CHE FINE HANNO FATTO TUTTI
Estratto da "Principianti"
Raymond Carver
Ne ho viste di cose. Stavo andando da mia madre per fermarmi da lei qualche notte, ma proprio quando sono spuntato dalla scala l’ho vista sul divano che baciava un tizio. Era estate, la porta era aperta e il televisore a colori acceso.
Mia madre ha sessantacinque anni e si sente sola. S’è iscritta a un club di cuori solitari. Però, anche cosí, conoscendo la situazione, è stata dura. Sono rimasto lí in cima alle scale, aggrappato alla ringhiera, a guardare quel tizio che l’attirava sempre piú a fondo in quel bacio. Lei rispondeva e la televisione era accesa dall’altra parte della stanza. Era domenica, verso le cinque del pomeriggio. La gente degli altri appartamenti del palazzo era giú in piscina. Ho ridisceso le scale e sono tornato in macchina.
Da quel pomeriggio ne sono successe tante altre di cose e, in generale, si sono messe un po’ meglio. Ma in quei giorni, quando mia madre se la faceva con uomini che aveva appena incontrato, io ero disoccupato, bevevo ed ero fuori di testa. Anche i miei ragazzi erano fuori di testa, mia moglie era fuori di testa e aveva una «storia» con un ingegnere aerospaziale disoccupato che aveva conosciuto a una riunione degli Alcolisti Anonimi. Anche lui era fuori di testa. Si chiamava Ross e aveva cinque o sei figli. Zoppicava per via d’una ferita d’arma da fuoco procuratagli dalla prima moglie. Adesso non ce l’aveva piú, la moglie; voleva la mia. Non so mica cosa ci passava per la testa a tutti quanti in quel periodo. La seconda moglie com’era venuta se n’era andata, ma era stata la prima che gli aveva assestato una pistolettata in una coscia qualche anno prima, azzoppandolo, e che ora lo trascinava da un tribunale all’altro o addirittura in galera, ogni sei mesi circa, perché non pagava gli alimenti. Adesso gli auguro ogni bene. Ma allora era un po’ diverso. Piú di una volta, all’epoca, ho parlato di procurarmi un’arma. Dicevo a mia moglie, glielo urlavo: «Io quello lo ammazzo!», ma poi non è successo niente. Le cose sono andate avanti, piú o meno. Non l’ho mai incontrato, anche se ci è capitato di sentirci per telefono. Una volta, mentre rovistavo nella borsa di mia moglie, ho trovato un paio di foto sue. Era un tipetto piccolo, be’, non tanto piccolo, portava i baffi e un pullover a righe ed era lí che aspettava che un ragazzino venisse giú dallo scivolo. Nell’altra foto era in piedi, a braccia conserte, davanti a una casa – la mia? non si capiva –, vestito come un damerino, con cravatta e tutto. Ross, brutto figlio di puttana, spero che tu stia bene adesso. Spero che le cose vadano meglio anche per te.
L’ultima volta che era stato dentro, un mese prima di quella domenica, avevo saputo da mia figlia che mia moglie gli aveva pagato la cauzione. A mia figlia Kate, che all’epoca aveva quindici anni, la cosa non era andata a genio piú che a me. Non che si schierasse dalla mia parte – lei non si schierava né con me né con sua madre in nessuna cosa, anzi era pronta a buttarci alle ortiche tutti e due. No, è che in casa c’era un problema serio di liquidità e tanti soldi andavano a Ross, tanti di meno ne aveva lei a disposizione. E cosí Ross era finito sulla sua lista nera. E poi, non le andavano giú i figli di Ross, m’aveva detto, però in precedenza mi aveva anche detto che Ross era un tipo a posto, a volte pure buffo e interessante, se non aveva bevuto. Le aveva addirittura letto la mano.
