zione: libri sul pavimento come cadaveri, frammenti di vetro che scintillavano sul tappeto, polvere d'intonaco che scendeva ovunque come pioggia radioattiva. Era tutto un simbolismo di perfezione.
Poi Kathleen notò qualcosa di strano. C'era un lungo filo di gomma nera che pendeva da una sezione rovina¬ta del soffitto. Si avvicinò e diede uno strattone, portan¬do allo scoperto un lungo cavo che circondava l'intera stanza. Quando arrivò al capo del filo trovò un piccolo microfono. Prese il cavetto e diede un altro strattone. Il capo opposto portava all'ingresso. Lei aprì la porta e vi¬de che il cavo continuava fino al soffitto, nascosto dai rami dell'eucalipto che gettava la sua ombra sul portica¬to frontale.
Kathleen prese una scala. La sistemò per terra accan¬to all'albero e seguì il cavo fino in cima al tetto. Vide che sul tetto era nascosto da uno strato sottile di catrame. Si abbassò e strappò fuori il cavetto, lasciandosi guidare a un monticello di carta incatramata coperta di resina. Tirò il cavo per l'ultima volta. La carta incatramata si strappò per mostrarle un registratore avvolto in plastica trasparente.

Al Parker Center, Dutch passò dalla scrivania di Lloyd, nella speranza che gli agenti della DIA non l'aves¬sero razziata. Se fosse riuscito a trovare qualcuno dei dossier su cui Lloyd stava lavorando, forse sarebbe riuscito a formarsi un'ipotesi e prenderla come punto di partenza.
Dutch frugò nei cassetti, aprendo le serrature con il coltello a serramanico che portava all'interno del cintu¬rone, non trovando altro che matite, graffette e manife¬sti con foto di ricercati. Chiusi i cassetti, forzò gli sche¬dari. Niente. Gli avvoltoi della Divisione affari interni erano arrivati per primi.
Dutch vuotò il cestino della carta straccia, facendo passare appunti illeggibili e incarti di sandwich. Stava per arrendersi quando si accorse di un pezzo accartoc¬ciato di xerocopia. Lo portò alla luce. C'era segnata una lista di 31 nomi e indirizzi su una colonna, e sull'altra un elenco di negozi di apparecchiature elet¬troniche. Sentì il cuore dare un balzo: doveva essere la lista dei "sospetti" di Lloyd, gli uomini che voleva far interrogare da altri agenti. Non era molto, ma era qual¬cosa.
Dutch fece ritorno alla stazione Hollywood. Diede la lista all'agente di turno. «Chiami tutti gli uomini se¬gnati qui» disse. «Metta molta enfasi sul fatto che si tratta di un "interrogatorio formale". Mi faccia sapere chi le sembra farsi prendere dal panico. Io esco, ma mi farò sentire.»
Dutch chiamò casa di Lloyd dal suo ufficio. Come immaginava, non rispose nessuno. Aveva telefonato senza risultati ogni mezz'ora per tutta la notte, ed era ormai evidente che Lloyd era uccel di bosco. Ma dove poteva trovarsi? Si stava nascondendo dalla DIA, oppure era alla caccia del suo killer, vero o immaginario che fosse. Poteva anche essere...
Senza riuscire a terminare il pensiero, Dutch ram¬mentò che al party Kathleen McCarthy gli aveva detto che il suo negozio si trovava all'angolo fra Yucca e la Highland. Aveva parlato di Lloyd con molta paura al te-lefono la notte prima, ma c'era una possibilità che sa¬pesse dove si trovava. Lloyd cercava sempre qualche donna quando era sotto stress.
