DIMENSIONI
Estratto da "Troppa felicità"
Alice Munro
Einaudi
Titolo originale Too Much Happiness
Doree doveva prendere tre autobus: uno fino a Kincardine, lí aspettava il secondo per London, e lí di nuovo aspettava quello urbano fino alla struttura. Si mise in viaggio alle nove di una domenica mattina. Dati i tempi d’attesa fra un mezzo e l’altro, prima delle due circa non avrebbe percorso le cento e rotte miglia di strada. Stare tanto seduta, sia in pullman, sia nelle stazioni, non le sarebbe dovuto pesare. Il suo lavoro di tutti i giorni non era certo di tipo sedentario.
Faceva la cameriera al Blue Spruce Inn. Lustrava bagni, cambiava lenzuola, passava l’aspirapolvere sui tappeti e puliva specchi. Era soddisfatta di quel lavoro: entro certi limiti le teneva la mente occupata e la stancava tanto da lasciarla dormire, la notte. Di rado le succedeva di dover rimediare a veri e propri disastri, anche se alcune colleghe raccontavano storie da far rizzare i capelli. Erano tutte piú vecchie di lei, e tutte convinte che Doree dovesse cercare di farsi strada. Le dicevano che doveva impratichirsi e puntare a un lavoro dietro una scrivania mentre era ancora giovane e di bell’aspetto. A lei però stava bene quel che faceva. Non le andava di dover conversare.
Nessuna delle persone con cui lavorava era al corrente dell’accaduto. O, se lo erano, facevano finta di nulla. C’era stata la sua foto sul giornale: avevano messo quella con i tre bambini che le aveva scattato lui, il piccolo Dimitri in braccio, e Barbara Ann e Sasha su ciascun lato, con gli occhi fissi all’obiettivo. Doree al tempo aveva i capelli lunghi e mossi, castani e ondulati naturali, come piacevano a lui, e la faccia morbida e schiva, non tanto lo specchio della vera Doree, quanto di quella che lui voleva vedere.
Da allora, si era tagliata i capelli, li aveva decolorati e li portava corti e a ciocche ispide, e aveva anche perso parecchi chili. Si faceva chiamare con il suo secondo nome, adesso: Fleur. Non solo: l’impiego che le avevano trovato era in una cittadina a una discreta distanza da dove viveva allora. Era la terza volta che faceva quel viaggio. Le prime due, lui si era rifiutato di incontrarla. Se l’avesse fatto di nuovo, avrebbe smesso di provarci. E se anche avesse accettato di vederla, probabilmente non sarebbe tornata per un po’. Non voleva esagerare. A essere sinceri, non sapeva bene cosa avrebbe fatto.
Sul primo autobus non fu particolarmente agitata. Viaggiava e basta, guardando il panorama. Era cresciuta sulla costa, dove esisteva una cosa chiamata primavera mentre da quelle parti l’inverno precipitava quasi senza soluzione di continuità nell’estate. Un mese prima c’era ancora la neve, e ora faceva abbastanza caldo da andare in giro sbracciati. Nei campi restavano abbaglianti pozze d’acqua, e il sole picchiava attraverso i rami spogli.
Sul secondo autobus cominciò a sentirsi nervosa e non poté fare a meno di chiedersi quali delle donne che aveva intorno potessero andare dove andava lei. Erano sole, perlopiú vestite con una certa cura, magari per dare l’impressione di essere dirette in chiesa. Le piú anziane sembravano membri di severe congregazioni all’antica, di quelle che impongono la sottana, le calze e il capo coperto, mentre le piú giovani potevano forse far parte di comunità piú aperte, disposte ad accettare tailleur pantalone, foulard a colori squillanti, orecchini e acconciature vaporose.
Doree non rientrava in nessuna delle due categorie. Per l’intero anno e mezzo da quando era stata assunta non si era comprata niente di nuovo da mettersi addosso. Stava in divisa al lavoro, e in jeans tutto il resto del tempo. Aveva perso l’abitudine di truccarsi perché lui non lo permetteva e, adesso che avrebbe potuto, non lo faceva comunque. Le ciocche ispide color granoturco stonavano con il suo viso ossuto e scialbo, ma non aveva importanza.
Sul terzo autobus si trovò un posto accanto al finestrino e cercò di mantenersi calma leggendo i cartelli – sia pubblicitari, sia stradali. Aveva escogitato un giochetto per tenersi la mente impegnata. Prendeva le lettere di qualunque parola su cui le capitasse di posare lo sguardo e cercava di stabilire quante parole diverse sarebbe riuscita a cavarne. «Gelati», ad esempio, dava «tela», «lega», e poi «lite» e «tale» e «alti» e «lati» e «lieta», mentre «bottega» produceva «botte» e «toga» e «gatto» e «botta» e – aspetta un po’ – anche «getto». C’era scorta abbondante di parole in uscita dalla città, fra tabelloni, megastore, parcheggi, perfino palloni aerostatici ormeggiati sui tetti a scopo pubblicitario.
Doree non aveva detto niente a Mrs Sands dei due tentativi passati, e con ogni probabilità non le avrebbe raccontato nemmeno di quell’ultimo. Mrs Sands, che vedeva tutti i lunedí pomeriggio, parlava del dovere di andare avanti, pur precisando che ci sarebbe voluto del tempo, che non bisognava precipitare le cose. Diceva a Doree che si stava comportando bene, che andava a poco a poco riscoprendo la propria forza.
– Lo so benissimo che sono frasi scontate da morire, – disse, – ma restano comunque vere. Arrossí nel sentirsi pronunciare quel «da morire», e tuttavia evitò di peggiorare la situazione scusandosi.
All’età di sedici anni – vale a dire sette anni prima –, per qualche tempo Doree era andata tutti i giorni dopo la scuola a trovare sua madre in ospedale. Era in convalescenza dopo un intervento alla schiena definito serio ma non pericoloso. Lloyd lavorava lí come inserviente. In comune con la madre di Doree, Lloyd aveva un passato da hippy, pur essendo in effetti piú giovane di qualche anno, perciò tutte le volte che aveva un po’ di tempo libero si presentava in camera e si metteva a chiacchierare con lei dei concerti e delle marce di protesta alle quali entrambi avevano partecipato, della gente strepitosa che avevano conosciuto, dei trip piú pazzeschi che si erano fatti con la droga e altre cose del genere. Lloyd era amato dai pazienti per via delle sue battute scherzose e perché li sapeva prendere con mani forti e sicure. Era largo di spalle, ben piantato e abbastanza autorevole da essere scambiato a volte per un dottore. (Non che la cosa lo lusingasse, peraltro: a suo giudizio, gran parte della scienza medica era una truffa e tantissimi medici, degli emeriti coglioni). Aveva la carnagione rossastra e delicata, i capelli chiari e lo sguardo audace.
Baciò Doree in ascensore e la paragonò a un fiore del deserto. Subito dopo rise da solo, commentando: – Come mi sarà uscita, questa?
– Magari sei un poeta, e non lo sai, – ribatté lei, per essere cortese.
Una notte, sua madre morí all’improvviso, per un’embolia. Aveva un mucchio di amiche che sarebbero state disposte a prendersi in casa Doree – e per un certo periodo in effetti si trasferí da una di loro –, ma il nuovo amico, Lloyd, era quello che preferiva. Prima di compiere diciassette anni, Doree si ritrovò incinta, e poi sposata. Lloyd non si era mai sposato prima, pur avendo almeno un paio di figli sparsi chissà dove. A quel punto, comunque, dovevano essere grandi. Invecchiando, la sua filosofia di vita era cambiata: ora credeva nel matrimonio e nella fedeltà, ed era contrario al controllo delle nascite. Inoltre trovava che la Sechelt Peninsula, dove lui e Doree risiedevano, fosse troppo affollata di gente ormai: vecchi amici, vecchie abitudini, vecchi amori. Di lí a poco si trasferirono dall’altra parte dello stato, in una località che avevano scelto dal nome sulla carta geografica: Mildmay. Non abitavano nemmeno in paese; affittarono una casa in aperta campagna. Lloyd trovò lavoro in una fabbrica di gelati. Si fecero un orto. Lloyd sapeva tante cose sulla coltivazione degli ortaggi, nonché sulla carpenteria domestica, sul funzionamento di una stufa a legna e sulla manutenzione di una vecchia auto.
