mercoledì 18 dicembre 2019


CONFORTO

Estratto da "Nemico, amico, amante..."
Alice Munro
Traduzione di Susanna Basso.
Einaudi

Nove racconti perfetti: la musica del quotidiano, il gioco smorzato dei sentimenti e delle allusioni. Da Flannery O'Connor a Henry James, da Cechov a Tolstoj, non c'è un autore di racconti al quale Alice Munro non sia stata paragonata. Ma la sua capacità di dipanare in un lampo l'irriducibile complessità della natura umana è incomparabile. Questi racconti possiedono la straordinaria capacità di trascinare il lettore nei meandri di una memoria che non è la sua per risvegliare emozioni che sono di tutti. La scrittura della Munro è aperta, lussureggiante, fitta di accadimenti e particolari necessari. Il paesaggio canadese, la natura selvaggia del Nord Ovest partecipano alle emozioni dei personaggi, integrano la loro storia, determinano le loro decisioni.  
Conforto.
   Nina aveva ripreso a giocare a tennis nel tardo pomeriggio, sui campi del liceo. Per un certo periodo li aveva boicottati, dopo che Lewis aveva lasciato la scuola, ma ormai era passato quasi un anno e la sua amica Margaret, altra insegnante a riposo il cui pensionamento, tuttavia, a differenza di quello di Lewis, era avvenuto in modo tranquillo e cerimonioso, l'aveva convinta a tornare.
- Ti conviene uscire un po', finché puoi.
   Margaret era già andata via quando erano incominciati i guai per Lewis. Aveva scritto una lettera dalla Scozia offrendo la propria solidarietà. Ma era una persona dalle simpatie talmente vaste e onnicomprensive, una donna così cordiale con tutti, che forse quella lettera non ebbe molto peso. La solita generosità d'animo di Margaret.
- Come sta Lewis? - chiese, mentre Nina la riaccompagnava a casa in macchina quel pomeriggio.
   Nina disse: - Si tiene a galla.
   Il sole era già calato fin quasi al bordo del lago. Certi alberi ancora aggrappati alle loro foglie erano fiaccole d'oro, ma il tepore estivo del pomeriggio era sparito. Gli arbusti davanti alla casa di Margaret erano tutti fasciati dentro i sacchi come mummie.
   Quest'ora del giorno ricordava a Nina le passeggiate con Lewis dopo la scuola e prima di cena. Percorsi brevi, per forza, mano a mano che le giornate si accorciavano, lungo viottoli fuori dell'abitato e sponde ferroviarie. Ma ricchi di quello spirito preciso di osservazione, tacito o esplicito, che Nina aveva imparato o assorbito da Lewis. Insetti, lombrichi, muschi, giunchi nel fossato e sterpaglie lanuginose tra l'erba, impronte di animali, bacche, mirtilli selvatici, un inquieto pot-pourri, ogni giorno un po' diverso. E ogni volta più vicino di un passo all'inverno; maggiore parsimonia, un inaridimento.
   La casa in cui abitavano Nina e Lewis era stata costruita intorno al 1840, addossata al marciapiede come si usava ai tempi. Dal soggiorno si sentivano non solo lo scalpiccio ma perfino le conversazioni dei passanti.
Nina immaginava che Lewis avesse sentito sbattere la portiera della macchina.
   Entrò fischiettando meglio che poteva. «See the conquering hero comes».
   - Ho vinto. Ho vinto. C'è nessuno?
   Ma mentre lei era fuori, Lewis moriva. Anzi, si ammazzava. Sul comodino da notte c'erano quattro confezioni di plastica foderate di stagnola. Ogni cartina conteneva due potenti analgesici. Accanto a queste, altre due intatte, con le capsule bianche che ancora occupavano le piccole bolle di plastica. Più tardi, quando Nina le raccolse, vide che una presentava un breve taglio sulla stagnola, come se Lewis avesse incominciato a inciderla con l'unghia e poi avesse rinunciato, forse decidendo che ne aveva già prese abbastanza, o forse perché in quel momento aveva perso i sensi.
   Il bicchiere d'acqua era quasi vuoto. Non ne aveva versato una goccia.
   Di questa cosa avevano parlato. Avevano anche programmato il da farsi, ma intendendolo sempre come una possibilità, un'eventualità futura. Nina aveva dato per scontato che lei sarebbe stata presente, e che l'evento si sarebbe svolto secondo una sorta di cerimoniale. Musica. I cuscini ben sistemati e una sedia accostata al letto in modo che lei potesse tenergli la mano. Due elementi erano sfuggiti alla sua riflessione: il fatto che Lewis detestasse ogni genere di rito, e il fardello che una simile forma di partecipazione le avrebbe scaricato sulle spalle. Domande a cui rispondere, giudizi contrastanti, il suo coinvolgimento in quanto parte attiva nel gesto.    Facendolo in questo modo, lui aveva ridotto al minimo lo scalpore degno di curiosità e la necessità di mentire.
   Si mise a cercare un biglietto. Che cosa si aspettava di trovarci? Non aveva bisogno di istruzioni. Di certo non le occorreva una spiegazione, e meno che mai una richiesta di scuse. Qualunque biglietto non avrebbe potuto dirle niente che già non sapesse. Perfino alla domanda, Perché così presto?, sapeva rispondere da sé. Avevano parlato - anzi, lui aveva parlato - della soglia tollerabile di invalidità, dolore fisico e ripugnanza, di come fosse essenziale riconoscerla e non superarla. Meglio troppo presto che troppo tardi.
   Eppure pareva impensabile che non avesse ancora qualcosa da dirle. Controllò prima per terra, pensando che potesse aver fatto cadere il foglio dal tavolino con la manica del pigiama quando aveva appoggiato il bicchiere d'acqua per l'ultima volta. O forse, invece, si era preoccupato proprio di non farlo: quindi guardò sotto la lampada. Poi nel cassetto del comodino. Sotto e dentro le pantofole. Scosse le pagine del libro che leggeva da ultimo, un manuale di paleontologia sul fenomeno che le pareva rispondere alla denominazione di esplosione cambriana di forme di vita pluricellulari.    Niente.
   Incominciò a frugare tra le coperte. Sollevò il piumino, il lenzuolo di sopra. Lui era lì, con addosso il pigiama di seta blu che gli aveva comprato un paio di settimane prima. Si era lamentato del freddo - proprio lui che non aveva mai avuto freddo a letto in vita sua - e così Nina era uscita a comprargli i pigiami più cari del negozio. Li aveva presi di seta perché erano leggeri e caldi e poi perché tutti gli altri che aveva visto - con quelle righe, o quei messaggi frivoli o allusivi - le facevano venire in mente dei vecchi, o dei mariti da barzelletta, dei relitti in ciabatte. Le lenzuola erano quasi dello stesso colore, perciò ben poco di lui spiccava sullo sfondo. Piedi, caviglie e stinchi. Mani, polsi, collo, testa. Stava sdraiato sul fianco, dandole le spalle.
Ancora a caccia del biglietto, Nina spostò il cuscino; glielo sfilò bruscamente da sotto la testa.
   No. No.
   Trascinata dal cuscino al materasso, la testa produsse un suono, ma un suono più pesante di quanto si aspettasse. E fu proprio quello, insieme alla porzione vuota di lenzuolo, a darle l'impressione che la sua ricerca fosse inutile.
   I farmaci dovevano averlo addormentato, interrompendo di nascosto ogni contatto, cosicché il corpo non presentava lo sguardo fisso né l'espressione contratta di un morto. La bocca era socchiusa, ma asciutta. Negli ultimi due mesi era cambiato parecchio: soltanto adesso se ne rendeva conto fino in fondo. Con gli occhi aperti, ma perfino nel sonno, una sorta di lotta aveva mantenuto viva l'illusione che il danno fosse provvisorio, che tra le pieghe di quella pelle livida, sotto l'implacabile stato di all'erta del male, ci fosse ancora la faccia di un sessantaduenne vigoroso, sempre potenzialmente aggressivo. Non era mai stata la struttura ossea a conferire al suo viso una fisionomia volitiva e scattante; dipendeva tutto dai profondi occhi accesi, dalla mobilità delle labbra e dalla naturalezza espressiva, quel rapido campionario di corrugamenti che costituiva il suo repertorio di scherno, incredulità, pazienza ironica, dolente disgusto. Un repertorio professionale, non sempre confinato tra le pareti di un'aula scolastica.
   Niente. Più niente. Adesso, a un paio d'ore dalla morte (perché doveva essersi dato da fare non appena lei era uscita, non volendo rischiare di prolungare la faccenda fino al suo ritorno), adesso era evidente che sfinimento e devastazione avevano avuto la meglio e che la sua faccia si era ridotta ai minimi termini. Era sigillata, distante, puerile e vecchissima, forse come quella di un bambino nato morto.
   La malattia si manifestava con attacchi di tre tipi diversi. Uno comprometteva mani e braccia. Le dita si intorpidivano, la stretta si faceva prima inefficace, poi impossibile. Oppure erano le gambe a indebolirsi per prime; i piedi cominciavano a inciampare e presto si rifiutavano di sollevarsi per montare su un gradino o addirittura sul bordo di un tappeto. Il terzo tipo di attacco, probabilmente il peggiore, colpiva la gola e la lingua. La deglutizione cessava di essere un fatto automatico e si faceva temibile, drammatica minaccia di soffocamento, mentre il discorso diventava un grumoso flusso di sillabe inopportune. Toccava sempre alla muscolatura volontaria essere aggredita, e la cosa, in un primo momento, pareva costituire un male minore.
