mercoledì 29 gennaio 2020


COLPO DI LUNA 
Georges Simenon
Aveva una sola buona ragione per essere inquieto? No. Non era successo niente di strano. Nessuna minaccia incombeva su di lui. Era ridicolo perdere la calma, e lo sapeva. Lo sapeva così bene che anche lì, nel bel mezzo della festa, cercava di reagire.

  Del resto, non era una vera e propria inquietudine, e sarebbe stato incapace di precisare quando era stato colto da quella sorta di angoscia, da quel malessere - come un impercettibile squilibrio.

  Certo non al momento di lasciare l'Europa. Al contrario, Joseph Timar era partito tutto baldanzoso, con il viso acceso dall'entusiasmo.

  Che fosse stato durante lo sbarco a Libreville, quando aveva avuto il primo contatto con il Gabon? La nave si era fermata in rada, così lontano dalla costa che la terraferma appariva solo come una linea bianca - la sabbia - sovrastata dalla linea scura della foresta. Alti flutti grigi sollevavano la scialuppa e la spingevano contro la murata del piroscafo. Timar era solo, sull'ultimo piolo della scaletta, con l'acqua sotto i piedi, e guardava la barca che si avvicinava e un attimo dopo tornava a scostarsi con la risacca.

  Un braccio nudo, quello di un negro, l'aveva afferrato. Quindi si erano avviati, lui e il negro, sobbalzando sulla cresta delle onde. Poi, forse un quarto d'ora dopo, forse di più, mentre la nave lanciava già il suo fischio, avevano attraccato a un molo fatto di blocchi di cemento ammassati a casaccio.

  A terra non si vedeva anima viva, neppure un negro. Nessuno aspettava nessuno.

  Solo Timar circondato dai suoi bagagli.

  Ma l'inquietudine non era cominciata allora. Era riuscito a sbrogliarsela. Aveva fermato un camion di passaggio, che l'aveva portato al Central, l'unico albergo di Libreville.

  Ed era stato davvero un bel momento, con un che di pittoresco! Molto africano!|

  Nel caffè dalle pareti ornate di maschere negre, dove aveva acceso il grammofono a tromba mentre il boy gli serviva un whisky, Timar si era sentito un vero colono!

  Quanto all'inconveniente principale, più che drammatico era stato buffo. Molto coloniale anche quello! E Timar era affascinato da tutto ciò che aveva un'impronta coloniale.

  Grazie a uno zio era stato assunto dalla compagnia Sacova. In Francia, l'amministratore della società gli aveva comunicato che sarebbe vissuto nel folto della foresta, in una zona dalle parti di Libreville, tagliando legna e vendendo paccottiglia agli indigeni.

  Appena sbarcato, Timar si era diretto verso un'agenzia commerciale piuttosto malmessa, sormontata da un'insegna con la scritta "Sacova". Era entrato tendendo la mano a un tizio dall'aria malinconica o infastidita, che aveva guardato quella mano senza accennare a stringerla.

  "Il direttore?... Molto lieto! Sono il nuovo impiegato...".

  "Impiegato di che, di chi, per cosa? Che è venuto a fare qua? Non ho bisogno di impiegati, io!".

  Ebbene, Timar non aveva battuto ciglio! Era il direttore quello più stupito. Con gli occhi bovini, che dietro le lenti apparivano enormi, era diventato quasi cortese. Il discorso aveva preso una piega vagamente confidenziale.

  Sempre la solita storia! Gli uffici francesi che pretendono di dirigere e si impicciano delle faccende delle colonie! Il posto promesso a Timar? Si trovava a dieci giorni di navigazione con la lancia a motore, nella parte alta del fiume!

  Tanto per cominciare la lancia aveva una falla sul fondo e per ripararla ci sarebbe voluto un mese; inoltre il posto era occupato da un vecchio pazzo, che aveva giurato di accogliere a fucilate chiunque avessero mandato a sostituirlo.

  "Se la sbrighi lei! La cosa non mi riguarda!".

  Questo accadeva quattro giorni prima, ed erano quattro giorni che Joseph Timar era in Africa. Ormai conosceva Libreville meglio della Rochelle, dov'era nato.

  Una lunga banchina di terra rossa, orlata di palme da cocco, con il mercato indigeno all'aperto e un'agenzia commerciale ogni cento metri; più in là, qualche villa isolata, immersa nel verde.

  Aveva visto la lancia con il fondo sfasciato. Nessuno si occupava di ripararla.

  Nessuno aveva ricevuto ordini in proposito. E neanche lui, Timar, ultimo arrivato e in qualche modo di troppo, aveva osato darne.

  Aveva ventitré anni. Le sue maniere di giovanotto beneducato facevano ridere persino i boy che lo servivano a tavola.

  Dunque non c'era alcuna ragione di inquietudine? Sì invece! E lui sapeva bene qual era, e se aveva passato in rassegna tutte le cause possibili, era proprio per ritardare il momento di individuare l'unica vera.

  E la causa era lì, la percepiva intorno a sé, intorno all'albergo. Era l'albergo stesso. Era...

  Si era subito lasciato sedurre dall'aspetto esterno del Central, una costruzione gialla, arretrata rispetto alla banchina, a cinquanta metri dalle palme da cocco, e immersa in un intrico di piante dalle forme bizzarre.

  La sala principale, che fungeva al tempo stesso da caffè e da ristorante, aveva le pareti molto chiare, in tinte pastello che ricordavano la Provenza, e un bar di mogano lucido con alti sgabelli e recipienti di rame che davano una sensazione di intimità domestica.

