giovedì 2 gennaio 2020


INFELICITÀ
L' infelicità nel mondo si presenta come una realtà dolorosa inevitabile, e non sappiamo dare spiegazioni che ci soddisfino. Simone Weil ci dice che è nell'anima umana che si trova la risorsa e la risposta alla drammatica sfida del male e della sofferenza, portando quindi in primo piano la questione della responsabilità personale dinanzi all'infelicità. «Il bene infatti non ci viene dal di fuori: penetra in noi soltanto quel bene a cui acconsentiamo» (Weil, L'amore di Dio, p. 215). Non ripiegarci su noi stessi, non permettere al male di sottometterci,  per lasciarci trasformare dall'amore, per rimanere aperti alle sfide del nuovo che nasce continuamente dall'incontro con l'altro, dipende da noi.
Paolo Bolzani 

L’AMORE DI DIO E L’INFELICITÀ
Simone Weil

Nel campo della sofferenza l’infelicità è un dolore a parte, specifico, irriducibile. È una cosa ben diversa dalla semplice sofferenza. S’impadronisce dell’anima e la segna, fino in fondo, con un segno suo proprio, il segno della schiavitù. La schiavitù, così come era nell’antica Roma, è soltanto la forma estrema dell’infelicità. Gli antichi, che conoscevano bene la questione, dicevano che un uomo perde la metà della propria anima il giorno in cui diventa schiavo.
L’infelicità è inseparabile dalla sofferenza fisica, tuttavia ne è completamente distinta. Nella sofferenza tutto ciò che non è legato al dolore fisico è artificiale, immaginario e forse eliminabile coi una conveniente disposizione del pensiero. Anche l’assenza o la morte di un essere amato ci procura un dolore la cui parte irriducibile è qualcosa di simile a un dolore fisico: una difficoltà a respirare, una morsa stretta intorno al cuore, un bisogno insoddisfatto, una fame, un disordine quasi biologico determinato dalla brutale liberazione d’una energia fino in quel momento orientata su quella persona ed ora priva di direzione. Un dolore che non sia raccolto intorno a questo nocciolo irriducibile è puro e semplice romanticismo, è letteratura. Anche l’umiliazione è uno stato violento a cui è sottoposto tutto il nostro essere fisico, il quale vorrebbe scatenarsi a causa dell’oltraggio, mentre è costretto a dominarsi, bloccato dall’impotenza o dalla paura.
Viceversa un dolore esclusivamente fisico è ben poca cosa e non lascia tracce nell’anima. Il mal di denti costituisce un esempio: alcune ore di dolore violento causato da un dente guasto, una volta passate, non sono più nulla.
Diversa invece è una sofferenza fisica lunga o molto frequente. Ma spesso una tale sofferenza non è una sofferenza pura e semplice: è un’infelicità.
L’infelicità è uno sradicamento dalla vita, un equivalente più o meno attenuato della morte, sradicamento che è reso irresistibilmente presente nell’anima dal fatto che essa è colpita direttamente dal dolore fisico. Se il dolore fisico è del tutto assente, non c’è infelicità per l’anima, perché il, pensiero si sposta verso altri oggetti. Il pensiero rifugge dall’infelicità così prontamente, così irresistibilmente quanto un animale fugge la morte. Su questa terra solo il dolore fisico è in grado di incatenare il pensiero, a patto che si assimilino al dolore fisico certi fenomeni difficili da descrivere, comunque corporei e che gli sono rigorosamente equivalenti. La percezione del dolore fisico è di questa specie.
Quando il pensiero è costretto dal dolore fisico, anche leggero, a riconoscere la presenza dell’infelicità, si verifica in noi uno stato violento, simile a quello di un condannato a morte costretto a guardare per alcune ore la ghigliottina con cui gli taglieranno il collo. Ci sono esseri umani che vivono vent’anni o cinquanta in questo stato di violenza. Passiamo accanto a loro senza accorgerci di nulla. Ma quale uomo è capace di capirli, se non è Cristo a guardare con i suoi occhi? Vediamo soltanto che a volte essi hanno un comportamento strano, e biasimiamo tale comportamento.
C’è veramente infelicità solo se l’avvenimento che ha colpito una vita e l’ha sradicata, l’ha toccata direttamente o indirettamente in tutti i suoi aspetti: sociale, psicologico, fisico. Il fattore sociale è essenziale. Non c’è vera infelicità se non quando essa comporta in qualche modo una caduta sociale o la percezione di questa caduta.
Fra l’infelicità e le preoccupazioni che, anche se sono molto violente, molto profonde e durano a lungo, sono molto diverse dall’infelicità vera e propria, vi è nello stesso tempo continuità e separazione da un certo punto, come nella temperatura d’ebollizione dell’acqua. C’è un limite al di là del quale e non al di qua, inizia il regno dell’infelicità. Questo limite non è puramente oggettivo: una varietà infinita di fattori personali entrano in gioco. Uno stesso avvenimento può precipitare un determinato essere umano nell’infelicità e non causare nulla di simile in altri.
Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, ma l’infelicità. Non stupisce che degli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal loro paese, ridotti in miseria o in schiavitù, rinchiusi in campi o in prigioni, poiché esistono criminali capaci di compiere queste cose. Non stupisce nemmeno che la malattia costringa a lunghe sofferenze che paralizzano la vita e fanno di essa un’immagine della morte, poiché la natura è sottomessa a un gioco cieco di necessità meccaniche. Ciò che stupisce è il fatto che Dio abbia permesso all’infelicità di afferrare l’anima degli innocenti e di impadronirsene totalmente. Nel migliore dei casi, colui che è colpito dall’infelicità non conserverà che la metà della sua anima.
Coloro che sono stati colpiti da uno di quegli avvenimenti dopo i quali un uomo si dibatte sulla terra come un verme tagliato a metà, non hanno parole per esprimere ciò che succede loro. Fra le persone che li incontrano, coloro che, pur avendo molto sofferto, non hanno mai avuto un contatto con la vera infelicità, non hanno alcuna idea del loro stato d’animo. Si tratta di qualcosa di specifico, di irriducibile ad ogni altra cosa, come l’idea del suono per un sordomuto. E coloro che sono stati mutilati dall’infelicità non possono portare soccorso a nessuno e sono quasi incapaci di desiderarlo. Quindi la compassione verso gli infelici è un sentimento impossibile. Quando essa si rivela, si tratta di un miracolo più sorprendente del camminare sull’acqua, della guarigione dei malati e della stessa risurrezione dei morti.
L’infelicità ha indotto Cristo a supplicare d’essere risparmiato, a cercare delle consolazioni presso gli uomini, a credersi abbandonato dal Padre suo. Ha costretto un giusto a gridare contro Dio, il giusto più perfetto che la natura umana possa produrre, forse ancora più perfetto, sempre che Giobbe sia un personaggio storico e non un semplice simbolo di Cristo. «Egli ride dell’infelicità degli innocenti». Non è una bestemmia, è un grido autentico strappato al dolore. Per quanto riguarda l’infelicità, tutto ciò che si allontana da questo modello è più o meno falso.
L’infelicità rende Dio assente agli occhi degli uomini per un certo tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una prigione oscura. Una specie di orrore sommerge tutta l’anima. Durante questa assenza non trova nulla che possa amare. E se in queste tenebre, in cui non vi è nulla da amare, l’anima smette di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva: è terribile solo a pensarci.
È necessario che l’anima continui ad amare a vuoto, o per lo meno a voler amare, anche soltanto con una parte infinitamente piccola di se stessa. Allora un giorno Dio stesso viene a rivelarsi a lei e a mostrarle la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare precipita già qui sulla terra in uno stato quasi equivalente all’inferno.
Ecco perché coloro che gettano nell’infelicità gli uomini che non sono preparati a riceverla, uccidono letteralmente delle anime. D’altra parte, in un’epoca come la nostra, in cui l’infelicità è sospesa su tutti, un vero aiuto alle anime è efficace soltanto se le prepara realmente a sopportare l’infelicità. Il che non è certo poco.
L’infelicità indurisce l’uomo e lo rende disperato poiché, come un ferro rovente, imprime fino in fondo alla sua anima una sensazione di disprezzo, di disgusto e di schifo di se stesso, di colpevolezza, di macchia morale, che solo il crimine dovrebbe logicamente produrre, ma che non produce. Infatti il male è presente nell’anima del criminale, ma egli non è consapevole della sua presenza. Tale presenza invece è avvertita dall’innocente infelice. È come se lo stato d’animo, che dovrebbe essere tipico del criminale, fosse stato separato dal crimine e unito invece all’infelicità, e facesse soffrire l’innocente in proporzione alla sua innocenza.
Se Giobbe grida la sua innocenza con accenti disperati, ciò è dovuto al fatto che nemmeno lui riesce a credervi, che la sua anima accetta il giudizio dei suoi amici. Implora la testimonianza di Dio stesso poiché non sente più la testimonianza della propria coscienza: per lui essa è soltanto più un ricordo astratto e morto.