Niente cilecche cardiache o cerebrali, niente segnali errati, nessun mutamento malevolo della personalità. Vista e udito, gusto e tatto, ma soprattutto l'intelligenza, vivaci e forti come sempre. Il cervello si manteneva occupato a monitorare la progressiva serrata periferica, scommettendo su diserzioni e impoverimenti a venire.
Non era forse preferibile?
   Certamente, aveva detto Lewis. Ma soltanto per l'opportunità offerta di prendere provvedimenti.
   Nel suo caso, i problemi erano incominciati dalle gambe. Si era iscritto a un corso di Ginnastica per la Terza Età (benché detestasse l'idea) per vedere se riusciva a ricacciarsi a forza un po' di vigore nei muscoli. Per un paio di settimane gli parve che stesse funzionando. Poi però vennero i piedi di piombo, il trascinamento, l'incespicamento e, di li a poco, la diagnosi. Appena l'ebbero saputo, parlarono del da farsi quando fosse arrivato il momento. Al principio dell'estate, camminava con due bastoni. Entro fine stagione, non camminava affatto. Ma con le mani riusciva ancora a sfogliare un libro e a cavarsela, non senza difficoltà, con una forchetta, un cucchiaio, una penna. A Nina pareva che la parola non fosse stata quasi toccata, anche se chi lo veniva a trovare faceva fatica a capirlo. In ogni caso, Lewis aveva deciso di sospendere tutte le visite. La sua dieta era stata modificata per agevolare la deglutizione, e ogni tanto passava intere giornate senza problemi di sorta.
   Nina si era informata per l'acquisto di una sedia a rotelle. E lui non si era opposto. Tra di loro non parlavano più di quella che avevano battezzato la Serrata Generale. Nina si era perfino chiesta se entrambi - o lui solo - non stessero per caso entrando in quella fase di cui aveva letto sui libri, un cambiamento che talvolta si verifica in persone afflitte da una malattia incurabile: l'insorgere di una certa dose di ottimismo, del tutto ingiustificato, ma prodotto dal fatto che l'intera esperienza sia ormai una realtà e non una mera astrazione, che le misure da prendere per contrastarla siano permanenti e non temporanee seccature.
   La fine non è ancora arrivata. Vivi alla giornata. Cogli l'attimo.
   Quel genere di sviluppo non sembrava compatibile con il temperamento di Lewis. Nina lo avrebbe giudicato incapace anche del più utile degli autoinganni. Del resto, non riusciva neppure a immaginarlo sopraffatto da un crollo fisico. E dal momento che una delle condizioni improbabili si era verificata, non poteva valere lo stesso anche per le altre? Non era possibile che i cambiamenti avvenuti in altre persone, accadessero anche in lui? Le speranze segrete, le rimozioni, i patteggiamenti sleali.
   No.
   Afferrò la guida del telefono sul tavolino da notte e cercò la voce «Funerali», ma naturalmente non la trovò. «Onoranze Funebri». L'irritazione che provò fu del tipo che di norma avrebbe condiviso con lui. Funerali, santo Iddio, perché non chiamarli funerali? Si voltò verso Lewis e si rese conto di come lo aveva lasciato, vergognosamente scoperto. Prima di comporre il numero, lo ricoprì con lenzuolo e piumino.
   Una giovane voce maschile le chiese se il dottore fosse presente, se fosse già stato lì.
- Non gli serviva un dottore. Quando sono arrivata era già morto.
- E quando è rientrata?
- Non saprei, diciamo venti minuti fa.
- Ed era già deceduto, dice. Allora, chi è il vostro medico curante? Posso chiamarlo io e mandarglielo.    Nelle loro pacate conversazioni sul tema del suicidio, per quanto ricordava, non avevano mai stabilito se il fatto dovesse rimanere segreto o no. Sotto certi aspetti, era sicura che Lewis avrebbe voluto renderlo noto. Avrebbe voluto far sapere che quella era la sua idea di un modo decoroso e ragionevole per reagire alla situazione nella quale era venuto a trovarsi. Ma per altri versi avrebbe anche potuto dichiararsi contrario a simili rivelazioni. Non avrebbe voluto ad esempio che qualcuno attribuisse il fatto alla perdita del posto di lavoro, al fallimento della sua battaglia a scuola. Lasciar credere che si fosse isolato dal resto del mondo in seguito alla sconfitta su quel fronte lo avrebbe fatto infuriare.
   Raccolse le cartine dei farmaci, le piene come le vuote, e gettò tutto quanto nel water.
   Gli uomini delle Onoranze Funebri erano ragazzoni del posto, ex studenti, un po' più agitati di quanto volessero dare a vedere. Anche il dottore era giovane, e forestiero: il medico curante di Lewis era in vacanza, in Grecia.
- Una benedizione, insomma, - disse il medico, una volta messo al corrente dei fatti. Nina provò un certo stupore nel sentirglielo ammettere così apertamente e pensò che se Lewis avesse potuto udirlo avrebbe colto nella dichiarazione uno sgradito sentore di religione. Ciò che il dottore aggiunse fu invece meno sorprendente.
- Desidera parlarne con qualcuno? Abbiamo persone che - come dire? - possono aiutarla a elaborare il dolore.
- No, no. Grazie. Sto bene.
- Abitate qui da parecchio? Ha degli amici ai quali rivolgersi?
- Oh, sì, sì.
- Vuole chiamare qualcuno subito?
- Sì, - disse Nina. Mentiva. Non appena il medico e i giovani necrofori e Lewis ebbero lasciato la casa - Lewis trasportato come un mobile, avvolto in una coperta per evitare eventuali spigoli - dovette riprendere le ricerche. Le pareva adesso di essere stata sciocca, limitandosi a cercare in prossimità del letto. Si ritrovò a cercare nelle tasche della propria vestaglia, appesa dietro la porta della camera. Un nascondiglio eccellente, essendo quello l'indumento che si infilava addosso ogni mattina, prima di correre a fare il caffè, e dal momento che ne esplorava regolarmente le tasche a caccia di un kleenex, o del burro di cacao. Solo che Lewis si sarebbe dovuto alzare dal letto per attraversare la stanza, un uomo che da settimane ormai non faceva un passo senza il suo aiuto. Del resto, perché pensare che il biglietto dovesse essere stato scritto e nascosto soltanto ieri? Non avrebbe avuto più senso prepararlo e sistemarlo una settimana prima, specie considerando che Lewis non sapeva a che velocità si sarebbe deteriorata la sua capacità di scrivere? In tal caso, poteva trovarsi dovunque. Nei cassetti della sua scrivania - nei quali stava rovistando adesso. O sotto la bottiglia di champagne che lei aveva comperato per brindare al suo compleanno e che aveva messo sul cassettone per ricordargli la data, di lì a due settimane - o tra le pagine di uno qualsiasi dei libri che lei consultava ultimamente. In effetti, non molto tempo fa le aveva chiesto: «Che cosa stai leggendo per conto tuo adesso?» Intendeva, oltre al libro che leggeva a voce alta per lui: Federico il Grande di Nancy Mitford. Nina sceglieva libri di storia poco impegnativi - la narrativa lui non la sopportava - e lasciava che dei testi scientifici si occupasse da sé. Gli aveva risposto: «Oh, dei racconti giapponesi», mostrandogli il volume. Ora rovistò tra gli altri per rintracciare quel libro e lo rovesciò per scuoterne bene le pagine. Lo stesso trattamento venne poi riservato a tutti i libri messi da parte. I cuscini della poltrona dove sedeva di solito furono gettati a terra per controllare se dietro ci fosse qualcosa. Alla fine fece altrettanto con quelli del divano. Poi rovesciò il caffè in grani dal barattolo per accertarsi che non ci avesse (uno scherzo, chissà) nascosto dentro un addio.    Non aveva voluto nessuno presente, nessuno che la osservasse impegnata nelle ricerche, sebbene le conducesse con tutte le luci accese e le tende aperte. Nessuno a ricordarle che doveva cercare di ricomporsi. Era già buio da un pezzo quando si rese conto che doveva mangiare qualcosa. Magari poteva chiamare
Margaret. Ma non fece nessuna di queste cose. Si alzò, pensando di chiudere le tende, e invece spense le luci.    Nina era alta più di un metro e ottanta. Sin dall'adolescenza, tutti quanti, dagli insegnanti di educazione fisica ai counselor scolastici, a certe premurose amiche della madre, le consigliavano di stare diritta con la schiena. Lei faceva del suo meglio, ma anche adesso, quando guardava le vecchie fotografie, si scoraggiava nel constatare la sua postura dimessa: spalle raccolte, testa inclinata, il tipico atteggiamento sorridente e servizievole. Da ragazza si era abituata agli incontri organizzati da amiche che la accoppiavano a partner alti. Pareva che in un uomo avesse poca importanza tutto il resto: se superava ampiamente il metro e ottanta, era destinato a far coppia con Nina. Non di rado la situazione non li entusiasmava; dopo tutto i ragazzi alti potevano permettersi di scegliere, e Nina, sempre curva e sorridente, si sentiva invadere dall'imbarazzo.    I suoi genitori, se non altro, si comportavano come se la sua vita fosse affar suo. Erano entrambi dottori in una piccola città del Michigan. Nina tornò a stare con loro dopo il college. Insegnava latino presso il liceo locale. Passava le vacanze in Europa con le compagne di università non ancora inghiottite da matrimoni a catena e probabilmente ormai al riparo dall'esperienza. Durante un'escursione nei Cairngorms, lei e il suo gruppo si erano imbattute in una compagnia di australiani e neozelandesi, hippie a tempo determinato, il cui leader pareva essere Lewis. Aveva qualche anno più degli altri, era un consumato girovago più che un autentico hippie, e di sicuro una persona cui fare riferimento in caso di grane o di difficoltà. Pur non essendo particolarmente alto - una buona mezza dozzina di centimetri meno di lei - prese a fare coppia fissa con Nina, la persuase a cambiare itinerario e ad andarsene via con lui, a sua volta spensieratamente disposto ad abbandonare gli amici alle loro inclinazioni.
