giovedì 16 gennaio 2020


UN CUORE SEMPLICE 
Gustave Flaubert

I.
Per mezzo secolo, le borghesi di Pont-1'Évèque invidiarono alla signora Aubain la sua domestica Félicité. 
Per cento franchi all'anno cucinava e badava alla casa, cuciva, lavava, stirava, sapeva imbrigliare un cavallo, ingrassare il pollame, montare il burro, e rimase fedele alla sua padrona, che da parte sua non era una persona facile. 
La signora Aubain aveva sposato un giovane bello ma spiantato, che era morto all'inizio del 1809, lasciandole due figli ancora in tenera età e una quantità di debiti. Fu allora costretta a vendere le sue proprietà, tranne la fattoria di Toucques e quella di Geffosses, le cui rendite ammontavano a non più di cinquemila franchi, e lasciò la sua casa di Saint-Melaine per andare ad abitare in un'altra meno dispendiosa, che era appartenuta ai suoi antenati e si trovava dietro il mercato. 
Questa casa, rivestita di ardesia, si trovava tra un passaggio e una stradina che portava al fiume. Internamente c'erano dislivelli che facevano inciampare. Uno stretto ingresso separava la cucina dalla sala, dove la signora Aubain se ne stava tutto il giorno seduta accanto alla finestra in una sedia impagliata. Contro la parete intonacata erano allineate otto sedie di mogano. Un vecchio pianoforte sopportava, sotto un barometro, il peso di una catasta piramidale di scatole e di cartoni. Due poltroncine rivestite di stoffa erano disposte ai due lati del camino di marmo giallo, stile Luigi xv. La pendola, al centro, rappresentava il tempio di Vesta, e in tutto l'appartamento c'era un odore di muffa, perché il pavimento era più basso del giardino. 
Al primo piano c'era innanzitutto la camera della «Signora», grandissima, con una carta a fiori d'un colore pallido, nella quale spiccava il ritratto del «Signore» in costume da moscardino. Comunicava con una camera più piccola, dove si trovavano due lettini, senza materasso. Seguiva il salotto, sempre chiuso, pieno di mobili coperti di lenzuola. Quindi un corridoio conduceva a uno studio; libri e scartoffie riempivano gli scaffali di una biblioteca che circondava su tre lati un vasto scrittoio di legno scuro. Il resto delle pareti spariva sotto disegni a sanguigna, pastelli di paesaggi e stampe di Audran, ricordi di un tempo migliore e di un lusso svanito. Al secondo piano la stanza di Félicité prendeva luce da un abbaino che affacciava sul prato. 
Si alzava all'alba, per non perdere la messa, e lavorava fino a sera senza fermarsi un istante; poi, terminata la cena, messe in ordine le stoviglie e sprangata la porta, sepolto il ceppo nel camino con la cenere, si addormentava davanti al focolare con il rosario in mano. Nessuno era più ostinato di lei nel mercanteggiare. Quanto a pulizia, lo scintillio delle sue pentole costituiva la disperazione delle altre domestiche. Economa, mangiava lentamente e con un dito raccoglieva sulla tavola le briciole del suo pane - un pane da dodici libbre, cotto apposta per lei, e che durava venti giorni. 
In qualunque stagione portava un fazzoletto di cotone appuntato sulla schiena con una spilla, una cuffia che le nascondeva i capelli, calze grigie, una sottana rossa, e sopra la camicetta un grembiule con la pettorina, come le infermiere dell'ospedale. 
Il suo viso era magro e la sua voce acuta. A venticinque anni gliene davano quaranta. Superata la cinquantina, non dimostrò più alcuna età; sempre silenziosa, la postura diritta e i gesti misurati, sembrava una donna di legno che funzionasse in modo automatico. 
II. 
Anche lei aveva avuto, come chiunque altro, la sua storia d'amore. 
Suo padre, un muratore, era morto precipitando da un'impalcatura. Successivamente morì anche sua madre, le sue sorelle si dispersero; un fattore la prese con sé e la mise, piccina com'era, a badare alle vacche in campagna. Batteva i denti dal freddo nei suoi miseri Straccetti, beveva carponi l'acqua degli stagni, per un niente veniva picchiata, e alla fine fu cacciata per un furto di trenta soldi che neppure aveva commesso. Entrò in un'altra fattoria, dove accudiva agli animali da cortile, e, dato che era simpatica ai padroni, suscitò le gelosie dei compagni. 
Una sera d'agosto (allora aveva diciotto anni), la trascinarono con loro alla festa di Colleville. D'improvviso si sentì smarrita, stupefatta dal chiasso dei musicanti, dalle luci negli alberi, dai costumi variopinti, dai merletti, dalle croci d'oro, da tutta quella gente saltellante. Si teneva modestamente da parte, quando un giovanotto dall'apparenza facoltosa e che fumava la pipa con i gomiti sul timone di un carro, le si avvicinò per invitarla a ballare. Le pagò da bere, sidro e caffè, poi una focaccia, un fazzoletto di seta, quindi, immaginando che lei se lo aspettasse, si offrì di riaccompagnarla. Sul limitare di un campo di avena, la rovesciò brutalmente al suolo. Félicité si impaurì e cominciò a gridare. Il giovanotto si allontanò. 
Un'altra sera, sulla strada di Beaumont, volle superare un grosso carro carico di fieno che avanzava lentamente, e sfiorando le ruote riconobbe Théodore. 
Lui la avvicinò tranquillamente, dicendo che bisognava perdonare, perché «era colpa del vino». 
Lei non seppe che cosa rispondere; aveva voglia di fuggire. 
Subito dopo il giovane cominciò a parlare del raccolto e dei notabili del comune, del fatto che suo padre aveva abbandonato Colleville per la tenuta degli Écots, dimodoché ora si trovavano a essere vicini. 
«Ah!», rispose Félicité. 
Théodore aggiunse che i suoi volevano che si sistemasse. Del resto, lui non aveva fretta e aspettava di incontrare una ragazza che gli andasse a genio. Lei abbassò la testa. Lui allora le chiese se pensasse al matrimonio. Félicité replicò sorridendo che non era giusto prenderla in giro. 
«Ma no, ve lo giuro!», e con il braccio sinistro le cinse la vita; lei continuava a camminare, sostenuta dal suo abbraccio; rallentarono. Il vento era debole, le stelle brillavano, l'enorme carico di fieno oscillava davanti a loro, e i quattro cavalli, scalpitando, sollevavano la polvere. Poi i due, senza preavviso, girarono a destra. Lui la abbracciò ancora una volta. Félicité scomparve nell'ombra. La settimana seguente, Théodore ottenne qualche appuntamento. 
Si incontravano in fondo a un cortile, dietro un muro, sotto un albero isolato. Lei non era poi così innocente come le signorine di buona famiglia: gli animali l'avevano istruita; ma il buon senso e l'istinto dell'onore le impedirono di capitolare. Questa resistenza esasperò l'amore di Théodore, al punto che, per soddisfarlo (o forse per pura ingenuità), le propose di sposarla. Lei esitava a credergli. Lui si profuse in giuramenti. 
Presto Théodore finì per confessare qualcosa di spiacevole; i suoi genitori, l'anno precedente, avevano «comprato» un uomo perché prestasse servizio militare al suo posto; ma da un giorno all'altro poteva essere richiamato, e l'idea della leva lo terrorizzava. Questa codardia fu per Félicité una prova di tenerezza, e la spinse a raddoppiare la sua. Scappava di notte e, arrivata all'appuntamento, Théodore la torturava con le sue ansie e le sue istanze. 
Finalmente, le annunciò che sarebbe andato di persona in Prefettura per prendere informazioni, che le avrebbe riferito la domenica successiva, tra le undici e mezzanotte. 
Quando arrivò il momento, Félicité corse verso il suo innamorato. 
Al suo posto trovò un suo amico. 
Questi le disse che Félicité non doveva più rivederlo. Per sfuggire alla leva, Théodore aveva sposato una donna anziana e ricchissima di Toucques, la signora Lehoussais. 
Fu un dolore sconvolgente. Félicité si gettò per terra, gridò, implorò il buon Dio, e continuò a gemere, tutta sola in mezzo alla campagna, fino all'alba. Poi tornò alla fattoria e comunicò la sua intenzione di andarsene; un mese dopo, saldati i suoi conti, raccolse tutto il suo piccolo bagaglio in un fazzoletto e si diresse verso Pont-l'Évèque. 
Davanti alla locanda interrogò una signora con una veletta da vedova, che per l'appunto cercava una cuoca. La ragazza non sapeva fare molto, ma sembrava così piena di buona volontà e di così poche pretese che la signora Aubain finì per dire: 
«Va bene, vi assumo!». 
Un quarto d'ora dopo, Félicité si era sistemata in casa Aubain. 
In principio visse in una sorta di soggezione provocatale dal 
«genere della casa» e dal ricordo del «Signore» che aleggiava ovunque! Paul e Virginie, l'uno di sette, l'altra di appena quattro anni, le sembravano fatti di una materia preziosa; li portava sulla schiena come un cavallo, e la signora Aubain le proibì di baciarli continuamente, cosa che la mortificò. Ciononostante si sentiva felice. La mitezza di quell'ambiente aveva fatto svanire la sua tristezza. 