La natura carnale dell’uomo è comune a quella dell’animale; le galline si precipitano a colpi di becco sulla gallina ferita: è un fenomeno meccanico come la gravità. Tutto il disprezzo, tutta la repulsione, tutto l’odio che la nostra ragione sente per il crimine, la nostra sensibilità lo sente per l’infelicità. Eccetto coloro nella cui anima Cristo trionfa completamente, tutti gli uomini disprezzano più o meno gli infelici, benché quasi nessuno abbia coscienza di questo disprezzo.
Questa legge della nostra sensibilità vale anche nei confronti di noi stessi. Il disprezzo, lo schifo, l’odio di fronte all’infelicità, si ritorcono contro lo stesso infelice, penetrano nel cuore della sua anima, e da quel punto si diffondono fino a colorare con la loro tinta avvelenata tutto l’universo. L’amore soprannaturale, allorché riesce a sopravvivere, può impedire questo secondo effetto, ma non il primo. Il primo è l’essenza stessa dell’infelicità: non esiste infelicità dove non si rivela.
«Egli è stato fatto maledizione per noi». Non è solamente il corpo di Cristo sospeso alla croce che è stato fatto maledizione, ma tutta la sua anima. Allo stesso modo qualsiasi innocente, prigioniero dell’infelicità, si sente maledetto. Succede la stessa cosa a coloro che sono caduti nell’infelicità e poi ne sono usciti per un mutamento di sorte, ma sono stati colpiti profondamente da essa.
Un’altra conseguenza dell’infelicità è quella di rendere a poco a poco l’anima sua complice, iniettandovi un veleno di inerzia: chiunque sia stato infelice a lungo, è complice della sua infelicità. Tale complicità rende vano ogni sforzo che l’infelice potrebbe fare per migliorare la sua sorte, ostacola la ricerca dei mezzi idonei a liberarsi dell’infelicità, giunge addirittura a uccidere in lui il desiderio di liberarsene. L’infelice allora resta imprigionato nell’infelicità, tanto che gli altri possono pensare che sia soddisfatto della sua situazione. Questa complicità può addirittura spingerlo, malgrado la sua volontà, a sfuggire i mezzi per liberarsene: essa si nasconde allora sotto pretesti talvolta ridicoli. Anche in colui che non è più attualmente infelice, ma che è stato per sempre ferito dall’infelicità fino in fondo all’anima, vi è un sentimento oscuro che lo risospinge verso l’infelicità, come se questa si fosse installata in lui alla maniera di un parassita e lo guidasse verso i suoi fini. A volte un tale impulso lo trattiene da ogni tentativo di essere felice.

Se l’infelicità è terminata grazie all’intervento di qualcuno, può provocare una forma di odio nei confronti del benefattore: questa è l’origine di certi atti di ingratitudine selvaggia che sono apparentemente inspiegabili. Qualche volta è facile liberare un infelice dall’infelicità attuale, ma è difficile liberarlo dalla sua infelicità passata. Dio solo può farlo. La stessa grazia di Dio non guarisce su questa terra la natura irrimediabilmente ferita: il corpo glorioso di Cristo portava ancora i segni delle ferite.
Non si può accettare l’esistenza dell’infelicità se non vedendola come una distanza.
Dio ha creato grazie ad un atto d’amore e per amore. Dio non ha creato altro che l’amore stesso e i mezzi dell’amore. Ha creato tutte le forme dell’amore. Ha creato degli esseri capaci di amare a tutte le distanze possibili. Egli stesso è andato, dato che nessun altro avrebbe potuto farlo, alla distanza massima, la distanza infinita. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, strappo supremo, dolore a cui nessun altro è paragonabile, meraviglia dell’amore, è la crocifissione. Nulla può essere più lontano da Dio di ciò che è stato fatto maledizione.
Questo strappo, sopra il quale l’amore supremo pone il legame dell’unione suprema, risuona perpetuamente attraverso l’universo, al fondo del silenzio, come due note separate e fuse insieme, come un’armonia pura e sconvolgente. Un’armonia simile è la parola di Dio, e la creazione intera non ne è che una vibrazione. Quando la musica umana, nei momenti di più intensa purezza, ci attraversa l’anima, è quell’armonia che avvertiamo. Quando noi abbiamo imparato ad ascoltare il silenzio, è quell’armonia che cogliamo più distintamente attraverso di esso.
Coloro che perseverano nell’amore avvertono quell’armonia anche nella caduta in cui li ha precipitati l’infelicità. A partire da quel momento essi non possono più avere alcun dubbio.
Gli uomini colpiti dall’infelicità stanno ai piedi della croce, lontano, quanto più è possibile, da Dio. Non bisogna credere che il peccato rappresenti una distanza maggiore fra l’uomo e Dio. Il peccato non è una distanza. È un orientamento sbagliato dello sguardo.
C’è, è vero, un legame misterioso fra questa distanza e una disobbedienza originale. Infatti fin dall’origine, così ci è stato detto, l’umanità ha distolto lo sguardo da Dio e ha camminato nella direzione sbagliata, andando il più lontano possibile. Significa che allora poteva camminare. Noi invece siamo inchiodati al nostro posto, liberi soltanto dei nostri sguardi, sottomessi alla necessità. Un meccanismo cieco che non tiene affatto conto del grado di perfezione spirituale, sballotta continuamente gli uomini e ne getta qualcuno ai piedi della croce. Dipende dagli uomini, e solo da loro, tenere o no gli occhi rivolti a Dio attraverso le scosse: è proprio la sua provvidenza che ha voluto la necessità come meccanismo cieco.
Se il meccanismo non fosse cieco, non ci sarebbe infelicità. L’infelicità è prima di tutto anonima, priva le sue vittime della loro personalità e le trasforma in cose. È indifferente, ed è il freddo di questa indifferenza, un freddo metallico, che gela fino in fondo l’anima di coloro che tocca. Essi non ritroveranno mai più il calore, non crederanno mai più di essere qualcuno.
L’infelicità non avrebbe questo potere se non si mescolasse in parte al caso. Coloro che sono perseguitati a causa della loro fede, e lo sanno, non sono infelici, qualsiasi cosa debbano soffrire. Cadono nell’infelicità solo se la sofferenza o la paura invadono la loro anima al punto da far dimenticare la causa della persecuzione. I martiri che, abbandonati alle belve, entravano nelle arene cantando, non erano infelici. Cristo era un infelice. Egli non è morto come un martire. È morto come un criminale di diritto comune, in mezzo ai ladroni, solo un po’ più ridicolo di quelli. L’infelicità infatti è ridicola.
Soltanto la necessità cieca può gettare gli uomini all’estrema distanza possibile da Dio, accanto alla croce. I crimini umani, che sono la causa della maggior parte dell’infelicità, fanno parte della necessità cieca, poiché i criminali non sanno quel che fanno.
Ci sono due forme di amicizia: l’incontro e la separazione. Sono indissolubili. Racchiudono ambedue il medesimo bene, l’unico bene: l’amicizia. Infatti, quando due esseri che non sono amici sono vicini, non c’è incontro; quando sono lontani non c’è separazione. Racchiudendo il medesimo bene, le due forme di amicizia sono ugualmente buone.
Dio crea se stesso e si conosce perfettamente allo stesso modo in cui noi costruiamo e conosciamo miserevolmente degli oggetti fuori di noi. Ma prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama se, stesso. Quest’amore, questa amicizia in Dio è la Trinità. Tra i termini uniti da questa relazione di amore divino, c’è qualcosa di più che una vicinanza: c’è vicinanza infinita, identità. Ma a causa della creazione, dell’incarnazione e della passione, c’è anche una distanza infinita. La totalità dello spazio, la totalità del tempo interpongono il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio.
Gli amanti e gli amici desiderano due cose: di amarsi al punto di entrare l’uno nell’altro e diventare un solo essere e di amarsi al punto che la loro unione non ne soffra quand’anche fossero divisi dalla metà del globo terrestre. Tutto ciò che l’uomo desidera invano quaggiù, è perfetto e reale in Dio. Tutti i nostri desideri impossibili sono il segno del nostro destino e diventano buoni per noi proprio nel momento in cui non speriamo più di realizzarli.
L’amore fra Dio e Dio, che è esso stesso Dio, è questo legame che possiede una virtù duplice; questo legame che unisce due esseri al punto che essi non sono più separabili e sono realmente un essere solo; questo legame che annulla la distanza e trionfa della separazione infinita. L’unità di Dio, in cui sparisce ogni pluralità, e l’abbandono in cui crede di trovarsi Cristo pur non cessando di amare perfettamente il Padre, sono due forme divine dello stesso Amore, che è Dio stesso.
Dio è essenzialmente amore al punto che l’unità, la quale è in un certo senso la sua stessa definizione, è un semplice effetto dell’amore. All’infinito potere unificatore dell’amore corrisponde l’infinita separazione di cui esso trionfa. Questa separazione è la creazione, che si spiega nella totalità dello spazio e del tempo, fatta di materia meccanicamente brutale, posta fra Cristo e il Padre.