Venne al mondo Sasha.
– Normalissimo, – disse Mrs Sands.
– Ah sí? – disse Doree.
Doree si sedeva sempre sulla sedia a schienale rigido che stava di fronte alla scrivania, anziché sul divano con i cuscini, rivestito di stoffa a fiori. Mrs Sands spostava la propria sedia a fianco della scrivania, di modo che potessero parlarsi senza barriere di sorta.
– In un certo senso mi aspettavo che succedesse, – disse. – Credo che al suo posto avrei potuto fare la stessa cosa.
Mrs Sands non si sarebbe espressa in questi termini all’inizio. Anche solo un anno prima sarebbe stata piú cauta, sapendo che al tempo Doree si sarebbe ribellata al pensiero che chiunque, un’anima viva qualsiasi, potesse presumere di mettersi nei suoi panni. Ormai invece era sicura che avrebbe preso quelle parole come un semplice tentativo, peraltro sommesso, di capire.
Mrs Sands non era come certe altre della categoria. Non era energica, non era magra, non era bella. E nemmeno troppo vecchia. Aveva grossomodo l’età che avrebbe avuto la madre di Doree, anche se non dava l’idea di essere mai stata una hippy. Teneva i capelli grigi tagliati corti e aveva un neo sporgente su uno zigomo. Portava scarpe basse, pantaloni larghi e bluse a fiori. Anche quando erano color lampone o turchese, quelle bluse non comunicavano l’impressione che a Mrs Sands importasse sul serio di quel che metteva addosso; era piú come se qualcuno le avesse detto che doveva curare il suo abbigliamento e lei fosse disciplinatamente andata a comprarsi qualcosa per obbedire al consiglio. La sua sobrietà, generosa, impersonale e garbata com’era, svuotava quegli indumenti di ogni squillante provocazione, di ogni oltraggio.
– Comunque, le prime due volte non l’ho neanche visto, – disse Doree. – Non ha voluto presentarsi.
– E questa volta, sí? È venuto?
– Sí. Ma io per poco non lo riconoscevo.
– Era invecchiato?
– Mi pare di sí. Credo sia un po’ dimagrito. E poi, quei vestiti. L’uniforme. Non l’avevo mai visto con roba del genere addosso.
– Le è sembrato una persona diversa?
– No –. Doree si morse il labbro superiore, cercando di capire dove fosse la differenza. Lui era cosí immobile. Non l’aveva mai visto tanto immobile. Sembrava non sapesse nemmeno di doversi sedere di fronte a lei. La prima cosa che gli aveva detto era stata: – Non ti siedi? – E lui aveva risposto:
– Si può?
– Era come assente, – disse. – Mi sono chiesta se lo tengono sotto farmaci.
– Può darsi che gli diano qualcosa per stabilizzarlo. Ma guardi che non lo so. Vi siete parlati?
Doree si chiese se si potesse dire di sí. Lei gli aveva fatto qualche domanda idiota, banale. Come stava? (Okay). Gli davano abbastanza da mangiare? (Pensava di sí). C’era un posto dove poteva passeggiare, volendo? (Sí, ma sotto sorveglianza. Lo si poteva chiamare un posto, perché no. Lo si poteva chiamare passeggiare, perché no).
Lei gli aveva detto: – Un po’ d’aria ti fa bene.
E lui: – È vero.
Stava quasi per chiedergli se si era trovato degli amici. Come si fa con un figlio che va a scuola.
Come si farebbe con i propri figli, se andassero a scuola.
– Certo, certo, – disse Mrs Sands, sospingendo la scatola pronta dei kleenex. Doree non ne aveva bisogno; gli occhi, li aveva asciutti. Il problema arrivava dal fondo dello stomaco. Conati.
Mrs Sands si limitò ad aspettare, sapendo bene di non dover intervenire.
E come se avesse intuito quello che stava per chiedergli, Lloyd l’aveva informata che uno psichiatra veniva a parlargli ogni tanto.
– Io gliel’ho detto che perde solo tempo, – aggiunse. – Ne so quanto lui.
Erano state le uniche parole in cui le era sembrato di riconoscere Lloyd, in qualche misura.
Il cuore non aveva smesso di batterle forte per tutta la visita. Pensava di poter svenire, o morire. Le costava una tale fatica guardarlo, ammetterlo dentro il suo campo visivo nella attuale versione di uomo grigio, sottile, freddo eppure esitante, che si muoveva a scatti meccanici ma scoordinati. Tutto questo non l’aveva detto a Mrs Sands. Mrs Sands avrebbe potuto chiederle – con delicatezza – di chi avesse avuto paura. Se di se stessa o di lui.
Ma quella non era paura.
Quando Sasha aveva un anno e mezzo era nata Barbara Ann, e quando Barbara Ann ne aveva due, era arrivato Dimitri. Il nome di Sasha l’avevano trovato insieme; poi si erano messi d’accordo che lui avrebbe scelto quello dei maschi e lei quello delle femmine.
Dimitri era stato il primo a soffrire di coliche. Doree si mise in testa che il suo latte non gli bastasse, che magari non fosse abbastanza nutriente. O magari troppo. Sbagliato, comunque. Lloyd fece venire a casa una signora della Leche League a parlarle. L’unica cosa da non fare assolutamente, le disse la signora, era integrare con il biberon. Quello sarebbe stato l’inizio della fine, aggiunse, e come niente si sarebbe ritrovata con il bambino che rifiutava il seno del tutto.
Non poteva certo sapere che Doree già stava integrando da un po’. E a quanto pareva il piccolo preferiva davvero il biberon: faceva sempre piú storie quando lo attaccava al seno. Al compimento dei tre mesi, era passato al solo allattamento artificiale, e a quel punto non ci fu piú modo di tenerlo nascosto a Lloyd. Gli disse che aveva perso il latte ed era stata costretta a integrare. Lloyd le strizzò con fanatica determinazione prima un seno e poi l’altro, riuscendo a spremerle un paio di gocce di misero latte. Le diede della bugiarda. Litigarono. Le disse che era una troia, come sua madre.
Tutte troie uguali, quelle hippy, disse.
Presto fecero la pace. Ma ogni volta che Dimitri era nervoso, se prendeva un raffreddore, o si spaventava vedendo il coniglio di pezza di Sasha, o si attaccava ancora alle sedie a un’età in cui suo fratello e sua sorella già camminavano senza doversi reggere, tornava a galla la storia del mancato allattamento al seno.
La prima volta che Doree era andata in studio da Mrs Sands, una delle altre donne le aveva consegnato un opuscolo. In copertina si vedevano una croce dorata e una scritta in caratteri viola e oro. «Hai Subíto Una Perdita Intollerabile…?» Dentro c’erano un’immagine di Gesú a colori tenui e una scritta piú piccola che Doree non lesse.
Seduta di fronte alla scrivania, Doree si era messa a tremare con l’opuscolo stretto in mano. Mrs Sands aveva dovuto strapparglielo dalle dita.
– Qualcuno le ha dato questa roba? – domandò Mrs Sands.
– Quella là, – disse Doree, puntando la testa in direzione della porta chiusa.
– Lei non lo vuole?
– Quando uno è a terra subito se ne approfittano, – disse Doree, e si rese conto che la stessa cosa aveva detto sua madre di certe signore venute a farle visita in ospedale, con un messaggio analogo. – Sono convinte che crollerai in ginocchio e tutto andrà a posto.
Mrs Sands sospirò.
– Be’, – disse, – di sicuro non è cosí semplice.