Passava il tempo a riparare cose, ora che non poteva piú tenere un posto di lavoro nell’industria aerospaziale. Però avevo visto casa sua dall’esterno e dico che sembrava una discarica: c’era ogni tipo e marca di vecchi elettrodomestici e macchinari che non avrebbero mai piú lavato, cucinato o suonato in vita loro – tutti piazzati nel garage aperto, nel vialetto e sul prato davanti a casa. In piú, sparse lí intorno, aveva delle vecchie macchine scassate che gli piaceva provare a riparare. Nei primi tempi della loro relazione, mia moglie mi aveva detto che era «un collezionista di macchine d’epoca». Parole testuali. Io le avevo viste alcune di quelle macchine parcheggiate davanti a casa quando avevo fatto un giro dalle sue parti per vedere quello che si riusciva a vedere. Vecchi modelli degli anni Cinquanta e Sessanta, dalla carrozzeria ammaccata e la tappezzeria lacera. Rottami, ecco cos’erano. Io me ne intendevo. L’avevo inquadrato. Avevamo delle cose in comune, oltre ad andare in giro su vecchi catorci e cercare di restare attaccati alla stessa donna. Ad ogni modo, pratico di riparazioni o meno, mica c’era riuscito a mettere a punto la macchina di mia moglie o ad aggiustare il nostro televisore quando s’è guastato ed è sparita l’immagine. Avevamo l’audio, ma niente video. Se volevamo sentire il telegiornale la sera ci dovevamo sedere attorno allo schermo per ascoltare l’apparecchio. Io bevevo e facevo battutine ai ragazzi sul Signor Aggiustatutto. Ancora oggi non lo so se mia moglie ci credesse davvero a quelle cavolate sulle macchine d’epoca e via dicendo. Però ci teneva a lui, gli voleva perfino bene; la cosa è chiara ormai.
Si erano incontrati quando Cynthia cercava di restare sobria e andava alle riunioni degli AA tre o quattro volte a settimana. Io erano mesi che facevo avanti e indietro dagli AA, anche se all’epoca mi scolavo una bottiglia al giorno di qualsiasi cosa riuscissi a rimediare. Ma, come le ho sentito dire di me al telefono, ormai ero venuto in contatto con gli AA e sapevo a chi rivolgermi quando avessi veramente voluto aiuto. Ross aveva frequentato gli AA, ma poi si era rimesso a bere. Se devo dire come la penso, Cynthia aveva l’impressione che ci fossero piú speranze per lui che per me e perciò cercava di dargli una mano, quindi andava alle riunioni per restare sobria, poi passava a casa sua a preparargli da mangiare o a fargli le pulizie. I figli di lui, da quel punto di vista, non gli erano molto d’aiuto. In quella casa nessuno alzava un dito tranne Cynthia, quando ci andava. Ma meno i figli gli davano una mano, piú lui li amava. Strano. A me succedeva esattamente il contrario. In quel periodo, io i ragazzi li detestavo. Me ne stavo stravaccato sul divano col mio bicchiere di vodka e succo di pompelmo ed ecco che subito uno di loro tornava da scuola e sbatteva la porta di casa. Un pomeriggio mi sono messo a urlare e ho finito con l’azzuffarmi con mio figlio. Ha dovuto separarci Cynthia quando ho minacciato di farlo a pezzi. Gli ho detto che l’avrei ammazzato. Gli ho detto: – Io ti ho messo al mondo e io ti ci levo.
Follia. I ragazzi, Katy e Mike, erano fin troppo contenti di approfittare di questa situazione di sfacelo. Sembravano godere delle minacce e delle prepotenze che s’infliggevano tra loro e infliggevano anche a noi – della violenza e dello sgomento, del manicomio generale. Se ci ripenso adesso, anche a tanto tempo di distanza, il cuore ancora mi s’indurisce nei loro confronti. Mi ricordo che anni addietro, prima che mi mettessi a bere a tempo pieno, avevo letto una scena straordinaria in un romanzo di Italo Svevo. Il padre del narratore è sul letto di morte e la famiglia è radunata al suo capezzale, aspettando in lacrime che il vecchio spiri, quando lui apre gli occhi per guardare in faccia ciascuno di loro per l’ultima volta. Appena il suo sguardo cade sul narratore, improvvisamente ha un fremito e un lampo gli attraversa gli occhi; e con l’ultimo sprazzo di energia si solleva dal letto e molla uno schiaffo al figlio con tutta la forza che ha. Poi ricade sul letto e muore. A quei tempi immaginavo spesso la scena della mia morte e mi vedevo fare la stessa cosa, solo che speravo di avere la forza di schiaffeggiare entrambi i ragazzi e che le mie ultime parole per loro sarebbero state quelle che solo un morente potrebbe avere il coraggio di pronunciare.
