sabato 4 gennaio 2020



LA CONOSCENZA E I SUOI NEMICI
 Tom Nichols

 L’età dell’incompetenza e i rischi per la democrazia


Prefazione
 “La fine della competenza” è una di quelle frasi che annunciano in modo pomposo la propria presunzione. È un titolo che rischia di respingere molti lettori ancor prima che aprano il libro, quasi sfidandoli a trovare un errore da qualche parte, solo per poter tacciare l’autore di arroganza. Comprendo questo tipo di reazioni, perché anch’io la penso allo stesso modo nei confronti di dichiarazioni tanto assolute. La nostra vita culturale e letteraria è piena di funerali prematuri: la vergogna, il buonsenso, la mascolinità, la femminilità, l’infanzia, il buongusto, l’alfabetizzazione, la punteggiatura, ecc. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è l’ennesimo panegirico per una cosa che, lo sappiamo, non è affatto morta. Se le competenze di settore non sono morte, sono però nei guai. Qualcosa è andato terribilmente storto. Oggi l’America è un Paese ossessionato dal culto della propria ignoranza. Il punto non è soltanto che la popolazione non ne sa molto di scienze, di politica o di geografia (di fatto è così, ma è un vecchio problema). E, in verità, non è neanche un problema, poiché viviamo in una società che funziona grazie alla divisione del lavoro, sistema ideato per liberare ciascuno di noi dalla necessità di sapere tutto. I piloti fanno volare gli aeroplani, gli avvocati dibattono le cause legali, i medici prescrivono farmaci. Nessuno di noi è Leonardo da Vinci, che dipingeva la Gioconda al mattino e progettava elicotteri di notte. E così dev’essere. No, il problema più grande è che siamo orgogliosi di non sapere le cose. Gli americani sono arrivati a considerare l’ignoranza, soprattutto su ciò che riguarda la politica pubblica, una vera e propria virtù. Per gli americani rifiutare l’opinione degli esperti significa affermare la propria autonomia, un modo per isolare il proprio ego sempre più fragile e non sentirsi dire che stanno sbagliando qualcosa. È una nuova Dichiarazione di indipendenza: non riteniamo più ovvie queste verità, le consideriamo tutte ovvie, anche quelle che vere non sono. Tutte le cose sono conoscibili e ogni opinione su un qualsiasi argomento vale quanto quella di chiunque altro. Non siamo di fronte alla tradizionale avversione americana per gli intellettuali e i sapientoni. Sono un professore e lo capisco bene: alla maggior parte delle persone i professori non piacciono. A inizio carriera, quando cominciai a insegnare, circa trent’anni fa, lavoravo in un college non distante dalla mia città di origine e spesso facevo un salto alla piccola tavola calda di proprietà di mio fratello per salutarlo. Una sera, dopo che me ne fui andato, uno dei clienti abituali si rivolse a mio fratello e disse: “E quindi è un professore, eh? Sembra un tipo a posto, però”. Se fai il mio lavoro, ci fai l’abitudine. Ma non è questo il motivo per cui ho scritto il libro che tenete in mano. Gli intellettuali che si arrabbiano per le battute taglienti sulla loro inutilità dovrebbero cambiare lavoro. Ho fatto l’insegnante, il consulente politico, l’esperto di temi specifici sia per il governo sia per l’industria privata e il commentatore su diversi media. Sono abituato al fatto che la gente non si trovi d’accordo con me; anzi, è un atteggiamento che incoraggio. I dibattiti informati su questioni di principio sono un segno di salute e di vitalità intellettuale in una democrazia. Piuttosto, ho scritto questo libro perché sono preoccupato. Non ci sono più dibattiti informati su questioni di principio. Il sapere di base dell’americano medio è ormai talmente basso da essere crollato prima al livello di “disinformazione”, superando nello slancio la “cattiva informazione”, e ora sta sprofondando nella categoria “errore aggressivo”. La gente non solo crede alle sciocchezze, si oppone anche attivamente a imparare di più, pur di non abbandonare le proprie errate convinzioni. Non sono vissuto al tempo del Medioevo, per cui non posso dire che assistiamo a qualcosa di mai visto prima, ma finora, che io ricordi, non ho mai visto nulla del genere. E non è la prima volta che mi sono ritrovato a pensare a questo argomento. Verso la fine degli anni Ottanta, quando lavoravo a Washington, mi resi conto che la gente ci metteva poco, anche in una conversazione superficiale, a istruirmi su cosa andava fatto in tutta una serie di settori, soprattutto in quelli di cui mi occupavo, ovvero il controllo degli armamenti e la politica estera (come al solito, si trattava di ciò che “gli altri” avrebbero potuto fare: “loro dovrebbero…”). Ero giovane e ancora non potevo considerarmi un esperto navigato, ma mi stupì il modo in cui persone che non sapevano nulla di questi argomenti mi tenessero con grande disinvoltura lezioni su come ottenere la pace tra Mosca e Washington. Fino a un certo punto era comprensibile. La politica sollecita la discussione. E soprattutto durante il periodo della Guerra Fredda, quando la posta in gioco era l’annientamento globale, la gente voleva essere ascoltata. Ho accettato questo fatto, convinto che facesse parte del prezzo da pagare per chi lavora nel mondo della politica pubblica. Con il passare del tempo, ho scoperto che altri specialisti di diverse aree di intervento politico avevano avuto la mia stessa esperienza ed erano stati sottoposti a disquisizioni infondate, da parte di profani, su tasse, bilanci, immigrazione, ambiente e mille altri argomenti. Se sei un esperto di politica, questo fa parte del tuo lavoro. In anni più recenti, tuttavia, ho iniziato a sentire lo stesso tipo di storie dai medici. E dagli avvocati. E dagli insegnanti. E infine da molti altri professionisti, il cui parere in genere non è facile da contraddire. Questi racconti mi hanno stupito: non riguardavano pazienti o clienti che ponevano domande ragionevoli, bensì pazienti e clienti che dicevano energicamente a dei professionisti perché la loro opinione era sbagliata. In ogni caso, l’idea che l’esperto sapesse cosa stava facendo veniva