martedì 28 gennaio 2020

IL SOGNO DI MIA MADRE
 Alice Munro


Una donna di cuore
Da una ventina d’anni a questa parte, a Walley c’è un museo dedicato alla conservazione di fotografie, zangole da burro, finimenti per cavalli, una vecchia poltrona dentistica, un rudimentale sbucciamele e altre curiosità tipo i vezzosi isolatori di vetro e porcellana usati un tempo sui pali del telegrafo. C’è anche una scatola rossa con la scritta D. M. WILLENS, SPECIALISTA IN OPTOMETRIA, e un’etichetta accanto, che dice: «Questa scatola di strumenti optometrici, pur non essendo antica, riveste un notevole significato per la storia locale, in quanto apparteneva al signor D. M. Willens, affogato nel Peregrine River nel 1951. La custodia sfuggí alla catastrofe e fu rinvenuta, probabilmente dall’anonimo donatore, che ce la spedí affinché entrasse a far parte della nostra collezione». L’oftalmoscopio ricorda un po’ un pupazzo di neve. Almeno nella parte superiore, vale a dire quella attaccata alla maniglia vuota. Un disco grande, con sopra un disco piú piccolo. Nel disco grande, un foro attraverso il quale si guarda mentre si fanno scendere le varie lenti. Il manico è molto pesante perché contiene tuttora le batterie. Estraendo le batterie e inserendo la barra contenuta nella scatola con un disco su ogni lato, è possibile attaccare una presa di corrente. Ma l’uso dello strumento poteva rendersi necessario in luoghi non ancora allacciati al sistema di elettricità. Il retinoscopio ha un aspetto piú complicato. Sotto il morsetto dalla fronte arrotondata c’è un oggetto simile alla testa di un elfo, con la faccia tonda e piatta sormontata da un cappellino di metallo a punta. Quest’ultimo è inclinato di quarantacinque gradi rispetto a una colonnina sottile, all’estremità della quale dovrebbe accendersi una piccola luce. La faccia piatta è fatta di vetro ed è una specie di specchio brunito. L’intero oggetto appare nero, ma solo a causa della vernice che lo ricopre. In alcuni punti, dove la mano del signor Willens deve aver sfregato con maggiore insistenza, lo strato di vernice è scomparso e si intravede il metallo lucido. 1. Jutland. Il posto si chiamava Jutland. Un tempo c’era stato un mulino, e un piccolo centro abitato, ma questo accadeva prima della fine del secolo scorso, e la zona non aveva mai rivestito un’importanza notevole in nessuna epoca. Molti pensavano che dovesse il proprio nome alla famosa battaglia navale combattuta durante la Prima Guerra Mondiale, ma per la verità era già tutto in rovina molti anni prima che la battaglia avesse luogo. I tre ragazzini che vi si ritrovarono un sabato mattina all’inizio della primavera del 1951 erano convinti, come la maggior parte dei coetanei, che quel posto si chiamasse cosí a causa delle vecchie assi di legno che sporgevano dalla sponda del fiume e delle altre spesse tavole erette nell’acqua a formare una palizzata irregolare. (Queste ultime erano in effetti quanto restava di una vecchia diga, costruita prima dell’avvento del cemento). Le tavole, insieme a un mucchio di pietre, un cespuglio di lillà, alcuni enormi meli neri e nodosi e il fossato poco profondo che portava l’acqua al mulino e che ogni estate si riempiva di rovi, erano gli unici altri segni delle presenze di un tempo. C’era una strada, o una pista, che vi arrivava dipartendosi dalla comunale, ma che non essendo mai stata inghiaiata, compariva sulle mappe solo come linea tratteggiata. D’estate veniva utilizzata parecchio da chi andava al fiume a nuotare, oppure la sera dalle coppiette in cerca di un posteggio tranquillo. Lo spiazzo per svoltare veniva prima del fossato, ma negli anni piovosi tutta la zona era talmente infestata da ortiche, pastinache e robusta cicuta selvatica che certe volte le auto erano costrette a rientrare a marcia indietro sulla strada normale. Le impronte dei pneumatici al bordo dell’acqua erano ben visibili quella mattina di primavera, ma nessuno dei ragazzi ci fece caso, avendo per la testa solo l’idea di nuotare. O meglio, di quello che chiamavano nuotare; al ritorno in paese avrebbero raccontato di essere stati allo Jutland a nuotare prima ancora che si sciogliesse tutta la neve a terra. Faceva piú freddo quassú che nelle anse larghe del fiume vicino al paese. Non c’era ancora nemmeno una foglia sugli alberi lungo le sponde: l’unico verde era quello delle zolle di amarilli e calendole fresche come spinaci novelli, lungo il percorso di ogni ruscello che andava a gettarsi nel fiume. Sull’altra sponda invece, sotto alcuni cedri, i ragazzi videro proprio quello che stavano cercando: un lungo nevaio basso e testardo, grigio come la pietra. Non ancora sciolto. Cosí potevano saltare in acqua e sentire il freddo trafiggerli di innumerevoli lame di ghiaccio. Lame di ghiaccio che all’improvviso si sfoderavano dietro agli occhi e penetravano dall’interno la cima del cranio. Poi avrebbero agitato un poco braccia e gambe e sarebbero schizzati subito fuori, tremando e battendo i denti; avrebbero infilato a forza le membra indolenzite negli abiti mentre il sangue scombussolato riprendeva dolorosamente possesso del corpo e dentro di loro si diffondeva il sollievo di sapere vera la fanfaronata che avrebbero raccontato. Le impronte che non notarono venivano dritte dal fossato nel quale al momento non cresceva niente, solo un tappeto di gialla erba morta della stagione passata. Dal fosso nel fiume, senza il tentativo di una sterzata. I ragazzi le pestarono con i piedi. Ma ormai erano abbastanza vicini all’acqua, e ad attrarre la loro attenzione fu qualcosa di ben piú straordinario di semplici impronte di pneumatici. L’acqua baluginava di un azzurro pallido che non era un riflesso di cielo. Era un’intera automobile, inclinata dentro la gora del fiume con le ruote anteriori e il muso ficcato nel fango sul fondo, e la massa del cofano che quasi spuntava dal pelo dell’acqua. Al tempo, l’azzurro pallido era un colore insolito per una macchina, come pure le linee arrotondate di quel modello. La riconobbero all’istante. La piccola vettura inglese, la Austin, era l’unica di quel tipo, almeno nella contea. Apparteneva al signor Willens, l’optometrista. Quando la guidava pareva un personaggio da cartone animato, perché era un uomo basso, tarchiato, con spalle pesanti e la testa grossa. Sembrava sempre stipato in quella vetturetta come se stesse scoppiando dentro un vestito stretto. L’auto aveva un tettuccio che il signor Willens teneva aperto quando faceva caldo. Adesso lo era. I ragazzi non riuscivano a distinguere bene l’interno. Il colore della carrozzeria rendeva la sagoma visibile nell’acqua, che tuttavia, non essendo limpida, confondeva tutto ciò che non era altrettanto brillante. I ragazzi si acquattarono a terra sulla riva, poi si sdraiarono proni e spinsero avanti la testa come tartarughe, sforzandosi di vedere. C’era qualcosa di nero e lanuginoso, una specie di coda, che spuntava dal buco nel tetto e fluttuava lento nell’acqua. Non ci volle molto a capire che si trattava di un braccio, coperto dalla manica di una giacca scura di stoffa pesante e pelosa. A quanto sembrava, all’interno dell’abitacolo il corpo di un uomo – quello del signor Willens, probabilmente – aveva assunto una posizione molto particolare. La forza dell’acqua – data la stagione l’acqua era violenta anche in quella gora di mulino –, doveva in qualche modo averlo sollevato dal sedile e sospinto a sfiorare con una spalla il tettuccio dell’auto e liberare un braccio all’esterno. La testa doveva essere stata schiacciata contro il finestrino del guidatore. Una delle due ruote anteriori era conficcata piú profondamente dell’altra sul fondo, di modo che la vettura risultava inclinata sul fianco, oltre che in avanti. In effetti, il finestrino doveva essere aperto, e la testa sporta all’infuori, per consentire al corpo di incastrarsi in quella posizione. Ma non riuscirono a vederla. Immaginarono l’espressione del signor Willens come la conoscevano: il faccione quadrato sul quale spesso si disegnava un cipiglio volutamente burbero, ma mai davvero minaccioso. Aveva capelli sottili e ondulati di un rosso ramato, pettinati a coprire la fronte in diagonale. Le sopracciglia erano piú scure, folte e irsute come due grassi bruchi sopra gli occhi. Per loro quella faccia era già di per sé grottesca, come molte altre facce adulte, perciò non avevano paura di vederla annegata. Ma non riuscirono a scorgere altro che il braccio ondeggiante con la sua mano pallida. Una volta abituata la vista al movimento subacqueo, la mano riuscivano