mercoledì 25 dicembre 2019

STONER
John Williams
Fazi
Questo libro è dedicato agli amici ed ex colleghi del dipartimento di Inglese dell’Università del Missouri. Essi noteranno subito che si tratta di un libro di finzione, che nessuno dei personaggi qui ritratti si ispira a persone realmente esistite o esistenti, e che nessuno dei fatti raccontati ha un corrispettivo nella realtà che abbiamo conosciuto all’Università del Missouri. Capiranno anche che mi sono preso alcune libertà, sia fisiche che storiche, rispetto alla stessa Università del Missouri, che è divenuta a sua volta un luogo immaginario.

Uno
William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido. Quando morì, i colleghi donarono alla biblioteca dell’università un manoscritto medievale, in segno di ricordo. Il manoscritto si trova ancora oggi nella sezione dei “Libri rari”, con la dedica: «Donato alla Biblioteca dell’Università del Missouri in memoria di William Stoner, dipartimento di Inglese. I suoi colleghi».
Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale. I colleghi di Stoner, che da vivo non l’avevano mai stimato gran che, oggi ne parlano raramente; per i più vecchi il suo nome è il monito della fine che li attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono, che non evoca alcun passato o identità particolare cui associare loro stessi o le loro carriere.

Era nato nel 1891 in una piccola fattoria al centro del Missouri, vicino a Booneville, un paesino a circa quaranta miglia da Columbia, sede dell’università. Benché i suoi genitori, all’epoca, fossero ancora giovani – suo padre aveva venticinque anni, sua madre neppure venti –, Stoner, fin da piccolo, aveva sempre pensato che fossero anziani. A trent’anni, suo padre ne dimostrava già cinquanta; piegato dalla fatica, fissava disperato l’arido pezzo di terra che di anno in anno dava da campare alla sua famiglia. Sua madre sopportava la vita con pazienza, come una lunga disgrazia destinata a finire. Aveva gli occhi pallidi e opachi, con intorno delle piccole rughe evidenziate dai capelli grigi e sottili, tirati sul capo e raccolti in una crocchia dietro alla testa.
Per quel che ricordava, William Stoner aveva dato sempre una mano in casa. A sei anni già mungeva le loro vacche ossute, dava da mangiare ai maiali nel porcile a poche iarde da casa, e raccoglieva le minuscole uova delle vecchie galline del pollaio. E anche quando aveva cominciato a frequentare la scuola di campagna, che distava otto miglia dalla fattoria, le sue giornate, dall’alba al tramonto, erano piene di incombenze di ogni tipo. A diciassette anni, le sue spalle avevano già iniziato a curvarsi sotto il peso delle cose da fare.
Erano una famiglia solitaria – e lui era l’unico figlio – tenuta insieme dalla necessità della fatica. La sera sedevano tutti e tre nella piccola cucina illuminata da un’unica lampada a cherosene a guardare la fiamma gialla: spesso, durante quell’oretta di pausa tra la cena e il letto, l’unico suono era quello di un corpo che si muoveva con fatica su una sedia, o il leggero scricchiolio di una trave che cedeva un poco sotto il peso degli anni.
10
La casa era rudimentale, e le assi di legno grezzo cominciavano a curvarsi intorno alla veranda e alle porte. Con gli anni aveva preso i colori della terra arida, grigio e marrone screziato di bianco. Su un lato c’era un lungo soggiorno, con delle sedie rigide e qualche tavolino sbozzato, e la cucina, dove la famiglia trascorreva la maggior parte del poco tempo insieme. Sull’altro lato c’erano due stanze da notte, ciascuna con un letto di ferro verniciato di bianco, una sedia rigida e un tavolinetto con sopra una lampada e un catino per lavarsi. I pavimenti erano di tavole di legno grezzo, disposte in modo irregolare e piene di fessure causate dal tempo, in cui la polvere filtrava costantemente e ogni giorno veniva spazzata via dalla madre di Stoner.
A scuola seguiva le lezioni come se fossero mansioni appena meno sfiancanti di quelle che svolgeva nella fattoria. Quando finì le superiori, nella primavera del 1910, si aspettava che il lavoro nei campi sarebbe aumentato; gli pareva che suo padre diventasse sempre più lento e stanco col passare dei mesi.
Ma una sera di fine primavera, dopo un’intera giornata trascorsa insieme a zappare il grano, suo padre gli parlò in cucina, una volta lavati i piatti della cena.
«La settimana scorsa è venuto a trovarci l’ispettore della contea».
William alzò gli occhi dall’incerata a scacchi bianchi e rossi stesa dolcemente sul tavolo rotondo della cucina. Non parlò.
«Dice che c’è una nuova facoltà all’Università di Columbia. La chiamano “Agraria”. Dice che secondo lui ci dovresti andare. Dura quattro anni».
«Quattro anni», disse William. «Costa molti soldi?».
11
«Potresti lavorare per pagarti il vitto e l’alloggio», disse suo padre. «Tua madre ha un cugino carnale che vive giusto a due passi da Columbia. Poi ci sarebbero i libri e tutto il resto. Io potrei mandarti due o tre dollari al mese».
William aprì le mani sull’incerata, che alla luce della lampada baluginava un poco. Non era mai andato più lontano di Booneville, a quindici miglia da casa. Deglutì per dar forza alla voce.
«Credi di potertela cavare da solo?», domandò.
«Tua madre e io possiamo cavarcela. Sulle venti iarde che restano ci pianterò il grano, così ci sarà meno lavoro da fare».
William guardò la donna. «Mamma?», chiese.
Lei disse senza vigore: «Fai quello che dice papà».
«Vuoi davvero che vada?», fece come se sperasse quasi in un rifiuto. «È questo che vuoi?».
Suo padre spostò il peso sulla sedia. Si guardò le dita, tozze e callose, nei cui tagli la terra era penetrata così a fondo che non si poteva più lavarla via. Incrociò le dita e le alzò dal tavolo, come in preghiera.
«Io a scuola è come se non ci fossi mai andato», disse, guardandosi le mani. «Ho cominciato a lavorare nei campi quando ho finito la quinta elementare. Da ragazzo non ho proseguito gli studi. Ma oggi non so. Ogni anno mi sembra che la terra si faccia sempre più secca e dura da lavorare, non è buona come quand’ero giovane. L’ispettore della contea dice che adesso hanno delle idee nuove, dei modi di fare le cose che ti insegnano all’università. Forse ha ragione. Certe volte mentre lavoro nei campi, arrivo a pensare…». Si fermò. Le dita si strinsero tra loro e le mani intrecciate ricaddero sul tavolo. «Arrivo a pensare…». Si guardò le mani accigliato e
12
scosse la testa. «In autunno andrai all’università. Tua madre e io ce la caveremo».
Era il discorso più lungo che aveva mai sentito fare a suo padre. Quell’autunno andò a Columbia e si iscrisse all’università, immatricolandosi presso la facoltà di Agraria.
Arrivò a Columbia con un completo di panno nero nuovo ordinato dal catalogo di Sears & Roebuck e pagato con i risparmi di sua madre, un vecchio cappotto pesante che era appartenuto a suo padre, il paio di pantaloni di saia blu che indossava una volta al mese per recarsi alla chiesa metodista di Booneville, due camicie bianche, due cambi di abiti da lavoro e venticinque dollari in contanti che suo padre aveva chiesto in prestito a un vicino in cambio del grano raccolto in autunno. Partì a piedi da Booneville, dove sua madre e suo padre l’avevano accompagnato di buon mattino col carretto trainato dal mulo della fattoria.
Era una giornata calda e la strada da Booneville a Columbia era polverosa: camminò per circa un’ora, finché un carretto non gli si affiancò e il conducente gli chiese se voleva un passaggio. Lui annuì e salì a bordo. Aveva i pantaloni di saia rossi di polvere fino alle ginocchia, e la sua faccia, già abbronzata dal sole e dal vento, in certi punti s’era incrostata di sporco, perché la terra della strada si era mischiata al sudore. Per tutto il viaggio continuò a battersi i calzoni con le mani e a passarsi le dita tra i capelli irti e polverosi, che non ne volevano sapere di tornare giù.
Giunsero a Columbia nel tardo pomeriggio. Il conducente lasciò Stoner alle porte della cittadina e gli indicò un gruppo di edifici, cui facevano ombra degli olmi al-
13
tissimi. «Quella è la tua università», gli disse. «È lì che andrai a scuola».
Per vari minuti, dopo che il carretto si fu allontanato, Stoner rimase immobile a fissare il complesso di edifici. Non aveva mai visto nulla di così imponente. I palazzi di mattoni rossi si stagliavano su un ampio prato verde, rotto da sentieri di pietra e piccole aiuole. Al cospetto di tanta magnificenza, d’un tratto provò un senso di sicurezza e serenità che non aveva mai sentito prima. Benché fosse tardi, camminò a lungo intorno all’istituto, solo per guardare, quasi non avesse il diritto di entrarvi.
Era ormai buio quando chiese a un passante indicazioni per Ashland Gravel, la strada che portava alla fattoria di Jim Foote, il cugino carnale di sua madre presso cui doveva entrare a servizio; ed era già notte quando raggiunse la casa di legno a due piani dove sarebbe andato ad abitare. Era la prima volta che incontrava i Foote e gli sembrava strano presentarsi da loro così tardi.
Lo salutarono con un cenno del capo, studiandolo attentamente. Dopo un istante, durante il quale Stoner, molto a disagio, rimase sulla porta, Jim Foote lo fece accomodare in un salottino pieno zeppo di mobili e chincaglierie che baluginavano appena nel buio. Non si sedette.
«Hai cenato?», chiese Foote.
«No, signore», rispose Stoner.
Mrs Foote gli accennò di seguirla e s’avviò felpata in corridoio. Stoner la seguì lungo varie stanze fino alla cucina, dove lei lo fece sedere a un tavolo. Poi gli mise davanti una brocca di latte e alcune fette di focaccia di granturco. Stoner sorseggiò un po’ di latte, ma avendo la bocca secca per l’agitazione, non toccò la focaccia.
14
Foote entrò nella stanza e si fermò accanto alla moglie. Era un uomo basso, non più di un metro e sessanta, con il viso smunto e il naso affilato. Sua moglie era più alta di una decina di centimetri, e grossa; portava degli occhiali senza montatura che le nascondevano gli occhi, e aveva le labbra strette e sottili. Rimasero a guardarlo famelici mentre sorseggiava il latte.
«La mattina darai da mangiare e da bere alle bestie, e baderai ai maiali», disse rapidamente Foote.
Stoner lo guardò inespressivo: «Come?».
«La mattina farai questo», disse Foote, «prima di andare a scuola. La sera lo stesso, e in più raccoglierai le uova e mungerai le vacche. Nel tempo libero taglierai la legna. E nel fine settimana mi aiuterai a fare quello che capita».
«Sì, signore», disse Stoner.
Foote lo squadrò per un momento. «L’università», disse, e scosse la testa.
Così per nove mesi, in cambio di vitto e alloggio, Stoner diede da bere e da mangiare alle bestie, badò ai maiali, raccolse le uova, munse le vacche e tagliò la legna. Inoltre arò ed erpicò i campi, sradicò i ceppi (d’inverno, affondato in dieci centimetri di terra ghiacciata) e girò la zangola per fare il burro per Mrs Foote, che se ne stava a guardarlo arcigna, annuendo in segno di approvazione, mentre la zangola di legno sguazzava su e giù nel latte.
Venne alloggiato al piano superiore, dove prima c’era un ripostiglio. I soli mobili a sua disposizione erano il letto, con un telaio di ferro nero sfondato che sosteneva un sottilissimo materasso di piume, un tavolo rotto con sopra una lampada a cherosene, una sedia rigida che poggiava sghemba sul pavimento e uno scatolone che
15
usava come scrivania. D’inverno, l’unico calore era quello che filtrava dalle stanze di sotto attraverso il pavimento; Stoner si copriva con le vecchie trapunte lacere che gli avevano lasciato soffiandosi sulle mani per girare le pagine dei libri senza strapparle.
Faceva il suo dovere all’università come alla fattoria – accuratamente, coscienziosamente, senza piacere né pena. Alla fine del primo anno, la sua media era appena sotto la B; era contento che non fosse più bassa e non si crucciava del fatto che non fosse più alta. Era consapevole di aver imparato cose che prima non sapeva, ma ciò per lui significava solo che nel secondo anno avrebbe potuto far bene come nel primo.
L’estate del primo anno tornò alla fattoria di suo padre e lo aiutò col raccolto. Una volta l’uomo gli chiese se gli piaceva andare a scuola, e lui ripose di sì. Suo padre annuì e non tornò più sulla questione.
Fu solo nel corso del secondo anno che William Stoner capì perché si era iscritto all’università.
Dopo il secondo anno lo conoscevano tutti. Qualsiasi fosse la stagione, indossava sempre lo stesso completo di panno nero, con la camicia bianca e la cravatta; i polsi gli spuntavano dalle maniche della giacca e i calzoni gli cadevano goffi sulle gambe, come se portasse gli abiti di qualcun altro.
Le ore di lavoro aumentavano insieme all’indolenza del padrone di casa, e Stoner trascorreva le lunghe serate a fare i compiti nella sua stanza. Aveva intrapreso il corso di studi che lo avrebbe portato alla laurea in Scienze presso la facoltà di Agraria, e durante il primo semestre del secondo anno doveva sostenere due esami fon-
16
damentali, uno di chimica del suolo per Agraria, e un altro quasi richiesto pro forma a tutti gli studenti dell’università: un esame semestrale di letteratura inglese.
Dopo le prime settimane, cominciò ad avere qualche difficoltà con i corsi di scienze; c’era così tanto da studiare, così tante cose da mandare a memoria. Il corso di chimica del suolo, nel complesso, lo interessava; non gli era mai passato per la mente che le zolle marroni su cui aveva lavorato tutta la vita potessero essere altro da ciò che sembravano, e cominciò a intuire che il fatto di conoscerle meglio gli sarebbe tornato utile una volta rientrato alla fattoria di suo padre. Ma era l’esame di letteratura inglese a creargli i problemi maggiori, turbandolo come mai gli era accaduto prima.
Il professore era un uomo di mezza età, poco più che cinquantenne. Si chiamava Archer Sloane e svolgeva il suo incarico di insegnante con un’aria di apparente sdegno e disprezzo, come se avvertisse, tra il suo sapere e la possibilità di trasmetterlo, un abisso così profondo che era inutile tentare di colmarlo. La gran parte dei suoi studenti lo temeva e lo trovava antipatico, e lui reagiva con distaccata ironia. Era di statura media, con il viso lungo e profondamente segnato, rasato con cura; spesso, con un gesto nervoso, si passava le dita tra i folti riccioli grigi. La voce era secca e monocorde e gli usciva dalle labbra quasi immobili, senza espressione o intonazione, mentre le sue lunghe dita sottili si muovevano con grazia e decisione, come per restituire alle parole quella forma che la voce non riusciva a dargli.
Quand’era lontano dalla classe, a svolgere le sue mansioni in giro per la fattoria, o a strizzare gli occhi alla luce fioca della lampada, studiando nella soffitta senza fi-
17
nestre, Stoner spesso si rendeva conto che l’immagine di quell’uomo si stagliava nitida nei suoi pensieri. Mentre faticava a ricordare i volti degli altri insegnanti, o a rievocare certi dettagli delle lezioni, la figura di Archer Sloane era sempre lì ad attenderlo sulla soglia della coscienza, insieme alla sua voce secca e ai commenti sprezzanti che lanciava di tanto in tanto su qualche passo di Beowulf, o su qualche distico di Chaucer.
Capì che non poteva gestire l’esame di letteratura inglese come faceva con gli altri corsi. Pur ricordando i nomi degli autori, i titoli, le date e l’importanza delle loro opere, per poco non venne respinto alla prima sessione; e la seconda andò poco meglio. Passava così tanto tempo a leggere e rileggere i testi di letteratura che il suo rendimento negli altri corsi cominciò a soffrirne. Eppure le parole che leggeva restavano dei meri caratteri impressi sulle pagine, e non riusciva a comprendere il senso di quel che faceva.
Continuava a riflettere sulle parole che Archer Sloane diceva in classe, come se sotto al loro piatto significato si nascondesse una chiave che l’avrebbe condotto lì dove doveva andare. Proteso in avanti sulla seggiola, troppo piccola per sostenerlo in modo confortevole, afferrava i bordi del banco con tanta forza che le falangi gli si stagliavano bianche sulla pelle ruvida e bruna mentre aggrottava la fronte attentissimo e si mordeva il labbro inferiore. Ma più l’attenzione di Stoner e dei suoi compagni andava crescendo, più aumentava il disprezzo di Archer Sloane. E, una volta, quel disprezzo sfociò nell’ira, destinata interamente a William Stoner.
La classe aveva letto due drammi di Shakespeare e stava concludendo la settimana con lo studio dei sonetti.
18
Gli studenti erano confusi e nervosi, quasi spaventati dalla tensione crescente tra loro e quella figura dinoccolata che li scrutava da dietro la cattedra. Sloane aveva appena declamato ad alta voce il settantatreesimo sonetto; ora i suoi occhi erravano per la stanza e le labbra erano serrate in un sorriso privo di ironia.
«Cosa significa il sonetto?», chiese all’improvviso. Poi tacque, scrutando l’aula con torva, quasi compiaciuta disperazione. «Mr Wilbur?». Non vi fu risposta. «Mr Schmidt?». Qualcuno tossì. Sloane posò i suoi occhi scuri e scintillanti su Stoner. «Mr Stoner, cosa significa il sonetto?».
Stoner deglutì e cercò di aprire la bocca.
«È un sonetto, Mr Stoner», disse secco Sloane, «una composizione poetica di quattordici versi, con una struttura esatta che sono certo lei abbia memorizzato. È scritto in inglese, lingua che credo parli da qualche anno. Il suo autore è William Shakespeare, un poeta ormai morto, che tuttavia occupa una posizione di una qualche importanza nella mente di pochi». Guardò Stoner ancora per un momento, poi i suoi occhi divennero come ciechi, mentre fissavano un punto invisibile oltre la classe. Senza leggere dal libro ripeté di nuovo la poesia; e la sua voce si fece più profonda e più dolce, come se le parole, i suoni e la metrica si fossero per un istante incarnate in lui:
In me tu vedi quel periodo dell’anno
Quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono su quei rami che fremon contro il freddo, nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli. In me tu vedi il crepuscolo di un giorno che dopo il tramonto svanisce all’occidente
19
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia, ombra di quella vita che tutto confina in pace. In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco che si estingue fra le ceneri della sua gioventù come in un letto di morte su cui dovrà spirare, consunto da ciò che fu il suo nutrimento. Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.1
Vi fu un istante di silenzio, qualcuno si schiarì la voce. Sloane ripeté di nuovo i versi, stavolta con un tono più piatto, il suo tono di sempre.
Questo tu vedi, che fa il tuo amore più forte, a degnamente amare chi presto ti verrà meno.
Guardò di nuovo William Stoner e disse brusco: «Shakespeare le parla attraverso tre secoli di storia, Mr Stoner. Riesce a sentirlo?».
William Stoner si rese conto che stava trattenendo il fiato da un pezzo. Espirò dolcemente, sentendo con chiarezza i vestiti che gli si muovevano sul corpo via via che l’aria usciva dai polmoni. Distolse lo sguardo da Sloane e osservò la stanza. La luce entrava di taglio dalle finestre posandosi sui volti dei suoi compagni, che parevano illuminarsi dall’interno, stagliandosi nel buio. Uno studente strizzò gli occhi e un’ombra sottile gli si posò sulla guancia, la cui parte inferiore era esposta al sole. Stoner si accorse che le sue dita stavano allentando la presa dal bordo del banco. Voltò i palmi e si guardò le mani, stupendosi di quanto fossero scure e del modo perfetto con cui le unghie si adattassero alle estremità delle dita;
20
gli sembrò di sentire il sangue scorrere in tutte quelle arterie e venuzze, pulsando lieve e incerto dalle falangi fino al resto del corpo.