Tutti i giovedì, gli assidui della casa venivano a fare una partita di «boston». Félicité preparava in anticipo le carte e gli scaldapiedi. Arrivavano alle otto in punto, e si congedavano sempre prima che suonassero le undici. 
Ogni lunedì mattina, il rigattiere che abitava sotto nel viale metteva in mostra per terra le sue ferraglie. La città si riempiva di un ronzio di voci, in cui i nitriti dei cavalli, il belare degli agnelli, i grugniti dei maiali si mescolavano con gli strepiti dei carri sulle strade. Verso mezzogiorno, momento culminante del mercato, si 
vedeva comparire sulla soglia di casa un contadino alto, col berretto all' indietro e il naso aquilino: era Robelin, il fattore di Geffosses. Poco dopo era la volta di Liébard, il fattore di Toucques, piccolo, rosso in volto, grasso, con indosso un vestito grigio e gambali armati di speroni. 
Tutti e due offrivano alla proprietaria polli e formaggi. Félicité sventava invariabilmente le loro astuzie, e i fattori se ne andavano pieni di considerazione per lei. 
A epoche indeterminabili, la signora Aubain riceveva la visita del marchese di Gremanville, uno zio rovinato dalla crapula e che viveva a Falaise nell'ultimo fazzoletto di terra che gli era rimasto. Si presentava sempre all'ora di pranzo, con un orrendo barboncino le cui zampe insudiciavano tutti i mobili. Malgrado i suoi sforzi per sembrare un gentiluomo, al punto di togliersi il cappello ogni volta che diceva: «Il mio defunto padre», le cattive abitudini lo vincevano, non perdeva occasione per versarsi da bere e si lasciava sfuggire frasi indecenti. Félicité lo spingeva fuori educatamente: «Per oggi basta così, signor di Gremanville! Alla prossima volta!». E richiudeva la porta. 
Ma la apriva con piacere davanti al signor Bourais, un avvocato a riposo. La sua cravatta bianca e la sua calvizie, la «lattuga» della sua camicia, la sua ampia finanziera marrone, il suo modo di fiutare tabacco curvando il braccio, tutta la sua persona producevano in lei quel turbamento in cui ci getta lo spettacolo degli uomini straordinari. 
Poiché amministrava le proprietà della «Signora», si chiudeva con lei per ore nello studio del «Signore», temeva sempre di compromettersi, nutriva un infinito rispetto per la magistratura e aveva qualche pretesa di latinista. 
Per istruire in modo piacevole i bambini, fece loro dono di un atlante geografico illustrato, dove erano raffigurate scene di tutto il mondo, antropofagi con copricapi di piume, una scimmia nell'atto di rapire una fanciulla, beduini nel deserto, una balena sul punto di essere arpionata e così via. 
Paul spiegò quelle stampe a Félicité. Questa fu tutta la sua educazione letteraria. 
Quella dei bambini era curata da Guyot, un povero diavolo impiegato al municipio, famoso per la sua bella calligrafia, e che affilava il suo temperino sugli stivali. 
Quando il tempo era bello, si partiva di buon'ora in direzione della fattoria di Geffosses. 
Il cortile era in discesa, e la casa era nel mezzo; in lontananza si scorgeva il mare, come una macchia grigia. 
Félicité estraeva dalla sporta fette di carne fredda, e si pranzava in un locale attiguo alla latteria. Era quanto restava di una villa di campagna ormai scomparsa. La carta alle pareti, in brandelli, tremava alla minima corrente d'aria. La signora Aubain stava a fronte china, oppressa dai ricordi; i bambini non osavano più dire una parola. «Su, andate a giocare!», diceva; loro non se lo facevano ripetere due volte. 
Paul saliva sul granaio, acciuffava gli uccelli, faceva rimbalzare i sassolini sullo stagno, oppure percuoteva con un bastone le grosse botti che risuonavano come tamburi. 
Virginie dava da mangiare ai conigli, si precipitava per cogliere i fiordalisi e la rapidità delle sue gambe scopriva le sue mutandine ricamate. 
Una sera d'autunno si ritornò per i pascoli. 
La luna, al suo primo quarto, illuminava una parte del cielo, e la nebbia fluttuava come una sciarpa sul sinuoso paesaggio di Toucques. I buoi, distesi in mezzo ai prati, guardavano tranquillamente quei quattro individui che passavano. Al terzo pascolo alcuni si alzarono, quindi circondarono il gruppetto. «Non abbiate paura!», disse Félicité; e, mormorando una sorta di nenia, accarezzò sul dorso quello che si trovava più vicino; l'animale fece un voltafaccia e gli altri lo imitarono. Ma, superato il pascolo successivo, si alzò un formidabile muggito. Era un toro, nascosto dalla nebbia. Avanzò verso le due donne. La signora Aubain stava per mettersi a correre. «No! no! più piano!» Nondimeno affrettarono il passo, sentendo alle loro spalle uno soffio sonoro che si avvicinava. I suoi zoccoli, come martelli, battevano l'erba del pascolo; ora galoppava! Félicité si girò, e afferrò a due mani delle zolle di terra che gettò negli occhi del toro. Quest'ultimo chinava il muso, scuoteva le corna e tremava di furore muggendo orribilmente. La signora Aubain, al limite del pascolo con i due piccoli, presa dal panico cercava di valicare il fossato. Félicité continuava a indietreggiare davanti al toro, e non smetteva di scagliare zolle di prato per accecarlo, gridando: «Sbrigatevi! sbrigatevi!». 
La signora Aubain oltrepassò il fossato, spinse Virginie, poi Paul, cadde parecchie volte nel tentativo di scalare la scarpata e, incalzata dalla paura, alla fine ci riuscì. 
Il toro aveva stretto Félicité contro una staccionata; la sua bava schizzava sul volto della poveretta, un secondo di più e l'avrebbe sventrata. La donna ebbe il tempo di incunearsi tra due pali e il bestione, rimasto di stucco, si fermò. 
Quell'avventura, per anni e anni, fu argomento di conversazione a Pont-PÉvèque. Félicité non ne trasse alcun motivo di vanto, ritenendo di non aver fatto nulla di eroico. 
Virginie la assorbiva quasi completamente, giacché a seguito di quello spavento ebbe una malattia nervosa, e il dottor Poupart consigliò dei bagni di mare a Trouville. 
A quel tempo non erano ancora molto frequentati. La signora 
Aubain prese informazioni, consultò Bourais, fece preparativi come per un lungo viaggio. 
I bagagli partirono con un giorno di anticipo, con il carro di Liébard. Il giorno seguente questi portò con sé due cavalli, uno dei quali aveva una sella da donna, munita di uno schienale di velluto; un mantello arrotolato sulla groppa del secondo formava una specie di seggio. La signora Aubain vi montò, dietro di lui. Félicité prese con sé Virginie, mentre Paul inforcò l'asino di Lechaptoir, ottenuto in prestito a patto di averne gran cura. 
La strada era così cattiva che i suoi otto chilometri richiesero due ore. I cavalli affondavano nel fango fino ai pasturali, e per uscirne provocavano bruschi scossoni con i fianchi, oppure inciampavano nelle carreggiate; altre volte erano costretti a saltare. La giumenta di Liébard in certi punti si fermava di colpo. Lui attendeva pazientemente che l'animale si rimettesse in marcia, e parlava di persone le cui proprietà costeggiavano la strada, aggiungendo alla loro storia le sue riflessioni morali. Così, in mezzo a Théodore, mentre passavano sotto finestre circondate di cappucciati, Liébard disse alzando le spalle: «Ecco qua la signora Lehoussais, che invece di prendersi un giovanotto...». Félicité non udì il resto; i cavalli trottavano, l'asino galoppava; tutti imboccarono un sentiero, si aprì un cancello, apparvero due ragazzi, e si smontò di cavallo davanti al letamaio, proprio sulla soglia della porta. 
La vecchia Liébard, vedendo la sua padrona, si profuse in dimostrazioni di gioia. Le servì un pranzo a base di lombo di bue, trippa, sanguinaccio, fricassea di pollo, sidro spumante, torta di frutta e prugne sotto spirito, accompagnando il tutto con una serie di complimenti alla «Signora» che sembrava in ottima salute, alla «Signorina» divenuta magnifica, al signorino Paul, singolarmente «sviluppato», senza dimenticare i defunti nonni, che i Liébard avevano conosciuto, essendo al servizio della famiglia da parecchie generazioni. La fattoria aveva, come loro, un che di antico. Le travi del tetto erano tarlate, le pareti nere di fumo, le finestre grigie di polvere. Una scansia di rovere sopportava ogni genere di utensili, brocche, piatti, scodelle di stagno, trappole per lupi, cesoie per tosare le pecore; un'enorme siringa fece ridere i ragazzi. Non c'era un albero nei tre cortili che non avesse una fungaia alla base o un ciuffo di vischio sui rami. Il vento ne aveva abbattuti parecchi. Ma altri si erano ripresi nel mezzo, e tutti erano piegati dal peso dei frutti. I tetti di paglia, simili a un velluto bruno e di ineguale spessore, resistevano alle più forti bufere. Ciononostante la rimessa andava in rovina. La signora 
Aubain disse che avrebbe provveduto, e ordinò di equipaggiare nuovamente i cavalli. 