Comunque loro erano circondati dalla follia e la cosa gli andava benissimo, ne ero convinto. Ci sguazzavano. Gli piaceva essere in grado di dominare la situazione, di stare in una posizione di forza, mentre noi continuavamo a incasinarci e a lasciare che loro si approfittassero dei nostri sensi di colpa. Magari ogni tanto ci rimettevano pure qualcosa, ma in generale le cose andavano come volevano loro. Non erano affatto imbarazzati o disgustati dalle cose che succedevano a casa nostra. Anzi. Gli fornivano spunti di conversazione con i loro amici. Li ho sentiti io stesso ammannire agli amichetti le storie piú terribili, piegandosi in due dalle risate mentre rivelavano i dettagli piú crudi di quello che succedeva a me e a mia moglie. A parte il fatto che economicamente dipendevano da Cynthia, che chissà come riusciva a mantenere il suo posto d’insegnante e un salario mensile, erano loro che dirigevano lo spettacolo. E uno spettacolo lo era davvero.
Una volta Mike ha tenuto la madre fuori di casa dopo che lei aveva passato la notte da Ross… Non mi ricordo dov’ero io quella notte, probabilmente da mia madre. Ogni tanto mi fermavo a dormire lí. Cenavamo insieme e lei mi diceva quanto stava in pensiero per tutti noi; poi guardavamo un po’ di televisione e cercavamo di parlare d’altro, di avere una conversazione normale su argomenti che non fossero la mia situazione famigliare. Quindi lei mi preparava il letto sul divano – lo stesso su cui amoreggiava, immaginavo, comunque ci dormivo lo stesso e gliene ero anche grato. Insomma, una mattina Cynthia è tornata a casa alle sette per cambiarsi e andare a scuola e ha scoperto che Mike aveva sbarrato tutte le porte e le finestre e le impediva di entrare in casa. Si è piazzata sotto la finestra della camera di Mike e lo scongiurava di lasciarla entrare – per favore, per favore, solo per cambiarsi e andare a scuola, perché se perdeva il posto cosa sarebbe successo? Come avrebbe fatto lui? Come avremmo fatto tutti? E lui rispondeva: – Tu non abiti piú qui. Perché mai dovrei lasciarti entrare? – Cosí le diceva, da dietro la finestra di camera sua, la faccia congestionata dalla rabbia. (Cynthia m’ha raccontato questa storia in seguito, una volta che lei era ubriaca e io sobrio e le tenevo le mani e la lasciavo sfogare). – Tu non abiti piú qui, – cosí le ha detto.
– Per favore, per favore, per favore, Mike, – lo scongiurava. – Fammi entrare.
Alla fine l’ha lasciata entrare e lei l’ha preso a male parole. E allora, come se niente fosse, Mike l’ha colpita forte sulle spalle diverse volte – bam, bam, bam – e poi le ha dato anche una botta in testa e insomma l’ha pestata ben bene. Alla fine lei è riuscita a cambiarsi, rifarsi il trucco e correre a scuola.
Tutte queste cose sono successe mica tanto tempo fa, un tre anni circa. All’epoca ne succedevano di tutti i colori.
Ho lasciato mia madre e il suo uomo sul divano e ho fatto un giretto in macchina perché non mi andava di tornare a casa, ma neanche di starmene seduto in un bar quel giorno.
Certe volte Cynthia e io facevamo delle lunghe chiacchierate – «per fare il punto della situazione», dicevamo. Ma di tanto in tanto, alla lunga, parlavamo anche di cose che con la situazione non avevano niente a che fare. Un pomeriggio eravamo in soggiorno e lei mi ha detto: – Quando ero incinta di Mike mi portavi in bagno le volte che stavo troppo male o quando ero troppo grossa per scendere dal letto. Allora mi ci portavi tu. Nessun altro rifarà mai una cosa del genere, nessuno mai potrà amarmi tanto e a quel modo. Qualsiasi cosa succeda, quello almeno ci resta. Ci siamo amati come nessun altro mai potrà amarsi.