  Era lì che mangiavano gli scapoli di Libreville. Ognuno aveva il proprio tavolo, il proprio portatovagliolo.

  Le camere al piano superiore erano sempre libere. Stanze disabitate e spoglie, anch'esse con le pareti in colori pastello, le zanzariere sopra i letti e una vecchia brocca nell'una, un catino incrinato, un baule vuoto nell'altra.

  Dovunque, sia al pianterreno sia di sopra, dalle stecche delle persiane chiuse filtravano i raggi del sole, cosicché la casa era tutta un susseguirsi di strisce d'ombra e di luce.

  I bagagli di Timar erano quelli di un qualunque giovanotto di buona famiglia e facevano uno strano effetto posati lì a terra, nella camera. Lui non era abituato a lavarsi in un catino, né tantomeno a nascondersi dietro a un cespuglio per fare i suoi bisogni.

  Non era abituato a tutto quel brulichio di animali, mosche mai viste, scorpioni volanti, ragni pelosi.

  E questo fu il primo attacco del malessere strisciante che l'avrebbe tormentato con la tenacia di uno sciame di insetti. La sera, spenta la candela, nonostante l'oscurità continuò a vedere la gabbia biancastra della zanzariera. Al di là del tulle, percepiva un vuoto immenso, percorso da fruscii e rumori indistinti, pullulante di piccoli esseri - scorpioni, zanzare, ragni? - che di tanto in tanto si posavano sul tessuto trasparente.

  E lui, coricato al centro di quella gabbia impalpabile, si sforzava di riconoscere i suoni, i fremiti dell'aria, di interpretare i silenzi improvvisi.

  D'un tratto si era sollevato sui gomiti. Ma ormai era mattina. Nella stanza penetravano già i raggi del sole e qualcuno aveva appena aperto la porta. La padrona dell'albergo, calma e sorridente, lo stava guardando.

  Timar era nudo. Se ne rese conto in quel momento. Le spalle e il petto, madidi e pallidi, emergevano dalle lenzuola sgualcite. Perché era nudo? Cercò di ricordarsene.

  Aveva avuto caldo. Aveva sudato molto. Aveva cercato inutilmente i fiammiferi perché si sentiva percorrere il corpo da una moltitudine di animali inafferrabili.

  Era stato allora - probabilmente in piena notte -che si era tolto il pigiama. E adesso se ne stava così, con la pelle esangue e le costole sporgenti, sotto gli occhi della padrona dell'albergo. Con sorprendente tranquillità la donna chiuse la porta e domandò: "Ha dormito bene?".

  I pantaloni di Timar erano scivolati a terra. Lei li raccolse, li scosse per ripulirli dalla polvere e li appoggiò sulla sedia.

  Timar non osava alzarsi. Il letto puzzava di sudore. Nel catino ristagnava un po' d'acqua sporca, e il pettine aveva alcuni denti rotti.

  Eppure non desiderava affatto veder uscire dalla stanza quella donna vestita di seta nera che gli sorrideva con un'espressione tanto dolce e insieme tanto ironica.

  "Sono venuta a chiederle che cosa prende di solito a colazione. Caffè? Té? Cioccolata? In Europa era sua madre a svegliarla?".

  Aveva scostato la zanzariera e parlava in tono canzonatorio. Tratteneva una risatina fra i denti, e forse aveva voglia di mordicchiarlo.

  Di mordicchiarlo perché odorava ancora di letto, di adolescenza coccolata, insomma, era ben diverso dai coloni.

  La padrona non era provocante, e tantomeno materna. Pure, nel suo atteggiamento c'era un po'"di entrambe le cose. Da lei prorompeva un'intensa sensualità, che pervadeva dalla testa ai piedi il suo corpo pienotto di donna trentacinquenne.

  Era nuda sotto la seta nera del vestito? Nonostante il disagio, Timar non poté fare a meno di chiederselo.

  E al tempo stesso, cominciò a risvegliarsi in lui un desiderio intenso, acuito da tutto ciò che vi era di più estraneo al desiderio stesso: le strisce di luce e d'ombra, il sudore da animale che impregnava le lenzuola, perfino il suo sonno agitato, interrotto da paure inconsulte e da brancolamenti nel buio.

  "Tò, è stato punto da un insetto!".

  Seduta sul bordo del letto, la donna gli posò un dito sul torace nudo, toccando una macchiolina rossa appena al di sopra del petto, e lo guardò negli occhi.

  Ecco com'era successo, e tutto poi si era svolto in fretta e furia, all'insegna del disordine e della goffaggine. Lei doveva esserne stata sorpresa quanto lui, di certo confusa, e mentre si riordinava i
capelli davanti allo specchio gli aveva detto: "Thomas le porterà subito il caffè".

  Thomas era il boy. Un negro come un altro per Timar, ancora troppo nuovo dell'Africa per riuscire a distinguere i neri fra loro.

  Un'ora dopo, quando Timar scese al pianterreno, la padrona era seduta dietro il bancone del bar e lavorava all'uncinetto della seta di un rosa violento. Della loro intimità frenetica e brutale non rimaneva più traccia. Lei era calma, serena, e sorrideva, come sempre.

  "A che ora desidera pranzare?".

  Timar non conosceva neanche il suo nome! Era sovreccitato. Permaneva in lui un senso di tepore, e in particolare un'impressione di pelle morbida, di carne non troppo soda eppure appetitosa. Una giovane negra entrò a vendere pesci, e la padrona, senza una parola, scelse i più belli e buttò qualche moneta nel paniere.