Ci volle un'altra mezz'ora per arrivare a Trouville. La piccola carovana fu appiedata per superare le Écores, una scogliera a strapiombo sul mare; tre minuti più tardi, in fondo al molo, entrarono nel cortile dell'Agnello d'oro, dalla vecchia David. 
Virginie, fin dai primi giorni, si sentì meno debole: era il risultato del cambiamento d'aria e dell'azione dei bagni. In mancanza di un costume, li faceva in camicia; Félicité la rivestiva in un capanno dei doganieri utilizzato dai bagnanti. 
Nel pomeriggio si andava con l'asino oltre le Rocce Nere, dalla parte di Hennequeville. Dapprima il sentiero si inerpicava in mezzo a terreni avvallati come i prati di un parco, quindi arrivava su un altopiano dove si alternavano pascoli e campi coltivati. Sul limitare del sentiero, nel folto dei rovi, cresceva l'agrifoglio; qua e là, un grande albero morto formava zigzag con i rami nell'aria azzurra. 
Quasi sempre ci si riposava su una radura, avendo Deauville a destra, Le Havre a sinistra e di fronte il pieno mare. Era scintillante di sole, liscio come uno specchio, talmente calmo che se ne avvertiva appena il mormorio; qualche passero nascosto negli al-
beri pigolava, e tutto era ricoperto dalla volta immensa del cielo. La signora Aubain, seduta, era assorta nel suo lavoro di cucito; Virginie, al suo fianco, intrecciava giunchi; Félicité sarchiava fiori di lavanda; Paul si annoiava e voleva tornare. 
Altre volte, superata la Toucques in battello, andavano in cerca di conchiglie. La bassa marea lasciava nella secca ricci di mare, pesci rossi, meduse; i ragazzi correvano per acciuffare i fiocchi di schiuma trasportati dal vento. Le onde addormentate, ricadendo sulla sabbia, si esaurivano sul bagnasciuga; la spiaggia si estendeva a perdita d'occhio, ma dalla parte della terra era delimitata dalle dune che la separavano dal Marais, vasta prateria a forma di ippodromo. Quando tornavano, Trouville, in fondo, ai piedi del poggio, ingrandiva a ogni passo, e con tutte le sue case ineguali sembrava sbocciare in un allegro disordine. 
Nei giorni in cui faceva troppo caldo non uscivano dalla stanza. L'abbagliante chiarore dell'esterno stagliava barre di luce tra le doghe delle persiane. Non un rumore in paese. In basso, sul marciapiede, non c'era anima viva. Quel silenzio diffuso aumentava la tranquillità delle cose. In lontananza, i martelli dei calafati riparavano le carene, e una pesante brezza portava l'odore del catrame. 
Il principale divertimento era il ritorno delle barche. Non appena oltrepassate le boe, cominciavano a bordeggiare. Le loro vele erano ammainate ai due terzi degli alberi e, con il trinchetto gonfio come un pallone, avanzavano, scivolavano nello sciabordio delle onde, finché non si trovavano in pieno porto, dove bruscamente veniva gettata l'ancora. Dopodiché l'imbarcazione si ormeggiava lungo il molo. I marinai scaraventavano sull'argine pesci ancora palpitanti; una schiera di carretti li attendeva, e donne coperte di cuffie si precipitavano a prendere le ceste e ad abbracciare i loro uomini. 
Una di queste, un giorno, avvicinò Félicité, che poco dopo entrò in casa tutta raggiante. Aveva ritrovato sua sorella; subito dopo apparve Nastasie Barette, maritata Leroux, con un poppante al seno, un altro figlio nella mano destra e nella sinistra un piccolo mozzo con i pugni sui fianchi e il berretto su un orecchio. 
Un quarto d'ora dopo, la signora Aubain la congedò. 
Si incontravano spesso dalle parti della cucina, o durante la passeggiata. Il marito non si faceva mai vedere. 
Félicité si affezionò alla famiglia. Comprò loro una coperta, delle camicie, un fornello; evidentemente la sfruttavano. Questa sua debolezza irritava la signora Aubain, che del resto non gradiva le familiarità del nipote - dava del tu a suo figlio - e, dal momento che Virginie cominciava a tossire e la bella stagione era finita, tornò a Pont-1'Évèque. 
Il signor Bourais la indottrinò sulla scelta di un collegio. Quello di Caen era considerato il migliore. Paul vi fu iscritto, e salutò tutti coraggiosamente, soddisfatto di andare a vivere in una casa dove avrebbe avuto dei compagni. 
La signora Aubain si rassegnò alla lontananza di suo figlio, che del resto era indispensabile. Virginie ci pensò sempre meno. Félicité rimpiangeva i suoi schiamazzi. Ma fu distratta da una nuova occupazione; a partire da Natale, accompagnò tutti i giorni la piccina al catechismo. 
III. 
Dopo essersi genuflessa sulla porta, Félicité avanzava nella navata principale tra le due file di sedie, apriva il banco della signora Aubain, si sedeva e non smetteva di guardarsi attorno. 
I ragazzi a destra, le fanciulle a sinistra riempivano gli stalli del coro; il parroco stava in piedi vicino al leggio; in una vetrata dell'abside, lo Spirito Santo sovrastava la Vergine; un'altra la mostrava in ginocchio davanti a Gesù Bambino e, dietro il tabernacolo, una scultura lignea rappresentava san Michele che abbatte il drago. 
II sacerdote cominciò con un passo delle Sacre Scritture. Félicité credeva di vedere il paradiso, il diluvio, la torre di Babele, città in fiamme, popoli che morivano, idoli rovesciati; di quell'abbacinamento serbò il rispetto verso l'Altissimo e il timore della sua collera. Poi, ascoltando la Passione, pianse. Perché lo avevano crocifisso, lui che amava i bambini, nutriva le folle, guariva i ciechi, e aveva voluto, per umiltà, nascere in mezzo ai poveri, nel letame di una stalla? Le mietiture, i frantoi, le semine, tutte queste cose familiari di cui parla il Vangelo, erano ben presenti nella sua vita; il passaggio di Dio le aveva santificate; Félicité amò più teneramente gli agnelli per amore dell'Agnello di Dio e le colombe grazie allo Spirito Santo. 
Di quest'ultimo stentava a concepire le sembianze; infatti non era solo uccello, ma anche fuoco, e talvolta semplice soffio. E forse sua è la luce che volteggia di notte ai bordi delle paludi, suo l'alito che spinge le nubi, sua la voce che rende armoniose le campane; così Félicité restava in adorazione, godendo della freschezza delle mura e della tranquillità della chiesa. 
Quanto ai dogmi, non ne capiva un bel niente, né si affaticava troppo per penetrarli. Il parroco parlava, i bambini recitavano le preghiere, lei finiva per addormentarsi; si risvegliava di soprassalto, quando gli altri, andandosene, facevano risuonare il pavimento con gli zoccoli. 
Fu così che, a furia di ascoltare, imparò il catechismo, dal momento che la sua educazione religiosa era stata molto trascurata in gioventù; da allora imitò tutte le pratiche di Virginie, digiunò come loro e si confessò con lei. Per il Corpus Domini fecero insieme un repositorio. 
La prima comunione la tormentò con molto anticipo. Entrò in agitazione per le scarpette, per il cappellino, per il libro, per i guanti. Con quale emozione aiutò sua madre a vestirla! 
Per tutta la messa provò angoscia. Il signor Bourais le nascondeva una parte del coro; ma proprio di fronte, la schiera delle vergini inghirlandate di bianco sopra i loro veli abbassati, formava come un campo di neve; da lontano riconosceva la sua piccola Virginie dal collo così leggiadro e dall'atteggiamento raccolto. Suonò la campanella. Le teste si chinarono; vi fu un silenzio. Al tuonare dell'organo, i cantori e la folla dei fedeli intonarono l'A-
gnus Dei; poi cominciò la sfilata dei ragazzi e, dopo di loro, si alzarono le fanciulle. Passo dopo passo, a mani giunte, procedevano verso l'altare tutto illuminato, si genuflettevano sul primo gradino, quindi ricevevano l'ostia e nello stesso ordine tornavano al loro inginocchiatoio. Quando fu il turno di Virginie, Félicité si sporse per vederla; e, con l'immaginazione che solo la vera tenerezza può dare, le sembrò di essere lei stessa quella bambina; la figura di Virginie diveniva la sua, il suo abitino la vestiva, il suo cuore batteva forte nel petto di Félicité; al momento di aprire la bocca e di ricevere l'ostia, Félicité chiuse le palpebre e per poco non svenne. 
L'indomani, di buon'ora, si presentò in sacrestia per ricevere la comunione dal parroco. La prese con devozione, ma non provò le stesse delizie. 
La signora Aubain voleva fare di sua figlia una persona ben istruita e, dal momento che Guyot non poteva insegnarle né la musica né l'inglese, decise di metterla a pensione dalle Orsoline di Honfleur. 
La bambina non ebbe nulla da obiettare. Félicité sospirava, trovava la signora insensibile. Ma poi pensò che forse la sua padrona aveva ragione. Erano cose che andavano oltre le sue competenze. 