A noi uomini la nostra miseria offre il privilegio infinitamente prezioso di essere partecipi di questa distanza tra il Padre e il Figlio. Ma questa distanza è una separazione solo per coloro che amano. Per coloro che amano, la separazione, per quanto dolorosa, è un bene, perché è amore. L’angoscia stessa del Cristo abbandonato è un bene. Non può esserci per noi quaggiù bene più grande del fatto di essere partecipi di questa distanza. Su questa terra Dio non può essere perfettamente presente a noi, a causa della carne. Ma può diventare quasi perfettamente assente nell’infelicità estrema.
Questa è per noi, sulla terra, l’unica possibilità di perfezione. Ecco perché la croce è la nostra unica speranza: «Nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme».
L’universo in cui viviamo, di cui siamo una particella, è la distanza posta dall’amore divino tra Dio e Dio. Noi siamo un punto in questa distanza. Lo spazio, il tempo e il meccanismo che governa la materia sono questa distanza. Tutto ciò a cui diamo il nome di male rientra in questo meccanismo. Dio ha voluto che la sua grazia, allorché penetra nel cuore dell’uomo ed illumina tutto il suo essere, gli permetta, senza violare le leggi di natura, di camminare sulle acque. Ma, nel momento stesso in cui un uomo si allontana da Dio, cade in potere della pesantezza. Egli è convinto di volere e di scegliere, ma in realtà è solo più una cosa, una pietra che cade. Se guardiamo da vicino, con uno sguardo veramente attento, le anime e le società umane, vediamo che dovunque la forza della luce soprannaturale è assente, tutto obbedisce a leggi meccaniche così cieche e così precise quanto quelle della caduta dei corpi. Sapere questo è utile e necessario. Coloro che noi chiamiamo criminali non sono altro che tegole che sono state staccate dal vento e cadono a caso. La loro sola colpa è la scelta iniziale che ha fatto di loro delle tegole.
Il meccanismo della necessità si attua a tutti i livelli, restando simile a se stesso nella materia bruta, nelle piante, negli animali, nei popoli, nelle anime. Visto dal nostro punto di vista, secondo la nostra prospettiva, è completamente cieco.
Ma, se trasferiamo il nostro cuore fuori di noi stessi, fuori dell’universo, fuori dello spazio e del tempo, là dove c’è il nostro Padre, e se di là osserviamo questo meccanismo, ci apparirà ben diverso. Ciò che sembrava necessità diventa obbedienza. La materia è completa passività, quindi completa ubbidienza alla volontà di Dio. Essa è per noi un modello perfetto.
Non può esistere altro essere all’infuori di Dio e di ciò che obbedisce a Dio. Per la sua obbedienza perfetta la materia merita di essere amata da coloro che amano il suo Padrone, come un amante guarda con tenerezza la spilla che è stata adoperata dalla donna amata che è morta.
Noi avvertiamo questa profonda verità grazie alla bellezza del mondo. Nella bellezza del mondo la necessita bruta diventa oggetto d’amore. Nulla è bello quanto la forza di gravità fra le pieghe fuggitive delle ondulazioni del mare o fra le pieghe quasi eterne dei monti.
Il mare non diventa di certo meno bello ai nostri occhi al pensiero che a volte delle navi colano a picco. Anzi, diventa ancora più bello. Se il mare modificasse il movimento delle sue onde per risparmiare una nave, sarebbe una creatura dotata di discernimento e di scelta e non un fluido perfettamente ubbidiente a tutte le pressioni esteriori. E in questa perfetta obbedienza che consiste la sua bellezza.
Tutti gli orrori di questo mondo sono simili alle pieghe impresse alle onde del mare dalla forza di gravità. Per questo motivo essi racchiudono in sé una certa bellezza. Talvolta un poema, come l’Iliade, rende questa bellezza sensibile.
L’uomo non può svincolarsi dall’obbedienza a Dio. Una creatura non può fare a meno di ubbidire. La sola scelta offerta all’uomo come creatura intelligente e libera di desiderare o di non desiderare l’obbedienza. Se non la desidera, è costretto ad obbedire egualmente, perpetuamente, in quanto creatura sottomessa alla necessità meccanica. Se la desidera, resta, è vero, sottomesso alla necessità meccanica; ma ad essa si sovrapporrà una nuova necessità; una necessità costituita dalle leggi proprie alle cose soprannaturali. Di conseguenza, certe azioni gli diventeranno impossibili, altre si realizzeranno attraverso di lui e talvolta quasi malgrado lui stesso.
Allorché la nostra coscienza ci avverte che in una determinata circostanza abbiamo disobbedito a Dio, vuol dire semplicemente che per un determinato periodo di tempo abbiamo smesso di desiderare l’obbedienza. Naturalmente le azioni di chi ubbidisce volontariamente a Dio sono diverse da quelle di colui che non desidera obbedire; allo stesso modo una pianta cresce in maniera diversa secondo che si trovi esposta alla luce o nelle tenebre. La pianta non esercita alcun controllo né fa alcuna scelta per quanto riguarda la sua crescita. Noi siamo simili a delle piante che abbiano la sola possibilità di esporsi o di non esporsi alla luce.
Cristo ci ha proposto come modello la docilità della materia, consigliando di osservare i gigli dei campi che non lavorano né tessono. Cioè essi non si sono proposti di rivestirsi di questo o di quel colore, non hanno fatto qualcosa per ottenerlo: semplicemente, hanno accolto tutto ciò che la necessità naturale offriva loro. Se ci sembrano infinitamente più belli dei tessuti più ricchi, ciò è dovuto non al fatto che siano più ricchi, ma alla loro docilità. Il tessuto è altrettanto docile, ma docile all’uomo, non a Dio. La materia è bella non quando è docile all’uomo, ma quando lo è a Dio. Se talvolta in un’opera d’arte essa sembra bella quasi quanto lo è nel mare, nelle montagne o nei fiori, lo deve al fatto che la luce di Dio ha colmato l’artista.
Per trovare belle le cose costruite da uomini non illuminati da Dio bisogna aver compreso con tutta l’anima che anche quegli uomini sono soltanto materia che obbedisce inconsciamente. Per chi abbia capito questo, allora tutto sulla terra, assolutamente tutto, diventa bello. In tutto ciò che esiste, in tutto ciò che avviene egli scopre il meccanismo della necessità e nella necessità assapora la dolcezza infinita dell’obbedienza. Questa obbedienza delle cose nei confronti di Dio è simboleggiata per noi uomini nella trasparenza di un vetro esposto alla luce. Dal momento in cui sentiamo questa ubbidienza di tutto il nostro essere, vediamo Dio.
Quando teniamo un giornale al contrario, vediamo le strane forme dei caratteri di stampa. Quando lo raddrizziamo, non vediamo più dei caratteri, leggiamo delle parole.
Il passeggero di una nave sballottata dalla tempesta, avverte in ogni scossa della nave lo sconvolgimento del suo stomaco. Il capitano vi coglie soltanto la complessa combinazione dell’azione del vento, della corrente, dell’ondata con la posizione della nave, la sua forma, la sua velatura, i suoi strumenti di guida.
Come impariamo a leggere o impariamo un mestiere, così possiamo imparare ad avvertire in ogni cosa, prima di tutto e quasi unicamente, l’obbedienza dell’universo a Dio. Si tratta di un vero e proprio apprendistato. Come ogni tirocinio, richiede sforzi e tempo. Chi vi riesce non avverte più alcuna differenza fra le cose e gli avvenimenti, così come colui che sa leggere non la coglie, anche se una stessa frase viene scritta più volte con inchiostri di colore differente, oppure viene stampata in caratteri diversi. Colui che non sa leggere, coglie invece solo delle differenze. Per chi sa leggere tutto ciò è equivalente, perché la frase è la stessa. Per colui che è giunto alla fine del tirocinio, le cose e gli avvenimenti sono dappertutto e sempre le vibrazioni della stessa parola divina infinitamente dolce. Ciò non vuoi dire che egli non soffra. Il dolore è ciò che dà un determinato colore agli avvenimenti. Di fronte ad una frase scritta con l’inchiostro rosso, sia colui che sa leggere sia l’analfabeta vedono il rosso, ma la colorazione in rosso non ha la stessa importanza per l’uno e per l’altro.
Quando un apprendista si ferisce o si lamenta per la fatica, gli operai, i compaesani, hanno un bellissimo e significativo modo di dire: «È il mestiere che gli entra nel corpo». Ogni volta che poi subiamo un dolore, possiamo dire in verità che è l’universo, l’ordine del mondo, la bellezza del mondo, l’obbedienza della creazione a Dio a entrarci nel corpo. E allora come non benedire con la più tenera riconoscenza l’Amore che ci invia questo dono?