  Dalla botola della cantina emerse il busto del marito, poi l'intero corpo, possente ma sfinito. Era un colosso dai movimenti fiacchi, con una smorfia di disgusto sulla bocca, l'espressione biliosa.

  "Ah, è qui?".

  E Timar arrossì come uno sciocco. Da allora erano passati tre giorni, e le cose andavano sempre allo stesso modo. Solo che, al mattino, la padrona non saliva più nella sua camera. Dal letto lui la sentiva andare e venire nella sala, dare ordini a Thomas e comprare le provviste dai negri che si presentavano.

  La donna portava sempre lo stesso vestito di seta nera, e sotto - ormai Timar lo sapeva - era nuda; quel particolare lo turbava al punto che spesso doveva distogliere lo sguardo.

  Non avendo niente da fare, il giovane trascorreva quasi l'intera giornata in albergo, a bere quel che capitava, a sfogliare giornali vecchi di tre settimane o a giocare a biliardo da solo.

  La padrona lavorava all'uncinetto o serviva i clienti di passaggio. Il marito si occupava della birra e delle bottiglie, apparecchiava i tavoli e di tanto in tanto faceva spostare Timar, quasi si trattasse di un oggetto ingombrante.

  C'era in tutto questo un che di esasperato, di astioso, di cupo, nonostante il sole, soprattutto nelle ore più afose, quando bastava allungare un braccio per ritrovarsi fradici di sudore!

  A mezzogiorno e alla sera i clienti abituali venivano a mangiare e a farsi una partita a biliardo. Timar non li conosceva. Loro lo guardavano con curiosità, senza benevolenza né antipatia. E lui non osava rivolgere la parola a nessuno.

  Finché non c'era stata la festa. Adesso era al culmine. Nel giro di un'ora sarebbero stati tutti ubriachi, compreso Timar che beveva solo soletto il suo champagne.

  Manuelo, l'artista di turno, doveva essere arrivato in albergo mentre lui era ancora a letto, o forse quand'era uscito. Fatto sta che l'aveva trovato lì, verso le undici del mattino, sorridente e a suo agio come uno di casa. Stava attaccando sulle colonne del caffè dei manifesti, in cui c'era scritto che Manuelo era la più grande ballerina spagnola.

  Un uomo minuto, agile e dai modi accattivanti. Con la padrona si intendeva già benissimo, non come si intendono un uomo e una donna, ma come si intendono le donne fra loro.

  Fin da mezzogiorno avevano cambiato la disposizione dei tavoli per lasciare più spazio ai volteggi di Manuelo. Avevano anche appeso ghirlande di carta colorata e controllato se il grammofono funzionava a dovere.

  Per ore e ore lo spagnolo, chiuso in camera, aveva provato il suo numero, martellando coi tacchi il pavimento che vibrava tutto.

  Il malumore di Joseph Timar dipendeva forse dallo scombussolamento del tran tran quotidiano a cui aveva già fatto l'abitudine? Era uscito, nonostante il sole, e aveva sentito la testa arroventarglisi sotto il casco. Un gruppetto di negre l'aveva guardato ridendo.

  La cena dei clienti fissi era stata servita in fretta, sempre per via della festa. Poi era arrivata altra gente, bianchi che Timar non aveva mai visto, bianchi e bianche, donne in abito da sera e due inglesi in smoking.

  C'erano bottiglie di champagne su tutti i tavoli. Fuori, nell'oscurità, dietro le porte e le finestre, erano apparsi d'un tratto grappoli di negri che guardavano in silenzio.

  Manuelo ballava con movenze così femminee da risultare ancor più equivoco. La padrona era al bar. Ora Timar sapeva il suo nome: Adèle! Le si rivolgevano tutti così, e la maggior parte dei clienti le dava del tu. Lui doveva essere l'unico a chiamarla "signora". Sempre in nero, sempre nuda sotto la seta, gli si era avvicinata: "Champagne? Fa lo stesso se le do del Pieper? Di Mumm mi sono rimaste le ultime bottiglie, e gli inglesi vogliono solo quello".

  La cosa gli aveva fatto piacere, si era anche emozionato. Ma allora perché, pochi minuti dopo, aveva un'espressione tesa?

  Manuelo si era esibito in varie danze. Il padrone dell'albergo - anche a lui davano tutti del tu e lo chiamavano Eugène - era andato a sedersi in un angolo, vicino al grammofono, con l'aria più stizzosa che mai. Ma questo non gli impediva di tenere ogni cosa sotto controllo, di sentire tutto, di apostrofare i boy.

  "Idiota, non lo vedi che là in fondo c'è gente che chiede da bere?".

  Poi, con una delicatezza insospettabile, aveva cambiato la puntina del grammofono. Anche Timar stava con l'orecchio teso, coglieva frammenti di frasi, cercava di capire. Ma era quasi impossibile. Al tavolo accanto, ad esempio, davano del "signor procuratore" a un giovanottone alquanto volgare, arrivato al suo decimo whisky, che sembrava piuttosto uno studente al terzo anno di università. Alcuni commercianti di legname raccontavano: "... non c'è pericolo se non restano tracce. È una cosa da niente: metti un asciugamano bagnato sulla schiena, e dopo puoi picchiare quanto vuoi. Nessun segno di bastonate!".

  La schiena di un negro, ovviamente!