Sloane intanto aveva ripreso a parlare. «Cosa le sta dicendo, Mr Stoner? Cosa significa questo sonetto?».
Stoner alzò lo sguardo con lentezza, riluttante. «Significa», disse, e sollevò le mani in aria con un gesto vago; sentì che il suo sguardo si faceva vitreo, mentre cercava con gli occhi la figura di Archer Sloane. «Significa», ripeté, e non riuscì a terminare la frase.
Sloane lo guardò incuriosito. Poi annuì bruscamente e disse: «L’ora è finita». E senza guardare nessuno si voltò e uscì dalla classe.
William Stoner quasi non si accorse che i suoi compagni si alzavano borbottando dalle sedie e uscivano disordinatamente dall’aula. Per molti minuti restò seduto e immobile a fissare le assi del pavimento, con la vernice ormai scrostata dall’incessante via vai di chissà quanti studenti che lui non aveva mai visto né conosciuto. Fece scivolare i piedi sotto il banco e sentì il legno che raschiava contro le suole, avvertendone la ruvidità oltre il cuoio. Poi anche lui si alzò e uscì lentamente.
Il freddo tagliente di quella giornata di fine autunno gli trapassava i vestiti. Si guardò intorno, scorgendo i rami nodosi degli alberi sghembi contro il cielo pallido. Alcuni studenti, che attraversavano di corsa il cortile diretti alle loro classi, gli sfilarono accanto sfiorandolo; sentì il mormorio delle loro voci e il ticchettio dei tacchi sull’acciottolato, e vide i loro visi, arrossati dal freddo, la fronte bassa per ripararsi dal vento. Li osservò con curiosità, come se non li avesse mai visti prima, e si sentì a un tempo molto vicino e molto distante da loro.
21
Trattenne quella sensazione mentre correva in classe per la lezione seguente, e poi ancora per tutta l’ora di chimica del suolo, mentre la voce del professore gli ronzava nelle orecchie ripetendo nozioni da annotare e mandare a memoria, con una fatica che cominciava a risultargli estranea.
Nel secondo semestre di quell’anno William Stoner smise di seguire i corsi di scienze e interruppe gli studi di Agraria; cominciò a frequentare il corso introduttivo di filosofia e quello di storia antica oltre ai due corsi di letteratura inglese. L’estate tornò alla fattoria dei suoi e aiutò suo padre col raccolto, senza mai accennare all’università.
Una volta adulto, gli capitava di pensare a quei due anni come a un periodo irreale, appartenuto a qualcun altro, che non era trascorso secondo i ritmi regolari cui era abituato, ma per sussulti e strappi. Ogni momento era giustapposto all’altro eppure isolato dal resto, e gli sembrava di essere fuori dal tempo e di vederselo scorrere davanti come un grande diorama deformato.
Acquistò una consapevolezza di sé che non aveva mai avuto prima. A volte si osservava allo specchio, contemplava il suo viso lungo e la criniera di capelli crespi, si sfiorava gli zigomi aguzzi; si guardava i polsi, che sporgevano di vari centimetri dalle maniche della giacca, e si chiedeva se anche gli altri lo trovavano tanto ridicolo.
Non aveva progetti per il futuro e non parlava con nessuno delle sue incertezze. Continuava a lavorare per pagarsi il vitto e l’alloggio, ma non come nei primi due anni di università. Concedeva a Jim e a Serena Foote di sfruttarlo come meglio credevano per tre ore ogni po-
22
meriggio e mezza giornata nel fine settimana, ma il resto del tempo lo teneva per sé.
Ne trascorreva una parte nella piccola soffitta in cima alla casa, ma appena poteva, finite le lezioni e il lavoro alla fattoria, tornava all’università. Certe volte, di sera, vagava per il lungo cortile quadrangolare, tra le coppiette che passeggiavano mano nella mano, sussurrando parole gentili. Pur non conoscendole, pur non rivolgendogli mai la parola, le sentiva molto vicine. A volte si fermava al centro del quadrilatero, a contemplare le cinque colonne della Jesse Hall che si ergevano possenti dall’erba gelida contro la notte. Aveva scoperto che quelle colonne erano i resti del corpo originario dell’università, distrutto molti anni addietro da un incendio. Verdi e argento alla luce della luna, nude e pure, gli sembrava che rappresentassero la vita che aveva scelto, proprio come un tempio rappresenta un dio.
Vagava per i corridoi della biblioteca dell’università, in mezzo a migliaia di libri, inalando l’odore stantio del cuoio e della tela delle vecchie pagine, come se fosse un incenso esotico.
Certe volte si fermava, prendeva un volume da uno scaffale e lo teneva per un istante tra le sue manone, che vibravano al contatto ancora insolito con il dorso e il bordo e le pagine docili. Poi cominciava a sfogliarlo, leggendo qualche paragrafo qua e là, e le sue dita rigide giravano le pagine con infinita attenzione, quasi timorose di distruggere, con la loro rozzezza, ciò che avevano scoperto con tanta fatica.
Non aveva amici, e per la prima volta nella vita prese coscienza della solitudine. Certe notti, in soffitta, alzava gli occhi dal libro e contemplava gli angoli bui della
23
stanza, dove la luce della lampada guizzava tra le ombre. Se la fissava a lungo e attentamente, l’oscurità si condensava in una luce che acquistava la forma impalpabile di ciò che stava leggendo. E allora si sentiva fuori dal tempo, proprio come si era sentito quel giorno in cui Archer Sloane gli aveva parlato. Il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. Tristano e la dolce Isotta gli sfilavano sotto gli occhi; Paolo e Francesca vorticavano nel buio incandescente; Elena e il radioso Paride, amareggiati dalle conseguenze del loro gesto, spuntavano dal buio. E Stoner li sentiva più vicini dei suoi stessi compagni, che si spostavano da una classe all’altra, alloggiando presso una grande università a Columbia, nel Missouri, e che camminavano distratti nell’aria del Midwest.
In un anno imparò il greco e il latino, quanto bastava per leggere i testi più semplici; aveva spesso gli occhi rossi e irritati per la fatica e la mancanza di sonno. Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo. Poi pensava ai suoi genitori, li sentiva estranei quanto il figlio che avevano generato e avvertiva per loro un misto di pietà e amore distante.
Un giorno, verso la metà del suo quarto anno di studi, Archer Sloane lo fermò dopo la lezione e gli chiese di recarsi nel suo ufficio per fare due chiacchiere.
Era inverno, e una bassa nebbiolina umida proveniente dal Midwest indugiava sul campus. Anche a mezzo-
24
giorno i rami sottili del corniolo luccicavano di brina e l’edera nera che strisciava sulle grandi colonne davanti alla Jesse Hall era bordata di cristalli iridescenti che brillavano nell’aria grigia. Il suo cappotto era così logoro e cencioso che Stoner aveva deciso di non indossarlo per l’incontro con Sloane, anche se fuori si gelava. Tremando, attraversò di corsa il viale e salì i grandi scalini di pietra che portavano alla Jesse Hall.
Dopo tanto freddo, il calore dentro all’edificio gli parve intenso. La nebbia gocciolava sulle finestre e sulle porte a vetri di entrambi i lati della sala, tanto che le piastrelle dorate del pavimento brillavano più intensamente della luce grigia che le sovrastava, e le colonne di legno di quercia e le pareti lucide scintillavano oscure. Passi confusi strisciavano sul pavimento e il mormorio delle voci era attutito dalla vastità della sala. Pallide figure si muovevano lente, fondendosi o separandosi l’una dall’altra mentre l’aria opprimente tratteneva l’odore della cera e del legno umido delle pareti. Stoner salì le lisce scale di marmo che portavano al secondo piano, dov’era l’ufficio di Archer Sloane. Bussò alla porta, sentì una voce, ed entrò.
L’ufficio era lungo e stretto, illuminato da un’unica finestra in fondo. Scaffali carichi di libri si ergevano verso il soffitto altissimo. Incastrata accanto alla finestra c’era una scrivania davanti alla quale, quasi di profilo, si stagliava oscuro Archer Sloane.
«Mr Stoner», disse con tono asciutto, alzandosi appena e indicando una sedia rivestita in pelle davanti a lui. Stoner si sedette.
«Ho dato uno sguardo al suo curriculum». Fece una pausa e sollevò un fascicolo dalla scrivania, contemplan-
25
dolo con distaccato sarcasmo. «Spero che perdonerà la mia curiosità».
Stoner si bagnò le labbra e spostò il peso sulla sedia. Congiunse le grosse mani nella speranza di renderle invisibili. «Certo, signore», disse con voce rauca.
Sloane annuì. «Bene. Vedo che ha cominciato come studente di Agraria, per poi spostarsi, nel corso del secondo anno, verso la letteratura. Esatto?».
«Sì, signore», disse Stoner.
Sloane si appoggiò sullo schienale e alzò lo sguardo verso il quadrato di luce che entrava dalla finestrella in alto. Tamburellò con la punta delle dita e si voltò di nuovo verso il giovane, seduto immobile davanti a lui.
«Formalmente, lo scopo di questo colloquio è quello di informarla che dovrà cambiare il suo piano di studi, abbandonando il corso iniziale e indicando quello definitivo. Può risolvere il tutto in cinque minuti, passando in segreteria. Provvederà alla questione, vero?».
«Sì, signore», disse Stoner.
«Ma come forse avrà immaginato, non è per questo che ho voluto incontrarla. Le dispiace se le faccio qualche domanda sui suoi progetti futuri?».
«No, signore», disse Stoner. Si guardò le mani, che erano avvinghiate una all’altra.
Sloane toccò il fascicolo poggiato sulla scrivania. «Vedo che aveva qualche anno in più rispetto ai suoi colleghi quando si è iscritto all’università. Circa venti, se non sbaglio».
«Sì, signore», disse Stoner.
«E a quel tempo la sua idea era di seguire l’indirizzo previsto dalla facoltà di Agraria?».
«Sì, signore».
26
Sloane poggiò di nuovo la schiena e contemplò il soffitto pallido e lontano. Poi chiese all’improvviso: «E adesso quali sono i suoi progetti?».
Stoner restò in silenzio. Era una cosa a cui non aveva pensato, a cui non aveva voluto pensare. Alla fine disse, con una punta di risentimento: «Non lo so. Non ci ho pensato gran che».
Sloane domandò: «Attende con ansia il giorno in cui emergerà da queste mura di clausura per entrare in quello che alcuni chiamano mondo?».
Stoner sorrise imbarazzato. «No, signore».
Il professore tamburellò sul fascicolo. «Da queste carte risulta che lei proviene da una comunità rurale. Posso dedurne che i suoi genitori sono agricoltori?».
Stoner annuì.
«Intende far ritorno alla fattoria, dopo la laurea?».
«No, signore», disse Stoner, con un tono così perentorio che se ne stupì. Pensò con meraviglia a quella decisione improvvisa.
Sloane annuì. «Comprendo che un serio studente di letteratura possa trovare le proprie qualità poco congeniali alle malie della terra».
«Non ci tornerò», disse Stoner, come se non lo avesse neanche sentito. «Non so ancora cosa farò esattamente». Poi si guardò le mani e disse loro: «Ancora non mi sembra vero d’aver quasi finito, che alla fine dell’anno lascerò l’università».
Come se niente fosse Sloane aggiunse: «Naturalmente, non è necessario che lei se ne vada. Immagino che non abbia rendite personali?».
Stoner fece di no con la testa.
«Ha una media eccellente. A parte…», alzò il soprac-
27
ciglio e sorrise, «a parte la verifica di letteratura del secondo anno, vedo soltanto delle A nei corsi di inglese; e nelle altre materie non è mai sceso sotto la B. Se riuscirà a mantenere questi voti ancora per un anno o giù di lì, sono certo che otterrà la laurea specialistica. Dopo di che è probabile che potrà insegnare, continuando a lavorare per il dottorato. Sempre che la cosa la interessi».
Stoner indietreggiò. «Cosa intende?», chiese, avvertendo un che di spaventato nella propria voce.
Sloane si protese sulla scrivania avvicinando il volto a quello di Stoner. Le rughe sul suo viso lungo e sottile parvero ammorbidirsi e la voce secca e tagliente si fece mite e indifesa.
«Ma non capisce, Mr Stoner?», domandò: «Non ha ancora capito? Lei sarà un insegnante».
All’improvviso gli sembrò che Sloane si stesse allontanando, insieme alle mura dell’ufficio. Si sentì sospeso nell’aria aperta, mentre la sua voce diceva: «È sicuro?».
«Ma certo», disse dolcemente Sloane.
«Come può dirlo? Come fa a saperlo?».
«È la passione, Mr Stoner», disse allegro Sloane, «la passione che c’è in lei. Nient’altro».
Nient’altro. Si accorse di annuire a Sloane, mormorando qualche parola priva di senso. Poi si vide uscire dall’ufficio. Gli tremavano le labbra e aveva le estremità delle dita addormentate; camminava come se dormisse, e tuttavia aveva una percezione intensa di ciò che lo circondava. Strusciò contro le pareti lucide del corridoio e gli parve di avvertire il calore e l’età del legno. Scese lentamente le scale contemplando stupito le venature del marmo gelido che sembrava scivolargli un poco sotto ai piedi. Nelle sale al piano di sotto, le voci degli studenti si
28
fecero distinte, stagliandosi sul mormorio sommesso, e i loro volti gli parvero vicini e strani e familiari a un tempo. Uscì dalla Jesse Hall alla luce del mattino e gli sembrò che il grigio non soffocasse più il campus; guidava il suo sguardo verso fuori e in alto, verso il cielo, quasi a indicargli un’opportunità cui non sapeva dar nome.
La prima settimana di giugno, nell’anno 1914, William Stoner, con altri sessanta studenti e poche studentesse, ricevette la laurea triennale in Lettere dall’Università del Missouri.
Per partecipare alla cerimonia, i suoi genitori – su un carretto preso in prestito e trainato dalla giumenta grigia – si erano messi in viaggio il giorno prima, percorrendo di notte le quaranta miglia fino a Columbia. Arrivarono dai Foote appena dopo l’alba, irrigiditi dal viaggio insonne. Stoner uscì ad accoglierli in cortile. I due lo attendevano immobili, uno accanto all’altra, nella vivida luce del mattino.
Stoner e il padre si salutarono con un’unica, veloce stretta di mano, senza guardarsi.
«Salve», disse il padre.
Sua madre fece un cenno col capo. «Tuo padre e io siamo venuti per vederti laureato».
Stoner restò in silenzio per un istante. Poi disse: «Entrate a fare colazione».
In cucina non c’era nessuno. Da quando Stoner s’era sistemato alla fattoria, i Foote avevano preso l’abitudine di dormire fino a tardi. Ma né prima, né dopo che i suoi ebbero fatto colazione, egli trovò il coraggio di parlargli del suo cambiamento di piani, della sua decisione di non ritornare alla fattoria. Una o due volte fu sul punto di cominciare il discorso, poi però guardava i loro volti bruni
29
che spuntavano semplici dai vestiti appena comprati, e pensava al lungo viaggio che avevano appena fatto e agli anni passati in attesa del suo ritorno. Restò immobile accanto a loro finché non ebbero bevuto l’ultimo sorso di caffè. Poi anche i Foote si alzarono e li raggiunsero in cucina. Allora disse che doveva recarsi presto all’università e che li avrebbe visti più tardi, alla cerimonia.
Vagò per il campus, portando con sé la toga nera e il tocco che aveva preso a nolo; erano gravosi e ingombranti, ma non aveva un posto dove lasciarli. Pensò a quello che avrebbe dovuto dire ai suoi genitori, e per la prima volta si rese conto di quanto la sua decisione fosse irrevocabile: avrebbe quasi preferito tornare sui suoi passi. Gli sembrava di essere inadeguato rispetto a un obiettivo che aveva scelto in modo incosciente, e avvertiva il richiamo del mondo che aveva abbandonato. Soffriva per quella perdita e per quella dei suoi genitori, eppure, anche nel dolore, sentiva che si stava già allontanando da loro.
Portò con sé quel senso di perdita durante tutta la cerimonia. Quando lo chiamarono per nome e attraversò il palco per ricevere l’attestato da un uomo senza volto con una barba soffice e grigia, non riusciva a credere di essere lì, e quel rotolo di pergamena tra le sue mani non aveva alcun senso. Pensava solo a suo padre e a sua madre, che sedevano rigidi e a disagio in mezzo alla folla.
Finita la cerimonia li riportò a casa dei Foote, dove dovevano trascorrere la notte per ripartire all’alba del giorno successivo.
Sedettero fino a tardi nel salotto dei Foote. Jim e Serena Foote rimasero con loro per un po’. Di tanto in tanto Jim e la madre di Stoner si scambiavano il nome di
30
qualche parente, per poi sprofondare di nuovo nel silenzio. Suo padre sedeva su una sedia rigida, a gambe aperte, leggermente proteso in avanti, con le sue grandi mani strette sulle rotule. Alla fine i Foote si scambiarono un’occhiata e, dopo uno sbadiglio, annunciarono che si era fatto tardi. Andarono a letto e i tre rimasero da soli.
Vi fu un lungo silenzio. I suoi guardavano dritti davanti a loro, fissando le loro stesse ombre, limitandosi a lanciargli un’occhiata di tanto in tanto, quasi non volessero distoglierlo da quella nuova condizione.
Dopo parecchi minuti, Stoner si protese in avanti e incominciò a parlare, con una voce più alta e più possente di quella che avrebbe voluto usare. «Avrei dovuto dirvelo prima. Avrei dovuto dirvelo l’estate scorsa, o stamattina».
I volti dei suoi genitori erano opachi e inespressivi alla luce della lampada.
«Quello che voglio dire… è che non tornerò con voi alla fattoria».
Nessuno si mosse. Suo padre disse: «Hai delle cose da finire qui. Noi possiamo tornare domattina e tu ci raggiungerai tra qualche giorno».
Stoner si sfregò il viso con i palmi aperti: «Non… intendevo questo. Sto cercando di dirvi che non tornerò più alla fattoria».
Suo padre serrò le mani sulle rotule e indietreggiò sulla sedia. «Ti sei cacciato in qualche guaio?», disse.
Stoner sorrise. «Niente del genere. Voglio continuare gli studi ancora per un anno, forse anche due o tre».
Suo padre scosse la testa. «Tu con stasera hai finito. L’ispettore della contea aveva detto che i corsi duravano quattro anni».
Stoner cercò di spiegare al padre le sue intenzioni, di
31
fargli capire il significato e lo scopo della sua scelta. Sentì le parole uscirgli dalla bocca e cadere una dopo l’altra nel vuoto, e guardò il viso di suo padre, che riceveva quelle parole come una pietra riceve i colpi ripetuti di un pugno. Quand’ebbe finito, restò seduto con le mani strette tra le ginocchia e il capo chino. Sentiva il silenzio della stanza.
Dopo un po’, suo padre si mosse sulla sedia. Stoner alzò lo sguardo. Si trovò di fronte i volti dei suoi, e per poco non gli gridò addosso.
«Non so», disse suo padre. Aveva la voce rauca e affaticata. «Non immaginavo che sarebbe andata a finire così. Pensavo di aver fatto il meglio che potevo per te, mandandoti qui. Tua madre e io abbiamo sempre fatto del nostro meglio».
«Lo so», disse Stoner. Non riusciva più a guardarli negli occhi.
«Ce la farete senza di me? Potrei tornare quest’estate a darvi una mano. Potrei…».
«Se pensi di dover stare qui a studiare i tuoi libri, allora è questo che devi fare. Tua madre e io ce la caveremo».
Sua madre era davanti a lui, ma non lo vedeva. Strizzava gli occhi con forza. Aveva il respiro pesante, il viso contratto dal dolore, i pugni chiusi e premuti contro le guance. Con meraviglia, Stoner si accorse che stava piangendo, con forza ma senza far rumore, con la vergogna e il disagio di chi non piange quasi mai. Rimase a guardarla ancora per un momento, poi si alzò in piedi a fatica e uscì dal salotto. Trovò la strada su per le scale che portavano alla soffitta. Rimase a lungo steso sul letto a fissare con gli occhi spalancati l’oscurità sopra di lui.