scartata quasi senza pensarci. Quel che è peggio, oggi a colpirmi non è tanto il fatto che la gente rifiuti la competenza, ma che lo faccia con tanta frequenza e su così tante questioni, e con una tale rabbia. Di nuovo, forse gli attacchi alla competenza sono più evidenti per via dell’onnipresenza di internet, dell’indisciplina che governa le conversazioni sui social media o delle sollecitazioni poste dal ciclo di notizie ventiquattr’ore su ventiquattro. Ma l’arroganza e la ferocia di questo nuovo rifiuto della competenza indicano, almeno per me, che il punto non è più non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative: è una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione. Ciò rende molto più difficile per gli esperti ribattere e convincere la gente a ragionare. A prescindere dall’argomento, la discussione viene sempre rovinata da un rabbioso egocentrismo e termina senza che nessuno abbia cambiato posizione, a volte con la compromissione di relazioni professionali o perfino di amicizie. Invece di dibattere, oggi ci si aspetta che gli esperti accettino queste espressioni di dissenso, come se fossero, nel peggiore dei casi, un’onesta divergenza di opinioni. Dovremmo “accettare di non essere d’accordo” (agree to disagree), espressione che ormai è usata in modo indiscriminato come una specie di estintore quando una conversazione tende a infiammarsi. E se insistiamo nel dire che alcune cose non sono questioni di opinione, che ci sono cose giuste e altre sbagliate… be’, a quanto pare ci stiamo solo comportando da rompiscatole. È possibile, credo, che io sia solamente un sintomo di ricambio generazionale. Sono cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, un’epoca in cui forse c’era troppa deferenza nei confronti degli esperti. Erano i giorni inebrianti in cui l’America era in prima linea, non solo in ambito scientifico, ma anche nella leadership internazionale. I miei genitori erano persone informate ma non istruite che, come molti americani, davano per scontato che gli stessi individui che erano riusciti a portare l’uomo sulla Luna probabilmente avevano ragione su gran parte delle altre cose importanti. Non sono cresciuto in un ambiente di totale obbedienza all’autorità, ma in generale la mia famiglia era piuttosto ordinaria nella convinzione che chi lavorava in ambiti specialistici, dalla podologia alla politica, sapesse il fatto suo. Come giustamente sottolineano i detrattori della competenza, in quei giorni ci fidavamo delle persone che avevano fatto atterrare Neil Armstrong nel mare Tranquillitatis, ma anche di chi aveva spedito molti americani meno famosi in posti come Khe Sanh e la valle di Ia Drang in Vietnam. La fiducia della popolazione, nei confronti tanto degli esperti quanto dei leader politici, non solo era mal riposta, ma era vittima di un vero e proprio abuso. Ora, comunque, siamo andati nella direzione opposta. Non con un sano scetticismo nei confronti degli esperti, ma con il deciso risentimento di molti, convinti che gli esperti si sbaglino per il semplice fatto di essere tali. Fischiamo i “cervelloni” – un termine che adoperiamo con una rinnovata accezione dispregiativa – mentre spieghiamo ai nostri medici quali farmaci ci occorrono o insistiamo nel dire agli insegnanti che le risposte dei nostri figli a una prova d’esame sono giuste anche se sono sbagliate. Non solo tutti sono più bravi di chiunque altro, ma tutti pensiamo di essere le persone più intelligenti mai vissute sulla terra. E non potremmo avere più torto di così. Devo ringraziare molte persone che mi hanno assistito nella realizzazione di questo libro e liberarne molte altre da qualsiasi legame con le opinioni che il volume esprime e le conclusioni che trae. Nel 2013 ho scritto un post dal titolo “La fine della competenza” per il mio blog personale, The War Room. Quel post è stato notato da Sean Davis di The Federalist che mi ha contattato per chiedermi di trarne un articolo. Sono grato a Sean e a The Federalist per aver ospitato quel pezzo, che è stato letto da oltre un milione di persone in tutto il mondo. Poi l’ha visto anche David McBride della Oxford University Press, che mi ha scritto invitandomi a trasformarne la tesi principale in un libro. La sua guida e i suoi consigli editoriali sono stati fondamentali per arricchire e approfondire l’argomento, e sono grato a lui e alla Oxford, oltre che ai lettori anonimi che hanno esaminato la mia proposta, per aver reso possibile la pubblicazione del libro. Mi ritengo molto fortunato di lavorare allo US Naval War College, e molti miei colleghi, tra cui David Burbach, David Cooper, Steve Knott, Derek Reveron e Paul Smith, hanno offerto commenti e materiali. Ma le opinioni e le conclusioni contenute in questo libro sono mie e non rappresentano in alcun modo il pensiero di altre istituzioni o agenzie del governo statunitense. Vari amici e corrispondenti che esercitano diverse professioni sono stati così gentili da fare commenti, leggere capitoli o dare risposte a una gran varietà di domande che ricadevano al di fuori della mia area di competenza: tra questi Andrew Facini, Ron Granieri, Tom Hengeveld, Dan Kaszeta, Kevin Kruse, Rob Mickey, Linda Nichols, Brendan Nyhan, Will Saletan, Larry Sanger, John Schindler, Josh Sheehan, Robert Trobich, Michael Weiss, Salena Zito e soprattutto Dan Murphy e Joel Engel. Devo un ringraziamento speciale a David Becker, Nick Gvosdev e Paul Midura per i loro commenti a diverse stesure del manoscritto. Sono estremamente grato alla Harvard Extension School, non solo per l’opportunità che mi ha offerto di insegnare nel suo corso, ma anche per i numerosi ed eccellenti assistenti di ricerca che l’Extension mette a disposizione della facoltà. Kate Arline è stata un’assistente preziosissima per questo progetto: ha risposto anche alle mie richieste più strambe con rapidità e aplomb (volete sapere quanti fast food hanno aperto in America a partire dal 1959? Kate riesce a scoprirlo). Qualsiasi errore nei dati o nella loro interpretazione presente in questo libro, tuttavia, è mio e solo