– Non è proprio possibile, – disse Doree.
– No, forse no.
Al tempo non sfioravano mai l’argomento Lloyd. Doree non pensava a lui, potendo evitarlo, e, all’occorrenza, solo in termini di un tremendo incidente di natura.
– Anche se credessi a quella roba, – disse, riferendosi a quanto stava scritto nell’opuscolo, – sarebbe soltanto per… – Intendeva che la fede le avrebbe fatto comodo, perché le avrebbe permesso di immaginare Lloyd tra le fiamme dell’inferno, o qualcosa di simile, ma non riuscí a proseguire, perché era troppo cretino per parlarne. E la conseguenza del consueto impedimento, era che le parole si trasformavano in martellate nella pancia.
Lloyd pensava che l’istruzione dei loro figli dovesse aver luogo in casa. Non per motivi religiosi – per contrastare la storia di dinosauri, uomini delle caverne, scimmie e affini – ma perché voleva che rimanessero accanto ai genitori e che fossero loro a introdurli nel mondo con cautela e poco per volta, anziché scaraventarceli dentro d’un colpo. – Si dà il caso che per me siano figli miei, tutto qui, – disse. – Cioè, sono figli nostri, non del ministero dell’Istruzione.
Doree non era sicura di saper gestire la cosa, ma scoprí che il ministero metteva a disposizione linee guida e programmi disciplinari che si potevano ritirare presso la scuola di zona. Sasha era un bambino sveglissimo e praticamente imparò a leggere da solo, mentre gli altri due erano ancora troppo piccoli per insegnar loro granché. La sera e durante i fine settimana, Lloyd faceva lezione a Sasha sulla geografia e il sistema solare e il letargo degli animali e il funzionamento dell’automobile, passando da una materia all’altra man mano che si presentavano le domande. In breve Sasha si portò in vantaggio rispetto ai programmi scolastici, ma Doree continuò a ritirarli lo stesso e lo fece esercitare secondo le scadenze previste per soddisfare i requisiti di legge.
C’era un’altra madre in zona che non mandava i bambini a scuola. Si chiamava Maggie e aveva un furgoncino. A Lloyd serviva la macchina per andare al lavoro, e Doree non aveva mai imparato a guidare, perciò le fece piacere quando Maggie le offrí un passaggio a scuola una volta alla settimana per consegnare gli esercizi svolti e ritirare quelli successivi. Naturalmente si portavano tutti i bambini appresso. Maggie aveva due maschi. Il maggiore era allergico a cosí tante cose che bisognava fare attenzione a tutto quello che mangiava: ecco perché non lo aveva mandato a scuola. E a quel punto le era sembrato che tanto valeva tenersi a casa anche il piccolo. Voleva stare insieme al fratello e aveva un problema di asma, comunque.
Come si sentí fortunata Doree, paragonandoli ai suoi tre figli sani. Lloyd le disse che dipendeva dal fatto di averli avuti quando era ancora giovane, mentre Maggie aveva aspettato di essere a un passo dalla menopausa. Esagerava sull’età di Maggie, ma era innegabile che avesse aspettato. Faceva l’optometrista. Lei e il marito erano stati soci e non avevano messo su famiglia fino a quando lei non era stata in grado di lasciare il lavoro e avevano potuto comprarsi una casa in campagna.
Maggie aveva i capelli sale e pepe, tagliati cortissimi. Era alta, piatta di seno, allegra e ostinata. Lloyd la chiamava la Biche. Solo alle sue spalle, s’intende. Scherzava con lei al telefono ma intanto faceva segno a Doree con le labbra: «È la Biche». La cosa non dava particolarmente fastidio a Doree – chiamava cosí un mucchio di donne. In compenso temeva che Maggie trovasse le battute di Lloyd troppo confidenziali, una forma d’invadenza, o quantomeno una perdita di tempo.
– Vuoi parlare con la vecchia? Sí, certo. Sta giusto qui davanti a me. Piegata in due sul mastello. Già, sono un autentico schiavista. Te l’avrà detto, no?
Doree e Maggie presero l’abitudine di andare a fare la spesa insieme dopo aver ritirato il materiale a scuola. A quel punto qualche volta si prendevano un caffè da asporto da Tim Hortons e portavano i bambini fino al Riverside Park. Si sedevano su una panchina mentre Sasha e i figli di Maggie scorrazzavano intorno o si arrampicavano alle spalliere, Barbara Ann ci dava dentro a spingersi in altalena e Dimitri giocava nella sabbiera. Oppure restavano sedute nel furgoncino, se faceva freddo. Perlopiú parlavano di figli e delle cose che cucinavano, ma Doree venne a sapere che Maggie aveva girato l’Europa prima di seguire il corso per optometrista, e Maggie scoprí quanto fosse giovane Doree quando si era sposata. E della facilità con la quale rimaneva incinta all’inizio, del fatto che adesso invece non era piú cosí semplice e di come questo fenomeno insospettisse Lloyd, tanto che andava a frugare nei suoi cassetti a caccia di pillole contraccettive, convinto che le prendesse di nascosto.
– Ed è vero? – chiese Maggie.
Doree trasalí sbigottita. Disse che non avrebbe mai osato.
– Cioè, mi sembrerebbe terribile, senza dirglielo. Quando si mette a cercarle, lo fa solo per scherzo.
– Ah, – disse Maggie.
Un’altra volta Maggie le chiese: – Tutto bene da te? Mi riferisco al tuo matrimonio. Sei felice? Doree rispose di sí, senza esitazione. In seguito però fu piú attenta a quel che diceva. Si rese conto che altri potevano non capire certe cose alle quali lei era abituata. Lloyd vedeva tutto quanto a modo suo: era fatto cosí. E questo fin dal loro primo incontro, in ospedale. La caposala era un tipo piuttosto sostenuto, e allora lui la chiamava Mrs Merd-in-ciel, anziché con il suo nome, cioè Mrs Mitchell. Lo pronunciava talmente in fretta che quasi non si capiva. A suo giudizio Mrs Mitchell aveva i suoi protetti e lui non rientrava nella categoria. Attualmente gli stava antipatico un tale al gelatificio, un collega che lui chiamava Succhiastecchi Louie. Doree non sapeva neppure come facesse di nome, in realtà. Se non altro quella era la dimostrazione che non se la prendeva soltanto con le donne.
Doree era abbastanza sicura che quelle persone non fossero poi cosí male come pensava Lloyd, ma contraddirlo non serviva a niente. Magari gli uomini avevano bisogno di nemici, come non potevano fare a meno delle loro battute. E in effetti qualche volta Lloyd stesso scherzava sui suoi nemici, come se si prendesse in giro da solo. Doree poteva perfino unirsi alla risata, a patto che la cosa non partisse da lei.
Sperava tanto che non assumesse quell’atteggiamento nei riguardi di Maggie. Di quando in quando temeva di intravedere qualcosa di simile all’orizzonte. Se le avesse impedito di andare a scuola e a fare la spesa con Maggie, sarebbe stato un notevole inconveniente. Ma il peggio sarebbe stata la vergogna. Avrebbe dovuto inventarsi chissà quale stupida storia per spiegarle il perché. E Maggie avrebbe comunque capito, come minimo che stava mentendo, e probabilmente ne avrebbe dedotto che Doree doveva trovarsi in condizioni peggiori di quanto non fossero in realtà. Anche Maggie aveva idee molto precise su tutto.
A quel punto Doree si chiese perché stare a preoccuparsi tanto di come la pensava Maggie. In fondo era un’estranea, nemmeno una persona con la quale lei si sentisse particolarmente a suo agio. Era stato Lloyd a farglielo notare, e aveva ragione. La verità tra loro due, il loro legame, non era cosa che altri potessero comprendere, e poi non li riguardava. Per non avere problemi, bastava che Doree non perdesse di vista il proprio dovere di lealtà coniugale.
