Erica Jong
C’erano 117 psicanalisti sul volo della Pan American per Vienna e io ero stata in analisi da almeno sei di loro. E ne avevo sposato un settimo. Dio solo sa se dovevo ringraziare l’inettitudine degli spremicervelli in generale o la mia splendida, irriducibile resistenza all’analisi, ma sta di fatto che avevo ancora paura di volare, più di quando erano cominciate le mie avventure psicanalitiche, qualcosa come tredici anni prima. Mio marito mi afferrò terapeuticamente la mano al momento del decollo. “Cristo… è di ghiaccio,” disse. Eppure dovrebbe conoscere i sintomi alla perfezione, visto che mi ha tenuto la mano un mucchio di volte in circostanze analoghe. Le dita delle mani (e anche quelle dei piedi) mi diventano di ghiaccio, lo stomaco fa le capriole nella gabbia toracica, la temperatura della punta del naso scende allo stesso livello di quella delle dita, i capezzoli si drizzano sull’attenti contro la stoffa del reggiseno (in questo caso del vestito, visto che non porto reggiseno), e per un lunghissimo minuto il mio cuore e i motori urlano all’unisono nel tentativo di dimostrare ancora una volta che le leggi dell’aerodinamica non sono soltanto sciocche superstizioni, come io continuo a credere nel profondo del mio essere. Le spiegazioni diaboliche sul piano a profilo aerodinamico che vi propinano in tutte le lingue nelle INFORMAZIONI AI PASSEGGERI della Pan American sono tutte balle: io continuo a essere convinta che soltanto il mio sforzo di concentrazione (e quello di mia madre, che sembra sempre aspettarsi che i suoi figli muoiano in un disastro aereo) riesca a tener su questo uccello del malaugurio. Subito dopo il decollo mi congratulo sempre con me stessa, ma senza troppo entusiasmo, perché il mio vangelo personale dice anche che proprio nel momento in cui si acquista troppa sicurezza e ci si rilassa l’aereo si schianta. Sempre all’erta, ecco il mio motto. L’ideale è un cauto ottimismo. Ma nel mio caso si tratta piuttosto di cauto pessimismo. O.K., mi dico, a quanto pare ci siamo staccati dal suolo e siamo nelle nuvole, ma il pericolo non è passato. In realtà è proprio questo il punto più rischioso. Proprio qui, sopra la Jamaica Bay, dove l’aereo si piega per virare e il segnale di “Si prega di non fumare” si spegne. È molto probabile che proprio adesso precipitiamo urlando in mille pezzi fiammeggianti. E così continuo a concentrarmi con tutte le mie forze per aiutare il pilota (una voce con un rassicurante accento del Middle-West di nome Donnelly) a tener su quel dannato figlio di puttana da 250 passeggeri. Dio sia ringraziato per quei capelli a spazzola del Middle-West. Da brava newyorchese non potrei mai fidarmi di un pilota con l’accento di New York. Appena si spegne anche il segnale delle cinture di sicurezza e la gente comincia a circolare nella cabina, mi guardo intorno nervosamente per vedere chi c’è a bordo. C’è una tettona mamma-analista di nome Rose Schwamm-Lipkin, con la quale mi sono consultata di recente sull’opportunità di lasciare o meno l’analista del momento (che, grazie a Dio, non è in vista). C’è il Dott. Thomas Frommer, l’inequivocabilmente teutonico, esperto di Anorexia Nervosa, il primo strizzacervelli di mio marito. C’è il mite, rotondetto Dott. Arthur Feet, Jr., il terzo (e ultimo) analista della mia amica Pia. C’è il piccolo, compulsivo Dott. Raymond Schrift che gesticola verso una hostess bionda (di nome “Nanci”) come se chiamasse un taxi. (Sono stata in cura dal Dott. Schrift per un intero, memorabile anno, quando ero quattordicenne e mi lasciavo morire lentamente di fame per il rimorso di essermela menata sul divano del soggiorno dei miei genitori. Continuava a insistere, che il cavallo che vedevo sempre in sogno era mio padre e che le mestruazioni mi sarebbero tornate appena avessi “aczeptato il fatto di essere tonna”.) C’è il sorridente, calvo Dott. Harvey Smucker: lo consultai quando il mio primo marito decise una volta per tutte di essere Gesù Cristo e minacciò di fare una passeggiatina sull’acqua del laghetto di Central Park. C’è il frivolo Dott. Ernest Klumpner nel suo abito su misura, il presunto “brillante teorico” il cui libro più recente è uno studio psicanalitico di John Knox. C’è la barba nera del Dott. Stanton Rappoport-Rosen, balzato di recente alla ribalta nei circoli psicanalitici di New York per essersi trasferito a Denver e aver dato inizio a un esperimento chiamato “Terapia di gruppo di sci di fondo”. C’è il Dott. Arnold Aaronson, che fa finta di giocare a scacchi su una scacchiera magnetizzata con la sua nuova moglie (fino all’anno scorso sua paziente), la cantante Judy Rose. Tutt’e due lanciano occhiate furtive intorno per vedere chi li sta osservando (per un attimo i miei occhi e quelli di Judy Rose si sono incontrati). Judy diventò famosa negli anni Cinquanta per aver inciso una serie di ballate satiriche sulla vita pseudo-intellettuale di New York. Con una vocetta lamentosa e deliberatamente priva di armonia cantava la storia di una ragazza ebrea che segue dei corsi alla New School, legge la Bibbia perché le piace quel tipo di prosa, discute di Martin Buber a letto e si innamora del suo psicanalista. Ormai si è identificata col ruolo da lei creato. Oltre gli analisti, le mogli degli analisti, l’equipaggio e qualche disgraziato (in netta minoranza) che non ha niente a che fare con la psicanalisi, ci sono anche alcuni figli di analisti che i genitori si sono tirati dietro. Si tratta per lo più di adolescenti imbronciati in jeans a zampa d’elefante e capelli sulle spalle che lanciano ai genitori sguardi di un cinismo e un disprezzo quasi palpabili. Ricordai i viaggi all’estero con i miei genitori a quell’età e come facessi sempre finta di non essere con loro. Cercai di seminarli al Louvre! Di far perdere le mie tracce agli Uffizi! Di sorbire con aria trasognata la mia Coca-Cola in un caffè di Parigi facendo finta che quegli individui volgari e rumorosi al tavolo vicino non fossero, com’era fin troppo evidente, i miei genitori. (Cercate di capirmi: volevo giocare all’esiliata della Generazione Perduta e tutto il resto, con i miei genitori seduti a meno di un metro di distanza.) E così sono ripiombata nel