Dutch andò all'angolo fra Yucca e la Highland, accostando al marciapiede di fronte al Feminist Bibliophile, notando immediatamente che la porta d'ingresso era semiaperta e il portico disseminato di frammenti di vetro.
Estraendo la pistola, Dutch entrò. Il pavimento era coperto di vetri rotti, pezzi d'intonaco e libri. Tornò in cucina e poi nel bagno. Nessun altro segno di distru¬zione, solo qualcosa di strano: una borsa di cuoio sul letto.
Dutch frugò nella borsetta. Soldi e carte di credito erano al loro posto. Quando trovò altri soldi e la paten¬te e il libretto di circolazione di Kathleen McCarthy dentro un portafogli di pelle, prese il telefono e chiamò l'agente di turno alla stazione. «Sono Peltz» disse. «Voglio che emetti un bollettino di ricerca. Kathleen Margaret McCarthy, donna, razza bianca, un metro e 73, 67 chili, capelli e occhi castani, data di nascita 21 novembre '46. Volvo 1200 beige del 1977, patente LOM 957. Di' agli agenti di trattenerla solo ed esclusivamen¬te per interrogarla. Che non usino la forza. La donna non è sospettata di niente. Voglio che sia portata nel mio ufficio.»
«Non è un po' irregolare, capitano?» domandò il centralinista.
«Chiudi la bocca e invia il bollettino» disse Dutch.
Dopo aver controllato inutilmente gli isolati circo¬stanti la libreria in cerca di Kathleen e della sua macchi¬na, Dutch cominciò a sentirsi una specie di Giuda tor¬mentato dai rimorsi. Sapeva che muoversi era l'unico antidoto a sua disposizione. Qualsiasi meta era meglio che non averne.
Dutch andò a Silverlake. Bussò alla porta della vec¬chia casa che Lloyd gli aveva mostrato tante volte, senza aspettarsi veramente che gli rispondesse qualcuno. Sa¬peva che i genitori di Lloyd erano ormai vecchi e viveva¬no una loro solitudine silenziosa. Quando vide che non apriva nessuno, fece il giro della casa e andò nel cortile sul retro.
Sbirciando dalla palizzata, Dutch vide un uomo che beveva da una mezza di whisky, agitando una grossa pi¬stola. Rimase immobile dov'era, rammentando quello che Lloyd gli aveva raccontato sul fratello maggiore pazzo, Tom. Rimase ad assistere a quel triste spettacolo finché Tom non lasciò cadere la pistola a terra e si chinò su una cassa poco lontano, tirandone fuori una mitra¬gliatrice.
Dutch diede un ansito nel guardare Tom barcollare ubriaco e mormorare: «Testa di cazzo di Lloyd non sa una sega, quel piedipiatti del cazzo non sa una sega di come si trattano i negri di merda, ma io lo so cazzo se lo so. Testa di cazzo di Lloyd pensa di potermi rom¬pere il cazzo, merda, gliela faccio vedere io a quel testa di cazzo.»
Tom lasciò cadere la mitragliatrice per terra e poi cadde a sua volta. Dutch estrasse la sua calibro 38 ed en¬trò da un varco nella palizzata. Avanzò di nascosto lun¬go il fianco della casa, poi corse da Tom, puntandogli la pistola alla testa. «Fermo dove sei» disse, mentre Tom alzava gli occhi sorpreso.
«Lloydy mi ha preso i miei giochi» disse Tom. «Non ha mai voluto giocare con me. Mi ha preso i giocat¬toli più belli che avevo e non ha neanche voluto giocare con me.»
Dutch vide una grande fossa per terra poco lontano. Guardò dentro. Vide una dozzina di fucili a canne moz¬ze. Lasciando Tom a salmodiare per terra, corse in mac¬china. Strinse il volante e pregò Dio che gli desse il mo-do per incriminare Lloyd con la sua pietà, oppure libe¬rarlo con l'amore.