32

Due
Due settimane dopo che Stoner ebbe ricevuto la sua laurea in Lettere, l’arciduca Francesco Ferdinando fu assassinato a Sarajevo da un nazionalista serbo e, prima dell’inizio dell’autunno, la guerra era scoppiata in tutta Europa. Tra gli studenti era un argomento di conversazione continuo; tutti si chiedevano che ruolo avrebbe avuto l’America e quale emozionante futuro li attendesse. 
Per William Stoner, invece, il futuro era una certezza fulgida e immutabile. Ai suoi occhi non appariva come un flusso di eventi, mutazioni e potenzialità, ma come un territorio che attendeva solo di essere esplorato. Gli sembrava simile alla grande biblioteca dell’università, che poteva essere arricchita dalla costruzione di nuove ali, cui potevano aggiungersi nuovi libri o esserne tolti di vecchi, ma che manteneva essenzialmente invariata la sua vera natura. Immaginava il suo futuro solo nell’istituzione a cui si era votato, e che comprendeva in modo tanto imperfetto. Non escludeva di poter cambiare in quel futuro, ma considerava il futuro stesso come lo strumento, piuttosto che l’obiettivo, del cambiamento. 
Sul finire dell’estate, poco prima dell’inizio del semestre autunnale, andò a far visita ai suoi. La sua intenzione era di aiutarli col raccolto; ma scoprì che suo padre
33
aveva assunto un bracciante negro che lavorava sodo e senza fiatare, riuscendo a fare da solo più o meno quello che lui e suo padre facevano in due. I suoi genitori furono felici di vederlo e non mostrarono risentimento per la sua scelta. Tuttavia si accorse di non avere nulla da dirgli. Comprese che stavano già diventando degli estranei; e quella perdita accrebbe l’amore che nutriva per loro. Tornò a Columbia una settimana prima del previsto. 
Cominciò a mal sopportare le incombenze nella fattoria dei Foote. Essendo giunto tardi agli studi, sentiva l’urgenza di recuperare. Certe volte, immerso nelle sue letture, lo assaliva la coscienza di quante cose ancora non sapeva, di quanti libri non aveva ancora letto. E la serenità tanto agognata andava in mille pezzi appena realizzava quanto poco tempo aveva per leggere tutte quelle cose e imparare quello che doveva sapere. 
Terminò gli studi per la specializzazione nella primavera del 1915 e trascorse l’estate a scrivere la tesi, uno studio sulla prosodia di uno dei Racconti di Canterbury di Chaucer. Prima della fine dell’estate, i Foote gli dissero che non avevano più bisogno di lui. 
Aveva previsto il licenziamento e in una certa misura ne fu sollevato, ma dopo la notizia fu colto da un istante di panico. Era come se anche l’ultimo legame con la sua vita di un tempo fosse stato reciso. Passò le settimane di fine estate presso la fattoria del padre, facendo gli aggiustamenti conclusivi alla tesi. Quanto tornò a Columbia, Archer Sloane gli assegnò due corsi di inglese per le matricole, che avrebbe dovuto tenere mentre cominciava a lavorare per il dottorato. Il compenso era di quattrocento dollari l’anno. Tolse tutte le sue cose dalla piccola soffitta dei Foote, che aveva occupato per cinque anni, e
34
affittò una stanza ancora più piccola vicino all’università. 
Anche se il suo compito era solo quello di fornire le basi della grammatica e della sintassi a un gruppo sparso di matricole, attendeva al suo incarico con entusiasmo e con un forte senso di responsabilità. Pianificò il corso una settimana prima dell’apertura del semestre autunnale, contemplando le varie possibilità legate agli strumenti e ai temi dell’impegno assunto. Percepiva la logica della grammatica e gli sembrava di cogliere il modo in cui scaturisce da se stessa, permeando il linguaggio e sostenendo il pensiero umano. Nei semplici esercizi di composizione che preparava per gli studenti coglieva le potenzialità della prosa e la sua bellezza, e non vedeva l’ora di trasmettere ai suoi allievi il senso di quelle scoperte. 
Ma quando arrivò il primo giorno e, dopo la prassi degli appelli e dei piani di studio, cominciò a spiegare alla classe, scoprì che quell’entusiasmo rimaneva nascosto dentro di lui. Certe volte, mentre si rivolgeva agli studenti, gli accadeva di uscire da se stesso e di osservarsi dall’esterno, come uno sconosciuto intento a parlare a un gruppo di sfaticati. Sentiva la sua voce piatta ripetere le lezioni che aveva preparato, senza che il suo entusiasmo trasparisse minimamente da quelle frasi. 
Trovava sollievo e appagamento solo durante le lezioni che frequentava come studente. Lì era ancora in grado di cogliere l’emozione che aveva provato il primo giorno, quando Archer Sloane gli aveva rivolto la parola e, in un solo istante, si era trasformato in un uomo nuovo. Mentre la sua mente era impegnata in quegli argomenti e si confrontava con il potere della letteratura cercando di comprenderne la vera natura, avvertiva un continuo cambiamento: e come se ne fosse consapevole, usciva da
35
se stesso entrando nel mondo che lo conteneva e comprendeva così che la poesia di Milton, o il saggio di Bacon, o la commedia di Ben Jonson che stava leggendo cambiavano il mondo che avevano per oggetto, e lo cambiavano in virtù della loro dipendenza da esso. In classe parlava raramente, e i suoi scritti non lo soddisfacevano quasi mai. Come le sue lezioni ai giovani studenti, non rivelavano ciò che sapeva nel profondo.
Cominciò a entrare in confidenza con alcuni degli studenti che, come lui, tenevano dei corsi presso il dipartimento. Tra questi ve n’erano due con cui strinse amicizia: David Masters e Gordon Finch. 
Masters era un giovane magro e scuro di carnagione, con la lingua affilata e gli occhi gentili. Come Stoner, era appena agli inizi del suo dottorato, pur essendo più giovane di un anno o due. In facoltà, e tra gli studenti laureati, aveva la reputazione di essere arrogante e impertinente, ed era opinione diffusa che avrebbe faticato un po’ a terminare il dottorato. Stoner lo considerava l’uomo più brillante che avesse mai conosciuto e lo guardava con deferenza, senza alcuna invidia o rancore. 
Gordon Finch invece era grande e biondo, e malgrado avesse appena ventitré anni stava già cominciando a ingrassare. Dopo aver ottenuto la laurea breve in un college di St Louis, aveva tentato varie specializzazioni presso l’Università di Columbia, nei dipartimenti di economia, storia e ingegneria. Infine era passato a letteratura, più che altro perché, all’ultimo momento, era riuscito ad accaparrarsi un posticino da lettore presso il dipartimento di Inglese. Nel giro di pochissimo tempo si rivelò l’allievo più distratto del dipartimento. Ma era popolare tra le matricole, andava molto d’accordo con i
36
membri più anziani della facoltà e con gli impiegati della segreteria.
I tre – Stoner, Masters e Finch – presero l’abitudine di incontrarsi ogni venerdì pomeriggio in un piccolo bar giù in città, dove bevevano grandi boccali di birra restando a chiacchierare fino a tardi. Anche se quelle serate erano il suo unico svago sociale, Stoner si interrogava spesso sulla natura della loro relazione. Pur andando d’accordo, non erano diventati intimi; non entravano mai in confidenza e raramente si vedevano durante il resto della settimana. 
Nessuno di loro, comunque, sollevava mai il problema. Stoner sapeva che Gordon Finch non ci aveva neanche pensato, ma sospettava che David Masters l’avesse fatto. Una volta, di sera tardi, mentre sedevano a un tavolo in fondo nella penombra di una saletta del bar, parlando dello studio e dell’insegnamento con l’ironia un po’ rigida delle persone seriose, Masters alzò un uovo sodo dal buffet come se fosse una sfera di cristallo e disse: «Signori, avete mai riflettuto sulla vera natura dell’università? Mr Stoner? Mr Finch?».
I due sorrisero e scossero la testa. 
«Scommetto di no. Il qui presente Stoner, immagino, la vede come un grande deposito, come una biblioteca o un magazzino, dove gli uomini entrano di loro spontanea volontà e scelgono ciò che li rende completi, dove tutti lavorano insieme come le api in un alveare. La Verità, il Bene, il Bello. Sono appena dietro l’angolo, nel corridoio accanto; sono nel prossimo libro, quello che non hai ancora letto, o sullo scaffale più in alto, dove non sei ancora arrivato. Ma un giorno ci arriverai. E quando succederà… quando succederà…». Contemplò
37
l’uovo ancora per un istante, poi gli diede un gran morso e lo passò a Stoner, con le mandibole all’opera e un lampo negli occhi scuri. 
Stoner sorrise, un po’ a disagio, mentre Finch fece una gran risata battendo la mano sul tavolo. «Ti ha beccato, Bill. Ci ha visto giusto». 
Masters masticò ancora per un istante, deglutì e posò lo sguardo su Finch. «E tu Finch, cosa pensi?». Alzò una mano. «Ora dirai che non ci hai riflettuto. E invece sì. Dietro quest’apparenza franca e cordiale si nasconde un animo semplice. Ai tuoi occhi, l’istituzione è uno strumento benefico; per il mondo in generale, s’intende, e solo incidentalmente anche per te. Una supposta di zolfo e melassa, dai balsamici effetti spirituali, che somministri ogni autunno ai piccoli bastardi per farli resistere un altro inverno. E tu sei il caro, vecchio dottore che gli accarezza il capo benevolo, mentre si infila in tasca la parcella». 
Finch rise di nuovo e scosse la testa. «Ti giuro Dave, quando prendi il via…».
Masters si mise in bocca il resto dell’uovo, masticò soddisfatto per qualche istante e tracannò un bel sorso di birra. «Ma vi sbagliate entrambi», disse. «L’università è un ospizio, o… come le chiamano adesso? Una casa di riposo, per vecchi e malati, per gli infelici, o gli inetti di ogni genere. Guardate noi tre. Siamo noi l’università. Un estraneo non si renderebbe conto di quanto abbiamo in comune, ma noi lo sappiamo bene. È vero o no? Lo sappiamo benissimo». 
Finch non la smetteva di ridere. «E cosa abbiamo in comune, Dave?».
Sempre più preso dal suo discorso, Masters si avvici-
38
nò al tavolo con aria concentrata. «Cominciamo da te, Finch. Con tutto il rispetto, direi che di noi tre sei il più incompetente. Come sai tu stesso, non sei una cima, anche se questo c’entra solo in parte». 
«Eccoci qua», disse Finch, sempre ridendo. 
«Ma sei abbastanza intelligente, solo abbastanza, per capire che fine faresti, nel mondo reale. Sei votato al fallimento, e lo sai. Anche se sai comportarti da figlio di puttana, non sei così spietato da esserlo fino in fondo. Non sei certo l’uomo più onesto che abbia mai conosciuto, ma non sei neanche un campione di disonestà. Da un lato sei capace di lavorare, ma sei anche sufficientemente pigro per lavorare meno di quello che il mondo si aspetterebbe da te. D’altra parte non sei pigro abbastanza per imprimere sul mondo il segno della tua importanza. E non sei fortunato, no davvero. Non emani alcuna aura, hai sempre l’espressione un po’ spaesata. Nel mondo esterno saresti sempre sul punto di farcela, per poi finire vittima dei tuoi fallimenti. Quindi sei un predestinato, un eletto: la provvidenza, la cui ironia mi ha sempre divertito, ti ha strappato alle grinfie del mondo e ti ha piazzato qui, al sicuro, tra i tuoi fratelli». 
Poi, sorridendo con aria malevola, si rivolse a Stoner. «Non credere di scappare, amico mio. Ora tocca a te. Chi sei tu, veramente? Un umile figlio della terra, come ti ripeti davanti allo specchio? Oh, no. Anche tu sei uno dei malati: sei il sognatore, il folle in un mondo ancora più folle di lui, il nostro Don Chisciotte del Midwest, che vaga sotto il cielo azzurro senza Sancho Panza. Sei abbastanza intelligente, di certo più del nostro comune amico. Ma in te c’è il segno dell’antica malattia. Tu credi che ci sia qualcosa qui, che va trovato. Nel mondo reale sco-
39
priresti subito la verità. Anche tu sei votato al fallimento. Ma anziché combattere il mondo, ti lasceresti masticare e sputare via, per ritrovarti in terra a chiederti cos’è andato storto. Perché ti aspetti sempre che il mondo sia qualcosa che non è, qualcosa che non vuole essere. Sei il maggiolino nel cotone, tu. Il verme nel gambo del fagiolo. La tignola nel grano. Non riusciresti ad affrontarli, a combatterli: perché sei troppo debole, e troppo forte insieme. E non hai un posto al mondo dove andare». 
«E tu, allora?», chiese Finch. «Che ci dici di te?».
«Oh», disse Masters, poggiando la schiena alla sedia, «io sono come voi. Anzi, peggio. Sono troppo intelligente per il mondo, e me ne andrei anche in giro a dirlo; è una malattia incurabile, la mia. Per questo devo essere rinchiuso qui, dove posso comportarmi in modo irresponsabile senza alcun pericolo, senza far del male a nessuno». Poi si avvicinò di nuovo al tavolo, sorridendo agli altri. «Siamo tutti miserabili buffoni, e siamo al freddo». 
«Re Lear», disse serio Stoner.
«Atto terzo, scena quarta», aggiunse Masters. «E così la provvidenza, o la società, o il fato, comunque vogliate chiamarlo, ha costruito per noi questo rifugio, che ci protegge dai venti di tempesta. È per noi che esiste l’università, per i diseredati del mondo. Non per gli studenti, non per la disinteressata ricerca della conoscenza, né per le altre ragioni che sentite dire. Quelle sono solo una copertura, come quei pochi individui normali, idonei al mondo, che di tanto in tanto accogliamo tra noi. Ma è tutto fumo negli occhi. Come la Chiesa nel Medioevo, cui non interessava un fico secco né dei laici né di dio in persona, ci servono dei pretesti per sopravvivere. E sopravviveremo, perché così dev’essere». 
40
Finch scosse la testa ammirato: «A sentire te, siamo proprio degli infami…».
«Forse sì», rispose secco Masters. «Ma per quanto infami, siamo sempre meglio di quelli che vivono lì fuori, nel fango, i poveri bastardi del mondo. Non facciamo del male a nessuno, diciamo quello che vogliamo, e addirittura ci pagano per farlo. Questo è un trionfo della virtù naturale, dannazione. O poco ci manca».
Masters si staccò dal tavolo con indifferenza, come se non fosse più interessato al discorso. 
Gordon Finch si schiarì la gola. «Be’», disse sinceramente, «forse c’è del vero in quello che hai detto, Dave. Ma penso che hai esagerato. Direi proprio di sì». 
Stoner e Masters si sorrisero, e quella sera non tornarono più sull’argomento. Ma per molti anni, e nei momenti più strani, Stoner ripensò spesso alle parole di Masters. Pur essendo estranee all’idea dell’università che aveva abbracciato, gli rivelavano qualcosa di importante sul suo rapporto con quei due uomini, ricordandogli l’amarezza limpida e corrosiva della gioventù. 
Il 7 maggio 1915, un sottomarino tedesco affondò il transatlantico britannico Lusitania, con centoquattordici passeggeri americani a bordo. Sul finire del 1916, gli attacchi dei sommergibili tedeschi si erano fatti sempre più frequenti e i rapporti tra Stati Uniti e Germania peggioravano costantemente. Nel febbraio del 1917 il presidente Wilson interruppe le relazioni diplomatiche. Il 6 aprile il Congresso dichiarò guerra alla Germania. 
Di lì a poco migliaia di giovani di tutta la nazione, come sollevati dallo scioglimento della tensione dovuta al protrarsi dell’incertezza, presero d’assedio i punti
41
di reclutamento allestiti in fretta e furia poche settimane prima. In realtà già nel 1915, e senza neanche aspettare che l’America entrasse in guerra, centinaia di altri ragazzi si erano arruolati nell’esercito canadese, o si erano offerti come autisti per le ambulanze degli eserciti alleati europei. Anche alcuni tra gli studenti più anziani dell’università avevano fatto lo stesso. E pur non avendone conosciuto nessuno, William Stoner sentiva pronunciare sempre più spesso i loro nomi leggendari, via via che passavano le settimane e i mesi e il momento fatidico si avvicinava. 
La guerra fu dichiarata di venerdì, e anche se il calendario delle lezioni della settimana successiva rimase invariato, ben pochi studenti e professori finsero di rispettarlo. I più vagavano nei corridoi, riunendosi in piccoli capannelli e parlottando sottovoce. Di tanto in tanto, quel silenzio carico di tensione trovava sfogo in un’esplosione di violenza. Vi furono due manifestazioni antigermaniche, in cui gli studenti urlavano frasi senza senso agitando bandiere americane. Una volta manifestarono perfino contro un docente, un vecchio professore di tedesco dalla barba lunga, che era nato a Monaco e in gioventù aveva frequentato l’Università di Berlino. Ma quando il poveretto, di fronte al piccolo gruppo di studenti lividi di collera, sgranò gli occhi per lo sconcerto e alzò le mani gracili e tremanti, i facinorosi si dispersero contrariati.
Durante i primi giorni che seguirono la dichiarazione di guerra anche Stoner si sentì confuso: ma la sua inquietudine era molto diversa da quella che attanagliava i suoi coetanei. Pur avendo parlato spesso della guerra in Europa, sia con i docenti che con gli studenti più anziani, non ci aveva mai creduto davvero. E ora che, come
42
tutti, se la trovava davanti, scopriva dentro di sé una vasta riserva d’indifferenza. Era irritato dallo smembramento imposto dalla guerra all’università; e tuttavia non ravvisava in sé alcun sentimento patriottico, né riusciva a provare odio per i tedeschi. 
Eppure bisognava odiare i tedeschi. Una volta aveva visto Gordon Finch parlare con un gruppo di membri anziani della facoltà. Aveva il viso alterato e ogni volta che nominava gli “Unni” pareva che sputasse per terra. Più tardi, quando lo rivide nel grande ufficio che dividevano con altri cinque o sei lettori, notò che il suo umore era cambiato: con entusiasmo quasi febbrile, Finch gli batté sulla spalla. 
«Non devono passarla liscia, Bill», disse rapidamente. Una patina di sudore gli brillava come olio sulla faccia tonda, e qualche ciuffo di capelli biondi e fini gli solcava il cranio. «No signore. Io vado in guerra. Ne ho già parlato con Sloane, e mi ha detto di andare avanti. Domani vado a St Louis ad arruolarmi». Per un istante riuscì a ricomporre i tratti del viso dandogli un’apparenza di solennità. «Tutti dobbiamo fare la nostra parte». Poi ghignò e batté di nuovo sulla spalla di Stoner. «Coraggio, vieni anche tu».
«Io?», domandò Stoner. E ripeté di nuovo, incredulo: «Io?».
Finch scoppiò a ridere. «Certo. Si stanno arruolando tutti. Ho appena parlato con Dave, viene anche lui». Stoner scosse la testa incredulo: «Dave Masters?».
«Certo. Il vecchio Dave a volte parla in modo strano, ma sotto sotto non è diverso da chiunque altro. Farà la sua parte. Proprio come te, Bill». Gli diede un pugno sul braccio. «Proprio come te». 
43
Stoner restò in silenzio per un momento. «Non ci avevo pensato», disse. «È successo tutto così in fretta. Dovrò parlarne con Sloane. Ti farò sapere». 
«Certo», disse Finch. «Farai la tua parte». La voce gli si riempì di passione. «Ci siamo dentro tutti quanti, Bill. Ci siamo dentro tutti quanti». 
Stoner si congedò da Finch, ma non andò da Archer Sloane. Vagò invece per il campus in cerca di David Masters. Lo trovò seduto a un banco della biblioteca, solo, intento a fumare la pipa e a fissare uno scaffale di libri. 
Stoner gli si sedette di fronte all’altro capo del banco. Quando gli domandò se era vero che voleva entrare nell’esercito, Masters rispose: «Certo. Perché no?». 