passato, o in un brutto sogno, o in un brutto film: L’analista e Il figlio dell’analista. Un aereo carico di strizzacervelli e la mia adolescenza. Intrappolata a mezz’aria sull’Atlantico con 117 psicanalisti, la maggior parte dei quali ha ascoltato la mia lunga, triste storia, e nessuno dei quali se la ricorda. Un inizio ideale per quella specie di incubo in cui si sarebbe trasformato quel viaggio. Eravamo diretti a Vienna e l’occasione era storica. Parecchi secoli e alcune guerre prima, nel 1938, Freud era stato costretto a scappare dal suo famoso studio nella Berggasse perché i nazisti minacciavano la sua famiglia. Durante gli anni del Terzo Reich non si poteva nemmeno pronunciare il suo nome in Germania e gli analisti erano stati espulsi (i più fortunati) o gasati (i meno fortunati). E adesso, con grandi cerimonie, Vienna dava il benvenuto agli strizzacervelli di ritorno. Stavano perfino aprendo un museo dedicato a Freud nel suo vecchio studio. Il sindaco di Vienna avrebbe porto personalmente il benvenuto della città ai redivivi e ci sarebbe stato un ricevimento nella Rathaus pseudo-gotica di Vienna. Fra le attrazioni: cibo a volontà, Schnaps a volontà, crociere sul Danubio, gite nei vigneti, canti, danze, burle, discorsi dotti e conferenze e un viaggio in Europa da detrarre dall’imponibile. E soprattutto tanta, tanta, buona, vecchia Gemütlichkeit austriaca. Il popolo che aveva inventato lo schmaltz (e i forni crematori) avrebbe dimostrato agli analisti com’era contento di vederli finalmente di ritorno. Bentornati! Bentornati! Almeno, quelli di voi che sono sopravvissuti ad Auschwitz, Belsen, ai bombardamenti di Londra e all’intervento americano. Willkommen! Si può dire di tutto degli austriaci, ma non che non sono affascinanti. La proposta di tenere il Congresso a Vienna era stata animatamente discussa per anni e anni, e parecchi analisti erano intervenuti con molta riluttanza. In parte c’entrava l’antisemitismo, ma c’era anche la possibilità che gli studenti radicali dell’Università di Vienna decidessero di inscenare qualche manifestazione. Gli psicanalisti non godevano le simpatie dei membri della Nuova Sinistra: erano accusati di “eccessivo individualismo”. La psicanalisi non faceva niente, dicevano gli esponenti del movimento, per contribuire alla “lotta mondiale per il comunismo”. Ero stata incaricata da una nuova rivista di tener d’occhio tutto il baraccone del Congresso per ricavarci un articolo satirico. Decisi di cominciare a lavorare subito e abbordai il Dott. Smucker vicino alla cambusa, dove si stava facendo servire il caffè da una delle hostess. Mi guardò con un barlume di riconoscimento in fondo agli occhi. “Che cosa ne pensa del ritorno degli psicanalisti a Vienna?” gli chiesi sfoderando il mio tono più accattivante da intervistatrice. Il Dott. Smucker sembrò preso alla sprovvista dall’incredibile indiscrezione di quella domanda. Mi guardò a lungo, con occhi indagatori. “Sto scrivendo un articolo per una nuova rivista che si chiama Voyeur,” dissi. Pensavo che un titolo del genere gli avrebbe strappato almeno un sorriso. “Be’,” disse Smucker, imperturbabile, “mi dica, lei che cosa ne pensa?” E si allontanò ondeggiando in direzione della moglie, una donnina coi capelli ossigenati e un triste abito di maglia blu con un piccolo coccodrillo verde sopra il seno destro (triste anche quello). Avrei dovuto immaginarlo. Perché gli analisti rispondono sempre a una domanda con un’altra domanda? E perché questa sera dovrebbe essere diversa da qualunque altra sera, a dispetto del fatto che stiamo volando su un 747 e mangiando cibo non kosher?1 “La scienza ebraica,” come la chiamano gli antisemiti. Rigira tutte le domande e ficcale in culo a chi te le ha fatte. Tutti gli analisti sembrano talmudisti sbattuti fuori dal seminario dopo il primo anno. Mi venne in mente una delle storielle preferite di mio nonno: D.: “Perché un ebreo risponde sempre a una domanda con un’altra domanda?” R.: “E perché mai un ebreo non dovrebbe rispondere a una domanda con un’altra domanda?” Fondamentalmente, comunque, era stata la mancanza di immaginazione degli analisti a deprimermi. O.K., ammetto che il mio primo strizzacervelli mi era stato di grande aiuto (era il tedesco che avrebbe tenuto un discorso a Vienna) ma lui era un esemplare raro: spiritoso, capace di prendersi in giro, per nulla pretenzioso. Non era affetto dalla piattezza e dalla deformazione professionale che riescono a far sembrare pomposo anche il più brillante degli psicanalisti. Ma gli altri erano così incredibilmente noiosi! Il cavallo che continui a sognare è tuo padre. La cucina economica che continui a sognare è tua madre. I mucchi di merda che continui a sognare sono, in realtà, il tuo psicanalista. Questo si chiama transfert, no? Sogni di esserti rotta una gamba sciando. In effetti ti sei appena rotta una gamba sciando e te ne stai sdraiata su un divano con un gesso di cinque chili che ti ha inchiodato in casa per settimane intere, ma che ha contribuito, se non altro, a farti vedere in una luce tutta diversa le tue dita dei piedi e la questione dei diritti civili dei paraplegici. Ma la gamba rotta del sogno è il tuo “genitale mutilato”. Hai sempre desiderato avere un pene e adesso ti senti colpevole perché ti sei rotta apposta la gamba per avere il piacere di portare il gesso, no? No! O.K., lasciamo perdere questa faccenda del “genitale mutilato”. Il cavallo è un cavallo morto, comunque. E lasciamo perdere anche il forno, cioè la mamma, e l’analista, cioè il mucchio di merda. Che cosa resta se non la puzza? Non sto parlando dei primi anni di analisi, quando si fanno tutti gli sforzi possibili per scoprire la propria pazzia e riuscire finalmente a fare qualcosa, invece di dedicare tutta la vita alla nevrosi. Sto parlando del momento in cui tu e tuo marito, dopo essere stati in analisi da tempo immemorabile, arrivate al punto in cui non riuscite a prendere nessuna decisione, per quanto insignificante, senza che entrambi i vostri psicanalisti tengano un comizio immaginario su una nuvoletta sopra le vostre teste. Vi sentite pressappoco come i guerrieri troiani dell’Iliade, con Giove e Giunone sempre in lite sopra di