invece a distinguerla bene. Fluttuava là sotto tremula e incerta, come una piuma, pur sembrando solida come pasta di pane. E del tutto normale anche, non appena si abituarono al pensiero che potesse trovarsi lí. Ogni unghia pareva un piccola faccia, pronta all’intelligente saluto di routine e al sensato disconoscimento della irragionevole circostanza attuale. – Boia d’un mondo, – esclamarono i ragazzi, con crescente energia e profondo rispetto, per non dire gratitudine. – Boia d’un mondo. Era la loro prima uscita, quell’anno. Avevano passato il Peregrine River attraversando il ponte a doppia arcata e corsia unica, localmente noto col nome di Ponte del Diavolo o Trappola della Morte, anche se il vero pericolo era costituito piú dalla curva stretta con la quale si concludeva, che dal ponte in sé. C’era un regolare passaggio pedonale, ma non lo usarono. Non se ne ricordavano mai. Anni prima magari, quando erano tanto piccoli da essere ancora tenuti per mano. Ma quei tempi erano passati per sempre ai loro occhi; rifiutavano di riconoscerne la trascorsa esistenza persino di fronte alla prova di vecchie fotografie, o quando erano costretti ad ascoltarne il racconto durante conversazioni familiari. Adesso costeggiavano la predella in ferro che correva lungo tutto il ponte, sul lato opposto rispetto al passaggio pedonale. Larga una quindicina di centimetri e alta una trentina da terra. Il Peregrine River scaraventava il suo carico invernale di ghiaccio e di neve sciolta nel Lago Huron. Era appena rientrato negli argini, dopo la consueta alluvione che ogni anno trasformava la piana in un lago, sradicando giovani alberi e trascinandosi appresso ogni barca e capanna incontrata nella corsa. Quando i detriti dei campi infangavano l’acqua sotto un cielo pallido di luce, il fiume prendeva le sembianze di un caffellatte bollente. A caderci dentro però, gelava il sangue e scagliava nella gora, sempre ammesso che non ti avesse già spaccato la testa sui contrafforti. La macchine strombazzavano – in segno di avvertimento e rimprovero al tempo stesso – ma i ragazzi non ci fecero caso. Procedevano in fila indiana, compresi in se stessi come sonnambuli. Poi, all’estremità settentrionale del ponte, tagliarono per la piana, rintracciando i sentieri che ricordavano dall’anno prima. L’alluvione era tanto recente che quelle piste non erano facili da percorrere. Ci si doveva fare strada scansando a calci la sterpaglia abbattuta e saltando da un fradicio dosso di erba fangosa all’altro. Di quando in quando non calcolavano bene l’ampiezza del balzo e atterravano nella mota o dentro le pozze residue dell’alluvione e, una volta che avevano i piedi bagnati, smettevano di preoccuparsi del tutto. Affondavano nel fango e pestavano nelle pozzanghere cosicché gli schizzi lordavano fino in cima i loro stivali di gomma. Il vento era tiepido; sfilacciava le nuvole in matasse di vecchia lana, mentre corvi e gabbiani litigavano scendendo in picchiata nel fiume. Le poiane li controllavano da lontano, compiendo alti cerchi nel cielo; i pettirossi erano appena tornati e i tordi alarossa sfrecciavano in coppia, sorprendendo lo sguardo come strisce di vernice colorata. – Dovevamo portarci una ventidue – Dovevamo portarci una calibro dodici Erano troppo cresciuti per levare in aria bastoni e fare rumore di spari. Parlavano con disinvolto rimpianto, come se avessero davvero accesso ai fucili. Si arrampicarono sulle sponde settentrionali fino a un’ansa di sabbia. Si diceva che le tartarughe vi deponessero le uova. Era troppo presto perché ciò accadesse, e comunque la storia delle uova di tartaruga risaliva a parecchi anni prima: nessuno di quei ragazzi ne aveva mai visto uno. Ma pestarono e sollevarono la sabbia lo stesso, in caso ce ne fossero. Poi si guardarono intorno alla ricerca di un posto dove l’anno prima uno di loro, in compagnia di un altro ragazzo, aveva trovato un osso iliaco di vacca, trascinato lí dalla corrente dalla discarica di un macello. Sul fiume si poteva far conto tutti gli anni: spazzava via e depositava altrove un buon numero di oggetti prodigiosi o ingombranti, bizzarri o domestici. Rotoli di filo di ferro, una serie di gradini ancora intatti, una vanga piegata, un paiolo. L’osso era impigliato in un ramo di sommacco, sistemazione adatta, peraltro, dal momento che tutti quei rami lisci e scortecciati assomigliavano a corna di vacca o di cervo, alcuni con la punta a cono arrugginita. Per un po’ rovistarono nella zona – Cece Ferns mostrò loro il ramo esatto – ma non trovarono niente. Erano stati Cece Ferns e Ralph Diller gli autori del ritrovamento, e se gli si chiedeva che fine avesse fatto l’osso, Cece Ferns rispondeva: – Se l’è preso Ralph –. I due ragazzi che erano con lui adesso – Jimmy Box e Bud Salter – sapevano come mai fosse andata cosí. Cece non avrebbe potuto portare a casa nulla che non fosse di dimensioni facilmente occultabili a suo padre. Parlarono di altre scoperte utili che si sarebbero potute fare o che erano state fatte in passato. Le assi delle staccionate potevano diventare zattere, si potevano raccogliere avanzi di legna per realizzare il progetto di una capanna o di una barca. Mettere le mani su qualche trappola dimenticata sarebbe stato un vero colpo di fortuna. A quel punto ci si poteva mettere in affari. Si poteva radunare abbastanza legname per fabbricare tavole da stiramento e poi procurarsi i coltelli per scuoiare le prede. Parlarono dell’eventualità di occupare una baracca che conoscevano, nel vicolo cieco alle spalle di quella che un tempo era stata la scuderia. Era chiusa con un lucchetto, ma probabilmente era possibile entrare passando dalla finestra, staccando le tavole di notte e rimettendole a posto quando faceva chiaro. Ci si poteva portare una torcia per vedere quello che si faceva. Anzi no, una lanterna. Si potevano scuoiare i topi muschiati, poi tirare le pelli e venderle per un mucchio di soldi. Il programma finí per diventare talmente realistico ai loro occhi che incominciarono a preoccuparsi di dover lasciare pelli di tale valore incustodite nella baracca per tutto il giorno. Uno di loro avrebbe dovuto montare la guardia mentre gli altri uscivano a controllare le trappole. (Nessuno accennò alla scuola). Era cosí che parlavano appena si lasciavano alle spalle l’abitato. Parlavano come se fossero liberi – o quasi liberi – come se non andassero a scuola, e non vivessero in famiglia e non fossero vittime delle umiliazioni loro inflitte a causa dell’età. E poi, come se la campagna e le case altrui potessero rifornirli di tutto ciò di cui avevano bisogno per le varie iniziative avventurose, con rischi e fatiche irrisorie da parte loro. Un altro cambiamento che si verificava nelle loro conversazioni all’aperto, era che in pratica rinunciavano all’uso dei nomi. A dire il vero, quelli di battesimo li adoperavano sempre molto poco, e persino i soprannomi di famiglia, come Bud. Ma a scuola quasi ogni ragazzo aveva un altro nome, alcuni dei quali avevano a che fare con l’aspetto della persona o con il suo modo di parlare, come Quattrocchi e Ciancicone, mentre altri, come Fittalculo e Sfondapolli, con episodi reali o immaginari della vita del nominato o di quella di fratelli, padri o zii: simili titoli infatti passavano in eredità per decenni. Era a tutto questo che rinunciavano quando entravano nei boschi o andavano al fiume. Per attirare l’attenzione reciproca si limitavano a dirsi «Ehi». Persino l’uso di appellativi offensivi e osceni che si presumeva gli adulti non avessero mai sentito, avrebbe rovinato l’atmosfera di quei momenti, la sensazione di dare del tutto per scontati l’aspetto, le abitudini, la famiglia e la storia personale di ciascuno. Eppure non si consideravano granché amici. Non avrebbero definito nessuno il loro migliore amico o secondo migliore amico, né avrebbero mai classificato i compagni a quel modo, come facevano le ragazze. C’era almeno una dozzina di ragazzi che avrebbe potuto agilmente prendere il posto di uno qualsiasi di questi tre, ed essere accettato dagli altri senza problemi. La maggior parte dei membri della compagnia aveva tra i nove e i dodici anni, troppi per essere legati a confini di cortili e quartiere, ma troppo pochi per avere un lavoro: persino lavoretti come spazzare il marciapiede davanti a una bottega, o consegnare la merce in bicicletta. Per lo piú abitavano nella parte settentrionale del paese, il che significava che prima o poi mestieri del genere li avrebbero dovuti fare, e che nessuno di loro avrebbe lasciato casa per andare