sabato 18 gennaio 2020

IL TRENO DEI BAMBINI
Viola Ardone
1. Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato le abitudini loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne sanno di come cammino io e di dove voglio andare? Si devono abituare mano mano, ma intanto il piede cresce, le scarpe si fanno piccole e stiamo punto e a capo. Mia mamma avanti e io appresso. Dove stiamo andando non lo so, dice che è per il mio bene. Invece ci sta la fregatura sotto, come per i pidocchi. È per il tuo bene, e mi ritrovai con il mellone. Per fortuna che pure all’amico mio Tommasino gli fecero il mellone, per il suo bene. I compagni nostri del vicolo ci sfottevano, ci dicevano che parevamo due cape di morte uscite da dentro al Cimitero delle Fontanelle. Tommasino in principio non era amico mio. Una volta l’avevo visto che si fotteva una mela dal banco di Capajanca, il verdummaro che tiene il carretto a piazza Mercato, e allora ho pensato che non potevamo essere amici, perché mia mamma Antonietta mi ha spiegato che noi siamo poveri, sí, ma ladri no. Altrimenti diventiamo pezzenti. Però Tommasino mi ha visto e ha rubato una mela pure per me. Poiché la mela io non l’avevo rubata ma l’avevo avuta regalata, me la mangiai, infatti stavo con la fame agli occhi. Da quel momento siamo diventati amici. Amici di mele. Mia mamma cammina in mezzo alla via senza guardare mai a terra. Io trascino i piedi e sommo i punti delle scarpe per far passare la paura. Conto sulle dita fino a dieci e poi ricomincio daccapo. Quando farò dieci volte dieci, succederà una cosa bella, cosí è il gioco. La cosa bella fino a mo non mi è mai capitata, forse perché ho contato male i punti. A me i numeri mi piacciono assai. Le lettere invece no: da sole le riconosco, ma quando si mischiano per fare le parole mi confondo. Dice mia mamma che io non devo crescere come lei, ed è per questo che mi ha mandato a scuola. Io ci sono andato, ma non mi sono trovato bene. Prima di tutto i compagni strillavano e me ne tornavo a casa con il male di capa, la stanza era piccola e puzzava di piedi sudati. Poi dovevo rimanere tutto il tempo fermo e zitto dietro a un banco a disegnare le asticelle. La maestra teneva la scucchia e parlava con la zeppola in bocca e a chi la sfotteva gli arrivava una scoppola sulla testa. Io in cinque giorni ne ho avute dieci. Me le sono contate sulle dita come i punti delle scarpe, ma non ho vinto niente. Cosí a scuola non ci sono voluto andare piú. Mia mamma non era contenta, però ha detto che almeno mi dovevo imparare una fatica e cosí mi ha mandato a fare le pezze. All’inizio ero contento: si trattava di stare tutto il giorno in giro a raccogliere gli stracci vecchi casa per casa oppure da dentro alla monnezza e portarli al mercato da Capa ’e fierro. Dopo qualche giorno però mi ritiravo cosí stanco che mi rimpiangevo le scoppole della maestra con la scucchia. Mia mamma si ferma davanti a un palazzo grigio e rosso, con le finestre grandi. –È qua, –dice. Questa scuola mi sembra piú bella di quella di prima. Dentro ci sta il silenzio e niente puzza di piedi. Saliamo al secondo piano e ci fanno aspettare in un corridoio sopra una panca di legno finché una voce non dice: il prossimo. Visto che nessuno si muove, mia mamma capisce che il prossimo siamo noi, e cosí entriamo. Mia mamma si chiama Antonietta Speranza. La signorina che ci aspettava si segna il nome su un foglio e dice: –A voi vi è rimasta solo quella –. Io allora penso: ecco qua, mo mia mamma gira i tacchi e ce ne torniamo a casa. Invece no. –Voi le date, le scoppole, maestra? –chiedo e mi copro la testa con le braccia, per sicurezza. La signorina ride e mi prende la guancia tra il pollice e l’indice, ma senza stringere. –Accomodatevi, –dice, e noi ci sediamo di fronte a lei. La signorina non somiglia proprio a quell’altra, non tiene il mento in fuori ma un bel sorriso e tanti denti bianchi e dritti, i capelli tagliati corti, e porta i pantaloni, come i maschi. Noi restiamo zitti. Dice che si chiama Maddalena Criscuolo e che forse mia mamma se la ricorda, perché aveva combattuto per liberarci dall’oppressione dei nazisti. Mia mamma fa su e giú con la testa, ma si vede benissimo che lei questa Maddalena Criscuolo prima di mo non l’aveva mai sentita nominare. Maddalena racconta che in quelle giornate lei ha salvato il ponte del rione Sanità, perché i tedeschi lo volevano far saltare in aria con la dinamite e quindi alla fine le hanno dato una medaglia di bronzo e un attestato. Io penso che