Finalmente, un giorno, una vecchia carrozza si fermò davanti alla porta; ne discese una suora che veniva a prendere la signorina. Félicité caricò i bagagli sull'imperiale, si raccomandò al vetturino, mise nel cofano sei vasi di marmellata e una dozzina di pere, con un mazzo di violette. 
Virginie, all'ultimo momento, fu presa da grandi singhiozzi; abbracciava sua madre, che la baciava sulla fronte ripetendole: «Su! coraggio! coraggio!». Alzarono il predellino, e la carrozza partì. 
Allora la signora Aubain ebbe un cedimento; quella sera tutti gli amici, i Lormeau, la signorina Lechaptois, le signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e il signor Bourais si presentarono per consolarla. 
In principio rinunciare a sua figlia fu per lei molto doloroso. Ma tre volte alla settimana ne riceveva una lettera, gli altri giorni le scriveva, passeggiava in giardino, leggeva un po', e in questo modo colmava il vuoto delle ore. 
Al mattino, per abitudine, Félicité entrava nella camera di Virginie e guardava le pareti. Si annoiava perché non doveva più pettinarle i capelli, allacciarle le scarpette, rincalzarle la coperta, perché non vedeva più continuamente la sua gentile figura, perché non la teneva per mano quando uscivano insieme. Trovatasi senza occupazioni, tentò di fare qualche merletto. Le sue dita troppo pesanti rompevano i fili; non capiva più niente, aveva perduto il sonno, era «minata», come diceva lei. 
Per «distrarsi un po'», chiese il permesso di ricevere visite da suo nipote Victor. 
Arrivava la domenica dopo la messa, rubizzo in volto, a petto nudo, portando con sé l'odore della campagna che aveva attraversato. Lei apparecchiava immediatamente la tavola. Pranzavano l'uno di fronte all'altra e, poiché Félicité mangiava il meno possibile per tenere in serbo la dispensa, lo ingozzava di cibo a tal punto che il ragazzo finiva per addormentarsi. Al primo rintocco del vespro lei lo svegliava, gli spazzolava i pantaloni, gli annodava la cravatta, e andava in chiesa a braccetto con lui, piena di un orgoglio materno. 
I genitori lo incaricavano sempre di portare indietro qualcosa, un pacchetto di zucchero, un pane di sapone, un po' di acquavite, talvolta addirittura del denaro. Portava i suoi panni logori da raccomodare, e Félicité accettava l'incombenza, felice di avere un'occasione per farlo tornare. 
Nel mese di agosto suo padre lo portò con sé in barca. Era l'epoca delle vacanze. Il ritorno dei bambini la consolò. Ma Paul si era fatto capriccioso, e Virginie non aveva più l'età per essere trattata confidenzialmente. Questo creava una specie di disagio, una barriera tra loro. 
Victor andò successivamente a Morlaix, a Dunkerque, a Brighton; al ritorno da ogni viaggio, aveva sempre un regalo per lei. La prima volta fu una scatola coperta di conchiglie; la seconda una tazzina da caffè; la terza, un pupazzo di pan pepato. Si faceva più bello, più robusto, aveva un paio di baffetti, uno sguardo buono e sincero e un cappello di cuoio, portato all' indietro come un pilota. La divertiva raccontandole storie intercalate di termini marinareschi. 
Un lunedì, era il 14 luglio 1819 (Félicité non dimenticò mai la data), Victor le disse che aveva avuto un contratto per un imbarco a lungo termine, e che, di lì a due notti, avrebbe raggiunto con il battello di Honfleur la sua goletta, che doveva salpare da Le Havre prossimamente. Forse sarebbe rimasto fuori per due anni. 
La prospettiva di un'assenza tanto prolungata costernò Félicité, e per salutarlo ancora una volta, quel mercoledì sera, dopo la cena della Signora, si infilò le soprascarpe e divorò le quattro leghe che separano Pont-1'Évèque da Honfleur. 
Quando giunse davanti al Calvaire, invece di prendere a sinistra andò a destra; si smarrì nei cantieri, tornò sui suoi passi; certa gente incontrata strada facendo le disse che doveva spicciarsi. Fece il giro della darsena piena di navi, urtò gli ormeggi; poi il terreno cominciò a prendere una pendenza verso il basso, le luci si incrociarono, e Félicité credette di essere impazzita vedendo dei cavalli in cielo. 
Sul molo ce n'erano altri che nitrivano, spaventati dal mare. Un paranco li sollevava e li depositava nell'imbarcazione, dove i viaggiatori si accalcavano tra i fusti di sidro, i panieri di formaggio e i sacchi di frumento; si sentivano cantare i galli, il capitano bestemmiava; c'era un mozzo che, indifferente a tutto questo, se ne stava con i gomiti sul parapetto. Félicité, che dapprincipio non lo aveva riconosciuto, gridava: «Victor!». Alzò la testa; lei si lanciò, ma d'improvviso ritirarono la passerella. 
Il battello, che le donne alavano cantando, uscì dal porto. La chiglia scricchiolava, pesanti onde frustavano la prua. Poi la vela virò e non si vide più nessuno; sul mare argentato dalla luna, la nave formava una macchia nera che impallidiva sempre più, finché s'inabissò e scomparve. 
Félicité, passando davanti al Calvaire, volle raccomandare a Dio quanto aveva di più caro; pregò a lungo, in piedi, il viso inondato di lacrime, gli occhi verso le nuvole. La città dormiva, i doganieri erano di ronda, l'acqua precipitava ininterrottamente dalle bocche della chiusa, con un rumore di torrente. Suonarono le due. 
Il parlatorio non sarebbe stato aperto prima dell'alba; un ritardo avrebbe di certo contrariato la Signora; ma nonostante il suo desiderio di abbracciare Virginie, tornò a casa. Le cameriere della locanda si svegliavano quando Félicité entrò a Pont-1'Évéque. Quel povero ragazzo sarebbe dunque stato per mesi in balia delle onde! I suoi viaggi precedenti non l'avevano spaventata; dall'Inghilterra, dalla Bretagna si tornava; ma l'America, le Colonie, le Isole, erano qualcosa di sperduto in una regione incerta, all'altro capo del mondo. 
Da allora, Félicité pensò esclusivamente a suo nipote. Nei giorni di sole era tormentata dall'idea che soffrisse la sete; quando c'era tempesta, temeva i fulmini. Ascoltando il vento che brontolava nel camino e portava via le tegole, lo vedeva battuto da quella stessa tempesta, in cima a un albero fracassato, con il cor-
po all' indietro sotto un getto di schiuma; oppure - reminiscenza dell'atlante illustrato - era mangiato dai selvaggi, rapito in una foresta dalle scimmie, moriva su una spiaggia deserta. Delle sue inquietudini non parlava con nessuno. 
La signora Aubain ne nutriva altre a causa di sua figlia. 
Le brave suore trovavano che era affettuosa, ma cagionevole. La minima emozione la affaticava. Dovette rinunciare al pianoforte. 
Sua madre esigeva dal convento una corrispondenza regolare. Un mattino che il portalettere non era venuto, si spazientì; faceva su e giù nella stanza, dalla poltrona alla finestra. Era davvero straordinario! Da quattro giorni, nessuna notizia! 
Per consolarla con il suo esempio, Félicité le disse: 
«Io, Signora, non ne ricevo da sei mesi!...». «E da chi?...» 

La serva replicò bonariamente: 
«Ma... da mio nipote!». 
«Ah! vostro nipote!» E, scrollando le spalle, ricominciò la sua passeggiata, come a dire: «E chi ci pensava!... E poi, che volete che me ne importi! Un mozzo, un pezzente, bell'affare!... mentre mia figlia... Pensate un po'!...». 
Félicité, benché cresciuta in mezzo alle asprezze, si indignò contro la Signora, ma poi dimenticò. 
Le sembrava naturalissimo che si potesse perdere la testa per via della piccina. 
I due ragazzi avevano per lei la stessa importanza; uno stretto legame li univa nel suo cuore, e il loro destino doveva essere comune. 
II farmacista le disse che la nave di Victor era giunta all'Avana. Aveva letto la notizia in un giornale locale. 
Per via dei sigari, Félicité immaginava L'Avana come un paese nel quale non si faceva altro che fumare, con Victor che si aggirava tra i negri in una nube di tabacco. Si poteva tornare di là via terra «in caso di bisogno»? Quanto distava da Pont-1'Évèque? 
Per saperlo interrogò il signor Bourais. 
Questi prese l'atlante, quindi cominciò a dare delucidazioni sulla longitudine; aveva un bel sorriso da pedante davanti all'aria stupefatta di Félicité. Alla fine, con il suo portalapis, indicò nelle frastagliature di una chiazza di forma ovale un punto nero, impercettibile, aggiungendo: «È qui». Lei si chinò sulla carta; quel reticolo di linee colorate le affaticava la vista senza dirle un bel nulla; dal momento che Bourais la invitava a esprimere le sue perplessità, lo pregò di mostrarle la casa in cui abitava Victor. Bourais alzò le braccia, starnutì, rise sguaiatamente; tanto candore lo mandava in visibilio, e Félicité non ne comprendeva il moti-
vo - lei che forse si aspettava di vedere addirittura il ritratto di suo nipote, tanto la sua intelligenza era limitata! 
Quindici giorni dopo Liébard, come al solito all'ora del mercato, entrò in cucina e le consegnò una lettera inviatale da suo cognato. Poiché nessuno dei due sapeva leggere, Félicité dovette ricorrere alla padrona. 