Ci siamo guardati. Forse ci siamo sfiorati le mani, non ricordo. Poi mi è venuta in mente la mezza pinta di whiskey o vodka o gin o tequila che avevo nascosto sotto i cuscini del divano su cui eravamo seduti (oh, bei tempi!) e ho cominciato a sperare che presto si sarebbe alzata per fare qualcosa – andare in cucina, al bagno, fuori a ripulire il garage.
– Forse potresti fare un caffè, – le ho detto. – Un po’ di caffè ci starebbe proprio bene.
– Vuoi mangiare qualcosa? Una minestrina magari.
– Qualcosa si può anche mangiare, ma di sicuro una tazza di caffè me la farei.
E cosí lei è andata in cucina. Ho aspettato finché ho sentito che aveva aperto il rubinetto. Poi ho infilato la mano sotto i cuscini per prendere la bottiglia, l’ho stappata e ho bevuto.
Cose del genere non le ho mai raccontate alle riunioni degli AA. In quelle riunioni non dicevo un granché. «Passavo», come dicono quando tocca a te e tu non dici niente tranne: «Stasera passo, grazie». Però stavo ad ascoltare e scrollavo la testa e ridevo di complicità alle terribili storie che sentivo. Di solito andavo ubriaco a quelle prime riunioni. Si ha paura e c’è bisogno di qualcosa di piú che caffè istantaneo e biscottini.
Comunque, quelle chiacchierate sull’amore o sul passato erano piuttosto rare. Se parlavamo, discutevamo di cose pratiche, di sopravvivenza, di ciò che sta alla base di tutto: i soldi. Dove prenderemo i soldi? Stavano per staccare il telefono, luce e gas erano a rischio. E Katy? Ha bisogno di vestiti. Ha certi voti. Il suo ragazzo sta in una gang di motociclisti. E Mike. Cosa ne sarà di Mike? Cosa ne sarà di tutti noi? – Dio mio, – diceva lei. Ma Dio se ne strafregava. Ormai se n’era lavato le mani di noi.
Avrei voluto che Mike s’arruolasse nell’esercito, nella marina, nella guardia costiera. Era un ragazzo impossibile. Un soggetto pericoloso. Perfino Ross pensava che un po’ di militare gli avrebbe fatto bene. Me l’aveva riferito Cynthia, per niente contenta che le avesse detto cosí. A me invece aveva fatto piacere sentirlo e scoprire che su questo punto io e Ross eravamo d’accordo. L’ha fatto salire di una tacca nella mia stima. Ma a Cynthia non andava giú perché, nonostante fosse terribile avere Mike tra i piedi, nonostante la sua inclinazione alla violenza, lei era convinta che stesse semplicemente attraversando una fase passeggera. Non voleva che finisse nell’esercito. Però Ross le aveva detto che Mike sarebbe stato bene sotto le armi, dove avrebbe imparato il rispetto e le buone maniere. Glielo aveva detto dopo che s’erano presi a spintoni nel vialetto d’ingresso di casa sua alle prime luci del giorno e Mike l’aveva sbattuto a terra. Ross amava Cynthia, ma aveva anche una ragazza di ventidue anni che si chiamava Beverly e che era incinta di lui, anche se Ross assicurava a Cynthia che amava lei e non Beverly. Non andavano neanche piú a letto insieme, diceva a Cynthia, però Beverly aspettava un figlio suo e lui amava tutti i suoi figli, anche quelli non ancora nati, e perciò mica la poteva cacciar via a calci, no? Piangeva quando ha confidato tutto questo a Cynthia. Era ubriaco. (A quei tempi c’era sempre qualcuno ubriaco). Mi posso immaginare la scena.