Peggiorò, poco alla volta. Nessuna proibizione esplicita, ma le critiche aumentavano. Lloyd tirò fuori la teoria che le allergie e l’asma dei bambini potessero essere colpa di Maggie. La causa era spesso la madre, disse. Non aveva visto altro che casi del genere, in ospedale. Madri fanatiche del controllo, di solito troppo scolarizzate.
– Capita anche che i bambini nascano con qualcosa, – ribatté incautamente Doree. – Non puoi dire che sia sempre la madre, la responsabile.
– Ah, sí? E perché non potrei?
– Non mi riferivo a te. Non intendevo che non puoi dirlo tu. Dico solo che a volte i bambini hanno qualcosa alla nascita, o no?
– E da quando sei diventata un’esperta di medicina?
– Non ho mai detto di esserlo.
– Ci mancherebbe.
Di male in peggio. Lloyd volle sapere di cosa parlavano, lei e Maggie.
– Non so. Di niente.
– Buona questa. Due donne che viaggiano in macchina. È la prima volta che sento una cosa del genere. Due donne che non si dicono niente. Quella ha deciso di farci litigare.
– Ma chi? Maggie?
– Le conosco, io, quelle della sua risma.
– Ma quale risma?
– La sua.
– Non fare lo scemo.
– Attenta. Non darmi mai dello scemo.
– Ma che vantaggio ne avrebbe lei?
– E io cosa vuoi che ne sappia? Si diverte cosí, punto e basta. Aspetta e vedrai. Ti frastornerà di stronzate su quel bastardo che sono. Un giorno di questi.
E in effetti andò a finire come aveva detto lui. O perlomeno sarebbe senz’altro sembrato cosí, agli occhi di Lloyd. Una sera verso le dieci Doree si ritrovò nella cucina di Maggie, a tirare su col naso piangendo e bevendo tisana. Quando aveva bussato, attraverso la porta aveva sentito il marito di Maggie che diceva: «Che diavolo?» Non sapeva proprio chi fosse. Doree aveva detto: «Mi spiace tantissimo disturbarvi…», mentre lui la fissava con le sopracciglia sollevate e le labbra tese. Poi era comparsa Maggie.
Doree si era fatta tutto il tragitto a piedi, nel buio, prima la strada di ghiaia dove abitavano lei e Lloyd, e poi lo stradone. Dovendo spostarsi verso il fossato ogni volta che arrivava una macchina, ci aveva messo molto piú tempo. Doveva controllarle, le auto di passaggio, perché su una poteva esserci Lloyd. Non voleva che la trovasse, non ancora, non prima che la paura avesse la meglio sulla sua furia. Altre volte in passato era riuscita a completare la transizione da sola, urlando, piangendo e perfino sbattendo la testa per terra, mentre ripeteva come in una cantilena: «Non è vero, non è vero, non è vero». Alla fine lui mollava. Le diceva: «Va bene, va bene. Ti credo. Calmati, amore. Pensa ai bambini.
Ti credo, lo giuro. Adesso basta, però».
Quella sera invece Doree aveva ripreso il controllo l’attimo prima di dare inizio alla solita sceneggiata. Si era infilata il cappotto e aveva preso la porta, con lui che le urlava dietro: – Questo non lo devi fare. Attenta, sai!
Il marito di Maggie era andato a dormire, con un’aria tutt’altro che soddisfatta, mentre Doree continuava a ripetere: – Mi dispiace. Mi spiace tantissimo. Piombarvi in casa a quest’ora.
– Oh, falla finita, – tagliò corto Maggie, ma con gentilezza. – Ti va un bicchiere di vino?
– Non bevo.
– Allora è meglio che non incominci adesso. Ti faccio una tisana. È buona, calmante: camomilla e lampone. Non è successo niente ai bambini, vero?
– No.
Maggie le prese il cappotto, passandole un pacco di kleenex per naso e occhi. – Aspetta, non dirmi niente per ora. Tra un attimo vedrai che andrà meglio.
Anche quando in effetti andò un po’ meglio, Doree non si sentí di buttar fuori tutta la verità e far sapere a Maggie che il nocciolo del problema riguardava lei. Ma in particolare non voleva doverle spiegare Lloyd. Per quanto fosse esasperata, lui restava comunque la persona piú vicina che avesse al mondo, e temeva che sarebbe crollato tutto quanto se si fosse convinta a raccontare a qualcuno esattamente com’era fatto, se l’avesse tradito del tutto insomma.
Disse che lei e Lloyd avevano litigato per una vecchia questione e che lei era stufa e aveva avuto solo voglia di andarsene. Ma era certa che poi l’avrebbe superata. Che l’avrebbero superata, anzi.
– Succede a tutte le coppie, ogni tanto, – disse Maggie.
A quel punto suonò il telefono, e Maggie rispose.
– Sí. Sta bene. Aveva giusto bisogno di fare due passi e scaricare un po’ di tensione. D’accordo. Va bene allora, la riaccompagno a casa domattina. Nessun problema. D’accordo. Buonanotte.
– Era lui, – disse. – Hai sentito, no?
– Che voce aveva? Ti sembrava normale?
Maggie scoppiò a ridere. – Be’, come faccio io a sapere che voce ha, quando è normale?
Ubriaco, non mi pareva.
– Non beve nemmeno lui. Non teniamo neppure il caffè, in casa.
– Ti va una fetta di pane tostato?
L’indomani, al mattino presto, Maggie la accompagnò a casa. Il marito di Maggie non era ancora andato a lavorare e rimase lui con i bambini.
Maggie aveva fretta di tornare e si limitò a dirle: – Allora, ciao. Chiamami se hai bisogno di parlare, – mentre faceva manovra con il furgoncino in cortile.
Era una mattina fredda di inizio primavera, con la neve ancora per terra, ma Lloyd era seduto sugli scalini senza una giacca addosso.
– Buongiorno, – esclamò, in tono sarcasticamente educato. E lei disse buongiorno a sua volta, in un tono che fingeva di non aver notato quello di lui.
Lloyd non si scansò per lasciarle salire i gradini.
– Non puoi entrare lí dentro, – disse.
Doree decise di metterla in scherzo.
– Neanche se chiedo per favore? Per favore.
Lui la guardò ma non le rispose. Sorrise a labbra strette.
– Lloyd? – disse lei. – Lloyd?
– È meglio che non entri.
– Non le ho detto niente, Lloyd. Mi spiace di essermene andata. Avevo solo bisogno di una boccata d’aria, credo.
– Meglio che non entri.
– Si può sapere cos’hai? Dove sono i bambini?
Lui scosse la testa, come quando lei diceva qualcosa che non gli andava di sentire. Magari un’espressione un po’ villana, tipo «porco mondo».
– Lloyd. Dove sono i bambini.
Si scostò quel tanto che le permettesse di passare, se voleva.
Dimitri era ancora nella culla, sdraiato sul fianco. Barbara Ann, per terra, vicino al letto, come se fosse scesa o qualcuno l’avesse trascinata fuori. Sasha accanto alla porta della cucina: aveva provato a scappare. Era l’unico dei tre con dei lividi sul collo. Per gli altri era bastato il cuscino.
– Sai quando ho chiamato, ieri sera? – disse Lloyd. – Quando ho chiamato, era già successo.
– È stata tutta colpa tua, – disse.
Il giudice stabilí che, in quanto malato di mente, non poteva subire un processo. Era un pazzo criminale e doveva essere affidato a un istituto di sicurezza.
Doree era corsa fuori in cortile incespicando e stringendosi la pancia con le braccia come se l’avessero squartata e cercasse di tenersi le viscere al loro posto. Fu questa la scena che si offrí allo sguardo di Maggie, quando tornò indietro. Una specie di premonizione le aveva fatto invertire la marcia. Il suo primo pensiero fu che Doree fosse stata picchiata, o presa a calci in pancia dal marito. Non riuscí a capire niente dei versi che emetteva Doree. Ma Lloyd era ancora seduto sui gradini e si fece cortesemente da parte per farla passare, senza proferire parola; lei entrò e si trovò di fronte quel che ormai si aspettava. Chiamò la polizia.