E quando gli chiese perché, lui disse: «Ormai mi conosci abbastanza, Bill. Non me ne importa un accidenti dei tedeschi. In verità, credo che non mi importi neanche degli americani». Scrollò la cenere della pipa sul pavimento e la spazzò via col piede. «Probabilmente lo faccio perché farlo o non farlo è lo stesso. E magari sarà divertente attraversare il mondo ancora una volta prima di tornare alla lenta, claustrale estinzione che ci attende tutti». 
Pur non capendo, Stoner annuì e prese atto della risposta. Poi disse: «Gordon vuole che mi arruoli con voi».
Masters sorrise. «Per la prima volta nella sua vita, gli è concesso di sentire la forza della virtù. È naturale che voglia renderne partecipe anche il resto del mondo, così potrà continuare a crederci. Certo, perché no? Arruolati con noi. Magari ti farà bene vedere com’è fatto il mondo». Poi fece una pausa e guardò intensamente Stoner. «Ma se lo fai, Cristo santo, non farlo in nome di dio, della Patria, o della cara, vecchia Università del Missouri. Fallo per te stesso». 
44
Stoner restò in silenzio per un lungo istante. Poi disse: «Parlerò con Sloane e vi farò sapere». 
Non sapeva che risposta aspettarsi da Archer Sloane. Tuttavia, quando lo incontrò nel suo ufficio stretto e pieno di libri tutti in fila e gli parlò di ciò che ancora non aveva deciso, rimase assai stupito.
Sloane, che con lui aveva sempre tenuto un atteggiamento distaccato e cortesemente ironico, perse il controllo. Il viso lungo e sottile si fece tutto rosso e le rughe ai lati della bocca gli si evidenziarono per la rabbia. Scattò dalla sedia con i pugni serrati, quasi volesse saltargli addosso. Poi si calmò, torno a sedersi e aprì deliberatamente i pugni, posando i palmi sulla scrivania. Le dita gli tremavano, ma la voce era ferma e severa. 
«Le chiedo di perdonare questo sfogo improvviso. Ma negli ultimi giorni ho perso quasi un terzo dei membri del dipartimento e non vedo speranze di rimpiazzarli. Non è con lei che sono arrabbiato, ma…». Distolse gli occhi da Stoner e li puntò sull’alta finestra in fondo all’ufficio. La luce gli colpì il viso di taglio, accentuando le rughe e le ombre sotto agli occhi, e per un istante sembrò vecchio e malato. «Io sono nato nel 1860, poco prima della guerra di secessione. Non la ricordo, naturalmente. Ero troppo giovane. Non ricordo neanche mio padre; fu ucciso durante il primo anno del conflitto, nella Battaglia di Shiloh». Si voltò rapidamente verso Stoner. «Ma vedo chiaramente i risultati. Una guerra non solo uccide qualche migliaio, o qualche centinaio di migliaia di giovani. Uccide anche qualcosa dentro le persone, qualcosa che non si può più recuperare. E quando una persona attraversa molte guerre, ben presto si riduce come un bruto, come quella stessa creatura che noi –
45
lei e io, e tutti quelli come noi – abbiamo sollevato dal fango». Fece una lunga pausa, poi accennò un sorriso. «Non si dovrebbe chiedere a un uomo di lettere di distruggere ciò che ha passato la vita a costruire». 
Stoner si schiarì la voce e disse con estrema cautela: «È successo tutto così in fretta. In realtà non ci avevo mai pensato, prima di parlarne con Finch e Masters. Mi sembra ancora un po’ irreale». 
«E ovviamente lo è», disse Sloane. Poi si voltò bruscamente, distogliendo lo sguardo da Stoner. «Non intendo certo dirle ciò che deve fare. Le dirò soltanto questo: la scelta sta a lei. Ci sarà un arruolamento, ma se lo vorrà, potrà essere esonerato. Non ha paura di partire, vero?». «No, signore», disse Stoner. «Non credo». 
«Allora dovrà fare una scelta, e dovrà farla per sé. Inutile dirle che se deciderà di arruolarsi, al suo ritorno verrà reintegrato nella posizione attuale. Se invece deciderà di non arruolarsi, potrà restare qui, naturalmente senza alcun vantaggio particolare. Anzi è possibile che vada incontro a qualche difficoltà, sia adesso che in seguito». 
«Capisco», disse Stoner. 
Vi fu un lungo silenzio e Stoner pensò che Sloane avesse chiuso il discorso. Ma appena si alzò per andarsene, il professore parlò di nuovo. 
Disse lentamente: «Deve ricordare chi è e chi ha scelto di essere, e il significato di quello che sta facendo. Ci sono guerre, sconfitte e vittorie della razza umana che non sono di natura militare e non vengono registrate negli annali della storia. Se ne ricordi, al momento di fare la sua scelta». 
Per due giorni Stoner non andò alle lezioni e non parlò con nessuno. Rimase nella sua stanzetta a combattere
46
con la sua coscienza, circondato dai libri e dal silenzio. Solo di rado avvertiva la presenza del mondo esterno, gli strepiti lontani degli studenti, il rapido acciottolio di un carro sul selciato, o il motore scoppiettante di una delle poche automobili che circolavano in città. Non era abituato all’introspezione, e riflettere sulle proprie motivazioni gli risultava difficile e anche un po’ sgradevole. Sentiva di avere poco da offrire a se stesso, e che non c’era molto da scoprire dentro di sé. 
Quando finalmente prese la sua decisione, gli sembrava di aver sempre saputo quale sarebbe stata. Il venerdì incontrò Finch e Masters e annunciò che non si sarebbe arruolato con loro. 
Gordon Finch, ancora sull’onda del suo accesso di virtù, si irrigidì, tradendo un’espressione di dolente rimprovero. «Ci deludi, Bill», disse con voce roca: «Ci deludi profondamente». 
«Sta’ zitto», disse Masters. Poi guardò Stoner dritto negli occhi. «L’avevo immaginato, sai? Hai sempre avuto l’aria pallida e smunta. Ovviamente non è un problema. Ma cosa ti ha convinto, alla fine?». 
Stoner restò in silenzio per un istante. Ripensò agli ultimi due giorni, a quella lotta silenziosa che sembrava non avere fine né senso: ai suoi ultimi sette anni di vita all’università e a quelli precedenti, a quei lontani anni trascorsi con i suoi alla fattoria, e a quel torpore mortale da cui era miracolosamente risorto. 
«Non lo so», rispose. «Tutto, immagino. Non saprei dire». 
«Sarà dura restare», disse Masters. 
«Lo so», disse Stoner.
«Ma credi lo stesso che ne valga la pena?».
47
Stoner annuì. 
Masters ghignò e concluse, con la sua solita ironia: «Hai proprio l’aria pallida e smunta, te lo dico io. Sei condannato». 
L’aria di dolente rimprovero di Finch tendeva ormai a una sorta di disgusto. «Te ne pentirai, Bill», disse con un filo di voce, a metà tra il minaccioso e il compassionevole. 
Stoner annuì. «È possibile». 
Poi li salutò e andò via. Dovevano partire il giorno dopo per St Louis, dove si sarebbero arruolati, mentre lui aveva da preparare le lezioni per la settimana seguente. 
Non si sentiva in colpa per la sua decisione, e quando l’arruolamento divenne generale, fece domanda per l’esonero senza particolare rimorso. Ma era cosciente degli sguardi che gli lanciavano i suoi colleghi più anziani e della sottile irriverenza che si nascondeva dietro l’atteggiamento apparentemente immutato dei suoi allievi. Perfino Archer Sloane, che sul momento aveva espresso calda approvazione per la sua scelta di restare all’università, gli sembrava più freddo e distante via via che passavano i mesi e continuava la guerra.
Ultimò le adempienze per il dottorato nella primavera del 1918 e l’ottenne a giugno. Un mese prima gli era arrivata una lettera da Gordon Finch, che aveva terminato la Scuola per Ufficiali ed era stato assegnato a un campo di addestramento appena fuori New York. La lettera lo informava che, nel tempo libero, aveva ottenuto il permesso di frequentare la Columbia University, dov’era riuscito a sua volta a ottenere l’idoneità per il dottorato, che gli sarebbe stato conferito quell’estate stessa dal collegio dei docenti locale.
48
La lettera lo informava anche che Dave Masters era stato mandato in Francia e che, a un anno esatto dal suo arruolamento al seguito delle prime truppe americane mandate al fronte, era stato ucciso a Chateau-Thierry. 
49
Tre
Una settimana prima della cerimonia di consegna dei diplomi di dottorato, Archer Sloane offrì a Stoner un posto da lettore a tempo pieno presso l’università. Sloane sottolineò che non era una politica dell’università quella di impiegare i propri laureati, ma vista la penuria di insegnanti validi ed esperti dovuta alla guerra, era riuscito a convincere l’amministrazione. 
Seppur con una certa riluttanza, Stoner aveva scritto qualche lettera alle università e ai college di zona, snocciolando brutalmente le sue credenziali. Ma vedendo che nessuno gli rispondeva, si era sentito stranamente sollevato. Intuiva il motivo di quella reazione: solo presso l’Università di Columbia aveva provato quella sicurezza e quel calore che gli erano mancati a casa da bambino e non era certo che sarebbe riuscito a ritrovarli altrove. Accettò l’offerta di Sloane con gratitudine. 
Nel farlo, si accorse anche che Sloane era molto invecchiato durante quell’anno di guerra. Aveva meno di sessant’anni, ma ne dimostrava dieci di più: i capelli, che un tempo gli si arricciavano in testa in una folta chioma grigio ferro, erano diventati bianchi e gli ricadevano lisci e senza vita intorno al cranio ossuto. Gli occhi neri s’erano fatti opachi, come ricoperti da un fitto strato di
50
umidità. Il viso lungo e segnato, che un tempo era stato duro come il cuoio, ora aveva la fragilità della carta rinsecchita dal tempo, e la sua voce ironica e piatta aveva cominciato a tremare. Guardandolo, Stoner pensò: sta per morire. Tra uno o due anni, forse dieci, morirà. Si allontanò stretto dalla morsa di quella perdita prematura. Fece molti pensieri di morte durante quell’estate del 1918. La scomparsa di Masters l’aveva sconvolto più di quanto non volesse ammettere: e cominciavano ad arrivare i primi elenchi dei caduti americani dall’Europa. Prima di allora, quando aveva pensato alla morte, se l’era figurata come un evento letterario o come il lento, naturale logorio del tempo sulla carne imperfetta. Non l’aveva immaginata come un’esplosione di violenza su un campo di battaglia, o un fiotto di sangue che sgorga da una gola tagliata. Si chiedeva quale differenza vi fosse tra quei due modi di morire, e che significato avesse tale differenza. Sentiva crescere in sé un po’ di quell’amarezza che un tempo aveva scorto nel cuore ancora palpitante del suo amico David Masters. 
L’argomento della sua tesi di dottorato era L’influenza della tradizione classica sulla lirica medievale. Trascorse buona parte dell’estate a leggere i poeti latini classici e medievali, e soprattutto le loro composizioni sul tema della morte. Non finiva di meravigliarsi per la facilità e la grazia con cui i lirici romani accettavano l’idea della morte, quasi che il nulla con cui si confrontavano fosse un tributo doveroso agli anni goduti in terra. E lo stupivano l’amarezza, il terrore e l’odio malcelato di certi poeti cristiani, appartenenti alla tradizione latina più tarda, davanti a una morte che, seppur vagamente, prometteva loro un’estasi eterna – come se la
51
morte e la promessa non fossero che una beffa che gli rendeva amara la vita. Quando pensava a Masters, lo immaginava come un Catullo o un Giovenale, più gentile e poetico, un esule nella sua stessa patria. Pensava alla sua morte come a un esilio ulteriore, più strano e duraturo di quello che già conosceva. 
Quando, nell’autunno del 1918, cominciò il semestre, era ormai chiaro a tutti che la guerra in Europa non sarebbe durata a lungo. L’ultima, disperata controffensiva tedesca era stata fermata alle porte di Parigi, e il maresciallo Foch aveva dato inizio al contrattacco degli alleati, che in poco tempo respinsero il nemico oltre le linee di partenza. Gli inglesi avanzarono verso nord e gli americani entrarono nelle Argonne, a un prezzo che, nell’esaltazione generale, venne ampiamente ignorato. I giornali prevedevano che la Germania sarebbe caduta prima di Natale. 
Il semestre dunque cominciò in un clima di gaiezza un po’ esagitata. Professori e studenti si ritrovavano a sorridersi l’un l’altro e ad annuire con vigore lungo i corridoi. Diverse esplosioni di esuberanza e piccole violenze tra gli studenti furono deliberatamente ignorate dalla facoltà e dall’amministrazione. E uno studente non meglio identificato, che divenne subito una specie di eroe locale, si arrampicò a mani nude su una delle immense colonne della Jesse Hall, impiccandovi in cima un fantoccio di paglia raffigurante il Kaiser. 
L’unica persona che sembrava estranea a quell’eccitazione generale era Archer Sloane. Dal giorno in cui l’America era entrata in guerra, aveva cominciato a chiudersi in se stesso, e la chiusura appariva più marcata via via che la guerra si avvicinava al termine. Non parlava
52
con i colleghi a meno che non fosse costretto da qualche incombenza legata al dipartimento, e si mormorava che le sue lezioni fossero diventate così eccentriche che gli studenti le frequentavano con terrore. Si limitava a leggere gli appunti in modo ottuso e meccanico, senza mai guardare la classe. Spesso gli si smorzava la voce in gola e continuava a fissare il quaderno, restando uno, due, a volte anche cinque minuti in silenzio, durante i quali non si muoveva e non rispondeva alle domande imbarazzate degli allievi. 
Quando gli assegnò il programma dei corsi per l’anno accademico, William Stoner riconobbe in lui le ultime vestigia dell’uomo brillante e ironico che aveva conosciuto da studente. Sloane affidò a Stoner due corsi di composizione per le matricole e un seminario di approfondimento sulla letteratura medievale inglese. Poi disse, con uno sprazzo di ironia residua: «Come molti dei nostri colleghi, e non pochi dei nostri studenti, sarà lieto di sapere che abbandonerò alcuni dei miei corsi. Tra questi ve n’è uno che è sempre stato il mio favorito: il corso generale di letteratura inglese del secondo anno.
Forse lei se lo ricorda…». 
Stoner annuì, sorridendo. 
«Già», continuò Sloane, «immaginavo che lo ricordasse. Ora le chiedo di occuparsene al posto mio. Non che sia un gran regalo, ma forse può divertirla l’idea di cominciare la sua carriera di professore con il primo corso che ha frequentato da studente». Poi lo fissò, e per un istante gli occhi gli brillarono come prima della guerra. Quindi la patina di indifferenza tornò a velargli lo sguardo e si voltò altrove, scartabellando alcuni incartamenti sulla scrivania. 
53
Così Stoner cominciò da dove aveva iniziato, e l’uomo alto, magro e ricurvo che ormai era diventato si sedette in cattedra nella stessa aula dove il ragazzo alto, magro e ricurvo che era stato sedeva dietro a un banco, ascoltando le parole che l’avrebbero condotto fin lì. Ogni volta che entrava in quell’aula non poteva impedirsi di guardare il posto che aveva occupato, e ogni volta si stupiva un po’ di non trovarsi lì. 
L’11 novembre di quell’anno, due mesi dopo l’inizio del semestre, venne firmato l’armistizio. La notizia arrivò mentre le lezioni erano in corso e le aule si sciolsero immediatamente. Gli studenti correvano senza meta per il campus, dando vita a piccoli cortei che si riunivano, si disperdevano e si riunivano ancora, dipanandosi per i corridoi, le classi e gli uffici. Quasi contro la sua volontà, Stoner finì in mezzo a uno, ritrovandosi a percorrere corridoi, scale e ancora corridoi verso la Jesse Hall. Trascinato da quella piccola folla di studenti e insegnanti, passò davanti alla porta dell’ufficio di Archer Sloane, che era aperta, e lo vide seduto davanti alla sua scrivania. Aveva il viso scoperto e chiaramente alterato: piangeva di rabbia e le lacrime gli scorrevano a fiotti lungo le rughe. 
Sconvolto, Stoner si lasciò portare dalla folla ancora per un momento. Poi uscì dal corteo e andò nella sua stanza vicino al campus. Rimase seduto al buio ad ascoltare le grida di gioia e di sollievo che provenivano dall’esterno, pensando ad Archer Sloane che piangeva per una sconfitta che lui solo vedeva, o credeva di vedere. Capì che Sloane era un uomo finito e non sarebbe mai più stato quello di un tempo. 
54
Verso la fine di novembre, molti dei ragazzi che erano partiti per la guerra cominciarono a tornare a Columbia, e il campus venne puntellato dalle macchie color verde marcio delle uniformi dell’esercito. Tra quelli che rientrarono in congedo esteso c’era Gordon Finch. Aveva preso qualche chilo durante quell’anno e mezzo trascorso al fronte e il suo viso ampio e aperto, un tempo docile e gentile, aveva assunto un’espressione grave che, per quanto amichevole, poteva risultare sinistra. Indossava i gradi di capitano e parlava dei suoi “uomini” con orgoglio quasi paterno. Con Stoner era cordiale e distante, e si rivolgeva ai membri più anziani del dipartimento con deferenza affettata. Il semestre era già troppo avanti perché gli si potesse affidare un corso, così per il resto dell’anno accademico venne impiegato come assistente amministrativo del decano della facoltà di Scienze umanistiche, un’evidente sinecura temporanea. Finch era sufficientemente accorto da cogliere l’ambiguità della sua nuova posizione, ma anche abbastanza furbo per intuirne le possibilità. I suoi rapporti con i colleghi erano cauti, la sua gentilezza sempre di circostanza. 
Il decano di Scienze umanistiche, Josiah Claremont, era un uomo piccolo e barbuto, piuttosto avanti negli anni, che aveva già abbondantemente superato l’età della pensione. Lavorava lì dai primi anni Settanta del secolo precedente, quando l’istituto, da semplice college, si era trasformato in un’università a pieno titolo di cui suo padre era stato uno dei primi rettori. Era così attaccato al suo ruolo, e così legato alla storia dell’università, che nessuno aveva il coraggio di insistere perché andasse in pensione, malgrado la crescente incompetenza con cui amministrava il suo ufficio. Aveva perso quasi completamente la me-
55
moria. A volte si smarriva per i corridoi della Jesse Hall, dove si trovava il suo studio, e bisognava riaccompagnarlo come un bambino alla sua scrivania.
Ormai gestiva in modo così confuso gli affari dell’università che, quando dal suo ufficio arrivò l’annuncio che si sarebbe tenuto in casa sua un ricevimento in onore dei veterani della facoltà e dello staff amministrativo tornati dalla guerra, la maggior parte di quelli che avevano ricevuto l’invito pensò che si trattasse di un subdolo scherzo o di uno sbaglio. Invece non era né l’uno né l’altro. Fu Gordon Finch a confermare l’invito, e tutti intuirono che era stato lui a sollecitare il ricevimento e a organizzare la cosa. 
Josiah Claremont, rimasto vedovo molti anni addietro, viveva da solo con tre domestiche di colore vecchie quasi quanto lui. Stavano in una di quelle grandi case costruite prima della guerra civile che un tempo erano assai comuni nei dintorni di Columbia e andavano rapidamente scomparendo con l’avvento dei piccoli fattori autonomi e degli imprenditori immobiliari. L’architettura dell’edificio era amena ma indefinibile; pur avendo forma e dimensioni “meridionali”, non condivideva affatto il rigore neoclassico delle tipiche case della Virginia. Le assi erano dipinte di bianco e un bordo verde incorniciava le finestre e le balaustre dei balconcini che sporgevano qua e là dal piano superiore. Tutto l’edificio era circondato da un bosco e alti pioppi, spogli in quel pomeriggio d’inverno, bordavano l’ingresso e i viali. Era la casa più grande che William Stoner avesse mai visto. Quel venerdì pomeriggio percorse il viale d’accesso in soggezione, raggiungendo un gruppo di universitari che non conosceva, in attesa di entrare. 