a studiare a Appleby o all’Upper Canada College. Nessuno di loro del resto viveva in una baracca o aveva parenti in galera. Ciononostante erano parecchie le differenze riguardo alle rispettive abitudini in casa o alle aspettative nella vita. Tutte differenze però che svanivano non appena perdevano di vista il carcere locale e il silos di grano e le guglie della chiesa, e alle loro orecchie non arrivava piú il suono delle campane e il rintocco dell’orologio del palazzo di giustizia. Sulla via del ritorno camminarono in fretta. Di quando in quando accennavano un trotto, senza mai rompere in una corsa vera e propria. Basta coi salti, gli scherzi, gli schizzi, come pure col chiasso del percorso di andata; urla e schiamazzi, abbandonati anche quelli. Ogni tesoro portato dalla corrente veniva registrato nella memoria, ma per il momento ignorato. Assunsero anzi un’andatura da adulti, a passo pressoché costante e secondo il tragitto piú ragionevole, oppressi dal peso della meta da raggiungere e del dovere da compiere. Qualcosa li guidava da vicino, una sorta di immagine dinanzi allo sguardo che si frapponeva tra loro e il mondo, come sembrava succedesse alla maggior parte degli adulti. La gora del fiume, l’auto, il braccio, la mano. Avevano la sensazione che, giunti a un certo punto del percorso, avrebbero incominciato a gridare. In paese sarebbero entrati urlando e agitando le mani per diffondere la grande notizia, che avrebbe lasciato di sale chiunque l’avesse sentita. Passarono il ponte come facevano sempre, lungo la predella sporgente. Ma senza provare alcun gusto del rischio, senza audacia, né sfida al pericolo. Come se avessero utilizzato il passaggio pedonale. Anziché seguire la strada a gomito che portava al porto e alla piazza, si arrampicarono per la sponda lungo il sentiero che sbucava ai capanni della ferrovia. L’orologio batteva il tocco del quarto. Le dodici e un quarto. A quell’ora la gente tornava a casa a mangiare. Gli impiegati negli uffici avevano il pomeriggio libero. Ma chi lavorava in bottega, si concedeva la solita ora di pausa perché il sabato sera i negozi restavano aperti fino alle dieci o alle undici. La maggior parte delle persone tornava a casa per consumare un pasto caldo e nutriente. Braciole o salsicce di porco, bollito o pasticcio di carne. Di certo patate, fritte o in purè; ortaggi messi in composta per l’inverno, oppure cavoli o cipolle al latte. (Alcune massaie, piú benestanti o meno parsimoniose, magari aprivano una scatola di piselli o di fagiolini). Pane, focacce, conserve, crostate. Anche coloro che non avevano casa alla quale tornare o che per qualche ragione non ci volevano andare, si sarebbero seduti a un tavolo del Duke of Cumberland davanti a piatti piú o meno simili, o al Merchant, oppure, per qualche soldo di meno, dietro i vetri appannati della latteria di Shervill. A rincasare erano uomini, per lo piú. Le donne c’erano già, a casa, ci stavano sempre. A parte quelle, di mezza età, che lavoravano nelle botteghe o in ufficio per ragioni di cui non avevano colpa: mariti morti, o malati, o assenti da sempre. Costoro erano amiche delle madri dei ragazzi e distribuivano saluti da un lato all’altro della via (un autentico dramma per il povero Bud Salter, al quale si rivolgevano chiamandolo Buddy) con un tono di voce spumeggiante e vispo che faceva pensare a tutto ciò che sapevano degli affari di famiglia e delle singole infanzie di ognuno. Gli uomini non si prendevano la briga di salutare i ragazzi per nome, pur conoscendoli bene. Li chiamavano «ragazzi» oppure «giovanotti» e persino, qualche volta, «signorini». – Buongiorno a voi, signorini. – Dritto a casa, ragazzi, intesi? – Ehi, giovanotti, che diavoleria vi siete inventati oggi per far passare la mattinata? In quei saluti c’era una dose di cordialità, ma non per tutti era uguale. Coloro che usavano l’appellativo di «giovanotti» erano piú benevoli rispetto a chi diceva «ragazzi», o almeno, ci tenevano a dare quell’impressione. L’uso di «ragazzi» poteva essere il segnale che stava per arrivare un rimprovero, per malefatte generiche o anche specifiche e dettagliate. «Giovanotti» indicava che anche gli adulti un tempo erano stati giovani. «Signorini» era ironia bella e buona, colorata da una certa qual sufficienza, ma non preannunciava rimproveri, anche perché l’adulto in questione non voleva saperne di farsi coinvolgere. Replicando, i ragazzi non si degnavano mai di alzare lo sguardo oltre la borsetta delle signore e il pomo d’Adamo degli uomini. Dicevano un «salve» forte e chiaro, perché potevano esserci guai in caso contrario e, in risposta a domande dirette ripetevano un immancabile sissignore o nossignore, e «niente di speciale». Quel giorno poi, le solite frasi li misero in uno stato di allarme e di confusione, ma replicarono con la consueta reticenza. A un certo angolo dovettero separarsi. Cece Ferns, sempre il piú ansioso rispetto al ritorno a casa, fu il primo a staccarsi dal gruppo. Disse: – Ci vediamo dopo mangiato. Bud Salter disse: – Sí. Dobbiamo andare giú in piazza. Il che significava, come ciascuno di loro sapeva, «giú in piazza, alla stazione di polizia». Sembrava che, senza bisogno di consultarsi, avessero messo a punto un nuovo piano operativo, un modo piú sobrio per raccontare l’accaduto. Ma nessuno disse apertamente che non avrebbe parlato della faccenda in casa. Non c’era alcuna buona ragione per cui Bud Salter o Jimmy Box non dovessero farlo. Cece Ferns, invece, in casa non raccontava mai niente. Cece Ferns era figlio unico. I suoi erano piú vecchi della maggior parte dei genitori, o forse sembravano solo piú vecchi a causa della vita disastrosa che conducevano. Appena separatosi dagli altri due, Cece Ferns si mise a trottare come sempre faceva per l’ultimo isolato prima di casa. Non certo perché non vedesse l’ora di arrivare o pensasse di poter migliorare le cose. No, forse era solo questione di far passare il tempo piú in fretta, perché quell’ultimo isolato lo percorreva sempre in preda all’ansia. Sua madre stava in cucina. Meno male. Se non altro era uscita dal letto, sebbene ancora in vestaglia. Il padre non c’era, e anche questo era un bene. Il padre di Cece lavorava al silos del grano ed era libero il sabato pomeriggio, perciò, se non era ancora a casa a quell’ora, molto probabilmente se n’era andato dritto al Duke of Cumberland. Il che voleva dire che non avrebbero avuto a che fare con lui prima della sera tardi. Il padre di Cece Ferns si chiamava Cece Ferns. Un nome ben noto a tutti, lí a Walley, e in genere anche ben visto, tanto che addirittura trenta o quaranta anni piú tardi chiunque avesse raccontato un aneddoto sul suo conto avrebbe dato per scontato che tutti sapessero che stava parlando del padre e non del figlio. Se qualcuno nuovo del posto diceva: «Non mi pare una cosa che Cece potrebbe fare», gli si spiegava che non si stava parlando di quel Cece Ferns. – Non lui, stiamo parlando del vecchio. Raccontavano di quando Cece era andato – o lo avevano portato – in ospedale, con la polmonite o qualche altro male senza speranza, e gli infermieri lo avevano avvolto negli asciugamani bagnati per abbassargli la temperatura. La febbre in effetti se n’era uscita sotto forma di sudore, e i lenzuoli si erano fatti gialli per tutta la nicotina che aveva in corpo. Gli infermieri non avevano mai visto niente di simile. Cece ne era fierissimo. Si vantava di aver fumato e bevuto alcolici dall’età di dieci anni. E poi c’era quella volta in cui era andato in chiesa. Non era facile immaginare come mai, ma si trattava di una chiesa battista, e sua moglie lo era, battista, perciò forse ci era andato solo per farle piacere, anche se questo era ancora piú difficile da credere. Quella domenica davano la comunione, e nelle chiese battiste il pane è pane, ma il vino è succo d’uva. – E questo cos’è? – esclamò Cece Ferns a voce alta. – Se questo è il sangue dell’Agnello di Dio, doveva essere ben anemico, povera bestia. Nella cucina di casa Ferns fervevano i preparativi per il pasto di mezzogiorno. Sul tavolo c’era pane a fette e una scatola di barbabietole a cubetti. Piú qualche fetta di maiale fritto – prima delle uova, anche se sarebbe stato meglio friggerlo dopo – tenuto in caldo sul fornello. E la madre di Cece aveva giusto incominciato a preparare le uova. Era china sui fornelli con la paletta in una mano e l’altra premuta sullo stomaco, a foderare un dolore. Cece le prese la paletta e abbassò il fornello elettrico, decisamente troppo alto. Dovette allontanare la padella dalla