La signora Aubain, che contava i punti del suo lavoro a maglia, lo posò accanto a sé, aprì la busta, ebbe un sussulto e, con voce bassa, con uno sguardo profondo: 
«Vi annunciano... una disgrazia... vostro nipote...». 
Era morto. Non dicevano altro. 
Félicité cadde su una sedia, appoggiando la testa sul tramezzo, e chiuse le palpebre, che d'improvviso si arrossarono. Poi, con la fronte bassa, le mani pendule, lo sguardo fisso, a tratti ripeteva: 
«Povero ragazzo! povero ragazzo!». 
Liébard la guardava sospirando. La signora Aubain tremava un poco. 
Le propose di andare a trovare sua sorella a Trouville. 
Félicité rispose, con un gesto, che non ce n'era bisogno. 
Vi fu un silenzio. Il buon Liébard giudicò opportuno ritirarsi. 
Allora Félicité disse: 
«Che cosa vuole che importi, a loro!». 
Chinò di nuovo la testa; macchinalmente, di tanto in tanto, sollevava i lunghi ferri da calza sul tavolo da lavoro. 
Nel cortile passarono alcune donne con una carretta nella quale sgocciolava un bucato. 
Vedendole dalla finestra, Félicité si ricordò del suo; avendolo messo a mollo il giorno prima, ora doveva sciacquarlo, sicché uscì dall'appartamento. 
L'asse e la tinozza erano in riva alla Toucques. Gettò sulla sponda un mucchio di camicie, si rimboccò le maniche, prese la mestola; i forti colpi che dava si sentivano fin nei giardini del circondario. I prati erano deserti, il vento agitava il fiume; nel fondo aleggiavano erbe lunghe come chiome di cadaveri a galla sull'acqua. Félicité soffocava il suo dolore, fino a sera fu coraggiosissima; ma una volta nella sua camera vi si abbandonò, gettandosi sul materasso, con il volto nel cuscino e i pugni contro le tempie. 
Molto più tardi venne a sapere le circostanze della fine di Victor dal suo stesso capitano. L'avevano salassato troppo all'ospedale, per la febbre gialla. Avevano dovuto tenerlo quattro medici. Era morto immediatamente, e il capo aveva detto: 
«Bene! ancora uno!». 
I suoi genitori l'avevano sempre trattato duramente. Félicité preferì non rivederli; quanto a loro, non fecero alcun tentativo, per dimenticanza, o per un incallimento da miserabili. 
Virginie era sempre più debole. 
I mancamenti d'aria, la tosse, una febbre continua e le venature agli zigomi rivelavano qualche grave malattia. Il dottor Poupart aveva consigliato un soggiorno in Provenza. La signora Aubain vi si decise; avrebbe subito ripreso sua figlia in casa, non fosse stato per il clima di Pont-PÉvèque. 
Si accordò con un vetturino a nolo, che la portava al convento ogni martedì. Nel giardino c'è una terrazza dalla quale si vede la Senna. Virginie vi passeggiava a braccetto con lei, sopra i pampini caduti. Talvolta il sole, attraversando le nubi, la costringeva a battere le palpebre, mentre contemplava le vele in lontananza e tutto l'orizzonte, dal castello di Tancarville fino ai fari di Le Havre. Poi ci si riposava sotto il pergolato. Sua madre si era procurata una botticella di ottimo vino di Malaga e, ridendo all'idea di essere brilla, ne beveva due dita, mai di più. 
Le tornarono le forze. L'autunno passò dolcemente. Félicité rassicurava la signora Aubain. Ma, una sera che era stata nei dintorni per certe commissioni, davanti all'uscio si imbatté nel calesse del dottor Poupart; era nell'ingresso. La signora Aubain si annodava il cappello. 
«Datemi lo scaldino, la borsa, i guanti; presto!» 
Virginie aveva avuto una flussione di petto; forse il caso era disperato. 
«Non ancora!», disse il medico, ed entrambi salirono nella vettura, sotto i fiocchi di neve che mulinavano. Tra poco sarebbe scesa la notte. Faceva un gran freddo. 
Félicité si precipitò in chiesa per accendere un cero. Quindi corse dietro il calesse, che raggiunse un'ora più tardi; saltò agilmente nella parte posteriore, dove si sorreggeva al passamano, quando le sorse una riflessione: «Il cortile non era chiuso! E se 
fossero entrati dei ladri?». Scese giù. 
L'indomani all'alba si presentò in casa del dottore. Era tornato e ripartito subito per la campagna. Decise allora di restare nella locanda, pensando che qualcuno avrebbe portato una lettera. Finalmente, a giorno fatto, prese la diligenza di Lisieux. 
Il convento si trovava in fondo a un sentiero scosceso. A metà percorso udì strani suoni, una campana a morto. «È per qualcun altro», pensò; picchiò violentemente il martello. 
Di lì a qualche minuto sentì uno strascicare di ciabatte, la porta si socchiuse, apparve una suora. 
La religiosa, con un'aria compunta, le disse che «era appena trapassata». In quel preciso istante la campana di Saint-Léonard suonò di nuovo. 
. Félicité arrivò al secondo piano. 
Dalla soglia della camera, vide Virginie distesa sulla schiena, con le mani giunte, la bocca aperta e la testa all' indietro sotto una croce nera piegata verso di lei, tra le tende immobili, meno pallide del suo volto. La signora Aubain, ai piedi del capezzale che stringeva tra le braccia, singhiozzava come fosse in agonia. La madre superiora era in piedi, sulla destra. Tre candelieri formavano macchie rosse sul canterano, e la nebbia tingeva di bianco le finestre. Alcune suore portarono via la signora Aubain. 
Per due notti, Félicité non lasciò la morta. Ripeteva le stesse preghiere, gettava acqua benedetta sulle lenzuola, tornava a sedersi e a contemplarla. Alla fine della prima veglia notò che il volto era diventato giallo, le labbra bluastre, il naso più sottile, gli occhi scavati. Li baciò parecchie volte, e non avrebbe provato un immenso stupore se Virginie li avesse riaperti; per simili anime il soprannaturale è una cosa semplicissima. La lavò, l'av-
volse nel sudario, la calò nella bara, depose una corona, le ravviò i capelli. Erano biondi, e straordinariamente lunghi per la sua età. Félicité ne tagliò una grossa ciocca, insinuandone metà nel proprio petto, decisa a non separarsene mai più. 
Il corpo fu trasportato a Pont-1'Évèque, secondo le volontà della signora Aubain, che seguiva il corteo funebre in una vettura chiusa. 
Dopo la messa, ci vollero ancora tre quarti d'ora per arrivare al cimitero. Paul camminava in testa al corteo e singhiozzava. Dietro di lui c'era il signor Bourais, quindi i notabili del paese, le donne coperte ammantate di nero, e in ultimo Félicité. Pensava a suo nipote e, non avendo potuto rendergli quelle onoranze, si sentiva doppiamente triste, come se avessero seppellito anche lui con l'altra. 
La disperazione della signora Aubain fu illimitata. 
Dapprima si ribellò contro Dio, accusandolo di essere ingiusto per averle preso sua figlia - proprio con lei, che non aveva mai fatto del male, e la cui coscienza era pura! - Ma no! avrebbe dovuto portarla nel Mezzogiorno. Altri dottori l'avrebbero salvata! Si accusava, voleva raggiungerla, gridava in preda alla disperazione durante i suoi sogni. Soprattutto uno la ossessionava. Suo marito, vestito da marinaio, tornava da un lungo viaggio, e piangendo le diceva che aveva ricevuto l'ordine di portar via Virginie. Allora si accordavano per trovare da qualche parte un nascondiglio. 
Una volta tornò dal giardino sconvolta. Pochi istanti prima (indicava il luogo dove era accaduto) le erano apparsi padre e figlia, l'uno accanto all'altro; non facevano niente, e la guardavano. 
Per parecchi mesi restò chiusa nella sua camera, come inerte. 
Félicité le faceva bonariamente la predica; doveva conservarsi per suo figlio, in ricordo di «lei». 
«Lei?», replicava la signora Aubain, come risvegliata. «Ah! sì!... sì!... Non dimenticatela!» Alludeva al cimitero, che le avevano scrupolosamente proibito. 
Félicité ci andava tutti i giorni. 
Alle quattro precise costeggiava le case, saliva sul poggio, apriva la cancellata, e arrivava davanti alla tomba di Virginie. Era una colonnina di marmo rosa, con una lapide in basso, e attorno una ringhiera metallica che racchiudeva un giardinetto. Le aiuole sparivano sotto un letto di fiori. Félicité ne inumidiva le foglie, rinnovava la sabbia, si metteva in ginocchio per zappettare meglio la terra. La signora Aubain, quando potè venire, provò un gran sollievo, una specie di consolazione. 
Gli anni passarono, tutti uguali e senza avvenimenti, tranne la ricorrenza delle grandi festività: Pasqua, l'Assunzione, Ognissanti. Qualche evento interno creava una data, cui fare riferimento più tardi. Così, nel 1825, due muratori intonacarono l'ingresso; nel 1827, un pezzo di tetto, cadendo, per poco non uccise un uomo. Nell'estate del 1828 toccò alla signora offrire il pane benedetto; Bourais in quell'epoca si assentò misteriosamente, e i vecchi conoscenti se ne andarono uno dopo l'altro: Guyot, Liébard, la signora Lechaptois, Robelin, lo zio Gremanville, paralizzato da molto tempo. 