56
Ad aprire la porta fu Gordon Finch, con indosso l’uniforme militare. Il gruppo entrò in un salottino quadrato, in fondo al quale c’era una scala ripida con le ringhiere di quercia lucida che portava al secondo piano. Un piccolo arazzo francese, con il blu e l’oro così scoloriti che la decorazione si distingueva a stento sotto la luce giallastra delle lampadine, era appeso al muro della scala proprio davanti ai nuovi arrivati. Stoner rimase un momento a guardarlo mentre il resto del gruppo si sparpagliava nel foyer. 
«Dammi il cappotto, Bill». La voce, vicina al suo orecchio, lo fece sobbalzare. Si voltò. Finch gli sorrideva, con la mano pronta a prendere il capo che Stoner non si era ancora levato. 
«Non eri mai venuto qui, vero?», gli chiese quasi sussurrando. Stoner fece segno di no con la testa.
Finch si rivolse agli altri e, senza alzare la voce, riuscì a farsi sentire da tutti. «Signori, andate nel salone principale». Indicò una porta sul lato destro del foyer. «È una delle attrazioni del luogo». 
«Sì», disse Stoner, «ne ho sentito parlare». 
«Claremont è un buon vecchio, sai? Mi ha chiesto di dargli una mano». 
Stoner annuì. 
Finch lo prese sottobraccio e lo condusse verso la porta che aveva appena indicato. «Oggi pomeriggio ci faremo una bella chiacchierata. Ora entra, ti raggiungerò tra un minuto. Voglio presentarti delle persone». 
Stoner fece per replicare, ma Finch s’era già voltato per accogliere un altro gruppo di ospiti appena arrivati. Stoner fece un bel respiro e aprì la porta che dava sul salone. 
57
Appena entrato, venendo dal freddo del foyer, sentì un gran caldo che lo respingeva, come per costringerlo a tornare indietro; il lento mormorio degli invitati, che aveva liberato aprendo la porta, gli rimbombò per un istante in testa, prima che le sue orecchie vi si abituassero. 
Una trentina di persone vagavano per la stanza, ma sul momento non ne riconobbe nessuna. Vide il nero, il grigio e il marrone dei sobri completi maschili, il verde marcio delle uniformi militari e qua e là l’azzurro o il rosa cipria di un abito femminile. Tutti si muovevano pigramente nel caldo della sala e Stoner prese a farlo insieme a loro, conscio di stagliarsi in altezza in mezzo agli ospiti già seduti, salutando con un cenno del capo quelli che ora cominciava a riconoscere. 
Una porta in fondo alla stanza si apriva su un parlatoio adiacente al salone, che era lungo e stretto. Le doppie porte d’ingresso erano spalancate su un immenso tavolo da pranzo in legno di noce, coperto da damasco giallo e carico di piatti bianchi e coppe d’argento scintillanti. Molte persone erano assiepate intorno al tavolo, a capo del quale una giovane donna, alta, sottile e bella, con indosso un abito di seta color blu marino, versava tè nelle tazze di porcellana bordate d’oro. Stoner si fermò sulla porta, colpito da quella visione. La giovane, dal viso dolce e affusolato, sorrideva agli ospiti intorno, e le sue dita sottili, quasi fragili, si muovevano con destrezza tra l’urna e le tazze. Guardandola, Stoner fu assalito dalla coscienza della propria goffaggine. 
Rimase a lungo sulla porta, immobile. Sentiva la voce morbida e delicata della ragazza che emergeva dal mormorio degli ospiti in attesa del tè. Poi la vide alzare la testa, e all’improvviso incrociò i suoi occhi: erano
58
grandi e pallidi e sembravano brillare di luce propria. Un po’ stordito, indietreggiò, tornando nel salottino più piccolo. Trovò una sedia libera in un angolo accanto al muro e vi si sedette con gli occhi fissi sul tappeto. Non guardava in direzione del salone, ma di tanto in tanto gli sembrava di sentire lo sguardo della ragazza sfiorargli bruscamente il viso. 
Gli ospiti si muovevano intorno a lui, scambiandosi di posto, alterando il tono di voce a seconda dell’interlocutore. Stoner li guardava attraverso un velo come uno spettatore estraneo. 
Dopo un po’ entrò nella stanza Gordon Finch e Stoner si alzò dalla sedia per andargli incontro. Un po’ bruscamente lo interruppe mentre conversava con un uomo anziano. Tirandolo da parte senza abbassare la voce, gli chiese di presentargli la ragazza che versava il tè. 
Finch lo guardò per un momento e l’espressione irritata che aveva cominciato a corrugargli la fronte si distese via via che gli si spalancavano gli occhi: «Che hai detto?», disse. Pur essendo più piccolo di Stoner, pareva che lo guardasse dall’alto in basso. 
«Voglio che mi presenti quella ragazza», ripeté Stoner. «La conosci?». 
«Certo», disse Finch. Un ghigno cominciò a disegnarsi sulle sue labbra: «È una lontana cugina del decano. È venuta da St Louis per far visita a una zia». Il ghigno si allargò. «Caro, vecchio Bill. Ma che ne vuoi sapere. Certo che te la presento. Andiamo». 
Si chiamava Edith Elaine Bostwick e viveva con i genitori a St Louis, dove la primavera precedente aveva completato un corso di due anni presso un seminario femminile privato. Era venuta a Columbia per qualche settima-
59
na, in visita alla sorella maggiore di sua madre, e con la bella stagione sarebbero partite insieme per il Gran Tour d’Europa: un viaggio di nuovo possibile, ora che la guerra era terminata. Suo padre, direttore di una delle banche più piccole di St Louis, veniva dal New England. Si era trasferito a ovest negli anni Settanta e aveva sposato la figlia maggiore di una famiglia benestante del Missouri centrale. Edith era vissuta sempre a St Louis. Qualche anno prima, d’estate, era andata a Boston con i genitori, era stata all’Opera di New York e ne aveva visitato i musei. Aveva vent’anni, suonava il piano e aveva una predisposizione per l’arte che sua madre cercava di incoraggiare. 
In seguito, Stoner cercò inutilmente di ricordarsi come avesse scoperto queste cose durante quel primo pomeriggio trascorso fino all’imbrunire in casa di Josiah Claremont. Perché nella sua mente tutto appariva rigido e confuso, come i disegni della tappezzeria sul muro della scala del foyer. Ricordava di aver parlato con la ragazza e che lei di tanto in tanto lo aveva guardato, restandogli accanto e concedendogli il piacere di ascoltare la sua voce fine e delicata, mentre rispondeva alle sue domande e ne poneva altre in modo meccanico. 
Gli ospiti iniziarono a congedarsi. Qualche arrivederci, uno sbattere di porte, e le stanze rimasero vuote. Stoner si trattenne finché non se ne furono andati quasi tutti, e quando arrivò il calesse di Edith, la seguì nel foyer aiutandola a infilarsi il soprabito. Un istante prima che uscisse, le chiese se poteva farle visita la sera dopo. 
Come se non l’avesse sentito, lei aprì la porta e rimase immobile per un lungo istante: l’aria gelida sferzava l’ingresso, lambendo il volto accaldato di Stoner. Alla fine si voltò a guardarlo, battendo più volte le palpebre. I suoi
60
occhi chiari erano molto lucidi, quasi sfrontati. Alla fine annuì e disse: «Sì. Potete farmi visita». Ma non sorrise. 
E così andò a farle visita a casa della zia, attraversando a piedi la città, in una gelida serata d’inverno del Midwest. Non c’erano nubi nel cielo. Una mezza luna brillava sul leggero strato di neve che era caduto nel primo pomeriggio. Le strade erano deserte e il silenzio ovattato era rotto solo dal rumore della neve che gli scricchiolava sotto ai piedi lungo il cammino. Una volta arrivato, si fermò a lungo davanti alla grande casa, ad ascoltare il silenzio. Il freddo gli intorpidiva i piedi, ma rimase immobile. Dalle tende delle finestre filtrava una luce fioca, che si posava sulla neve biancazzurra come un fumo giallo. Gli parve di vedere un movimento all’interno, ma non ne era sicuro. Deliberatamente, come se avesse preso un impegno con se stesso, s’incamminò lungo il viale che portava alla veranda e bussò alla porta d’ingresso. 
La zia di Edith (il suo nome, come Stoner apprese in seguito, era Emma Darley, ed era vedova da molti anni) venne ad aprirgli e lo invitò a entrare. Era una donna piccola e rotonda, con dei sottili capelli bianchi che le incorniciavano il volto. Aveva gli occhi neri, umidi e brillanti, e parlava sottovoce, con il fiato sospeso, come se dovesse sempre rivelare un segreto. Stoner la seguì in soggiorno e si sedette, di fronte a lei, su un lungo divano di noce, con la seduta e lo schienale foderati da un velluto blu molto spesso. La neve gli era rimasta sotto le scarpe; la guardò sciogliersi e formare delle chiazze umide sotto ai suoi piedi, sul morbido tappeto a fiori.
«Edith mi ha detto che insegna all’università, Mr Stoner», disse Mrs Darley. 
61
«Sì, signora», rispose, e si schiarì la voce. 
«È così bello tornare a parlare con un giovane docente», disse allegramente Mrs Darley. «Il mio povero marito, Mr Darley, ha fatto parte del consiglio d’amministrazione dell’università per qualche anno… Ma immagino che lei lo sappia». 
«No, signora», disse Stoner. 
«Oh», disse Mrs Darley. «Be’, avevamo l’abitudine di invitare i docenti più giovani a prendere il tè nel pomeriggio. Ma questo succedeva molti anni fa, prima della guerra. Lei è stato in guerra, professor Stoner?».
«No, signora», fece lui. «Sono rimasto all’università». 
«Già», disse Mrs Darley e annuì allegra. «E lei insegna…?». 
«Inglese», rispose Stoner. «E non sono un professore. Sono solo un lettore». Si rese conto che la sua voce era severa ma non riusciva a controllarla. Cercò di sorridere. 
«Ah, certo», disse lei. «Shakespeare… Browning…». 
Poi tra i due scese il silenzio. Stoner serrò le mani e guardò il pavimento. 
Mrs Darley disse: «Vado a vedere se Edith è pronta. Vuole scusarmi?». 
Stoner annuì e si alzò in piedi, mentre Mrs Darley si allontanava. Sentì un veemente sussurrio provenire dal retro. Rimase immobile per vari minuti. 
All’improvviso Edith comparve sulla grande porta, pallida e seria. Si guardarono l’un l’altra in maniera inespressiva. Lei fece un passo indietro e poi avanzò, le labbra strette e nervose. Si strinsero la mano con aria grave e si sedettero insieme sul divano. Senza parlare. 
Era più alta di come la ricordava, e più fragile. Aveva
62
il viso lungo e affusolato, e le labbra racchiudevano una solida dentatura. La pelle aveva quella tipica trasparenza che si scalda e si tinge di colore a ogni minima sollecitazione. I capelli erano d’un biondo rossiccio molto chiaro e li portava raccolti in grosse trecce sul capo. Ma furono soprattutto i suoi occhi a rapirlo e a trattenerlo, come già era accaduto il giorno prima. Erano grandissimi e del celeste più chiaro che si potesse immaginare. Quando li guardava, gli sembrava d’esser trascinato fuori da se stesso, in un mistero che non riusciva a comprendere. Trovava che fosse la donna più bella che avesse mai visto, e d’impulso disse: «Io… io… voglio conoscervi». Lei indietreggiò un poco. Stoner aggiunse in fretta: «Intendo dire che ieri, alla festa, non abbiamo avuto modo di parlare. Io avrei voluto, ma c’era così tanta gente. La gente a volte si insinua…». 
«È stata una bella festa», disse debolmente Edith. «Mi sono sembrati tutti molto gentili». 
«Oh sì, naturalmente», disse Stoner. «Volevo solo dire che…». Si interruppe. Edith restò in silenzio. 
Stoner riprese: «Dunque andrete in Europa con vostra zia, tra breve». 
«Sì», fece lei. 
«L’Europa…», ripeté Stoner, scuotendo la testa. «Dovete essere molto eccitata». 
Lei annuì, riluttante. 
«E dove andrete? Voglio dire… in che posti?».
«In Inghilterra», disse lei. «In Francia, in Italia». 
«E partirete… in primavera?». 
«In aprile», rispose.
«Cinque mesi», disse Stoner. «Non è molto. Spero che nel frattempo potremo…».
63
«Resterò qui solo tre settimane», disse svelta lei. «Poi tornerò a St Louis. Per Natale». 
«Tre settimane sono davvero poco», disse Stoner sorridendo. Poi aggiunse imbarazzato: «Allora cercherò di vedervi più spesso possibile, così potremo conoscerci meglio». 
Lei lo guardò quasi con orrore. «Non volevo dir questo», disse. «Vi prego…».
Stoner restò in silenzio per un momento. «Mi dispiace, io… però vorrei davvero tornare a farvi visita, tutte le volte che me lo consentirete. Posso?». 
«Oh», disse lei, «bene». Teneva le dita intrecciate in grembo e le nocche erano bianche nei punti in cui la pelle era tesa. Aveva delle lentiggini chiarissime sul dorso delle mani. 
Lui le domandò: «Sta andando male, vero? Dovete perdonarmi. Non avevo mai conosciuto una persona come voi, e sto dicendo cose molto sciocche. Dovete perdonarmi se vi ho messo in imbarazzo». 
«Oh no», disse lei. Si voltò a guardarlo e tirò le labbra in quello che gli parve un sorriso. «Nient’affatto. Mi trovo molto bene. Davvero». 
Stoner non sapeva più che dire. Fece riferimento al tempo e si scusò per aver sporcato di neve il tappeto. Lei mormorò qualcosa. Parlò delle lezioni che doveva tenere all’università, e lei annuì, disorientata. Poi rimasero in silenzio. Alla fine lui si alzò, muovendosi in modo lento e pesante, come se fosse stanco. Edith lo guardò inespressiva. 
«Bene», disse Stoner, schiarendosi la voce. «Si è fatto tardi, e io… Be’, scusatemi. Posso tornare a farvi visita tra qualche giorno? Forse…». 
64
Le sue parole caddero nel vuoto. Fece un cenno col capo, disse: «Buonasera», e si voltò per andarsene. 
Edith Bostwick con voce alta e stridula, priva di qualunque inflessione, esclamò: «Quand’ero bambina a circa sei anni suonavo il piano e mi piaceva dipingere ed ero molto timida così mia madre mi mandò alla Scuola per Ragazze di Miss Thorndyke a St Louis. Lì ero la più piccola, ma era giusto così perché papà era nel consiglio di amministrazione e aveva organizzato lui la cosa. All’inizio non mi piaceva ma poi ci sono stata benissimo. Le altre ragazze erano tutte molto gentili e ben educate, e con alcune siamo rimaste molto amiche e…». 
Stoner s’era voltato appena l’aveva sentita parlare e ora la osservava con uno stupore che non traspariva affatto dal suo volto. Lei guardava dritto davanti a sé, col viso privo di espressione e le labbra che si muovevano come se leggesse da un libro invisibile, senza capirne il contenuto. Stoner attraversò lentamente la stanza e le si sedette accanto. Edith parve non accorgersene: i suoi occhi rimasero fissi nel vuoto mentre continuava a parlargli di sé, come lui le aveva chiesto di fare. Stoner avrebbe voluto dirle di fermarsi, consolarla, accarezzarla. Invece non si mosse e non parlò. 
Edith andò avanti, e dopo un po’ lui cominciò a sentire quello che stava dicendo. Anni dopo gli capitò di pensare che durante quel primo, lungo incontro con lei, in quell’ora e mezza di una fredda sera di dicembre, Edith gli aveva parlato di sé più di quanto avesse mai fatto in seguito. Quando si congedarono, sentì che erano estranei in un modo per lui impensabile, e capì di essersi innamorato. 
65
Edith Elaine Bostwick probabilmente non era consapevole di ciò che aveva detto a William Stoner quella sera: e anche se lo fosse stata, non ne avrebbe compreso il significato. Stoner invece l’aveva capito, e non lo dimenticò mai. Ciò che aveva sentito era una specie di confessione, che interpretò come una richiesta di aiuto. 
Approfondendo la conoscenza di Edith, apprese molte altre cose sulla sua infanzia e la riconobbe simile a quella di tante altre ragazze della sua stessa età e condizione. La sua educazione era fondata sul presupposto che qualcuno l’avrebbe sempre protetta dalle grandi difficoltà della vita e che in cambio di tale protezione il suo unico dovere sarebbe stato quello di comportarsi come un grazioso e raffinato accessorio – poiché per le ragazze della sua estrazione sociale ed economica la protezione era quasi un obbligo sacro. Aveva dunque frequentato delle scuole private dove le avevano insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto. Nel tempo libero era stata incoraggiata a cucire, a suonare il piano, a dipingere acquerelli e ad argomentare sui libri più delicati. Era stata istruita anche in materia di abiti, carrozze, dizione e moralità. 
Il suo apprendistato morale, sia a scuola che a casa, era stato censorio nei modi e coercitivo negli intenti e quasi interamente mancante riguardo il sesso. Le allusioni alla sessualità, tuttavia, erano state sempre indirette e inconfessate. Per questo essa pervadeva ogni aspetto della sua educazione, che riceveva il grosso della sua energia proprio da quella forza morale tacita e regressiva. Edith sapeva solo che avrebbe avuto dei doveri verso il marito e la famiglia, e che vi avrebbe dovuto adempiere. 
66
La sua infanzia era stata eccessivamente formale, perfino nei momenti più intimi e quotidiani. I suoi genitori si comportavano tra loro in modo cortese e distante. Edith non li aveva mai visti scambiarsi un gesto di affetto spontaneo, né esprimere rabbia, o amore. La rabbia si traduceva in giorni e giorni di cortese silenzio, e l’amore in una cortese espressione d’affetto. Da bambina era stata sempre molto sola, e la solitudine era una delle condizioni che aveva sperimentato fin dall’inizio. 
Era cresciuta dunque con un fragile talento per le arti più delicate e senza alcuna conoscenza delle necessità che la vita impone di giorno in giorno. 
Ricamava trame delicate e inutili, dipingeva paesaggi evanescenti con acquarelli finissimi, e suonava il piano con tocco debole ma preciso. Era però totalmente all’oscuro delle proprie funzioni fisiologiche, non si era mai gestita in solitudine, e non aveva mai immaginato di potersi prendere cura di qualcun altro. La sua vita era immutabile, come un mormorio sommesso e a custodirla c’era sua madre, che, quando Edith era piccola, le restava seduta accanto per ore a guardarla dipingere o suonare il piano, come se entrambe non potessero fare altrimenti. 
A tredici anni Edith subì la normale trasformazione sessuale, ma subì anche una più insolita metamorfosi fisica. Nel giro di pochi mesi crebbe di quasi trenta centimetri, facendosi alta come una persona adulta. E l’associazione tra la goffaggine fisica e la nuova, imbarazzante condizione sessuale le provocò un trauma da cui non si riprese mai del tutto. Tali cambiamenti accrebbero la sua naturale timidezza: diffidando dei compagni di scuola e non avendo nessuno con cui parlare a casa, cominciò a chiudersi sempre più in se stessa. 
67
Ora William Stoner s’era intromesso in quella profondissima intimità e qualcosa d’insospettato in lei, come una specie d’istinto, l’aveva indotta a richiamarlo prima che uscisse dalla porta. E a parlare in modo così rapido e disperato, come non aveva mai fatto prima, e come non avrebbe fatto mai più. 
Durante le due settimane che seguirono la vide quasi ogni sera. Andarono a un concerto sostenuto dal nuovo dipartimento di Musica dell’università. Quando non faceva troppo freddo, si concedevano delle lunghe, solenni passeggiate per le vie di Columbia, ma il più delle volte se ne stavano seduti nel soggiorno di Mrs Darley. A volte parlavano e Edith suonava il piano per lui. Stoner ascoltava e osservava le sue mani muoversi senza vigore su quei tasti. Dopo quella prima sera insieme, le loro conversazioni si fecero curiosamente impersonali: Stoner non riusciva a vincere la riservatezza di Edith, e quando si accorgeva che i suoi sforzi la imbarazzavano, non insisteva. Eppure si trovavano abbastanza a loro agio, e gli sembrava che ci fosse una certa intesa. Quando mancava meno di una settimana al suo ritorno a St Louis, le dichiarò il suo amore e le chiese di sposarlo. 