mio. Scrivere un libro può essere un’esperienza magnifica e avvincente per l’autore, ma molto meno per le persone che gli sono accanto. Mia moglie Lynn e mia figlia Hope sono state come sempre molto pazienti durante la stesura del libro e vanto nei loro confronti un grosso debito di gratitudine per avermi sopportato. Il libro è dedicato a entrambe, con amore. Infine, devo ringraziare le persone che mi hanno aiutato ma che, per ovvie ragioni, desiderano restare anonime. Sono grato a molti professionisti, medici, giornalisti, avvocati, educatori, analisti politici, scienziati, accademici, esperti militari e altri che hanno condiviso le proprie esperienze e hanno raccontato le loro storie perché le raccogliessi in questo libro. Non avrei potuto scriverlo senza di loro. Spero che in qualche modo questo testo aiuti loro e altri esperti a svolgere il proprio lavoro. Ma alla fine i clienti di un professionista sono persone appartenenti alla società in cui vive e quindi spero in particolar modo che questo volume aiuti i miei concittadini ad avvalersi in modo migliore degli esperti ai quali tutti noi ci affidiamo e a comprenderli maggiormente. Più di qualsiasi altra cosa, spero che il libro contribuisca a risanare la frattura tra esperti e profani che sulla lunga distanza minaccia non solo il benessere di milioni di americani, ma anche la sopravvivenza del nostro esperimento democratico. introduzione La fine della competenza Negli Stati Uniti c’è un culto dell’ignoranza, e c’è sempre stato. Le sollecitazioni dell’anti-intellettualismo sono un filo rosso che si snoda attraverso la nostra vita politica e culturale, nutrito dalla falsa convinzione che democrazia significhi che “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”. Isaac Asimov All’inizio degli anni Novanta, un piccolo gruppo di “negazionisti dell’Aids”, tra cui Peter Duesberg, un professore della University of California, si schierò contro la posizione – pressoché unanime all’interno dell’establishment medico – secondo cui il virus di immunodeficienza umano (HIV) era la causa della Sindrome di immunodeficienza acquisita (Aids). La scienza prospera grazie a queste sfide controintuitive, ma nessuna prova sosteneva le convinzioni di Duesberg, che si rivelarono prive di fondamento. Una volta che i ricercatori ebbero scoperto l’HIV, medici e operatori sanitari furono in grado di salvare innumerevoli vite attraverso misure mirate a prevenirne la trasmissione. La vicenda di Duesberg sarebbe potuta finire come qualunque altra teoria bislacca smentita dalla ricerca. La storia della scienza è disseminata di simili vicoli ciechi. In questo caso, però, un’idea screditata riuscì comunque a catturare l’attenzione di un leader nazionale, con risultati letali. Thabo Mbeki, allora presidente del Sudafrica, sfruttò l’idea che l’Aids non fosse causato da un virus ma da altri fattori, quali malnutrizione e cattive condizioni sanitarie, e rifiutò i medicinali e le altre forme di assistenza che venivano offerte al Paese per combattere l’infezione da HIV. A metà degli anni Zero, il suo governo cedette, ma ormai l’ossessivo atteggiamento negazionista di Mbeki nei confronti dell’Aids era costato, secondo le stime dei medici della Harvard School of Public Health, ben oltre trecentomila vite e l’infezione di circa trentacinquemila bambini positivi all’HIV alla nascita, che si sarebbe potuta evitare.1 Ancora oggi Mbeki è convinto delle sue idee. Molti americani potranno forse deridere questo tipo di ignoranza, ma farebbero meglio a non riporre eccessiva fiducia nelle proprie capacità. Nel 2014, un sondaggio del Washington Post ha chiesto agli americani se gli Stati Uniti dovessero intervenire militarmente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina avvenuta nello stesso anno. Gli Stati Uniti e la Russia sono ex avversari dalla Guerra Fredda e ciascuna delle due nazioni ha a disposizione centinaia di armi nucleari a lungo raggio. Un conflitto militare nel centro dell’Europa, proprio sul confine russo, rischierebbe di accendere la miccia per una Terza guerra mondiale, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Eppure, solo un americano su sei – e meno di un laureato al college su quattro – è stato in grado di identificare l’Ucraina su una carta geografica. L’Ucraina è la nazione più estesa tra quelle il cui territorio ricade interamente in Europa, ma in media chi ha risposto al questionario ha sbagliato la posizione di 2.900 chilometri. È facile sbagliarsi sulle cartine geografiche. Molto più sconvolgente è il fatto che questa lacuna di conoscenza non abbia impedito agli intervistati di esprimere opinioni piuttosto precise sulla questione. In realtà questo è un eufemismo: non solo la popolazione ha espresso giudizi forti, ma gli intervistati hanno effettivamente mostrato entusiasmo per un intervento militare in Ucraina direttamente proporzionale alla loro mancanza di conoscenze di quel Paese. In altri termini, le persone convinte che l’Ucraina fosse situata in America Latina o in Australia erano le più entusiaste rispetto all’uso della forza militare statunitense.2 Viviamo in tempi pericolosi. Mai tante persone hanno avuto accesso a tanta conoscenza e tuttavia hanno esercitato tanta resistenza all’apprendimento di qualsiasi cosa. Negli Stati Uniti e in altre nazioni sviluppate, persone altrimenti intelligenti denigrano i risultati conseguiti dagli intellettuali e rifiutano i pareri degli esperti. Non soltanto a un crescente numero di profani mancano conoscenze di base, ma questi respingono gli elementi probatori e si rifiutano di apprendere come elaborare un’argomentazione logica. In tal modo, rischiano di gettare via secoli di sapere accumulato, e di indebolire pratiche e usi che ci permettono di sviluppare nuove conoscenze. Si tratta di qualcosa in più che un naturale scetticismo nei confronti degli esperti. Temo che stiamo assistendo alla fine dell’idea stessa di competenza, un crollo – alimentato da Google, basato su Wikipedia e impregnato di blog – di qualsiasi divisione tra professionisti e