18

Kathleen corse zigzagando senza meta per le stradine di Hollywood, cercando di cancellare dalla mente la sco¬perta del registratore cantilenando silenziosamente fra sé brani delle sue migliori poesie, mentre il poliziotto robusto e la sua ipotesi sugli omicidi demolivano le sue parole pezzo dopo pezzo, finché non passò un semaforo rosso sulla Melrose e fece un testacoda finendo proprio in mezzo all'incrocio, mancando di poco un agente del traffico e un gruppo di bambini.
Accostò al marciapiede, tremante, e quella sua batta¬glia letteraria venne soffocata dal ruggire dei clacson degli automobilisti infuriati. Ormai era arrivata al di là di ogni parola. Le cospirazioni di Lloyd Hopkins esige¬vano di venire confutate dai fatti. Il registratore era una prova che richiedeva di venire negata da una prova an¬cora più grande. Era ora di fare visita a un vecchio com¬pagno di classe e lasciare che fossero le sue parole a par¬lare per lui.
Dutch rimase a guardare dalla parte opposta della sala mentre il tenente Perkins, comandante della Squadra investigativa della Divisione Hollywood, rag¬guagliava i suoi uomini sul Massacratore di Hol¬lywood: «Le nostre pattuglie di auto ed elicotteri im¬pediranno a quel bastardo di uccidere ancora, ma voi dovete scoprire chi è. Gli agenti dello sceriffo si stanno occupando dei casi Morton e Craigie, e forse hanno una traccia: un vice che lavorava nella Buoncostume di West Hollywood si è fatto saltare la testa nel suo ap¬partamento la notte passata, e certi suoi vecchi com¬pagni della squadra dicono che se la faceva con Crai¬gie. La Divisione rapine e omicidi del centro si sta oc¬cupando del caso Pratt, per cui tocca a voi torchiare tutti i pervertiti, i ladri, i drogati e i delinquenti in ge¬nerale della zona di Hollywood che hanno fama di es¬sere dei violenti. Usate i vostri informatori, gli elenchi di quelli in libertà provvisoria, il cervello e le informa¬zioni dei vostri soci di pattuglia. Usate tutta la forza che vi sembrerà necessaria.»
Gli uomini si alzarono e andarono alla porta. Notan¬do la presenza di Dutch, Perkins gli gridò: «Ehi, capo, dove cazzo sta Lloyd Hopkins adesso che c'è veramente bisogno di lui?»

Kathleen parcheggiò di fronte all'edificio di mattoni rossi sull'Alvarado. Notò sulla porta d'ingresso un car¬tello che diceva CHIUSO PER MALATTIA, e sbirciò dalla fine¬stra. Non vide altro che un bancone nell'ombra e cumu¬li di scatole, così andò allo spiazzo del parcheggio e scorse subito un lungo furgone giallo targato P-O-E-T. Aveva appena posato la mano sulla maniglia del portellone posteriore, quando ne uscì di scatto una tenebra che la soffocò.

