RICORDI: AL SAN GERARDO
Pietro Cazzaniga
Oggi, giorno di S. Agata, è stata una strana visita. Ero preoccupato di vederla in lacrime come l'ultima volta e di non sapere e non capire. Invece l'ho trovata di umore discreto, accanto a una parente di quelle scipite che fanno presenza più che compagnia, e a una infermierina smilza smilza, mia coetanea, non bella, ma paziente, e forse resiliente. Sedia a rotelle, flebo, sacchetto per la pipì. Ho iniziato a fare l'abitudine ai quei tubicini. L'ho vista magra, non in salute, ma bellissima. Cioè era bellissima a modo suo, anche se non più come solida donna che manda avanti la casa. Era bellissima benché molto più vecchia. O forse per quello. Mi è sembrato tutto strano: forse avrei dovuto provare ansia per il suo volto scavato e le mani magre, ma ho provato tenerezza per quei capelli più lunghi del solito e scarmigliati, quei capelli bianchi che sembrano trattenere la luce per restituirla a modo loro, per lo sguardo meno incerto (dell'anima che sta dietro o forse rispetto all'altra volta in cui l'ho visitata) e per l'aspetto vagamente solenne, antico, saggio, da capostipite di dinastie, santa reliquia. Erano forse il suo candore, le sue battute divertite, ma pacate, il senso della serenità che, nonostante tutto, la precarietà di quella situazione emanava.
Era come se avessi avuto la certezza che l'avrei potuta osservare così, ancora per anni e anni, e quindi come se il tempo si fosse finalmente fermato e non volesse concedere più spazio alle preoccupazioni degli ultimi mesi. Le ho fatto i complimenti per la capigliatura, non da vecchia, ma finalmente da nonna delle storie sui libri, in camicia da notte azzurrina, e silenzi contenuti.
Al di là della solitudine delle sere d'ospedale e della precarietà in cui viveva, stupiva la voglia che aveva, se non di ridere, per lo meno di ascoltare cose altrui. E forse era modesta e piccolina. Certo non è mai stata un donnone. Ma neppure un'essenza fragile o precaria. Ma era graziosa. Non finisco di ripetermelo. E ringrazio il Cielo d'avermela mostrata in questa veste.
Per il resto sono venuto a conoscenza delle solite cose: della stanza nuova e delle nuove vicine. La cicciona simpatica e blaterante, allegra, dolce e materna, un'altra che si lamenta sempre e l'anoressica che un ospedale non cura e che forse non si può curare. Se avrò figlie femmine le alleverò obese, creerò in loro un tale trasporto per la sacralità del cibo che...
E poi c'era l'infermiera, magra e scura di capelli, alacre e l'infermiera del piano, pure lei ciccia e vigorosa.
Ho chiesto a mia nonna com'erano le altre donne che si prendevano cura di lei (per sapere come si trovava con loro) e lei ridendo e sgomitando mi ha risposto che sono troppo giovane e di primo pelo per queste cose. Lampi di vita.
Abbiamo passeggiato braccio a braccio: io con la flebo, l'infermiera con sacchetto e tubicini. E poi di nuovo a letto, e poi io verso casa, di corsa per il treno.
Sono fuggito nell'istante in cui la stanchezza stava per far svanire tutta la favola. Sono fuggito perché lei mi incitava ad andare e a non perdere il treno. Non voleva che fossi io a essere codardo e tenermi defilato di fronte alla sua storia: aveva coscienza dei limiti di ogni cosa, aveva imparato a fare il passo secondo la gamba, insegnamento che per me, maschio e sano e all'esordio dell'età adulta, doveva ancora arrivare.