profani, studenti e insegnanti, conoscitori informati e fantasiosi speculatori; in altre parole, tra coloro che hanno ottenuto un qualche risultato in un’area e coloro che non ne hanno raggiunto nessuno. Spesso gli attacchi al sapere consolidato e la conseguente eruzione di cattive informazioni tra i cittadini sono divertenti. A volte addirittura esilaranti. Molti comici dei programmi in onda in seconda serata costruiscono i loro sketch ponendo al pubblico domande che ne rivelano la diffusa ignoranza sulle idee che difende con forza, l’attaccamento alle mode e la riluttanza ad ammettere la propria incompetenza sugli eventi d’attualità. Quando le persone affermano con enfasi, per esempio, di evitare il glutine per poi ammettere di non avere idea di cosa sia, è una cosa innocua. E diciamocelo: la gente non la smette mai di pronunciare con sicumera opinioni estemporanee su scenari grotteschi, come “l’assenza di Margaret Thatcher a Coachella favorisce la decisione della Corea del Nord di sganciare una bomba nucleare?”. Tuttavia, quando si tratta di questioni che coinvolgono la vita e la morte delle persone, la situazione è molto meno divertente. Indubbiamente le buffonate dei pagliacci della crociata contro i vaccini funzionano benissimo in televisione, come gli attori Jim Carrey e Jenny McCarthy, o se si è deciso di passare un pomeriggio spensierato a leggere post su Twitter. Ma quando loro, altre celebrità e personaggi pubblici disinformati sfruttano miti e informazioni fallaci sui pericoli dei vaccini, milioni di persone potrebbero ritrovarsi di nuovo esposte al serio pericolo di malattie prevenibili come il morbillo e la pertosse. La crescita di questa ostinata ignoranza in piena èra dell’informazione non si può spiegare soltanto come l’esito di ignoranza bella e buona. Molti di coloro che conducono campagne contro il sapere consolidato sono cittadini capaci e di successo nella vita quotidiana. In un certo senso, siamo di fronte a qualcosa di peggio dell’ignoranza: si tratta di un’arroganza infondata, dello sdegno di una cultura sempre più narcisistica che non riesce a sopportare neanche il minimo accenno di diseguaglianza, di qualsiasi tipo essa sia. Con l’espressione “fine della competenza” non intendo il crollo delle capacità reali degli esperti, la conoscenza di argomenti specifici che distingue alcune persone da altre in vari settori. Ci saranno sempre medici e diplomatici, avvocati e ingegneri, e molti altri specialisti in vari campi. Nella vita quotidiana, il mondo non potrebbe funzionare senza di loro. Se ci fratturiamo un osso o se ci arrestano, chiamiamo rispettivamente un medico o un avvocato. Quando viaggiamo, diamo per scontato che il pilota sappia come funzioni un aereo. Se ci troviamo ad affrontare problemi mentre siamo all’estero, chiamiamo un funzionario del consolato che, presumiamo, saprà cosa fare. Questo, però, vuol dire che ci affidiamo agli esperti come tecnici. Non c’è un dialogo tra loro e la comunità allargata, ma l’uso di un sapere consolidato come se fosse una merce preconfezionata da adoperare alla bisogna, fintantoché si desidera farlo. Mi ricucia questo taglio alla gamba, ma non mi faccia ramanzine sulla mia dieta (più di due terzi degli americani sono in sovrappeso); mi aiuti a superare questo problema con le tasse, ma non mi ricordi che dovrei redigere un testamento (grossomodo la metà degli americani con figli non si è mai preoccupata di scriverne uno); mantenga il mio Paese sicuro, ma non mi stia a confondere con i costi e i calcoli che riguardano la sicurezza nazionale (la maggior parte dei cittadini americani non ha idea, neppure lontanamente, di quanto ammontino le spese militari degli Stati Uniti). Tutte queste scelte, dal proprio regime alimentare alla difesa nazionale, richiedono un dialogo tra cittadini ed esperti, ma sempre di più, a quanto pare, i cittadini non vogliono prendere parte a questa conversazione. Preferiscono credere di possedere informazioni a sufficienza per prendere queste decisioni per proprio conto, ammesso che siano interessati a farlo. D’altro canto, molti esperti, e in particolare quelli che appartengono al mondo accademico, hanno abdicato al loro dovere di interagire con il pubblico. Si sono trincerati dietro il proprio gergo e la propria irrilevanza, preferendo interagire soltanto tra loro. Nel frattempo, coloro che si trovano a metà, a cui spesso ci riferiamo con l’espressione “intellettuali impegnati” – mi piace pensare di essere uno di loro –, stanno diventando altrettanto frustrati e radicalizzati del resto della società. La fine della competenza non è solo un rifiuto del sapere esistente. È fondamentalmente un rifiuto della scienza e della razionalità obiettiva, che costituiscono le fondamenta della civiltà moderna. È segno, come ha affermato una volta il critico d’arte Robert Hughes descrivendo l’America di fine Novecento, di “una politica ossessionata dalle terapie e piena di diffidenza per la politica formale”, cronicamente “scettica nei confronti dell’autorità” e “in preda alla superstizione”. Abbiamo chiuso il cerchio, partendo dall’età premoderna, in cui la saggezza popolare colmava inevitabili lacune nella conoscenza umana, attraverso un periodo di rapido sviluppo fortemente basato sulla specializzazione e la competenza, fino a un mondo postindustriale e orientato all’informazione, dove tutti i cittadini si ritengono esperti di qualsiasi cosa. Ogni affermazione di competenza da parte di un esperto vero, nel frattempo, produce un’esplosione di rabbia in alcuni segmenti della popolazione americana, pronti a lamentarsi che simili rivendicazioni non sono altro che fallaci “appelli all’autorità”, segni inequivocabili di un temibile “elitarismo”, nonché un evidente tentativo di usare delle qualifiche per soffocare il necessario dialogo richiesto da una democrazia “reale”. Gli americani ormai credono che avere diritti uguali in un sistema politico significhi anche che l’opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro. Moltissime persone ne sono convinte, nonostante si tratti di