Per un po’ Doree non fece altro che ficcarsi in bocca tutto quello su cui riusciva a mettere le mani. Dopo erba e terra, fu la volta di lenzuola, strofinacci o suoi capi d’abbigliamento. Come se si sforzasse di soffocare non soltanto le urla che le salivano in gola, ma anche la scena che aveva nella testa. A intervalli regolari le facevano un’iniezione di qualcosa, per placarla, e funzionava. Anzi, diventò calmissima, benché non proprio catatonica. Dissero che si era stabilizzata. Quando uscí dalla clinica, l’assistente sociale la accompagnò in quella località nuova dove Mrs Sands la prese in cura, le trovò un alloggio, un impiego, e organizzò con lei incontri a scadenza settimanale. Maggie avrebbe voluto venirla a trovare, ma era proprio l’unica persona che Doree si rifiutava a tutti i costi di vedere.
Mrs Sands commentò che si trattava di una reazione prevedibile, dovuta all’associazione mentale.
Disse che Maggie avrebbe compreso.
Mrs Sands disse anche che spettava a Doree decidere se proseguire o no le visite a Lloyd. – Non sono qui per approvare o disapprovare quello che fa, mi creda. Come si è sentita quando l’ha visto? Meglio o peggio?
– Non lo so.
Doree non era in grado di spiegare come in realtà non le fosse sembrata Lloyd, la persona che aveva di fronte. Era un po’ come vedere un fantasma. Cosí pallido. Con quei vestiti larghi, scoloriti, quelle scarpe che non facevano rumore, tipo pantofole, probabilmente. Ebbe l’impressione che avesse perso un po’ di capelli. I suoi bei capelli fitti e ondulati, color miele. Le spalle parevano prive di spessore, senza l’incavo del collo dove lei era solita appoggiare la testa.
Ecco che cosa aveva detto dopo, alla polizia, e che i giornali avevano riportato: «L’ho fatto per risparmiare ai miei figli la pena».
Che pena?
«La pena di scoprire che la madre se n’era andata e li aveva abbandonati», aveva risposto. La frase era marchiata a fuoco nel cervello di Doree, e forse, quando aveva deciso di andare a trovarlo, la sua idea era stata quella di fargliela rimangiare. Di fargli capire, e riconoscere, come erano andate realmente le cose.
– Mi hai detto di smetterla di contraddirti o di andarmene. E io me ne sono andata.
– Sono solo andata a dormire da Maggie. Ero piú che decisa a tornare. Non stavo abbandonando nessuno.
Si ricordava perfettamente com’era iniziata la lite. Aveva comprato un barattolo di spaghetti precotti leggermente ammaccato. Costava un po’ meno, per quell’ammaccatura, e lei era tutta contenta di aver fatto economia. Era convinta che fosse una mossa astuta. Ma non gliel’aveva detto, quando lui si era messo a farle una raffica di domande al riguardo. Chissà perché, aveva ritenuto preferibile fingere di non aver notato il difetto.
L’avrebbe notato chiunque, disse lui. Potevamo avvelenarci tutti quanti. Ma che cosa le passava per la testa? O magari era proprio quello che voleva? Su chi aveva intenzione di sperimentarla, sui bambini o su di lui?
Lei gli disse di non delirare.
Lloyd rispose che il pazzo non era certo lui. Che solo una pazza avrebbe comprato del veleno per la propria famiglia.
I bambini osservavano la scena dalla porta del soggiorno. L’ultima volta che li aveva visti vivi. Era davvero quello che aveva pensato: che alla fine sarebbe riuscita a fargli capire chi fosse il pazzo dei due?
Sarebbe dovuta scendere dall’autobus, nel momento in cui si rese conto di cosa le passasse per la mente. Perfino ai cancelli, avrebbe ancora potuto tirarsi indietro, mentre le poche altre donne arrancavano sull’inghiaiato. Attraversare e aspettare l’autobus che l’avrebbe riportata in città. È probabile che a qualcuno capitasse. Gente che aveva pensato di andare a fare una visita e che poi cambiava idea. Chissà quante volte succedeva.
D’altra parte forse era stato meglio cosí, che avesse proseguito e l’avesse visto, strano com’era e ridotto in quel modo. Non una persona alla quale si potessero attribuire delle colpe. Non una persona e basta. Era come il personaggio di un sogno.
Doree ne faceva, di sogni. In uno, correva fuori di casa dopo averli trovati, e c’era Lloyd che si metteva a ridere nel suo modo scanzonato, e subito dopo sentiva ridere anche Sasha dietro di sé e le veniva la meravigliosa idea che le avessero fatto uno scherzo tutti insieme.
– Mi ha chiesto se vederlo mi aveva fatta stare meglio o peggio. Me l’ha chiesto l’altra volta. – Esatto, – disse Mrs Sands.
– Ci ho dovuto pensare.
– Sí.
– Ho capito che mi ha fatta stare peggio. Quindi non ci sono piú tornata.
Con Mrs Sands non era facile stabilirlo, ma il cenno di assenso pareva comunicare compiacimento o approvazione.
Perciò, quando Doree decise che invece sarebbe tornata, pensò fosse meglio non dire niente. E visto che non far parola di quanto le succedeva non era semplice – perché di fatto non le succedeva mai quasi nulla – telefonò per disdire l’appuntamento. Disse che si era presa una vacanza. Si avvicinava l’estate, le vacanze erano all’ordine del giorno. Con un’amica, disse.
– Non hai la giacca che ti eri messa la settimana scorsa.
– Non era la settimana scorsa.
– Ah, no?
– Era tre settimane fa. Adesso fa caldo. Questa è leggera, e comunque non ne ho bisogno. Non serve nessuna giacca ormai.
Lloyd le chiese del viaggio, che pullman dovesse prendere da Mildmay.
Gli disse che non abitava piú lí. Gli disse dove abitava e dei tre autobus.
–Ti sobbarchi un bel viaggio. Ti piace stare in una città piú grande?
– È piú facile trovare lavoro.
– Ah, lavori.
Già la volta prima gli aveva detto dove abitava, degli autobus, dove lavorava.
– Faccio le pulizie in camera in un motel, – ripeté. – Te l’avevo detto.
– Sí, sí. Me l’ero scordato. Scusami. Hai mai pensato di tornare a scuola? Ai corsi serali? Doree disse che sí, ci pensava qualche volta, ma mai abbastanza seriamente da prendere iniziative. Disse che il lavoro di cameriera non le dispiaceva.
A quel punto sembrò che non riuscissero a farsi venire in mente altro da dirsi.
Lloyd sospirò. Disse: – Scusa. Scusami. Mi sa che non sono abituato a far conversazione.
– E cosa fai tutto il giorno?
– Mah, direi che leggo parecchio. Medito un po’. Cosí, alla buona.
– Oh.
– Grazie per essere venuta fin qui. Vuol dire tanto per me. Ma non devi sentirti obbligata a continuare. Vieni solo quando vuoi, insomma. Se succede qualcosa, o se ti va… sto cercando di dirti che già il fatto che tu sia venuta, anche solo una volta, è un regalo insperato per me. Capisci cosa intendo?
Rispose di sí, che credeva di capire.
Lloyd disse che non voleva immischiarsi nella sua vita.
– Non lo fai, – disse lei.
– Stavi per dire questo? Ho avuto l’impressione che volessi dire un’altra cosa.
In effetti, le era quasi scappato, Quale vita?
No, disse, direi di no. Nient’altro.
– Bene.
Altre tre settimane e ricevette una telefonata. Era Mrs Sands in persona, non una delle impiegate.
– Oh, Doree. Pensavo non fossi ancora tornata. Dalla vacanza. Sei tornata, allora?
– Sí, – disse Doree, cercando di farsi venire in mente un posto dove poter dire di essere stata. – Ma non avevi ancora avuto modo di fissare il prossimo appuntamento, immagino.