Una notte il postiglione della corriera postale annunciò a Pontl'Evèque la Rivoluzione di Luglio. Pochi giorni dopo fu nominato un nuovo sottoprefetto: il barone di Larsonnière, ex console in America, e che aveva in casa, oltre a sua moglie, una cognata con tre signorine, già grandicelle. Si vedevano ogni tanto sul prato, vestite di camicette svolazzanti; possedevano un negro e un pappagallo. La signora Aubain ricevette una loro visita, e non mancò di ricambiarla. Quando apparivano in lontananza, Félicité accorreva per avvisarla. Ma una sola cosa era in grado di commuoverla: le lettere di suo figlio. 
Non riusciva a dedicarsi ad alcuna carriera, perché era assorbito dalla vita dei caffè. La madre pagava i suoi debiti; lui ne contraeva di nuovi. E i sospiri che la signora Aubain faceva lavorando a maglia accanto alla finestra arrivavano a Félicité, che in cucina girava il suo arcolaio. 
Passeggiavano insieme lungo la spalliera del frutteto; parlavano sempre di Virginie, chiedendosi se la tal cosa le sarebbe piaciuta, che cosa avrebbe probabilmente detto nella tal occasione. 
Tutte le sue piccole cose occupavano una credenza nella camera a due letti. La signora Aubain le passava in rassegna il meno possibile. Un giorno d'estate si rassegnò: dall'armadio volò via una nuvola di farfalle. 
I suoi vestiti erano appesi sotto una mensola dove c'erano tre bambole, dei cerchi, una cucinetta, il catino che usava per lavarsi. Trassero fuori anche le gonne, le calze, i fazzoletti, e li stesero sui due letti prima di ripiegarli. Il sole illuminava quei poveri oggetti, ne metteva in luce le macchie e certe pieghe dovute ai movimenti del corpo. L'aria era calda e azzurra, un merlo fischiava, tutto sembrava vivere in una profonda dolcezza. Ritrovarono un 
piccolo cappello di felpa, dal pelo lungo, color marrone; era tutto mangiato dalle tarme. Félicité lo chiese per sé. I loro occhi si fissarono a vicenda, si riempirono di lacrime; infine la padrona aprì le braccia, la serva vi si gettò; si strinsero, appagando il loro dolore in un bacio che le rendeva uguali. 
Era la prima volta nella loro vita. La signora Aubain infatti non aveva un carattere espansivo. Félicité gliene fu riconoscente come di un regalo, e da allora la amò con una dedizione animale e una venerazione religiosa. 
La bontà del suo cuore si dispiegò. 
Quando udiva per strada i tamburi di un reggimento in marcia, si metteva davanti alla porta con una brocca di sidro e offriva da bere ai soldati. Curò i malati di colera. Proteggeva i profughi polacchi; uno addirittura dichiarò di volerla sposare. Ma poi litigarono, perché un mattino, di ritorno dall'angelus, lei lo trovò in cucina, dove si era introdotto e preparato una salsa agrodolce, che stava mangiando tranquillamente. 
Dopo i polacchi, fu il turno di papà Colmiche, un vecchio che a quanto dicevano aveva preso parte agli orrori nel '93. Viveva in riva al fiume, tra le macerie di un porcile. I monelli lo guardavano dalle brecce del muro, e gli lanciavano sassolini che cadevano sul suo pagliericcio, dove giaceva continuamente scosso da attacchi di tosse, con i capelli lunghissimi, le palpebre infiammate, e un tumore al braccio più grosso della testa. Félicité gli procurò della biancheria, tentò di ripulire il suo tugurio, e avrebbe voluto trovargli una sistemazione nei pressi del forno, senza che questo recasse fastidio alla Signora. Quando il cancro si crepò, lei lo medicò tutti i giorni, a volte gli portava una focaccia, lo metteva al sole su una balla di paglia; il povero vecchio, sbavando e tremando, la ringraziava con la sua voce spenta, temeva di perderla, protendeva le mani non appena lei si allontanava. Morì; Félicité fece dire una messa per l'eterno riposo della sua anima. 
Quel giorno provò una grande felicità: all'ora di pranzo, il negro della signora di Larsonnière si presentò, tenendo il pappagallo nella gabbia, con il trespolo, la catena e il chiavistello. Un biglietto della sua padrona annunciava che, a seguito della promozione di suo marito a prefetto, sarebbero partiti quella sera stessa; la pregava di accettare quell'uccello come ricordo, in testimonianza della sua deferenza. 
Il pappagallo era da tempo oggetto delle fantasie di Félicité, poiché veniva dall'America, e questa parola le ricordava Victor, al punto che aveva chiesto informazioni al negro. Una volta aveva perfino detto: «La Signora sarebbe felice di averlo!». 
Il negro aveva riferito la frase alla sua padrona, la quale, non potendo portare la bestia con sé, se ne sbarazzava in questo modo. 
IV. 
Si chiamava Lulù. Il corpo era verde, l'estremità delle ali rosa, la fronte azzurra e la gola dorata. 
Lulù aveva l'estenuante mania di mordere il trespolo, si strappava le piume, spargeva i suoi bisogni, faceva schizzare fuori l'acqua della sua vaschetta; la signora Aubain, non potendone più, lo regalò definitivamente a Félicité. 
Cominciò ad ammaestrarlo; presto ripetè: «Bel ragazzo! Servo vostro, signore! Ave Maria!». Aveva trovato posto vicino alla porta, e parecchi si stupirono che non rispondesse al nome di Jacquot, dato che tutti i pappagalli si chiamano Jacquot. Lo paragonavano a un tacchino, a un ceppo: altrettante pugnalate per Félicité! Strana ostinazione di Lulù: smetteva di parlare non appena lo si cominciava a guardare! 
Ciononostante cercava la compagnia; infatti la domenica, mentre quelle signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e nuovi invitati abituali: Onfroy lo speziale, il signor Varin e il capitano Mathieu, facevano la loro partita a carte, Lulù picchiava sul vetro con le ali, e si dimenava tanto furiosamente che era impossibile ascoltarsi a vicenda. 
L'aspetto di Bourais doveva indubbiamente sembrargli buffo. Appena lo vedeva cominciava a ridere, a ridere con tutte le sue forze. Gli scoppiettìi del suo verso rimbalzavano nel cortile, l'eco li ripeteva, i vicini si affacciavano alle finestre e ridevano anche loro; sicché, per non essere visto dal pappagallo, il signor Bourais strisciava rasente i muri, dissimulando il suo profilo sotto il cappello, raggiungeva il fiume, quindi entrava dalla porta che dava sul giardino; gli sguardi che inviava all'uccello non erano certo teneri. 
Una volta Lulù aveva ricevuto un buffetto dal garzone del macellaio, perché aveva insinuato la testa nel suo cesto; da allora tentava sempre di pizzicarlo attraverso la camicia. Fabu minacciava di torcergli il collo, anche se non era crudele, malgrado i tatuaggi sulle braccia e i folti favoriti. Al contrario! aveva piuttosto una specie di debole per il pappagallo, al punto di volergli insegnare, per un gioviale buonumore, qualche bestemmia. Félicité, spaventata dalle sue maniere, sistemò il pappagallo in cucina. Tolse via la catena, dimodoché ora razzolava per la casa. 
Quando scendeva le scale, appoggiava sui gradini la curva del becco, sollevava la zampa destra, poi la sinistra; Félicité aveva paura che una simile ginnastica gli provocasse qualche stordimento. Si ammalò; non riusciva più a mangiare e a parlare. Sotto la lingua aveva un ispessimento, come talvolta ne hanno le galline. Félicité lo guarì strappando quella membrana con le unghie. Il signor Paul, un giorno, ebbe l'imprudenza di soffiargli sulle narici un po' di fumo del suo sigaro; un'altra volta che la signora Lormeau lo infastidiva con la punta dell'ombrello, inghiottì la ghiera; alla fine si perse. 
Félicité l'aveva deposto sull'erba per rinfrescarlo; si assentò un minuto e, quando tornò, niente più pappagallo! In principio cominciò a cercarlo tra i cespugli, in riva al fiume o sopra i tetti, senza prestare ascolto alla padrona che le diceva: «State attenta! siete impazzita!». Successivamente ispezionò tutti i giardini di Pont-1'Évèque; fermava i passanti: «Avete visto per caso il mio pappagallo?». A quelli che non lo conoscevano ne dava una descrizione. D'un tratto, credette di distinguere, dietro i mulini, ai piedi della costa, qualcosa di verde che volteggiava. Ma giunta in cima alla costa, niente! Un venditore ambulante le disse che l'aveva visto poco prima, a Melarne, nella bottega della vecchia Simon. Vi corse subito. Là non sapevano che cosa andasse cercando. Alla fine tornò a casa, sfinita, con le ciabatte ridotte in brandelli e la morte nell'anima; seduta sulla panca, accanto alla Signora, stava raccontando tutte le sue traversie, quando un leggero peso le piombò sulla spalla: Lulù! Che diavolo aveva fatto? Forse se ne era andato un po' in giro nei dintorni! 