piastra e farla raffreddare un po’ per impedire agli albumi di rassodarsi eccessivamente e di bruciacchiarsi sul bordo. Non era arrivato in tempo per ripulire il tegame del grasso vecchio, lasciato a rapprendersi, e mettere invece una noce di strutto. Sua madre non toglieva mai il grasso vecchio, lo lasciava lí (da un pasto all’altro) e aggiungeva un po’ di lardo quando era costretta a farlo. Non appena il calore raggiunse la temperatura desiderata, riappoggiò la padella e lavorò con pazienza il bordo delle uova in minuscoli smerli. Trovò un cucchiaio e fece colare qualche goccia di grasso caldo sui tuorli per fermarne la cottura. A lui e a sua madre piacevano cosí le uova, solo che lei spesso non riusciva a prepararle. Suo padre invece le voleva rigirate e piatte come frittelle, stracotte e dure come corame, e nere di pepe. Cece sapeva farle anche come piacevano a lui. Nessuno degli altri ragazzi sapeva quanto fosse esperto in cucina – come del resto nessuno era al corrente del nascondiglio che si era fatto fuori di casa, nell’angolo cieco oltre la finestra della sala da pranzo, dietro il crespino giapponese. Sua madre andò a sedersi accanto alla finestra mentre lui finiva di cuocere le uova. Teneva d’occhio la strada. Non era escluso che il padre potesse tornare a casa a mangiare qualcosa. Magari non era ancora ubriaco. Ma non sempre il suo atteggiamento dipendeva dal livello della sbronza. Entrando in cucina in quel momento avrebbe potuto dire a Cece di preparare due uova anche per lui. Poi magari gli avrebbe chiesto dove aveva messo il grembiulino, aggiungendo che un giorno o l’altro sarebbe diventato una mogliettina perfetta. Tutto ciò, se fosse stato di buon umore. Se invece l’umore fosse stato cattivo, avrebbe incominciato a fissare Cece in un certo modo – vale a dire con un’espressione intensa, di assurda minaccia – dicendogli che gli conveniva badare a quel che faceva. – Fai il furbo, eh? Be’, io ti dico solo una cosa: è meglio che fai attenzione. Dopodiché, se Cece gli restituiva lo sguardo, o magari se non glielo restituiva, se posava la paletta, o se l’appoggiava facendo rumore – ma persino se si muoveva come un pattinatore avendo cura di non fare cadere nulla e di non produrre il minimo suono – era facile che suo padre prendesse a ringhiare, mostrandogli i denti come fa un cane. Sarebbe sembrato ridicolo – anzi lo era – se non fosse che faceva sul serio. L’attimo dopo, piatti e contenuto potevano già essere a terra, il tavolo e le sedie rovesciati, e lui appresso a Cece per tutta la stanza, urlando che questa volta l’avrebbe preso e gli avrebbe schiacciato la faccia contro la piastra calda, eh, che ne diceva? Sembrava impazzito. Eppure, se a un tratto qualcuno bussava alla porta – se arrivava, che so, un amico a prenderlo – la faccia gli si ricomponeva in un attimo e andava ad aprire pronunciando il nome del nuovo arrivato con voce stentorea. – Arrivo subito. Ti farei entrare, ma mia moglie si è di nuovo messa in testa di far volare i piatti, stasera. Non gli importava di essere creduto. Diceva cosí per trasformare in burla tutto quello che succedeva in famiglia. La madre chiese a Cece se faceva un po’ piú caldo e dove era stato quella mattina. – Sí, – fece lui. – Fuori, in campagna. Lei disse che le era parso di sentirgli addosso l’odore del vento. – Sai che cosa faccio subito dopo mangiato? – disse. – Mi preparo una borsa di acqua calda e me ne torno subito a letto, cosí magari mi rimetto in forze e poi me la sento di fare qualcosa. Era quello che ripeteva praticamente sempre, ma lo annunciava ogni volta come se fosse un’idea improvvisa, una decisione carica di speranza. Bud Salter aveva due sorelle maggiori che non facevano mai niente di utile, a meno che la madre non le costringesse. E non esercitavano le loro attività preferite, vale a dire arrangiarsi i capelli, verniciarsi le unghie, lucidarsi le scarpe, imbellettarsi e vestirsi, soltanto in camera da letto e nel bagno. Seminavano pettini e bigodini e ciprie e smalto per unghie e lucido da scarpe per tutta la casa. Senza contare che stracaricavano gli schienali di tutte le sedie con i vestiti e le camicette appena stirate, e che allargavano i maglioni lavati per terra, sugli asciugamani, in ogni angolo libero di pavimento. (Ma poi strillavano se qualcuno faceva tanto di sfiorarli). Si piazzavano davanti a vari specchi – quello del porta abiti nell’ingresso, quello della credenza in sala da pranzo, e quello accanto alla porta della cucina con sotto la mensola sempre ingombra di spille da balia, mollette, monete, bottoni, mozziconi di matita. Certe volte una delle due stazionava davanti a uno specchio anche venti minuti, controllandosi da varie angolazioni, ispezionandosi i denti e tirandosi indietro i capelli per poi ributtarli in avanti. Dopodiché si allontanava apparentemente soddisfatta o per lo meno dando l’impressione di aver raggiunto un aspetto ai suoi occhi definitivo, ma solo fino alla stanza successiva, al successivo specchio, dove l’operazione aveva inizio da capo, come se le avessero appena consegnato una testa nuova. In quel preciso momento la sorella maggiore, quella che passava per la piú carina, si stava sfilando le forcine dai capelli davanti allo specchio di cucina. Aveva il capo coperto di riccioli lucidi come lumache. L’altra sorella, su ordine della madre, stava schiacciando patate. Il fratellino di cinque anni sedeva a tavola al proprio posto, battendo insieme coltello e forchetta e strillando: – Voglio da mangiare. Vo-glio-da-man-gia-re. Imitava un gesto che il padre faceva ogni tanto per scherzo. Bud passò accanto alla sedia di suo fratello e disse a bassa voce: – Guarda. Vedrai che ci dà di nuovo il purè con dentro i grumi. Aveva convinto il fratellino che i grumi fossero un ingrediente da aggiungere al purè, prendendolo dalla dispensa, come l’uva passa nel budino di riso. Il piccolo smise di cantilenare e incominciò a protestare. – Io non lo mangio se ci mette dentro i grumi. Mamma, io non lo mangio se ci mette dentro i grumi. – Oh, non fare lo sciocco, – disse la madre di Buddy. Stava friggendo fettine di mela e anelli di cipolla da servire con le braciole. – Smettila di frignare come un bebè. – È stato Bud a farlo incominciare, – disse la sorella maggiore. – È andato lí e gli ha detto che ci metteva dentro i grumi. Glielo dice sempre e lui non capisce. – Bud dovrebbe trovare qualcuno che gli pesta la faccia, – disse la sorella che stava pestando le patate. Non sempre diceva cose del genere a vanvera – una volta gli aveva lasciato il segno di un artiglio giú per tutta la guancia. Bud si avvicinò alla credenza, sulla quale una crostata di rabarbaro si stava raffreddando. Prese una forchetta e incominciò a punzecchiarla facendo molta attenzione a non farsi vedere. Ne usciva un vapore squisito, aromatizzato alla cannella. Il suo scopo era riuscire a dilatare uno dei tagli sulla crosta superiore, per poter assaggiare la farcia. Il fratello vedeva che cosa stava facendo, ma aveva troppa paura per parlare. Quel bambino era viziato e le sorelle lo difendevano sempre: Bud era l’unico membro della famiglia che rispettasse. – Voglio-da-man-gia-re, – ripeté in tono pensoso e sommesso. Doris si avvicinò alla credenza per prendere la terrina per il purè. Bud fece un gesto imprudente e la sfoglia superiore della crostata cedette in un punto. – E cosí adesso rovini anche la torta, – disse Doris. – Mamma, ti sta rovinando la torta. – Chiudi quella bocca, scema, – disse Bud. – Lascia stare la torta, – disse la madre con una severità esperta, quasi serena, nel tono di voce. – Smettetela di insultarvi. Piantatela di fare la spia. Siete grandi. Jimmy Box sedette intorno a un tavolo affollatissimo. Lui e suo padre, sua madre e le sue due sorelline di quattro e sei anni abitavano in casa della nonna con la nonna stessa, la prozia Mary e lo zio scapolo. Suo padre aveva un’officina di riparazioni per biciclette nel capanno dietro casa, e sua madre lavorava al grande magazzino di Honeker. Il padre di Jimmy era zoppo in conseguenza di un attacco di polio a ventidue anni. Camminava sbilenco, appoggiandosi a un bastone. Il difetto non si notava granché quando era al lavoro, perché nel suo mestiere si sta quasi sempre chini comunque. Quando camminava per la strada però era davvero strano, ma nessuno gli dava dei nomi e gli faceva il verso. Nei tempi andati era stato un notevole giocatore di hockey e di baseball nelle squadre locali, e una parte della grazia e del valore del passato ancora gli aleggiava