– Già. Non ancora.
– Non fa niente. Volevo solo avere notizie. Stai bene?
– Sto bene.
– Perfetto. Be’, sai dove trovarmi se hai bisogno. Se ti viene voglia di fare una chiacchierata.
– Sí.
– Stammi bene, allora.
Non una parola su Lloyd, non le aveva chiesto se era tornata a trovarlo. Del resto, Doree le aveva detto che non ci sarebbe piú andata. Di solito, però, Mrs Sands era piuttosto in gamba a captare come stavano le cose veramente. Piuttosto in gamba anche a trattenersi, se capiva che una domanda non l’avrebbe portata da nessuna parte. Doree non aveva idea di cosa avrebbe risposto se glielo avesse chiesto: se avrebbe fatto marcia indietro inventandosi una bugia, o se avrebbe tirato fuori la verità. Ad ogni modo era tornata a trovarlo la prima domenica dopo quella in cui Lloyd le aveva detto piú o meno chiaro che non aveva importanza che lei andasse oppure no. Lloyd aveva il raffreddore. Non sapeva come se l’era preso.
Magari lo stava già covando, disse, quando si erano visti l’ultima volta, ed era per quello che
era cosí ingrugnato.
«Ingrugnato». Ultimamente a Doree capitava di rado di avere a che fare con gente che usava una parola del genere, perciò le sembrò strana. Lloyd invece aveva da sempre l’abitudine di utilizzare quel frasario che in passato ovviamente non la colpiva come adesso.
– Ti sembro cambiato?
– Be’, fisicamente sei diverso, – rispose lei, cauta. – E io no?
– Tu sei bellissima, – disse lui, malinconico.
Sentí qualcosa sciogliersi dentro. Ma lottò per resistere.
– Tu ti senti cambiata? – domandò Lloyd. – Ti senti una persona diversa?
Doree rispose che non lo sapeva. – E tu?
– Eccome, – disse lui.
Qualche giorno dopo, sul lavoro, le consegnarono una grossa busta. Le era stata inviata all’indirizzo dell’albergo. Conteneva vari fogli, scritti su entrambe le facciate. In un primo momento non aveva pensato che arrivasse da lui – per qualche motivo si era fatta l’idea che la gente in carcere non potesse scrivere lettere. D’altra parte, Lloyd era un detenuto diverso dagli altri. Non un criminale e basta, solo un pazzo diventato criminale.
La lettera non recava data e nemmeno un consueto: «Cara Doree». Le si rivolgeva direttamente in un tono che le aveva fatto pensare a un appello di tipo religioso.
La gente la cerca dappertutto la soluzione. Si stanca il cervello (a furia di cercare). Soffre per tutte le cose che ha in testa. Glieli si vedono in faccia, tutti i lividi e i tormenti. Sono preoccupati. Vanno sempre di fretta. Devono fare la spesa, e passare in tintoria e farsi tagliare i capelli e guadagnarsi da vivere o andare a ritirare il sussidio di disoccupazione. I poveri sono messi cosí, e i ricchi devono pensare a come spendere i soldi che hanno. È un lavoro anche quello. Devono costruirsi le case con le rubinetterie d’oro per l’acqua calda e fredda. E comprarsi le Audi e gli spazzolini da denti miracolosi e tutti gli aggeggi possibili e immaginabili e i sistemi di allarme per proteggersi da ladri e assassini, e tutti (san) quanti, i ricchi come i poveri, nell’animo non hanno mai pace. Stavo per scrivere «santi» al posto di «quanti», chissà perché? Non ci sono santi qui. Ma se non altro dove sto io la gente ha superato un certo livello di confusione. Ciascuno sa bene che cosa gli spetta una volta per tutte e nessuno deve comprare niente, e nemmeno farsi da mangiare. O scegliere qualcosa. Le scelte sono abolite.Noi che stiamo qui dentro siamo padroni di quello che abbiamo in testa e nient’altro.All’inizio nella mia c’era solo scompilio (si scrive cosí?) Una bufera continua, e avrei sbattuto volentieri la testa contro il muro per potermene liberare. Per fermare quell’agonia, e la mia vita. Perciò mi infliggevano castighi. Mi hanno lavato con l’idrante, e legato, e drogato. Ma non mi sto lamentando, perché ho dovuto imparare che quegli strumenti non servono a niente. E che non è diverso da quel che succede nel cosiddetto mondo reale, dove la gente beve e continua a commettere crimini di tutti i tipi per eliminare pensieri che sono dolorosi. Spesso la gente viene anche presa e sbattuta in galera ma non quanto basta a raggiungere l’uscita opposta. E cioè? E cioè diventare completamente pazzi, o trovare la pace.La pace. Io l’ho raggiunta e sono ancora sano di mente. Immagino che leggendo queste parole tu ora ti aspetti che dica qualcosa su Dio, Gesú Cristo, o comunque Budda, come se fossi giunto a una conversione religiosa. No. Se chiudo gli occhi non mi sento portare in alto da un particolare Potere Superiore. Non so nemmeno che cosa vogliano dire queste cose. In compenso ora Conosco Me Stesso. Conosci Te Stesso è una specie di Comandamento scritto da qualche parte, forse nella Bibbia, perciò in questo senso se non altro sono rimasto Cristiano. E anche al Sii Fedele A Te Stesso ho cercato di attenermi, sempre che sia nella Bibbia pure quello. Non dice a quale parte di se stessi bisogna essere fedeli – se a quella buona o a quella cattiva –, perciò non va preso come un’indicazione morale. Anche il Conosci Te Stesso non c’entra niente con la morale, per come la intendiamo noi in Condotta. Comunque la Condotta non mi preoccupa, perché sono stato giustamente giudicato una persona incapace di stabilire come ci si deve comportare ed è per questo che mi trovo qui.Ma torniamo al capitolo Conoscenza del Conosci Te Stesso. Posso dire in tutta coscienza di conoscere me stesso, e il peggio di cui sono capace, e di sapere che l’ho anche commesso. Il Mondo mi giudica un Mostro e io non intendo discutere, anche se di sfuggita potrei ricordare che chi scarica bombe e incendia intere città, o affama la gente e ammazza centinaia di migliaia di persone di solito non è considerato un Mostro, ma anzi coperto di onori e medaglie, e che soltanto i crimini su scala ridotta sono giudicati malvagi e sconvolgenti. Il che non vuole essere una scusa, ma una semplice constatazione.Ciò che Conosco di Me Stesso è il Male che ho dentro. Ecco il segreto della mia tranquillità. Voglio dire che conosco il mio Peggio. Può darsi sia peggio del peggio di altri, ma non ci devo pensare e nemmeno preoccuparmene. Scuse non ce n’è. Ho trovato la pace. Sono un Mostro? Il Mondo dice di sí e, se lo dice, concordo. Ma d’altra parte devo aggiungere che il Mondo non significa niente per me. Io sono me Stesso e non ho nessuna possibilità di essere un me Stesso diverso. Potrei sostenere che allora ero pazzo ma cosa vuol dire? Pazzo. Sano. Io sono io. Non ho potuto cambiare il mio Io al tempo, e non posso ora.Doree, se hai letto fino a questo punto, c’è una cosa in particolare che voglio dirti, ma che non riesco a mettere per scritto. Se mai dovessi tornare, magari te la dirò allora. Non credere che sia senza cuore. Non credere che non cambierei le cose se potessi, ma non posso.Ti spedisco questa lettera al lavoro perché me lo ricordo e anche il nome della città, perciò come vedi il cervello mi funziona ancora, per certi versi. Doree pensò che avrebbero dovuto discutere quello scritto al loro prossimo incontro, perciò lo rilesse svariate volte, ma non le veniva in mente nulla da dire. L’unica cosa di cui le interessava parlare era l’argomento che Lloyd diceva di non poter mettere per iscritto. Quando lo rivide tuttavia lui si comportò come se non le avesse mai scritto affatto. Doree si sforzò di trovare uno spunto e gli raccontò di un cantante folk famoso in passato che quella settimana aveva alloggiato al motel. Con sorpresa, Doree scoprí che Lloyd ne sapeva piú di lei sulla carriera del cantante. Saltò fuori che aveva un televisore o quantomeno accesso a un apparecchio, e che seguiva certi programmi oltre ai telegiornali, naturalmente. Il fatto diede loro qualcos’altro da dirsi, fino a che lei non poté piú trattenersi.