loro. Sto parlando di quel momento in cui il vostro matrimonio diventa un ménage à quatre. Tu, lui, il vostro analista, il suo analista. Quattro in un letto. Un film decisamente vietato ai minori. Noi abbiamo vissuto in questo stato per almeno un anno, quello appena trascorso. Qualunque decisione è stata presa tenendo conto dello strizzacervelli o del processo di strizzamento. Sarà il caso di cambiare casa e prenderne una più grande? “Meglio vedere che cosa succede, prima.” (Un eufemismo di Bennett che significa: torniamo sul divano.) Che cosa ne diresti se avessimo un bambino? “Meglio cercare di far funzionare le cose, prima.” E se ci iscrivessimo a un nuovo tennis club? “Meglio vedere come si mettono le cose, prima.” Pensi che dovremmo divorziare? “Meglio cercare di capire il significato inconscio del divorzio, prima.” Perché in realtà eravamo ormai arrivati a quel momento cruciale del matrimonio (cinque anni e le lenzuola avute come regalo di nozze quasi consumate del tutto) quando bisogna assolutamente decidere se comperare delle lenzuola nuove, avere un figlio (forse), e continuare a vivere insieme sopportando la reciproca pazzia, oppure mandare all’aria quel fantasma di matrimonio (buttare via le lenzuola) e ricominciare a saltabeccare da un letto all’altro. La decisione, com’è naturale, era ulteriormente complicata dall’analisi, dato che l’analisi si fonda sull’ipotesi che l’analizzato migliora continuamente (non importa se tutto sembra dimostrare il contrario). Il ritornello è pressappoco questo: “Oh! Ero così autodistruttiva quando ti ho sposato, tesoro, ma adesso sto moooolto meglio! Ce l’ho fattaaaa!” (Insinuando che tanto vale che ti trovi un marito migliore, più bello, più gentile, più intelligente, e magari perfino più fortunato in borsa.) Al che lui potrebbe rispondere: “Oh! Odiavo tutte le donne quando mi sono preso la cotta per te, tesoro, ma adesso va moooolto meglio! Ce l’ho fattaaaa!” (Insinuando che tanto vale che lui si trovi una donna più dolce, più carina, più intelligente, che sappia cucinare meglio e magari in procinto di ereditare un mucchio di grana dal padre.) “Cerca di rinsavire, Bennett, vecchio mio,” gli dicevo (quando sospettavo che stesse crogiolandosi in pensieri del genere), “finirai probabilmente per sposare una donna più fallica, castrante, narcisista di me.” (La prima cosa da imparare, quando si è la moglie di uno strizzacervelli, è come ritorcere contro di lui, nei momenti più opportuni, tutti i paroloni che usa di solito.) Ma anche a me venivano le stesse idee e, se lo sapeva, Bennett non me lo lasciava certo capire. Sembrava che ci fosse qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel nostro matrimonio. Le nostre vite scorrevano parallele come le rotaie del tram. Bennett passava le giornate allo studio, all’ospedale, dall’analista, e poi ancora le serate allo studio, di solito fino alle nove o alle dieci. Io insegnavo due giorni alla settimana e passavo il resto del tempo a scrivere. Il mio orario di insegnamento era leggero, le ore passate a scrivere estenuanti, e di solito quando Bennett tornava a casa io avevo una voglia matta di uscire a sfogarmi. Avevo già avuto una dose massiccia di solitudine, ore e ore passate a tu per tu con la macchina da scrivere e le mie fantasie. E incontravo uomini dappertutto. Il mondo sembrava pieno di uomini disponibili, interessanti, belli, proprio quelli che non incontravo mai prima di sposarmi. Ma che cosa non andava nel matrimonio? Anche se si ama il proprio marito arriva inevitabilmente il momento in cui scopare con lui è come mangiare un formaggino alla panna: riempie, ingrassa perfino, ma niente sapori eccitanti, niente gusto dolce-amaro, niente pericoli. E quello che si vuole invece è un pezzo di Camembert stagionato, un caprino di quelli rari: succulento, cremoso, piccante. Io non ero contraria al matrimonio. In realtà ci credevo. Era necessario avere un amico sincero in un mondo ostile, una persona con la quale essere solidale in qualunque circostanza, qualcuno che fosse solidale con te in qualunque circostanza. Ma tutti quei desideri che dopo un po’, inevitabilmente, il matrimonio non riusciva più a soddisfare? La smania, il desiderio, il sangue che pulsa nelle viscere, nella figa, la voglia matta di essere riempita, chiavata in ogni buco, la voglia di champagne secco e baci umidi, del profumo delle peonie in un attico in una notte di giugno, della luce alla fine del molo in Gatsby… non proprio di queste cose (perché si sa benissimo che i ricchi sono noiosissimi), ma di quello che queste cose evocano. Le parole sardoniche, dolciamare delle canzoni d’amore di Cole Porter, le tristi, sentimentali liriche di Rodgers e Hart, tutte le sciocchezze romantiche che metà del vostro cuore desidera e l’altra metà deride spietatamente. Diventare donna in America. Che impresa! Si vien su con la testa piena di pubblicità di cosmetici, canzoni d’amore, consigli di giornali femminili, troioscopi, pettegolezzi di Hollywood e dilemmi morali da teleromanzo a puntate. Che litanie vi cantano i pubblicitari della vita felice! Che razza di catechismo! “Attente ai fianchi!” “Arrossisci come vuoi tu.” “Libera e bella nei tuoi capelli.” “Vuoi un corpo diverso? Ci pensiamo noi.” “Quella luce sul tuo viso deve venire da lui, non dalla tua pelle.” “Ne hai fatta di strada, piccola.” “Come sedurre tutti i maschi dello zodiaco.” “Le stelle e la vostra sensualità.” “Per un vero uomo, Cutty Sark.” “Un diamante è per sempre.” “Se avete problemi, ‘dopo’…” “È lunga e lascia la bocca fresca.” “Come ho risolto il problema dell’igiene intima.” “Calma, ragazze! Abbiamo quello che fa per voi.” “La donna che si distingue usa Chanel N° 5.” “Che cosa ‘convince’ una ragazza timida?” “Femme, gli abbiamo dato il tuo nome.” Quello che tutti gli slogan e i troioscopi suggerivano era che a essere abbastanza narcisiste, a prendersi la dovuta cura di odori, capelli, tette, ciglia, ascelle, inguine, stelle, vestito e Scotch preferito, c’erano grosse probabilità di incontrare un uomo bello, aitante, potente e ricco che poteva soddisfare qualunque nostro desiderio, riempire qualunque buco, far perdere i colpi al nostro cuore (o farlo