La gioia e il dolore sono doni ugualmente preziosi, che bisogna assaporare interamente, ciascuno nella sua purezza, senza cercare di confonderli. Con la gioia, la bellezza del mondo penetra nella nostra anima; col dolore ci entra in corpo. Con la sola gioia non potremmo mai diventare amici di Dio, così come non si diventa capitani studiando soltanto dei manuali di navigazione. Il corpo deve avere la sua parte in ogni tirocinio. Al livello della sensibilità fisica, solo il dolore ci mette in contatto con la necessità che costituisce l’ordine del mondo, poiché il piacere non riesce a trasmetterci l’impressione della necessità. Solo la parte più elevata della sensibilità umana è in grado di avvertire la necessità nella gioia, grazie unicamente al sentimento dei bello. Affinché il nostro essere possa un giorno diventare completamente sensibile a questa obbedienza che è la sostanza stessa della materia, affinché si formi in noi questo senso nuovo che permette dl intendere l’universo come vibrazione della parola di Dio, è indispensabile la funzione mediatrice e trasformatrice sia del dolore che della gioia. Bisogna aprire il centro stesso dell’anima sia all’uno che all’altra, allorché si presentano, come si apre la porta ai messaggeri dell’essere amato. Che importa ad un’amante che il messaggero sia educato o brutale, se porta un messaggio?
Ma l’infelicità non è il dolore. Essa è ben altro che uno strumento pedagogico di Dio.
L’infinità dello spazio e del tempo ci separa da Dio. Come lo potremmo cercare allora? Come potremmo andare a lui? Quand’anche camminassimo lungo tutti i secoli, non faremmo altro che girare intorno alla terra. Anche con un aereo, non potremmo fare diversamente: a noi non è concesso di avanzare in verticale, noi non possiamo fare un solo passo verso il cielo. È Dio che attraversa l’universo e viene fino a noi.
Al di sopra dell’infinità dello spazio e del tempo, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene alla sua ora. Noi possiamo semplicemente acconsentire ad accoglierlo o rifiutarlo. Se restiamo sordi, egli ritorna continuamente come un mendicante, ma un giorno, proprio come un mendicante, non ritorna più. Se acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento Dio non ha più niente da fare e nemmeno noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso accordato, del sì nuziale. Ciò non è facile come sembra, poiché la crescita del seme in noi è dolorosa. Inoltre, per il solo fatto che accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che la metterebbe in difficoltà, cioè di strappare le cattive erbe, la gramigna; purtroppo la gramigna fa parte della nostra stessa carne; quindi queste cure da giardiniere sono un’operazione violenta. Tuttavia il seme, nonostante queste cure, cresce da solo. Viene il giorno in cui l’anima appartiene a Dio; quel giorno l’anima non solo acconsente all’amore, ma amerà veramente, effettivamente.
Allora lei dovrà a sua volta attraversare l’universo per andare a Dio. L’anima non ama Dio come una creatura, con un amore creato. In lei quest’amore è divino, increato, poiché è l’amore di Dio per Dio che passa attraverso di lei. Dio solo è capace di amare Dio. Noi possiamo solo acconsentire a perdere i nostri sentimenti personali per lasciare nella nostra anima il passaggio libero a questo amore. Questo significa rinnegare noi stessi. Non siamo stati creati che per questo consenso.
L’amore divino ha attraversato l’infinità dello spazio e del tempo per andare da Dio a noi. Ma come può rifare il tragitto in senso inverso quando il punto di partenza è dato da una creatura finita? Quando il germe dell’amore divino deposto in noi è ormai cresciuto e diventato albero, come possiamo, noi che lo portiamo, riportarlo alla sua origine, fare in senso inverso il viaggio che Dio ha fatto verso di noi, attraversare la distanza infinita?
Sembra impossibile, ma un mezzo c’è e questo mezzo noi lo conosciamo bene. Sappiamo bene a che cosa somiglia quest’albero che è cresciuto in noi, quest’albero così bello, su cui gli uccelli del cielo si posano. Noi sappiamo qual è l’albero più bello di tutti: «Nessuna foresta ne ha uno così bello». L’albero più bello, addirittura il più sconvolgente di qualsiasi potenza umana, è quell’albero il cui seme è stato posto in noi da Dio, senza che sapessimo neppure quale fosse. Se noi l’avessimo saputo, non avremmo detto di sì al primo momento. È quest’albero che è cresciuto con noi, che non possiamo più sradicare. Solo un tradimento può sradicarlo.
Quando si picchia con un martello su un chiodo, il colpo, ricevuto dalla testa del chiodo, viene trasmesso interamente alla, punta, senza che nulla vada perduto, benché essa non sia che un punto. Se il martello e la testa del chiodo fossero infinitamente più grandi avverrebbe la stessa cosa: la punta del chiodo trasmetterebbe al punto nei quale essa è,applicato questo colpo infinito.
L’estrema infelicità, che è insieme dolore fisico, stanchezza dell’anima e degradazione sociale, è questo chiodo. La punta è applicata al centro stesso dell’anima. La testa del chiodo è tutta la necessità sparsa attraverso alla totalità dello spazio e del tempo.
L’infelicità è una meraviglia della tecnica divina. È un dispositivo semplice e ingegnoso che fa entrare nell’anima di una creatura finita l’immensità della forza cieca, brutale e fredda. La distanza infinita che separa Dio dalla creatura si concentra interamente in un punto per colpire l’anima nel suo centro. L’uomo, al quale succede una cosa del genere, non ha nessuna funzione in questa operazione. Si dibatte come una farfalla che viene infilzata viva con uno spillo su un album. Ma egli può continuare a voler amare anche attraverso l’orrore. Non è impossibile, non ci sono ostacoli e neppure difficoltà perché nemmeno il dolore più grande, quando si trova al di qua del punto di svenimento, può colpire l’anima al punto da impedirle di orientarsi. Ma è necessario sapere che l’amore è un orientamento, non uno. stato d’animo. Se lo ignoriamo, piombiamo nella disperazione non appena ci colpisce l’infelicità.
L’uomo, la cui anima rimane orientata verso Dio, mentre è trafitta da un chiodo, si trova inchiodata ai centro stesso dell’universo. Esso è il vero centrò, che non è nel mezzo, ma fuori dello spazio e del tempo, che è Dio. Secondo una dimensione che non appartiene allo spazio, che non è il tempo, che è una dimensione completamente diversa, quel chiodo ha aperto un passaggio nella creazione, perforando lo spessore dello schermo che separa l’anima da Dio.
Grazie a questa dimensione meravigliosa l’anima può, senza abbandonare il luogo e l’istante in cui si trova il corpo a cui essa è legata, attraversare la totalità dello spazio e del tempo e giungere alla presenza stessa di Dio.
Essa si trova nel punto di intersezione fra creazione e Creatore: questo punto d’intersezione è il punto d’incrocio dei due bracci della croce.
San Paolo pensava forse ad una cosa del genere quando diceva: «State radicati nell’amore, per essere capaci di capire qual è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere ciò che va oltre ogni conoscenza: l’amore di Cristo».



Per essere inchiodati alla stessa croce di Cristo quando siamo colpiti da un’infelicità estrema, dobbiamo portare nella nostra anima, nel momento in cui giunge l’infelicità, non solo il seme diviso, ma l’albero di vita già formato. Altrimenti possiamo soltanto scegliere o l’una o l’altra delle due croci che si trovavano a fianco di quella di Cristo.
Assomigliamo al cattivo ladrone quando cerchiamo una consolazione all’infelicità nel disprezzo e nell’odio dei compagni di sventura. È questo l’effetto più comune che provoca la vera infelicità, ed è, per esempio, l’atteggiamento degli schiavi nell’antica Roma. Coloro che si stupiscono quando scorgono un tale stato d’animo negli infelici, non sanno che anch’essi farebbero altrettanto se l’infelicità li toccasse.
Per assomigliare invece al buon ladrone è sufficiente che ci rendiamo conto di aver meritato almeno quel grado di infelicità che ci ha colpiti. Infatti, prima di essere ridotti all’impotenza dall’infelicità, siamo diventati, a causa della nostra viltà, inerzia, indifferenza o ignoranza colpevole, complici di determinati crimini che hanno spinto altri esseri umani in un’infelicità pari almeno alla nostra. Senza dubbio, in genere non potevamo impedire questi crimini, ma avremmo almeno potuto condannarli pubblicamente. Non lo abbiamo fatto, o addirittura li abbiamo approvati, o perlomeno abbiamo permesso che si dicesse intorno a noi che li approvavamo. L’infelicità che subiamo non è, in termini di stretta giustizia, un castigo troppo grande per questa complicità. Non abbiamo il diritto di aver compassione di noi stessi. Sappiamo che almeno una volta un essere perfettamente innocente ha sofferto un’infelicità peggiore della nostra: è meglio dirigere la compassione verso di lui attraverso i secoli.
Ognuno può e deve dirsi queste cose, poiché avvengono fatti ed esistono situazioni così atroci nelle nostre istituzioni e nei nostri costumi che nessuno di noi può ritenersi assolto da questa complicità diffusa.
Certamente, ciascuno di noi si è reso colpevole almeno d’indifferenza criminale.