Félicité faticò a rimettersi, o meglio non si rimise mai più. 
A seguito di un raffreddore le venne un'angina; poco tempo dopo un mal d'orecchi. Tre anni più tardi era sorda; parlava a 
voce alta, perfino in chiesa. Benché i suoi peccati avrebbero potuto, senza alcun disonore per lei né inconvenienti di sorta per la gente, propagarsi in tutti gli angoli della diocesi, il parroco giudicò opportuno ricevere la sua confessione esclusivamente in sacrestia. 
Ronzii illusori finivano di sconvolgerle la mente. Spesso la padrona le diceva: «Mio Dio! come siete stupida!». Félicité replicava: «Sì, Signora», cercando qualcosa attorno a sé. 
La sparuta cerchia delle sue idee si restrinse ancor di più, lo squillo delle campane, il muggito dei buoi per lei non esistevano più. Tutti gli esseri funzionavano con il silenzio dei fantasmi. Un solo rumore arrivava ora alle sue orecchie, la voce del pappagallo. 
Come a volerla distrarre, riproduceva il ticchettio del girarrosto, il richiamo acuto del pescivendolo, la sega del falegname che abitava di fronte; e, al suono del campanello, imitava la signora Aubain: «Félicité! la porta! la porta!». 
Avevano dei dialoghi, lui sillabando a sazietà le tre frasi del suo repertorio, lei rispondendo con parole senza più costrutto, ma nelle quali effondeva tutto il suo cuore. Nel suo isolamento Lulù era quasi un figlio, un innamorato. Scalava le sue dita, le mordeva le labbra, le artigliava lo scialletto e, quando lei chinava la fronte scrollando il capo alla maniera delle balie, le grandi ali della cuffia e le ali dell'uccello fremevano insieme. 
Quando si addensavano le nubi e i tuoni brontolavano, il pappagallo gridava, rammentando forse le folate delle sue foreste natie. Lo scroscio dell'acqua eccitava il suo delirio; volteggiava, sconvolto, volava sul soffitto, si rovesciava, e attraverso la finestra andava a sguazzare nel giardino; ma subito dopo tornava ad appollaiarsi su un alare, e, saltellando per far asciugare le piume, mostrava ora la coda ora il becco. 
Un mattino di quel terribile inverno del 1837, dopo averlo messo davanti al camino per via del gran freddo, Félicité lo trovò morto, nella sua gabbia, con la testa reclinata e gli artigli aggrappati al fil di ferro. Probabilmente lo aveva ucciso una congestione. Sospettò un avvelenamento da prezzemolo e, malgrado l'assenza di qualunque prova, i suoi sospetti caddero su Fabu. 
Pianse talmente che la sua padrona le disse: «Ebbene! fatelo impagliare!». 
Félicité chiese consiglio al farmacista, che era sempre stato buono con il pappagallo. 
Questi scrisse a Le Havre. Fu incaricato della cosa un certo Fellacher. Ma, visto che la diligenza talvolta smarriva i colli, Félicité decise di portarlo di persona fino a Honfleur. 
I meli spogli si susseguivano lungo la strada. Il ghiaccio copriva i fossati. I cani abbaiavano attorno ai cascinali; con le mani sotto la mantella, le sue ciabattine nere e la sua sporta, Félicité camminava rapidamente in mezzo alla carreggiata. 
Attraversò la foresta, superò Haut-Chéne, raggiunse Saint-Gautien. 
Dietro di lei, in una nube di polvere e trascinata dal pendio, una corriera postale si precipitava giù come un ciclone. Vedendo quella donna che non si faceva da parte, il conducente si drizzò sopra il mantice, il postiglione cominciò a gridare, mentre i quattro cavalli ormai intrattenibili acceleravano l'andatura; i primi due la sfiorarono; con uno strattone alle briglie, l'uomo li deviò fuori strada, ma furioso alzò il braccio e in piena corsa, con la sua enorme frusta, le inflisse dal ventre ai capelli un tale colpo da farla cadere sulla schiena. 
 Il suo primo gesto, quando riprese conoscenza, fu di aprire la cesta. Lulù fortunatamente era indenne. Sentì un bruciore alla guancia destra; vi portò le mani, e le vide rosse. Il sangue scorreva. 
Si sedette su un cumulo di sassi, si tamponò il viso con un fazzoletto, poi mangiò una crosta di pane, messa nel paniere per precauzione; si consolava della ferita guardando l'uccello. 
Arrivata in cima a Ecquemauville, intravide le luci di Honfleur che scintillavano nella notte come una miriade di stelle; il mare, più lontano, si profilava confusamente. Allora la colse un momento di scoramento; la miseria della sua infanzia, la delusione del suo primo amore, la partenza di suo nipote, la morte di Virginie, come ondate di una marea, tornarono tutte assieme e, salendole alla gola, la soffocarono. 
In seguito volle parlare al capitano del battello; e, senza rivelare ciò che inviava, gli fece delle raccomandazioni. 
Fellacher tenne a lungo il pappagallo. Lo prometteva sempre per la settimana successiva; dopo sei mesi, annunciò l'invio di una cassa; ma poi non se ne seppe più nulla. Bisognava proprio credere che Lulù non sarebbe tornato mai più. «Me l'avranno rubato», pensava. 
Ma alla fine arrivò: splendido, ritto su un ramo d'albero avvitato in uno zoccolo di mogano, con una zampa in aria, la testa obliqua, nell'atto di mordere una noce, che l'impagliatore per amor di grandezza aveva dorato. 
Félicité lo chiuse nella sua camera. 
Quel posto, in cui poca gente era ammessa, aveva a un tempo l'aspetto della cappella e del bazar, tanti erano gli oggetti religiosi e le cose eteroclite che conteneva. 
Un grande armadio era d'impaccio nell'apertura della porta. Di fronte alla finestra a strapiombo sul giardino, un occhio di bue dava sul cortile; su un tavolo accanto alla branda giacevano una brocca, due pettini e un cubo di sapone azzurro in un piatto sbreccato. Sulle pareti si vedevano: rosari, medaglie, parecchie Madonnine, un'acquasantiera di noce di cocco; sul comò, coperto di una tovaglia come un altare, la scatola di conchiglie che le aveva regalato Victor; poi un innaffiatoio e un pallone, alcuni quaderni, l'atlante illustrato, un paio di stivali; al chiodo dello specchio, appeso con i suoi nastri, il cappello di felpa! Félicité spingeva questo genere di culto al punto di conservare una vecchia finanziera del padrone. Tutto il vecchiume che la signora Aubain non voleva più, lei lo prendeva per la sua camera. Così c'erano fiori artificiali sull'orlo del comò, e il ritratto del conte d'Artois nella strombatura dell'abbaino. 
Tramite un'assicella, Lulù fu sistemato sull'aggetto del camino. Ogni mattino, svegliandosi, Félicité lo scorgeva al chiarore dell'alba, rammentava allora i giorni perduti, e insignificanti azioni fin nei minimi particolari, senza dolore, piena di tranquillità. 
Non comunicando con nessuno, viveva in un torpore da sonnambula. Le processioni del Corpus Domini la rianimavano. Andava a chiedere ai vicini lumini e stuoini per abbellire il repositorio eretto per strada. 
In chiesa, contemplava sempre lo Spirito Santo, e osservò che aveva qualcosa del pappagallo. Questa somiglianza le parve ancor più evidente in un'immagine di Epinal che rappresentava il battesimo di Nostro Signore. Con le sue ali di porpora e il suo corpo di smeraldo, era davvero il ritratto di Lulù. 
Lo comprò e lo appese al posto del conte d'Artois, dimodoché, con una sola occhiata, poteva vederli entrambi. Si associarono nel suo pensiero, e il pappagallo si trovò santificato in virtù di questo rapporto con lo Spirito Santo che ai suoi occhi diveniva sempre più vivo e intelligibile. Il Padre, per annunciarsi, non aveva potuto scegliere una colomba, perché quegli animali non hanno voce, ma piuttosto un antenato di Lulù. E Félicité pregava guardando l'effigie, ma di tanto in tanto si girava un po' verso l'uccello. 
Ebbe voglia di entrare nella congregazione delle figlie di Maria. 
La signora Aubain la dissuase. 
Si presentò un evento straordinario: il matrimonio di Paul. 
Dopo essere stato prima praticante presso un notaio, poi nel commercio, alla dogana, alle imposte, dopo aver tentato di entrare perfino nell'amministrazione forestale, a trentasei anni, tutt'a un tratto, per un'ispirazione celeste, aveva scoperto la sua strada: l'ufficio del Registro! e vi mostrava tali capacità che un verificatore gli aveva offerto sua figlia, promettendogli la sua protezione. 
Paul, divenuto serio, la portò da sua madre. 
La futura moglie denigrò le usanze di Pont-1'Évèque, fece la gran dama, offese Félicité. La signora Aubain, dopo che se ne fu andata, provò un gran sollievo. 
La settimana successiva si seppe della morte del signor Bourais, in bassa Bretagna, in un albergo. La voce di un suicidio fu confermata; qualcuno sollevò dubbi sulla sua probità. La signora Aubain studiò i suoi conti, e non tardò a scoprire una sequela di nefandezze: storno di arretrati, vendite di legname dissimulate, false quietanze, ecc. Per giunta, aveva un figlio naturale, e «una relazione con una persona di Dozulé». 