fermare del tutto), scoppiarci nel cervello e portarci in volo (preferibilmente su ali di tulle) nella sua casa in cima al mondo, dove avremmo potuto vivere per sempre con lui felici e contente. E la cosa più incredibile è che anche se eri intelligente, anche se avevi passato gli anni dell’adolescenza a leggere John Donne e Shaw, anche se avevi studiato storia o geologia o fisica e speravi di passare il resto della vita dedicandoti a qualche carriera lunga e difficile… avevi comunque la testa piena di tutte le fantasie melense in cui si crogiolano le ragazzine del liceo. Non importa se avevi un quoziente di intelligenza di 170 o di 70, il tuo cervello era perfettamente lavato. Le trappole erano diverse soltanto in superficie. Soltanto i discorsi erano un po’ più sofisticati. Sotto sotto anche tu non desideravi altro che essere travolta dalla passione, perdere la testa, farti riempire da un cazzo gigante stillante sperma, saponata, sete e velluti e, naturalmente, soldi. Nessuno si era mai preoccupato di dirti che cos’è veramente il matrimonio. Non avevi nemmeno, come le ragazze europee, un fondo di sano cinismo e praticità. Ti aspettavi davvero di non desiderare mai più un altro uomo dopo il matrimonio. E ti aspettavi anche che a tuo marito non passasse nemmeno per la testa di desiderare un’altra donna. Poi invece li desideravi gli altri uomini, eccome, ed eccoti precipitare nel panico, nei sensi di colpa. Che razza di donna eri mai? Come potevi continuare a innamorarti di uomini che non conoscevi nemmeno? Come potevi fissare a quel modo la patta dei loro pantaloni? Come potevi startene lì, a una riunione, e immaginare come dovevano essere a letto tutti gli uomini presenti? Come potevi startene seduta nello scompartimento di un treno e scopare con gli occhi un perfetto sconosciuto? Come potevi far questo a tuo marito? Nessuno ti aveva mai detto che forse tutto questo non aveva niente a che fare con tuo marito? E tutti gli altri desideri che il matrimonio ha soffocato? Il desiderio di prendere la tua strada e andare, di scoprire se eri ancora capace di vivere sola con te stessa, di scoprire se eri in grado di sopravvivere da sola in una capanna in mezzo ai boschi senza diventare matta; di scoprire, in breve, se eri ancora tutta intera dopo anni e anni durante i quali eri stata soltanto la metà di qualcosa (come le gambe posteriori di un cavallo finto sul palcoscenico di un vaudeville). Cinque anni di matrimonio mi avevano fatto venire una voglia matta di tutte queste cose: di uomini e di solitudine, di sesso e di vita claustrale. Sapevo che i miei desideri erano contraddittori e questo non faceva che peggiorare le cose. Sapevo che i miei desideri erano anti-americani, e questo non faceva che peggiorare ulteriormente le cose. In America scegliere di essere qualcosa di diverso dalla metà di una coppia è un’eresia. La solitudine è anti-americana. La si può perdonare a un uomo, specialmente a uno “scapolo sensazionale”, di quelli che portano fuori una “stellina” diversa tutte le sere nei brevi intervalli tra un matrimonio e l’altro. Ma si suppone sempre che una donna sola sia stata abbandonata, mai che abbia scelto di vivere così. E viene trattata di conseguenza, come un paria. Per una donna, in definitiva, non esiste un modo di vivere dignitosamente sola. Oh, può darsi che riesca a cavarsela finanziariamente (anche se non certo come un uomo), ma emotivamente non viene lasciata un attimo in pace. Gli amici, la famiglia, i compagni di lavoro non le permettono di dimenticare nemmeno per un momento che è senza marito, senza figli (in breve, che è un’egoista), e che la sua condotta è una critica al sistema di vita americano. Ancora peggio: la donna (anche se sa che le sue amiche sposate conducono una vita infelicissima) non sa darsi pace. Vive costantemente come se stesse per risolvere tutti i suoi problemi, per soddisfare tutte le sue esigenze. Come se stesse aspettando il Principe Azzurro che la porti via da “tutto quanto”. Tutto quanto che cosa? La solitudine di vivere con se stessa? La certezza di essere se stessa invece che la metà di qualcosa? Io non ero arrivata al punto (non ancora) di cercarmi un amante e nemmeno (non ancora) di andarmene per la mia strada: mi limitavo a fantasticare continuamente sulla scopata senza cerniera. La scopata senza cerniera è molto più di una scopata pura e semplice. È un ideale platonico. Senza cerniera perché al momento buono le cerniere cadono come i petali di una rosa sfiorita, la biancheria si sparge nel vento come la bambagia di un soffione. Le lingue si intrecciano e si liquefano. L’anima scivola come un sospiro nella lingua e poi nella bocca dell’amante. Nella vera scopata senza cerniera, in quella di prima categoria non si arriva mai a conoscere l’uomo. Avevo avuto modo di notare, per esempio, che tutte le mie cotte svanivano come neve al sole appena facevo amicizia con l’uomo, appena cominciavo a interessarmi genuinamente ai suoi problemi, appena mi decidevo ad ascoltare le sue lagne sulla moglie, o sulle ex mogli, sulla madre, sui bambini. Dopo continuava a piacermi, magari continuavo ad amarlo, ma la passione se n’era andata. E io invece volevo proprio la passione. Avevo anche imparato che esisteva un modo sicuro di esorcizzare una cotta: bastava cominciare a scrivere sul soggetto amato, osservare attentamente i suoi tic, vivisezionare la sua personalità alla macchina da scrivere. Dopodiché l’amato bene si trasformava in un insetto da collezione, in un ritaglio di giornale rivestito di plastica. Potevo anche divertirmi in sua compagnia, potevo perfino ammirarlo, ma non aveva più il potere di farmi svegliare tremante nel cuore della notte. Non lo sognavo più, aveva un volto. E così un’altra delle condizioni essenziali della scopata senza cerniera è la brevità. E anche l’anonimità: l’anonimità è il massimo. Quando vivevo a Heidelberg andavo quattro volte alla settimana a Francoforte per farmi psicanalizzare. Francoforte distava un’ora di treno, una all’andata e una al ritorno, e i treni cominciarono ad avere una parte importante nelle mie fantasie. Continuavo a incontrare uomini bellissimi in treno, uomini che non sapevano nemmeno