  Possibile che Timar si fosse già scolato un'intera bottiglia? Fatto sta che gliene avevano portata un'altra e gli stavano riempiendo il bicchiere. Dal suo posto scorgeva una parte della cucina, e proprio allora vide la padrona dare un pugno in faccia a Thomas. Che significava? Il negro non si ribellò, incassò il pugno immobile, lo sguardo fisso.

  Sul grammofono giravano continuamente gli stessi dischi, ormai ascoltati decine di volte. Qualche coppia ballava. La maggior parte dei clienti si era tolta la giacca.

  Fuori c'era sempre quell'assembramento di negri, che in silenzio guardavano i bianchi divertirsi.

  E il padrone se ne stava là, vicino al grammofono. Con i lineamenti così tirati e lo sguardo così duro, sembrava una maschera tragica.

  Cosa c'era nell'aria? Ma niente! Timar aveva commesso l'errore di bere troppo champagne, e ora tutte le sue piccole inquietudini, tutte le brutte impressioni degli ultimi giorni tornavano a galla.

  Aveva voglia di dire qualcosa ad Adèle, una cosa qualunque, giusto per stabilire un contatto. Cercava il suo sguardo. La seguiva con gli occhi, ma non riusciva a incontrare quelli di lei. A un certo punto, tuttavia, la donna gli si accostò perché era stata chiamata a un tavolo. Gli passò proprio accanto, e Timar trovò il coraggio di afferrare con la punta delle dita un lembo del suo vestito.

  Un attimo di pausa. Uno sguardo. Poche parole: "Che aspetti a far ballare la moglie del tuo capo?".

  Timar seguì la direzione del mento di Adèle e vide una grassa massaia vestita di rosa, seduta di fianco al direttore della Sacova. Perché quel suggerimento? E in modo così nervoso, poi! Era gelosa? Non osava sperarlo. Del resto, lui non aveva guardato altre donne.

  Adèle si rivolse ai clienti con il sorriso di sempre. Ma poi, invece di tornare alla cassa, si diresse verso il fondo della sala, verso la porta che dava sul cortile. Nessuno se ne accorse, tranne Timar, che senza rendersene conto vuotò un'altra coppa di champagne.

  "Che stupido sono! Come potevo pensare di essere l'unico?".

  In quel momento avrebbe fatto di tutto per stringerla fra le braccia, calda, con la sua carne quasi fluida e quei fianchi che, per un istante, si erano inarcati fino all'inverosimile.

  Quanti minuti passarono? Cinque? Dieci? Il marito, sempre con quell'espressione tragica, stava ricaricando il grammofono, e Timar vide che aveva accanto una bottiglia di acqua minerale.

  Adèle non tornava. Eugène, che forse aveva notato la sua assenza, la cercava con gli occhi.

  Timar si alzò, esitante, stupito di sentirsi così malfermo sulle gambe, e attraversò la sala camminando a zigzag. Raggiunse la porticina, il cortile, poi un'altra porta che si apriva sulla campagna. Venne urtato da qualcuno che arrivava di corsa. Era Adèle.

  "Finalmente!..." balbettò lui.

  "Lasciami passare, imbecille!".

  Era buio pesto. Da dentro giungeva la musica. Il vestito nero scomparve, e lui restò là, smarrito, offeso, triste.

  L'orologio segnava le tre. Ormai da tempo Manuelo aveva finito di ballare e di raccogliere i soldi. Ritornato uomo, beveva una menta a un tavolo e parlava dei successi riportati a Casablanca, a Dakar, nel Congo belga.

  Adèle, al bancone, riempiva i bicchieri, con la fronte corrugata, come se quel lavoro richiedesse tutta la sua attenzione.

  Il procuratore, seduto al bar tra i due inglesi, era ubriaco e sarcastico.

  Molta gente se n'era andata. Un paio di tavoli erano occupati dai commercianti di legname che mangiavano panini e bevevano birra.

  "Basta musica!" gridò uno di loro. "Spegni quel coso, Eugène, e vieni a bere con noi!".

  Il padrone si alzò. Aveva la bocca contratta in una strana smorfia. Guardò la sala in disordine, le stelle filanti sparse per terra, i bicchieri vuoti, le tovaglie macchiate. Gli occhi luccicavano come se avesse la febbre. Mentre si dirigeva verso la porta, sembrò colto da una vertigine e, correndo piegato in avanti, balbettò: "Torno subito!".

  Adèle contava le banconote, le divideva in mazzette e le fermava con un elastico.

  Timar, abbattuto, esausto e avvilito, finì automaticamente la bottiglia. Nessuno avrebbe poi saputo dire quanto tempo il padrone rimase assente.

  Quando lo videro tornare, sembrava più alto, più voluminoso, ma così floscio che pareva un pagliaccio.

  Restò in piedi nel vano della porta e chiamò: "Adèle!".

  La moglie lo guardò, continuando a contare le banconote.

  "Il dottore se n'è andato? Mandalo a chiamare subito!".

  Un lungo silenzio. Poi di nuovo: "Dov'è Thomas? Non lo vedo".

  Timar lo cercò con gli occhi, e lo stesso fecero gli altri. Ma in giro c'erano solo i due giovani boy ingaggiati per la festa.

  "Non mi sembri in gran forma" arrischiò un commerciante di legname.

  Il padrone lo fissò con aria feroce.

  "La festa è finita!" articolò. "Capito? Voglio il dottore, se non è troppo ubriaco. Tanto sono comunque fottuto! Bilharziosi!...".