Queste turpitudini la afflissero molto. Nel marzo del 1853 fu 
colpita da un dolore al petto; la sua lingua sembrava coperta di fumo, le sanguisughe non riuscirono a calmare l'oppressione; e la nona sera spirò, all'esatta età di settantadue anni. 
Sembrava meno vecchia per via dei capelli castani, che incorniciavano il suo volto pallido, lievemente butterato. La rimpiansero pochi amici, perché i suoi modi avevano un'alterigia che teneva lontani. 
Félicité la pianse, non come si possono piangere i padroni. Il fatto che la Signora fosse morta prima di lei turbava le sue idee, le sembrava contrario all'ordine delle cose, inammissibile e mostruoso. 
Dieci giorni dopo (il tempo di accorrere da Besancon) arrivarono gli eredi. La nuora frugò i cassetti, scelse dei mobili, vendette gli altri, dopodiché se ne tornarono al loro ufficio del Registro. 
La poltrona della signora Aubain, il suo tavolino, il suo scaldino, le otto sedie non c'erano più! Il posto lasciato vuoto dalle stampe si stagliava in gialli quadrati sui tramezzi. Avevano portato via i due lettini con i loro materassi, e nell'armadio non era rimasto più nulla delle piccole cose di Virginie! Félicité salì nella sua stanza con il cuore pieno di tristezza. 
L'indomani trovò un cartello affisso sulla porta; lo speziale le gridava nell'orecchio che la casa era in vendita. 
Barcollò, e fu costretta a sedersi. 
Ciò che la desolava più di tutto era dover abbandonare la sua camera, così comoda per il povero Lulù. Avvolgendolo in uno sguardo d'angoscia, implorava lo Spirito Santo, e da allora contrasse l'abitudine idolatra di dire le sue orazioni inginocchiata davanti al pappagallo. Talvolta il sole, penetrando dall'abbaino, colpiva il suo occhio vitreo, e ne faceva sprigionare un raggio luminoso che la mandava in estasi. 
Aveva una rendita di trecentottanta franchi, lascito della sua padrona. L'orto le forniva legumi. Quanto agli indumenti, possedeva di che vestirsi fino alla fine dei suoi giorni, e risparmiava sull'illuminazione andando a letto al calar del sole. 
Non usciva quasi mai, per evitare di passare davanti alla bottega del rigattiere, dove erano esposti alcuni dei vecchi mobili di casa. Dall'epoca del suo stordimento trascinava una gamba; e, dato che le sue forze venivano meno, la vecchia Simon, rovinatasi con la drogheria, veniva tutte le mattine a spaccarle la legna e a pompare l'acqua dal pozzo. 
La sua vista si indebolì. Le persiane non si aprivano più. Molti anni passarono. E la casa non si affittava, non si vendeva. 
Nel timore di essere cacciata, Félicité non chiedeva le necessarie riparazioni. Le impalcature del tetto marcivano; per un in-
verno intero il traversino del letto fu bagnato. Dopo Pasqua, sputò sangue. 
Allora la vecchia Simon chiamò un dottore. Félicité volle sapere che cosa aveva. Ma, troppo sorda per sentire, riuscì a captare una sola parola: «Polmonite». Non la conosceva, e replicò dolcemente: «Ah! come la Signora», trovando naturale seguire la sua padrona. 
Si avvicinava l'epoca dei repositori. 
Il primo era sempre ai piedi della costa, il secondo davanti alla posta, il terzo verso la metà della strada. Qualche rivalità si creò a proposito di quest'ultimo; alla fine le parrocchiane scelsero il cortile della signora Aubain. 
Le oppressioni e la febbre aumentarono. Félicité era addolorata di non poter fare nulla per il repositorio. Se almeno avesse potuto mettervi qualcosa! Allora pensò al pappagallo. Non era opportuno, commentarono le vicine. Ma il parroco diede il permesso; lei ne fu talmente felice che lo pregò di accettare, quando sarebbe morta, Lulù, la sua sola ricchezza. 
Dal martedì al sabato, vigilia del Corpus Domini, tossì più frequentemente. La sera il suo viso era congestionato, le labbra incollate alle gengive, aveva conati di vomito; l'indomani, alle prime luci del giorno, sentendosi molto giù, fece chiamare un prete. 
Tre brave donne la circondavano durante l'estrema unzione. In seguito dichiarò che aveva bisogno di parlare a Fabu. 
Arrivò col vestito della domenica, a disagio in quell'atmosfera lugubre. 
«Perdonatemi», gli chiese con uno sforzo, come per stendere le braccia, «credevo che l'aveste ucciso voi!» 
Che cos'erano mai queste dicerie? Averlo sospettato di un delitto, un uomo come lui! Si indignò, stava per fare uno scandalo. 
«Non è più in sé, non vedete?» 
Félicité di tanto in tanto parlava alle ombre. Le brave donne si allontanarono. La Simon mangiò. 
Un po' più tardi prese Lulù e, avvicinandolo a Félicité: «Su, ditegli addio!». 
Benché non fosse un cadavere, i vermi lo divoravano; una delle ali era rotta, la stoppa usciva fuori dal ventre. Ma lei, cieca al presente, lo baciò sulla fronte, tenendolo sulla guancia. La Simon lo riprese per metterlo nel repositorio. 

V. 
Dai prati emanava un odore d'estate; le mosche ronzavano; il sole faceva luccicare il fiume e riscaldava le tegole d'ardesia. Mamma Simon, tornata nella camera, dormiva placidamente. 
La svegliarono i rintocchi delle campane; la gente usciva dal vespro. Il delirio di Félicité si placò. Pensando alla processione, la vedeva come se la stesse seguendo. 
Tutti i bambini delle scuole, i cantori e i pompieri camminavano sui marciapiedi, mentre in mezzo alla strada procedevano nell'ordine: lo svizzero armato della sua alabarda, lo scaccino con una grande croce, l'istitutore che sorvegliava i monelli, la suora preoccupata per le sue educande; tre delle più graziose, ricce come angioletti, lanciavano in aria petali di rose; il diacono moderava la musica con le braccia, e due incensieri si giravano a ogni passo verso il Santissimo Sacramento, portato sotto un baldacchino rosso vivo tenuto da quattro fabbricieri, dal parroco nella sua bella pianeta. Un fiume di gente si accalcava al seguito, tra le tovaglie bianche che coprivano i muri delle case; la processione raggiunse così i piedi della costa. 
Un sudore freddo inumidiva le tempie di Félicité. La Simon la tergeva con un panno, dicendosi che un giorno ci sarebbe passata anche lei. 
Il mormorio della folla aumentò, per un attimo fu fortissimo, poi si allontanò. 
Una fucilata fece tremare fragorosamente i vetri delle finestre. Erano i postiglioni che salutavano l'ostensorio. Félicité roteò le pupille e disse, con quanta voce potè: 
«Sta bene?». Era tormentata dal pappagallo. 
L'agonia cominciò. Un rantolo sempre più precipitoso le sollevava le costole. Bolle di schiuma spuntavano agli angoli della bocca, tutto il suo corpo tremava. 
Presto si distinse il boato degli oficleidi, le voci bianche dei bambini, quelle profonde degli uomini. Tutto taceva a intervalli, e il calpestio dei passi, smorzato dai fiori, assomigliava al rumore di un gregge al pascolo. 
I preti apparvero nel cortile. La Simon si arrampicò su una sedia per arrivare all'altezza dell'occhio di bue, dal quale poteva dominare il repositorio. 
Ghirlande verdi pendevano dall'altare ornato di falpalà a punto inglese. Al centro c'era una piccola teca contenente delle reliquie, due aranci negli angoli, e per tutta la sua lunghezza candelieri d'argento e vasi di porcellana, da cui spuntavano girasoli, 
gigli, peonie, digitali, ciuffi di ortensie. Questo ammasso di colori sfavillanti digradava obliquamente dal gradino più alto al tappeto, prolungandosi sul selciato; cose rare attiravano gli sguardi. Una zuccheriera di argento dorato era cinta da una ghirlanda di violette, pendenti in pietra d'Alencon brillavano sul muschio, due paraventi cinesi mostravano i loro paesaggi. Di Lulù, nascosto sotto le rose, si intravedeva soltanto la fronte turchina, simile a un medaglione di lapislazzuli. 
I fabbricieri, i cantori, i bambini si schierarono sui tre lati del cortile. Il prete salì lentamente i gradini e depose sul pizzo il suo grande sole d'oro raggiante. Tutti si inginocchiarono. Si fece un gran silenzio. Gli incensieri, oscillando ampiamente, scivolavano sulle loro catenelle. 
Un vapore azzurro salì verso la camera di Félicité. Lei protese le narici, aspirandolo con una sensualità mistica; poi chiuse le palpebre. Le sue labbra sorridevano. I battiti del suo cuore rallentarono, uno dopo l'altro, talvolta più vaghi, più dolci, come una fontana che si esaurisce, come un'eco che svanisce; e, quando esalò l'ultimo respiro, credette di vedere, nei cieli dischiusi, un pappagallo gigantesco planare sopra la sua testa.