una parola di inglese, uomini che la mia ignoranza del francese, dell’italiano e anche del tedesco mi impediva di vedere nella loro vera luce. Odio fare una ammissione del genere, ma in Germania c’è qualche uomo veramente bello. Forse lo scenario ideale della scopata senza cerniera mi era stato suggerito da un film italiano che avevo visto anni prima. Col passare del tempo avevo abbellito le immagini e le avevo trasformate a mio uso e consumo. Continuavano a passarmi e ripassarmi davanti agli occhi mentre facevo la spola tra Heidelberg e Francoforte e tra Francoforte e Heidelberg: Uno sporco scompartimento di un treno europeo (seconda classe). Sedili di finto cuoio, duri. Una porta scorrevole si apre sul corridoio. Rami di ulivo entrano dai finestrini. Due contadine siciliane sono sedute dalla stessa parte con una bambina nel mezzo. Probabilmente nonna, figlia e nipotina. Le due donne fanno a gara per riempire di cibo la bocca della bambina. Di fronte a loro, vicino al finestrino, siede una giovane vedova con un pesante velo nero e un vestito nero attillato che rivela un corpo voluttuoso. Sta sudando copiosamente e ha gli occhi gonfi. Il sedile di mezzo è vuoto. Vicino al corridoio siede una donna grassissima, enorme, con i baffi. I suoi fianchi straripanti occupano quasi metà del sedile centrale libero. Sta leggendo un fotoromanzo: fotografie dei personaggi e il dialogo dentro nuvolette di fumo sulle loro teste. I cinque viaggiano per un po’ scossi dal movimento del treno. La vedova e la grassona in silenzio; la mamma e la nonna parlano con la bambina e fra di loro, di cibo. Poi il treno si ferma stridendo in un paese chiamato (forse) CORLEONE. Un militare alto, dall’aria languida, con la barba lunga ma con una bellissima capigliatura, una fossetta sul mento e occhi sornioni, quasi diabolici, entra nello scompartimento, getta intorno uno sguardo insolente, vede il sedile vuoto tra la vedova e la grassona e, dopo una profusione di “scusi, scusi” si siede. È sudato e arruffato, ma resta uno splendido pezzo di maschio, solo vagamente rancido per il caldo. Il treno riparte stridendo ed esce dalla stazione. Lo spettatore per un po’ si accorge solo del movimento del treno e dello sfregare ritmico delle cosce del militare contro quelle della vedova. Naturalmente le gambe dell’uomo sfregano anche i fianchi della grassona, che tenta di tirarsi in là ma potrebbe anche farne a meno perché lui non sembra proprio accorgersi della sua presenza. Sta guardando la grossa croce d’oro al collo della vedova: oscilla avanti e indietro col movimento del treno dentro la profonda fessura tra i seni. Op. Pausa. Op. Salta su un seno umido e poi sull’altro. Sembra esitare per un attimo nel mezzo come se fosse paralizzata tra due magneti repellenti. Il pozzo e il pendolo. Il militare è ipnotizzato. La vedova guarda fuori dal finestrino, fissando con tanto d’occhi ogni ulivo che sfugge via, come se non avesse mai visto un ulivo in vita sua. Lui si alza in piedi con movimenti goffi, fa un mezzo inchino alle signore e comincia a darsi da fare per aprire il finestrino. Quando si rimette a sedere sfiora per caso con il braccio il ventre della vedova. La donna non sembra farci caso. Lui abbandona la mano sinistra fra la sua coscia e quella di lei e comincia a lasciar vagare le dita insinuanti nella carne morbida della donna. Lei continua a guardare fuori dal finestrino: fissa gli ulivi come se fosse Dio, li avesse appena creati e si stesse chiedendo come battezzarli. Nel frattempo la grassona sta riponendo il fotoromanzo in una borsa di rete di plastica verde iridescente piena di formaggi puzzolenti e di banane annerite. La nonna sta arrotolando dei salamini in un pezzo di carta di giornale tutta unta. La madre sta infilando un golfino alla bambina e le deterge la faccia con un fazzoletto che ha appena inumidito sputandoci amorosamente sopra. Il treno si ferma stridendo in un paese chiamato (forse) PRIZZI, e la grassona, la madre, la nonna e la bambina escono dallo scompartimento. Il treno ricomincia a muoversi. La croce d’oro ricomincia a saltare su e giù e a fermarsi nella fessura fra i seni turgidi della vedova, le dita ricominciano a chiudersi sotto le cosce; la vedova continua a fissare gli ulivi fuori dal finestrino. Poi le dita scivolano fra le cosce della donna, cercano di dividerle, si muovono in su, verso il tratto di carne nuda fra le pesanti calze nere e le giarrettiere, scivolano sotto le giarrettiere fino alla nicchia umida fra le gambe di lei che non porta mutandine. Il treno entra in una galleria e nella semioscurità il simbolismo viene consumato. Poi, uno degli stivali del soldato a mezz’aria, le pareti buie della galleria, il movimento ipnotico del treno e il lungo fischio acuto della locomotiva che emerge finalmente dal tunnel. Senza una parola la donna scende dal treno in un paese chiamato, forse, BIVONA. Attraversa le rotaie, guardando attentamente dove mette i piedi calzati di scarpine strette, nere e delle solite calze nere e pesanti. Lui la segue con lo sguardo come se fosse Adamo e si stesse chiedendo che nome darle. Poi all’improvviso sembra svegliarsi e schizza giù dal treno per inseguirla. Proprio in quel momento un lungo treno merci passa sul binario vicino e gliela nasconde alla vista, impedendogli di seguirla. Passano venticinque vagoni e la donna sparisce per sempre. Uno scenario ideale per la scopata senza cerniera. Senza cerniera non perché gli uomini europei portano i bottoni al posto della cerniera, e non perché i protagonisti sono così incredibilmente attraenti, ma perché l’avvenimento ha tutta la velocità e la concentrazione di un sogno e come un sogno sembra libero da rimorsi e sensi di colpa; perché non si parla del marito defunto di lei o della fidanzata di lui; perché non si cerca di razionalizzare; perché non si parla per niente. La scopata senza cerniera è assolutamente pura. Non ha motivazioni recondite. Non ci sono giochi di potere. L’uomo non “prende” e la donna non “dà”. Nessuno sta cercando di far cornuto un marito o di umiliare una moglie. Nessuno sta cercando di provare qualcosa o di ottenere qualcosa da qualcuno. La scopata senza cerniera è la cosa più