PIENO GIORNO
J.R. Moehringer
.....nessun libro è tempo sprecato...
[...] Chapin sospira. La stessa storia per tutti, qui dentro – istruzione zero, o quasi. Il modo più sicuro per fare il primo passo sulla strada del crimine. Devi impiegare il tempo che trascorrerai qui per leggere, dice Chapin. Impara. L’ignoranza ti ha condotto qui. L’ignoranza ti ci farà restare. E l’ignoranza ti ci riporterà. Mi piace leggere, signore. Mi è sempre piaciuto. Ma quando entro in una biblioteca o in una libreria mi sento sopraffare. Non so da dove cominciare. Da dove ti pare. Come faccio a distinguere i libri che vale la pena di leggere da quelli che sono tempo sprecato?
Nessun libro è tempo sprecato. Qualsiasi libro è meglio che nessun libro. Pian piano, credimi, un libro ti condurrà a un altro, fino ad arrivare al meglio. Vuoi passare la vita a piantare rose con me?
No signore. Allora libri. Niente di più facile. Un libro è l’unica vera via di fuga da questo mondo alla deriva. A parte la morte."
Il libro
Una storia che comincia e finisce in un giorno.
Una storia che dura una vita.
Si può rivivere una vita in un giorno?
Si può. Accade a New York, il giorno di Natale del 1969, a Willie Sutton, uscito da poche ore dal penitenziario di Attica dopo che il governatore Rockefeller gli ha concesso la grazia per motivi di salute.
Questa storia è tante storie. Tutte vere. O forse no.
È una storia che comincia agli albori del ventesimo secolo, quando Willie evade dal grembo della Madre. È una storia che comincia nel 1919,
quando lo sguardo di Willie incontra l’oro negli occhi di Bess, sotto le mille luci di Coney Island. È una storia che comincia nel 1969, l’anno dell’uomo sulla Luna. È una storia di astronauti e di sirene, di guardie e di ladri, di magnati e di giardinieri, di prostitute e di galeotti. È una storia in fuga, da Sing Sing e dalla solitudine, dalla povertà e dalla mancanza d’amore. È una storia di libri, perché i libri ti cambiano la vita. È una storia di soldi, maledetti soldi, come sarebbe più bello il mondo senza di loro. È una storia di banche, maledette banche, ieri e oggi è sempre colpa loro.
Perché è nelle banche che ci sono i soldi, ed è per questo che Willie Sutton le rapina. Con una pistola che non ha mai sparato, e un travestimento ogni volta diverso. Perché lui è Willie l’Attore, e recita dal vivo sul palcoscenico del crimine. Un
eroe – o un antieroe – sulle strade della Grande Mela, insieme a un Giornalista e un Fotografo.
Guidati da Willie sulle tracce del suo passato, i due hanno solo un giorno per ottenere la storia da prima pagina che vuole il giornale. Ma anche
Willie vuole una storia. E anche Willie ha solo un giorno, per avere la sua storia. E l’amore che gli spetta, da quel lontano 1919. Vero o no, sarà un giorno molto pieno.
PIENO GIORNO
J.R. MOEHRINGER
Traduzione di
GIOVANNI ZUCCA
Nota dell’Autore
La vigilia di Natale del 1969, dopo che aveva passato metà della sua vita a entrare e uscire di prigione, Willie Sutton fu rimesso in libertà. Il suo improvviso rilascio dal penitenziario di Attica scatenò una febbrile curiosità da parte dei media. Quotidiani, riviste, reti televisive, talk show: tutti volevano intervistare il rapinatore di banche più imprendibile e attivo della storia degli Stati Uniti. Sutton rilasciò soltanto un’intervista.
Passò il giorno dopo il rilascio in giro per New York in compagnia di un giornalista e di un fotografo che lavoravano per un quotidiano, tornando con loro sulla scena dei suoi colpi più famosi e in altri luoghi significativi di una vita fuori dal comune.
L’articolo che ne uscì, tuttavia, era stranamente superficiale, infarcito di errori – o di menzogne – e carente di vere rivelazioni.
Purtroppo, Sutton e il giornalista se ne sono andati per sempre, per cui su quello che accadde tra loro in quel giorno di Natale, e su quello che accadde a Sutton nei precedenti sessantotto anni, si possono fare solamente delle congetture. Io ci ho provato con questo libro.