Pur non sapendo bene che reazione aspettarsi, rimase stupito dalla sua equanimità. Dopo averlo ascoltato, Edith gli rivolse un lungo sguardo, riflessivo e stranamente audace, e Stoner si ricordò di quel primo pomeriggio in cui le aveva chiesto il permesso di farle visita e lei l’aveva guardato restando ferma sulla porta, da cui spirava un vento gelido su entrambi. Poi Edith abbassò gli occhi e lo stupore che le si dipinse in volto gli parve irreale. Disse che non aveva mai pensato a lui in quel
68
modo, che non aveva mai immaginato, che non sapeva. 
«Ma avrai capito che ti amo», disse lui, «non vedo come avrei potuto nasconderlo…». 
Lei rispose con una punta d’eccitazione: «No. Non ne sapevo niente». 
«Allora bisogna che te lo ripeta», disse gentilmente Stoner, «e bisogna che ti abitui all’idea. Ti amo, e non posso immaginare di vivere senza di te». 
Lei scosse la testa, come confusa. «Il mio viaggio in Europa», disse debolmente: «La zia Emma…». 
Stoner sentì una risata salirgli in gola, e disse con tono allegro e confidenziale: «Ah, l’Europa. Ti ci porto io, in Europa. Un giorno ci andremo insieme». 
Lei si staccò da lui, portandosi le dita alla fronte. «Dovete darmi il tempo di pensare. E dovrò parlare con mamma e papà, prima di considerare anche lontanamente…». 
Quello fu il massimo che gli concesse. Non l’avrebbe più rivisto prima della sua partenza per St Louis, che sarebbe avvenuta di lì a pochi giorni, e da lì gli avrebbe scritto solo dopo aver parlato con i genitori ed essersi chiarita le idee. Quel giorno, prima di andarsene, Stoner si chinò su di lei per baciarla ma Edith voltò la testa e le sue labbra le sfiorarono una guancia. Lei gli diede una fugace stretta di mano e lo fece uscire dalla porta d’ingresso, senza più guardarlo. 
Dieci giorni dopo, Stoner ricevette la sua lettera. Era un appunto stranamente formale, che non faceva alcun riferimento a ciò che era accaduto tra loro. Edith diceva solo che le sarebbe piaciuto fargli incontrare i suoi genitori e che tutti speravano di vederlo presto a St Louis, anche il fine settimana successivo, se possibile. 
69
I genitori di Edith lo accolsero con la gelida cortesia che aveva previsto, impedendogli in ogni modo di sentirsi a suo agio. Ogni volta che gli rivolgeva una domanda, Mrs Bostwick attendeva la risposta e poi diceva «S… sì», con grande scetticismo, quindi lo guardava incuriosita, come se avesse il viso sporco o del sangue che gli colava dal naso. Era alta e magra come Edith e sulle prime Stoner si stupì di quella somiglianza, che non aveva immaginato. Ma il viso di Mrs Bostwick era grave e letargico, completamente privo di forza e delicatezza, e mostrava i segni profondi di una sorta di perenne insoddisfazione. 
Anche Horace Bostwick era alto, ma era d’una pesantezza strana e irreale, quasi corpulento. Un riporto di capelli grigi si avviluppava intorno a un cranio altrimenti calvo e delle pieghe di pelle floscia gli pendevano dalle mandibole. Quando si rivolgeva a Stoner guardava al di sopra della sua testa, come se stesse osservando qualcosa dietro di lui; e quando Stoner gli rispondeva, tamburellava con le grosse dita sul cordoncino al centro del panciotto. 
Edith accolse Stoner come fosse un estraneo e poi si allontanò con noncuranza, immergendosi in qualche banale occupazione. Stoner la seguiva continuamente con gli occhi, ma non trovava il modo di farsi guardare. 
Era la casa più grande ed elegante in cui fosse mai entrato. Le stanze erano alte e buie, e pullulavano di vasi d’ogni dimensione e foggia, di argenterie baluginanti su tavoli coperti di marmo e cassettoni e cassepanche, e ricche tappezzerie su mobili dalle linee delicate. Vagarono attraverso molte stanze fino a un grande soggiorno dove, sussurrò Mrs Bostwick, lei e suo marito avevano l’abitudine di sedersi a conversare con gli amici in modo infor-
70
male. Stoner si sedette su una sedia così fragile che ebbe paura di romperla. La sentiva dondolare sotto il suo peso. 
Edith intanto era scomparsa. Stoner la cercava con lo sguardo in modo frenetico. Ma lei non rientrò nel soggiorno per quasi due ore, finché Stoner e i suoi genitori non ebbero finito la loro “conversazione”. 
La “conversazione” fu indiretta, allusiva e posata, e interrotta da lunghi silenzi. Horace Bostwick parlò di sé con frasi concise, guardando sempre molti centimetri al di sopra della testa di Stoner. Stoner scoprì che Bostwick era di Boston e che suo padre, già avanti negli anni, aveva distrutto la sua carriera e il futuro di suo figlio nel New England attraverso una serie di investimenti improvvidi che avevano portato la sua banca al fallimento. «Tradito», sentenziò Bostwick rivolto al soffitto, «da falsi amici». Così, poco dopo la guerra civile, suo figlio era venuto nel Missouri, con l’intenzione di spostarsi a ovest, ma non si era mai spinto oltre Kansas City, dove talvolta andava in viaggio d’affari. Memore del fallimento – o del tradimento – di suo padre, aveva mantenuto il suo primo lavoro in una piccola banca di St Louis. E alle soglie dei quarant’anni, forte della sua posizione di vicepresidente, aveva sposato una ragazza del posto, di buona famiglia. Da lei aveva avuto solo un figlio: avrebbe voluto un maschio e invece era nata una bambina, e questa era un’ulteriore delusione che non si preoccupava troppo di nascondere. Come molti uomini che ritengono di aver avuto solo in parte il successo che meritavano, era straordinariamente vanesio e roso dall’affermazione della propria importanza. Ogni dieci o quindici minuti sfilava dal taschino del panciotto un grande orologio d’oro, lo guardava e annuiva tra sé. 
71
Mrs Bostwick parlava meno spesso e meno direttamente di sé, ma Stoner la inquadrò rapidamente. Era una signora del Sud di un certo tipo. Appartenente a un’antica famiglia ormai discretamente impoverita, era cresciuta con la presunzione che le difficoltà in cui versavano i suoi fossero inadeguate alla loro estrazione. Le era stato insegnato ad aspettarsi un miglioramento di tale condizione, ma di natura non meglio specificata. Così aveva sposato Horace Bostwick con quell’insoddisfazione per lei così consueta da essersi fatta parte della sua persona. E col passare degli anni l’insoddisfazione e l’amarezza erano cresciute, diventando così diffuse e pervasive che nessun rimedio ormai poteva sopirle. La sua voce era sottile e acuta, e recava in sé una nota di disperazione che dava un valore speciale a ogni parola che pronunciava.
Passò quasi tutto il pomeriggio prima che uno di loro menzionasse il tema che li aveva fatti incontrare.
I Bostwick gli spiegarono quanto avessero a cuore Edith e quanto fossero preoccupati per la sua felicità futura, visti i conforti cui era abituata. Stoner restò seduto in angoscioso imbarazzo, cercando di rispondere nel modo più appropriato.
«Una ragazza straordinaria», disse Mrs Bostwick, «così sensibile». Le rughe sul suo viso si fecero più profonde, mentre aggiungeva con un’amarezza atavica: «Nessuno, nessuno può comprendere a pieno la delicatezza di… di…».
«Sì», tagliò corto Bostwick. E cominciò a indagare intorno a quelle che definì le “prospettive” di Stoner. Stoner rispose come meglio poté. Non aveva mai pensato alle sue “prospettive” prima di allora e si stupì di quanto apparissero misere.
72
Bostwick disse: «E non avete altri… mezzi… oltre alla vostra professione?».
«No, signore», replicò Stoner.
Mr Bostwick scosse tristemente la testa. «Sapete, Edith ha avuto dei… privilegi. Una bella casa, ottima servitù, le scuole migliori. Mi chiedo se… Ho paura che un abbassamento del suo tenore di vita, che sarebbe inevitabile data la vostra… ehm, condizione… non…». La sua voce si affievolì.
Stoner sentì la nausea crescere in lui, assieme a una gran rabbia. Aspettò qualche momento prima di rispondere, cercando di mantenere la voce il più possibile piatta e priva di espressione.
«Devo dirvi, signore, che non avevo considerato tali questioni materiali prima di adesso. La felicità di Edith è, naturalmente, anche la mia. Ma se ritenete che potrebbe essere infelice, allora devo…». Si fermò, cercando le parole. Voleva dichiarare al padre tutto il suo amore per Edith, ribadirgli la sua certezza che insieme sarebbero stati felici, spiegargli che genere di vita avrebbero fatto. Ma non proseguì. Colse sul viso di Horace Bostwick un’espressione così tesa, sgomenta, quasi spaventata, che lo stupore lo ridusse al silenzio.
«No», disse affrettatamente Bostwick, chiarendo le sue intenzioni: «Voi mi fraintendete. Stavo solo cercando di sottoporvi alcune… difficoltà… che potrebbero sorgere in futuro. Ma sono certo che voi ragazzi ne avete già parlato e avete le idee ben chiare. Rispetto il vostro giudizio e…».
E la faccenda fu risolta. Si scambiarono qualche altra parola, dopo di che Mrs Bostwick si domandò ad alta voce dove fosse finita Edith per tutto quel tempo. La
73
chiamò con la sua voce alta e sottile e dopo qualche istante Edith entrò nella stanza, dove la aspettavano tutti. Non guardò Stoner.
Horace Bostwick le disse che aveva fatto una bella chiacchierata con il suo “giovanotto” e che avevano la sua benedizione. Edith annuì.
«Bene», disse sua madre, «dobbiamo pianificare un po’ di cose. Matrimonio in primavera. Forse giugno».
«No», disse Edith.
«Come dici, cara?», domandò sua madre, affabile.
«Se bisogna farlo», disse Edith, «voglio farlo in fretta».
«L’impazienza dei giovani», disse Mr Bostwick schiarendosi la gola. «Forse però tua madre ha ragione, cara. Bisogna pianificare alcune cose. C’è bisogno di tempo».
«No», disse di nuovo Edith, con una fermezza che li indusse tutti a guardarla. «Dev’essere prima».
Vi fu un silenzio. Poi suo padre disse, con tono sorprendentemente mite: «Molto bene, mia cara. Come vuoi tu. Deciderete voi ragazzi».
Edith annuì, mormorò qualcosa in merito a un’incombenza da adempiere e sgattaiolò fuori dalla stanza. Stoner non la rivide prima della cena, che Horace Bostwick presiedette in regale silenzio. Dopo mangiato Edith suonò il piano per loro, ma suonò malamente e in modo troppo rigido, facendo molti errori. Poi disse che si sentiva poco bene e si ritirò in camera sua.
Quella notte, nella stanza degli ospiti, William Stoner non riuscì a dormire. Restò a guardare il soffitto interrogandosi sulla strana piega che stava prendendo la sua vita, e per la prima volta mise in questione l’opportunità della sua scelta. Poi pensò a Edith e si rassicurò un poco. Immaginò che tutti gli uomini avessero le stesse
74
incertezze, e gli stessi dubbi, che all’improvviso lo avevano assalito.
La mattina dopo doveva prendere il treno per Columbia di buon’ora, così non ebbe molto tempo dopo colazione. Voleva noleggiare un calesse fino alla stazione, ma Mr Bostwick insistette perché uno dei suoi servi lo accompagnasse in landò. Edith gli avrebbe scritto nel giro di pochi giorni in merito al matrimonio. Ringraziò e salutò i Bostwick che lo accompagnarono fino alla porta insieme a Edith. Aveva quasi raggiunto il cancello d’ingresso quando sentì dei passi affrettati alle sue spalle. Si voltò. Era Edith. Si fermò immobile davanti a lui, rigidissima, pallida in viso, e lo guardò dritto negli occhi.
«Cercherò di essere una buona moglie per te, William», disse. «Cercherò».
Stoner realizzò che da quando era arrivato era la prima volta che qualcuno lo chiamava per nome.
75
Quattro
Per ragioni che non spiegò, Edith non volle sposarsi a St Louis, e il matrimonio fu quindi celebrato a Columbia, nel grande salone di Emma Darley, dove avevano trascorso le prime ore insieme. Fu la prima settimana di febbraio, subito dopo l’interruzione dei corsi per la pausa di fine semestre. I Bostwick presero il treno da St Louis e i genitori di William, che non avevano mai visto Edith, partirono dalla fattoria con il carretto arrivando sabato pomeriggio, il giorno prima del matrimonio.
Stoner avrebbe voluto che si sistemassero in un albergo, ma preferirono stare dai Foote, anche se questi erano diventati freddi e distanti da quando William non lavorava più per loro.
«Non sapremmo come fare in albergo», fece seriamente suo padre: «E i Foote possono ospitarci per una notte».
Quella sera William affittò un calessino e condusse i suoi genitori a casa di Emma Darley, perché conoscessero Edith.
Furono accolti sulla porta da Mrs Darley, che diede loro un breve, imbarazzato sguardo e li fece accomodare in soggiorno. Sua madre e suo padre si sedettero con attenzione, quasi avessero paura di muoversi nei vestiti nuovi e ancora rigidi.
76
«Non capisco perché Edith non scenda», mormorò Mrs Darley dopo un po’. «Se volete scusarmi». E uscì per andare a prendere la nipote.
Dopo una lunga attesa la ragazza arrivò. Entrò in soggiorno lenta e riluttante, con un misto di sfida e timore.
Gli Stoner si alzarono in piedi, e per un lungo istante rimasero tutti e quattro in imbarazzo, senza sapere cosa dire. Poi Edith si avvicinò rigida e diede la mano prima alla madre di William e poi a suo padre.
«Piacere», disse Mr Stoner in tono formale, lasciandole immediatamente la mano, quasi avesse paura di romperla.
Edith lo guardò, cercò di sorridere e indietreggiò di nuovo. «Sedete», disse. «Vi prego».
Si sedettero. William disse qualcosa. La sua voce gli parve forzata.
Poi, in un momento di silenzio, con tono riflessivo e quieto, come se pensasse ad alta voce, sua madre fece: «Ma quant’è carina, no?».
William rise un poco e rispose con dolcezza: «Sì, mamma. È molto carina».
Dopo di che riuscirono a scambiare qualche parola in modo più rilassato, anche se ogni tanto si guardavano, spostando subito gli occhi altrove. Edith mormorò che era felice di conoscerli e le dispiaceva di non averli incontrati prima.
«E quando ci saremo sistemati…». Si interruppe, e William si domandò se avrebbe continuato. «Quando ci saremo sistemati, dovrete venire a farci visita».
«Moltissime grazie», disse la madre di Stoner.
La conversazione proseguì, spesso interrotta da lunghi silenzi. La tensione di Edith aumentava, divenendo
77
sempre più evidente, tanto che una o due volte non rispose a una domanda che le avevano fatto. William si alzò in piedi e sua madre, guardandosi intorno nervosa, fece altrettanto. Suo padre invece non si mosse. Posò lo sguardo su Edith e restò a fissarla per un lungo istante.
Alla fine disse: «William è stato sempre un bravo ragazzo. Sono felice che si sia trovato una donna in gamba. L’uomo ha bisogno della donna, che lo deve aiutare e sostenere. Tu ora dovrai voler bene a William. Lui ha bisogno di qualcuno che gli voglia bene».
Edith fece uno scatto indietro con la testa, come se reagisse a uno shock. Aveva gli occhi spalancati, e per un momento William pensò che fosse arrabbiata. Ma non lo era. Lei e suo padre si guardarono a lungo, senza esitazione, negli occhi.
«Cercherò, Mr Stoner», disse. «Cercherò».
Poi il padre di William si alzò in piedi, fece un goffo inchino e disse: «Si è fatto tardi. Faremmo meglio ad andare». E si avviò verso la porta seguito dalla moglie – piccola, scura e indistinta – lasciando Edith e suo figlio da soli.
Edith non disse nulla. Ma quando si voltò per augurarle la buonanotte, William vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. Si chinò a baciarla, e sentì sul braccio la fragile resistenza delle sue dita sottili.
La luce fredda e chiara del pomeriggio di febbraio entrava obliqua dalle finestre sulla facciata di casa Darley, rotta solo dalle figure che si muovevano nel grande salone. I genitori di Stoner erano immobili in un angolo della stanza; i Bostwick, che erano arrivati solo un’ora prima con il treno del mattino, stavano in piedi accanto a loro, senza guardarli; Gordon Finch girava ansioso in
78
lungo e in largo, con il suo passo pesante, quasi fosse responsabile di qualcosa; c’erano poche persone, amici di Edith o dei suoi genitori, che Stoner non conosceva. Si ascoltava parlare con la gente intorno, avvertiva le sue labbra sorridere e udiva le voci degli ospiti giungergli ovattate, come avvolte da spessi strati di panno.
Gordon Finch gli stava accanto. Aveva il viso sudato che gli avvampava sul completo scuro. Con un ghigno, gli domandò: «Sei pronto, Bill?».
Stoner sentì che con la testa faceva segno di sì.
Finch chiese ancora: «Il condannato ha un ultimo desiderio?».
Stoner sorrise e fece segno di no.
L’amico gli diede una pacca sulla spalla. «Stammi attaccato e basta. Fai quello che ti dico, è tutto sotto controllo. Edith scenderà tra pochi minuti».
Si chiese se si sarebbe ricordato di quei momenti, una volta finita la cerimonia. Tutto gli appariva confuso, come se fosse immerso nella nebbia. Sentì che domandava a Finch: «Il sacerdote. Non l’ho visto. C’è?».
Finch sorrise, scosse la testa e disse qualcosa. Poi un mormorio si alzò nella stanza. Edith stava scendendo le scale.
Con l’abito bianco indosso, era come un lampo di luce fredda che inondava la stanza. Stoner fece per andarle incontro, quasi senza accorgersene, e avvertì sul braccio la mano di Finch, che lo tratteneva. Edith era pallida, ma gli fece un piccolo sorriso. Poi se la ritrovò accanto e cominciarono a camminare insieme. Si fermarono davanti a uno sconosciuto con un colletto rotondo: era piccolo e grasso, e aveva un viso indefinito. Mormorava delle parole guardando un libro bianco che aveva
79
tra le mani. William si ascoltò rispondere durante le pause. Sentiva Edith tremargli accanto.
Poi vi fu un lungo silenzio, un altro mormorio e il suono di una risata. Qualcuno disse: «Bacia la sposa!». Si accorse di voltarsi: vide il ghigno di Finch. Sorrise a Edith, intravedendo il suo viso tra la nebbia, e la baciò. Aveva le labbra secche come le sue.
Si sentì stringere la mano. Alle sue spalle, qualcuno applaudiva e rideva mentre la stanza gli girava intorno. Entrarono altre persone. Una grande scodella di punch di vetro smerigliato apparve su un lungo tavolo in fondo alla sala. C’era una torta. Qualcuno strinse la sua mano su quella di Edith. Apparve un coltello e capì che doveva guidare la mano di lei mentre tagliava la torta.
Poi lo allontanarono da Edith e non riuscì più a scorgerla in mezzo alla calca. Parlava, rideva, annuiva e si guardava intorno cercandola. Vide sua madre e suo padre fermi nello stesso angolo della stanza, da cui non si erano mossi. Sua madre sorrideva, e suo padre, imbarazzato, le teneva una mano sulla spalla. Stoner si avviò verso di loro ma venne fermato da qualcuno che gli rivolse la parola.