Oltre a ciò, ogni uomo ha il diritto di desiderare di partecipare alla croce stessa di Cristo. Noi abbiamo un diritto illimitato di chiedere a Dio tutto ciò che è bene. Non è certo in queste domande che conviene essere umili o moderati.
Non bisogna desiderare l’infelicità: sarebbe contro natura, sarebbe una perversione. D’altra parte l’infelicità è, per essenza, ciò che si subisce nostro malgrado.
Se non vi siamo immersi, possiamo solamente desiderare che, nel momento in cui o saremo, la nostra infelicità costituisca una partecipazione alla croce di Cristo.
Ma ciò che in realtà è sempre presente e che di conseguenza è sempre possibile amare, è la possibilità dell’infelicità. Le tre componenti del nostro essere vi sono sempre esposte. La nostra carne è fragile; qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, strapparla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi meccanismi interni. La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni spesso non motivate, pietosamente dipendente da ogni sorta di cose e di esseri altrettanto fragili e capricciosi. La nostra persona sociale, dalla quale dipende quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente ed interamente esposta al caso. Il centro del nostro essere è legato a queste tre componenti da fibre tali che risente delle ferite inferte ad una qualsiasi di esse fino a sanguinare lui stesso. In modo particolare, quel che diminuisce o distrugge il nostro prestigio sociale, il nostro diritto alla stima, pare alterare o abolire la nostra stessa essenza: fino a questo punto l’illusione è la nostra sostanza.
A questa fragilità quasi infinita non pensiamo quando tutto va più o meno bene. Ma nulla ci costringe a non pensarci. Possiamo anzi pensarci continuamente e ringraziare continuamente Dio, non solo per la fragilità stessa, ma anche per quella debolezza più intima che trasporta questa fragilità al centro stesso del nostro essere. Infatti è questa debolezza che rende possibile, eventualmente, il processo che ci potrebbe inchiodare al centro della croce.
Possiamo pensare a questa fragilità con amore e con riconoscenza nei momenti di maggiore o minore sofferenza. Possiamo pensarvi nei momenti più o meno indifferenti. Possiamo pensarvi durante i periodi di gioia. Non io si dovrebbe fare se questo pensiero avvelenasse o diminuisse la gioia. Ma non è così. La gioia acquista solo una dolcezza più penetrante e più ricca, come la fragilità dei fiori di ciliegio ne accresce la bellezza.
Se atteggiamo il nostro pensiero in questo modo, dopo un certo tempo la croce di Cristo diventerà la sostanza stessa della vita. Quando Cristo consigliava ai suoi discepoli di portare ogni giorno la loro croce, voleva indubbiamente riferirsi a questo atteggiamento e non, come pare che si creda oggi, dire di rassegnarsi semplicemente di fronte alle piccole noie di ogni giorno, che a volte chiamiamo croci, per un abuso di linguaggio quasi sacrilego. Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità del tempo e dello spazio e che può, in alcune circostanze, concentrarsi sull’atomo che noi siamo e polverizzarlo totalmente. Portare la propria croce significa sapere che siamo interamente sottomessi alla cieca necessità, in ogni parte del nostro essere, tranne in un punto così segreto dell’anima che la coscienza stessa non lo raggiunge. Per quanto un uomo possa soffrire crudelmente, se una parte del suo essere ,è immune dal dolore e se egli non è pienamente consapevole che essa vi è sfuggita solo casualmente rimanendo però egualmente esposta ai colpi del caso, egli non è ancora partecipe della croce. Questo è vero soprattutto se la parte dell’essere più o meno immune dal dolore é quella sociale. Ecco perché la malattia, per esempio, non ci fa partecipi della croce, se essa non è accompagnata da un perfetto spirito di povertà. Un uomo perfettamente felice può nello stesso tempo gioire della felicità e portare la sua croce, se in ogni istante è realmente e concretamente consapevole della possibilità dell’infelicità.
Ma non basta ancora conoscere una simile possibilità: bisogna amare teneramente il rigore di questa necessità, che è come una medaglia a due facce: una, quella rivolta verso di noi, esprime la potenza che ci domina, l’altra, quella rivolta verso Dio, la nostra obbedienza. Bisogna stringerla fra le braccia, anche se ci presenta i suoi chiodi e, stringendola, farla entrare nella nostra carne. Chiunque ama è felice quando durante l’assenza dell’essere amato può stringere un oggetto che gli appartiene, sino a farlo penetrare nella carne. Noi sappiamo che questo universo è un oggetto appartenente a Dio. Dobbiamo ringraziare Dio dal fondo del cuore per averci dato come regina assoluta la necessità, sua schiava inconsapevole, cieca e perfettamente obbediente. Essa ci guida con la frusta. Ma, essendo noi sottomessi quaggiù alla sua tirannia, è sufficiente che scegliamo Dio per nostro tesoro, che mettiamo in Dio il nostro cuore affinché ci sia dato di vedere l’altra faccia di quella tirannia, la faccia che è pura obbedienza. Siamo gli schiavi della necessità, ma siamo anche i figli dei suo Padrone. Qualsiasi cosa essa ci imponga, dobbiamo amare lo spettacolo della sua docilità, noi che siamo i bambini di casa. Ogni volta che essa non fa ciò che vogliamo oche ci obbliga a subire ciò che non vogliamo, ci è concesso grazie all’amore di passare attraverso di lei e di vedere la faccia dell’ubbidienza che essa mostra a Dio. Felici coloro che hanno spesso questa preziosa occasione.
Il dolore fisico intenso e prolungato ha questo solo vantaggio: che la nostra sensibilità è tale che non può accettano. Possiamo abituarci, assecondare, adattarci a qualunque cosa tranne che al dolore fisico e, quando ci adattiamo, lo facciamo per un’illusione di potenza, per credere che siamo noi a comandare. Noi giochiamo ad immaginare di avere scelto ciò che ci é stato imposto. Ma, quando un essere umano è trasformato ai suoi stessi occhi in una specie di bestia quasi paralizzata e completamente ripugnante, non può più conservare quest’illusione.
Ancor più se quella trasformazione è avvenuta per volontà degli uomini, per effetto di una condanna sociale, a patto che sia stato un atto di oppressione in un certo senso anonimo e non una persecuzione onorevole. La parte carnale della nostra anima è sensibile alla necessità solo quando questa si presenta come costrizione, ed è sensibile alla costrizione solo quando è dolore fisico.
È sempre la stessa verità quella che penetra nella sensibilità carnale per mezzo del dolore fisico, nell’intelligenza per mezzo della dimostrazione matematica e nella facoltà d’amare per mezzo della bellezza.
Anche Giobbe, dopo che il velo carnale gli è strappato dall’infelicità, vede nella sua nudità la bellezza del mondo. La bellezza del mondo si rivela all’uomo appena egli riconosce la necessità come sostanza dell’universo e l’obbedienza a un Amore perfettamente saggio come sostanza della necessità.
L’universo di cui noi siamo un frammento non ha altra ragion d’essere se non quella di ubbidire.
La gioia sensibile ha un potere analogo a quello del dolore fisico quando è così viva, così pura, quando supera ogni attesa al punto di farci capire che siamo incapaci di procurarci qualcosa di simile o di assicurarcene il possesso. Gioie di questo tipo hanno sempre per essenza la bellezza. La gioia pura e il dolore puro sono due aspetti della stessa, infinitamente preziosa verità. Ed è bene che sia così, perché in tal modo abbiamo il diritto di augurare a chi amiamo la gioia e non il dolore.
La Trinità e la croce sono i due poli del cristianesimo, le due verità essenziali: l’una gioia perfetta, l’altra perfetta infelicità. La conoscenza dell’una e dell’altra e della loro misteriosa unità è indispensabile; tuttavia a causa della condizione umana noi siamo situati quaggiù infinitamente lontano dalla Trinità, ai piedi stessi della croce.
La croce è la nostra patria.
La conoscenza dell’infelicità è la chiave del cristianesimo. Ma questa conoscenza è impossibile.
È impossibile conoscere l’infelicità senza averla attraversata. Infatti essa ripugna talmente al pensiero che diventiamo incapaci di concepirla così come un animale, salvo eccezioni, è incapace di uccidersi. Il pensiero conosce l’infelicità solo quando vi è costretto. È impossibile credere, senza esservi costretti dall’esperienza, che tutto ciò che abbiamo nell’anima, ogni pensiero, ogni sentimento, ogni atteggiamento nei confronti delle idee, degli uomini e dell’universo, e soprattutto l’atteggiamento più intimo nei confronti di noi stessi, sia interamente alla mercé delle circostanze. Anche se lo riconosciamo teoricamente, cosa già di per sé rara, non lo crediamo con tutta l’anima. Crederlo con tutta l’anima significa, secondo l’espressione di Cristo, non (come si traduce di solito) rinuncia o abnegazione, ma rinnegare noi stessi; e questa è la condizione per meritare di essere discepoli di Cristo. Ma, quando ci troviamo immersi nell’infelicità o quando siamo passati attraverso di essa, non crediamo maggiormente a questa verità, anzi si potrebbe quasi dire che vi crediamo ancor meno. Infatti il pensiero non può mai essere costretto, ha sempre la possibilità di sfuggire con la menzogna. Il pensiero che, obbligato dalle circostanze, viene a trovarsi di fronte all’infelicità, tende a rifugiarsi nella menzogna con la prontezza con cui l’animale minacciato di morte si nasconde in un rifugio che gli si para dinanzi. Talvolta, nel suo terrore, affonda nella menzogna profondamente; spesso succede anche che coloro che sono stati infelici siano diventati prigionieri della menzogna come di un vizio, tanto da aver perso del tutto il senso stesso della verità. Li si rimprovera a torto: la menzogna è talmente legata all’infelicità che Cristo ha vinto il mondo per il solo fatto che, essendo la Verità, è rimasto Verità sino in fondo all’estrema infelicità. Il pensiero è costretto a fuggire l’infelicità per un istinto di conservazione infinitamente più essenziale al nostro essere di quello che ci difende dalla morte del corpo.