era meglio se le davano le scarpe nuove perché ne tiene una buona e una bucata (zero punti). Dice che abbiamo fatto bene ad andare da lei, che molta gente si vergogna, che lei e le compagne sue hanno dovuto bussare casa per casa e convincere le mamme che era una cosa buona, per loro e per i figli loro. Che hanno avuto molte porte in faccia e pure qualche malaparola. Io ci credo, perché anche a me, quando vado a chiedere le pezze usate, spesso mi dicono le maleparole appresso. La signorina dice che tante brave persone si sono fidate di loro, che mia mamma Antonietta è una donna coraggiosa e che a suo figlio gli sta facendo un regalo. Io di regali non ne ho avuti mai, tranne la scatola vecchia del cucito dove ci ho messo tutti i miei tesori. Mia mamma Antonietta aspetta che questa Maddalena finisce di parlare, perché le chiacchiere non sono arte sua. Quella dice che ai bambini bisogna dargli un’opportunità. Io ero piú contento se mi dava pane, zucchero e ricotta. Me la mangiai una volta a una festa degli americani dove mi ero infilato con Tommasino (scarpe vecchie: perdo un punto). Mia mamma resta zitta, perciò Maddalena continua a parlare: hanno organizzato dei treni speciali per portare i bambini là sopra. Allora mia mamma risponde: –Ma siete sicura? Questo qua, lo vedete?, è un castigo di dio! –Maddalena dice che ci metteranno a tanti di noi dentro al treno, mica solo a me. –Quindi non è una scuola! –capisco finalmente io, e sorrido. Mia mamma Antonietta non sorride. –Se tenevo scelta non stavo qua, questo è l’unico che tengo, vedete che dovete fare. Quando ce ne andiamo, mia mamma cammina sempre avanti a me, ma piú piano. Passiamo per il banco delle pizze, dove ogni volta io mi attacco alla sua veste e non smetto di piangere fino a che non mi arriva un pacchero. Lei si ferma. –Cicoli e ricotta, –dice al giovine dietro al banco. –Una sola. Io questa volta non ho chiesto niente e penso che, se mia mamma, di testa sua, mi vuole comprare la pizza fritta a metà mattinata, ci sta la fregatura sotto. Il giovine incarta una pizza gialla come il sole e larga piú della mia faccia. Io la prendo con tutte e due le mani per paura di farla cadere. È calda e profumata, ci soffio sopra e l’odore dell’olio mi entra nel naso e nella bocca. Mia mamma si abbassa e mi guarda fisso. –Allora, hai sentito pure tu. Ormai sei grande, stai per compiere otto anni. La situazione nostra la sai. Mi pulisce l’unto dalla faccia con il rovescio della mano. –Fammi assaggiare pure a me, –e con un pizzico se ne stacca un pezzo. Poi si alza e ci avviamo a casa. Non chiedo niente e mi incammino. Mia mamma avanti e io appresso. 2. Del fatto di Maddalena non si è parlato piú. Io ho pensato che forse mia mamma se l’era scordato o aveva cambiato idea. Invece poi qualche giorno dopo viene a casa nostra una suora, la manda padre Gennaro. Mia mamma spia da dietro i vetri: –E mo che vuole questa capa ’e pezza? La suora bussa un’altra volta, cosí mia mamma posa il cucito e va ad aprire, ma giusto uno spiraglio, ché quella riesce a infilare nella porta solo la faccia, tutta ingiallita. La capa ’e pezza chiede se può entrare, mia mamma fa sí con la testa, ma si vede che non tiene proprio genio. La suora dice che mia mamma è una buona cristiana, che Dio vede tutti e ogni cosa e che le creature non appartengono né alle madri né ai padri, sono figlie di Dio. Quelle comuniste invece vogliono che partiamo col treno per andare in Russia, dove ci tagliano le mani e i piedi e non ci fanno tornare piú. Mia mamma non risponde. È molto brava a stare zitta. Cosí alla fine la capa ’e pezza si scoccia e se ne va. Io allora chiedo: –Ma tu veramente mi vuoi mandare in Russia? –Lei riprende il cucito e si mette a parlare da sola: –Ma quale Russia e Russia…Io non conosco né i fascisti né i comunisti. Non conosco nemmeno i preti e i vescovi –. Mia mamma con gli altri parla poco, ma da sola di piú. –Fino a mo ho conosciuto solamente fame e fatica…La vorrei vedere a quella capa ’e pezza, senza un uomo vicino e con un figlio…è facile parlare, quando figli non se ne tengono. Ma dove stava lei quando Luigino mio cadde malato? Luigi era mio fratello maggiore e, se non aveva la cattiva idea di prendersi l’asma bronchiale da piccolo, mo teneva tre anni piú di me. Cosí, quando sono nato, ero già figlio unico. Mia mamma non lo nomina quasi mai, però tiene una foto sopra al comò con un lumino davanti. Il fatto me lo ha raccontato la Zandragliona, che abita nel basso di fronte al mio ed è una brava