  Timar non capì, ma gli altri sicuramente sì, perché si alzarono in tutta fretta.

  "Eugène!... Hai...".

  La voce di Eugène era stanca.

  "Non mi seccate! La festa è finita!".

  E scomparve nel corridoio. Si sentì sbattere una porta. Poi giunse il rumore di una sedia rovesciata con un calcio.

  Adèle, pallidissima, aveva sollevato lo sguardo. Ascoltava qualcosa, un brusio che si avvicinava, e diventava via via più distinto. Un gruppo di quattro o cinque negri si fermò davanti all'ingresso.

  Di nuovo Timar non capì quel che dicevano: poche parole, quasi strappate di bocca, sillaba per sillaba.

  Udì solamente un commerciante di legname, cieco da un occhio, che traduceva: "Hanno appena scoperto il cadavere di Thomas. E stato ucciso con un colpo di rivoltella, a duecento metri da qui".

  Un bastone picchiava contro il pavimento del primo piano. Eugène, là sopra, si stava spazientendo e finì per alzarsi, aprire la porta della camera e gridare dalla scala: "Adèle! Perdio!... Vuoi lasciarmi crepare così?".

  Quando si svegliò, Timar era tutto avviluppato nella zanzariera strappata. Nella camera filtrava il sole. Ma lì c'era il sole tutti i giorni, ed era un sole senza allegria.

  Seduto sul letto, ascoltò i rumori della casa. Durante la notte era stato svegliato quattro o cinque volte dai continui andirivieni, dai sussurri, dal tintinnio di una brocca di maiolica che veniva riempita d'acqua.

  All'arrivo del medico, la padrona aveva detto a Timar di ritirarsi in camera, e aveva fatto uscire gli altri.

  "Se ha bisogno di me..." aveva balbettato lui con un'insistenza patetica.

  "Sì, sì! D'accordo! Vada a letto!".

  Chissà se il marito era morto, come aveva preannunciato. Ad ogni modo, qualcuno stava spazzando la sala dabbasso. Aprendo appena la porta, Timar sentì la voce di Adèle che diceva: "È finito il gruviera? Non ne hanno più neanche al magazzino dell'agenzia?

  Allora apri una latta di fagiolini. Aspetta! Come frutta, cogli delle banane e delle albicocche, quelle del filare a destra. Hai capito, bestione?".

  Non alzava la voce. Non era di cattivo umore. Era il suo modo abituale di rivolgersi ai negri.

  Quando Timar scese, qualche minuto dopo, senza essersi fatto la barba, la trovò alla cassa, intenta a controllare delle ricevute. La sala era già pulita e ben sistemata come di consueto. Adèle era in ordine, con il vestito nero stirato e i capelli pettinati con cura.

  "Che ora è?" mormorò lui, sconcertato.

  "Sono solo le nove".

  E la crisi del padrone era cominciata alle quattro del mattino! Quando la sala era ancora sporca e in disordine. Adèle non era andata a letto, eppure aveva già predisposto il menu per il pranzo, si era preoccupata del formaggio e della frutta!

  Comunque era più pallida del solito. Soprattutto, aveva delle occhiaie appena accennate, che tuttavia le davano un'espressione diversa. Sotto il vestito, invece, s'indovinava come sempre il seno nudo, e Timar arrossì senza sapere perché.

  "Suo marito sta meglio?".

  La donna lo guardò con stupore, poi sembrò ricordarsi che il giovane era nella colonia soltanto da quattro giorni.

  "Non arriverà a stasera".

  "Dov'è?".

  Adèle indicò il soffitto. Timar non osò chiedere se il moribondo era solo, ma lei intuì il suo pensiero.

  "Ha cominciato a delirare. Non si rende più conto di niente. A proposito, c'è un biglietto per lei".

  Lo cercò sul bancone e glielo porse: un breve messaggio ufficiale in cui si pregava il summenzionato Timar di presentarsi il più presto possibile al commissariato di polizia.

  Entrò una negra con un paniere di uova. La padrona le rivolse un cenno di diniego.

  "Farebbe meglio ad andarci prima che aumenti il caldo".

  "Cosa pensa che...".

  "Vada e lo saprà!".

  Non era preoccupata. Il caffè, come lei, non aveva un aspetto diverso da quello delle altre mattine.

  "Dopo il molo, giri a destra, subito prima di arrivare davanti alla compagnia marittima degli Chargeurs Réunis... Non dimentichi il casco!...".

  Forse era solo una sua impressione. Tuttavia avrebbe giurato che quel giorno i negri avevano un atteggiamento strano. Certo, al mercato c'erano i soliti schiamazzi, tra i riflessi cangianti dei parei. Ma tutt'a un tratto, in mezzo alla folla, uno sguardo ostile si fissava sul bianco, oppure tre o quattro indigeni ammutolivano di colpo e voltavano la testa.

  Joseph Timar affrettò il passo, benché fosse in un bagno di sudore. Sbagliò strada e si trovò davanti alla villa del governatore. Dovette tornare indietro e infine, in cima a un sentiero quasi impraticabile, scorse una casupola preceduta dal cartello: COMMISSARIATO DI POLIZIA

  L'insegna era dipinta grossolanamente con la vernice bianca, e le due 5 di "commissariato" erano tracciate al contrario. Sui gradini della veranda, stavano seduti dei negri in uniforme da poliziotto ma a piedi nudi. Nella penombra della casa ticchettava una macchina per scrivere.

  "Il commissario, per favore?".