È relativamente facile esporsi alla morte quando, per effetto delle circostanze o dei giochi dell’immaginazione, non si presenta sotto l’aspetto dell’infelicità. Non si può guardare l’infelicità in faccia e da vicino con un’attenzione ferma e sicura se non si accetta la morte dell’anima per amore della verità. È la morte dell’anima di, cui parla Platone quando dice che «filosofare è imparare a morire»; morte dell’anima che è simbolizzata nelle iniziazioni dei misteri antichi ed è rappresentata dal battesimo.
In realtà non si tratta per l’anima di morire, ma semplicemente di riconoscere la verità secondo cui essa è una cosa morta, una cosa analoga alla materia. Essa non deve diventare acqua: essa è acqua; ciò che noi crediamo sia il nostro io è un prodotto fuggitivo e succube delle circostanze esteriori come la forma di un’onda del mare.
Basta sapere questo, saperlo fino in fondo.
Ma soltanto Dio possiede questa conoscenza perfetta dell’uomo e, sulla terra, soltanto coloro che sono stati generati dall’alto. Infatti si può accettare la morte dell’anima solo se si possiede un’altra vita oltre quella illusoria dell’anima, solo se si ha il proprio tesoro e il proprio cuore fuori di sé, non solo fuori della propria persona ma fuori dei propri pensieri, dei propri sentimenti, al di là di tutto ciò che è conoscibile, nelle mani del Padre nostro, che è nel segreto. Coloro che sono in questa dimensione sono stati generati dall’acqua e dallo Spirito. Essi non sono diventati altro che una doppia ubbidienza, da un lato alla necessità meccanica di cui son prigionieri a causa della loro condizione terrestre, dall’altro all’ispirazione divina.
Non c’è più nulla in loro che si possa chiamare la loro volontà, la loro persona, il loro io: essi non sono altro che un determinato punto di intersezione fra la natura e Dio. Tale punto è il nome con cui Dio li ha chiamati dall’eternità, è la loro vocazione. Nell’antico battesimo per immersione l’uomo spariva sotto l’acqua; il che significava negare se stessi, affermare che si è solo un frammento della materia inerte di cui è costituita la creazione. L’uomo riappariva sollevato da un movimento ascendente più forte della forza di gravità, immagine dell’amore divino nell’uomo.
Il simbolo racchiuso nel battesimo è lo stato di perfezione. La promessa legata al battesimo è quella di desiderare e di chiedere a Dio questo stato, continuamente, instancabilmente, finché non lo si è ottenuto, come un bimbo affamato non si stanca di chiedere a suo padre del pane.
Ma non si può sapere a che cosa impegna una tale promessa finché non si è in presenza del volto terribile dell’infelicità.
Solo di fronte ad essa può essere assunto l’impegno vero con un atto di adesione più segreto e più misterioso, più miracoloso di un sacramento.
La conoscenza dell’infelicità è impossibile sul piano naturale sia per coloro che l’hanno provata come per coloro che non l’hanno provata; ma diventa possibile sia agli uni che agli altri per grazia soprannaturale. Diversamente, Cristo non avrebbe risparmiato l’infelicità a colui che prediligeva sopra tutti, dopo avergli promesso che lo avrebbe fatto bere nella sua coppa. Nei due casi la conoscenza dell’infelicità è una cosa ben più miracolosa. che il camminare sulle acque.
Cristo riconosce come suoi benefattori soltanto coloro la cui compassione si fonda sulla conoscenza dell’infelicità. Gli altri dànno per capriccio, con irregolarità, o troppo regolarmente per un’abitudine ricevuta dall’educazione, o per conformità a convenzioni sociali, per orgoglio o per pietà carnale, o per avere la coscienza a posto, in breve per un motivo che riguarda loro stessi. Essi sono altezzosi, oppure assumono un’aria protettiva, oppure rivelano una pietà indiscreta, o lasciano intendere all’infelice che egli è ai loro occhi soltanto l’esemplare di una certa specie di infelicità. In ogni modo il loro dono è una ferita. Ed sessi ricevono il loro premio quaggiù, poiché la loro mano sinistra non ignora affatto ciò che fa la destra.
Il loro contatto con gli infelici non può avvenire che nella menzogna, poiché la vera conoscenza degli infelici implica quella dell’infelicità. Coloro che non hanno guardato il viso dell’infelicità o non sono pronti a farlo, non possono avvicinarsi agli infelici se non protetti dal velo di una menzogna o di un’illusione.
Se d’improvviso apparisse sul volto di un infelice il volto dell’infelicità, essi fuggirebbero.
Quando il benefattore di Cristo viene a trovarsi di fronte a un infelice, non avverte alcuna distanza fra se stesso e l’altro; trasporta tutto il suo essere nell’altro; di conseguenza l’atto di portare il cibo è istintivo e immediato come quello di mangiare quando si ha fame. E questa azione viene subito dimenticata, così come si dimenticano i pasti dei giorni passati. Un tale uomo non si sognerebbe mai di dire che si occupa degli infelici per il Signore; gli sembrerebbe assurdo come se dicesse che mangia per il Signore.
Si mangia perché non se ne può fare a meno. Coloro che Cristo ringrazierà donano con la stessa naturalezza con cui mangiano.
Essi donano ben più che un pezzo di pane, dei vestiti e delle cure. Trasportando il loro essere stesso in colui che soccorrono, gli donano per un momento quell’esistenza di cui egli è privato dall’infelicità. L’infelicità è essenzialmente distruzione della personalità, passaggio nell’anonimato. Come Cristo si è svuotato della sua divinità per amore, così l’infelice è svuotato della sua umanità dalla sua cattiva fortuna. Egli non ha più altra esistenza che quella cattiva fortuna stessa. Agli occhi altrui e ai suoi è interamente definito dalla sua relazione con l’infelicità. Qualcosa in lui che vorrebbe esistere è continuamente rigettato nel nulla come se si colpisse con colpi sempre più fitti un uomo che sta annegando. Egli è, secondo i casi, un povero, un esule, un negro, un malato, un condannato: i cattivi trattamenti e le buone azioni, di cui egli è oggetto, sono ugualmente diretti verso l’infelicità di cui egli è un esemplare fra molti altri. Cattivi trattamenti e azioni buone hanno la stessa efficacia nel mantenerlo nell’anonimato e diventano due forme della medesima offesa.
Colui che vedendo un infelice trasporta in lui il suo essere, fa nascere in lui per amore, almeno per un momento, un’esistenza indipendente dall’infelicità. Infatti, per quanto l’infelicità sia l’occasione di questo processo soprannaturale, non ne è però la causa. La causa è l’identità degli esseri umani attraverso tutte quelle distanze apparenti che il caso e la fortuna pongono fra di loro.
Trasportare il proprio essere in un infelice significa assumere, per un momento, la sua infelicità, assumersi quindi volontariamente ciò la cui essenza consiste nell’essere imposto per costrizione e contro la volontà. È una cosa impossibile. Solo Cristo l’ha fatto. Soltanto Cristo può farlo, e gli uomini di cui Cristo occupa tutta l’anima. Costoro, trasferendo il loro proprio essere nell’infelice che soccorrono, mettono in lui non tanto il loro essere, perché essi non ne hanno più, quanto Cristo stesso.
L’elemosina praticata così diventa un sacramento, una operazione soprannaturale, grazie alla quale un uomo in cui abita Cristo trasferisce realmente Cristo nell’anima di un infelice. Il pane così donato, se si tratta di pane, equivale ad un’ostia. Non è un simbolo o una congettura, ma una traduzione letterale delle parole stesse di Cristo. Egli dice infatti: «a me che l’avete fatto». Cristo vive dunque nell’infelice affamato o ignudo: ma non per effetto della fame o della nudità, poiché l’infelicità di per sé non racchiude nessun dono derivante dall’alto, quanto grazie a quell’atto di donazione. Che Cristo sia presente in chi dona in modo perfettamente puro, è evidente; chi dunque potrebbe essere benefattore di Cristo se non lui stesso? i facile capire d’altronde che solo la presenza di Cristo in un’anima può renderla capace di vera compassione. Ma il Vangelo ci rivela inoltre che colui che dona per vera compassione dona Cristo stesso. L’infelice che riceve quel dono miracoloso può scegliere di acconsentirvi oppure no.