– Cos’era che non mi potevi dire se non di persona?
Lloyd rispose che avrebbe preferito non glielo avesse chiesto. Non era sicuro che fossero pronti ad affrontare quel discorso.
A quel punto lei temette potesse trattarsi di qualcosa che non avrebbe proprio saputo gestire, qualcosa di insostenibile, tipo che lui continuava ad amarla. «Amore» era una parola che non poteva sopportare di sentire.
– D’accordo, – disse. – Forse hai ragione.
Poi aggiunse: – Anzi, no, è meglio che tu me lo dica. Se dovessi uscire di qui e finire investita da una macchina, non verrei mai a saperlo, e non avresti mai piú occasione di dirmelo.
– Vero, – fece lui.
– Allora, cos’è?
– Un’altra volta. Facciamo un’altra volta. Ogni tanto non riesco a parlare. Vorrei, ma poi mi si asciuga la voce, parlando.
Penso a te da quando sei andata via Doree e ho il rimpianto di averti delusa. Quando ti ho seduta di fronte mi emoziono piú di quanto forse non dia a vedere. Non ho il diritto di emozionarmi, dal momento che tu, che ne avresti piú ragione, sei sempre cosí controllata. Perciò voglio rimangiarmi quello che ho detto, perché sono giunto alla conclusione che in fondo mi è piú facile scriverti che parlare.E adesso da dove comincio.Il Paradiso esiste.Potrei cominciare cosí, ma non sarebbe il modo giusto visto che io non ho mai creduto all’esistenza di Paradiso e Inferno, eccetera. Ho sempre pensato che fossero tutte stronzate. Quindi deve fare uno strano effetto che io tiri in ballo l’argomento proprio adesso.Allora dirò solo questo: ho visto i bambini.Li ho visti e ho parlato con loro.Ecco. Cosa pensi, in questo momento? Starai pensando, be’, è davvero fuori di testa, allora. Oppure, se l’è sognato e non sa riconoscere un sogno, non riesce a distinguere un sogno dalla realtà. Invece ci tengo a dirti che la differenza la so e so una cosa: i bambini ci sono. Ripeto, ci sono, non dico che sono vivi, perché vivi vorrebbe dire nella nostra specifica Dimensione, e io non intendo sostenere che è lí che si trovano. Anzi credo proprio di no. Ci sono, però, e questo significa che deve esistere un’altra Dimensione o forse innumerevoli altre Dimensioni, ma l’essenziale è che sono riuscito a entrare in contatto con quella in cui si trovano loro. È possibile che ci sia riuscito perché sono stato cosí tanto tempo da solo, costretto a pensare e a ripensare, e a pensare certe cose poi. Cosí, dopo tanta pena e tanta solitudine, una qualche Grazia ha trovato il modo di offrirmi questa ricompensa. A me, l’essere che meno di tutti la meritava, secondo il giudizio del mondo.Be’ se stai ancora leggendo e non hai già stracciato questo foglio in mille pezzi vorrai sapere delle cose. Per esempio come stanno.Stanno bene. Sono proprio felici e in gamba. Sembra che non abbiano nessun brutto ricordo. Forse sono un po’ piú grandi di allora, ma non è facile dirlo. Sembra che capiscano le cose a livelli diversi. Sí. Lo si nota bene con Dimitri che ha imparato a parlare, mentre non era ancora capace. Si trovano in una stanza che riconosco solo parzialmente. È come casa nostra, ma piú spaziosa e piú bella. Ho chiesto chi si occupava di loro, ma si sono messi a ridere e hanno risposto qualcosa tipo che sanno badare a se stessi. Mi pare sia stato Sasha a dirlo. Non sempre si esprimono separatamente o comunque io faccio fatica a distinguere le voci, ma le loro identità sono chiare e, devo dire, gioiose.Per favore non pensare che sono pazzo. È per paura di questo che non volevo parlartene. Sono stato pazzo una volta, ma ti assicuro che ormai mi sono liberato di ogni vecchia follia, come un orso che cambia il mantello. O forse dovrei dire come un serpente che cambia pelle. Sono certo che se non l’avessi fatto non sarei mai riuscito a tornare in contatto con Sasha e Barbara Ann e Dimitri. Ora vorrei tanto che anche a te fosse concesso questo privilegio perché se si tratta di meritarlo, tu mi superi di gran lunga. Può darsi che per te sia piú difficile perché vivi nel mondo molto piú di me, ma se non altro posso darti notizie sulla Verità e, dicendoti che li ho visti, sperare di averti alleggerito il cuore. Doree si chiese che cosa avrebbe detto o pensato Mrs Sands se le fosse capitato di leggere quella lettera. Sarebbe stata cauta, naturalmente. Avrebbe badato a non emettere un verdetto di follia conclamata, ma con garbata circospezione, avrebbe guidato Doree a formularlo da sola.
Forse non l’avrebbe nemmeno guidata, forse avrebbe semplicemente sollevato il velo del disorientamento, di modo che Doree si confrontasse con quella che sarebbe apparsa come la sua conclusione sin dal principio. Avrebbe dovuto sbarazzarsi la mente di tutte quelle pericolose assurdità – secondo il frasario di Mrs Sands.
Ecco perché Doree si manteneva a debita distanza.
Anche lei era convinta che Lloyd fosse pazzo. E in quel che aveva scritto parevano ripresentarsi tracce della sua vecchia arroganza. Non gli rispose. Passarono i giorni. Le settimane. Doree non cambiava opinione, ma continuava a tenersi per sé il contenuto della lettera, come se fosse un segreto. E di quando in quando, mentre spruzzava prodotto detergente sullo specchio di un bagno o tendeva sul letto un lenzuolo, la invadeva una sensazione. Da quasi due anni aveva smesso di prestare attenzione alle cose che di solito rendono felice la gente, come il bel tempo, gli alberi in fiore, o l’odore del pane. A essere precisi, continuava a non provare quello spontaneo senso di felicità, ma ne aveva recuperato il ricordo. Con il tempo e coi fiori non c’entrava affatto. Era l’idea che i bambini si trovassero in quella che lui aveva definito la loro Dimensione, a insinuarsi di nascosto dentro di lei, e a trasmetterle per la prima volta un sentimento lieve, diverso dal dolore.
Per tutto il tempo dopo l’accaduto, qualsiasi pensiero sui bambini era stato qualcosa di cui liberarsi, qualcosa da estirpare immediatamente come uno si caverebbe un coltello dalla gola. Non poteva pensare i loro nomi, e se le capitava di sentirne pronunciare uno simile, le toccava strappare via anche quello. Perfino il vociare di bambini, le grida, il cic-ciac dei passi di corsa avanti e indietro dalla piscina del motel, dovevano essere tenuti a bada da una specie di cancello che era in grado di sprangarsi nelle orecchie. La differenza adesso era che disponeva di un riparo nel quale rifugiarsi non appena un pericolo del genere minacciava di presentarsi intorno a lei.
E chi era stato a procurarglielo? Non Mrs Sands di sicuro. Con tutte le ore passate alla sua scrivania con la scatola dei kleenex a portata di mano.
Gliel’aveva procurato Lloyd. Lloyd, l’uomo orribile, l’individuo isolato e fuori di senno. Fuori di senno, a volerlo definire tale. Ma non era forse concepibile l’eventualità che quanto aveva detto fosse vero: e cioè che lui fosse riuscito a raggiungere l’uscita opposta? E chi poteva arrogarsi il diritto di sostenere che le visioni di un uomo che aveva compiuto un gesto di quella portata e affrontato quel viaggio non significassero nulla?