intorno, collocando la sua condizione attuale in una prospettiva che la trasformava in una fase di vita, sebbene definitiva. Lui contribuiva a rafforzare quell’opinione con raffiche di battute spiritose e un tono di voce ottimistico a mascherare il dolore che si rivelava negli occhi infossati e che lo teneva sveglio di notte. Inoltre, a differenza del padre di Cece Ferns, non modificava il proprio atteggiamento ogni volta che entrava in casa. Va detto, però, che la casa non era sua. La moglie lo aveva sposato quando era già zoppo, anche se erano fidanzati da prima, ed era sembrata a tutti una cosa naturale che si trasferissero dalla madre di lei, la quale avrebbe potuto occuparsi di eventuali bambini mentre la moglie andava a lavorare. Altrettanto naturale parve alla madre della moglie rifarsi una famiglia – esattamente come parve naturale alla prozia Mary trasferirsi a sua volta con gli altri quando perse la vista, e a suo figlio Fred, un tipo straordinariamente timido, continuare a vivere in casa finché non avesse trovato di meglio. Ne risultò una famiglia che si accollava fardelli di ogni genere facendo meno storie di quelle che si fanno per il cattivo tempo. Anzi, in quella casa nessuno avrebbe mai accennato alla condizione del padre di Jimmy o alla cecità della zia definendole un peso o un problema, almeno non piú di quanto avrebbero fatto nel caso della timidezza di Fred. Difetti e avversità non dovevano essere considerati in modo diverso dal loro contrario. In famiglia era diffusa la credenza che la nonna di Jimmy fosse una cuoca eccellente, il che poteva essere stato anche vero un tempo, ma negli ultimi anni le cose erano precipitate. Vigeva un regime di economie superiori al reale bisogno attuale. La madre e lo zio di Jimmy guadagnavano stipendi dignitosi e la zia Mary aveva la pensione, in officina c’era parecchio lavoro, ma si continuava a usare un uovo dove ce ne volevano tre, e ad aggiungere un pugno di avena di troppo nel polpettone. Si tentava poi di rimediare strafacendo con la salsa Worcestershire, o esagerando con la noce moscata sul semolino. Ma nessuno si lamentava. Anzi, tutti apprezzavano. In quella casa, le lamentele erano rare come mosche bianche. E tutti chiedevano scusa, persino le bambine piccole chiedevano scusa quando si urtavano fra di loro. A tavola era tutto un mi passi e prego e grazie tante, come se ci fossero sempre ospiti. Era cosí che risolvevano l’affollamento eccessivo, le pile di abiti sulle grucce, i cappotti ammucchiati sul corrimano, e le eterne brande allestite in sala da pranzo per Jimmy e suo zio Fred, e la credenza sepolta sotto montagne di panni in attesa di essere stirati o rammendati. Nessuno pestava i piedi salendo e scendendo le scale, o sbatteva le porte, o teneva alto il volume della radio, o diceva cose sgradevoli. Basterà questo a spiegare perché Jimmy tenne la bocca chiusa quel sabato a pranzo? Lo fecero tutti, la tennero chiusa in tre. Nel caso di Cece non era difficile da capire. Suo padre non avrebbe mai tollerato da parte di Cece il racconto di una scoperta tanto importante. Gli avrebbe dato del bugiardo, ovviamente. Sua madre invece, che giudicava ogni cosa in base ai possibili effetti sul marito, avrebbe giustamente compreso che persino il fatto che Cece andasse a riferire la vicenda alla polizia avrebbe potuto causare un disastro domestico, e perciò avrebbe detto a suo figlio di starsene zitto, per carità. Ma gli altri due ragazzi vivevano in famiglie abbastanza ragionevoli alle quali avrebbero potuto parlare. In casa di Jimmy ci sarebbe stata costernazione e sgomento, ma presto tutti avrebbero dovuto ammettere che Jimmy non aveva nessuna colpa. Le sorelle di Bud gli avrebbero chiesto se era impazzito. Avrebbero persino potuto insinuare che solo a un tipo con abitudini malsane come le sue poteva capitare di imbattersi in un cadavere. Suo padre però era un uomo assennato e paziente, abituato ad ascoltare stravaganze di ogni genere nel suo lavoro di spedizioniere alla stazione ferroviaria – avrebbe fatto tacere le sorelle di Bud e, dopo qualche domanda seria per capire se il figlio diceva la verità senza esagerare, avrebbe chiamato la polizia. È solo che le loro case parevano già troppo affollate. Vi succedeva già troppo. Il che era vero nel caso di Cece come degli altri due, perché anche quando suo padre non c’era, rimanevano sempre il ricordo e la minaccia della sua presenza pazzoide. – Gliel’hai detto? – E tu? – Neanch’io. Si diressero verso il centro senza riflettere sul percorso. Svoltarono in Shipka Street e superarono il villino intonacato nel quale abitavano i coniugi Willens. Vi si ritrovarono dinanzi prima ancora di riconoscerlo. Aveva un piccolo bovindo su entrambi i lati della porta e un portico grande abbastanza per ospitare due sedie, al momento assenti, ma occupate dal signor Willens e da sua moglie nelle sere estive. A un lato dell’edificio era stata annessa un’estensione dal tetto piatto, con un altro ingresso che si apriva sulla strada e un vialetto di accesso autonomo. Su un cartello accanto a quella porta c’era la scritta d. m. willens, optometrista. Nessuno dei ragazzi era mai entrato di persona nello studio, ma zia Mary, la zia di Jimmy, vi andava regolarmente a farsi prescrivere certe gocce, e sua nonna era stata lí per farsi fare gli occhiali. Come pure la madre di Bud Salter. L’intonaco era di un rosa fangoso, e porte e finestre erano verniciati di marrone. Le controfinestre non erano state ancora tolte, come in quasi tutte le abitazioni in città. Il villino in sé non aveva niente di speciale, ma il cortile anteriore era celebre per le sue aiuole fiorite. La signora Willens aveva idee originali in fatto di giardinaggio e non seminava i fiori in lunghe file accanto all’orto, come facevano la nonna di Jimmy e la madre di Bud. Lei li piantava in aiuole rotonde o a forma di mezzaluna e poi dappertutto, anche in cerchio intorno al tronco degli alberi. In capo a un paio di settimane i narcisi avrebbero invaso il prato. Al momento però l’unica pianta fiorita era un cespuglio di forsizia all’angolo della casa. Era alto quasi quanto le grondaie e schizzava nell’aria un’esplosione di giallo come una fontana spruzza l’acqua. La forsizia si scosse, in assenza di vento, e ne uscí una sagoma scura e ricurva. Era la signora Willens nei suoi vecchi abiti da lavoro: una donnetta ingobbita in calzoni sformati, casacca stracciata e un berretto che forse era stato di suo marito: le scivolava sulla fronte fin quasi a coprirle gli occhi. Teneva in mano un paio di cesoie. I ragazzi rallentarono subito il passo; l’alternativa sarebbe stata mettersi a correre. Forse pensavano di riuscire a non farsi notare, di potersi trasformare in altrettanti pali. Ma lei li aveva già visti; per quello si era affrettata a raggiungerli. – Vi siete incantati di fronte alla mia forsizia, – disse la signora Willens. – Ne volete qualche ramo da portare a casa? Ciò che li aveva incantati non era però la forsizia, ma tutta la scena: la casa che aveva lo stesso aspetto di sempre, l’insegna accanto alla porta dello studio, le tende tirate per fare entrare la luce. Niente di strano o sinistro, niente a lasciare intendere che il signor Willens non fosse in casa o che la sua macchina non fosse nel garage dietro l’ambulatorio, anziché nella gora allo Jutland. E la signora Willens lavorava in giardino, dove chiunque si sarebbe aspettato di trovarla: lo dicevano tutti in paese che vi si precipitava non appena si scioglieva l’ultima neve. E adesso li chiamava con la sua ben nota voce arrochita dal fumo, brusca e severa, ma non sgarbata – una voce riconoscibile a mezzo isolato di distanza o dal retro di qualsiasi bottega. – Aspettate, – disse. – Aspettate un momento. Ve ne prendo qualcuno. E incominciò a lavorare precisa,staccando alcuni rami giallo acceso, e quando ne ebbe quanti voleva, andò loro incontro dietro uno schermo di fiori. – Ecco qua, – disse. – Portateli a casa alle vostre madri. Fa sempre bene vedere qualche forsizia; sono le prime a fiorire in primavera –. Stava dividendo i rami tra i ragazzi. – Come l’antica Gallia, – aggiunse. – La Gallia venne divisa in tre parti. Dovete saperlo se fate latino a scuola. – Non siamo ancora al liceo, – disse Jimmy la cui vita in casa lo aveva preparato, piú degli altri, a parlare con le signore. – Ah no? – disse lei. – Bene, cosí avete ancora un mucchio di cose belle che vi aspettano. Dite alle vostre madri di metterli a bagno in acqua tiepida. Oh, ma sono sicura che lo sanno già. Vi ho dato dei