  "Hai un appuntamento?".

  Timar cercò il foglietto con la convocazione e aspettò in piedi, sulla veranda, finché non fu chiamato in un ufficio con le persiane chiuse.

  "Si accomodi! Lei è Joseph Timar?".

  Nella semioscurità riuscì a distinguere un uomo dal viso sanguigno, con gli occhi sporgenti che le borse mettevano in risalto.

  "Da quando è a Libreville? Si accomodi!".

  "Sono arrivato con l'ultima nave, mercoledì".

  "Non è per caso parente del consigliere generale Timar?".

  "Sì, è mio zio".

  Il commissario si alzò di scatto, spingendo indietro la sedia, e tese una mano molliccia, mentre ripeteva in tutt'altro tono: "Ma si accomodi! Suo zio abita sempre a Cognac? Io sono stato ispettore lì per cinque anni".

  Timar si sentì sollevato. Perché all'inizio, entrando nella stanza buia e squallida, aveva avuto la tentazione di protestare o di lasciarsi andare allo sconforto. A Libreville c'erano in tutto cinquecento bianchi. Gente che si adattava a una vita dura, e finanche pericolosa, per realizzare quella che in Francia veniva pomposamente definita la "valorizzazione delle colonie".

  E lui, nemmeno il tempo di sbarcare, e già era stato convocato da un commissario di polizia, che l'aveva accolto in modo brusco come un indesiderabile!

  "Un uomo di grande levatura, suo zio! Può diventare senatore quando vuole. Ma lei, mi dica, che cosa è venuto a fare qui?".

  Adesso era il commissario a mostrarsi stupito, così sinceramente stupito che Timar si allarmò.

  "Ho firmato un contratto con la Sacova".

  "Il direttore si dimette?".

  "No! In teoria dovrei occupare la postazione lungo il fiume, ma...".

  Lo stupore si trasformò in uno sbalordimento preoccupato.

  "Suo zio lo sa?".

  "È stato lui a trovarmi questo lavoro. Un suo amico è amministratore della... ".

  Timar era ancora seduto. Il commissario gli girava attorno osservandolo con interesse. A tratti, qualche raggio di sole lo illuminava e allora si notava il labbro superiore spaccato e una faccia - come la corporatura - più virile di quanto non apparisse a prima vista.

  "Che idea bizzarra! Ad ogni modo, ne riparleremo! Conosceva i Renaud prima del suo arrivo qui?".

  "I Renaud?".

  "I proprietari del Central... A proposito, lui non è ancora morto?".

  "A quanto pare, non supererà la giornata".

  "Accidenti! E...".

  D'un tratto, Timar scoprì cos'era a metterlo a disagio, nonostante la cordialità del funzionario. Nei suoi andirivieni per l'ufficio, il commissario lo guardava più o meno con la stessa espressione di Adèle.

  Un misto di stupore e curiosità, con una punta di tenerezza.

  "Gradisce un whisky?".

  E senza aspettare la risposta, ordinò a uno dei boy che stavano sulla veranda di portare la bottiglia.

  "Va da sé che lei ne sa quanto gli altri di quello che è accaduto stanotte...".

  Timar arrossì e il commissario se ne accorse. Allora arrossì ancora di più e il suo interlocutore prese la bottiglia dalle mani del negro e riempì i bicchieri, sbuffando come se non tollerasse il caldo.

  "Saprà di certo che è stato fatto fuori un indigeno, a meno di duecento metri dall'albergo. Torno adesso da un incontro con il governatore. È una brutta storia, una bruttissima storia!".

  Nella stanza accanto qualcuno continuava a battere a macchina. La porta era rimasta socchiusa, e Timar vide che il dattilografo era nero.

  "Alla sua salute! Lei non può capire! Ma se ne renderà conto a poco a poco nei prossimi giorni. L'ho fatta venire per interrogarla come gli altri. Mi diranno tutti la stessa cosa, cioè che non ne sanno niente. Sigaretta? No? Un giorno di questi deve venire a pranzo da noi, così le presento mia moglie.

  È del Calvados, ma anche lei ha conosciuto suo zio, a Cognac".

  Timar cominciava a rilassarsi e ad apprezzare quella penombra che all'inizio lo aveva infastidito. Il whisky contribuiva a rimetterlo in sesto. A questo punto, giacché il commissario, che probabilmente lo aveva già studiato abbastanza, ora lo fissava meno, arrischiò una domanda: "I Renaud, di cui parlava prima... Che tipi sono?".

  "Non gliel'hanno detto? Quindici anni fa a Eugène Renaud è stato imposto il divieto di soggiorno in Francia. Tratta delle bianche, in particolare, ma probabilmente anche qualche altro peccatuccio. Non è il solo in questa situazione a Libreville". "E sua moglie?".

  "È sua moglie! Tutto regolare. Erano già insieme ai tempi di Parigi. Lavoravano di preferenza nella zona di place des Ternes. Su, vuoti il bicchiere!".

  Timar lo vuotò tre volte, forse quattro. Il commissario lo imitò, e alla fine divenne molto loquace. Se non fosse stato per una telefonata del procuratore che lo convocava d'urgenza, la conversazione sarebbe andata avanti per un pezzo.

  Quando Timar uscì il sole era a picco, così opprimente che dopo un centinaio di metri ne ebbe paura. Aveva la testa in fiamme. Non riusciva a smaltire il whisky e pensava alla bilharziosi di Eugène Renaud e alle altre storie che aveva appena sentito.