femmina. Mia mamma ci soffrí talmente che tutti pensavano che non si riprendeva. E invece poi nacqui io e lei è stata contenta. Anche se io non la faccio stare contenta come lui. Altrimenti a me mica mi mandava in Russia. Esco di casa e vado nel basso della Zandragliona, che sa sempre tutto e, quello che non sa, se lo fa raccontare. Lei dice che non è vero che mi porteranno in Russia, che conosce Maddalena Criscuolo e le altre: loro ci vogliono aiutare, ci vogliono dare una speranza. Ma che me ne faccio io della speranza? Io la speranza la tengo già nel cognome, perché faccio Speranza pure io, come mia mamma Antonietta. Di nome invece faccio Amerigo. Il nome me l’ha dato mio padre. Io non l’ho mai conosciuto e, ogni volta che chiedo, mia mamma alza gli occhi al cielo come quando viene a piovere e lei non ha fatto in tempo a entrare i panni stesi. Dice che è proprio un grand’uomo. È partito per l’America per fare fortuna. Tornerà?, ho chiesto. Prima o poi, ha risposto. Non mi ha lasciato niente, solo il nome. Sempre qualcosa è. Da quando si è saputo il fatto dei treni, dentro al vicolo abbiamo perso la pace. Ognuno dice una cosa diversa: chi sa che ci venderanno e ci manderanno all’America per faticare, chi dice che andremo in Russia e ci metteranno nei forni, chi ha sentito che partono solo le creature malamenti e quelle buone se le tengono le mamme, chi non se ne fotte proprio e continua come se niente fosse, perché è ignorante assai. Io pure sono ignorante, anche se dentro al vicolo mi chiamano Nobèl perché so un sacco di cose, nonostante che a scuola non ci sono piú voluto andare. Imparo in mezzo alla via: vado girando, sento le storie, mi faccio i fatti degli altri. Nessuno nasce imparato. Mia mamma Antonietta non vuole che vado raccontando i fatti suoi. E io non lo dico mai a nessuno, che sotto al letto nostro ci stanno i pacchi di caffè di Capa ’e fierro. E manco che Capa ’e fierro il pomeriggio viene a casa nostra e si chiude dentro con mia mamma. Chissà alla moglie che le racconta, forse che va al biliardo. A me mi manda fuori, dice che devono faticare, lui e lei. Allora io esco e vado a cercare le pezze. Stracci, scarti, vestiti usati dei soldati americani, roba sporca e piena di pulci. All’inizio, quando veniva lui, io non me ne volevo andare: non ci potevo pensare che Capa ’e fierro veniva a fare il padrone in casa mia. Poi mia mamma ha detto che gli devo portare rispetto perché lui è uno che tiene amicizie importanti e perché ci dà a mangiare. Ha detto che con il commercio ci sa fare e che da lui tengo solo da imparare, che mi può fare da guida. Non ho risposto, ma da quel giorno ogni volta che arriva lui me ne esco io. Le pezze che raccolgo le porto a casa, mia mamma le deve pulire, strofinare, ricucire, cosí alla fine gliele diamo a Capa ’e fierro, che tiene il banco a piazza Mercato e riesce a venderle a quelli meno poveri di noi. Intanto guardo le scarpe e conto i punti sulle dita e quando farò dieci volte dieci succederà la cosa bella: mio padre ritornerà ricco dall’America e Capa ’e fierro lo chiuderò fuori, io a lui. Una volta però il gioco veramente ha funzionato. Davanti al teatro San Carlo ho visto un signore con le scarpe talmente nuove e splendenti che facevano cento punti tutti insieme. E infatti, quando sono tornato a casa, Capa ’e fierro stava fuori la porta. Mia mamma aveva visto passare sua moglie al Rettifilo con una borsetta nuova sotto al braccio. Capa ’e fierro ha detto: –Devi imparare ad aspettare. Aspetta e viene pure il tuo momento –. Mia mamma ha risposto: –Oggi però aspetti tu, –e quel giorno in casa non l’ha fatto entrare. Capa ’e fierro è rimasto fuori al basso, si è acceso una sigaretta e si è incamminato con le mani in tasca. Io mi sono messo appresso a lui, solo per il gusto di vederlo amareggiato, e gli ho detto: –Oggi è festa, Capa ’e fierro? Non si fatica? –Lui si è accovacciato davanti a me, ha fatto un tiro dalla sigaretta e, quando ha cacciato fuori l’aria, dalla bocca sono usciti tanti piccoli cerchi di fumo. –Guagliò, –mi ha detto, –donne e vino sono la stessa cosa. O domini o ti fai dominare. Se ti fai dominare perdi i sensi, diventi schiavo, e io sono sempre stato un uomo libero e sempre lo sarò. Vieni, andiamocene all’osteria, oggi ti faccio bere il vino rosso. Oggi Capa ’e fierro ti fa diventare uomo! –Che peccato, Capa ’e fierro, non vi posso accontentare, tengo che fare. –E che tieni da fare, tu? –Devo andare a fare le pezze, come al solito. Valgono quattro soldi ma ci