pura del mondo. È più rara di un unicorno. E io non l’ho mai avuta. Tutte le volte che ci sono andata vicino ho scoperto che l’unicorno era di cartapesta oppure che si trattava di due clown travestiti da unicorno. Con Alessandro, il mio amico fiorentino, sono andata vicino alla scopata senza cerniera. Ma poi ho scoperto che anche lui era un clown travestito da unicorno. Pensate a questo arazzo che è la mia vita. 1 Cibo permesso dalla religione ebraica. (N.d.T.) 2. “Tutte le donne adorano i fascisti” Tutte le donne adorano i fascisti, una pedata in faccia, il cuore brutale di un bruto come te. Sylvia Plath Alle sei di mattina atterrammo al Flughafen di Francoforte e passammo alla spicciolata in un salone con il pavimento di linoleum che, malgrado fosse nuovo e scintillante, mi fece pensare a campi di sterminio e deportazioni. Aspettammo un’ora mentre il 747 si riforniva di carburante. Tutti gli analisti sedevano rigidi su sedie di fiberglass inesorabilmente disposte in fila: grigio, giallo, grigio, giallo, grigio, giallo… la tristezza di quell’accostamento di colori era uguagliata solo dalla tristezza delle facce degli strizzacervelli. La maggior parte portava a tracolla costose macchine fotografiche e, malgrado i capelli un po’ lunghi, i tentativi di barba, gli occhiali cerchiati di metallo (e le mogli abbigliate in stile piccolo borghese-hippy: sandali di cuoio, scialli messicani, argenti del Village), trasudavano rispettabilità da tutti i pori. La tetra essenza del conformismo. Era proprio questo, a pensarci bene, che mi dava fastidio nella maggior parte degli analisti. Accettavano ciecamente l’ordine prestabilito. Le loro opinioni politiche vagamente sinistrorse, le sottoscrizioni delle petizioni pacifiste e le riproduzioni di Guernica alle pareti dello studio non significavano niente. Quando si arrivava alle questioni cruciali: la famiglia, la condizione della donna, i mucchi di dollari che passavano dalle tasche del paziente a quelle del dottore, erano reazionari. Rigidi ed egoisti come i social-darwinisti dell’epoca vittoriana. “Ma le donne sono da sempre il potere dietro le quinte,” aveva detto il mio ultimo analista quando avevo cercato di spiegargli che mi sentivo disonesta perché cercavo sempre di ottenere quello che volevo dagli uomini facendo uso del mio potere di seduzione. Avevamo avuto uno scontro definitivo proprio qualche settimana prima del viaggio a Vienna. Per la verità Kolner non mi aveva mai ispirato fiducia, ma avevo continuato ad andare da lui perché pensavo che quell’antipatia fosse un mio problema. “Ma non capisce,” gli avevo gridato dal divano, “è proprio questo il guaio! Le donne che si servono del sesso per manovrare gli uomini, che reprimono la loro rabbia genuina, che non possono mai essere franche e aperte…” Ma il Dott. Kolner riusciva soltanto a considerare un problema nevrotico tutto quello che sapeva anche lontanamente di movimento di liberazione della donna. Qualunque dichiarazione contro il comportamento femminile tradizionale doveva essere per forza “fallica” e “aggressiva”. Avevamo discusso e cavillato su questa questione per molto tempo, ma fu quell’accenno infelice al “potere dietro le quinte” a farmi finalmente capire con chi avevo a che fare. “Io non credo quello che crede lei,” urlai, “e non rispetto le sue opinioni e non rispetto nemmeno lei proprio perché ha queste opinioni. Se riesce a fare in buona fede affermazioni come questa del potere dietro le quinte, com’è possibile che capisca qualcosa di me e delle cose contro cui sto cercando di lottare? Non voglio vivere secondo le sue regole. Non voglio quel genere di vita e non vedo perché dovrei permettere che lei mi giudichi secondo gli standard di quel genere di vita. E poi credo proprio che lei non capisca niente di donne.” “Forse è lei che non capisce cosa vuol dire essere donna,” replicò. “Oh, Dio! Ecco la scappatoia finale. Ma non capisce che gli uomini hanno sempre usato questa storia della femminilità per tenere le donne al loro posto? Perché deve essere lei a dirmi che cosa significa essere donna? È forse una donna lei? Perché non dovrei dar retta a me stessa, tanto per cambiare? E alle altre donne. Io parlo con loro. E loro mi parlano di sé… e, dannazione, provano esattamente le stesse cose che provo io… anche se la Società Psicanalitica Americana non le eleggerebbe Massaie Ideali.” Continuammo per un po’ su quel tono, urlando come due ossessi. Mi odiavo perché sentivo che stavo parlando come uno stramaledetto volantino e perché mi ero fatta incastrare in una discussione polarizzata, semplicistica. Sapevo che stavo trascurando le sfumature del problema. Sapevo che c’erano altri analisti (il mio analista tedesco, per esempio) che non si ostinavano su queste cretinate misogine. Ma odiavo anche Kolner, per la sua ristrettezza mentale e perché mi stava facendo buttar via tempo e soldi solo per propinarmi una serie di cliché triti e ritriti sulla posizione della donna. Che cosa credeva di dire? Frasi di quel genere si trovavano a dozzine nei bigliettini dei biscotti cinesi. E non costavano 40 dollari ogni cinquanta minuti. “Se questo è davvero quello che pensa, non so perché non pianta in asso tutto quanto,” sputò Kolner. “Chi glielo fa fare di star qui ad ascoltare le mie cazzate?” Ecco com’era Kolner. Appena si sentiva aggredito, diventava cattivo e cominciava con le parolacce, tanto per far vedere che era “moderno”. “Tipico complesso dell’uomo piccolo,” brontolai. “Che cos’ha detto?” “Oh, niente.” “Avanti, lo ripeta. Non abbia paura, posso sopportare qualunque cosa.” Il grande uomo. L’analista senza macchia e senza paura. “Stavo pensando, Dott. Kolner, che lei ha quello che nella letteratura psichiatrica viene definito ‘complesso dell’uomo piccolo’. Quando qualcuno le fa notare che dopotutto non è Dio Onnipotente lei perde il controllo e comincia a sputare parolacce. Lo so che dev’essere duro misurare soltanto un metro e sessanta in altezza… ma suppongo che lei sia stato in analisi e adesso dovrebbe farcela a superare il complesso.” “Lei può dire quello che vuole. Chi lo dice sa di esserlo,” ringhiò Kolner. Era regredito di colpo. Roba da quinta elementare. E pensava di