  Pensava soprattutto ad Adèle che, quando lui aveva solo sette anni, aiutava già Renaud ad adescare le ragazze da vendere in Sudamerica. Poi l'aveva seguito in Gabon, all'epoca in cui sulla costa c'era solo qualche baracca di legno! Si erano addentrati nella foresta e - unici bianchi in quel buco sperduto, a giorni e giorni di piroga dalla capitale - si erano messi a tagliar alberi per poi farli trascinare a valle dalla corrente!

  La fantasia di Timar traduceva tutto in immagini ingenue in cui frammenti di realtà si mescolavano alle illustrazioni di Jules Verne. Stava percorrendo la lunga strada di terra rossa che costeggiava il mare, e vedeva le palme da cocco stagliarsi per metà contro il cielo e per l'altra metà contro il grigio plumbeo dei flutti. Non c'erano vere e proprie onde, appena un ripiegarsi del mare lungo la spiaggia, come il contorno di un labbro. Le piroghe dei pescatori, rientrate da poco, erano attorniate da parei multicolori e uomini seminudi.

  Il fiume era laggiù, a solo un chilometro, in fondo alla baia. Ai tempi eroici di Adèle e Eugène, però, non c'erano i tetti rossi delle agenzie commerciali e degli uffici governativi che spuntavano dal folto della vegetazione.

  All'epoca, lei doveva andarsene in giro con gli stivali e una cartucciera, certo non con un vestito di seta sulla pelle nuda.

  Continuava a camminare, cercando di stare all'ombra, ma faceva caldo come al sole. L'aria arroventava gli oggetti, persino i vestiti scottavano al tatto. E pensare che, una volta, non c'erano né muri di mattoni né ghiaccio per rinfrescare le bevande!

  Otto anni più tardi, Adèle e Renaud erano rientrati in Francia con seicentomila franchi e, in barba al divieto di soggiorno, li avevano spesi - il commissario diceva "scialacquati" - nel giro di qualche mese.

  In che modo? Che vita avevano condotto? In quali posti un giovane come Timar, poco più che adolescente, aveva rischiato di incontrarli?

  I due erano tornati in Africa. Avevano ripreso la via della foresta. L'uomo aveva avuto due attacchi di bilharziosi, e Adèle l'aveva curato.

  Dopo soltanto tre anni avevano comprato il Central.

  E una mattina, su un letto fradicio di sudore, Timar aveva tenuto quella donna fra le braccia.

  Non osava togliersi il casco per tergersi il sudore. Era mezzogiorno, e lui era solo, rigorosamente solo, sulla strada infuocata.

  Il commissario gli aveva raccontato altre storie, senza indignarsi, limitandosi a borbottare quando riteneva che qualcuno avesse esagerato.

  Come nel caso del proprietario di una piantagione che un mese prima, sospettando il cuoco di aver tentato di avvelenarlo, l'aveva appeso per i piedi sopra una bacinella piena d'acqua. Di tanto in tanto mollava la corda, in modo che la testa vi si immergesse. Alla fine aveva lasciato passare oltre un quarto d'ora prima di ricordarsi di tirare su il negro, sicché quello era morto.

  Era in corso il processo. La Società delle Nazioni aveva deciso di intervenire.

  E adesso era stato assassinato un altro indigeno!

  "Non la faranno franca!" aveva dichiarato il commissario.

  "Chi?".

  "Gli assassini".

  "E le altre volte?".

  "Riescono quasi sempre a sistemare le cose".

  Cosa era andata a fare Adèle fuori di casa la notte della festa? E perché, qualche ora prima, aveva dato un pugno in faccia a Thomas?

  Timar non ne aveva parlato, né intendeva farlo. Ma nessun altro l'aveva vista rientrare?

  Ecco, aveva di nuovo sbagliato strada, ora doveva tornare sui suoi passi.

  Infine, arrivò all'albergo. Stavano servendo il pranzo, ma quel giorno il rumore delle posate non era accompagnato dal consueto brusio delle conversazioni. Tutti si voltarono a guardarlo. Lui notò che Adèle non era in sala e andò a sedersi al proprio tavolo.

  C'era un nuovo boy, giovanissimo. Timar si sentì tirare per la manica e, girandosi, scorse uno dei commercianti di legname, il più robusto, con una faccia e una corporatura da macellaio.

  "È finita".

  "Che cosa?".

  Un cenno verso il soffitto.

  "È morto adesso. A proposito, che le ha detto?".

  Stava accadendo tutto troppo in fretta, specie in quel mezzogiorno estenuante.

  Timar non riusciva a riordinare le idee e, pur sapendo di rendersi ridicolo, chiese: "Chi?".

  "Il commissario! L'ha convocata per primo perché ha pensato che sarebbe stato più facile far cantare un novellino. Dopo pranzo, o domani, toccherà a noi".

  Nessuno aveva smesso di mangiare, ma tutti gli sguardi erano puntati su Timar, che non sapeva cosa rispondere, diviso tra il pensiero dell'uomo morto là sopra, che Adèle stava probabilmente vegliando, e i racconti del commissario.

  "Ha l'impressione che sospetti qualcosa?".

  "Non saprei. Io ho dichiarato di non aver visto niente".

  "Ah, bravo!".

  Era proprio come se gli avessero dato un bel voto, e ora lo guardavano con più benevolenza. Dunque, quei tipi avevano capito che lui sapeva qualcosa? E, quindi, anche loro sapevano?