Lloyd aspettò che scendesse il buio nel parco giochi a un chilometro dalla centrale elettrica di Silverlake. Aveva nascosto l'auto fuori vista dietro il capanno del¬la manutenzione, con il 30.06 e la calibro 44 magnum nel cofano, carichi e pronti. Seduto su un'altalena da bambini, compilò una lista delle persone che amava di più. Prima c'erano sua madre e Janice e Dutch, segui¬te poi dalle sue figlie e dalle numerose donne che gli avevano regalato momenti di gioia. Cercò di raccoglie¬re i ricordi come con una rete per trovare altri istanti d'amore, e segnò anche alcuni colleghi di polizia, cri¬minali e perfino passanti intravisti per strada. Più quella gente gli diventava oscura e più si sentiva pieno d'amore, e quando arrivò il crepuscolo che scomparve subito Lloyd capì che se anche fosse morto a mezza¬notte avrebbe comunque continuato a vivere nelle ve¬stigia di innocenza che aveva salvato da Teddy Verplanck.

Kathleen riemerse dalla tenebra aprendo gli occhi velati di lacrime, e il preludio a quello che vide fu un puzzo tremendo di prodotti chimici. Cercò di sbattere le palpebre per rimettere a fuoco lo sguardo, ma non riu¬scì a muoverle. Quando strinse gli occhi con tutta la for¬za che aveva e non ebbe come risultato altro che un tor¬rente di lacrime brucianti, spalancò la bocca per grida¬re. Ma c'era qualcosa che la ammutoliva, e così mosse le braccia e scalciò con le gambe, frugando l'aria nel tenta¬tivo di emettere qualche suono. Le braccia rimasero immobili, mentre i piedi strisciarono contro una superfi¬cie invisibile, e mentre lei si contorceva e cercava di li¬berarsi con tutta la forza che aveva nel corpo intorpidi¬to sentì sussurrare: "Sss, sss" e poi qualcosa di nero e di morbido che le sfiorava gli occhi, seguito da una luce accecante. "Non sono né cieca né sorda, ma sono mor¬ta" pensò.
Kathleen riuscì a distinguere un tavolinetto di le¬gno. Quando sforzò lo sguardo per vederlo un po' più chiaramente, capì che era a solo poche decine di centi¬metri da lei. Come in risposta, il tavolino avanzò ra¬schiando piano sul pavimento fino a dove lei poté toc¬carlo. Lei contorse di nuovo le braccia, e il dolore im¬provviso la fece uscire dal torpore. "Sono morta, ma non ancora mutilata."
Concentrando tutti i sensi sugli occhi, Kathleen fissò il tavolino. Gradualmente mise a fuoco anche la stanza intorno, e poi quel nero morbido che andava e veniva di nuovo, come lo scattare di un otturatore fotografico, e quando tornò la luce vide il tavolo proprio di fronte a sé, coperto di bamboline di plastica nude con l'inguine co¬perto di spilli e grandi fotografie in bianco e nero al po¬sto delle teste. "Sono all'inferno, e questi sono i miei compagni di dannazione."
Accorgendosi che le foto le erano familiari, Kathleen cercò di costringere la propria mente a funzionare. "So¬no morta, eppure penso." Capì che in qualche modo le foto delle teste le appartenevano, erano di qualcuno che le era vicino, qualcuno...
Kathleen si irrigidì. Contrasse le braccia, e le gambe le scattarono improvvisamente verso l'alto, facendola finire a terra insieme alla sedia. "Sono viva, e quelle so¬no le ragazze della mia corte. Il poliziotto aveva ragio¬ne, e Teddy del liceo vuole uccidermi."
Mani invisibili sollevarono la sedia e la girarono. Kathleen si agitò e puntò i tacchi contro un morbido tappeto bianco. "Mi tiene aperte le palpebre a forza e mi ha chiuso la bocca con il nastro adesivo, ma sono viva."
Guardò con la coda degli occhi fin dove riusciva, memorizzando i particolari del muro di fronte a lei nella speranza di poter combinare sguardo e pensieri in qual¬cosa di più concreto. Quando assimilò quello che vide le venne da piangere, e di nuovo le lacrime la accecarono. Sangue, gambi di rosa, fotografie violentate ed escre¬menti. Si sentì improvvisamente assalire da un puzzo terribile. "Sto per morire."
Vi fu un rumore meccanico. Kathleen lo seguì con la mente e quello che le rimaneva della vista. Distinse un registratore su un comodino. Cercò di urlare, e sentì che il nastro adesivo che aveva sulla bocca cominciava a ce-dere. "Se solo potessi urlare..."
Dall'apparecchio provenne un debole sospiro. Kath¬leen respirò lentamente dal naso e soffiò con tutta la sua forza. Il nastro si stirò e si allentò vicino al labbro inferiore. Il sospiro divenne una voce gentile e cantile¬nante:

Sono degno sol di amarti in versi,
E diffondere amore sulle ali della vendetta;
Loro ti tradirono e ti ferirono,
Seppellendoti nel dolore;
Uccidendole ti vendicai;
E tu con la Matricola 1114, tradisti me
Tu, tu, lo lasciasti farmi del male,
Sua prostituta diventando;
Rancor non serbo, ma stasera sceglierai;
A occhi spalancati lo vedrai morire;
E sempre ti amerò... Ti amerò...