E mi auguro che sia andata così.
L’ho detto tre volte e quello che dico tre volte è vero.
LEWIS CARROLL, La caccia allo squalo
PARTE PRIMA
Così dapprincipio tutto il mondo era America… poiché in nessun luogo si conosceva qualcosa di simile al denaro.
JOHN LOCKE, Secondo trattato del governo
UNO
Sta scrivendo, quando vengono a prenderlo. Seduto alla scrivania in ferro, chino su un bloc-notes giallo, parla a se stesso e a lei – a lei, come sempre. Per questo non li vede, fermi davanti alla porta. Finché non sente il suono dei manganelli sulle sbarre.
Alza lo sguardo, si sistema gli occhiali larghi e ammaccati, il ponte riparato più e più volte con lo scotch. Due guardie, fianco a fianco, quella a sinistra grassa, molle e pallida, come fosse di margarina, quella a destra alta e secca e una voglia come una monetina sulla guancia sinistra.
Guardia sinistra si aggiusta i calzoni. In piedi, Sutton. Ti vogliono in ufficio. Sutton si alza. Guardia destra punta lo sfollagente. Be’, che c’è? Piangi, Sutton?
No, signore.
Non dirmi balle, Sutton. Lo vedo che hai pianto. Sutton si sfiora la guancia. Sente le dita bagnate. Non me n’ero accorto, signore.
Guardia destra indica il bloc-notes con lo sfollagente. Che roba è?
Niente, signore.
Ti ha chiesto cos’è, dice Guardia sinistra.
Sutton sente che la gamba matta comincia a cedere. Stringe i denti dal dolore. Il mio romanzo, signore. Guardano la cella, piena di libri. Lui segue gli sguardi. Non è mai una bella cosa quando i secondini curiosano nella tua cella. Possono sempre trovare qualcosa, se è quello che hanno in mente. Un’occhiata torva ai libri sul
pavimento, accanto all’armadietto in ferro, accanto al lavello. Quella di Sutton è l’unica cella di Attica con dentro Dante, Platone, Shakespeare, Freud. No, Freud gliel’hanno confiscato. Ai prigionieri non è permesso tenere libri di psicologia. Il direttore pensa che potrebbero tentare di ipnotizzarsi a vicenda.
Guardia destra fa un sorrisetto. Dà di gomito a Guardia sinistra – occhio, eh? Ah, un romanzo? E di che parla? Ecco, be’ – della vita, signore. E che diavolo ne sa della vita un vecchio galeotto come te? Sutton scrolla le spalle. È vero, signore. Ma chi è che ne sa qualcosa? La voce si è sparsa. A mezzogiorno ne sono già arrivati una decina, di quelli dei giornali, e sono accalcati davanti all’ingresso principale, battendo i piedi per terra e soffiandosi sulle mani. Uno dice di avere appena sentito che c’è neve in vista. Un mucchio di neve. Al meno venti centimetri. Mugugno generale. Fa troppo freddo per nevicare, dice il più anziano del gruppo, un veterano delle agenzie stampa in bretelle e scarpe ortopediche nere. Lavora alla UPI fin dai tempi di Noè.
Sputa sul suolo gelato e guarda storto le nuvole, poi la torre di guardia principale, che ad alcuni ricorda il nuovo castello della Bella Addormentata, a Disneyland.
Fa troppo freddo per stare qui, dice l’inviato del «New York Post». Borbotta qualcosa
di poco simpatico all’indirizzo del direttore, che per tre volte ha negato alla stampa l’accesso alla prigione. Potrebbero essere tutti lì a bere caffè, ora. Potrebbero telefonare, e organizzarsi per il Natale, anche se è tardi. Ma
il direttore sembra voler dimostrare qualcosa. Perché, si chiedono tutti, ma perché?
Perché il direttore è una testa di cazzo, dice il giornalista di «Time», ecco perché.