dànno a mangiare. Permettete. L’ho lasciato da solo, mentre gli anelli di fumo della sigaretta scomparivano nell’aria. Le pezze che trovo le metto in una cesta che mi ha dato mia mamma. Dato che la cesta quando si riempie diventa pesante, io ho iniziato a portarla sopra alla testa, come ho visto fare alle femmine dentro al mercato. Ma poi, porta oggi e porta domani, mi sono caduti i capelli e sono rimasto col cocuzzolo pelato. E secondo me per questo mia mamma mi ha fatto fare il mellone, quali pidocchi! Durante il giro delle pezze chiedo torno torno del fatto del treno, ma niente. Chi dice bianco, chi dice nero. Tommasino continua a ripetere che lui non deve partire perché a casa sua non gli manca niente e sua madre, donna Armida, non si è mai ridotta a chiedere la carità. La Pachiochia, che è la capa del vicolo nostro, dice che fino a quando ci stava il re certe cose non succedevano e le mamme i figli loro non se li vendevano. Dice che non c’è piú di-gni-tà! E, ogni volta che lo dice, fa vedere le gengive marroni, stringe quei pochi denti gialli che si ritrova e sputa dai buchi di quelli che non tiene piú. La Pachiochia è nata già brutta, credo io, e perciò un marito non ce l’ha mai avuto. Ma di questa cosa non si può parlare perché è il suo punto debole. E pure del fatto che non tiene figli. Una volta teneva un cardellino, ma se ne fuggí. Manco del cardellino si può parlare, con la Pachiochia. Anche la Zandragliona è signurína. Non se ne è saputo mai il motivo. Chi dice che non si è decisa tra quelli che l’avevano chiesta e poi alla fine è rimasta sola, perché in realtà è ricca assai e non vuole dividere con nessuno i denari suoi. Chi dice che aveva tenuto un fidanzato ma le è morto. Chi dice che aveva tenuto un fidanzato ma si scoprí poi che era già sposato. Io dico che sono tutte malelingue. Solamente una volta la Pachiochia e la Zandragliona si trovarono d’accordo: quando salirono i tedeschi fino a dentro al vicolo a prendersi la roba da mangiare e tutte e due gli nascosero le cacate dei palumbi dentro al casatiello, dicendo che erano cicoli di maiale, una specialità tipica della cucina nostra. Quelli se lo mangiarono dicendo gut, gut! mentre la Pachiochia e la Zandragliona si davano di gomito ridendo sotto ai baffi. I tedeschi non li vedemmo piú, nemmeno per farci una rappresaglia. Mia mamma Antonietta non mi ha mai venduto, fino a mo. Ma poi, due tre giorni dopo il fatto della suora, torno a casa con la cesta delle pezze e ci trovo quella Maddalena Criscuolo. Ecco qua, penso, mi sono venuti a comprare pure a me! Mentre mia mamma parla con lei, io giro per la stanza come un mezzo scemo e se mi fanno qualche domanda non rispondo o incacàglio apposta. Voglio sembrare minorato, cosí non mi possono comprare piú. Perché chi è il fesso che si vuole comprare un bambino cacàglio o minorato? Dice Maddalena che pure lei è stata nella povertà e ci sta ancora, che la fame non è una colpa ma un’ingiustizia. Che le donne si devono unire tra di loro per migliorare le cose. La Pachiochia invece dice sempre che, se tutte le femmine portavano i capelli corti e i pantaloni come quella Maddalena, il mondo andava sottosopra. Ma dico io: parla proprio lei, che tiene pure i baffi! Maddalena i baffi non li tiene. Tiene una bella bocca rossa e i denti bianchi. Maddalena abbassa la voce e dice a mia mamma che conosce la sua storia e di come lei ci ha sofferto, per la disgrazia, e che tra donne bisogna aiutarsi con la solidarietà. Mia mamma Antonietta guarda per due minuti un punto sul muro dove non ci sta niente e io capisco che sta pensando a mio fratello maggiore Luigi. Prima di Maddalena a casa nostra erano venute già delle altre signore, ma non tenevano i capelli corti e i pantaloni. Erano signore vere, con i vestiti buoni e le pettinature bionde. Quando entravano nel vicolo, la Zandragliona faceva la faccia storta e diceva: sono arrivate le dame di carità. Noi all’inizio eravamo contenti perché ci portavano i pacchi con il mangiare, però mano mano si scoprí che dentro i pacchi non ci stava né pasta né carne né formaggio. Ci stava il riso. Sempre riso, solo riso. Ogni volta che venivano, mia mamma Antonietta guardava in cielo e diceva: oggi ci facciamo un’altra bella risata, ci farete proprio morire dal riso! Le dame di carità prima non capivano, poi quando videro che i pacchi nessuno li voleva piú dissero che quello era il prodotto nazionale e che loro facevano la «campagna del riso». La gente cominciò a non aprire piú se bussavano alla