Ross si era laureato al California Polytechnic Institute e aveva subito trovato lavoro al laboratorio della Nasa di Mountain View. È rimasto lí per dieci anni, fino a quando non gli è crollato tutto addosso. Come ho già detto, non l’ho mai incontrato di persona, ma abbiamo parlato per telefono diverse volte, ora di una cosa ora d’un’altra. Una volta l’ho chiamato che ero ubriaco e stavo avendo non so piú quale triste discussione con Cynthia. Ha risposto al telefono uno dei suoi figli e quando Ross ha preso la linea gli ho chiesto se aveva intenzione di mantenere lei e i ragazzi nel caso io gli avessi ceduto il passo (naturalmente non avevo alcuna intenzione di cedergli un bel niente, dicevo cosí, tanto per metterlo in difficoltà). Lui ha risposto che aveva l’arrosto da tagliare, proprio cosí ha detto, e che stavano per mettersi a tavola per cena, lui e i suoi figli. Magari mi poteva richiamare piú tardi? Ho riattaccato. Quando ha chiamato, un’oretta dopo, m’ero del tutto scordato della telefonata precedente. Ha risposto Cynthia e ha detto «Sí», e poi di nuovo «Sí», e ho capito subito che era Ross e che le aveva chiesto se per caso ero ubriaco. Allora ho afferrato la cornetta. – Insomma, li manterrai o no? – Lui ha detto che gli dispiaceva per la sua parte di responsabilità in tutta questa storia, ma secondo lui, no, pensava proprio di non potersi permettere di mantenerli. – Dunque la risposta è no, non puoi mantenerli, – ho detto, guardando Cynthia come se la cosa dovesse chiudere ogni discussione. Lui ha confermato: – Sí, la risposta è no –. E invece Cynthia non ha battuto ciglio. In seguito, ho riflettuto che dovevano aver già trattato la questione a fondo tra di loro e quindi per lei non era una sorpresa. Lo sapeva già.
È stato verso i trentacinque anni che è colato a picco. Ogni volta che capitava l’occasione lo prendevo in giro. Lo chiamavo «la Faina» per via della foto. – Ecco a chi somiglia l’amico di vostra madre, – dicevo ai ragazzi, quando c’erano e ci parlavamo, – a una faina –. Scoppiavamo a ridere. Oppure, «il Signor Aggiustatutto». Quello era il soprannome che preferivo. Dio ti benedica e ti conservi, Ross. Non ce l’ho piú con te, ormai. Ma all’epoca, quando lo chiamavo la Faina o il Signor Aggiustatutto e minacciavo di ammazzarlo, lui era una specie di eroe caduto per i miei figli e, immagino, anche per Cynthia perché aveva aiutato l’uomo ad arrivare sulla luna. Aveva collaborato, come mi avevano ripetuto piú di una volta, al progetto di allunaggio ed era amico intimo di Buzz Aldrin e Neil Armstrong. Aveva detto a Cynthia, che l’aveva detto ai ragazzi i quali a loro volta l’avevano detto a me, che quando gli astronauti sarebbero capitati in città glieli avrebbe presentati. Comunque non sono mai capitati in città o se l’hanno fatto, si sono dimenticati di avvertire Ross. Subito dopo il lancio delle sonde lunari la ruota della fortuna era girata e Ross s’era messo a bere di piú. Aveva cominciato ad assentarsi dal lavoro. È stato in quel periodo che sono cominciati i problemi con la prima moglie. Verso la fine ha iniziato a portarsi da bere in ufficio in un thermos. Quel laboratorio è modernissimo, l’ho visitato – ci sono tavole calde, sale da pranzo per dirigenti, il servizio completo, e poi macchinette automatiche per il caffè in ogni ufficio. Invece lui si portava il thermos da casa e dopo un po’ la gente se n’è accorta e ha cominciato a parlare. L’hanno licenziato, oppure ha dato lui le dimissioni – nessuno mi ha mai chiarito questo punto, quando l’ho chiesto. Naturalmente, aveva continuato a bere. Succede cosí. Poi s’era messo a lavorare sugli elettrodomestici rotti, a riparare televisori e ad aggiustare macchine. S’interessava di astrologia, di aure, di I Ching – cose del genere. Non ho dubbi che fosse intelligente quanto basta, e interessante ed eccentrico, lo erano quasi tutti i nostri ex amici. Come avevo detto anche a Cynthia, ero sicuro che non si sarebbe affezionata a lui (ancora non ero in grado di usare la parola «amore», allora, per descrivere la loro relazione) se non fosse stato, in fondo, un brav’uomo. «Uno dei nostri», lo definivo, cercando di fare il generoso. Non era certo malvagio e neanche cattivo, Ross. – Nessuno è cattivo, – ho detto una volta a Cynthia mentre discutevamo della mia, di relazione.