rami non ancora fioriti del tutto, cosí dovrebbero durare di piú. I ragazzi ringraziarono – Jimmy per primo e gli altri due prendendo esempio da lui. Si diressero verso il centro con le braccia cariche. Non avevano la minima intenzione di tornare indietro per portare a casa i fiori, e contavano sul fatto che la donna non avesse un’idea precisa di dove abitavano. A mezzo isolato di distanza, si lanciarono alle spalle occhiate furtive per controllare se stava guardando. Non guardava. E comunque, la grossa casa vicino al marciapiede le avrebbe impedito la vista. La forsizia diede loro qualcosa a cui pensare. L’imbarazzo di tenerla in mano, il problema di liberarsene. Altrimenti avrebbero dovuto pensare al signore e alla signora Willens. Come era possibile che lei fosse in cortile a lavorare, mentre lui era annegato in macchina? Lei sapeva dov’era suo marito o no? Sapeva almeno che era uscito? Si era comportata come se niente fosse, assolutamente, al punto che, in sua presenza, quella era sembrata la verità. Ciò che sapevano, ciò che avevano visto, pareva in effetti recedere, come sconfitto dal fatto che lei non ne era al corrente. Due ragazzine in bicicletta svoltarono l’angolo pedalando. Una era Doris, la sorella di Bud. Si misero subito a urlare e fischiare. – Oh, che bei fiori! – strillavano. – Dov’è il matrimonio? Guarda che belle sposine! Bud di rimando gridò la peggior cosa che riuscí a farsi venire in mente. – Hai tutto il sedere sporco di sangue. Non era vero, ovviamente, ma una volta era andata proprio cosí: era tornata a casa da scuola con una macchia di sangue sulla gonna. L’avevano vista tutti, e nessuno se ne sarebbe mai dimenticato. Era sicuro che Doris avrebbe fatto la spia a casa, ma si sbagliava. La vergogna per quell’episodio passato era tale che non poteva riparlarne nemmeno per il gusto di metterlo nei guai. A quel punto si resero conto che dovevano buttare subito via i fiori, perciò li infilarono semplicemente sotto una macchina parcheggiata. Si spazzolarono di dosso alcuni petali sparsi e svoltarono sulla piazza. A quel tempo i sabati erano ancora un avvenimento; richiamavano in città la gente dei dintorni. Le auto erano già posteggiate nelle vie laterali intorno alla piazza. Ragazzoni di campagna e bambini di città e di fuori città sciamavano verso il cinema per assistere alla matinée. Era inevitabile superare il magazzino di Honeker lungo il primo isolato. E lí, in piena vista dentro una delle vetrine, Jimmy vide sua madre. Già di ritorno al lavoro, stava sistemando il cappello su un manichino, ne aggiustava la veletta, poi accomodava le spalle del vestito. Era bassa di statura e per lavorare bene doveva stare in punta di piedi. Si era tolta le scarpe per camminare sulla moquette della vetrina. Si vedevano i cuscinetti rosei dei talloni attraverso le calze di nylon e, quando si tirava su, dallo spacco della gonna, si intravedeva il retro delle ginocchia. Piú su c’era il sedere, largo ma ben fatto e la linea delle mutande o del reggicalze. Jimmy riusciva mentalmente a sentire i lievi ansiti che di sicuro emetteva; e riusciva anche a sentire l’odore delle calze che certe volte si sfilava appena tornata a casa per evitare che si smagliassero. Le calze e la biancheria femminile, anche pulita, avevano un odore segreto, al tempo stesso invitante e nauseabondo. Jimmy sperò due cose. Che gli altri non l’avessero notata (non era cosí, ma l’idea di una madre vestita a festa ogni giorno e in giro in città a lavorare in mezzo al pubblico era talmente estranea ai loro occhi che non potevano fare commenti, ma solo accantonarne l’immagine) e che lei, per l’amor del cielo, non si voltasse e non lo vedesse. Sarebbe stata capace, in quel caso, di mettersi a grattare sul vetro facendogli ciao con le labbra. Sul lavoro perdeva la discrezione silenziosa, la gentilezza studiata che aveva in famiglia. La sua cortesia, da mite si faceva impudente. Un tempo quella versione inedita di lei, quella vivacità, lo aveva affascinato non meno dell’atmosfera di Honeker, con i vasti banconi in vetro e legno verniciato, e i grandi specchi in cima alle scale nei quali poteva rimirarsi mentre saliva al reparto delle confezioni per donna, al secondo piano. – Ecco la mia piccola peste, – diceva allora sua madre, e qualche volta gli faceva scivolare in mano dieci centesimi. Non poteva mai fermarsi piú di un minuto, perché non era escluso che il signor Honeker, o sua moglie, stessero controllando. Piccola peste. Parole che in passato giungevano alle sue orecchie gradite come un tintinnio di monete, gli procuravano ormai una cocente vergogna. Nell’isolato successivo avrebbero costeggiato il Duke of Cumberland, ma Cece non era in ansia. Se suo padre non era venuto a casa per il pranzo, voleva dire che sarebbe rimasto lí dentro ancora per ore. Il termine Cumberland non mancava comunque di calare come un peso sulla sua mente. Sin dai giorni in cui neppure ne conosceva il significato, ne riceveva una sensazione di sprofondamento doloroso. Come di un sasso tuffato in acque scure, sul fondo. Tra il Cumberland e il municipio stava un vicolo non lastricato, e alle spalle del municipio si trovava la stazione di polizia. Svoltarono nel vicolo e il chiasso della strada fu presto soverchiato da un nuovo trambusto. Non proveniva dal Cumberland, i cui rumori giungevano ovattati dal momento che la birreria disponeva solo di finestrelle lunghe e strette come quelle dei bagni pubblici. Veniva invece dalla polizia. La porta era aperta per via della temperatura mite, e persino da fuori si sentiva l’aroma del tabacco da pipa e dei sigari. Non c’erano solo poliziotti là dentro, specie di sabato pomeriggio, d’inverno, con la stufa accesa, e d’estate davanti al ventilatore e alla porta spalancata per far entrare l’aria buona della mezza stagione, come oggi. C’era di sicuro anche il colonnello Box – anzi, già ne sentivano il sibilo, il lungo risucchio strozzato che seguiva la sua risata asmatica. Era parente di Jimmy, ma non correva buon sangue in famiglia, perché il colonnello non aveva approvato il matrimonio del padre di Jimmy. Al ragazzo, quando lo riconosceva, riservava un tono di voce sorpreso, ironico. – Se dovesse mai offrirti un quarto di dollaro o che so io, tu digli che non ne hai bisogno, – gli aveva detto sua madre. Ma dal colonnello Box non gli era mai arrivata alcuna offerta del genere. E ci sarebbero stati anche il signor Pollock, ex gestore del drugstore in pensione, e Fergus Solley, che non era scemo ma dava quell’impressione perché era stato gassato durante la Prima Guerra Mondiale. Per tutto il giorno questi e altri uomini giocavano a carte, fumavano, si raccontavano storie e bevevano caffè a spese dei cittadini (come diceva sempre il padre di Bud). Chiunque intendesse sporgere denuncia o rilasciare una testimonianza era costretto a farlo sotto gli occhi, e probabilmente a portata d’orecchio, di tutti loro. Attraversarne il fuoco incrociato di sguardi. I ragazzi furono sul punto di fermarsi dinanzi alla porta aperta. Nessuno li aveva notati. Il colonnello Box disse: – Non sono ancora morto, – ripetendo la battuta finale di una barzelletta. Procedettero lenti a testa bassa, dando calci alla ghiaia. Svoltato l’angolo dell’edificio, ripresero velocità. Sul muro, accanto all’entrata dei cessi pubblici maschili c’era una striscia grumosa di vomito fresco, e un paio di bottiglie vuote a terra. Dovettero passare tra i bidoni della spazzatura e le alte finestre indiscrete dell’ufficio del segretario comunale, per ritrovarsi di nuovo sul terreno lastricato della piazza. – Ho dei soldi, – disse Cece. Quell’annuncio programmatico procurò unanime sollievo. Cece fece tintinnare gli spiccioli in tasca. Erano i soldi che gli aveva dato sua madre per aver lavato i piatti, quando era entrato in camera da letto per dirle che usciva. – Prenditi cinquanta centesimi dal comò, – gli aveva detto. Ogni tanto aveva qualche soldo, anche se lui non vedeva mai il padre consegnarglieli. E ogni volta che gli diceva «Prendili» o che gli passava qualche spicciolo, Cece capiva che si vergognava della loro vita, si vergognava per lui e di fronte a lui, ed era in quelle occasioni che il figlio odiava la sua sola vista (pur essendo contento per i soldi). Specie se gli diceva che era un bravo ragazzo e di non credere che lei non gli fosse grata per tutto quello che faceva. Presero la strada che portava giú al porto. A fianco della stazione di servizio di Paquette c’era un chiosco al quale la signora Paquette vendeva hot dog, gelati, caramelle