porta. Diceva la Pachiochia che noi non conosciamo la gratitudine, che non ci meritiamo niente e che non c’è piú di-gni-tà. La Zandragliona, invece, diceva che quelle ci venivano a sfottere, loro e il riso, e ogni volta che uno le voleva regalare qualche cosa che non le serviva diceva: ecco qua, sono arrivate le dame di carità! Maddalena promette che sopra al treno ci divertiremo e che le famiglie del Settentrione e del Centro Italia ci tratteranno come figli, ci daranno da mangiare, ci cureranno, ci daranno vestiti e scarpe nuove (due punti). Io allora finisco di fare il cacàglio minorato e dico: –Mammà, vendimi a questa signora! –Maddalena apre la bocca grande e rossa e si mette a ridere, ma mia mamma Antonietta mi azzecca un pacchero col rovescio della mano. Io mi tocco la faccia che mi brucia, non so se piú per lo schiaffo o per lo scuòrno. Maddalena smette di ridere e poggia una mano sul braccio di mia mamma. Lei si scosta come quando urta la pentola bollente. A mia mamma non piace essere toccata, nemmeno per le carezze. Poi Maddalena fa una voce seria seria e dice che lei non mi vuole comprare. Che il Partito comunista sta organizzando una cosa mai vista prima, che rimarrà nella Storia, che se la ricorderanno tutti per anni e anni. Come il fatto del casatiello con le cacate dei palombi?, chiedo io. Mia mamma Antonietta mi guarda brutto e io penso che sta arrivando un altro pacchero, invece mi dice: –E tu, che vuo’fa’? –Io rispondo che se mi dànno le scarpe tutte e due nuove (stella premio) ci vado pure a piedi a casa dei comunisti, altro che treno. Maddalena sorride, mia mamma fa con la testa in su e in giú, che poi significa: vabbuo’. 3. Mia mamma Antonietta si ferma davanti al palazzo dei comunisti a via Medina, dove siamo già stati l’altra volta. Ha detto Maddalena che dobbiamo farci segnare nell’elenco delle creature dei treni. Al primo piano troviamo tre giovinotti e due signorine. Le signorine, come ci vedono, ci portano in una stanza con una scrivania e una bandiera rossa dietro. Ci fanno sedere e ci chiedono un sacco di cose. Una parla e una scrive sopra a un foglio. Alla fine, quella che parla prende una caramella da un cofanetto e me la dà. Quella che scrive invece poggia un foglio sul tavolo, davanti a mia mamma, che non capisce. Allora le mette una penna in mano e dice che deve firmare. E mia mamma niente. Io scarto la caramella e il profumo di limone mi pizzica il naso. Le caramelle non è che me le mangio tutti i giorni. Dalla stanza a fianco arrivano le grida dei tre giovinotti. Le signorine si guardano senza parlare, perché si vede che sono abituate e non ci possono fare proprio niente. Intanto mia mamma Antonietta rimane con la penna in mano, con la mano appesa e con il foglio davanti. Io chiedo perché nell’altra stanza stanno alluccando in quella maniera. Quella che prima scriveva resta zitta. Quell’altra che parlava, invece, dice che non è che stanno litigando, stanno discutendo delle cose che bisogna fare per stare bene tutti quanti, e che questa è la politica. Allora io chiedo: scusate, ma non state d’accordo tra voi qua sopra? Lei fa la faccia di quando ti metti in bocca una nocella e scopri che è amara e poi dice che ci sono delle divisioni, delle correnti…A questo punto quella che prima scriveva le dà di gomito, come per dire che ha parlato troppo, poi si gira verso mia mamma e la avverte che se non sa scrivere il suo nome può fare una croce, tanto ci stanno loro due come testimoni. Mia mamma Antonietta si fa rossa e senza alzare gli occhi dal foglio disegna una x, un poco storta. Io, dopo che ho sentito questo fatto delle correnti, mi piglio paura, perché, come dice sempre la Zandragliona, sono le correnti d’aria che fanno venire il catarro e mi hanno detto che i bambini malati non li fanno partire piú. Che poi non è giusto: sono proprio quelli malati che devono andare a farsi curare, o no? Perché è facile fare la solidarietà con quelli sani, come giustamente direbbe la Pachiochia, che, a parte i baffi e le gengive marroni, sotto sotto è una brava femmina pure lei e ogni tanto una lira me la regala pure. Poi le signorine scrivono delle cose sopra a un librone e ci accompagnano all’uscita. Quando passiamo per l’altra stanza, i tre maschi stanno ancora litigando di politica. Quello secco e con i capelli biondi ogni due e tre dice: questione meridionale e integrazione nazionale. Io guardo mia mamma per vedere se ha capito, ma lei tira dritto. Il giovinotto biondo, allora, si gira verso di me, che sto passando proprio in questo momento, come a dire: parla, diglielo pure tu! Io gli vorrei rispondere che non ci azzecco proprio niente e che è stata mia mamma Antonietta a portarmi qua sopra per il mio bene, sennò mica ci venivo. Mia mamma mi afferra per il braccio e mi dice a bassa voce: –Mo ti vuoi intrigare pure di queste cose? Statti zitto e cammina fuori! E cosí ce ne andiamo, mentre il biondino ci segue con gli occhi fino alla porta. 