   Saltò fuori che non ne poteva più di viaggiare e che aveva una buona laurea in Biologia e un'abilitazione all'insegnamento conseguite in Nuova Zelanda. Nina gli raccontò della cittadina sulla costa orientale del lago Huron, in Canada, dove da bambina andava a trovare dei parenti. Ne descrisse gli alberi alti che costeggiavano le strade, le vecchie, semplici case, i tramonti sull'acqua: un posto eccellente per andare a vivere, anche perché, grazie ai privilegi riservati ai paesi membri del Commonwealth, Lewis avrebbe trovato facilmente lavoro. E lo trovarono infatti, entrambi, presso il liceo, anche se Nina smise di insegnare pochi anni dopo, quando il latino venne gradualmente eliminato. Avrebbe potuto seguire dei corsi di aggiornamento, prepararsi per insegnare altrove, ma in cuor suo non le dispiaceva affatto di non dover più essere una collega di Lewis, per di più nella stessa scuola. La forza della sua personalità, e lo stile di insegnamento, piuttosto sconcertante, gli procuravano amici, ma anche nemici, e fu un sollievo per lei non trovarsi coinvolta.
   Avevano sempre rimandato l'ipotesi di un figlio. Nina sospettava che fossero tutti e due un po' troppo presuntuosi per accettare l'idea di doversi accontentare di identità riduttive e vagamente comiche come quelle di mamma e papà. Entrambi, ma Lewis in modo particolare, ammiravano gli studenti perché non assomigliavano agli adulti di loro conoscenza. Più vigorosi nella mente e nel fisico, più complessi e vivaci, e in grado di cavare qualcosa di buono dalla vita.
   Si iscrisse a una corale. Molti concerti avvenivano all'interno di chiese e fu allora che Nina scoprì quanto Lewis detestasse quei posti. Gli spiegò che spesso non si poteva disporre di altri locali adatti, e che non per questo la musica doveva essere necessariamente religiosa (tesi non semplicissima da sostenere, trattandosi del Messia). Aggiunse che si dimostrava poco moderno e che al giorno d'oggi le religioni potevano fare ben pochi danni. Ebbero una grossa lite. Dovettero precipitarsi a chiudere le finestre di modo che le voci alterate non arrivassero al marciapiede in quella tiepida sera estiva.
   Un litigio del genere era stupefacente e segnalava non solo quanto lui fosse all'erta rispetto a eventuali nemici, ma anche quanto lei fosse incapace di abbandonare una discussione quando i toni trascendevano in collera. Nessuno dei due era disposto a fare marcia indietro, si accanivano entrambi per questioni di principio.
   Non puoi accettare che la gente non sia tutta uguale, cosa c'è poi di tanto importante?
   Se non è importante questo, dimmi che cosa lo è.
   L'atmosfera si fece greve di odio. Il tutto per una questione che nessuno avrebbe mai potuto risolvere. Si coricarono senza rivolgersi la parola, si separarono senza parlare il mattino dopo, e nel corso della giornata furono sopraffatti dallo spavento; lei ebbe paura che lui non tornasse a casa, e lui di tornare e di non trovarla. La sorte invece fu generosa. Si incontrarono nel tardo pomeriggio, pallidi di pentimento, tremanti d'amore come chi, scampato per un pelo al terremoto, vaghi senza meta in preda a una confusione palese.    Quella non fu l'ultima volta. Nina, educata a mostrarsi sempre accomodante, si chiese se la vita normale fosse così. Con lui, non poteva discuterne; le loro rappacificazioni erano troppo appassionate, troppo affettuose e insulse. Lui la chiamava Nina la Dolce Iena, e lei chiamava lui Lewis Cielo Sereno.
   Qualche anno prima, lungo le strade, era comparso un nuovo poster. Da un pezzo ormai non si vedevano manifesti che invitassero alla conversione, né altri con grandi cuori rosa che scoraggiavano dal ricorso all'aborto. La novità era costituita dai testi, tratti dalla Genesi.
In principio Dio creò il Cielo e la Terra. Dio disse, Sia fatta la Luce, e la Luce fu. Dio creò l'Uomo a Sua immagine.
   Maschio e Femmina li creò.
Di solito accanto alle parole c'era un arcobaleno o una rosa, o un altro simbolo di bellezza da paradiso terrestre.
- Che vuol dire tutto questo? - disse Nina. – E’ comunque un cambiamento. Rispetto a «Dio ha amato tanto il mondo».
- E’ creazionismo, - disse Lewis.
- Ci arrivavo da sola. Quel che voglio dire è, come mai salta fuori da tutte le parti?
   Lewis rispose che si era formato un movimento deciso a rafforzare la credenza letterale nella storia raccontata dalla Bibbia.
- Adamo ed Eva. La solita menata.
   Lui non pareva particolarmente turbato, non più di quanto fosse ogni anno davanti al presepe allestito, anziché sul sagrato di una chiesa, nel prato del Palazzo municipale. Un conto era farlo sulla proprietà della chiesa, diceva, altro era usare terreno pubblico. L'educazione quacchera ricevuta da Nina non aveva insistito molto sull'episodio di Adamo ed Eva, perciò una volta a casa andò a prendere la Bibbia di Re Giacomo e lesse la storia dal principio alla fine. Rimase incantata dalla maestosità creativa di quei primi sei giorni: la separazione delle acque e l'installazione di Sole e Luna nonché la comparsa di tutte le creature che strisciano sulla terra e degli uccelli nell'aria e così via.
- E’ bellissimo, - disse. - Altissima poesia. La gente dovrebbe leggerla.
   Lui rispose che non era né meglio né peggio della miriade di cosmologie scaturite in ogni angolo della terra, e aggiunse che non ne poteva più di sentire la storia di quanto fosse bella, e di quanto fosse poetica.
- E’ una cortina di fumo, - disse. - Quella è gente che se ne fotte della poesia.
   Nina scoppiò a ridere. - Gli angoli della terra, - disse. - Che diavolo di espressione sarebbe questa per uno scienziato? Scommetto che viene dalla Bibbia.
   Di quando in quando decideva di rischiare, e lo prendeva in giro su questo argomento. Ma doveva fare attenzione a non esagerare. Essere certa di riconoscere la soglia intorno alla quale Lewis avrebbe percepito la minaccia mortale, l'oltraggio disonorevole.
   Ogni tanto trovava degli opuscoli nella posta. Non li leggeva da cima a fondo, e per un po' credette che li ricevessero tutti, insieme alla varia carta straccia con offerte di vacanze tropicali e altre scioccanti fortune inattese. Poi scoprì che Lewis riceveva lo stesso materiale anche a scuola - «propaganda creazionista», la definiva lui. Gliela lasciavano sulla scrivania, oppure la infilavano nella buca del suo ufficio.
- Gli studenti hanno accesso al mio studio, ma si può sapere chi mi intasa la cassetta delle lettere? - aveva domandato al preside.
   Il preside aveva risposto di non averne la minima idea; li riceveva anche lui. Lewis fece il nome di un paio di docenti che definì cripto-cristiani, ma il preside ribatté che non valeva la pena di sollevare grane in proposito: era più semplice disfarsi di quelle cartacce.
   In classe qualcuno incominciò a fare domande. O meglio, santarelline e secchioni di entrambi i sessi pronti a scagliare un'ascia di guerra contro l'evoluzionismo ce n'erano sempre stati; Lewis aveva il suo metodo provato e sicuro per metterli a tacere. Diceva ai provocatori che se desideravano un'interpretazione religiosa della storia del mondo, la città vicina ospitava una Scuola Confessionale, e li invitava calorosamente a frequentarla. Quando le domande si fecero più assidue, aggiunse che un comodo autobus ce li avrebbe portati, e che potevano raccogliere i loro libri e andarsene quel giorno stesso, anzi, anche subito, se lo desideravano.
- Santi e secchioni, fuori dai... - disse. Più tardi si cercò di stabilire se avesse effettivamente pronunciato il termine «coglioni» o se l'avesse lasciato aleggiare in silenzio nell'aria. Ma se anche non l'aveva detto espressamente, l'offesa senz'altro restava, visto che tutti immaginarono la probabile conclusione di quel motto.
   Di recente gli studenti avevano assunto una strategia diversa.
- Noi non pretendiamo una visione religiosa delle cose. Ci chiediamo soltanto come mai non si possa garantirle pari opportunità.
   Lewis si lasciò trascinare nella discussione.