Quello di «Look» alza pollice e indice, staccati di un niente. Dai tanto potere così a un burocrate, dice, e vedi che succede. È finita. Mica solo i burocrati, dice l’inviato del «The New York Times». Tutti i capi diventano fascisti, alla fine. È la natura umana. I giornalisti si scambiano storie tremende sui loro direttori e capiredattori, quei coglioni disgraziati che li hanno mandati lì per quel cavolo di lavoro. C’è un termine giornalistico nuovo di zecca, preso a prestito quell’anno dalla guerra in Vietnam, spesso usato per incarichi come questo, in cui aspetti in mezzo al branco, di solito all’aperto, esposto alla furia degli elementi, sapendo benissimo che non ne caverai fuori nulla di buono, di sicuro nulla che non ci caverà fuori anche il resto del branco. Il termine è puttanaio. A tutti i giornalisti di tanto in tanto capita di ritrovarsi in un puttanaio, fa parte del mestiere, ma un puttanaio la vigilia di Natale, per di più fuori dai cancelli del penitenziario di Attica? Dai! Non è mica bello, dice l’inviato del «Village Voice». Non è bello per niente. I giornalisti ce l’hanno soprattutto con il
capo dei capi, il governatore Nelson Rockefeller. Quello con gli occhiali alla Buddy Holly e l’indecisione cronica. Il governatore Amleto, dice il veterano dell’United Press, ammiccando verso le mura. Firmare o non firmare? Poi urla al castello della Bella Addormentata: o caghi, o esci dal cesso Nelson! O la fai, o te ne vai! I giornalisti fanno sì, brontolano, sì. Come i detenuti al di là del muro alto dieci metri, sono impazienti. I detenuti vogliono uscire, i giornalisti vogliono entrare, e tutti ce l’hanno con il boss. Infreddoliti, stanchi arrabbiati, ai margini della società, entrambi i gruppi sono sull’orlo della rivolta. Nessuno di loro nota la splendida luna che sale lenta sopra la prigione. È luna piena. Le guardie conducono Sutton dalla sua cella nel braccio D a un tunnel, dopo aver superato un cancello, e di lì al posto di controllo centrale di Attica – quello che i detenuti chiamano Times Square – da cui si arriva sia agli altri bracci che agli uffici. Da Times Square le guardie portano Sutton fino all’ufficio del vicedirettore. È la seconda volta questo mese che viene convocato dal vice. La settimana scorsa per sentirsi dire che la richiesta di libertà condizionale è stata respinta – una mazzata devastante. Sutton e i suoi avvocati erano stati così fiduciosi. Avevano ottenuto il sostegno di giudici importanti, scovato lacune nelle sentenze di condanna, esibito lettere di medici che
garantivano che Sutton era in punto di morte. Ma i tre della commissione per la libertà sulla parola avevano detto solo una cosa, no. Il vice è alla sua scrivania. Non si scomoda
ad alzare lo sguardo.
Ciao, Willie.
Salve, signore.
A quanto pare abbiamo un okay per il lancio.
Come, signore?
Il vice accenna agli incartamenti sparsi sulla scrivania. Sono le carte per il tuo rilascio.
Ti fanno uscire.
Sutton sbatte le palpebre, si massaggia la gamba.
Mi fanno… uscire? Ma chi, signore?
Il vice alza gli occhi, sospira. Il capo del dipartimento carcerario, o Rockefeller, o tutti e due insieme.
Ad Albany non hanno ancora deciso come venderla. Il governatore non è sicuro di volerci mettere la firma, visto che era un banchiere. E il capo del dipartimento non vuole scavalcare la commissione per la libertà sulla parola. In un modo o nell’altro, comunque, pare che ti lascino andare.
Ma perché mi lasciano andare, signore?
Non ne so un cazzo e non me ne importa un cazzo.
Quando, signore?
Stasera. Sempre che il telefono la smetta di suonare e i giornalisti la smettano di assillarmi per entrare nella mia prigione e farla diventare il loro club privato. E sempre che riesca a compilare ’sti maledetti moduli.
Sutton osserva il vice. Poi le guardie. Lo stanno prendendo in giro? Eppure sembrano seri.
Il vice torna alle scartoffie. Buona fortuna, Willie.
Le guardie portano Sutton dal sarto della prigione. Chiunque venga rilasciato da un carcere dello stato di New York ha diritto a un abito, il giorno in cui esce. È una tradizione che risale ad almeno un secolo prima.
