domenica 15 dicembre 2019


RICORDI: BRUTTA
Marialuisa Righi

Sono sempre stata brutta. Da bimba in famiglia mi chiamavano affettuosamente “pastrugn” che nella Brianza dove sono nata e cresciuta, sta a significare pasticciona-scombinata; io sorridevo grata a quelli che percepivo come complimenti, sempre seguiti da un abbraccio o sorrisi amorevoli. Pastrugn rendeva bene l’immagine che andavo scoprendo nello specchio: un pasticcio di forme dove il naso a patata si affacciava su una bocca da rana con denti imprigionati per anni nella gabbietta ortodontica, capelli folti e ricci che non hanno mai conosciuto la delizia dei cento, ma neanche dieci colpi di spazzola... Gli occhi no, quelli sono sempre stati belli, castani e profondi con lunghe ciglia di cui andavo segretamente fiera, ma (giusto per gradire) a sei anni scoprii di vedere sfocate le immagini a distanza ravvicinata: ipermetropia, in pratica il mio bulbo oculare aveva una lunghezza ridotta, occhiali da vista che ho sostituito con lenti a contatto solo pochi anni fa. Alle elementari mi aggiunsero un altro nomignolo, i miei compagni di classe mi chiamavano scurbat perché scura e magra come un corvo, “la Francesca è uno scurbat, la Francesca è uno scurbat” questa la tiritera quotidiana fino a ché non reagii imitando il verso della cornacchia “cra-cra-cra” tutti risero e fui promossa “brutta ma simpatica”; ruolo che adottai per molti anni a venire. Quella fu la prima volta che usai la potente arma dell’ironia, un dono di natura che mi ha permesso di attraversare indenne molte delle battaglie cui noi brutte siamo trascinate per i capelli: sguardi obliqui, sarcasmo, battute feroci e poi il ritorno a casa dove ti aspetta una mamma bellissima, un fratello identico a lei e un padre che somiglia a Marcello Mastroianni nel film “la dolce vita”. Scherzi della genetica ereditaria; io avevo preso dalla nonna materna, brutta come la fame e forte come una quercia, tanto che morì ultranovantenne dopo avere bevuto l’ultimo bicchiere di porto; senza dolore e rimpianti. Il periodo peggiore arrivò con l’adolescenza, il corpo che cambiava, osservavo sbigottita il seno lievitare, la peluria spuntare sulle gambette lunghe e magre, la fronte frastagliata da foruncoli e quei tonfi al cuore che mi bloccavano il respiro “tutto normale” diceva la mia bella mamma “stai semplicemente diventando donna” Oddio, non volevo diventare donna! Come avrei potuto misurarmi con quelle modelle che gravitavano ovunque mi girassi, erano tutte belle le mie amiche, senza parlare di quelle che vedevi sui giornali o in televisione: un universo di visi, sederi, seni perfetti! “Ma sono tutte uguali - esclamava mio fratello - la bellezza standard annoia, è priva di luce e qualità…è la personalità a rendere davvero bella una persona e a te quella non manca” Sì, sì, rispondevo mandandolo regolarmente a quel paese, “lo specchio mi dice ben altre cose e lo sguardo della gente pure”. Quante lacrime hanno scolorito le pagine di diario su cui riversavo la mia infelicità di cozza senza speranza. L’idea grandiosa arrivò a mio padre, stavo diventando un piccolo mostro di cinismo e rispondevo alle sollecite attenzioni di chi mi amava con rapidi e secchi “no, no e no!” Il giorno del mio 14° compleanno mi caricò in macchina. Noi soli, io muso duro, lui fischiettava. Destinazione il canile municipale: il mio regalo di compleanno dovevo sceglierlo tra i tanti ospiti di quel purgatorio. Dopo un giro tra guaiti e scodinzolamenti vari che scuotevano il mio disastrato sistema nervoso, la vidi: un sacchetto di pelo grigio con macchie nere sparse a caso, orecchie grandi nere con le punte argentate, piccola e irrimediabilmente brutta; era l’unica che non si era mossa dalla cuccia, mi fissava con occhi leggermente sporgenti: sembravano due castagne cadute in una pozza.“Voglio lei” dissi. La chiamai Bella. 