essere spiritoso. “Senta… che cosa le fa credere di potermi propinare impunemente tutta una serie di cliché (e io dovrei anche esserle grata per il suo eccezionale istinto e perfino pagare per ascoltarla), e poi, se io faccio la stessa cosa… e ne ho tutti i diritti, considerando i soldi che caccio, di diventare furioso e cominciare a parlare come un ragazzino dispettoso.” “Io ho detto soltanto che se lei la pensa così, dovrebbe piantarmi in asso. Andarsene. Uscire di qui. Sbattere la porta. Dirmi di andare all’inferno.” “E riconoscere che gli ultimi due anni e le migliaia di dollari che sono passati dalle mie tasche alle sue sono stati una perdita assoluta? Può darsi che lei possa mandare tutto al diavolo con tanta facilità… ma io ho qualche dannata ragione in più per continuare a illudermi che tutto questo sia servito a qualcosa.” “Può sempre cercare di capire che cos’è successo con l’aiuto del suo prossimo analista,” disse Kolner. “Può cercare di capire che cosa non andava, secondo lei…” “Secondo me! Ma non riesce a capire come mai un sacco di gente comincia ad avere le palle piene dell’analisi? È tutta colpa vostra, tutta colpa di voi analisti del cazzo. Riducete il processo a una specie di Comma 22. Il paziente parla, parla, parla e continua a pagare, pagare, pagare e poi quando siete troppo ottusi per riuscire a capire che cosa sta succedendo o comunque quando vi accorgete che non siete in grado di aiutare il paziente, non fate altro che prolungare la durata dell’analisi oppure gli dite di andare da un altro analista per cercare di capire che cosa non andava con il primo analista. Ma possibile che non riusciate a capire l’assurdità di tutto questo?” “L’unica cosa che mi sembra assurda è il fatto di starmene seduto qui ad ascoltare una tirata come questa. E così non posso fare altro che ripeterle quello che ho già detto. Se così non le va bene, perché non si alza e si toglie dalle scatole?” Come in sogno (non avrei mai creduto di essere capace di farlo) mi alzai dal divano (quanti anni avevo passato sdraiata là sopra?), presi il mio taccuino, e camminai (no, non ce la feci a “saltellare”, anche se mi piacerebbe averlo fatto) fino alla porta. Uscii e la chiusi piano dietro di me. Niente porte sbattute… avrei rovinato l’effetto. Addio Kolner. Per un attimo nell’ascensore fui lì lì per piangere. Il tempo di superare due isolati lungo la Madison Avenue ed ero al settimo cielo. Niente più sedute alle otto! Niente dubbi tipo “chissà poi se serve a qualcosa” al momento di firmare quelle sberle di assegni ogni mese! Niente più litigate da suffragetta con il Dott. Kolner! Ero libera! E poi, tutti quei soldi che non ero più costretta a spendere! Mi tuffai in un negozio di scarpe e spesi immediatamente 40 dollari per un paio di sandali bianchi con catenelle dorate. Mi fecero sentire meglio di quanto mi fossi mai sentita dopo cinquanta minuti passati con il Dott. Kolner. O.K., e così non ero una donna liberata (dovevo ancora consolarmi comperando vestiti), ma almeno mi ero sbarazzata di Kolner. Era sempre qualcosa. Indossavo quei sandali sul volo per Vienna e quando ci incamminammo in gruppo verso l’aereo dopo la sosta abbassai gli occhi a guardarli. Dovevo mettere avanti il piede sinistro o il destro per impedire all’aereo di fracassarsi? Come potevo prevenire il disastro se non mi ricordavo nemmeno cose come questa? “Mamma,” mormorai. Mormoro sempre “Mamma” quando ho paura. La cosa strana è che non chiamo né ho mai chiamato mia madre “Mamma”. Lei mi ha chiamato Isadora Zelda, ma io cerco sempre di dimenticare il Zelda. (Mi è sembrato di capire che era indecisa anche fra Olympia, dalla Grecia, e Justine, da Sade.) Per renderle la pariglia, la chiamo Jude.2 Il suo vero nome è Judith. Nessuno tranne la mia sorella più piccola la chiama mai mamma. Vienna. Un nome che è come un valzer. Ma non sono mai riuscita a sopportare questa città. Mi è sempre sembrata morta. Imbalsamata. Arrivammo alle nove di mattina… proprio mentre l’aeroporto si stava animando. WILLKOMMEN IN WIEN. Passammo faticosamente la dogana trascinandoci dietro le valigie, istupiditi dalla nottata insonne passata in volo. L’aeroporto era scintillante, pulitissimo. Pensai al grado di disordine, sporcizia e caos a cui sono abituati i newyorchesi. Il ritorno in Europa era sempre un po’ uno shock. Le strade sembravano innaturalmente pulite. I parchi sembravano innaturalmente pieni di panchine, fontane e cespugli di rose intatti. Le aiuole pubbliche sembravano innaturalmente ordinate. Perfino i telefoni pubblici funzionavano a dovere. Gli ufficiali doganali lanciarono un’occhiata distratta alle nostre valigie e in meno di venti minuti fummo a bordo di un autobus che l’Accademia di Psichiatria di Vienna ci aveva riservato. Salimmo con l’ingenua speranza di arrivare all’albergo in pochi minuti e andare a dormire. Non sapevamo che l’autobus avrebbe serpeggiato per tutte le strade di Vienna fermandosi a sette alberghi diversi prima di arrivare al nostro, quasi tre ore più tardi. Arrivare all’albergo fu come uno di quei sogni in cui si deve arrivare in qualche posto prima che succeda qualcosa di terribile ma, inspiegabilmente, l’automobile continua a rompersi o ad andare all’indietro. Comunque mi sentivo intontita, arrabbiata e tutto sembrava irritarmi, quella mattina. In parte si trattava senza dubbio del panico che provavo all’idea di essere di nuovo in Germania. Avevo vissuto a Heidelberg più a lungo che in qualunque altra città tranne New York, e così la Germania (e anche l’Austria) era una specie di seconda patria per me. Parlavo abbastanza bene la lingua (meglio di tutte le lingue che avevo studiato a scuola) ed ero abituata al cibo, al vino, alle marche dei prodotti, agli orari di chiusura dei negozi, ai vestiti, alla musica popolare, al gergo, alle manie e ai pallini… Tutto come se avessi passato l’infanzia in Germania, o come se i miei genitori fossero tedeschi. Ma ero nata nel 1942 e se i miei genitori fossero stati ebrei tedeschi invece che americani sarei nata (e probabilmente anche morta) in un campo di concentramento, nonostante i capelli biondi, gli occhi azzurri e il naso da contadina polacca. Non potevo