4. Tutto all’improvviso è venuto il brutto tempo. Mia mamma Antonietta non mi fa andare piú in giro a fare le pezze, pure perché sono cominciate le piogge e il primo freddo. Altre pizze fritte non me ne ha comprate, però mi ha preparato una volta la genovese, che a me mi fa uscire pazzo. Manco la suora si è vista piú e dentro al vicolo si sono scocciati di parlare del fatto dei treni. Dato che senza pezze con mia mamma ci siamo trovati a mal partito, io e Tommasino abbiamo fatto una società. All’inizio lui non ne voleva sapere. Un poco si schifava e un poco si metteva paura che sua mamma lo scopriva e lo mandava pure a lui sui treni, per punizione. Io allora gli ho detto che se ci riusciva Capa ’e fierro a farsi i soldi con le cose trovate in mezzo alla munnezza, mica eravamo noi i fessi? E cosí ci siamo messi in affari con le zoccole. I patti erano questi: io le andavo ad acchiappare e lui le pittava. Poi abbiamo piazzato un banchetto al mercato, dove tengono pure i pappagalli e i cardellini. Noi ci eravamo specializzati in criceti. A me l’idea mi era venuta perché ci stava un ufficiale americano che teneva l’allevamento e li vendeva alle signore ricche, che ormai non erano piú tanto ricche. Ci facevano il collo di pelliccia: risparmiavano e figuravano. Le zoccole che catturavo io, con la coda tagliata e tutte pitturate di bianco e marrò con la vernice per le scarpe, assomigliavano tali e quali ai criceti dell’ufficiale americano. Sul principio gli affari andavano bene. Tenevamo una bella clientela, io e Tommasino, e a quest’ora eravamo pure diventati ricchi se un brutto giorno non veniva a piovere. –Amerí, –ha detto Tommasino quella mattina, –se facciamo i soldi non ci devi andare piú dai comunisti! –Che c’entra, –ho risposto, –quella è come una specie di vacanza. –Sí, la vacanza dei morti di fame. Lo sai dove mi porta mia mamma l’estate prossima? Mi porta a Ischia…–Proprio in quel momento si è coperto il cielo ed è venuta una pioggia come non si era mai vista. –Tommasí, la prossima volta che devi dire una palla cosí grossa, prepara prima l’ombrello. Ce ne siamo scappati sotto il cornicione di un palazzo. La bancarella con i sorci pittati, però, è rimasta all’acqua. Nemmeno il tempo di toglierla da là, che la pittura per le scarpe ha iniziato a sciogliersi e i criceti sono ritornati zoccole. Le signore attorno alle gabbie si sono messe ad alluccare: –Schifosi! Il colera! A quel punto non potevamo piú scappare perché erano venuti i mariti delle signore, che ci volevano picchiare. Per fortuna è arrivato Capa ’e fierro, che ci ha pigliati a tutti e due per il colletto e ha ordinato: –Fate sparire subito quella fetenzia. Io e te poi facciamo i conti. Io avevo pensato che mi aspettava un paliatone, invece del fatto delle zoccole non ha piú detto niente. Poi un giorno, quando è arrivato per faticare con mia mamma, mi ha preso da parte prima di entrare, ha aspirato il fumo della sigaretta e prima di buttarlo fuori ha detto: –L’idea era buona, ma la bancarella la dovevate fare al coperto! –E si è fatto una risata, mentre gli anelli di fumo si allargavano nell’aria. –Se ti vuoi mettere nel commercio, devi venire con me al mercato, ti imparo io…–Poi mi ha appoggiato una mano sulla guancia, in un modo che non si capiva se era un pacchero o una carezza, e se ne è andato. Io quasi quasi da Capa ’e fierro ci volevo andare, ma solo per migliorare negli affari. Qualche giorno dopo, però, se lo sono portato le guardie. Per la storia del caffè, credo io. E cosí la gente del vicolo ha smesso pure di pensare ai criceti pittati perché tutti quanti parlavano di Capa ’e fierro che era andato carcerato. Mo voglio proprio vedere se va ancora dicendo che lui è un uomo libero! Mia mamma quando ha saputo il fatto ha tolto tutte le cose da sotto al letto e per diversi giorni ogni volta che sentiva un rumore alla porta nascondeva la faccia dietro alle mani e sembrava che voleva scomparire. Invece i giorni sono passati, da noi nessuno è venuto a controllare e la gente si è scocciata pure di questo. La gente