- Perché mi pagano per insegnarvi scienze, non religione.    Così disse di aver detto. Non mancò chi invece sostenne
di avergli sentito dire: - Perché non mi pagano per insegnarvi delle stronzate -. E in effetti, in effetti, disse Lewis, alla quarta o quinta interruzione, sempre per la solita domanda formulata in modo leggermente diverso («Che male ci sarebbe ad ascoltare l'altra versione dei fatti? L'insegnamento dell'ateismo non è a sua volta una forma di indottrinamento?»), non escludeva che quella parola potesse essergli sfuggita ma, sentendosi provocato con tanta insistenza, non riteneva di doversene scusare.
- Si dà il caso che in questa classe comandi io e perciò sta a me decidere che cosa insegnare.
- Credevo che comandasse soltanto Iddio, signore.
   Qualcuno venne cacciato dall'aula. Si presentarono dei genitori per un colloquio con il preside. O forse la loro intenzione era quella di parlare con Lewis, ma il preside si assicurò che non accadesse. Lewis seppe di questi colloqui soltanto in seguito, dai commenti, per lo più scherzosi, scambiati in sala insegnanti.    -  Non è il caso che ti preoccupi, - disse il preside. Si chiamava Paul Gibbings, e aveva qualche anno meno di lui.
- Hanno solo bisogno di sentirsi ascoltati. Di qualcuno che li comprenda.
- Li avrei compresi io, - disse Lewis.
- Già. Ma non è esattamente il tipo di comprensione che avevo in mente.
- Dovremmo mettere un bel cartello. E’ vietato l'accesso a cani e genitori.
- Capisco che cosa vuoi dire, - ribatté Gibbings, sospirando affettuoso. - Credo però che abbiano dei diritti anche loro.
   I giornali locali cominciarono a pubblicare certe lettere. Più o meno una ogni due settimane, firmata «Un genitore preoccupato» oppure «Un contribuente cristiano» o ancora «Dove vogliamo arrivare?» Erano testi ben scritti, composti con buona padronanza sintattica e lessicale, tanto da far nascere il sospetto che fossero stati commissionati. Vi si sosteneva che non tutte le famiglie potevano permettersi la retta delle scuole private confessionali, ma che tutti in compenso pagavano le tasse. Pertanto era loro diritto iscrivere i figli a una scuola pubblica dove la fede non venisse oltraggiata o deliberatamente vilipesa. Utilizzando un linguaggio scientifico, qualcuno spiegò come la storia fosse piena di malintesi, e come certe scoperte che potevano sostenere le tesi evoluzionistiche si fossero poi rivelate autentiche conferme dell'assunto biblico. Seguivano citazioni di testi biblici che pronosticavano i falsi insegnanti del mondo moderno e il conseguente abbandono di ogni morale applicata alla vita.
   Col passare del tempo il tono cambiò; divenne collerico. Agenti dell'Anticristo a capo del governo e delle aule scolastiche. Gli artigli di Satana pronti a ghermire l'anima dei ragazzi, costretti a recitare, durante gli esami, il catechismo della dannazione.
- Che differenza c'è tra Satana e l'Anticristo, ammesso che ci sia una differenza? - domandò Nina. - I quaccheri sono poco ferrati sull'argomento.
   Lewis rispose pregandola di non buttarla sullo scherzo.
- Scusa, - replicò lei seria. - Secondo te, chi scrive queste cose? Un prete?
   No, rispose lui. Un prete ne avrebbe curato meglio la struttura. No, doveva trattarsi di una campagna di propaganda, di una casa madre che forniva lettere a vari indirizzi decentrati. Dubitava che la vicenda potesse avere avuto inizio nelle sue classi. Era tutto organizzato, e le scuole venivano prese di mira, soprattutto nelle zone dove c'era buona speranza di incontrare adesioni da parte del pubblico.
- Lo vedi. Niente di personale.
- Non mi pare una consolazione.
- Ah no? Credevo lo fosse, invece.
   Qualcuno scrisse «Tizzone d'Inferno» sull'auto di Lewis. Non con la vernice spray. Solo con il dito passato nella polvere.
   Le lezioni dell'ultimo corso cominciarono a venir boicottate da una minoranza di studenti che si sedeva a terra davanti alla porta, esibendo tanto di giustificazione firmata dai genitori. Quando Lewis iniziava a parlare, quelli intonavano un canto.
   All things brighi and beautiful
   All creatures great and small
   All things tvise and wonderful    The Lord God made them ali1.
   Il preside proibì con una circolare di occupare lo spazio dell'atrio, ma non ordinò ai manifestanti di rientrare in classe. Gli studenti dovettero riunirsi in un magazzino dietro la palestra, dove proseguirono coi canti; un intero repertorio di inni. Le loro voci si mescolavano in modo stridente ai bruschi comandi dell'insegnante di educazione fisica e ai tonfi sordi sul pavimento della palestra.
   Un lunedì mattina sulla scrivania del preside comparve una petizione firmata, copia della quale veniva intanto recapitata alla sede del giornale locale. Le firme erano state raccolte non solo tra i genitori dei ragazzi coinvolti, ma anche da varie congregazioni religiose della città. Per lo più provenivano da comunità integraliste. Ma ce n'erano alcune anche della Chiesa Unitaria, Anglicana e Presbiteriana.    Nella petizione non si faceva parola di tizzoni d'inferno.

1. Tutte le cose belle e luminose / Tutte le creature grandi e piccole / Tutte le cose sagge e meravigliose / Sono opera del Signore [N. d. T].

E neppure di Satana, né dell'Anticristo. Si chiedeva soltanto di garantire all'interpretazione biblica della creazione pari opportunità, e di rispettarla come ogni altra scelta.
   « I firmatari del presente documento ritengono che la voce di Dio sia rimasta troppo a lungo inascoltata».
- Tutte idiozie, - commentò Lewis. - Ma se non credono né alle pari opportunità, né alla libera scelta.
Sono solo dei fanatici, ecco che cosa sono. Dei fascisti.
   Paul Gibbings andò a casa di Lewis e Nina. Non gli andava di discutere della vicenda dove potevano esserci spie in ascolto. (Una delle segretarie era membro della Bible Chapel). Non si faceva grosse illusioni sulla possibilità di persuadere Lewis, ma sentiva di dover fare un tentativo.
- Mi hanno messo con le spalle al muro, mondo boia, - disse.
- Licenziami, - disse Lewis. - Assumi un qualunque coglione creazionista al mio posto.
   Il figlio di puttana ci sta provando gusto, pensò Paul. Ma si controllò. Ultimamente pareva essere diventata quella, la sua attività primaria: esercitare il controllo.
- Non sono venuto per parlare di questo. Voglio dire che per un mucchio di persone questa gente si sta solo dimostrando ragionevole. E mi riferisco anche a membri del consiglio d'istituto.
- Falli contenti. Licenziami. Spalanca le porte ad Adamo ed Eva.
   Nina portò il caffè. Paul la ringraziò cercando di incrociarne lo sguardo per cogliere un'eventuale possibilità di sostegno. Macché.
- Sì, certo, - disse. - Ma se non potrei farlo neanche volendo. E non voglio. Avrei il sindacato sul collo. La storia farebbe il giro di tutta la provincia, potrebbe diventare perfino motivo di sciopero; dobbiamo pensare ai ragazzi.
   L'appello al bene dei ragazzi poteva far centro, con uno come Lewis. Ma ormai era perso in una delle sue fissazioni.
- Spalanca le porte ad Adamo ed Eva. Con o senza foglia di fico.
- Tutto quello che chiedo è un discorsetto che spieghi come questa sia solo un'interpretazione, e come la gente abbia il diritto di credere in cose diverse. Riduci la vicenda della Genesi a un quarto d'ora, venti minuti. Leggila ad alta voce. Ma fallo con rispetto. Lo sai bene anche tu qual è il punto, no? E che la gente si sente trattata male. Alla gente non va giù di sentirsi trattata male, tutto qui.
   Lewis restò in silenzio per un tempo sufficiente a creare una speranza - in Paul e forse anche in Nina, chi poteva dirlo? - ma si scoprì alla fine che la lunga pausa era solo un espediente per lasciar decantare quello che lui giudicava il livello inqualificabile della richiesta.
- Allora? - fece Paul prudente.
- Posso anche leggere la Genesi ad alta voce da cima a fondo, ma poi dichiarerò che contiene solo un'accozzaglia di presuntuosi concetti teologici per lo più presi a prestito da altre culture migliori.
- Miti, - intervenne Nina. - Dopo tutto un mito non è una menzogna, è solo...
   Paul non ritenne importante prestarle attenzione. Lewis del resto non lo stava facendo.