La voce gentile sospirò nuovamente. Kathleen inarcò e strinse le sopracciglia e sentì cedere anche il nastro che le bloccava gli angoli delle palpebre. "Lo ucciderò prima che lui uccida me."
Il registratore si spense con uno scatto. La sedia di Kathleen fu sollevata e fatta girare in cerchio. Lei urlò, udendo la propria voce come una debole vibrazione, poi vide Teddy Verplanck che indossava una tuta aderente nera. Cercò di articolare parole per impedirsi di gridare ancora e strapparsi così il nastro dalla bocca prima che fosse il momento. "È diventato così bello. Perché gli uo¬mini più crudeli sono sempre i più belli?"
Teddy mise un pezzo di carta davanti agli occhi di Kathleen. Mordendosi la lingua, lei guardò le parole scritte in stampatello: NON POSSO ANCORA PARLARTI, ORA PRENDERÒ UN COLTELLO E MI SEGNERÒ CON LA LAMA. NON TI FARÒ DEL MALE.
Kathleen annuì, sondando il nastro con la punta del¬la lingua. Sentiva ritornare la circolazione nei piedi, e ricordò che aveva le scarpe a tacco basso con la punta piatta. "Ottime per calciare."
Teddy sorrise nel vederla annuire ubbidiente e voltò il foglio di carta. L'altro lato era coperto di ritagli sbia¬diti di giornale. Kathleen li mise a fuoco. Quando si ac¬corse che gli articoli erano resoconti dettagliati di omi-cidi che avevano donne come vittime, ricacciò indietro un singhiozzo mordendosi l'interno delle guance e leg¬gendo accuratamente ogni parola stampata sulla pagi¬na. Il terrore si trasformò in rabbia, e lei si morse forte, finché non sentì la bocca riempirsi di sangue e di sali¬va. Respirò profondamente dal naso e pensò: "Lo farò a pezzi."
Teddy gettò a terra il foglio e si aprì la parte superiore della tuta, lasciandola ricadere lungo i fianchi. Kath¬leen si trovò di fronte al busto maschile più perfetto che avesse mai visto, e rimase incantata da quella granitica bellezza finché Teddy non si mise una mano dietro la schiena e ne trasse uno stiletto. Portò la lama di fronte al torace e la fece roteare come un bastone da majoret¬te, poi la puntò sulla zona sovrastante il cuore. Quando sgorgò il sangue, Kathleen torse le braccia sui braccioli della sedia, spingendo coi gomiti, e sentì che i legami della mano destra cedevano completamente. "Adesso. Adesso. Adesso. Dio ti prego fammelo fare adesso. Ades¬so. Adesso."
Teddy si deterse il petto e si inginocchiò davanti a Kathleen, sussurrando: «Sono le dieci e mezzo. Presto dovremo andare. Eri bellissima, con gli occhi rovesciati.» Si deterse nuovamente. Kathleen vide che si era in¬ciso le lettere "K Mc" vicino al capezzolo sinistro. Sentì un conato di vomito, ma si trattenne. "Adesso."
Teddy si abbassò ancora di più e sorrise. Kathleen gli sputò in faccia e scalciò con tutte e due le gambe, colpendolo all'inguine, liberando la destra e spingendo in avanti, rovesciando la sedia proprio mentre Teddy crollava a terra. Urlò e calciò di nuovo, colpendolo allo stomaco. Teddy lasciò cadere il coltello e urlò anche lui, asciugandosi la saliva insanguinata dagli occhi. Kathleen spinse con tutto il corpo e riuscì a prendere il coltello con la mano libera, agganciando Teddy con la gamba destra per trascinarlo più vicino a sé, a portata di tiro. Lui si contorse e agitò le braccia alla cieca. Kathleen fece calare il coltello in un arco, puntando all'addome. Teddy si fece indietro e la lama trovò l'aria. Kathleen colpì di nuovo, e il coltello raggiunse il tappeto. Teddy si alzò in ginocchio e strinse i pugni co¬me in un maglio, calandolo su di lei. Kathleen cercò di morderlo, urlò e sentì il sapore del sangue quando il maglio la colpì. Precipitò in una tenebra rossastra e pulsante.

Dutch guardò l'orologio che suonava le 11. Spostò gli occhi oltre la soglia, verso il bancone del centralino. L'agente di turno alzò lo sguardo dal telefono e disse: «Ancora niente, capitano. Ne ho contattati 23 su 31. Gli altri non rispondono, oppure ci sono messaggi re¬gistrati. Niente che sia anche solo lontanamente so¬spetto.»
Annuendo seccamente in risposta, Dutch disse: «Continua a provare» e uscì nel parcheggio. Alzò gli occhi verso il cielo nero e vide i fasci di luce incrociati delle pattuglie sugli elicotteri, che illuminavano i ban¬chi di nubi e le cime dei grattacieli di Hollywood. Fatta eccezione per un minimo di contingente di stazione, tutti gli agenti della Divisione Hollywood erano in ser¬vizio, a piedi, in aria o in automobile, armati fino ai denti e ansiosi di gloria. Dutch stimò che vi fossero almeno dieci probabilità contro una di feriti per colpi sparati accidentalmente dai poliziotti più impazienti, e che con tutta probabilità a fare il maggior danno sa¬rebbero state le reclute e i coglioni che volevano una promozione. Con Lloyd sempre introvabile e neanche il minimo indizio sulla sua posizione, si rese conto che non gliene importava niente. C'era sangue nell'aria, e la logica prevalente di quella notte era un retto nichili¬smo. Aveva fatto passare pacchi di verbali d'arresto della Divisione Hollywood senza trovare alcun indizio che gli potesse indicare un trauma capace di sconvol¬gerlo fino al punto da perdere il senno; aveva telefona¬to a tutte le amichette di Lloyd di cui ricordasse il no¬me. Niente. Lloyd poteva essere colpevole o innocente, e non si trovava. E se Lloyd era introvabile, allora il ca¬pitano Arthur F. Peltz era nella stessa situazione di un pellegrino che aveva raggiunto la Mecca e aveva trova¬to solo la dimostrazione irrefutabile che la vita era una merda.
Dutch tornò in sede. Era a metà della scala che por¬tava al suo ufficio quando l'agente di turno corse da lui. «Ho una risposta al suo bollettino di ricerca, ca¬pitano. Solo per il veicolo. Ho scritto l'indirizzo.» Dutch afferrò il pezzo di carta che l'agente gli stava porgendo, poi corse da basso al bancone e passò frene¬ticamente tutti i nomi della lista dei sospetti di Lloyd. Quando si vide davanti agli occhi l'indirizzo di N. Alvarado 1893, gridò: «Cerca l'agente che ha risposto al bollettino e digli di richiamare la pattuglia. Questo è per me soltanto!»
L'agente annuì. Dutch corse in ufficio e prese il suo Ithaca a pompa. Lloyd era innocente, e c'era un mostro da uccidere.