un’evidente assurdità. È una rivendicazione categorica di uguaglianza che è sempre illogica, talvolta divertente e spesso pericolosa. Questo libro, dunque, parla di competenza. O, per essere più precisi, del rapporto tra esperti e cittadini in una democrazia, del perché questa relazione sta andando in frantumi e di ciò che tutti noi, cittadini ed esperti, potremmo fare a riguardo. La reazione più immediata di molte persone quando si affronta il tema della fine della competenza è di dare la colpa a internet. Quando si trovano di fronte clienti che pensano di saperla più lunga di loro, i professionisti, in particolare, tendono a indicare nella Rete la colpevole. Come vedremo, non è una tesi del tutto sbagliata, ma resta pur sempre una spiegazione semplicistica. Gli attacchi al sapere consolidato hanno un lungo pedigree e internet è solo lo strumento più recente nell’ambito di un problema ciclico, che in passato ha afflitto allo stesso modo la televisione, la radio, la stampa e altre innovazioni. Allora perché tutto questo clamore? Che cosa è cambiato in modo tanto evidente da indurre me a scrivere questo libro e voi a volerlo leggere? Siamo davvero alla “fine della competenza” o si tratta solo delle solite lamentele degli intellettuali per il fatto che nessuno li ascolta, nonostante si siano autoproclamati le persone più intelligenti sulla piazza? Forse non è nient’altro che una forma d’ansia che i professionisti nutrono nei confronti delle masse dopo ogni ciclo di trasformzione sociale o tecnologica. O forse è solo un’espressione caratteristica della lesa vanità di professori sovraistruiti ed elitaristi come me. Forse, infatti, la fine della competenza è un segno di progresso. I professionisti istruiti, dopotutto, non stringono più il sapere in una morsa. I segreti della vita non sono più nascosti in giganteschi mausolei di marmo, le grandi biblioteche del mondo le cui sale incutono timore anche al numero relativamente piccolo di persone che vi entrano. A parità di condizioni, in passato c’è stato minore attrito tra esperti e profani, ma solo perché, semplicemente, i cittadini non erano in grado di sfidare gli esperti in modo sostanziale. Inoltre, nell’èra precedente alle comunicazioni di massa erano pochi i luoghi pubblici in cui lanciare simili sfide. Fino all’inizio del Ventesimo secolo la partecipazione alla vita politica, intellettuale e scientifica era molto più circoscritta e i dibattiti sulla scienza, la filosofia e la politica pubblica erano tutti condotti con penna e inchiostro da una piccola cerchia di maschi istruiti. Non erano esattamente giorni idilliaci e non sono poi così distanti nel tempo. L’epoca in cui la maggior parte delle persone non portava a termine la scuola superiore, pochi andavano all’università e solo una piccola frazione della popolazione aveva accesso alle professioni è ancora presente nella memoria di molti americani. Solo negli ultimi cinquant’anni i cambiamenti sociali hanno infranto le vecchie barriere di razza, classe e sesso, e non solo tra gli americani in generale, ma anche, in particolare, tra i cittadini non istruiti e l’élite degli esperti. Uno spazio di dibattito più ampio ha significato più conoscenza, ma anche più attriti sociali. L’educazione universale, il maggiore potere delle donne e delle minoranze, lo sviluppo di una classe media e l’aumento della mobilità sociale sono tutti fattori che hanno messo in contatto diretto una minoranza di esperti e la maggioranza dei cittadini, dopo quasi due secoli in cui raramente le due categorie hanno dovuto interagire tra loro. Eppure il risultato non è stato un maggiore rispetto per il sapere, ma il diffondersi tra gli americani di una convinzione irrazionale secondo cui tutti sono altrettanto intelligenti di chiunque altro. Questo è l’opposto dell’istruzione, il cui obiettivo dovrebbe essere che le persone, non importa quanto siano intelligenti o abili, apprendano per tutta la vita. Invece ormai viviamo in una società dove l’acquisizione di un sapere anche minimo è il punto di arrivo dell’istruzione, anziché l’inizio. E questa è una cosa pericolosa. cosa ci aspetta Nei capitoli seguenti, individuerò numerose fonti di questo problema: alcune sono radicate nella natura umana, altre sono esclusivamente americane e altre ancora sono il prodotto inevitabile della modernità e dell’opulenza. Nel prossimo capitolo indagherò la nozione di “esperto”, domandandomi se il conflitto tra esperti e profani sia del tutto nuovo oppure no. Che cosa significa, infatti, essere un esperto? Quando ci troviamo di fronte a una decisione difficile su un argomento che non rientra nella nostra formazione o nella nostra esperienza, a chi dovremmo chiedere consiglio? (Se pensate di non aver bisogno di alcun consiglio, al di fuori del vostro, probabilmente siete tra quelli che mi hanno ispirato la stesura di questo libro.) Nel capitolo 2 indagherò i motivi per cui in America la conversazione è diventata così estenuante non solo tra esperti e cittadini comuni, ma tra tutti. Se siamo onesti, dovremmo ammettere che tutti noi sappiamo essere irritanti e perfino far infuriare gli altri, quando parliamo di cose che riteniamo importanti, soprattutto di convinzioni e idee che ci stanno molto a cuore. Molti degli ostacoli a un rapporto proficuo tra gli esperti e i loro clienti nella società poggiano su elementari debolezze umane e inizieremo questo capitolo prendendo in considerazione quali sono le barriere naturali a una comprensione migliore, prima di esaminare più da vicino i problemi legati alla nostra epoca. Tutti siamo affetti da problemi come, per esempio, “il bias di conferma”, la tendenza naturale ad accettare soltanto prove che confermano ciò che già crediamo. Tutti abbiamo esperienze, pregiudizi, paure e perfino fobie personali che ci impediscono di accettare i pareri degli esperti. Se pensiamo che un certo numero sia fortunato, nessun matematico può convincerci del contrario; se crediamo che volare sia pericoloso, neanche la rassicurazione da parte di un astronauta o di un pilota di caccia militari