L’ultima volta che gli hanno preso le misure per un vestito del rilascio, a Sutton, il presidente in carica era Calvin Coolidge.
Sutton davanti allo specchio a tre lati del sarto. Uno shock. Si è specchiato poche volte, negli ultimi anni, e non riesce a credere a quello che vede. È sua quella faccia tonda, suoi i capelli grigi imbrillantinati, suo quel naso che odia – troppo grosso, troppo largo, una narice più grande dell’altra – suo quel bitorzolo rosso sopra la palpebra segnalato in ogni rapporto di polizia e in ogni avviso di ricerca dell’FBI fin dal primo dopoguerra. Ma quello non è lui – non può essere. Sutton è sempre andato fiero della sua aria spavalda, anche in manette. È sempre riuscito ad apparire raffinato e in ghingheri, persino con gli stracci grigi della prigione. E adesso, a sessantotto anni, lo specchio a tre lati gli dice che tutta quella spavalderia, tutta quell’eleganza sono sparite. Un tizio magro con le borse sotto gli occhi. Sembra Felix il gatto. Anche i baffetti sottili, una volta fonte di orgoglio, sembrano quelli del gatto dei cartoni. Il sarto è accanto a lui, il metro da sartoria appeso al collo. Un vecchio italiano del
Bronx, con due denti davanti grossi come ditali, che parla e intanto giocherella con un po’ di bottoni e monetine che ha in tasca.
Così ti fanno uscire, eh Willie?
Pare di sì.
Da quanto sei qui dentro Diciassette anni.
E da quanto non ti facevi un vestito nuovo?
Mah, saranno vent’anni. Ai vecchi tempi, quand’ero in grana, i vestiti me li facevo fare tutti su misura. E anche le camicie di seta. Dai D’Andrea Brothers. Ricordo ancora l’indirizzo, al 587 della 5 th Avenue, e il numero di telefono, Murray Hill 5-5332.
Ah certo, dice Sarto, i D’Andrea facevano cose egregie. Ho ancora uno dei loro smoking.
Sali sullo sgabellino.
Sutton sale, brontolando. Un vestito, dice.
Cristo, credevo che le prossime misure me le avrebbero prese per il sudario.
Io non faccio sudari, dice Sarto. Con quelli nessuno vede come lavoro.
Sutton adocchia i tre Sarti nei tre specchi.
Non ti basta fare un buon lavoro? La gente deve per forza vederlo?
Sarto passa il metro intorno alle spalle di Sutton, gli misura il braccio.
Fammi vedere un artista, dice, che non sia in cerca di elogi.
Sutton ammicca.
Io, quando mi facevo le banche, non ne cercavo.
Sarto guarda il trittico di Sutton, fa l’occhiolino a quello in mezzo. Stende il metro lungo la gamba matta di Sutton.
Al cavallo, settantasei. Giacca, una quarantotto.
Portavo la cinquanta normale, quando sono arrivato qui. Dovrei fargli causa.
Sarto ridacchia sottovoce, tossisce.
Di che colore lo vuoi, Willie?
Basta che non sia grigio.
Nero, allora. Sono contento che ti fanno uscire, Willie. Hai pagato il tuo debito.
Rimetti a noi i nostri debiti, dice Willie, come noi li rimettiamo ai nostri debitori.
Sarto si fa il segno della croce.
Viene dal tuo romanzo? chiede Guardia destra.
Sutton e Sarto si guardano.
Sarto punta l’indice come un revolver.
Buon Natale, Willie.
Anche a te, amico mio.
Sutton punta l’indice, alza il pollice come se fosse il cane. Bang.
I giornalisti parlano di sesso, soldi e dei fatti del giorno. Per quel casino di Altamont, il concerto dove sono morti quei quattro hippy drogati, di chi è la colpa? Di Mick Jagger o degli Hells Angels? Poi spettegolano sui colleghi di maggiore successo, a cominciare da Norman Mailer. Non solo si è candidato a sindaco di New York, ma gli hanno appena dato un milione di dollari per scrivere un libro sullo sbarco sulla Luna. Eh, Mailer sì che ci sa fare: scrive la storia come se fosse un romanzo, e i romanzi come se fossero storia, e ci si infila dentro da ogni parte. Le regole lui se le fa da solo, mentre i colleghi che non hanno la stessa libertà finiscono davanti ad Attica, a gelarsi le palle. E se c’è una cosa su cui sono tutti d’accordo, è un bel ’fanculo, Norman. E ’fanculo alla Luna.