parla sempre un sacco e poi si scorda subito, tranne mia mamma, che parla poco ma non si scorda mai niente. E infatti una mattina, quando io nemmeno ci pensavo piú, mi sveglia che il sole ancora deve uscire e fuori alla finestra è tutto scuro, si mette il vestito buono e si pettina davanti allo specchio. Mi prepara i panni meno consumati e dice: –Andiamo, sennò facciamo tardi –. E io capisco. Camminiamo, lei avanti e io dietro. Nel frattempo ha cominciato a piovere. Gioco a saltare nelle pozzanghere, mia mamma mi dà una scoppola dietro alla testa, ma i piedi ormai si sono bagnati e la strada è ancora lunga. Mi guardo intorno per fare il gioco delle scarpe e prendere altri punti, ma stamattina non tengo genio, mi vorrei mettere pure io le mani sulla faccia e scomparire un poco. Insieme a noi camminano un sacco di mamme con i figli. Ci stanno pure dei padri, ma si vede benissimo che non ci volevano venire. Uno di loro ha scritto sopra a un foglio tutte le avvertenze per il figlio: a che ora si sveglia, a che ora si va a coricare, che cosa gli piace mangiare, che cosa no, quante volte va di corpo a settimana, di lasciare un’incerata sotto al lenzuolo perché la notte se la fa addosso. Legge la lista mentre il figlio si mortifica davanti a tutti e alla fine gliela infila, piegata in quattro parti, in una tasca cucita dentro la camicia. Poi ci ripensa, prende un’altra volta il foglio e ci scrive sopra un ringraziamento già da ora alla famiglia che lo ospiterà, dicendo che loro non è che tengono bisogno, grazie a dio, ma il figlio ha tanto insistito e non se la sono sentiti di scontentarlo. Le femmine invece camminano senza vergogna e si tirano per mano chi due, chi tre, chi quattro figli. Io sono figlio unico, dato che con mio fratello maggiore Luigi non abbiamo fatto in tempo a conoscerci. Non abbiamo fatto in tempo neppure con mio padre, sono nato in ritardo con tutti. Meglio, però, cosí mio padre non si deve vergognare a portarmi sopra al treno. Arriviamo davanti a un palazzo lungo lungo. Dice mia mamma Antonietta che è l’Albergo dei Poveri. –Ma come, –faccio io, –non mi dovevano portare al Nord a fare la bella vita? E invece stiamo all’Albergo dei Poveri: io vado a peggiorare! Non era meglio che restavamo nel vicolo nostro? –Mia mamma dice che siamo venuti qua perché prima di mandarci nel Settentrione ci devono visitare, se siamo sani, se siamo malati, se siamo infettivi…–E poi, –dice, –ci devono dare i vestiti pesanti, i cappotti e le scarpe, perché là sopra non è come da noi. Ci sta l’inverno! –Scarpe nuove nuove? –dico io. –O nuove nuove, o usate ma sane, –dice lei. –Due punti! –grido io, e per un momento mi scordo della partenza e vado saltando torno torno. Davanti al palazzo lungo ci sta folla. Tutte le mamme con i figli appresso, di tutte le età: piccolissimi, piccoli, medi e grandi. Io sono tra i medi. Davanti all’entrata ci sta una signorina, ma non è Maddalena. Non è nemmeno una delle dame del riso. Dice che ci dobbiamo mettere in fila, che ci devono fare i controlli e poi ci devono cucire il numero per riconoscerci, sennò, quando torniamo, va a finire che restituiscono a ogni famiglia il figlio sbagliato e non ci ritroviamo piú. Io solo mia mamma tengo, e non voglio essere scambiato con un altro, perciò mi aggrappo alla sua borsa e dico che le scarpe nuove, alla fin fine, non mi servono e, se è per me, ce ne possiamo pure tornare a casa. Lei però o non mi sente o non mi vuole sentire. Io ho la tristezza nella pancia e penso che forse era meglio che continuavo a fare il minorato cacàglio per non partire. Giro la faccia perché non voglio che lei mi vede piangere e invece mi viene quasi da ridere: due file dietro a me in mezzo alla folla ci sta Tommasino. –Tommasí, –grido, –stai aspettando il vaporetto per Ischia? –Lui mi guarda con una faccia bianca bianca, sta morto di paura. Alla fine pure sua madre ha dovuto chiedere la carità! Mi ha detto la Pachiochia che donna Armida un tempo era ricca, ricca assai. Viveva in un palazzo al Rettifilo con la servitú. Confezionava i vestiti alle meglio signore della città e teneva conoscenze. Il marito, don Gioacchino Saporito, stava quasi quasi per comprarsi l’automobile. Secondo la Zandragliona, però, donna Armida si era fatta strada leccando i piedi, con rispetto parlando, ai fascisti. Poi, quando il fascismo cadde, lei tornò magliara, proprio come aveva iniziato. Il marito, che era stato un pezzo grosso, fu arrestato e interrogato. Tutti si aspettavano una punizione: una condanna, la