Mio padre è morto ubriaco nel sonno, otto anni fa. Era un venerdí sera e aveva cinquantaquattro anni. Era tornato a casa dal lavoro in segheria, aveva tirato fuori delle salsicce dal congelatore per la colazione dell’indomani e si era seduto al tavolo di cucina dove aveva stappato una bottiglia di Four Roses. In quel periodo era abbastanza su di morale, contento di essere tornato al lavoro dopo tre o quattro anni di disoccupazione per via di una setticemia e poi di qualcosa che gli avevano trattato con l’elettroshock. (In quel periodo ero già sposato e vivevo in un’altra città. Tra i ragazzi e il lavoro, avevo abbastanza guai per conto mio e perciò non potevo seguire i suoi troppo da vicino). Quella sera si è trasferito in soggiorno con la bottiglia, una ciotola di cubetti di ghiaccio e un bicchiere, a bere e a guardare la Tv fin quando mia madre è tornata dal suo lavoro alla caffetteria.
S’erano messi a litigare per via del whiskey, come al solito. Lei non beveva molto. Da adulto, l’ho vista bere solo al giorno del Ringraziamento, a Natale e a Capodanno – rum al burro o allo zabaione, e comunque non esagerava mai neanche con quelli. L’unica volta che aveva bevuto troppo, anni prima (l’ho sentito dire da mio padre, che scoppiava sempre a ridere quando lo raccontava), era stato quando se n’erano andati in un posticino vicino Eureka e lei aveva buttato giú troppi whiskey al limone. Al momento di risalire in macchina per tornare a casa s’era sentita male e aveva dovuto aprire la portiera per vomitare. In un modo o nell’altro, le era caduta la dentiera, la macchina era andata un po’ avanti e l’apparecchio era finito sotto una ruota. Dopo quella volta, non aveva piú bevuto tranne nelle feste comandate, e mai troppo.
Quel venerdí sera mio padre aveva continuato a bere e a fare del suo meglio per ignorare le proteste di mia madre, che s’era rifugiata a fumare in cucina dove tentava di scrivere una lettera alla sorella che viveva a Little Rock. Alla fine, lui s’era alzato ed era andato a letto. Mia madre l’ha raggiunto poco piú tardi, dopo essersi assicurata che lui dormisse già. In seguito ha raccontato di non aver notato niente di strano, tranne forse che russava in modo piú forte e pesante del solito e non era riuscito a farlo girare su un fianco. Comunque, s’era addormentata. Si è svegliata quando gli sfinteri e la vescica di mio padre hanno ceduto. Spuntava l’alba. Gli uccelli cantavano. Mio padre era ancora supino, con gli occhi chiusi e la bocca spalancata. Mia madre l’ha guardato e ha gridato il suo nome.
Ho continuato il mio giro in macchina. Ormai s’era fatto buio. Sono passato davanti a casa mia, dove tutte le luci erano accese, ma la macchina di Cynthia non era parcheggiata nel vialetto. Sono andato in un bar dove a volte mi fermo a bere e ho chiamato casa. Mi ha risposto Katy e ha detto che la madre non c’era e io che fine avevo fatto? Aveva bisogno di cinque dollari. Le ho urlato qualcosa e ho riattaccato. Poi ho chiamato, a carico suo, una donna che abitava a mille chilometri di distanza e che non vedevo da mesi, una brava donna che aveva detto che avrebbe pregato per me, l’ultima volta che l’avevo vista.
Ha accettato l’addebito. Mi ha chiesto da dove stavo chiamando. Mi ha chiesto come stavo. – Stai bene? – ha detto.
Abbiamo chiacchierato un po’. Le ho domandato del marito. Era stato un mio amico e ora viveva lontano da lei e dai suoi figli.
– Lui sta ancora a Richland, – ha detto lei. – Ma come mai ci è capitato tutto questo? – ha proseguito. – Eravamo brave persone –. Abbiamo chiacchierato un altro po’, poi mi ha detto che mi voleva ancora bene e che avrebbe continuato a pregare per me.
– Prega per me, – ho detto io. – Sí –. Poi ci siamo salutati e ho riattaccato.
Piú tardi ho richiamato casa, ma stavolta non mi ha risposto nessuno. Ho fatto il numero di mia madre. Ha tirato su al primo squillo, con una voce cauta, come se si aspettasse qualche problema. – Sono io, – ho detto. – Mi dispiace disturbarti.