Un infelice, la cui infelicità sia completa, è privato di ogni rapporto umano. Non esistono per lui che due tipi di relazioni con gli uomini, quella in cui egli compare solo più come una cosa, relazione meccanica come quella di due gocce d’acqua vicine, e l’amore puramente soprannaturale. La regione intermedia gli è vietata. Nella sua vita c’è soltanto più posto per l’acqua e lo Spirito. L’infelicità acconsentita, accettata, amata è veramente un battesimo.
Durante la sua vita terrena Cristo non ha ottenuto compassione, proprio perché egli è il solo capace di offrire compassione. Quando si trovò quaggiù in un corpo, non abitava nell’anima di nessuno di quelli che lo circondavano: ecco perché nessuno poteva aver pietà di lui.
Il dolore l’ha costretto a sollecitare la compassione, e i suoi amici più intimi gliel’hanno rifiutata. L’hanno lasciato soffrire solo. Anche Giovanni dormiva. Pietro era stato in grado di camminare sull’acqua ma non fu capace d’aver pietà del suo maestro, caduto nell’infelicità. Essi si rifugiarono nel sonno per non vederlo più. Quando la Misericordia stessa diventa infelicità, dove potrebbe trovare soccorso? Ci sarebbe voluto un altro Cristo per aver pietà di Cristo infelice. Lungo i secoli successivi, la compassione per l’infelicità di Cristo è stata un segno di santità.
L’operazione soprannaturale dell’elemosina, contrariamente a quella, per esempio, della comunione, non esige una piena consapevolezza. Infatti coloro che Cristo ringrazia rispondono: «Signore, quando dunque?...». Essi non conoscevano colui che avevano nutrito. E non c’è nulla che ci permette di dire che avessero qualche conoscenza di Cristo. L’hanno potuta avere oppure no. L’importante è che siano stati giusti. Da quel momento Cristo in essi si è dato sotto forma di elemosina. Felici i mendicanti, poiché hanno la possibilità di ricevere forse una volta o due nella loro vita una tale elemosina.
L’infelicità si trova indubbiamente al centro del cristianesimo. L’adempimento dell’unico e doppio comandamento, «Ama Dio» e «Ama il tuo prossimo», passa attraverso l’infelicità. Infatti, riguardo al primo, Cristo ha detto: «Nessuno giunge al Padre se non passa attraverso me». Ha detto anche: «Come Mosè ha innalzato il serpente nel deserto, allo stesso modo è necessario che il figlio dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui possieda la vita eterna».
Il serpente di bronzo era quel serpente che bastava guardare per essere preservati dagli effetti del veleno. Non si può dunque amare Dio se non fissando la croce. E quanto al prossimo, Cristo ha detto che è il nostro vicino colui che dobbiamo amare. È quel corpo nudo, sanguinante e svenuto che noi vediamo giacere sulla strada.
È innanzitutto l’infelicità che dobbiamo amare, l’infelicità dell’uomo, l’infelicità di Dio.
Si rimprovera spesso al cristianesimo una compiacenza molle nei confronti della sofferenza e del dolore. È un errore. Il fulcro del cristianesimo non è tanto il dolore e la sofferenza, sensazioni e stati d’animo in cui è sempre possibile gustare una voluttà perversa, quanto l’infelicità. L’infelicità non è uno stato d’animo. È una polverizzazione dell’anima dovuta alla brutalità meccanica delle circostanze. La degradazione che un uomo subisce di fronte a se stesso, passando dallo stato umano a quello di un verme schiacciato che si agita sul terreno, non è cosa di cui possa compiacersi nemmeno un pervertito; tanto meno un saggio, un eroe o un santo. L’infelicità è ciò che s’impone ad un uomo, suo malgrado. Essa ha per essenza e per definizione l’orrore e la ribellione di tutto l’essere di colui del quale essa s’impadronisce. A tutto questo bisogna acconsentire per mezzo dell’amore soprannaturale.
Acconsentire all’esistenza dell’universo, è la nostra funzione quaggiù. Dio non si accontenta di riconoscere buona la sua creazione. Egli vuole che essa stessa si riconosca come buona. A questo servono le anime attaccate a minuscoli frammenti di mondo. E la funzione dell’infelicità è proprio quella di permetterci di pensare che la creazione di Dio è buona. Infatti, finché le circostanze si svolgono intorno a noi lasciando il nostro essere quasi intatto o solo in parte contaminato, noi siamo più o meno convinti che la nostra volontà abbia creato il mondo e lo governi. L’infelicità ci insegna d’improvviso, con nostra grande sorpresa, che non è affatto così. Giunti a questo punto, se noi lodiamo qualcosa, lodiamo veramente la creazione di Dio. Tutto ciò non è difficile, perché sappiamo che l’infelicità non diminuisce per nulla la gloria divina. Non ci impedisce dunque di benedire Dio per la sua grande gloria.
Così l’infelicità è il segno più sicuro che Dio vuole essere amato da noi; è la testimonianza più preziosa del suo amore. È una cosa ben diversa dal castigo paterno. È più esatto paragonarla ai litigi affettuosi con cui i giovani fidanzati si assicurano della profondità del loro amore.
Non abbiamo il coraggio di guardare l’infelicità in faccia; altrimenti, dopo un po’ di tempo ci accorgeremmo che ha il volto dell’amore; così come Maria
Maddalena s’è accorta che colui che essa scambiava per un giardiniere era in realtà qualcun altro.
I cristiani, meditando sul ruolo essenziale dell’infelicità nella loro fede, dovrebbero accorgersi che l’infelicità è in un certo senso l’essenza stessa della creazione. Essere delle creature non significa necessariamente essere infelici, ma essere esposti necessariamente all’infelicità. Solo l’increato è indistruttibile.
Ci domandiamo spesso per quale motivo Dio permette l’infelicità; potremmo anche domandarci allo stesso modo perché Dio ha creato. Sì, è vero, possiamo domandarcelo. Perché Dio ha creato? Sembra talmente evidente che Dio è più grande di Dio e della creazione insieme. Per lo meno, ciò sembra evidente se pensiamo a Dio come essere. Ma non bisogna pensarlo così. Dal momento in cui si pensa a Dio come amore si prova un senso di meraviglia cogliendo l’amore che unisce il Padre e il Figlio nello stesso tempo nell’unità eterna del Dio unico e al di sopra della separazione dello spazio e del tempo e della croce.
Dio è amore e la natura è necessità, ma questa necessità diventa, grazie all’obbedienza, uno specchio dell’amore. Allo stesso modo Dio è gioia e la creazione è infelicità, ma è un’infelicità risplendente della luce della gioia. L’infelicità racchiude la verità della nostra condizione. Coloro che preferiscono scoprire la verità e morire, piuttosto che vivere un’esistenza lunga e felice nell’illusione, vedranno da soli Dio. Bisogna voler andare verso la realtà; allora, mentre si crede di trovare un cadavere, si incontra un angelo che dice: «Egli è risuscitato».
La sola sorgente di luce abbastanza luminosa per rischiarare l’infelicità è la croce di Cristo. In qualsiasi epoca, in qualsiasi paese, dovunque vi sia dell’infelicità, la croce di Cristo ne è la verità.
Ogni uomo che ami la verità al punto da non tuffarsi nelle profondità della menzogna per sfuggire il viso dell’infelicità, partecipa della croce di Cristo, qualunque sia la sua fede. Se Dio avesse acconsentito a togliere Cristo agli uomini di un paese e di un’epoca determinata, noi lo sapremmo grazie a questo segno: fra di loro non esisterebbe l’infelicità. Noi non conosciamo niente di simile nella storia. Ovunque c’è l’infelicità, vi è la croce, nascosta, ma presente a chiunque sceglie la verità invece della menzogna e l’amore invece dell’odio. L’infelicità senza la croce è l’inferno, e Dio non ha posto l’inferno sulla terra.
Reciprocamente, i cristiani, così numerosi, che non hanno la forza di riconoscere e di adorare in ogni infelicità la croce felice, non sono partecipi di Cristo. Nulla rivela la debolezza della fede, quanto la facilità con cui (anche fra i cristiani) si sfugge al punto centrale del problema appena si parla dell’infelicità. 1 discorsi sul peccato originale, sulla volontà di Dio, sulla provvidenza e i suoi piani misteriosi che tuttavia si crede di poter penetrare, sui compensi di ogni specie in questo mondo e nell’altro, o tendono a dissimulare la realtà dell’infelicità oppure non hanno efficacia contro di essa. Solo una cosa permette di acconsentire all’infelicità: la contemplazione della croce di Cristo. Non c’è altro. Basta questo.
Una madre, una sposa, una fidanzata, che sanno che colui che amano si trova in difficoltà e non possono né soccorrerlo né raggiungerlo, vorrebbero almeno subire un dolore equivalente al suo per essere meno separate da lui, per essere liberate del fardello così pesante della compassione impotente. Chiunque ami Cristo e se lo rappresenti sulla croce, dovrebbe provare un sollievo simile quando è colpito dall’infelicità.