19

Una stradina tortuosa a due corsie portava alla centrale elettrica. Terminava alla base di una collinetta coperta di arbusti che saliva ripida fino all'alta barriera di filo spinato che racchiudeva il complesso dei generatori. Sulla sinistra della strada c'era un piccolo spiazzo per parcheggiare, vicino a un capanno che si trovava in mezzo a due montanti che sostenevano riflettori ad alta potenza. Un altro supporto per i riflettori si trovava dal¬la parte esattamente opposta della strada, unito a cavi d'alimentazione collegati al bacino di Silverlake, mezzo chilometro più a nord.
Alle 11,30 Lloyd attraversò il parco giochi, esaminan¬do il territorio mentre saliva sul pendio della collina, con il 30.06 in spalla e la calibro 44 Magnum contro la gamba. Da quando aveva preso posizione alle otto e mezzo, sulla parte del parco che dava sulla strada aveva visto sei automobili dirigersi a nord sulla stradina d'ac¬cesso. Due erano veicoli ufficiali del Dipartimento per l'energia e l'acqua potabile, presumibilmente dirette agli uffici amministrativi della centrale. Le altre quattro erano tornate indietro dopo un'ora, il che voleva dire che gli occupanti erano semplicemente andati a farsi una canna o a scopare in cima alla collina e stavano tor¬nando a Los Angeles. Per cui Teddy Verplanck era arri¬vato a piedi, oppure stava arrivando.
Lloyd si diresse a nord sulla sterrata, tenendosi vici¬no all'argine che toccava la Collina della Centrale. Quando raggiunse l'ultima svolta vide che aveva visto giusto. Accanto alla barriera, vicino al capanno, erano parcheggiate due auto, entrambe con i contrassegni del Dipartimento per l'energia e l'acqua potabile.
L'argine terminò, e Lloyd dovette percorrere una stradina asfaltata prima di poter scalare il fianco della collina e trovare un punto d'osservazione. Camminava piano, guardandosi continuamente sul lato cieco. Se Verplanck era nelle vicinanze, probabilmente si stava nascondendo nella macchia d'alberi vicino alle due au¬to parcheggiate. Controllò l'orologio: le 11 e 44. A mez¬zanotte precisa avrebbe fatto saltare quella macchia in aria.
Lloyd cominciò a salire, avanzando lentamente, spaccando zolle di terra con i piedi. Vide di fronte a sé un'alta macchia di sterpaglia e sorrise nel capire che era un avamposto perfetto. Si fermò e prese il 30.06, con-trollando il caricatore e togliendo le sicure.
Era arrivato a meno di un metro dal suo obiettivo quando risuonò uno sparo. Esitò per un breve istante, poi si lanciò a terra, testa in avanti, proprio mentre un secondo colpo gli sfiorava la spalla. Lanciò un urlo e si appiattì, aspettando un terzo colpo che gli desse una di¬rezione verso cui sparare. L'unico rumore che sentiva era il pulsare furioso del proprio cuore.
L'aria venne spezzata da una voce amplificata elettri¬camente: «Hopkins, ho qui Kathy. Devi scegliere.»
Lloyd rotolò per portarsi in posizione seduta e puntò il 30.06 in direzione della voce. Sapeva che Verplanck era un mago dei trucchi, capace di prendere qualunque forma e voce desiderasse, e che Kathleen era al sicuro nella propria rete di fantasticherie. Spingendo l'arma sulla spalla insanguinata fino a farsi male per compen¬sare il rinculo, sparò un caricatore intero. Quando gli echi tremendi svanirono nell'aria, in risposta si udirono risate e una voce. «Vedo che non mi credi, per cui ti co¬stringerò a farlo.»
Seguì una successione di urla infernali, suoni che nessun imbroglio avrebbe potuto creare. Lloyd mor¬morò: "No, no, no" finché la voce amplificata non gridò: «Getta le armi e vediamoci faccia a faccia, o lei morirà.»
Lloyd scagliò il fucile verso la strada. Quando lo sentì sbattere contro l'asfalto si alzò e si infilò la cali¬bro 44 magnum dietro la schiena. Scese barcollando il pendio della collina, e capì che lui e la sua malefica controparte sarebbero morti insieme senza nessun al¬tro che la poetessa isterica a scrivere il loro epitaffio. Stava mormorando "coniglio nella tana, coniglio nella tana" quando rimase accecato da una luce bianca e un martello incandescente gli venne scagliato contro il cuore. Cadde e rotolò via mentre la luce colpiva il terreno al suo fianco. Asciugandosi dagli occhi lacrime e terra, strisciò verso l'asfalto, guardando i riflet¬tori illuminare gradualmente Teddy che teneva Kathleen McCarthy di fronte al capanno. Si strappò la ca¬micia insanguinata e si toccò il petto, poi girò il brac¬cio sinistro e sentì la schiena. Una piccola ferita fron¬tale, un foro d'uscita netto. Avrebbe avuto forza a sufficienza per ammazzare Teddy prima di morire dissanguato.
Lloyd tirò fuori la calibro 44 e si mise prono, con gli occhi fissi sui due riflettori accanto al capanno. Era acceso solo quello più alto. Teddy e Kathleen erano proprio sotto i piloni, a 15 metri di distanza dalla can¬na della grossa pistola, oltre l'asfalto e lo spiazzo di terra. Un colpo al riflettore e un altro per decapitare Teddy.
Premette il grilletto. La luce esplose e si spense nel preciso istante in cui vide Kathleen liberarsi dalla presa di Teddy e cadere a terra. Si alzò in piedi e attraversò barcollando l'asfalto, tendendo il braccio con la pistola e tenendo fermo il polso tremante con la sinistra. «Kathleen, spegni l'altra luce!» urlò.
Avanzò nel corridoio di tenebra, una cortina nero-rossastra che gli ottundeva i sensi e lo avviluppava come un sudario. Quando tornò la luce, vide Teddy Verplanck a tre metri di distanza da lui, che veniva incontro al suo fato con una calibro 32 automatica e una mazza da baseball chiodata.
I due uomini spararono contemporaneamente. Teddy si strinse il torace e cadde indietro proprio men¬tre Lloyd sentiva la pallottola raggiungerlo all'inguine. Contrasse il dito sul grilletto e il rinculo gli fece volare via la pistola di mano. Cadde sull'asfalto e guardò Teddy che strisciava verso di lui e le punte della mazza da ba¬seball scintillare nella luce bruciante.
Lloyd tirò fuori la calibro 38 a canna corta e la alzò, aspettando l'istante in cui avrebbe incontrato gli occhi di Teddy. Quando vide Teddy sopra di sé e la mazza che scendeva e vide che il suo fratello di sangue aveva gli oc¬chi azzurri, premette il grilletto sei volte. Non vi fu altro, che uno scatto di metallo contro-metallo e Lloyd gridò, mentre il sangue schizzava fuori dalla bocca di Teddy. Lloyd si chiese come potesse essere accaduto e se era già morto, e poi, appena prima di perdere i sensi, vide Dutch Peltz che ripuliva la lama dello stivale da parà con la punta d'acciaio