potrà diminuire le nostre paure. E alcuni di noi, per quanto sia indelicato dirlo, non sono abbastanza intelligenti da capire quando stanno sbagliando, a dispetto delle migliori intenzioni. Così come non siamo tutti altrettanto intonati quando cantiamo o capaci di disegnare una linea retta, molti semplicemente non sono in grado di riconoscere le lacune nella propria conoscenza o di accorgersi della propria incapacità di costruire un’argomentazione logica. L’istruzione dovrebbe aiutarci a riconoscere problemi come il bias di conferma e a superare le lacune nella nostra conoscenza così da poter essere cittadini migliori. Purtroppo, la moderna università americana e il modo in cui gli studenti e i loro genitori la trattano, alla stregua di una generica merce, sono ormai parte integrante del problema. Nel capitolo 3 discuterò del perché l’ampia offerta di educazione universitaria – paradossalmente – induce molte persone a pensare di essere diventate più intelligenti, quando in realtà hanno solo acquisito un’intelligenza illusoria sostenuta da una laurea di valore discutibile. Quando gli studenti diventano clienti preziosi anziché allievi, la loro autostima aumenta ma imparano ben poco; peggio, non sviluppano un pensiero critico che consentirebbe loro di continuare ad apprendere e valutare le tematiche più complesse su cui dovranno deliberare e votare in quanto cittadini. La moderna èra della tecnologia e delle comunicazioni rende possibili giganteschi balzi in avanti per il sapere, ma agevola e amplifica anche gli errori umani. Se internet non giustifica completamente la fine della competenza, ne spiega molti aspetti, almeno nel Ventunesimo secolo. Nel capitolo 4 esaminerò come la più grande fonte di conoscenza nella storia umana da quando Gutenberg si macchiò le dita di inchiostro sia diventata tanto una piattaforma per attacchi al sapere consolidato, quanto uno strumento per difendersene. Internet è un magnifico deposito di conoscenze, eppure è anche fonte e facilitatore dell’epidemia di disinformazione. Non ci rende soltanto più ottusi, ma anche più meschini: da sole, al riparo delle proprie tastiere, le persone litigano anziché discutere e insultano anziché ascoltare. In una società libera, i giornalisti sono, o dovrebbero essere, i maggiori arbitri nella grande mischia tra ignoranza e cultura. Ma cosa succede quando i cittadini chiedono di essere intrattenuti anziché informati? Analizzeremo queste inquietanti domande nel capitolo 5. Ci affidiamo ai media per essere informati, per separare i fatti dalla finzione e per rendere questioni complicate comprensibili anche a coloro che non dispongono di tempo ed energia infiniti per tenersi aggiornati su ogni novità, in un mondo tanto frenetico. Nell’èra dell’informazione, tuttavia, i giornalisti professionisti si trovano ad affrontare nuove sfide. Non solo i tempi di trasmissione televisiva e le pagine a disposizione per le notizie sono ormai pressoché illimitati, in confronto anche soltanto a mezzo secolo fa, ma i consumatori si aspettano pure che tutto questo spazio venga riempito istantaneamente e aggiornato di continuo. In questo ambiente mediatico ipercompetitivo, direttori e produttori non hanno più la pazienza – né il lusso economico – di lasciare che i giornalisti sviluppino le proprie competenze o approfondiscano la conoscenza di un argomento. E niente lascia pensare che i consumatori di notizie desiderino un tale livello di dettaglio. Gli esperti vengono spesso confinati in citazioni o “neretti”, sempre che vengano consultati. Chiunque lavori nell’industria dell’informazione sa bene che se i servizi non sono abbastanza graziosi, patinati o divertenti, il pubblico volubile potrà trovare alternative meno pesanti cliccando sul mouse o schiacciando un pulsante del telecomando. Gli esperti non sono infallibili. Hanno commesso errori terribili, con conseguenze spaventose. Difendere il ruolo della competenza nell’America moderna significa evocare un elenco di disastri e di errori: la vendita del talidomide, la guerra del Vietnam, il disastro dello Shuttle Challenger, gli avvertimenti catastrofici sui rischi alimentari connessi al consumo delle uova (non vi preoccupate, riprendete pure a mangiarne se vi piacciono; non fanno più parte dell’elenco dei cibi dannosi per la salute). Gli esperti, comprensibilmente, ribattono che è come ricordare un unico incidente aereo e ignorare i miliardi di chilometri percorsi in tutta sicurezza. Può essere vero, ma a volte gli aerei precipitano, e a volte succede perché un esperto ha combinato qualche casino. Nel capitolo 6 prenderò in considerazione ciò che accade quando gli esperti si sbagliano. Ciò può avvenire perché si vogliono perpetrare vere e proprie frodi o perché, pur in buona fede, si ripone un’eccessiva e arrogante fiducia nelle proprie capacità. E a volte, più semplicemente, perché anche gli esperti, al pari degli altri esseri umani, possono commettere errori. È importante però che i profani capiscano come e perché gli esperti sbagliano, non solo per diventare consumatori più consapevoli dei loro pareri, ma anche per essere rassicurati sul modo in cui gli esperti cercano di vigilare sul proprio lavoro. Altrimenti i loro errori diventano materiale di dibattiti disinformati, che indignano gli specialisti per gli attacchi alla loro professione e incutono nei profani il terrore che gli esperti non abbiano idea di cosa stanno facendo. Infine, nella conclusione, solleverò l’aspetto più pericoloso della fine della competenza: il modo in cui essa danneggia la democrazia americana. Gli Stati Uniti sono una repubblica in cui le persone nominano altre persone affinché prendano decisioni per proprio conto. Questi rappresentanti eletti non possono padroneggiare tutti i problemi e si affidano all’aiuto di esperti e professionisti. Malgrado ciò che pensa la maggior parte delle persone, esperti e responsabili delle politiche non coincidono, e confondere i due ruoli, come spesso fanno gli americani, mina il rapporto di fiducia tra esperti, cittadini e leader politici. Gli