Poi vide Edith. Era con il padre, la madre e la zia. Suo padre, l’espressione leggermente accigliata, esaminava irrequieto la stanza mentre la moglie piangeva, con gli occhi rossi e gonfi sopra gli zigomi sporgenti e la bocca piegata all’ingiù come una bambina. Mrs Darley e Edith la stavano abbracciando, e Mrs Darley le parlava in fretta, come se cercasse di spiegarle qualcosa. Pur essendo sul lato opposto della sala, Stoner notò che Edith, invece, stava zitta: il suo viso sembrava una maschera, bianca e inespressiva. Poi le due accompagnarono Mrs Bostwick
80
fuori dalla stanza, e William rivide Edith solo dopo la fine del ricevimento, quando Gordon Finch gli sussurrò qualcosa nell’orecchio, lo condusse verso una porta laterale che si apriva su un piccolo giardino e lo spinse fuori. Edith era lì ad aspettarlo, imbacuccata per il freddo, con il collo del vestito alzato sul viso, tanto che non riusciva a vederlo. Gordon Finch, ridendo e pronunciando delle parole che William non riuscì a comprendere, li spinse lungo un viale fino in strada, dove un calessino coperto li aspettava per accompagnarli alla stazione. Solo quando furono sul treno per St Louis, dove avrebbero trascorso una settimana in luna di miele, William Stoner capì che era tutto finito e che aveva una moglie.
Erano giunti senza peccato al matrimonio, ma in modi profondamente diversi. Erano entrambi illibati e consapevoli della loro inesperienza. Ma mentre William, essendo cresciuto in una fattoria, era abituato ai naturali processi della vita, per Edith tutto era profondamente misterioso e inatteso. Non sapeva nulla di certe cose e c’era qualcosa in lei che la pregava di restare all’oscuro.
Così, come per molti altri, la loro luna di miele fu un fallimento, eppure non l’ammettevano neanche a se stessi. Solo molto tempo dopo compresero il significato di quel fallimento.
Arrivarono a St Louis la domenica, a tarda notte. Sul treno, circondati da estranei che li guardavano con curiosità e approvazione, Edith si era rianimata e sembrava quasi allegra. Risero e si tennero per mano parlando dei giorni a venire. Una volta in città, mentre William cercava una carrozza che li accompagnasse in albergo, l’allegria di Edith si fece vagamente isterica.
81
Ridendo, William la portò quasi in braccio fin dentro l’Hotel Ambassador, un edificio massiccio di pietra bruna. La hall era semideserta, buia e pesante come una caverna. Appena furono dentro, Edith si azzittì di colpo e lo seguì sbandando mentre percorrevano l’immenso pavimento fino alla reception. Quando entrarono in camera sembrava quasi ammalata: tremava come se avesse la febbre, aveva le labbra blu e la pelle bianca come il gesso. William voleva chiamare un dottore, ma lei gli assicurò che era solo stanca e aveva bisogno di riposare. Parlarono in tono grave di quanto la giornata fosse stata pesante, e Edith alluse a una sorta di debolezza di cui talvolta soffriva. Mormorò, ma senza guardarlo e senza intonazione nella voce, che voleva che le loro prime ore insieme fossero perfette.
E William disse: «Lo sono… lo saranno. Devi riposare. Il nostro matrimonio inizierà domani».
E come altri mariti di cui aveva sentito parlare e su cui talvolta gli era capitato di fare dell’ironia, passò la prima notte di nozze insonne e lontano dalla moglie, rannicchiato su un divanetto troppo corto per lui, con gli occhi spalancati nel buio.
Si svegliò presto. La loro suite, scelta e pagata dai genitori di Edith come regalo di nozze, era al decimo piano e dominava tutta la città. Chiamò con dolcezza Edith, e dopo pochi minuti lei uscì dalla stanza, legandosi il cordoncino della veste da camera, sbadigliando assonnata, ma sorridendo un poco. William sentì che l’amore per lei gli stringeva la gola. La prese per mano e si fermarono davanti alla finestra del soggiorno a guardare il panorama. Automobili, pedoni e carrozze strisciavano lungo le stradine ai loro piedi. Si sentivano en-
82
trambi lontanissimi dalle corse e dagli affanni dell’umanità. In lontananza, visibile oltre gli edifici quadrati di pietra e mattoni rossi, il fiume Mississippi serpeggiava coi suoi flutti marroni e bluastri sotto al sole del mattino; i battelli e i rimorchiatori che si arrampicavano su e giù lungo i suoi irti gomiti sembravano giocattoli, anche se l’aria gelida era piena del fumo grigio dei loro camini. Stoner provò un gran senso di quiete. Cinse sua moglie con un braccio e la strinse delicatamente, mentre insieme osservavano quel mondo che sembrava ricco di promesse e dolci avventure.
Fecero colazione presto. Edith sembrava rinfrancata, come se si fosse completamente ripresa dall’indisposizione della notte prima. Era tornata quasi allegra, e lo guardava con un’intimità e un calore che William attribuì alla gratitudine e all’amore. Non parlarono di ciò che era accaduto e di tanto in tanto Edith scrutava il suo nuovo anello e se lo sistemava sul dito.
Si imbacuccarono per proteggersi dal freddo e camminarono per le strade di St Louis, che cominciavano a riempirsi di gente. Guardarono le vetrine, parlarono del futuro pensando seriamente a come l’avrebbero impegnato. William cominciò a recuperare la scioltezza e la serenità che aveva scoperto nei primi tempi in cui corteggiava la donna che era diventata sua moglie. Edith si stringeva al suo braccio ascoltandolo con un’attenzione che non aveva mai dimostrato prima. Verso metà mattina presero il caffè in un localino ben riscaldato mentre osservavano i passanti correre al freddo. Poi trovarono una carrozza e si fecero accompagnare al Museo d’Arte. Tenendosi per il braccio, attraversarono le grandi sale im-
83
merse nella luce scintillante che si rifletteva dai quadri. In quella quiete, in quel calore, in quell’atmosfera senza tempo data dai dipinti e dalle statue antiche, William Stoner fu sopraffatto dal trasporto per la fanciulla alta e delicata che gli camminava accanto e sentì una dolce passione crescere in lui, calda e sensuale, come i colori che venivano dalle pareti attorno. Quando uscirono da lì, nel tardo pomeriggio, il cielo si era annuvolato e aveva cominciato a scendere una pioggerella sottile, ma William Stoner sentiva ancora il calore che aveva accumulato dentro al museo. Rientrarono in albergo poco dopo il tramonto. Edith andò in camera a riposare, e William chiamò la reception per farsi mandare in stanza una cena leggera; poi, di getto, decise di scendere lui stesso al bar per ordinare, di lì a un’ora, anche una bottiglia di champagne ghiacciata. Il barista annuì con aria triste e gli disse che lo champagne non sarebbe stato un gran che. Dal primo di luglio il Proibizionismo sarebbe entrato in vigore in tutta la nazione. Era già illegale mescere o distillare liquori e nelle cantine dell’albergo restavano solo una cinquantina di bottiglie di champagne. Inoltre, gli sarebbe costato molto più del suo valore effettivo. Stoner sorrise e disse che andava bene lo stesso.
Anche se a casa dei suoi genitori, in qualche occasione speciale, Edith aveva già bevuto un po’ di vino, non aveva mai assaggiato lo champagne. Mentre cenavano seduti in soggiorno, davanti al piccolo tavolino quadrato, guardava nervosamente la bottiglia sistemata nel cestello del ghiaccio. Due candele bianche su un candelabro di ottone opaco baluginavano tremanti nel buio; William aveva spento tutte le altre luci. Lui e Edith parlavano alla luce delle fiammelle che catturava le curve morbide
84
della bottiglia scura scintillando sul ghiaccio intorno. Erano entrambi nervosi e misuratamente allegri.
Maldestro, stappò lo champagne, Edith fece un balzo per lo spavento e la schiuma bianca sgorgò dal collo della bottiglia e gli inzuppò le mani. Risero insieme della sua goffaggine. Bevvero un bicchiere e Edith simulò un po’ d’ebbrezza. Ne presero un altro. William credette di scorgere un principio di languore in lei, come una quiete che le distendeva il viso, un velo di malinconia che le offuscava lo sguardo. Si alzò e raggiunse il lato opposto del tavolino, fermandosi dietro di lei. Posò le mani sulle sue spalle, stupendosi di quanto le sue dita fossero tozze e pesanti su quella pelle e quelle ossa così delicate. Al suo tocco Edith si paralizzò e Stoner fece scorrere delicatamente le mani sui bordi della sua nuca sottile, per poi affondarle tra i bei riccioli rossi. Il collo della ragazza era rigido e i nervi vibravano per la tensione. Le mise le mani sulle braccia e le sollevò con garbo, in modo che lei si alzasse dalla sedia; poi le fece voltare il viso. I suoi occhi, grandi, pallidi e quasi trasparenti alla luce delle candele, lo guardarono inespressivi. Stoner avvertì per lei una vicinanza remota e un senso di pietà davanti a tanta impotenza. Il desiderio gli cresceva in gola e non lo faceva parlare. La trasse un poco verso la stanza da letto, sentendo un’immediata resistenza nel suo corpo e, allo stesso tempo, la volontà di accantonare tale resistenza. Lasciò aperta la porta che dava sulla stanza buia: la luce fioca delle candele brillava appena nell’oscurità. Mormorò qualcosa per tranquillizzarla, ma le parole gli uscirono soffocate e non riuscì a capire cosa le diceva. Posò le mani sul suo corpo e rovistò in cerca dei bottoni. Lei lo allontanò meccani-
85
camente; teneva gli occhi chiusi e le labbra serrate nel buio. Gli voltò le spalle e con un gesto rapido si aprì il vestito, che le ricadde ai piedi stropicciato. Ora aveva le braccia e le spalle nude, e tremando come se avesse freddo disse con voce piatta: «Vai nell’altra stanza. Sarò pronta tra un minuto». Stoner le toccò le braccia e le posò le labbra sulla spalla, ma lei non si voltò.
Una volta in soggiorno, restò a fissare le candele che illuminavano fioche i resti della cena, in mezzo ai quali c’era la bottiglia di champagne, ancora mezza piena. Se ne versò un goccio in un bicchiere e lo assaggiò: era diventato tiepido e dolciastro.
Quando tornò in camera, Edith era a letto con le coperte tirate fino al mento, il viso rivolto al soffitto, gli occhi chiusi e la fronte leggermente aggrottata. Silenziosamente, come se non volesse svegliarla, Stoner si svestì e si mise a letto accanto a lei. Per un lungo istante rimase steso in preda al desiderio, che s’era fatto quasi impersonale, essendo una cosa solo sua. Poi si rivolse a Edith, come se cercasse un rifugio da quelle sensazioni. Ma lei non rispose. La toccò con una mano e sentì, sotto alla stoffa sottile della sua camicia da notte, la carne tanto agognata. Mosse la mano su di lei, che restò ferma, sempre più accigliata. Le parlò di nuovo, pronunciando il suo nome nel silenzio, poi le si mise sopra, gentile nella sua goffaggine. Quando le toccò la pelle morbida delle cosce, Edith voltò la testa di scatto e alzò un braccio per coprirsi gli occhi. Non fece alcun rumore.
Dopo, rimase steso accanto a lei, parlandole serenamente, da innamorato. Lei aveva aperto gli occhi e lo fissava nell’ombra. Il suo viso non aveva espressione. Poi d’improvviso scostò le coperte e corse svelta in ba-
86
gno. Stoner vide la luce accendersi e la sentì dare di stomaco, con angoscia e violenza. La chiamò, avvicinandosi al bagno, ma la porta era chiusa a chiave. La chiamò ancora. Non rispose. Tornò a letto e restò ad aspettarla. Dopo molti minuti di silenzio la luce in bagno si spense e la porta si aprì. Edith uscì e tornò a letto camminando come un automa.
«È stato lo champagne», disse. «Non avrei dovuto bere il secondo bicchiere».
Poi tirò su le coperte e si voltò di spalle. Qualche istante dopo il suo respiro si fece regolare e cadde in un sonno profondo.
87
Cinque
Tornarono a Columbia due giorni prima del previsto. Agitati e tesi dall’isolamento, si sentivano entrambi in prigione. Edith disse che dovevano assolutamente rientrare, in modo che William avesse il tempo di preparare le sue lezioni e lei potesse sistemare il nuovo appartamento. Stoner fu subito d’accordo, convinto che le cose sarebbero andate meglio una volta che si fossero sistemati a casa loro, tra le persone che conoscevano e in un contesto più familiare. Nel pomeriggio fecero le valigie e quella sera stessa erano già sul treno per Columbia.
Nei giorni confusi e frenetici prima del matrimonio, Stoner aveva trovato un appartamento libero al secondo piano di una vecchia palazzina ricavata da un ex granaio, a cinque isolati dall’università. Era buio e spoglio, con una piccola camera da letto, un cucinotto e un enorme soggiorno con delle alte finestre. Era già stato occupato da un artista, che insegnava all’università e non doveva essere molto ordinato. Le grandi assi di legno scuro dei pavimenti erano piene di macchie gialle, blu e rosse, e i muri erano sporchi di vernice e polvere. Ma Stoner l’aveva trovato romantico e confortevole, e gli era sembrato un buon posto per cominciare una nuova vita. Edith si trasferì nell’appartamento come se fosse un
88
nemico da conquistare. Pur non essendo abituata al lavoro fisico, grattò via quasi tutta la vernice dai muri e dai pavimenti e si accanì contro la polvere che immaginava nascosta ovunque. Aveva le vesciche alle mani, il viso stravolto dalla fatica e delle grandi borse scure sotto gli occhi. Quando Stoner cercava di aiutarla s’intestardiva, serrava le labbra e scuoteva la testa: gli rispondeva che doveva dedicarsi ai suoi studi e che quello era compito suo. E se William insisteva arrivava quasi a deprimersi, come se si sentisse umiliata. Confuso e impotente, Stoner si faceva indietro e restava a guardarla, mentre lei, scura in volto, riprendeva a strofinare in modo maldestro le pareti e i pavimenti già lucidi, a cucire le tende e ad appenderle storte alle finestre, a riparare e a dipingere e ridipingere i vecchi mobili ammucchiati in casa. Per quanto inetta, lavorava con muta, intensa ferocia, tanto che il pomeriggio, quando rientrava dall’università, Stoner la trovava esausta. Si trascinava in cucina per preparare la cena, mandava giù qualche boccone, poi mormorava qualcosa e se ne andava a letto, dove si addormentava come narcotizzata fino al mattino dopo, quando lui usciva per andare a lezione.
Nel giro di un mese, Stoner realizzò che il suo matrimonio era un fallimento. Di lì a un anno smise di sperare che le cose sarebbero migliorate. Imparò il silenzio e mise da parte il suo amore. Se le parlava o la sfiorava con tenerezza, Edith si voltava dall’altra parte e si chiudeva in se stessa, restando muta, e nei giorni successivi ricominciava a sfiancarsi con maggiore accanimento. Ciononostante si ostinavano entrambi a condividere lo stesso letto. Certe notti, nel sonno, Edith lo urtava senza accorgersene. Altre volte, invece, la determinazione
89
e la consapevolezza di Stoner cedevano davanti all’amore, ed era lui a cercarla. Se era abbastanza lucida, Edith tendeva i muscoli e si irrigidiva, voltava la testa come di consueto e, affondandola nel cuscino, sopportava la violenza. A volte Stoner espletava l’atto d’amore nel modo più rapido possibile, odiandosi per l’irruenza e biasimando il suo desiderio. Meno di frequente, Edith restava un po’ intontita dal sonno: in quei casi era passiva e si limitava a mormorare qualcosa, non era chiaro se in segno di protesta o di stupore. Stoner giunse ad agognare quei rari e imprevedibili momenti, perché con l’acquiescenza data dal sonno poteva illudersi di trovare in lei una sorta di reazione.
E pur immaginando che sua moglie fosse infelice, non poteva affrontare il discorso. Se cercava di farlo, Edith interpretava le sue parole come una riflessione su di lei e sulla sua inadeguatezza e si faceva ancora più lontana e scura, come nei momenti in cui la penetrava. Allora Stoner si colpevolizzava per la propria mancanza di tatto, attribuendosi la responsabilità dei sentimenti di lei.
Con pacata crudeltà, originata dalla disperazione, sperimentava piccoli stratagemmi per blandirla. Le faceva dei regali, che lei accettava con indifferenza, limitandosi a qualche commento sul denaro speso. La portava a fare passeggiate e picnic nei boschi intorno a Columbia, ma lei si stancava facilmente e a volte si ammalava. Le parlava del suo lavoro, come aveva fatto durante il corteggiamento, ma il suo interesse era ormai superficiale e di circostanza.
Infine, pur sapendo che era timida, insistette nel modo più gentile perché si aprissero al mondo. Cominciarono a organizzare dei tè, invitando alcuni lettori e assi-
90
stenti più giovani del dipartimento, e varie cenette. Edith non lasciava intendere in alcun modo se le piacesse o no, ma l’organizzazione degli eventi era così frenetica e ossessiva che quando arrivavano gli ospiti era quasi isterica per la tensione e la fatica, anche se nessuno tranne William se ne accorgeva.
Era un’ottima padrona di casa. Intratteneva gli ospiti con un entusiasmo e una disinvoltura che la rendevano irriconoscibile agli occhi di Stoner. In presenza degli altri si rivolgeva a lui con un tono intimo e affettuoso che non finiva mai di stupirlo. Lo chiamava Willy, il che lo turbava, e talvolta gli posava delicatamente una mano sulla spalla.
Ma appena gli ospiti se ne andavano, la facciata crollava su se stessa svelando la devastazione. Cominciava a far commenti cinici sugli invitati e a immaginare oscuri pettegolezzi alle sue spalle. Dopodiché, con quieta disperazione, rievocava tutti gli errori imperdonabili che, a suo giudizio, aveva commesso durante la serata. Se ne restava seduta a rimuginare tra gli avanzi della cena senza che William riuscisse più a smuoverla, dandogli risposte brevi e sconnesse con voce piatta e monocorde.
Solo una volta la facciata crollò in presenza degli ospiti.
Molti mesi dopo il matrimonio di Stoner e Edith, Gordon Finch si era fidanzato con una ragazza che aveva conosciuto per caso mentre era di stanza a New York e i cui genitori vivevano a Columbia. Finch aveva ottenuto un incarico a tempo indeterminato come assistente del decano, ed era sottinteso che una volta morto Josiah Claremont sarebbe stato tra i primi candidati per la direzione del college. Anche se un po’ in ritardo, per celebrare sia il nuovo incarico di Finch che la notizia del suo
91
fidanzamento, Stoner lo invitò a cena con la sua ragazza.
Arrivarono poco prima del crepuscolo in una calda sera di fine maggio, su un’automobile da turismo color nero brillante e nuova di zecca. Si fermò con una serie di esplosioni sulla strada lastricata davanti casa di Stoner, guidata con mano esperta da Finch. Quest’ultimo suonò il clacson e salutò allegramente con la mano, finché William e Edith non scesero ad accoglierlo. Seduta accanto a lui c’era una brunetta dal viso tondo e sorridente.
Finch la presentò come Caroline Wingate, e i quattro restarono a conversare per un momento mentre lui l’aiutava a scendere dalla macchina.
«Be’, che ve ne pare?», chiese Finch, battendo sul parafango anteriore della macchina col pugno chiuso: «Non è una bellezza? È del padre di Caroline. Sto pensando di comprarmene una uguale, così…». La voce gli si smorzò in gola e strizzò gli occhi. Rimase a contemplare l’automobile con aria fredda e calcolatrice, come se avesse davanti il futuro.
Poi tornò vivace e scherzoso. Con fare fintamente cospiratorio, si portò un dito alle labbra, si guardò intorno circospetto e prese una gran busta di carta marrone dal sedile anteriore dell’auto. «Shhh», sussurrò: «Questo è appena sbarcato. Coprimi, compare. Forse riusciamo a portarlo in casa senza dare nell’occhio».