e sigarette. Le sigarette si era rifiutata di vendergliele, anche quando Jimmy aveva detto che erano per suo zio Fred. Ma non si era arrabbiata con loro per averci provato. Era una donna grassa e attraente, di origine francese. Comprarono qualche stringa di liquirizia, nera e rossa. Pensavano di tornare a prendersi il gelato piú tardi, quando non fossero piú stati troppo sazi per il pranzo. Proseguirono fino al punto in cui stavano due vecchi sedili d’auto, accanto alla staccionata, sotto un albero che faceva ombra in estate. Si divisero le stringhe di liquirizia. Il capitano Tervitt era seduto sull’altro sedile. Il capitano Tervitt era stato capitano davvero, per molti anni, sui battelli del lago. Attualmente aveva un incarico come vigile urbano. Fermava le macchine per far attraversare i bambini davanti alle scuole e impediva ai monelli di andare in slitta nelle vie traverse d’inverno. Soffiava nel fischietto e sollevava una mano grande guantata di bianco che pareva quella di un clown. Era ancora alto e dritto e possente di spalle, anche se vecchio e bianco di capelli. Le macchine gli obbedivano, e i bambini pure. La sera faceva il giro di tutte le botteghe per vedere che le porte fossero ben chiuse e per assicurarsi che non fosse entrato nessun rapinatore. Di giorno, gli capitava spesso di addormentarsi in luoghi pubblici. Se il tempo era cattivo dormiva in biblioteca, e se faceva bello si sceglieva un posto all’aperto. Alla stazione di polizia non si fermava molto, probabilmente perché era troppo sordo per seguire la conversazione senza apparecchio acustico ma, come molte persone sorde, detestava portarlo. Del resto alla vita solitaria doveva essere avvezzo, dopo tutte le ore passate a guardare lontano dalla prua dei battelli. Aveva gli occhi chiusi e la testa china all’indietro per prendere bene il sole in faccia. Quando gli si avvicinarono per parlargli (una decisione alla quale giunsero senza previe consultazioni, e in assenza di anche un solo sguardo rassegnato o dubbioso) dovettero svegliarlo perché era assopito. La sua espressione impiegò un attimo a mettere a fuoco il luogo, l’ora e le persone. Poi Tervitt estrasse di tasca un vecchio orologio, come se contasse sul fatto che i ragazzini vogliono sempre sapere che ora è. Ma quelli continuarono a parlargli, con facce agitate e un poco vergognose. Gli dicevano: – Il signor Willens è su allo Jutland, – oppure: – Abbiamo visto la macchina, – e ancora: – È morto annegato –. Dovette tirar su la mano e far loro segno di tacere, mentre l’altra mano calò a frugare nella tasca dei calzoni dalla quale emerse con l’apparecchio acustico. Annuí con aria solenne e incoraggiante come a dire: «Pazienza, abbiate pazienza», mentre sistemava il congegno dell’orecchio. Poi sollevò entrambe le mani: «Fermi, fermi» e procedette a verificarne il funzionamento. Infine annuí ancora, un cenno piú sbrigativo questa volta, e con voce stentorea – ma che prendeva anche un po’ in giro se stessa – sentenziò: – Avanti, procedete. Fu Cece, che era il piú taciturno dei tre, come Jimmy era il piú a modo e Bud il piú ciarliero, a mandare all’aria tutto quanto. – Ha la bottega aperta, – disse. Dopodiché scoppiarono tutti in una risata convulsa e scapparono via. L’ilarità non si spense subito. Ma non era cosa da potersi condividere o raccontare ad altri. Dovettero separarsi. Cece tornò a casa a lavorare al suo nascondiglio. Il pavimento di cartone, gelato durante l’inverno, era ormai fradicio e doveva essere sostituito. Jimmy salí nella soffitta dell’autorimessa, dove aveva recentemente scoperto una cassa di vecchi «Doc Savage» appartenuti un tempo a suo zio Fred. Bud rientrò per non trovare in casa altri che sua madre, intenta a dar la cera al pavimento della sala da pranzo. Sfogliò fumetti per circa un’ora e poi glielo disse. Era convinto che sua madre non avesse alcuna esperienza né autorità al di là delle mura domestiche e che non avrebbe preso alcuna iniziativa in merito alla vicenda prima di aver sentito suo padre al telefono. Con sua sorpresa, invece, lei chiamò subito la polizia. Poi telefonò al marito. E qualcuno passò a prendere anche Cece e Jimmy. Un’auto della polizia si diresse allo Jutland sulla strada comunale, e l’intera storia trovò conferma. Un agente e il pastore anglicano andarono a fare visita alla signora Willens. – Non volevo disturbarvi, – corse voce che avesse detto la signora Willens. – Avevo intenzione di aspettare fino a che non faceva buio. Raccontò loro che il signor Willens si era diretto in campagna il pomeriggio precedente per portare certe gocce a un vecchio cieco. A volte capitava che lo trattenessero. Si fermava a visitare dei pazienti, oppure gli si impantanava la macchina. Era forse depresso, o roba del genere?, le chiese il poliziotto. – Oh, assolutamente no, – replicò il pastore. Era la colonna portante del coro. – La parola depressione non rientrava nemmeno nel suo vocabolario, – disse la signora Willens. Ci furono commenti sul fatto che i ragazzi fossero andati tranquillamente a mangiare senza accennare niente a nessuno. Per poi andarsene in giro a comprare stringhe di liquirizia. A ciascuno dei tre venne appioppato il nuovo appellativo di Salma. Jimmy e Bud se lo portarono cucito addosso fin quando non lasciarono la città, mentre Cece – che si sposò giovane e andò a lavorare al silos, lo vide passare in eredità a due dei suoi figli. A quel punto nessuno sapeva piú a che cosa si riferisse. L’offesa rivolta al capitano Tervitt rimase un segreto. Ciascuno di loro si aspettava un rimprovero, almeno uno sguardo severo o malevolo, la prima volta che si trovarono a passare sotto il suo braccio alzato per attraversare la strada andando a scuola. Ma lui alzò la mano guantata, dignitosa e clownesca, con l’indulgente compostezza di sempre. E accordò loro il permesso. Avanti, procedete. 2. Arresto cardiaco. «Glomerulonefrite», annotò Enid sul quaderno. Era la prima volta che vi si imbatteva. La realtà era che i reni della signora Quinn se ne stavano andando. Si rinsecchivano trasformandosi in grumi bozzuti di nessuna utilità. Al momento l’urina della paziente era scarsa e torbida, e il fetore che emanava dal fiato e dai pori cutanei era acre e ben poco rassicurante. C’era poi un altro odore piú vago, come di frutta marcita, che a Enid pareva legato alle chiazze di un pallido bruno-violaceo diffuse sul corpo della donna. Scariche di dolore improvviso le attraversavano le gambe, e la pelle andava soggetta a violenti attacchi di prurito, tanto che Enid doveva strofinarla tutta col ghiaccio. Avvolgeva il ghiaccio dentro un asciugamano e premeva le compresse sulle parti in tormento. Come si prende una malattia simile, – chiese la cognata della signora Quinn. Si chiamava Green. Olive Green. (Non aveva mai riflettuto sull’impressione che poteva fare quel nome fino al giorno del matrimonio, a partire dal quale la gente non fece che prenderla in giro). Abitava in una cascina poco lontana, sullo stradone, e ogni due o tre giorni passava a ritirare lenzuola, asciugamani e biancheria, che portava a casa a lavare. Si occupava anche del bucato delle bambine e riportava tutto indietro ben piegato e stirato di fresco. Stirava persino i nastri delle camicie da notte. Enid le era riconoscente – le erano capitati lavori in cui toccava a lei fare il bucato o, ancor peggio, passarlo a sua madre, la quale lo portava in paese e se lo faceva fare a pagamento. Non volendo mostrarsi offensiva, ma capendo bene l’implicita allusione contenuta nella domanda, rispose: – È difficile dirlo. – Perché se ne sentono di tutti i colori, – disse la signora Green. – Per esempio, si dice che le donne a volte prendono certe pillole. Si procurano delle pastiglie da prendere quando hanno un ritardo e se poi seguono bene le istruzioni del medico e lo fanno per un buon motivo, non ci sono problemi, ma se esagerano o se i motivi non sono buoni, si rovinano i reni. Dico bene? – Non mi è mai capitato di imbattermi in un caso del genere, – rispose Enid. La Green era un donnone alto e imponente. Come il fratello Rupert, marito della signora Quinn, aveva il naso tondo e rincagnato, una faccia piacevolmente rugosa, del tipo che la madre di Enid definiva «da irlandese mangiapatate», ma l’espressione cordiale di Rupert mascherava diffidenza e severità. Mentre quella della signora Green nascondeva insoddisfazione. Enid non avrebbe saputo dirne la causa. Anche nel corso della piú banale delle conversazioni, la Green si mostrava enormemente esigente e tesa. Forse era solo