   Lewis scrisse una lettera al giornale. Nella prima parte mantenne un tono moderato e accademico; descrisse la deriva dei continenti, la formazione degli oceani e la formidabile nascita della vita sul pianeta in condizioni assai poco favorevoli. Organismi primordiali, oceani vuoti di pesci e cieli sgombri di uccelli. Ere rigogliose e catastrofi, i regni di anfibi, rettili, dinosauri, i mutamenti climatici, la comparsa dei primi mammiferi. Il processo di adeguamento per successivi errori, la tarda e poco promettente entrata in scena dei primati, gli umanoidi che si ergono sulle zampe posteriori e producono il fuoco, affilano pietre, segnano il territorio e, in una recente accelerazione del processo, costruiscono navi e piramidi e bombe, inventano lingue e divinità sacrificandosi e assassinandosi reciprocamente. Che lottano per stabilire se Dio si debba chiamare Jehovah o
Krishna (a questo punto il tono si fece più veemente) o se sia bene mangiare carne di maiale; che si genuflettono strepitando preghiere rivolte a un Vegliardo abitatore del cielo che ha molto a cuore le sorti di guerre e partite di calcio. Che infine, sorprendentemente, elaborano alcuni concetti e avviano un percorso di conoscenza di sé e dell'universo in cui si trovano a vivere, per poi decidere che è più conveniente gettare alle ortiche tutto quel faticoso sapere, rispolverare il Vegliardo e rimettere tutti in ginocchio, pronti a farsi imbottire di vecchie chiacchiere. Tanto valeva ricacciare fuori l'idea che la terra è piatta, visto che c'erano.
   Affettuosamente Vostro, Lewis Spiers.
   Il direttore del giornale veniva da fuori e si era da poco diplomato presso la Scuola di Giornalismo. Fu soddisfatto del clamore suscitato e continuò a pubblicare le risposte («Non Si Mette Dio Alla Berlina», firmata dall'intera congregazione della Bible Chapel; «L'Autore Svilisce Il Dibattito», di un tollerante ma amareggiato ministro della Chiesa Unitaria, offeso dall'impiego del termine «chiacchiere», e «Vegliardo»), finché l'editore della rete di quotidiani gli rese noto che quel genere di cagnara era anacronistica e inopportuna e che scoraggiava gli inserzionisti. Ci metta un coperchio, gli disse.
   Lewis scrisse un'altra lettera, questa volta di dimissioni. Accolta con rammarico, dichiarò Paul Gibbings, sempre sul giornale, anche perché si parlava di motivi di salute.
   Motivi veri, sebbene Lewis, dal canto suo, avrebbe preferito non renderli noti al pubblico. Da parecchie settimane avvertiva un senso di fiacchezza alle gambe. Proprio in un momento in cui sarebbe stato importante per lui dominare la classe, passeggiare avanti e indietro davanti alla cattedra, si sentiva tremante, desideroso di stare seduto. Non cedette mai, ma certe volte dovette aggrapparsi allo schienale della sedia in un gesto spacciato per enfasi. E di quando in quando si rese conto che non avrebbe saputo dire dove aveva i piedi. Se a terra ci fosse stato un tappeto avrebbe potuto inciampare nella minima piega, e perfino in classe, dove tappeti non ce n'erano, un pezzetto di gesso caduto, una matita, potevano trasformarsi in minacce.
   Era furioso per quel malessere, che interpretava come reazione psicosomatica. Non gli era mai capitato di avere disturbi nervosi di fronte agli allievi né a qualunque altro tipo di pubblico. Quando ricevette la diagnosi autentica, nello studio del neurologo, la sua prima reazione - lo disse a Nina - fu di ridicolo sollievo.
- Temevo di essere diventato nevrotico, - disse, e scoppiarono a ridere insieme.
- Temevo di essere diventato nevrotico, e invece ho solo una sclerosi laterale amiotrofica -. Risero, incespicando nel corridoio moquettato; poi entrarono in ascensore dove la gente li fissò stupefatta: il riso era tra le manifestazioni più insolite da quelle parti.
   L'agenzia di Onoranze Funebri LakeShore aveva sede in un vasto edificio moderno in mattoni chiari - tanto recente che il terreno circostante non aveva ancora assunto l'aspetto di un prato con siepi ornamentali. Non fosse stato per l'insegna, la si sarebbe potuta credere una clinica, o un centro di uffici amministrativi. La denominazione LakeShore non dipendeva dal fatto che la costruzione si affacciasse sul lago; si trattava di una deliberata arguzia linguistica studiata per inserire il cognome del titolare: Bruce Shore. A certi la cosa appariva sconveniente. Quando ancora a ospitare la ditta era una massiccia villa vittoriana del centro, l'azienda, gestita dal padre di Bruce, si chiamava semplicemente Onoranze Funebri Shore. Ai tempi in effetti l'edificio era anche abitazione, con ampio spazio per Ed e Kitty Shore e i loro cinque figli al secondo e al terzo piano.
   Nel nuovo edificio invece non abitava nessuno, ma c'erano una stanza, un angolo cottura e una doccia. Nel caso Bruce Shore avesse dovuto trovare più comodo fermarsi per la notte anziché farsi venticinque chilometri di strada per raggiungere la casa di campagna dove lui e sua moglie allevavano cavalli.
   Era successo così la sera prima, a causa di un incidente a nord della città. Un'auto carica di ragazzi era andata a schiantarsi contro la spalletta di un ponte. Circostanze del genere
- guidatore fresco di patente o addirittura sprovvisto della medesima, equipaggio ubriaco fradicio - si verificavano di solito in primavera, intorno al periodo degli esami finali, o nell'eccitazione delle prime settimane di scuola, a settembre. Questo era invece il momento dell'anno più adatto alle fatalità dei forestieri - l'anno prima era toccato a un gruppo di infermiere arrivate dalle Filippine -, colti di sorpresa dal primo impatto con le insidie della neve.
   Eppure in una notte perfettamente serena e su una strada asciutta, era toccato a due diciassettenni, entrambi del posto. E poco prima era arrivato Lewis Spiers. Bruce aveva da fare fin sopra i capelli - il lavoro per rendere presentabili quei due ragazzi lo impegnò fino a tarda sera. Aveva chiamato suo padre. Ed e Kitty, che trascorrevano l'estate nella casa di città, non erano ancora partiti per la Florida, e così Ed era venuto a occuparsi di Lewis.
   Bruce era andato a correre per rilassarsi un po'. Non aveva neppure fatto colazione quando, ancora in tuta da jogging, vide la signora Spiers accostare a bordo della vecchia Honda Accord. Si precipitò in sala d'attesa ad aprirle la porta.
   Era una donna alta e magrissima, grigia di capelli ma agile e scattante nel movimento. Quella mattina non sembrava poi tanto malmessa, anche se Bruce non mancò di notare che si era scordata di infilarsi un cappotto.    -  Mi scusi. Mi scusi, - le disse. - Torno adesso da un po' di esercizio. Shirley non è ancora arrivata, purtroppo. Siamo molto addolorati per la sua perdita.
- Sì, - disse lei.
- Il signor Spiers è stato il mio insegnante di scienze in terza e in quarta superiore ed è l'unico insegnante che non scorderò mai. Vuole accomodarsi? Lo so che in un certo senso era preparata, ma è un'esperienza per la quale non si è mai pronti del tutto. Vuole che ci occupiamo adesso del necrologio o preferisce vedere suo marito?
   Lei disse: - Volevamo soltanto una cremazione.
   Bruce annuì. - Certo. Dopo.
- No. Deve essere cremato subito. Voleva così. Pensavo di poter ritirare le ceneri.
- Be', non avevamo ricevuto istruzioni in tal senso, - ribatté lui deciso. - Abbiamo preparato il corpo. Ha un ottimo aspetto, mi creda. Le piacerà, ne sono certo.
   Lei restò in piedi a fissarlo.
- Ma non preferisce sedersi? - disse lui. - Aveva in mente di organizzare comunque qualcosa, giusto? Un rito di qualche genere. Chissà quanta gente vorrà dare un estremo saluto al signor Spiers. Non è la prima volta, sa, che ci occupiamo del funerale di persone non religiose. Basta qualcuno che pronunci un elogio, al posto del sacerdote. Oppure, se non le piace nemmeno quel genere di formalità, si può dire alle persone di esprimere un pensiero ad alta voce. Sta a lei decidere se vuole il feretro chiuso o aperto. Di solito, in zona, lo preferiscono aperto. Nei casi di cremazione ovviamente c'è meno scelta di bare. Ne abbiamo di un tipo molto decoroso a vedersi, ma di gran lunga più economico.
   Lei lo fissava sbalordita.
   Il fatto è che il lavoro era stato concluso e nessuno aveva dato ordine di non procedere. Un lavoro come un altro, da pagare. Senza considerare il materiale.
- Le sto solo illustrando quello che credo potrà desiderare, appena si sarà data il tempo di mettersi seduta a pensarci un attimo. Noi siamo qui per accontentarla...
   Forse si era spinto un po' troppo in là.
- Ma abbiamo proceduto in questo modo perché nessuno ci ha detto di non farlo.
   Un'auto si fermò all'esterno, si sentì sbattere la portiera; Ed Shore entrò nella stanza. Bruce provò un enorme sollievo. Aveva ancora tanto da imparare in quel mestiere. Per esempio, i rapporti con i parenti del defunto.
   Ed disse: - Ciao, Nina. Ho visto la tua macchina. Volevo solo dirti che mi spiace tanto.
   Nina aveva trascorso la notte in soggiorno. Immaginava di aver dormito, ma di un sonno talmente leggero da sapere per tutto il tempo dove si trovava - sul divano in soggiorno - e dov'era Lewis - nella camera ardente.
   Quando provò a parlare, scoprì che le battevano i denti.
Il fatto la colse del tutto alla sprovvista.
   Quel che cercava di dire, quel che incominciò a dire pensando di esprimersi in modo assolutamente normale, era «Volevo farlo cremare subito», invece udì, o percepì, i propri singhiozzi e il balbettio incontrollabile.