La cena andò bene. Erano anni che Stoner non trovava Finch così affabile. Ripensò ai tempi in cui si vedevano con David Masters dopo le lezioni, in quei lontani venerdì pomeriggio, passati a bere birra e chiacchierare. La fidanzata di Finch, Caroline, parlava poco, ma sorrideva allegramente quando lui scherzava e le faceva l’occhiolino. Stoner fu quasi sopraffatto dall’invidia nel vedere
92
che il suo amico era davvero innamorato di quella graziosa brunetta e che il silenzio di lei era dovuto al fatto che pendeva dalle sue labbra.
Perfino Edith sembrava più tranquilla e rilassata; sorrideva spesso e rideva di cuore. Stoner si rese conto che lei e Finch avevano una confidenza che lui, con sua moglie, non era mai riuscito a trovare. Erano mesi che non la vedeva così felice.
Dopo cena Finch tolse la busta di carta dalla ghiacciaia, dove l’aveva messa in fresco, e ne estrasse alcune bottiglie color marrone scuro. Era una birra che distillava lui stesso, con grande segretezza e solennità, nell’armadio del suo appartamento da scapolo.
«Non ho più posto per i vestiti», disse. «Ma un uomo deve tener fede ai propri valori».
Poi, con grande attenzione, strizzando gli occhi, con la luce che gli brillava sulla pelle chiara e i biondi capelli radi, come un chimico intento a misurare una sostanza rara, versò la birra dalle bottiglie ai bicchieri.
«Bisogna stare attenti con questa roba», disse. «Resta sempre molto deposito sul fondo e se la versi troppo in fretta finisce nel bicchiere».
Bevvero tutti un bicchiere di birra, congratulandosi con Finch per il sapore. In effetti era incredibilmente buona, asciutta, leggera e di un bel colore. Perfino Edith finì il suo bicchiere e ne prese un altro.
Si ubriacarono un po’. Ogni pretesto era buono per ridere e cominciarono a guardarsi con occhi nuovi.
Alzando il bicchiere alla luce, Stoner disse: «Chissà se a Dave sarebbe piaciuta».
«Dave?», disse Finch.
«Dave Masters. Ricordi quanto gli piaceva la birra?».
93
«Dave Masters», disse Finch. «Caro, vecchio Dave. Accidenti, che peccato».
«Masters», disse Edith, sorridendo un po’ brilla: «Non era quel tuo amico che hanno ucciso in guerra?».
«Sì», disse Stoner. «Proprio lui». La tristezza di un tempo tornò ad assalirlo, ma sorrise a Edith.
«Caro, vecchio Dave», ripeté Finch. «Sai Edie, tuo marito, Dave e io ce la spassavamo davvero; molto prima che ti conoscesse, s’intende. Caro, vecchio Dave…».
Sorrisero al ricordo di David Masters. «Eravate molto amici?», chiese Edith.
Stoner annuì. «Molto».
«Chateau-Thierry», disse Finch scolando il bicchiere. «La guerra è una roba infernale». Scosse la testa. «Ma ora il vecchio Dave sarà da qualche parte a ridere di noi. Non credo che gli importi molto d’essersene andato.
Chissà se è riuscito a vedere almeno un po’ di Francia».
«Non lo so», disse Stoner. «È stato ucciso subito dopo il suo arrivo».
«Sarebbe proprio un peccato. Ho sempre pensato che si fosse arruolato soprattutto per quello. Per vedere un po’ di Europa».
«L’Europa», disse Edith in modo chiaro.
«Già», disse Finch. «Il buon vecchio Dave non aveva molte aspirazioni, ma ci teneva a vedere l’Europa prima di morire».
«Anch’io stavo per andarci, una volta». Disse Edith. Sorrideva, e gli occhi le brillavano appena. «Ti ricordi, Willy? Dovevo andarci con mia zia Emma prima che ci sposassimo. Ti ricordi?».
«Mi ricordo», disse Stoner.
Edith fece una risata stridula e scosse la testa come
94
confusa. «Sembra passato così tanto tempo, e invece… Quanto tempo è passato, Willy?».
«Edith…», disse Stoner.
«Vediamo, dovevamo partire in aprile. E rimanerci un anno. Siamo a maggio. Quindi sarei stata…». D’improvviso gli occhi le si riempirono di lacrime, anche se continuava a sorridere con la stessa allegria. «Immagino che non ci andrò mai più. La zia Emma sta per morire, e non avrò l’opportunità di…».
Poi, col sorriso ancora sulle labbra e le lacrime che le rigavano il viso, cominciò a singhiozzare. Stoner e Finch si alzarono dalla sedia.
«Edith», disse Stoner impotente.
«Oh, lasciami in pace!». Con una strana torsione del corpo, Edith si parò davanti a loro, strizzando gli occhi e serrando i pugni lungo i fianchi. «Lasciatemi in pace tutti quanti!». E corse a chiudersi in camera, sbattendo la porta alle sue spalle.
Per qualche istante, nessuno parlò. Si sentivano i singhiozzi soffocati di Edith. Poi Stoner disse: «Dovete perdonarla. È molto affaticata e non si sente troppo bene. Lo sforzo…».
«Ma certo Bill, lo capisco», disse Finch, fingendo di ridere. «Le donne. Immagino che dovrò abituarmici anch’io». Guardò Caroline, rise di nuovo, e abbassò la voce. «Be’, è meglio se non disturbiamo Edith, adesso. Ringraziala da parte nostra, dille che la cena era squisita e che dovete venire a trovarci appena ci saremo sistemati».
«Grazie, Gordon», disse Stoner. «Glielo dirò».
«E non preoccuparti», disse Finch. Gli diede un pugno sul braccio. «Sono cose che capitano».
Quando lui e Caroline se ne furono andati e la mac-
95
china nuova si allontanò ruggendo e crepitando nella notte, William Stoner rimase immobile al centro del salone ad ascoltare i singhiozzi asciutti e regolari di Edith. Era un suono stranamente piatto e privo di emozione, e sembrava che non dovesse fermarsi più. Avrebbe voluto consolarla, alleviare la sua sofferenza. Ma non sapeva cosa dire. Così rimase lì ad ascoltare e dopo un po’ si rese conto che, prima di allora, non l’aveva mai sentita piangere.
Dopo la cena disastrosa con Gordon Finch e Caroline Wingate, Edith parve quasi appagata e si fece più calma di quanto non fosse mai stata durante il matrimonio. Tuttavia non voleva nessuno in casa e si mostrava riluttante a uscire. Era quasi sempre Stoner a fare la spesa, basandosi su delle liste che lei gli scriveva su dei fogliettini di carta celesti, con una calligrafia stranamente elaborata e infantile. Sembrava più felice quand’era da sola. Se ne stava seduta per ore a cucire o a ricamare tovaglie e tovaglioli, con un piccolo sorriso nascosto tra le labbra. Sua zia Emma cominciò a farle visita sempre più di frequente. Quando rientrava dall’università nel pomeriggio, William le trovava spesso insieme, intente a bere il tè e a conversare così a bassa voce che sembrava quasi sussurrassero. Lo salutavano ogni volta in modo educato, ma William sentiva che non erano felici di vederlo. Mrs Darley si tratteneva raramente più di cinque minuti dopo il suo arrivo. Stoner imparò a mantenersi rispettoso e discreto nei confronti del mondo in cui Edith aveva cominciato a vivere.
Nell’estate del 1920 trascorse una settimana dai genitori, mentre Edith era in visita ai parenti a St Louis. Non vedeva sua madre e suo padre dal giorno del matrimonio.
96
Lavorò nei campi per un giorno o due, aiutando il padre e il bracciante negro. Ma il calore delle zolle umide sotto ai piedi e l’odore della terra appena smossa nelle narici non gli suscitarono alcuna nostalgia. Tornò a Columbia e passò il resto dell’estate a preparare un nuovo corso che doveva tenere nell’anno accademico successivo. Trascorreva quasi tutto il giorno in biblioteca e a volte rientrava a casa da Edith la sera tardi, quando il profumo dolce e forte del caprifoglio si levava nell’aria tiepida e le foglie delicate dei cornioli rotolavano in terra come fantasmi nel buio. Aveva gli occhi che gli bruciavano per lo sforzo di doversi concentrare su quei vecchi libri, la testa appesantita dalle letture e le dita che gli formicolavano al ricordo del contatto con il cuoio, il legno e la carta. Ma in quelle brevi passeggiate si apriva al mondo e vi trovava anche una qualche gioia.
C’erano pochi volti nuovi alle riunioni del dipartimento. Alcuni dei vecchi colleghi erano scomparsi e continuava il lento declino di Archer Sloane, cui Stoner si era abituato già durante la guerra. Ormai gli tremavano le mani e non riusciva a concentrarsi su quello che diceva. Il dipartimento campava di rendita, forte della sua tradizione e del semplice fatto di esistere.
Stoner continuava a insegnare con un’intensità e una ferocia che a volte stupivano i suoi nuovi colleghi e destavano qualche preoccupazione tra quelli che lo conoscevano da più tempo. Aveva il viso stravolto, perdeva peso e le sue spalle erano sempre più curve. Nel secondo semestre di quell’anno gli venne offerto un incremento delle ore in cambio di un compenso extra. Lui accettò: sempre in cambio di un aumento, quell’anno insegnò anche nella nuova sede estiva. Coltivava la vaga
97
idea di mettere da parte dei soldi per fare un viaggio all’estero e mostrare a Edith quell’Europa a cui aveva rinunciato per lui.
Nell’estate del 1921, mentre cercava un passaggio di un poema latino che non ricordava, riprese in mano la sua tesi per la prima volta dopo tre anni, da quando l’aveva sottoposta alla commissione. La rilesse per intero e gli parve buona. Un po’ spaventato dalla sua presunzione, pensò di rimetterci le mani per farne un libro. Pur essendo impegnato con le lezioni per tutta la sessione estiva, rilesse quasi tutti i testi a cui aveva attinto e cominciò ad ampliare la sua ricerca. Verso la fine di gennaio decise che un libro era possibile, e all’inizio della primavera era già abbastanza avanti da cominciare a scrivere le prime pagine di prova.
Fu proprio nella primavera di quell’anno che, con tono calmo e quasi indifferente, Edith gli disse che aveva deciso di volere un figlio.
La decisione giunse all’improvviso e senza una causa apparente, tanto che quando fece l’annuncio – una mattina a colazione, pochi minuti prima che William uscisse per la prima ora di lezione – sembrava quasi stupita, come se avesse fatto una scoperta.
«Come?», disse William. «Che hai detto?».
«Voglio un figlio», disse Edith. «Credo di volere un figlio».
Stava sgranocchiando una fetta di pane tostato. Si pulì la bocca con un angolo del tovagliolo e restò con un sorriso stampato sulle labbra.
«Non credi che dovremmo farne uno?», domandò.
«Siamo sposati da quasi tre anni».
98
«Certamente», disse William. Posò la tazza sul piattino con grande cura. Non la guardò. «Sei proprio sicura? Non ne avevamo mai parlato. Non vorrei che tu…».
«Oh, sì», disse lei, «sicurissima. Credo che dovremmo fare un figlio».
William guardò l’orologio. «Sono in ritardo. Preferirei che ne parlassimo con più calma. Voglio che tu ne sia certa».
Edith aggrottò leggermente la fronte. «Ti ho detto che lo sono. Forse sei tu che non lo vuoi. Perché continui a domandarmelo? Non voglio parlarne più».
«Va bene», disse William. Rimase un momento seduto a guardarla. «Devo andare», disse, ma non si alzò. Goffamente, allungò un braccio sulla tovaglia, posò una mano sulle sue lunghe dita e restò così finché lei non le tolse. Quindi si alzò da tavola e le passò accanto, quasi con timidezza, per raccogliere i libri e le carte. Come di consueto, Edith lo precedette nell’ingresso per salutarlo. Lui la baciò sulla guancia, come non faceva da molto tempo.
Prima di uscire, si voltò e disse: «Sono… sono felice che tu voglia un figlio, Edith. So che in un certo senso il nostro matrimonio è stato una delusione, per te. Spero che questo cambierà le cose».
«Sì», rispose lei. «Farai tardi a lezione. Meglio che ti affretti».
Dopo che se ne fu andato, Edith restò per qualche minuto al centro della stanza fissando la porta chiusa, come se cercasse di ricordare qualcosa. Poi cominciò a camminare su e giù, spostandosi da un punto all’altro del soggiorno, muovendosi nella veste come se non ne sopportasse il fruscio e il contatto con la pelle. Si sbottonò la vestaglia rigida di taffettà grigio e la lasciò cade-
99
re sul pavimento. Incrociò le braccia sui seni e strinse le mani sui bicipiti, massaggiando la carne attraverso la sottoveste di flanella sottile. Poi si fermò, si avviò decisa verso la piccola camera da letto e una volta entrata aprì un’anta dell’armadio, al cui interno era appeso uno specchio a figura intera. Voltò lo specchio verso la luce e fece un passo indietro, ispezionando la lunga figura sottile avvolta nella sottoveste azzurra che vi si rifletteva. Senza staccare gli occhi dallo specchio, sbottonò la parte superiore della sottoveste e se la sfilò dalla testa, rimanendo nuda nel chiarore del mattino. Arrotolò la sottoveste e la gettò nell’armadio. Poi si girò un poco esaminando quel corpo come se appartenesse a qualcun altro. Si passò le mani sui piccoli seni pendenti e le fece scendere leggermente lungo la vita e il ventre piatto.
Si staccò dallo specchio e andò verso il letto, che era ancora sfatto. Tirò via le coperte, le piegò a casaccio e le mise nell’armadio. Spianò il lenzuolo sul letto e si sdraiò sulla schiena, con le gambe tese e le braccia lungo i fianchi. Immobile, con gli occhi spalancati, rimase ad aspettare fissando il soffitto, per tutta la mattina e poi fino a pomeriggio inoltrato.
Quando William Stoner tornò a casa era quasi buio, ma le finestre del secondo piano erano spente. Un po’ in apprensione, salì le scale e accese la luce del soggiorno.
La stanza era vuota. Chiamò: «Edith?».
Non vi fu risposta. Chiamò ancora.
Guardò in cucina: i piatti della colazione erano ancora sul tavolino. Attraversò di corsa il soggiorno e aprì la porta della camera da letto.
Edith giaceva nuda sul letto spoglio. Quando la porta si aprì e la luce proveniente dal soggiorno si posò su
100
di lei, voltò la testa verso Stoner, ma non si alzò. Lo guardò con gli occhi spalancati, mentre dei piccoli suoni le uscivano dalla bocca dischiusa.
«Edith!», disse Stoner, e corse verso il letto, inginocchiandosi vicino a lei. «Stai bene? Che succede?».
Edith non rispose, ma i suoni che emetteva si fecero più forti e il suo corpo si mosse accanto a quello di Stoner. Di colpo le sue mani lo strinsero come tenaglie, tanto che lui per poco non fece un salto all’indietro. Ma Edith gli afferrò i vestiti e, aggrappandovisi, lo tirò sul letto accanto a sé. Lo cercò, con la bocca aperta e calda mentre le sue mani continuavano a toccarlo, tirandogli i vestiti, frugando. I suoi occhi erano sempre spalancati, fissi, imperturbabili, come se appartenessero a un’altra e non vedessero più nulla.
Così conobbe un altro aspetto di Edith, questo desiderio che era come fame, così intenso che sembrava non avere niente a che fare con lei. E appena si saziava ricominciava a crescere, tanto che entrambi vivevano in tensione, nell’attesa che si ripresentasse.
Anche se i due mesi successivi furono l’unico momento di passione che William e Edith Stoner ebbero insieme, il loro rapporto non subì un vero cambiamento. Ben presto lui si rese conto che la forza che attraeva i loro corpi aveva poco a che fare con l’amore: si accoppiavano con una determinazione feroce eppure distaccata, si separavano e si accoppiavano ancora, senza poter saziare quel bisogno.
Certe volte, durante il giorno, mentre William era all’università, il bisogno assaliva Edith con una tale violenza che non riusciva a restare ferma. Allora usciva di
101
casa e camminava svelta su e giù per le strade, vagando senza meta da un posto all’altro. Poi rientrava, chiudeva le tende delle finestre, si spogliava e, accovacciata nella semioscurità, restava ad aspettare che William tornasse. E quando lui apriva la porta gli saltava addosso, con le mani che lo cercavano furiosamente, come se avessero una vita propria, e lo tiravano in camera, sul letto ancora sfatto per gli amplessi della notte prima o del mattino.
Edith rimase incinta a giugno e cadde subito ammalata, senza più guarire del tutto fino alla fine della gravidanza. Più o meno nello stesso istante in cui restò incinta, prima ancora che l’evento fosse confermato dal calendario e dal ginecologo, il desiderio famelico che l’aveva colta per quei due mesi cessò di colpo. Fece capire chiaramente al marito che non sopportava più di essere toccata, e Stoner cominciò ad avere l’impressione che perfino guardarla fosse una violenza. La loro passione selvaggia divenne solo un ricordo e lui finì col considerarla come una specie di sogno che nulla aveva a che vedere con loro.
Così il letto che era stato l’arena della loro passione divenne il sostegno per la malattia di Edith. Vi restava quasi tutto il giorno, alzandosi solo al mattino per alleviare la nausea e pochi minuti nel pomeriggio per fare qualche passo in salotto. Il pomeriggio e la sera, dopo essersi precipitato a casa dal lavoro, William puliva le stanze, lavava i piatti e preparava la cena; poi portava da mangiare a Edith su un vassoio. Anche se non voleva che cenassero insieme, Edith, dopo mangiato, non disdegnava di bere con lui una tazza di tè molto leggero. Così la sera, per qualche momento, discorrevano con calma del più e del meno, come se fossero vecchi amici
102
o nemici ormai esausti. Poco dopo lei si addormentava e William tornava in cucina, terminava le faccende di casa e, dopo aver liberato il tavolo davanti al divano in soggiorno, si metteva a correggere i compiti o a preparare le lezioni. Poi, passata la mezzanotte, si copriva con una trapunta che teneva ben piegata sotto al divano e, con le gambe rannicchiate, dormiva un sonno irregolare fino al mattino dopo.
Il bambino, una femmina, nacque dopo un travaglio di tre giorni a metà marzo, nell’anno 1923. La chiamarono Grace, come una delle zie di Edith che era morta molti anni prima.
Già alla nascita era bellissima, con dei lineamenti distinti e un accenno di capelli biondi sul capo. In pochi giorni l’iniziale rossore della pelle si trasformò in un rosa brillante. Grace piangeva di rado e sembrava quasi consapevole di ciò che aveva intorno. William se ne innamorò all’istante; l’affetto che non poteva dimostrare a Edith poté offrirlo alla figlia, scoprendo un piacere inatteso nel prendersi cura di lei.
Per quasi un anno dopo la nascita di Grace, Edith rimase parzialmente allettata. Si temette addirittura che potesse restare invalida, anche se il dottore non riuscì a individuare alcun problema specifico. William assunse una badante che si occupava di lei durante il mattino e organizzò le lezioni all’università in modo da poter rincasare il pomeriggio presto.
Così, per più di un anno, fu lui a occuparsi della casa, prendendosi cura di due persone indifese. Si alzava prima dell’alba per correggere i compiti e preparare le lezioni. Prima di andare all’università dava da mangiare a
103
Grace, preparava la colazione per sé e per Edith e arrangiava un pranzo da portarsi a scuola che metteva nella borsa dei libri. Dopo le lezioni tornava a casa, dove spazzava, spolverava e passava lo straccio.
Fu quasi più una madre che un padre per sua figlia. Le cambiava i pannolini e li lavava, le sceglieva i vestitini e li rammendava quando si strappavano, le dava la pappa, le faceva il bagno e la cullava tra le braccia quando piangeva. Di tanto in tanto, Edith reclamava la bambina con voce querula. William allora gliela portava e lei, alzandosi a sedere nel letto, la teneva in braccio per alcuni istanti, in silenzio e con qualche disagio, come se fosse la figlia di un estraneo. Poi si stancava e sospirando la restituiva a William. Spinta da qualche oscura emozione, piangeva un poco, si asciugava gli occhi e si voltava di spalle.
Così, durante il suo primo anno di vita, Grace Stoner conobbe solo le carezze, la voce e l’amore di suo padre.
104
Sei