Si alitano sulle mani, alzano i colletti, scommettono se verrà fuori oppure no che il direttore è un travestito. Scommettono anche cos’è che succederà, prima – Sutton che va per il mondo o Sutton che va all’altro mondo. L’inviato del «New York Post» dice di aver sentito che Sutton non solo ha un piede nella fossa, ma si sta togliendo la scarpa per infilarci anche l’altro. Quello di «Newsweek» che l’arteria della gamba di Sutton è ostruita e non c’è niente da fare – lo ha saputo suo cognato, da un dottore con cui gioca a racquetball. Il giornalista di «Look» dice che secondo un suo amico, uno sbirro del Bronx, Sutton ha ancora del bottino nascosto in giro per la città. La direzione del carcere lo lascerà libero, così la polizia lo pedinerà per arrivare ai soldi.
È un modo per risolvere il problema del deficit, dice l’inviato del «Times Union» di Albany.
Si raccontano l’un l’altro quello che sanno di Sutton, passandosi storie e fatti come spuntini per sopravvivere alla nottata. Quello che non hanno letto o visto in tv l’hanno sentito dire dai genitori, dai nonni e anche dai
bisnonni. Sutton è il primo rapinatore di banche della storia ad aver attraversato più di una generazione, il primo a poter vantare una carriera lunga ben quattro decenni. Nel suo periodo d’oro Sutton era il volto del crimine in America, uno dei pochi cui era
riuscito di passare da nemico pubblico a eroe popolare. Più sveglio di Machine Gun Kelly, più equilibrato di Pretty Boy Floyd, più simpatico di Legs Diamond, più tranquillo di Dutch Schultz, più romantico di Bonnie e Clyde, Sutton vedeva le rapine in banca come una vera arte e ci si dedicava con uno zelo e una concentrazione degni di un artista.
Credeva fermamente nello studio, nella pianificazione, nel lavorare sodo. Ma al tempo stesso era anche un creativo, un innovatore, e aveva dimostrato di avere, come i più grandi artisti, un tenace istinto di sopravvivenza. Era evaso da tre carceri di massima sicurezza, sfuggendo per anni alle ricerche di poliziotti e agenti dell’FBI. Era come Henry Ford reinterpretato da John Dillinger – con tratti di Houdini, Picasso e Rasputin. I giornalisti sanno tutto dei suoi vestiti eleganti, del sorriso malizioso, del suo amore i buoni libri, del bagliore diabolico degli occhi azzurri, così azzurri che una volta l’FBI negli avvisi di ricerca li definiva color lapislazzuli. È raro che un rapinatore di banche susciti tanto lirismo, in quelli dell’FBI.
Quello che i giornalisti non sanno, quello che loro e la maggior parte degli americani vorrebbero sapere, è se Sutton, noto per essere un non-violento, ha avuto o no a che fare con il brutale omicidio in stile malavitoso di Arnold Schuster. Ventiquattro anni, di Brooklyn, una bella faccia pulita, Schuster aveva prestato servizio nella Guardia costiera e amava il baseball. Un pomeriggio aveva preso la metro sbagliata e si era trovato faccia a faccia con Sutton, all’epoca l’uomo più ricercato d’America. Tre settimane dopo Schuster era morto, e quell’omicidio irrisolto potrebbe essere il più intrigante cold case della storia di New York. Ed è sicuramente la parte più intrigante della leggenda di Sutton.
Le guardie riportano Sutton in ufficio. Un impiegato gli stacca due assegni. Uno di 146 dollari, la paga per diciassette anni di lavori vari in prigione, al netto delle tasse. Un altro di 40 dollari, il costo di un biglietto dell’autobus fino a Manhattan. Sutton prende gli assegni – sta succedendo, è vero. Il cuore pulsa più forte, e anche la gamba. Vibrano all’unisono, come il tenore e la soprano in un’opera lirica.
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