dimenticare nemmeno questo. La Germania era come una matrigna per me: terribilmente familiare e terribilmente disprezzata. Tanto più disprezzata in quanto familiare. Guardai fuori dal finestrino: vecchie signore dalle guance rubizze in pesanti cappelli tirolesi e “pratiche” scarpe beige. Guardai le loro gambe pesanti e il loro sedere pesante. Le odiavo. Vidi un cartellone pubblicitario SEI GUT ZU DEINEM MAGEN (Siate buoni con il vostro stomaco), e odiai i tedeschi che pensavano sempre al loro dannato stomaco, alla loro Gesundheit, come se fossero stati loro a inventare la salute, l’igiene e l’ipocondria. Odiai la loro fanatica ossessione per un’illusoria pulizia. Illusoria, badate bene, perché in realtà i tedeschi non sono affatto puliti. Le tendine di pizzo bianco, le trapunte che prendono aria alla finestra, le massaie che sfregano il marciapiede davanti alla casa e i bottegai che puliscono le vetrine, tutte queste cose fanno parte di un piano astutamente studiato per intimidire gli stranieri con l’igiene aggressiva della Germania. Ma provate a metter piede in un gabinetto tedesco e troverete delle attrezzature igieniche che non hanno uguali al mondo. C’è perfino una deliziosa piccola piattaforma di ceramica su cui depositare la merda in modo da poterla guardare bene prima che scompaia per sempre in un vortice di acqua, e in realtà non si vede un filo d’acqua finché non si spinge il bottone. Risultato: i gabinetti tedeschi detengono il primato assoluto per quanto riguarda la puzza di merda. (Faccio queste affermazioni da esperta globe-trotter.) Poi c’è uno straccio sporchissimo che serve da asciugamano, appeso sopra un lavandino di proporzioni molto ridotte con un solo rubinetto, quello dell’acqua fredda (che serve a far gocciolare l’acqua fredda sulla mano destra… o comunque quella delle due che vi capita di usare). Quando vivevo in Europa avevo elaborato tutta una teoria sui gabinetti. (Questo per farvi capire in che stato i tedeschi riuscivano a ridurmi.) Una volta tentai perfino di classificare i popoli basandomi sui gabinetti. “La storia del mondo attraverso i gabinetti” (avevo scritto in un accesso di ottimismo in cima a una pagina bianca del mio blocco di appunti) “un poema epico???” Inglesi: La carta igienica inglese. Tutto un programma. Rigida. Rifiuta di assorbire, di ammorbidirsi e di piegarsi (ostinazione e risolutezza). Spesso è di proprietà del governo. Nello stadio più avanzato dell’assistenza sociale persino la carta igienica viene riempita di scritte propagandistiche. Il gabinetto inglese come ultima spiaggia del colonialismo. L’acqua che precipita sopra di te come le cascate Victoria e tu, l’esploratore. Gli spruzzi sulla faccia. Per un attimo (quando tiri la corda), l’Inghilterra è ancora la regina dei mari. La catena che tiri è elegante. Nelle case patrizie (aperte al pubblico per poche lire tutte le domeniche) c’è un elegantissimo cordone. Tedeschi: I gabinetti tedeschi osservano le differenze di classe. In terza classe: carta ruvida e scura. In prima classe: carta bianca. Chiamata Spezial Krepp (non c’è bisogno di tradurre). Ma i gabinetti tedeschi sono unici al mondo, grazie al piccolo palcoscenico (tutto il mondo è un palcoscenico) sul quale cade la merda. Questo particolare ti permette di guardarla per bene, di scegliere fra i vari candidati politici e di pensare un mucchio di cose da dire al tuo psicanalista. È anche di particolare utilità a chi lavora nelle miniere di diamanti e vuole contrabbandare gemme inghiottendole. I gabinetti tedeschi sono veramente la chiave di tutti gli orrori del Terzo Reich. Gente che riesce a costruire gabinetti del genere è capace di tutto. Italiani: Spesso si è in grado di leggere qualche articolo del Corriere della Sera prima di pulirsi il sedere con le notizie. Ma in generale in Italia l’acqua scorre veloce e la merda sparisce prima che si faccia in tempo a balzare in piedi e girarsi a guardarla. Per questo gli italiani sono grandi artisti. I tedeschi hanno già la merda da guardare. In mancanza di questo passatempo, gli italiani hanno pensato di scolpire e dipingere. Francesi: I vecchi alberghi di Parigi con le loro gigantesche orme di ferro per posare i piedi ai due lati di un buco puzzolente. Aranci piantati a Versailles per coprire il puzzo di merda. Il est defendu de faire pipi dans la chambre du Roi. Nei gabinetti di Parigi la luce si accende solo quando si chiude a chiave la porta. Per qualche ragione non riesco a spiegarmi la letteratura e la filosofia francesi in termini dell’approccio francese alla merde. I francesi sono pensatori astratti, ma sono riusciti a partorire anche un poeta come Ponge, in grado di scrivere un poema epico sul sapone. Come mettere tutto questo in relazione con i gabinetti francesi? Giapponesi: Accovacciarsi è un fatto fondamentale nella vita orientale. La tazza è nel pavimento. Tutt’intorno decorazioni floreali. Tutto questo ha a che fare con lo Zen. (Cf. Suzuki.) Era già passato mezzogiorno quando arrivammo finalmente all’albergo e scoprimmo che ci era stata assegnata una stanzetta all’ultimo piano. Io volevo reclamare ma Bennett preferiva andare a dormire subito. Così tirammo le tende per chiuder fuori il sole di mezzogiorno, ci spogliammo e crollammo sul letto senza nemmeno disfare i bagagli. Malgrado la novità del posto, Bennett si addormentò di colpo. Io mi rigirai e lottai con la trapunta finché mi assopii in un dormiveglia affollato di sogni di nazisti e disastri aerei. Continuavo a svegliarmi con il cuore in tumulto, battendo i denti. Era lo stato di panico in cui piombavo sempre il primo giorno in cui mi trovavo lontana da casa, ma questa volta era peggio del solito perché eravamo di nuovo in Germania. Desideravo già di non essere partita per quel viaggio. Verso la tre e mezzo ci svegliammo e facemmo all’amore, languidamente, su uno dei lettini. Mi sembrava ancora di sognare e continuavo a far finta che Bennett fosse un altro. Ma chi? Non riuscivo a vederlo chiaramente. Non ci ero mai riuscita. Chi era quest’uomo fantasma che mi ossessionava? Mio padre? Il mio analista tedesco? Il protagonista della scopata senza cerniera? Perché non riuscivo mai a metterne a fuoco il viso?