esperti danno pareri; i leader eletti prendono decisioni. Per poter giudicare le prestazioni degli esperti e i voti e le decisioni dei loro rappresentanti, i profani devono acquisire familiarità con le problematiche in esame. Ciò non significa che tutti gli americani devono dedicarsi a uno studio approfondito della politica, ma se i cittadini non si preoccupano di acquisire un’alfabetizzazione di base sulle tematiche che influiscono sulla loro vita, rinunciano a esercitare il loro controllo su di esse, che siano d’accordo o meno. E quando gli elettori perdono il controllo di queste importanti decisioni, rischiano il dirottamento della loro democrazia da parte di ignoranti demagoghi o una più lenta e graduale decadenza delle istituzioni democratiche, fino a scivolare in una tecnocrazia autoritaria. In una democrazia, anche gli esperti hanno un’importante responsabilità, a cui negli ultimi decenni si sono sottratti. Mentre in passato gli intellettuali impegnati (spesso in coppia con i giornalisti) si battevano per rendere comprensibili ai profani le problematiche più importanti, ormai sempre di più le élite istruite parlano soltanto tra loro. I cittadini, senza dubbio, rafforzano questa reticenza, litigando più che discutendo – una differenza importante –, ma ciò non solleva gli esperti dal loro dovere di servire la società e di pensare ai propri concittadini come a clienti, piuttosto che come a scocciatori. Gli esperti hanno la responsabilità di educare, gli elettori hanno la responsabilità di imparare. Alla fine, indipendentemente da quanti consigli possano fornire i professionisti, solo la sfera pubblica può decidere la direzione delle decisioni politiche importanti che una nazione deve prendere. Solo gli elettori possono risolvere le questioni che riguardano le loro famiglie e il loro Paese, e solo loro devono assumersi la responsabilità ultima di queste decisioni. Ma gli esperti hanno l’obbligo di contribuire. Perciò ho scritto questo libro. 1. P. Chigwedere et al., “Estimating the Lost Benefits of Antiretroviral Drug Use in South Africa”, Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes, n. 49, a. 4, primo dicembre 2008. 2. K. Dropp, J.K. Kertzer e T. Zeitzoff, “The Less Americans Know about Ukraine’s Location, the More they Want U.S. to Intervene”, blog Monkey Cage, The Washington Post online, 7 aprile 2014. capitolo 1 Esperti e cittadini WASHINGTON, DC – Lunedì scorso, dopo anni di frustrazione perché i loro pareri venivano fraintesi, rappresentati in modo erroneo o semplicemente ignorati, i più importanti esperti americani di tutti i settori hanno collettivamente rassegnato le dimissioni. The Onion una nazione di “spiegatori” Tutti noi li abbiamo incontrati. Sono nostri colleghi, nostri amici, membri della nostra famiglia. Sono giovani e vecchi, ricchi e poveri, alcuni con un’istruzione, altri armati solo di un computer portatile o della tessera di una biblioteca. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono persone mediocri che credono di essere dei pozzi di scienza. Convinti di essere più informati degli esperti, di avere conoscenze più ampie dei professori e maggiore acume rispetto alle masse credulone, sono gli “spiegatori”, sempre felicissimi di illuminare noi e gli altri su qualsiasi argomento, dalla storia dell’imperialismo ai pericoli dei vaccini. Accettiamo le persone di questo tipo e ci rassegniamo alla loro presenza, se non altro perché sappiamo che in fondo sono animate da buone intenzioni. Proviamo anche un certo affetto nei loro confronti. Una sitcom televisiva degli anni Ottanta, Cin cin, per esempio, ha immortalato il personaggio del tuttologo Cliff Clavin, postino di Boston e assiduo frequentatore di bar. Cliff, come le sue controparti della vita reale, iniziava ogni frase dicendo “alcuni studi hanno dimostrato che…” oppure “è risaputo che…”. Gli spettatori amavano Cliff perché tutti conoscevano qualcuno come lui: lo zio stravagante in una cena durante le feste, il giovane studente tornato a casa dopo il primo cruciale anno di college. Potevamo trovare addirittura tenere queste persone, perché erano bizzarre eccezioni in un Paese che rispettava i pareri degli esperti e si affidava a essi. Ma negli ultimi decenni qualcosa è cambiato. Lo spazio pubblico è sempre più dominato da un variegato assortimento di individui poco informati, molti dei quali sono autodidatti sprezzanti dell’educazione formale che tendono a minimizzare il valore dell’esperienza. “Se per essere presidente è necessario avere esperienza,” ha dichiarato il disegnatore e scrittore Scott Adams durante le elezioni del 2016 “ditemi un argomento politico che non riuscirei a padroneggiare in un’ora sotto la tutela dei migliori esperti”, come se una discussione con un esperto equivalesse a copiare informazioni dal disco di un computer a un altro. Si va affermando una specie di legge di Gresham intellettuale: laddove in passato la regola era “la moneta cattiva scaccia quella buona”, ora viviamo in un’epoca in cui la disinformazione scaccia il sapere. E questo non è affatto un buon segno. Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza fare affidamento su esperti, professionisti e intellettuali (per il momento utilizzerò queste tre parole in modo intercambiabile). Nessuno è esperto di tutto. A prescindere da quali siano le nostre aspirazioni, siamo vincolati dalla realtà del tempo e dai limiti innegabili del nostro talento. Prosperiamo perché ci specializziamo e perché sviluppiamo meccanismi formali e informali che ci permettono di fidarci reciprocamente per le rispettive specializzazioni. All’inizio degli anni Settanta, lo scrittore di fantascienza Robert Heinlein coniò la massima, da allora molto citata, secondo cui “la specializzazione va bene per gli insetti”. Gli esseri umani veramente capaci, scriveva, dovrebbero saper fare quasi tutto, da cambiare un pannolino a comandare una nave da guerra. È un nobile sentimento che celebra l’adattabilità e la resilienza umana, ma è sbagliato. Anche se c’è stato un tempo in cui ogni colono abbatteva gli alberi