galera. Invece poi non se ne fece piú niente. Disse la Zandragliona che c’era stata l’amnistia. Che è come quando mia mamma Antonietta scoprí che avevo rotto la zuppiera per i maccheroni che le aveva lasciato la buonanima di sua madre Filumena, pace a lei e salute a noi, e allora mi disse: «Levati davanti agli occhi miei sennò ti uccido di mazzate». E io me ne scappai dalla Zandragliona e non mi feci vedere per due giorni. Il marito fascista di donna Armida fu lasciato libero, se ne tornò a casa e nessuno gli disse piú niente. Adesso fanno i magliari dentro a un basso, nel vicolo a fianco al mio. Tommasino, quando donna Armida era sarta al Rettifilo, aveva le scarpe nuove nuovissime (stella premio). Quando poi sua mamma è ritornata magliara dentro al vicolo, lui ha avuto sempre le stesse scarpe di prima, ma ormai si erano fatte vecchie e bucate (un punto). Mia mamma, quando vede Tommasino in fila dietro a noi, mi stringe la mano per ricordarmi della promessa. Io pure stringo, però poi mi giro verso l’amico mio e gli strizzo l’occhiolino. Era successo infatti che qualche volta, quando andavo a fare le pezze, Tommasino veniva con me. Però donna Armida non era contenta perché diceva che il figlio se la deve fare con chi è meglio di lui e non con chi sta piú inguaiato ancora. Quando mia mamma venne a sapere di questa cosa mi fece promettere che a Tommasino lo lasciavo perdere, perché era figlio di cafoni arricchiti e poi di nuovo appezzentiti, e pure fascisti, come le aveva detto la Zandragliona. Andò a finire che io promisi a mia mamma e Tommasino alla sua. E cosí ogni pomeriggio ci vedevamo sempre, ma di nascosto. Continuano ad arrivare altre creature: alcune a piedi, altre sopra agli autobus offerti apposta dall’azienda tramviaria, come racconta una signora a fianco a noi, altri addirittura sui gipponi della polizia. A vederli cosí, senza soldati e pieni di bambini che salutano e di striscioni colorati, mi sembrano i carri della festa di Piedigrotta. Chiedo a mia mamma se posso salire pure io sul gippone. Lei dice di stare azzeccato a lei, che non mi devo perdere. E che se proprio mi devo perdere, devo aspettare prima che mi cuciono il numero addosso. La gente attorno è assai. Una signorina ci fa mettere in fila, ma la fila si muove sempre, come un capitone nelle mani del pescivendolo. Una femminuccia bionda, che finora aveva dato il tormento a sua mamma perché voleva salire sopra al treno, ha cambiato idea e piange che non vuole andare piú. Un maschietto un poco piú grande di me con un cappello marrò, venuto solo per accompagnare il fratello, dice che non è giusto che lui deve restare qua mentre il fratello se ne va a divertirsi, e piange pure lui. Volano allucchi e paccheri, ma niente, i pianti continuano e le mamme non sanno piú a quale santo votarsi. Alla fine arriva una delle signorine con gli elenchi, cancella il nome della femminuccia bionda, scrive il nome del maschio con il cappello marrò e accontenta tutti quanti. Tranne la mamma della bambina bionda, che se la porta via dicendo: a casa facciamo i conti. A un certo punto si sente una voce conosciuta: davanti a un gruppo di femmine che cammina in processione, ci sta la Pachiochia. Muove le braccia in aria e grida con tutto il fiato che ha in gola. Tiene appuntata in petto con gli spilli l’immagine di re Umberto. La prima volta che vidi la foto dentro al basso suo, dissi: e questo bel giovinotto con il baffino chi è? Il fidanzato vostro? La Pachiochia mi stava per prendere a calci, perché avevo offeso la buonanima del fidanzato suo morto nella prima guerra, pace all’anima sua, che lei non lo aveva mai tradito nemmeno col pensiero. Poi si segnò tre volte, si baciò la punta delle dita e buttò il bacio al cielo. La Pachiochia disse che il giovinotto con il baffino era l’ultimo re, che però aveva finito ancora prima di cominciare perché quelli là si erano messi in testa di fare la Repubblica e cosí avevano imbrogliato le cartoline elettorali per vincere loro. Disse la Pachiochia che lei era mo-nar-chi-ca. E che i comunisti avevano mandato tutto sotto sopra e mo non si capiva piú niente. Secondo lei, pure mio padre doveva essere un rosso malvivente e per questo se ne era dovuto fuggire, altro che America! Io pensai che poteva essere, perché infatti io anche sono rosso di capelli, invece mia mamma Antonietta è scura. Quindi il rosso doveva essere mio padre. E da quel momento ogni volta che per sfottermi mi chiamavano rosso «malupino» non mi sono piú preso collera. *