Grazie al legame essenziale fra la croce e l’infelicità, uno stato non ha il diritto di separarsi da ogni religione se non nel caso ipotetico in cui fosse giunto a sopprimere l’infelicità. A maggior ragione non ne ha il diritto quando crea egli stesso degli infelici.
La giustizia penale, sciolta da ogni tipo di legami con Dio, ha veramente un colore infernale, non per gli errori giudiziari o per gli eccessi di severità, ma proprio di per se stessa. Si insozza al contatto di tutte le brutture e, non avendo niente per purificarle, diventa essa stessa così sporca che i peggiori criminali possono ancora essere degradati da essa. Il suo contatto è spaventoso per chiunque abbia in sé qualcosa d’integro e di sano; persino coloro che sono ormai marci trovano nelle pene che essa infligge una forma di quiete ancora più orribile.
Per portare la purezza nei luoghi riservati ai criminali non vi è niente che sia sufficientemente puro, se non Cristo, lui che fu un condannato di diritto comune.
Ma, dato che soltanto la croce è necessaria agli stati e non le complicazioni del dogma, è disastroso che la croce e il dogma siano legati da un legame così solido. Questo legame ha tolto Cristo ai suoi fratelli criminali.
Il concetto di necessità, come materia comune dell’arte, della scienza e di ogni specie di lavoro, è la via attraverso la quale il cristianesimo può penetrare nella vita profana e permearla completamente. La croce infatti è la necessità stessa posta a contatto con la parte più elevata e con quella più bassa di noi stessi, con la sensibilità della carne grazie all’evocazione della sofferenza fisica, con l’amore soprannaturale grazie alla presenza di Dio. Di conseguenza, sono inglobati in essa tutti i contatti che le parti intermedie del nostro essere possono avere con la necessità.
Non c’è, non può esserci, in alcun ambito, nessuna attività umana che non abbia per suprema e segreta verità la croce di Cristo. Nessuna attività può essere separata dalla croce di Cristo senza marcire interiormente o disseccarsi come un ramo tagliato. Oggi noi vediamo succedere tutto ciò sotto i nostri occhi senza capirlo, e continuiamo a domandarci il motivo del nostro male. I cristiani lo comprendono meno ancora degli altri poiché, sapendo che quelle attività di cui parlavo (arte, scienza, ecc.) sono storicamente anteriori a Cristo, non riescono ad afferrare il concetto che la fede cristiana ne sia la linfa.
Se noi comprendessimo che la fede cristiana, sotto veli che ne lasciano intravedere la chiarezza, ha sempre prodotto fiori e frutti nelle epoche e nei luoghi in cui vi erano alcuni uomini che non nutrivano odio per la luce, quella difficoltà non ci fermerebbe.
Dall’alba della storia, mai, tranne in un certo periodo dell’impero romano, Cristo è stato assente come oggi. Gli antichi avrebbero giudicato mostruosa la separazione della religione dalla vita sociale che la maggior parte dei cristiani ritiene oggi naturale.
È necessario che il cristianesimo faccia calare la sua linfa in ogni aspetto della vita sociale; ma esso, tuttavia, è fatto prima di tutto per l’essere singolo. Il Padre è nel segreto, e non vi è segreto più inviolabile dell’infelicità.
C’è una domanda che non ha assolutamente significato e, naturalmente, nessuna risposta. Normalmente non ce la poniamo mai, ma l’anima che giace nell’infelicità non può impedirsi di gridarla incessantemente con la monotona continuità d’un gemito. Questa domanda è: Perché? perché le cose sono così? L’infelice lo chiede ingenuamente agli uomini, alle cose, a Dio (anche se a lui non crede), a chiunque. Perché l’infelice non deve avere nulla da mangiare, deve essere sfinito dalla fatica e dai trattamenti brutali o deve essere fucilato, molto presto, o deve essere malato oppure in prigione? Se gli vengono spiegate le cause della situazione in cui si trova, cosa d’altra parte raramente possibile, data la complessità dei meccanismi che intervengono in quella situazione, questo non sarà per lui una risposta. Infatti la sua domanda, «perché?», non significa: per quale motivo? ma: per quale fine? Naturalmente, non possiamo indicargli dei fini, a meno di non inventarne qualcuno fittizio; ma tale invenzione non è una cosa buona.
Il fatto singolare è che l’infelicità altrui, salvo qualche rara eccezione che riguarda, ma non sempre, gli esseri che ci stanno più vicino, non provoca mai in noi questa domanda. Tutt’al più ce la poniamo qualche volta, distrattamente. Ma colui che entra nell’infelicità sente che questa domanda si installa in lui e non smette più di gridare. Perché? Perché? Perché? Cristo stesso l’ha posta: «Perché mi hai abbandonato?».
Il perché dell’infelice non comporta nessuna risposta, poiché noi viviamo nella necessità e non nella finalità. Se ci fosse una finalità in questo mondo, il luogo del bene non sarebbe l’altro mondo. Ogni volta che noi pretendiamo di cogliere la finalità nel mondo, questo ce la rifiuta. Ma, per sapere che ce la rifiuta, bisogna domandarla.
È solo l’infelicità che ci obbliga a domandarla, e anche la bellezza, perché il bello ci rivela così vivamente il senso della presenza d’un bene, che noi cerchiamo in esso una finalità senza mai trovarne una. Anche il bello ci obbliga a domandarci: perché? Perché questo o quello è bello? Ma pochi sono capaci di pronunciare in se stessi questo «perché?» per parecchie ore di seguito. Il perché dell’infelicità dura ore, giorni, anni; non può smettere se non per sfinimento.
Chi è capace non solo di gridare ma anche di ascoltare, intende la risposta. Questa risposta è il silenzio. È il silenzio eterno che Vigny ha rimproverato amaramente a Dio; ma egli non aveva il diritto di dire quale dovesse essere la risposta del giusto a quel silenzio, perché non era un giusto.
Il giusto ama. Chi è capace non solo di ascoltare, ma anche di amare, intende questo silenzio come la parola di Dio. Le creature parlano con dei suoni. La parola di Dio è silenzio. La segreta parola d’amore di Dio non può essere altro che il silenzio. Cristo è il silenzio di Dio.
Come non c’è albero simile alla croce, così non c’è un’armonia come il silenzio di Dio. I pitagorici coglievano quest’armonia nel silenzio senza fondo che circonda eternamente le stelle.
La necessità quaggiù è la vibrazione del silenzio di Dio.
La nostra anima fa continuamente del rumore, ma c’è un punto in lei che è silenzio e che noi non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora noi abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore e lo spazio si apre davanti a noi come un frutto che si separa in due, poiché vediamo ormai l’universo da un punto situato fuori dello spazio.
Non ci sono che due vie possibili per questa operazione, con esclusione di tutte le altre. Non ci sono che due punte molto acute capaci di entrare così nella nostra anima: l’infelicità e la bellezza. Spesso si sarebbe tentati di piangere lacrime di sangue al pensiero che l’infelicità distrugge degli infelici incapaci di farne uso. Ma, a voler considerare le cose freddamente, si tratta in quel caso semplicemente di uno sciupio non meno penoso di quello a cui è sottoposta la bellezza del mondo. Quante volte la luce delle stelle, il rumore delle onde del mare, il silenzio dell’ora che precede l’alba vengono inutilmente a proporsi all’attenzione degli uomini? Non prestare attenzione alle bellezze del mondo è forse un peccato d’ingratitudine così grande da meritare il castigo dell’infelicità. Certo, un uomo che si comporti così non viene sempre punito con questo castigo; ma tuttavia un castigo c’è ed è quello di una vita mediocre; ed in che cosa una vita mediocre è preferibile all’infelicità? D’altronde, anche nel caso in cui questo uomo venga colpito da una grave disgrazia, la sua vita rimarrebbe irreparabilmente mediocre. Per quanto è possibile fare delle congetture sulla sensibilità, pare che il male che si trova in un essere gli serva come protezione dal male che lo assale dal di fuori sotto forma di dolore. Dobbiamo sperare che le cose stiano veramente in questi termini e che Dio nella sua misericordia abbia ridotto al minimo la sofferenza inutile del cattivo ladrone. È bene che sia così perché la grande tentazione, che è racchiusa nell’infelicità, consiste appunto nel fatto che l’infelice ha sempre la possibilità di soffrire di meno acconsentendo a diventare cattivo.
Solo per chi ha conosciuto anche solo per un minuto la pura gioia e di conseguenza il sapore della bellezza del mondo (perché sono la stessa cosa), solo per quest’uomo l’infelicità è qualcosa di straziante. Nello stesso tempo solo costui non ha meritato questo castigo. Ma anche per lui non si tratta di un castigo: è Dio stesso che gli prende la mano e gliela stringe un po’ forte. Infatti, se egli rimane fedele, troverà in fondo alle sue grida la perla del silenzio di Dio.