20

Il lungo viaggio nell'orrore ebbe termine, e i tre soprav¬vissuti cominciarono a percorrere la strada della lunga guarigione.
Dutch aveva portato Lloyd e Teddy alla sua auto, e con Kathleen in lacrime sul sedile accanto a lui era an¬dato a casa di un medico sotto accusa per spaccio di morfina. Con la pistola di Dutch puntata alla testa, il medico aveva esaminato Lloyd, proclamando che ne¬cessitava di una trasfusione immediata, almeno un litro e mezzo di sangue. Dutch controllò la patente di Lloyd e le carte d'identità che aveva preso da Teddy Verplanck. Tutt'e due gli uomini erano di tipo 0 positivo. Il dottore eseguì la trasfusione con una centrifuga improvvisata per stimolare il battito cardiaco di Teddy, mentre Dutch gli sussurrava continuamente che avrebbe fatto cancel¬lare tutte le accuse contro di lui, non importava a quale prezzo. Lloyd reagì bene alla trasfusione, e riprese co¬noscenza mentre il medico sedava Kathleen e le toglie¬va i punti di budello che le univano le palpebre alle so-pracciglia. Dutch non disse a Lloyd da dove veniva il sangue. Non voleva che lo sapesse.
Lasciando Lloyd e Kathleen nella casa del medico, Dutch portò i resti di Teddy Verplanck all'ultimo luogo di riposo, una spiaggia morente contaminata da tossine industriali. Dopo aver trascinato il cadavere oltre una successione di barriere di filo spinato, era rimasto a guardare la marea velenosa spazzarlo via con ondate da incubo.
Dutch trascorse la settimana successiva con Kathleen e Lloyd e a convincere il medico a seguire la loro ripresa. La casa diventò un ospedale con due pazienti, e quando Kathleen riemerse dai sedativi raccontò a Dutch di come Teddy Verplanck l'aveva imbavagliata e se l'era messa in spalla per portarla alle colline di Silverlake e tendere l'imboscata a Lloyd.
Lui le disse di come gli appunti in versi sul calenda¬rio di Teddy Verplanck lo avevano condotto al bacino e di come, se Lloyd voleva sopravvivere come essere umano e poliziotto, lei sarebbe dovuta essere molto dolce e non parlargli mai più di Teddy. In lacrime, Kathleen disse di sì.
Dutch aggiunse che avrebbe distrutto ogni traccia uf¬ficiale dell'esistenza di Teddy Verplanck, ma che sareb¬be toccato a lei cancellare i ricordi orrendi di Lloyd con il suo amore. "Con tutto il cuore" rispose la donna.
Lloyd delirò per più di una settimana. A mano a ma¬no che le ferite nel fisico guarivano, gradualmente, fra le carezze, Kathleen riuscì a convincerlo che il mostro era morto, e che la pietà umana aveva prevalso. Metten¬dogli uno specchio di fronte, gli raccontò storie gentili e buone e lo costrinse a capire che Teddy Verplanck non era suo fratello, ma un'entità separata, mandata dal de¬stino a chiudere tutti i capitoli dell'angoscia dei suoi primi quarant'anni di vita. Kathleen era una brava nar¬ratrice, e, lentamente, Lloyd finì col crederle.
Ma mentre Kathleen ricomponeva pezzo per pezzo la storia di Teddy e Lloyd anche lei, cominciò a essere preda del terrore. La sua chiamata al Silverlake Came¬ra era stata la causa della morte di Joanie Pratt. La sua riluttanza a dar fiducia a Lloyd e a dimenticare le pro¬prie pietose illusioni aveva avuto come risultato l'assas¬sinio di una donna viva e vitale. Lo sentiva a ogni re¬spiro, e ogni volta che sfiorava il corpo ferito di Lloyd le sembrava di essere stata condannata a morte. Scri¬verne accentuò il dolore. Era un ergastolo senza possi¬bilità di uscire per buona condotta né mezzo per espia¬re la colpa.
Un mese dopo la walpurgisnacht di Silverlake, Lloyd scoprì di poter camminare. Dutch e Kathleen non veni¬vano più a visitarlo ogni giorno, e il medico, liberato dalle accuse, aveva smesso di somministrargli antidolo-rifici. Doveva tornare dalla sua famiglia e affrontare presto i suoi inquisitori alla DIA, e prima di farlo sapeva che doveva vedere un luogo in particolare.
Il taxi lo lasciò di fronte a un edificio in mattoni ros¬si sulla North Alvarado. Lloyd scassinò la serratura e salì, senza sapere se voleva confermato o negato il suo peggior incubo. Qualunque cosa avesse visto avrebbe deciso il corso della sua vita futura, ma non lo sapeva ancora.
La stanza dell'incubo era vuota. Lloyd sentì tutte le speranze prima innalzarsi e poi precipitare. Niente san¬gue, niente foto, niente escrementi e gambi di rosa. Le pareti erano state dipinte di un semplice color azzurro. I bovindi erano stati chiusi con delle assi. Non avrebbe mai saputo "perché".
«Sapevo che saresti venuto.»
Lloyd si voltò nel sentire la voce. Era Dutch. «Sono giorni che sorveglio questo posto» disse. «Sapevo che saresti venuto prima di metterti in contatto con la tua famiglia o di tornare a rapporto.»
Facendo passare gentilmente le dita sul muro, Lloyd disse: «Cosa hai trovato qui, Dutch? Devo saperlo.»
Dutch scosse il capo. «No. Né ora né mai. Non chie¬dermelo mai più. Ho dubitato di te e per poco non ti ho tradito, ma ho espiato le mie colpe e non te lo dirò. Tut¬to quanto ho trovato che appartenesse a Teddy Verplanck è stato distrutto. Lui non è mai esistito. Se tu, Kathleen e io possiamo arrivare a crederlo, allora forse potremo vivere come gente normale.»
Lloyd picchiò il pugno contro la parete. «Ma io devo saperlo! Devo pagare per Joanie Pratt, e non sono più un poliziotto, e devo capire cosa significa in modo da decidere cosa fare! Ho avuto un sogno, Dio Cristo, che non riesco a spie...»
Dutch si avvicinò e mise le mani sulle spalle a Lloyd. «Sei ancora un poliziotto. Sono andato dal capo io stesso. Ho mentito e minacciato e strisciato, e mi è costato la promozione e il posto alla DIA. Tu non hai mai avuto problemi con la DIA, proprio come Teddy non è mai esistito. Ma sei in debito con me, e devi pagarlo.»
Lloyd lo guardò fisso negli occhi. «E qual è il prez¬zo?»
Dutch disse: «Dimentica il passato e continua a vi¬vere.»