– No, no, tesoro, ero ancora in piedi, – ha detto lei. – E tu dove sei? È successo qualcosa? Credevo saresti passato oggi. Ti ho cercato. Telefoni da casa?
– No, non sono a casa, – ho detto. – Non so che fine hanno fatto tutti là. Ho appena chiamato.
– Il vecchio Ken mi è venuto a trovare, oggi, – ha continuato lei, – quel vecchio bastardo. È passato questo pomeriggio. Non s’è fatto vedere per tutto il mese e poi oggi è ricomparso, il vecchiaccio. Non mi piace. Tutto quello che vuole fare è parlare di se stesso e vantarsi d’aver vissuto a Guam dove aveva tre ragazze contemporaneamente e di aver viaggiato di qua e di là. È solo un vecchio fanfarone, ecco che cos’è. L’ho incontrato a quel ballo che t’ho detto, ma non mi piace.
– Va bene se vengo adesso? – ho chiesto.
– Ma sí, tesoro, perché no? Preparo qualcosa da mangiare. Ho fame anch’io. Non ho mangiato niente da questo pomeriggio. Il vecchio Ken ha portato del pollo fritto oggi pomeriggio. Vieni che ti preparo un po’ di uova strapazzate. Vuoi che venga a prenderti io? Tesoro, va tutto bene?
Ho guidato fin da lei. Quando sono entrato, mi ha baciato. Ho girato la faccia. Non volevo che sentisse l’odore di vodka. La televisione era accesa.
– Lavati le mani, – mi ha detto, squadrandomi bene. – È pronto.
Dopo mi ha preparato il letto sul divano. Sono andato al bagno. Ci teneva un vecchio pigiama di papà. L’ho tirato fuori dal cassetto, l’ho guardato e ho cominciato a spogliarmi. Quando sono uscito, lei era in cucina. Mi sono sistemato il cuscino e mi sono steso. Lei ha finito quello che stava facendo, ha spento la luce in cucina e si è seduta in fondo al divano.
– Tesoro, non vorrei essere io quella che te lo dice, – ha iniziato. – Mi fa male dirtelo, ma ormai lo sanno anche i ragazzi e me l’hanno detto. Ne abbiamo parlato. Il fatto è che Cynthia si vede con un altro.
– È tutto a posto, – ho detto io. – Lo so, – ho detto, guardando la Tv. – Si chiama Ross ed è alcolizzato. Proprio come me.
– Tesoro, bisogna che fai qualcosa per te stesso, – ha detto lei.
– Lo so, – ho risposto. Ho continuato a fissare la Tv.
Si è chinata e mi ha abbracciato. Mi ha tenuto qualche attimo stretto. Poi mi ha lasciato e si è asciugata gli occhi.
– Domattina ti sveglio io, – ha detto.
– Non ho molto da fare, domani. Magari me la prendo comoda dopo che sei uscita –. Pensavo: Aspetto che ti alzi, che vai in bagno e ti vesti, poi mi trasferisco nel tuo letto e me ne sto lí a sonnecchiare e ad ascoltare la tua radio della cucina che dà le notizie e le previsioni del tempo.
– Tesoro, sono cosí in pensiero per te.
– Non ti preoccupare, – ho detto io, scuotendo la testa.
– Adesso riposati un po’, – ha detto lei. – Hai bisogno di dormire.
– Dormirò. Ho un gran sonno.
E lei: – Guarda pure la Tv quanto vuoi.
Ho fatto sí con la testa. Si è chinata a baciarmi. Le sue labbra sembravano livide e un po’ tumefatte. Mi ha rimboccato le coperte. Poi è andata in camera sua. Ha lasciato la porta aperta e dopo un attimo ho sentito che russava già.
Sono rimasto disteso a fissare lo schermo. Scorrevano immagini di uomini in uniforme, un mormorio sommesso, poi carri armati e un uomo con un lanciafiamme. Non sentivo niente, ma non mi andava di alzarmi. Ho continuato a fissare lo schermo finché hanno cominciato a chiudermisi gli occhi. Ma è lí che mi sono risvegliato in un sussulto, con il pigiama madido di sudore. Una luce nevosa riempiva la stanza. Un ruggito che m’assaliva. Frastuono dappertutto. Io sono rimasto disteso lí. Non mi sono mosso.