necessari a costruirsi da solo la propria casa, questa pratica non soltanto era inefficiente, ma produceva alloggi rudimentali. C’è un motivo se non facciamo più le cose a quel modo. Quando costruiamo grattacieli, non ci aspettiamo che il metallurgista in grado di realizzare una trave, l’architetto che progetta l’edificio e il vetraio che installa le finestre siano la stessa persona. È per questo che possiamo goderci la vista della città dal centesimo piano: ogni esperto, pur possedendo conoscenze che in parte si sovrappongono, rispetta le capacità professionali di molti altri specialisti e si concentra su ciò che sa fare meglio. La fiducia e la collaborazione tra gli esperti portano a un risultato finale superiore a quello di qualsiasi prodotto che avrebbero potuto realizzare da soli. La verità è che non possiamo funzionare se non ammettiamo i limiti del nostro sapere e non ci fidiamo delle competenze altrui. A volte ci opponiamo a questa conclusione perché sconvolge il nostro senso di indipendenza e di autonomia. Vogliamo credere di essere in grado di prendere tutte le decisioni e ci irritiamo se qualcuno ci corregge, ci dice che stiamo sbagliando o ci dà spiegazioni su argomenti che non capiamo. Questa naturale reazione umana in un individuo è pericolosa quando diventa una caratteristica condivisa da intere società. è una cosa nuova? Ma davvero oggi il sapere è più a rischio, e la conversazione e il dibattito sono più difficili rispetto a cinquanta o cento anni fa? Gli intellettuali si lamentano continuamente dell’ottusità dei propri concittadini e i profani hanno sempre diffidato delle teste d’uovo e degli esperti. In che misura si tratta di un problema nuovo e quanto seriamente dovremmo prenderlo? In parte questo conflitto sulla pubblica piazza è solo un più che prevedibile rumore, amplificato da internet e dai social media. Internet raccoglie notizie non verificate e idee improbabili, e poi spalma queste cattive informazioni e questi ragionamenti basati su scarsa capacità di giudizio su tutto il mondo elettronico (immaginate cosa si sarebbe ascoltato per strada negli anni Venti se tutti gli svitati di ogni città avessero avuto a disposizione una propria stazione radio). Forse il punto non è che le persone sono più ottuse o meno disposte ad ascoltare gli esperti rispetto a cento anni fa: è solo che ora abbiamo la possibilità di sentirle tutte. Inoltre, un certo grado di conflitto tra chi conosce alcuni argomenti e chi ne conosce altri è inevitabile. Probabilmente già i primi cacciatori e raccoglitori litigavano su cosa preparare per cena. Quando varie conquiste dell’umanità sono diventate campo di studio di professionisti, era naturale che i disaccordi aumentassero e si acuissero. E mano a mano che la distanza tra gli esperti e il resto della cittadinanza aumentava, sono cresciuti anche i divari sociali e la diffidenza reciproca. Tutte le società, a prescindere dal loro livello di avanzamento, hanno un sottofondo di risentimento contro le élite istruite e un persistente attaccamento culturale nei confronti della saggezza popolare, delle leggende metropolitane e di altre reazioni umane, irrazionali ma normali, di fronte alla complessità e alla confusione della vita moderna. Le democrazie, con i loro rumorosi spazi pubblici, sono sempre state particolarmente propense a sfidare i saperi consolidati. In realtà, sono inclini a mettere in discussione qualsiasi cosa sia consolidata: è una delle caratteristiche che le rende “democratiche”. È noto che le democrazie subivano il fascino del cambiamento e del progresso anche nel mondo antico. Tucidide, per esempio, descrisse gli ateniesi democratici del quinto secolo a.C. come un popolo inquieto e “innovatore”, e secoli più tardi San Paolo riteneva che gli ateniesi “non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità”. In una cultura democratica questa incessante messa in discussione dell’ortodossia è celebrata e protetta. Gli Stati Uniti, la cui visione è fortemente incentrata sulle libertà individuali, venerano questa resistenza all’autorità intellettuale anche più di altre democrazie. Naturalmente, nessuna analisi di “come pensano gli americani” può considerarsi completa senza un cenno obbligatorio a Alexis de Tocqueville, il filosofo francese che nel 1835 osservò che i cittadini dei nuovi Stati Uniti non erano esattamente innamorati degli esperti o della loro scienza: “[N]ella maggior parte delle operazioni dello spirito” scriveva “ciascun americano fa appello solo allo sforzo individuale della propria ragione”. Questa diffidenza nei confronti dell’autorità intellettuale era radicata, teorizzò Tocqueville, nella natura stessa della democrazia americana. Quando “i cittadini, divenuti quasi eguali, si guardano tutti da vicino,” scriveva “sono costantemente riportati verso la propria ragione come alla fonte più visibile e più prossima della verità. Allora non soltanto è distrutta la fiducia in un uomo, ma il gusto di credere a un uomo sulla parola”.3 Tali osservazioni non si limitano alla giovane America. Insegnanti, esperti e “conoscitori” professionali si lamentano della mancanza di rispetto da parte delle società in cui vivono fin da quando Socrate fu costretto a bere la sua cicuta. In un’epoca più moderna, il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset decretava nel 1930 la “ribellione delle masse” e l’infondata arroganza intellettuale che la caratterizzava: Così, nella vita intellettuale, che per la sua stessa essenza richiede e presuppone la qualità, si avverte il progressivo trionfo degli pseudo-intellettuali senza qualifica, inqualificabili o squalificati per la loro stessa struttura. […] Forse sono in errore; però lo scrittore, nel prendere la penna per scrivere intorno a un tema che ha studiato a lungo, deve pensare che il lettore medio, il quale non si è occupato mai dell’argomento, se lo legge, non lo fa col proposito d’apprendere qualcosa da lui, ma al contrario, per sentenziare su di lui quando il pensiero non coincide con le volgarità che questo lettore ospita nella mente.4