avida di notizie. Notizie forti. Un evento. E un evento di sicuro era in arrivo, un fatto rilevante almeno a livello familiare. La signora Quinn stava per morire, a ventisette anni. (Era l’età che si attribuiva lei stessa; Enid ci avrebbe aggiunto qualche annetto, ma una volta che il male era progredito a quello stadio, non era piú facile dirlo). Quando i reni avessero smesso di funzionare del tutto, anche il cuore avrebbe ceduto e sarebbe morta. Il medico aveva detto a Enid: – Questo lavoro le durerà fino all’estate, ma non è escluso che possa prendersi un po’ di vacanza prima che finisca la bella stagione. – Rupert l’ha conosciuta quando è andato su al nord, – disse la signora Green. – Era partito da solo per andare a lavorare lassú nei boschi. Lei invece aveva un impiego in un albergo. Non so di preciso che cosa facesse. La cameriera, penso. Non era cresciuta lí, però, ma in un orfanotrofio di Montreal. Non è colpa sua. In teoria dovrebbe sapere il francese, ma se è cosí, di sicuro non lo dà a vedere. Enid disse: – Vita intensa. – Puoi dirlo forte. – Vita intensa, – ripeté Enid a voce piú alta. Certe volte non riusciva proprio a trattenersi; doveva azzardare una battuta anche sapendo che era destinata a non funzionare. Sollevò le sopracciglia per incoraggiare una reazione, e in effetti la signora Green sorrise. Che si fosse offesa? Quello era esattamente il sorriso che sfoderava Rupert ai tempi del liceo, per difendersi da possibili prese in giro. – Non aveva mai avuto una ragazza, nemmeno un’amica, prima di allora, – disse la signora Green. Enid era stata compagna di Rupert al liceo, anche se non ne aveva fatto parola con la signora Green. Provava adesso un certo imbarazzo, perché Rupert era stato uno dei ragazzi – per non dire l’unico – sul quale lei e le sue amiche avevano riversato ogni sorta di scherzo e di tormento. Lo «punzecchiavano», come dicevano loro. Sí, lo punzecchiavano, lo seguivano per la strada e gli urlavano dietro: – Ciao, Rupert. Ciao, Ru-pert, – gettandolo in uno stato di angoscia, e guardandogli il collo farsi tutto rosso. – Rupert ha la scarlattina, – dicevano. – Rupert, dovresti startene in quarantena –. E poi fingevano che una di loro – Enid, o Joann McAuliffe, o Marian Denny – si fosse presa una cotta per lui. – Ti vuole parlare, Rupert. Perché non le chiedi di uscire una volta? Potresti almeno telefonarle. Muore dalla voglia di parlarti. Non si aspettavano in realtà che lui reagisse a quelle avances imploranti. Ma che gioia, se ci fosse cascato. Lo avrebbero scaricato immediatamente e la storia avrebbe fatto il giro di tutta la scuola. Perché? Perché lo trattavano in quel modo, perché lo volevano vedere umiliato? Solo perché avevano il potere di farlo. Impossibile che avesse dimenticato. Eppure lui trattava Enid come se non l’avesse mai conosciuta, come l’infermiera della moglie arrivata in casa loro da chissà dove. E Enid stava al gioco. Le cose erano state organizzate con insolita cura per evitarle qualsiasi lavoro extra. Rupert dormiva dalla signora Green, e mangiava da lei. Anche le bambine avrebbero potuto trasferirsi, ma questo avrebbe comportato spostarle di scuola – mancava ancora un buon mese alla fine delle lezioni e alle vacanze estive. Rupert tornava a casa la sera e parlava con le figlie. – Vi state comportando da brave bambine? – chiedeva. – Fate vedere a papà che cosa avete fatto con le costruzioni, – diceva Enid. – Mostrategli l’album da colorare. A procurare costruzioni, matite colorate e album, aveva pensato Enid. Aveva telefonato alla madre chiedendole di vedere cosa riusciva a trovare nei vecchi bauli. La madre lo aveva fatto e aveva portato con sé anche un vecchio libro di bambole di carta da ritagliare, avuto da qualcuno: le principesse Margaret ed Elizabeth con tutti i loro abitini. Enid non era stata in grado di strappare un grazie alle due bambine fino a quando non si era decisa a ritirare tutto quanto su uno scaffale in alto, annunciando che lí sarebbe rimasto finché non le avesse sentite ringraziare. Lois e Sylvie avevano sette e sei anni, ed erano selvatiche come gattini di campagna. Rupert non chiese la provenienze dei giochi. Diceva alle bambine di comportarsi bene e poi chiedeva a Enid se le occorreva qualcosa in paese. Una volta lei gli rispose che aveva cambiato una lampadina in cantina e gli chiese di procurargliene qualcuna di riserva. – Potevo pensarci io, – disse Rupert. – Non ho problemi con le lampadine, – ribatté Enid. – So cambiare una valvola e piantare un chiodo. È da un pezzo che mia madre e io ce la caviamo senza uomini in casa –. Intendeva buttarla in scherzo, mostrarsi cordiale, ma non funzionò. Alla fine Rupert si informava sulle condizioni della moglie, e Enid gli diceva che la pressione era calata di un poco, o che era riuscita a buttare giú qualche boccone di frittata per cena senza poi vomitarlo, o che le compresse di ghiaccio parevano dare sollievo al prurito cutaneo permettendole di riposare. A quel punto Rupert diceva che forse era meglio non entrare in camera, se stava dormendo. Enid ribatteva: – Stupidaggini –. Vedere il marito avrebbe senz’altro fatto meglio di un sonnellino a qualsiasi donna. E portava le bambine su a letto per dare a marito e moglie un po’ di tempo da soli. Ma Rupert non si fermava mai piú di qualche minuto. E quando Enid tornava di sotto e nel salotto – attualmente trasformato in stanza da letto – con l’intenzione di preparare l’ammalata per la notte, la signora Quinn era di nuovo appoggiata ai cuscini con un’aria agitata, ma non scontenta. – Non si trattiene un granché, dico bene? – osservava la signora Quinn. – Mi fa ridere. Ha-ha-ha, come stai? Ha-ha-ha, meglio che vada. Ma perché non la portiamo fuori e non la scarichiamo nella concimaia? Perché non la buttiamo via come un gattino morto? È questo che pensa tutto il tempo, giusto? – Non credo proprio, – diceva Enid, portandole la bacinella e l’asciugamano, e strofinandola d’alcool e di talco. – Non credo proprio, ripeteva maligna la signora Quinn, ma accettava abbastanza di buon grado che le sfilasse la camicia da notte, le spazzolasse i capelli all’indietro e le facesse scivolare un telo sotto i fianchi. Enid era abituata a persone che facevano un mucchio di storie per mettersi nude, anche quando erano molto vecchie o molto malate. Certe volte doveva prenderle un poco in giro, oppure costringerle a usare il buon senso. – Crede forse che non abbia mai visto un sedere prima d’ora? – diceva. – Schiene, fondischiena, diventano tutti una bella noia, dopo un po’. Le varianti sono sempre soltanto due –. Ma la signora Quinn non aveva vergogne: apriva le gambe e si tirava su per facilitarle il compito. Era una donna minuta come un passerotto, e aveva assunto una forma strana adesso, con quell’addome e le estremità gonfi, e i seni ridotti a piccole sacche vuote con due acini d’uva passa per capezzoli. – Sono gonfia come una specie di maiale, – diceva. – Tranne le tette, che del resto sono sempre servite a poco. Mai avuto quelle gran poppe, tipo le tue. Non ti fa schifo vedermi? Non sarai contenta quando sarò morta? – Se mi facesse quell’effetto, non sarei qui. – Che liberazione, buttiamola via, – insisteva la signora Quinn. – Direte tutti cosí. Che liberazione, buttiamola via. Non gli servo piú a niente ormai, giusto? Non servo a nessuno. Ogni sera lui esce di casa e va a cercarsi una donna, giusto? – Per quanto ne so io, va da sua sorella. – Per quanto ne sai tu. Ma non ne sai granché. Enid pensava di conoscere il significato di tutto quell’odio e di quel veleno, di tanta energia sprecata a inveire. La signora Quinn si dibatteva in cerca di un nemico. I malati provano rancore nei riguardi dei sani, e questo qualche volta accadeva anche tra marito e moglie, persino tra madri e figli. Tutti e due, nel caso della signora Quinn. Un sabato mattina, Enid chiamò Lois e Sylvie che stavano giocando sulla veranda perché venissero a vedere quant’era carina la mamma. La signora era appena stata lavata, indossava una camicia da notte pulita e aveva i capelli spazzolati all’indietro e raccolti in un nastro azzurro. (Enid si portava sempre una scorta di nastri del genere quando andava a occuparsi di una paziente – come pure una bottiglia di acqua di colonia e un pezzo di sapone profumato). Era davvero carina – o per lo meno si vedeva che lo era stata, con la fronte spaziosa, gli zigomi alti (ormai le foravano quasi la pelle, parevano due maniglie di porcellana) i grandi occhi verdi, i denti trasparenti da bambina e il piccolo mento testardo.