- Voglio... vorrei... lui voleva...
   Ed Shore la prese per un polso e con l'altro braccio le cinse le spalle. Anche Bruce aveva teso le braccia, ma non la sfiorò.
- Dovevo farla sedere, - disse in tono mesto.
- E’ tutto a posto, - disse Ed. - Te la senti di arrivare fino alla macchina, Nina? Hai bisogno di una boccata d'aria fresca.
   Ed guidò con i finestrini abbassati verso la parte vecchia della città, fino a una strada cieca che terminava con una rotonda panoramica sul lago. Di giorno la gente ci veniva per godersi il paesaggio - magari mangiando il panino del pranzo. Ma la notte quello era un posto da innamorati. Il pensiero poteva aver sfiorato anche Ed, oltre che Nina, mentre parcheggiava.
- Pensi che possa bastare, l'aria? - disse. - Non vorrai prenderti un raffreddore, così, senza una giacca.
   Nina rispose in tono circospetto: - Fa abbastanza caldo. Come ieri.
   Non erano mai stati seduti vicini in macchina, né al buio né in pieno giorno; non avevano mai cercato un posto dove stare un po' soli.
   Sembrava una riflessione di cattivo gusto in quel momento.
- Mi dispiace, - disse Nina. - Ho perso il controllo. Volevo dire soltanto che noi due... che lui...
   E le successe di nuovo. Tutto da capo. I denti che le battevano, il tremore, il confondersi delle parole. Orrendo, pietoso. Non era nemmeno espressione di ciò che provava davvero. Prima, si era sentita invadere di rabbia impotente, parlando con Bruce, o meglio, ascoltandolo. Ma adesso si era convinta di essere calmissima e ragionevole.
   Questa volta, visto che erano soli, lui non la toccò. Si mise solo a parlare. Non stare a preoccuparti di niente. Ci penso io. Subito. Farò in modo che si sistemi tutto. Ho capito. Cremazione.
- Respira con calma, - disse. - Inspira. Trattieni il fiato. Espira.
- Sto bene.
- Ma certo.
- Non so che mi prende.
- E’ lo shock, - disse lui pacato.
- Ma non è da me.
- Guarda verso l'orizzonte.
   Stava estraendo qualcosa dalla tasca. Un fazzoletto? Ma non le serviva nessun fazzoletto. Non piangeva con le lacrime. Erano solo singhiozzi.
   Era un pezzo di carta ben ripiegato.
- Ti ho tenuto questo da parte, - disse. - Ce l'aveva nella tasca del pigiama.
   Nina infilò il foglio nella borsetta, con un gesto attento e tranquillo, come se si trattasse di una ricetta medica. A quel punto capì il senso di ciò che Ed le aveva detto finora.
- C'eri quando l'hanno portato.
- Mi sono occupato io di lui. Bruce mi ha chiamato. C'è stato un incidente stradale e da solo non riusciva a cavarsela.
   Non chiese neppure quale incidente. Non le importava. In quel momento voleva soltanto restare sola per leggere il messaggio di Lewis.
   La tasca del pigiama. L'unico posto dove non aveva guardato. Non l'aveva neppure sfiorato, il corpo.    Dopo che Ed l'ebbe riaccompagnata, tornò a casa con la sua macchina. Appena si fu allontanata abbastanza da lui, che la salutava con la mano, accostò. Con una mano già rovistava nella borsetta, prima ancora di fermare l'auto. Lesse il messaggio senza spegnere il motore, poi proseguì.
   Sul marciapiede di fronte a casa trovò un altro messaggio.
   Dio ha voluto così.
   Il tratto era frettoloso, incerto, tracciato col gesso. Sarebbe stato facile da pulire.
   Quello che Lewis aveva scritto e lasciato apposta per lei era una poesia. Una manciata di versi scherzosi e scadenti.
Aveva un titolo: La Lotta tra Genesitici e Figli di Darwin per l'Anima di una Generazione di Smidollati.
C'era un Santuario di conoscenza Che sulla riva del lago affacciava Dove campioni di ottusa ignoranza Ascoltavan le prediche di chi li tediava...
E il Numero Uno, il più gran Seccatore, Era uno stronzo ognor sorridente Che aveva un'unica idea fissa in mente: Dir loro quello che avevano a cuore.
   Un inverno, a Margaret era venuta l'idea di organizzare una serie di serate alle quali varie persone avrebbero tenuto discorsi - non troppo lunghi - su temi e argomenti di loro interesse e competenza specifici. L'aveva pensata destinata agli insegnanti («Agli insegnanti tocca di solito starsene in piedi a blaterare di fronte a un pubblico privo di scelta, - disse. - Hanno bisogno per una volta di stare a sentire qualcuno che racconti qualcosa a loro»), ma poi decise che sarebbe stato più interessante invitare anche rappresentanti di altre professioni. Prima ci sarebbe stata una cena con piatti a sorpresa, da Margaret.
   Fu così che in una fredda sera stellata, Nina si ritrovò davanti alla porta di servizio di Margaret, nell'atrio buio stipato di giacche, zaini e mazze da hockey dei figli di Margaret: al tempo infatti erano ancora tutti a casa. Nel soggiorno - dal quale nessun rumore riusciva più a filtrare - Kitty Shore procedeva con il suo argomento a scelta, vale a dire le vite dei santi. Kitty e Ed Shore appartenevano al gruppo della «gente vera» invitata al raduno; erano anche i vicini di Margaret. Ed aveva parlato un'altra sera, di alpinismo. Lo aveva praticato un poco, sulle Montagne Rocciose, ma per lo più riferì delle spedizioni tragiche e avventurose di cui amava leggere. (Quella sera, mentre andavano in cucina a prendere il caffè, Margaret aveva detto a Nina: «Avevo paura che ci parlasse di imbalsamazione», e Nina era scoppiata a ridere e aveva ribattuto: «Ma no, non è il suo argomento preferito. Non rientra nella categoria degli hobby. Non credo siano in tanti ad avere l'hobby dell'imbalsamazione»).
   Ed e Kitty erano una bella coppia. Margaret e Nina concordavano, in confidenza, sul fatto che Ed sarebbe stato molto attraente, se non fosse stato per il suo mestiere. Il lustro pallore delle sue lunghe mani sapienti era straordinario e suggeriva spontanea la domanda, Ma cos'avrà mai fatto con quelle mani? La formosa Kitty veniva sovente definita una delizia: era piccola e pettoruta, una brunetta dagli occhi caldi e la voce carica di entusiasmo. Era entusiasta del suo matrimonio, dei figli, delle stagioni, della città e, soprattutto, della sua religione. In seno alla Chiesa Anglicana, di cui era membro, gli entusiasti come lei costituivano una rarità, e girava voce che la si considerasse un tormento, per il suo rigore, certi fanatismi e la predilezione per cerimonie arcaiche come l'Ordinamento femminile. Anche Nina e Margaret la trovavano piuttosto pesante, mentre per Lewis era veleno puro. Ma quasi tutti gli altri ne erano innamorati.
   Quella sera indossava un abito di lana rosso cupo e gli orecchini che uno dei figli le aveva fatto e regalato per Natale. Sedeva in un angolo del divano con le gambe ripiegate sotto il corpo. Finché si limitò a trattare dell'incidenza storica e geografica dei santi andò tutto bene, o meglio, bene per Nina, la quale sperava che Lewis non avrebbe ritenuto necessario passare all'attacco.
   Kitty si disse costretta a escludere dal discorso tutti i santi dell'Europa orientale per concentrarsi essenzialmente su quelli delle isole britanniche, in particolare gli originari di Cornovaglia, Galles e Irlanda, santi celtici dai nomi meravigliosi, i suoi preferiti. Ma quando prese a elencare prodigi e miracoli, e soprattutto quando la sua voce si fece più estatica e fiduciosa e gli orecchini si misero a tintinnare, Nina venne colta da una certa apprensione. Sapeva che tanti potevano giudicarla superficiale, disse Kitty, per l'abitudine di rivolgere preghiere ai santi in casi come un fallimento ai fornelli, eppure lei era proprio convinta che i santi esistessero a quello scopo. Non erano troppo sublimi e potenti per interessarsi a simili tribolazioni, a quei dettagli dell'esistenza per i quali ci si vergognava di disturbare Iddio e l'Universo. Con l'aiuto dei santi si poteva indugiare un poco in un mondo bambino, nella puerile speranza di ottenere soccorso e consolazione. Dovete diventare come fanciulli. Del resto, erano i piccoli miracoli, certo, solo i piccoli miracoli, a prepararci per quelli grandi, giusto?
   Allora, c'erano domande?
   Qualcuno chiese quale fosse il prestigio accordato ai santi all'interno della Chiesa Anglicana. Della Chiesa Protestante in genere.
   - Be', a rigor di termini, io non ritengo che quella Anglicana sia da considerare una Chiesa Protestante, - rispose Kitty. - Ma non voglio approfondire questo argomento. Quando, recitando il Credo, diciamo «Credo nella Santa Chiesa Cattolica», secondo me intendiamo la grande, universale Chiesa Cristiana. Poi diciamo anche «Credo nella Comunione dei santi». Certo, non ci sono statue nelle chiese. Anche se personalmente sono del parere che ci starebbero benissimo.
   Margaret disse: - Caffè? - e tutti capirono che la parte formale della serata era conclusa. Ma Lewis avvicinò la sedia a Kitty e, in tono quasi gioviale, disse: - Dunque? Dobbiamo dedurne che lei crede a questi miracoli?