Questa idea si insinuò nella mente di Doree e ci rimase. Insieme alla convinzione che, di tutte le persone al mondo, Lloyd era forse quella con cui avrebbe dovuto stare. Di quale utilità poteva essere a chiunque altro – sembrava quasi spiegare a qualcuno, a Mrs Sands probabilmente –, che ruolo poteva ancora avere sulla faccia della terra, se non quello di prestargli ascolto?
Non ho parlato di «perdono», precisò a Mrs Sands nella sua testa. Non lo direi mai. Non potrei mai concederglielo.
Ma ci pensi bene. Quel che è successo non ha forse tagliato fuori dal mondo me quanto lui? Chiunque fosse al corrente dei fatti non mi vorrebbe attorno. Io riesco solo a ricordare agli altri qualcosa su cui nessuno può soffermare il pensiero.
Ogni travestimento era impossibile, alla fine. Quella zazzera irsuta e gialla risultava patetica. E cosí si ritrovò di nuovo in autobus, diretta alla statale. Ricordò le sere subito dopo la morte di sua madre, quando usciva di nascosto per incontrare Lloyd, per non dire all’amica della madre dalla quale si era trasferita dove stesse andando. Ripensò al nome di quella donna, il nome dell’amica di sua madre. Laurie.
Chi, a parte Lloyd, avrebbe ricordato il nome dei bambini, ormai, o di che colore avessero gli occhi? Mrs Sands, quando doveva menzionarli, non li chiamava neppure i bambini, bensí «la sua famiglia», ammucchiandoli indiscriminatamente tutti insieme.
Allora andare da Lloyd mentendo a Laurie non la faceva mai sentire in colpa, ma piuttosto soggetta a una forza del destino, obbediente. Si era sentita come venuta al mondo al solo scopo di stare insieme a lui e cercare di comprenderlo.
Ebbene, non era cosí, adesso. Non era la stessa cosa.
Era seduta sul sedile davanti, di fianco al guidatore. Vedeva bene la strada, dal parabrezza. Ecco
perché fu lei l’unico passeggero a bordo, l’unica persona oltre all’autista, a vedere un pick-up immettersi sulla carreggiata senza nemmeno rallentare, sbandare davanti a loro sulla strada deserta della domenica mattina e infilarsi di muso nel fosso. E a vedere una cosa ancora piú strana: il guidatore del furgone spiccare un volo che pareva al tempo stesso fulmineo e lento, illogico e armonioso. Atterrò sulla ghiaia al ciglio del marciapiede.
Gli altri passeggeri non sapevano che cosa avesse spinto l’autista a pestare sul pedale costringendoli all’incomodo di una brusca frenata. In principio, l’unico pensiero di Doree fu, Come avrà fatto a uscire dalla macchina? Si riferiva al giovane uomo, o al ragazzo, che doveva essersi addormentato al volante. Come era riuscito a schizzare fuori dal furgone e a lanciarsi in aria con tanta eleganza?
– Ci si è messo proprio davanti, – disse l’autista ai passeggeri. Cercava di parlare forte e in tono pacato, ma c’era un tremore sbigottito, una specie di sbalordimento attonito nella sua voce. – Ci ha tagliato la strada ed è finito nel fosso. Appena possibile ripartiamo, ma nel frattempo vi chiedo la cortesia di non scendere.
Come se non l’avesse sentito, o si fosse guadagnata il diritto speciale di rendersi utile, Doree lo seguí, smontando dall’autobus. Lui non la riprese.
– Ma tu guarda ’sto coglione, – disse mentre attraversavano, e adesso nella sua voce non si sentiva altro che rabbia esasperata. – È da non credere, ’sto coglione di un moccioso.
Il ragazzo era supino, a gambe e braccia divaricate, come se stesse disegnando un angelo nella neve. Solo che intorno a lui c’era la ghiaia, non la neve. Non aveva gli occhi chiusi del tutto. Era talmente giovane, uno di quei bambini che si allungano di colpo, prima ancora di mettere un pelo di barba. Forse non aveva nemmeno la patente.
L’autista intanto parlava al cellulare.
– Circa un miglio sotto Bayfield, sulla Ventuno, sul lato est della strada.
Un rivolo di schiuma rosa fuoriusciva da sotto la testa del ragazzo, accanto all’orecchio. Non sembrava affatto sangue, ma la schiuma che si forma nella pentola quando si fa la marmellata di fragole.
Doree si accucciò di fianco a lui. Gli appoggiò una mano sul petto. Era immobile. Accostò l’orecchio. Qualcuno gli aveva stirato la camicia da poco: aveva quell’odore.
Non respirava.
Ma le dita di Doree sul collo liscio trovarono una pulsazione.
Le venne in mente una cosa che le avevano detto. Era stato Lloyd a dirgliela, in caso uno dei bambini avesse avuto un incidente mentre lui non c’era. La lingua. La lingua può bloccare il respiro, se collassa indietro e ostruisce la gola. Doree appoggiò le dita di una mano sulla fronte del ragazzo e due dita dell’altra sotto il mento. Spingi giú la fronte e tira su il mento, per liberare le vie respiratorie. Un colpetto lieve ma deciso.
Se non avesse ripreso a respirare, doveva procedere con la respirazione bocca a bocca. Deve pinzargli il naso, tirare bene il fiato, sigillargli la bocca con le labbra, espirare. Due emissioni e controllare. Due emissioni e controllare.
Un’altra voce maschile, non quella dell’autista. Doveva essersi fermato un altro guidatore. – Vuole che gli metta una coperta sotto la testa? – Doree scosse appena il capo. Si era ricordata di un’altra indicazione, la necessità di non spostare la vittima per non recare danni alla spina dorsale. Gli avvolse la bocca nella sua. Premette sulla sua tiepida carne giovane. Respirò e attese. Respirò e attese ancora. E un lieve umidore parve levarsi contro il suo viso.
L’autista disse qualcosa, ma Doree non poteva alzare gli occhi. Poi lo sentí per certo. Un respiro che usciva dalla bocca del ragazzo. Gli allargò la mano sulla pelle del petto e dapprima non fu in grado di stabilire se andasse su e giú, perché lei stessa tremava.
Sí. Sí.
Era proprio un respiro. Il canale era aperto. Respirava da solo. Respirava.
– Gliela metta addosso, – disse all’uomo con la coperta. – Ha bisogno di caldo.
– È vivo? – domandò l’autista, chinandosi accanto a lei.
Doree annuí. Trovò di nuovo il battito con le dita. Quell’orrenda schiuma rosa aveva smesso di uscire. Forse non era niente di importante. Non gli usciva dal cervello.
– Non posso bloccare l’autobus per lei, – disse l’autista. – Siamo già in ritardo sulla tabella di marcia.
L’altro guidatore intervenne: – Non si preoccupi. Posso stare io.
State zitti, state solo zitti, avrebbe voluto dire Doree. Le pareva che fosse necessario il silenzio, che ogni cosa al mondo esterna al corpo del ragazzo dovesse concentrarsi, aiutarlo a non perdere di vista il proprio dovere di tirare il fiato.
Boccate incerte ma regolari ormai, un’obbedienza dolce del petto. Continua, avanti, continua. – Ha sentito il signore? Dice che si ferma lui a tenerlo d’occhio, – disse l’autista. – Intanto l’ambulanza arriva, appena può.
– Vada pure, – disse Doree. – Io chiedo un passaggio in ambulanza fino in città e riprendo l’autobus stasera, al ritorno.
Dovette chinarsi per sentirla. Doree si esprimeva in tono sbrigativo, senza sollevare il capo, come se fosse suo il respiro prezioso.
– È sicura? – fece lui.
Sicura.
– Non deve piú andarci, a London?
No.