Lloyd trovò il nuovo indirizzo di Janice e prese il vo¬lo per San Francisco la sera successiva. Janice era an¬data via per il fine settimana, ma c'erano le bambine con il loro amico George, e quando lui attraversò la so¬glia gli si gettarono addosso. Lloyd ebbe un breve mo¬mento di panico quando gli chiesero di raccontare una storia, ma rimasero soddisfatte dalla storia della dolce poetessa e del poliziotto finché lui non scoppiò in lacri¬me. Fu Penny a dargli la conclusione. Stringendolo forte, disse: «Sarà una novità raccontare storie alle¬gre, papà. Vedrai che ti divertirai. Picasso ha cambiato stile nell'ultimo periodo della sua vita, per cui puoi far¬lo anche tu.»
Lloyd prese una camera d'albergo vicino all'apparta¬mento di Janice e passò il fine settimana con le sue fi¬glie, portandole al Molo dei pescatori e allo zoo e al Mu¬seo di storia naturale. Quando le lasciò la domenica se¬ra, George gli disse che Janice aveva un amante, un av¬vocato specializzato in problemi fiscali. Era con lui che Janice passava il fine settimana. Per un istante si sentì attraversare la mente dal pensiero di distruggere tutto quanto, e strinse le mani a pugno. Poi il ricordo di Joanie Pratt gli troncò sul nascere quei pensieri di sangue. Lloyd abbracciò e baciò le bambine per salutarle e tornò al suo albergo. Janice aveva un uomo, lui aveva Kathleen e non sapeva neanche come si sentiva. Come poteva sapere cosa significava?
Lunedì mattina Lloyd tornò a Los Angeles e prese un taxi per il Parker Center. Salì al sesto piano, sentendo contrarsi i muscoli doloranti dell'inguine. Sarebbero passate settimane prima che potesse fare di nuovo l'amore, ma quando il vecchio medico-pusher gli avesse dato via libera, si sarebbe portato via Kathleen per un'infinità di fine settimana.
I corridoi del sesto piano erano deserti. Lloyd guardò l'ora: le 10,35. Pausa mattutina per il caffè. Probabil¬mente la sala riunioni era gremita. Dutch aveva senza dubbio coperto la sua assenza prolungata con qualche storia, per cui tanto valeva sistemare le formalità del ri¬torno in un colpo solo.
Lloyd aprì la porta della sala. Si illuminò in volto nel vedere il salone pieno di uomini in maniche di camicia con caffè e ciambelle, che ridevano e si facevano gesti osceni scherzosi. Rimase fermo sulla soglia ad assapo-rare la scena, finché non sentì il chiacchiericcio sfuma¬re. Tutti gli uomini del salone lo fissavano, e quando si alzarono tutti in piedi e cominciarono ad applaudire lui li guardò in volto e non vi vide altro che amore e reve-renza. L'immagine della stanza si sfuocò per le lacrime, e le ovazioni e gli applausi lo rigettarono indietro nel corridoio ad asciugarsi altre lacrime dagli occhi, do¬mandandosi cosa mai potesse significare.
Lloyd corse in ufficio. Si stava frugando in tasca in cerca della chiave quando l'agente Artie Cranfield gli si avvicinò e disse: «Bentornato, Lloyd.»
Lloyd gli indicò l'estremità del corridoio e si asciugò la faccia. «Che cazzo vuol dire questa storia, Artie? Che cazzo vuol dire?»
Artie parve perplesso, poi assunse un'espressione cauta. «Non piantare casini, Lloyd. In tutto il Diparti¬mento gira voce che tu hai risolto il caso del Massacra¬tore di Hollywood. Non so da dove sia venuta, ma tutti qui ci credono, e lo stesso vale per mezzo Dipartimento di polizia di Los Angeles. Si dice che Dutch Peltz lo ha riferito al capo in persona, e che il capo ti ha tolto dai coglioni quelli della DIA per il semplice fatto che lasciar¬ti nel Dipartimento era il modo migliore per farti tenere la bocca chiusa. Ti va di dirmi qualcosa?»
Le lacrime perplesse di Lloyd divennero lacrime di ri¬sate. Aprì la porta e si asciugò la faccia con la manica. «Il caso è stato risolto da una donna, Artie. Una poetessa sinistrorsa che odia i poliziotti. Medita sull'ironia e go-diti il tuo registratore.»
Lloyd chiuse la porta in faccia ad Artie Cranfield, lasciandolo ancor più perplesso. Quan¬do lo sentì allontanarsi borbottando, accese la luce e guardò il suo ufficio. Era tutto come l'ultima volta con in più una rosa rossa infilata in una tazza da caffè sulla scrivania. Accanto alla tazza c'era un foglio. Lloyd lo prese e lesse:

Carissimo L. gli addii prolungati sono tremendi, per cui sarò breve. Devo andarmene. Devo andare via perché tu mi hai restituito la vita, e ora devo decidere cosa farne. Ti amo e ho bisogno della tua protezione come tu della mia, ma il cemento che ci lega è fatto di sangue, e se rimaniamo insieme prenderà possesso di noi e non potremo mai più essere normali. Ho vendu¬to la libreria e l'appartamento. (Del resto appartene¬vano già ai miei creditori e alla banca.) Mi sono rima¬sti la macchina e qualche centinaio di dollari in con¬tanti, e intendo partire senza troppi bagagli per desti¬nazioni ignote. (Gli uomini lo fanno da secoli.) Ho molti progetti in mente, molte cose da scrivere. Espiazione per Joanie Pratt ti sembra un buon titolo? Lei mi possiede, e se le darò il meglio di me forse po¬trò essere perdonata. Il nostro passato è un dolore, L. Ma lo è ancora di più il nostro futuro. Tu hai scelto di inseguire le brutture del mondo e cercare di sostituir-le con il tuo amore soffocante, ed è una strada doloro¬sissima. Addio. Grazie. Grazie. Grazie.
K.

P.S La rosa è per Teddy. Se lo ricorderemo, non potrà mai più farci del male.

Lloyd depose il foglio e raccolse il fiore. Se lo avvi¬cinò alla guancia e sovrappose quell'immagine all'equi¬paggiamento spartano del suo mestiere. Il terrore profumato di fiori si unì agli schedari metallici, ai manife¬sti dei ricercati e alla mappa della città, fondendosi in una luce bianca e pura. Quando le parole di Kathleen trasformarono quella luce in musica, lui catturò l'istan¬te per riporlo nella fibra più forte del suo cuore, e lo portò con sé.

FINE