   Kitty scoppiò a ridere. - Assolutamente. Non potrei vivere se non credessi ai miracoli.
   A quel punto Nina sapeva che cosa sarebbe accaduto. La lenta e implacabile avanzata di Lewis, mentre Kitty lo contrastava con gioiosa determinazione e con quelle che lei avrebbe definito le sue incantevoli assurdità femminili. Ecco su cosa si fondava la sua sicurezza: sul fascino. Ma Lewis non era tipo da farsi incantare. Lui avrebbe voluto sapere. Che forma assumono questi santi al momento attuale? In paradiso, occupano lo stesso territorio dei morti qualsiasi, dei virtuosi antenati? E come vengono selezionati? Si concorre per titoli, in base ai miracoli certificati? E come si riesce a certificare un miracolo di qualcuno vissuto quindici secoli prima? Anzi, un miracolo in genere? Nel caso dei pani e dei pesci, ad esempio, si conta. Ma è poi contare sul serio, o solo far finta? Fede? Ah, certo. Dunque è tutta questione di fede. Nelle vicende quotidiane, nella vita insomma, Kitty viveva di fede?
   Esatto.
   Perciò non si affidava mai alla scienza. Certo che no. Quando i suoi figli si ammalavano, non li curava con le medicine. Non si preoccupava di fare il pieno dell'auto, perché aveva la fede...
   Intorno a loro sono ormai scaturite una dozzina di conversazioni eppure, a causa dell'intensità e del livello di rischio - la voce di Kitty ora si alza e si abbassa con il saltellio di un passerotto sopra un filo, mentre ripete «Ma non sia sciocco» oppure «Mi crede forse una pazza scriteriata», e il tono scherzoso di Lewis si carica di scherno, di serio disprezzo -, queste parole avranno la meglio su tutte le altre, in ogni istante e in ogni angolo della stanza.
   Nina ha la bocca amara. Va in cucina ad aiutare Margaret. Si sfiorano, mentre Margaret torna portando il caffè. Nina prosegue verso la cucina e raggiunge l'atrio di servizio. Dal riquadro di vetro nella porta, sbircia fuori nella notte senza luna, e osserva le sponde di neve lungo la strada, le stelle. Appoggia la guancia calda contro il vetro.
   Si tira su di scatto sentendo la porta della cucina aprirsi; si volta, sorride, ed è sul punto di dire: «Sono solo venuta a vedere che tempo faceva». Ma quando vede la faccia di Ed Shore stagliarsi nella luce, un attimo prima che richiuda la porta, si convince di non aver bisogno di pronunciare quelle parole. Si salutano scambiandosi una breve risata cordiale, che contiene un vago accenno di scuse e la volontà di dissociarsi; una risata in grado di comunicare con successo un mucchio di cose.
   Stanno disertando Kitty e Lewis. Appena per un momento: Kitty e Lewis non se ne accorgeranno. Lewis non si ridurrà a secco di carburante e Kitty troverà il modo - provare pena per Lewis potrebbe già essere uno - per scampare al pericolo di ritrovarsi sconfitta. Kitty e Lewis non si sentiranno nauseati di se stessi.    E’ questo che provano Ed e Nina? Nausea per gli altri due, o almeno per l'aggressività razionale e per la convinzione cieca? Sfinimento, per l'incapacità di cedere a quei caratteri battaglieri?
   Non si esprimerebbero esattamente così. Direbbero solo che sono stanchi.
   Ed Shore cinge Nina con un braccio. La bacia - non sulla bocca e nemmeno sul viso, ma sulla gola. Nel punto in cui potrebbe pulsare il suo battito accelerato, la gola.
   E’ un uomo che deve abbassarsi per farlo. Per molti altri, sarebbe il punto più naturale su cui appoggiare le labbra. Ma lui è così alto da doversi chinare, e la bacia perciò deliberatamente in quel punto tenero e nudo.
- Prenderai freddo qui fuori, - le dice.
- Lo so. Adesso rientro.
   A tutt'oggi Nina non ha mai fatto sesso con altri che Lewis. Non ci si è mai nemmeno avvicinata.    Fatto sesso. Fare sesso. Per molto tempo non è stata in grado di dirlo. Diceva fare l'amore. Lewis non diceva niente. Era un partner fantasioso e prestante e, sul piano fisico, piuttosto premuroso. Mai distratto. All'erta in compenso contro qualsiasi manifestazione che potesse sfociare nel sentimentalismo e, per come la vedeva lui, ce n'erano parecchie. Nina finì per diventare molto sensibile a quel suo disgusto, quasi a condividerlo.
   Il ricordo del bacio di Ed Shore sulla porta della cucina le divenne comunque prezioso. Quando, ogni anno a Natale, Ed cantava l'assolo da tenore nell'esecuzione della corale del Messia, le ritornava in mente quell'attimo. Il «Sii di conforto al mio popolo» le penetrava la gola come punte di stelle. Come se in quel momento ogni cosa di lei venisse riconosciuta e onorata e inondata di luce.
   Paul Gibbings non si era aspettato grane da Nina. L'aveva sempre giudicata una persona affettuosa, in quel suo modo schivo. Non caustica come Lewis. Ma intelligente. - No, - disse lei. - Lui non avrebbe voluto.
- Nina. Insegnare era la sua vita. Ci si è dedicato tanto.
C'è un mucchio di persone, non so se hai idea di quante siano, che si ricordano di quando ascoltavano incantate le sue lezioni. E’ probabile che di tutto il liceo non ricordino nessuno come Lewis. Aveva carisma, Nina. Uno o ce l'ha o non ce l'ha. E lui ne aveva a palate.
- Non lo metto in dubbio.
- Perciò adesso questa gente desidera dirgli addio. Abbiamo tutti bisogno di dirgli addio. E di rendergli onore. Sai cosa intendo? Dopo tutta la storia. Di chiudere.
- Sì, capisco. Di chiudere.
   Un tono un po' acido, pensò Paul Gibbings. Ma lo ignorò. - Non occorre metterci di mezzo la religione. Niente preghiere. Nessuna predica. So bene quanto te che le avrebbe detestate.
- Esatto.
- Lo so. Potrei fare io da cerimoniere, sempre che l'espressione non sia fuori luogo. Ho già idea di quali potrebbero essere le persone giuste a cui chiedere un breve ricordo. Magari una mezza dozzina, e io direi due parole in chiusura. Il termine esatto, credo sia «elogio», ma io preferisco ricordo.
- Lewis preferirebbe niente.
- E possiamo inserire la tua partecipazione quando e quanto desideri...
- Paul. Ascolta. Adesso ascolta me.
- Ma certo. Ti ascolto.
- Se decidi di farlo, io parteciperò.
- Bene. Benissimo.
- Alla sua morte, Lewis ha lasciato... si tratta di una poesia, in effetti. Se tu decidi di procedere, io la leggerò.
- Sì?
- Voglio dire che la leggerò ad alta voce davanti a tutti. Te ne faccio sentire un pezzetto subito.    -  D'accordo. Sentiamo.
   C'era un Santuario di conoscenza
   Che sulla riva del lago affacciava
   Dove campioni di ottusa ignoranza    Ascoltavan le prediche di chi li tediava...
- Decisamente Lewis, direi.    E il Numero Uno, il più gran Seccatore,    Era uno stronzo ognor sorridente...
- Nina. Okay. Okay. Ho capito. Allora è questo che vuoi? L'Associazione Genitori Insegnanti di Harper Valley?
- C'è dell'altro.
- Non ne dubito. Devi essere molto sconvolta, Nina. Non credo che ti comporteresti in questo modo, altrimenti. E quando ti sentirai meglio, ti dispiacerà.
- No.
- Io credo che ti dispiacerà. Adesso ti lascio, metto giù. Devo proprio salutarti.
- Accidenti, - disse Margaret. - Come l'ha presa?
- Ha detto che doveva proprio salutarmi.
- Vuoi che venga li? Potrei farti compagnia.    -  No. Grazie.
- Non vuoi compagnia?
- Direi di no. Non adesso.
- Sei sicura? Stai bene?
- Sono a posto.
   In realtà non era tanto soddisfatta delle proprie reazioni durante quella conversazione telefonica. Lewis le aveva detto: «Mi raccomando, stroncali se incominciano a rompere con l'idea di una qualsiasi stronzata funebre. Quel paraculo è capace di farlo». Perciò si era vista costretta a bloccare Paul in qualche modo, ma quello adottato le era parso volgarmente melodrammatico. L'indignazione era l'unica risorsa rimasta a Lewis, la ritorsione, suo appannaggio privato: lei non aveva saputo far altro che citare parole sue.
   Andava al di là delle sue forze, immaginare come sarebbe riuscita a vivere, solo con le sue vecchie, tranquille abitudini. Svogliata e muta, senza di lui.
   Più tardi quella sera, Ed bussò alla porta di servizio. Aveva in mano la cassetta con le ceneri e un mazzo di rose bianche.
   Le diede prima le ceneri.
- Oh, - disse lei. - Già fatto.
   Sentì un tepore attraverso il cartone pesante. Non le arrivò subito ma a poco a poco, come il calore del sangue attraverso la pelle.