“Bella che dici? Prendiamo la bici o andiamo a piedi?” Quello della passeggiata quotidiana lungo il fiume era il momento più atteso da entrambe; pedalavo cantando con lei dentro il cestello, le zampette appoggiate sul bordo, lo sguardo fisso su sentiero di cui conosceva ogni filo d’erba e la sua bocca vibrante all’aria e alla felicità “la gioia di esser cane e di esser uomo tramutata in un solo animale che cammina muovendo sei zampe e una coda intrisa di rugiada” questi versi di Neruda erano la sintesi perfetta di quei momenti. Finito il liceo classico, m’iscrissi alla facoltà di medicina veterinaria, scelta dettata da un crescente interesse verso il mondo animale e da una naturale predisposizione alla cura dei più deboli. Per andare all’università prendevo il treno, trenta minuti di penoso viaggio, sguardi distratti che per lunghi attimi si soffermavano su di me, sul mio viso sghimbescio, sulle mie gambe lunghe e magre e mi pareva di leggere il loro pensiero “che naso, che cesso, che bocca da rana” abbassavo lo sguardo sul libro di poesie della Dickinson e pensando a Bella tornavo a respirare. Adriano prendeva lo stesso treno, lo vidi per caso in una mattinata di pioggia torrenziale, stava salendo sulla carrozza e a momenti lo infilzavo con il mio ombrello ancora aperto “ Francesca, vuoi uccidermi ?”esclamò ridendo “ scusaaaa, sono miope e pure distratta…ti è andata bene” risposi riconoscendo in lui il compagno di scuola delle elementari e medie. Ci sedemmo vicini passando in rassegna gli ultimi anni della nostra vita, lui era iscritto a giurisprudenza, amava la montagna, Paolo Conte, Kundera, la polenta con le uova, i gatti, l’Irlanda (anch’io, anch’io, urlavo dentro) ed era appena uscito da una burrascosa relazione con Valentina “uh, me la ricordo la Vale” dissi “boccoli biondi e occhi da gatta…” - ricordi solo quello di lei?- “Beh, sì” risposi perplessa, “ecco vedi, Valentina è solo boccoli e occhi belli. Troppo poco per costruirci sopra una storia vera” Arrivammo a Milano ridendo e con ancora in bocca tante cose da dirci. Ci ritrovammo tutte le mattine su quel treno; le nostre discussioni, scambi, confidenze erano fitte come la nebbia di novembre o impetuose come le acque di un torrente; Ci somigliavamo molto, gusti e stile di vita, con qualche piccola ma sostanziale differenza, una per tutte: lui era bello con “occhi neri e quel sapor mediorientale” io una racchia, simpatica e intelligente a detta dei più, ma improbabile come partner di un così affascinante ragazzo. Parlavo di lui a Bella, “lo amo ma non posso che essergli amica, lo amo e lui non lo saprà mai” lei ascoltava con le lunghe orecchie vibranti e poi, imitandomi, sospirava. Nel mese di giugno 2003 Adriano mi tolse gli occhiali adagio, eravamo sul sentiero che risale verso il rifugio Menaggio, in una delle nostre passeggiate settimanali, Bella seguiva incuriosita ogni sua mossa “ Occhi come i tuoi non vanno nascosti” sussurrò, abbassai lo sguardo sulla sua bocca sempre più vicina-vicina. Fu come morire e rinascere in quel bacio infinito da cui ci separò l’ululato felice di Bella. Ci siamo sposati a giugno del 2005, la nostra bimba somiglia tutta alla nonna materna: proprio come io somigliavo alla mia!
Marialuisa Righi