   Dove doveva appoggiarle? Non sul tavolo di cucina accanto alla cena praticamente intatta. Uova strapazzate e salsa piccante, una combinazione che pregustava sempre quando Lewis per qualche ragione faceva tardi e si fermava a mangiare con altri insegnanti da Tim Horton o al pub. Ma oggi era risultata un'idea poco felice.
   Nemmeno sulla credenza però. Sarebbero sembrate una grossa scatola di roba da mangiare. E neanche per terra, dove sarebbe stato più facile non farci caso ma avrebbero dato l'impressione di essere relegate in un luogo umiliante, come se la cassetta contenesse, che so, sabbia per gatti o fertilizzante da giardino, qualcosa che non doveva stare nei pressi dei piatti e del cibo.
   In effetti avrebbe voluto portarle in un'altra stanza, deporre la cassetta da qualche parte in una delle camere buie sul lato anteriore della casa. O meglio ancora, su uno scaffale nella dispensa. Ma era troppo presto per bandirle così dalla vista. E poi, considerando che Ed Shore la stava osservando, poteva apparire come un gesto sbrigativo, un brutale far piazza pulita, un volgare invito.
   Alla fine appoggiò la cassetta sul tavolino basso del telefono. - Non volevo farti restare in piedi, - disse. - Accomodati, prego.
- Ho interrotto la tua cena.
- Non ne avevo più voglia.
   Aveva ancora i fiori in mano. Nina disse: - Sono per me? - L'immagine di lui con il mazzo di fiori, con le ceneri e il mazzo di fiori, nel vano della porta, ora che ci pensava, le apparve grottesca e orribilmente comica. Era il genere di visione su cui avrebbe potuto ridere in modo irrefrenabile, raccontandola a qualcuno. A Margaret per esempio. Si augurò di non farlo mai.
   Quelli sono per me?
   Potevano anche essere per il morto. Fiori per la casa del morto. Si mise a cercare un vaso, poi riempì il bollitore dicendo: - Stavo giusto per mettere su il tè, - tornò alla ricerca del vaso, lo trovò, lo riempì d'acqua, prese le forbici per spuntare gli steli e finalmente gli liberò le mani dai fiori. A quel punto si accorse che non aveva acceso il gas sotto l'acqua. Era fuori di sé. Le pareva che avrebbe potuto benissimo scaraventare a terra le rose, fracassare il vaso, ammucchiare tutto quanto nel piatto della cena. Ma perché? Non era in collera. Era solo talmente assurda la fatica di continuare a fare una cosa dopo l'altra. Ora avrebbe dovuto scaldare la teiera, dosare il tè.
   Disse: - Hai letto il foglio che hai trovato dentro la tasca di Lewis?
   Lui scosse il capo senza guardarla. Sapeva che stava mentendo. Mentiva, era scosso, e forse intendeva insinuarsi nella sua vita. E se lei avesse ceduto e gli avesse raccontato del proprio sbigottimento, anzi, perché non dirlo, del senso di freddo che le era calato nel cuore di fronte a quello che Lewis aveva scritto? Quando aveva capito che non aveva scritto altro.
- Non fa niente, - disse. - Erano solo versi.
   Erano una coppia di persone senza terra di mezzo, senza niente che separasse i convenevoli beneducati da un'intimità travolgente. Quello che c'era stato tra loro, in tutti quegli anni, si era mantenuto in equilibrio grazie ai rispettivi matrimoni. Erano i matrimoni l'autentico contenuto delle loro esistenze: il suo con Lewis era il contenuto della sua vita, ineluttabile, duro talvolta, e talvolta addirittura sbalorditivo. Quest'altra cosa dipendeva dai matrimoni, ne ricavava dolcezza, la promessa di un conforto. Era improbabile che si trattasse di qualcosa di autonomo, anche se entrambi fossero stati liberi. Eppure non era nemmeno insignificante. Il pericolo era metterla alla prova, vederla andare in pezzi e pensare che non fosse stata un bel niente.    Nina accese il gas, aveva la teiera pronta da riscaldare.
Disse: - Tu sei stato così gentile e io non ti ho nemmeno ringraziato. Devi bere una tazza di tè.
- Volentieri, - rispose lui.
   E quando si furono seduti al tavolo, dopo che il tè fu versato e latte e zucchero offerti - in quell'attimo che avrebbe potuto riempirsi di angoscia -, Nina ebbe un'ispirazione molto bizzarra.    Disse: - In che cosa consiste davvero il tuo lavoro?
- In che senso?
- Voglio dire: cosa gli hai fatto ieri sera? Magari non te lo domandano mai.
- Non così esplicitamente.
- Ti dà fastidio? In tal caso, non devi rispondermi.
- Non mi dà fastidio. Sono solo sorpreso.
- Anch'io sono sorpresa di avertelo chiesto.
- Be', vediamo, - disse lui, riappoggiando la tazza sul piattino. - Fondamentalmente quello che si deve fare è drenare i vasi sanguigni e la cavità addominale: qualche problema può nascere da eventuali coaguli e simili, perciò si prendono delle precauzioni per evitare che succeda. Nella maggior parte dei casi si utilizza la giugulare, ma capita anche di dover lavorare sul cuore. Per la cavità addominale invece si adopera uno strumento chiamato trequarti; è una specie di ago lungo e sottile attaccato a un tubo flessibile. Naturalmente è diverso se c'è stata un'autopsia e gli organi sono stati estratti. Allora occorre inserire dei tamponi di ovatta per restituire al corpo la forma naturale...
   Mentre le diceva tutto questo non la perse mai d'occhio, e procedette con cautela. Nessun problema: quel che Nina sentiva dentro era solo un'impassibile e vasta curiosità.
- Era questo il genere di cose che volevi sapere?
- Sì, - rispose lei decisa.
   Lui capì che era tutto a posto. Ne fu sollevato. E forse riconoscente. Doveva essere abituato a gente che evitava del tutto di parlare del suo mestiere, oppure che ci scherzava sopra.
- E poi si inietta il liquido, che è una soluzione di formaldeide, fenolo e alcol, e spesso si aggiunge un po' di colorante per le mani e il viso. La faccia è considerata importante e richiede un mucchio di lavoro sulle fosse oculari e sulle gengive. Poi si deve massaggiare la pelle e ritoccare le ciglia con cosmetici particolari. Ma la gente è capace di concentrarsi anche solo sulle mani e di pretenderle soffici e naturali, senza grinze sui polpastrelli.
- Hai fatto tutto questo lavoro...
- Non fa niente. Non era quello che volevi. Noi ci occupiamo per lo più di cosmesi. Al giorno d'oggi è questo che ci interessa, più che la preservazione sui tempi lunghi. Anche col vecchio Lenin, sai, dovevano continuare a iniettargli liquido in modo che non si disidratasse e non scolorisse; non so se lo fanno ancora.
   La digressione, o la disinvoltura, combinata con la serietà del tono della sua voce, le fecero tornare in mente Lewis. Ricordò il Lewis di due sere prima che, indebolito ma soddisfatto, le parlava di quelle creature monocellulari - senza nucleo, senza coppie cromosomiche, senza che altro? - che erano state l'unica forma di vita sulla terra per quasi due terzi della storia del pianeta.
- Prendiamo il caso degli antichi egizi, - disse Ed. - Loro erano convinti che l'anima facesse un viaggio della durata complessiva di tremila anni e poi ritornasse al corpo. Il quale perciò doveva cercare di mantenersi in discreta forma. Quindi a loro stava soprattutto a cuore la preservazione, mentre noi oggi ce ne interessiamo molto, molto di meno.
   ... senza cloroplasti e senza... mitocondri.
- Tremila anni, - disse. - E poi fa ritorno al corpo.
- Be', secondo loro, - disse lui. Appoggiò la tazzina vuota e aggiunse che era meglio se andava a casa.
- Grazie, - disse Nina. Poi, frettolosamente: - Tu credi che esistano le anime?
   Lui si alzò, con le mani appoggiate sul tavolo di cucina. Sospirò, scosse la testa e disse: - Sì.
   Poco dopo che se ne fu andato, Nina prese le ceneri e le sistemò in macchina sul sedile del passeggero. Poi rientrò in casa e tornò con le chiavi e la giacca. Guidò per un paio di chilometri fuori città, fino a un incrocio, poi parcheggiò e si incamminò per un viottolo, con la cassetta in mano. L'aria della notte era fredda e senza vento; la luna già alta.
   All'inizio la strada tagliava per un terreno paludoso dove crescevano delle stiance; attualmente erano secche, alte, invernali. C'erano anche delle asclepiadi dai baccelli vuoti e lustri come conchiglie. Ogni cosa era nitida sotto la luna. Sentiva odore di cavalli. Sì, ce n'erano due nelle vicinanze, massicce sagome nere oltre le stiance e la palizzata. Sfregavano i grandi corpi l'uno contro l'altro, osservandola.
   Aprì la cassetta e infilò la mano nelle ceneri fresche prima di rovesciarle a terra - insieme a brandelli minuscoli e resistenti di materia - tra le piante cresciute lungo la strada. Compiere quel gesto era come mettere le gambe in acqua e infine tuffarsi nel lago per la prima gelida nuotata di giugno. Da principio, un brivido nauseante, poi lo stupore di riuscire comunque a muoversi, sollevata da una corrente di ferrea devozione, calma sullo specchio d'acqua della vita, sebbene il dolore del freddo continuasse a entrarle a ondate nel corpo.