  Timar arrossì, mangiò una fetta di salame e si sorprese a chiedere: "Ha sofferto molto?".

  Poi si rese conto che non era una domanda da fare, perché l'agonia doveva essere stata atroce.

  "Il guaio è che questa storia arriva subito dopo quella del negro appeso" disse il commerciante di legname guercio.

  Ci avevano pensato anche loro! Tutti ci avevano pensato! Tutti, insomma, "stavano al gioco", e tutti osservavano Timar con curiosità e diffidenza perché lui, invece, ne era fuori.

  Dalla stanza di sopra giunse un rumore di passi. Una porta venne aperta e richiusa. Qualcuno stava scendendo le scale.

  Era Adèle Renaud, che attraversò il silenzio assoluto del caffè, si diresse verso il bancone e sollevò la cornetta del telefono.

  Aveva lo stesso aspetto di sempre, compreso il seno minuziosamente disegnato dalla seta del vestito. L'osservazione era infantile e, tuttavia, proprio questo particolare lo turbava di più, come se il lutto dovesse consistere nell'indossare la biancheria.

  "Pronto?... Il 25, sì... Pronto?... C'è Oscar?... Sì, sono io... Quando torna, lo informi che è finita e gli dica di venire con l'occorrente... Il dottore non vuole che il corpo resti qui oltre domani a mezzogiorno... No, grazie! È tutto a posto...".

  Riagganciata la cornetta, rimase per un pezzo con i gomiti sul bancone, il mento appoggiato sui pugni, lo sguardo fisso davanti a sé. Quando parlò, fu solo per dire, girandosi appena verso il boy: "E allora? Che aspetti a sparecchiare il tavolo lì in fondo?".

  Aprì un cassetto, lo richiuse, fece per uscire, ci ripensò e tornò a mettersi nella posizione di prima, con il mento sulle mani incrociate. Dal tavolo dei commercianti di legname si levò una voce: "Il funerale è domani?".

  "Sì. Secondo il dottore non è prudente tenerlo qui più a lungo".

  "Se le serve una mano...".

  "Grazie, ma è tutto a posto. Magari tra un po', quando arriva la bara".

  E intanto guardava Timar. Lui lo sapeva e non osava alzare gli occhi.

  "Ha visto il commissario, signor Timar? È stato molto sgradevole?".

  "No... Io... Il commissario conosce mio zio, che è consigliere generale, e...".

  Tacque, perché sentiva diffondersi di nuovo, intorno a sé, quella curiosità canzonatoria, appena velata di rispetto, che lo metteva a disagio. E nello stesso tempo vide le labbra sinuose di Adèle piegarsi, per un istante, in un sorriso intenerito.

  "Le ho cambiato camera, perché la sua è l'unica che per questa notte può ospitare il corpo di mio marito".

  Si girò verso le bottiglie allineate, ne scelse una di calvados e se ne versò un bicchiere che buttò giù con una smorfia di disgusto. Poi chiese con voce neutra: "Che ne è del negro?".

  "L'hanno portato in ospedale. Devono fargli l'autopsia questo pomeriggio. Sembra che la pallottola sia uscita all'altezza delle scapole... Non l'hanno trovata".

  Le ultime parole erano state dette con un tono carico di sottintesi. Il commerciante di legname proseguì, alzando le spalle e ingoiando una mezza albicocca, simile a un tuorlo d'uovo.

  "Sul posto c'è un poliziotto nero, per impedire che vengano a riprendersi la pallottola, se la trovano. Già! Se la trovano!... Chi è che vuol fare una partita a biliardo?".

  Si era alzato, pulendosi la bocca col tovagliolo. Di fronte al silenzio generale, ebbe un attimo di esitazione, poi borbottò: "Forse per oggi è meglio non giocare. Dammi un calvados, Adèle!".

  E si appoggiò al bancone, di fronte a lei, mentre gli altri finivano di pranzare. Timar aveva le guance in fiamme. Mangiava distrattamente, sussultando con stizza a ogni passaggio di un moscone che l'aveva scelto come centro delle sue evoluzioni.

  L'aria era pesante. Fuori non si muoveva una foglia. Non si udiva neppure lo sciabordio delle onde, anche se il mare era vicinissimo.

  Solo un acciottolio di stoviglie in cucina, dietro lo sportello che serviva a passare i piatti. Il vicedirettore della banca, un ragazzone che aveva modi simili a quelli di Timar e che consumava i pasti in albergo, uscì per primo, dopo aver indossato il casco ed essersi acceso una sigaretta.

  Tra non molto si sarebbero alzati anche gli altri. Alcuni, prima di andar via, avrebbero preso un calvados al bancone. In ogni caso, entro le due, nel caffè sarebbero rimasti solo Timar e Adèle.

  Lui era incerto se restare fino a quel momento. I quattro whisky del mattino lo avevano intorpidito. Si sentiva la testa vuota, dolorante, ma non trovava il coraggio di andarsene a dormire in una nuova camera, mentre portavano il morto nella sua.

  Qualcuno, con il bicchiere in mano, domandò: "Possiamo vederlo prima che chiudano la bara?".

  "Non credo. Alle cinque sarà tutto finito".

  "Poveraccio!".

  Quel tipo aveva la stessa età del padrone. Ce n'erano di più giovani che avevano già avuto la seconda crisi. Molti, aveva raccontato il commissario a Timar, erano riusciti ad accumulare un capitale (certi anche più di uno), che poi avevano scialacquato in Francia in pochi mesi. Una volta, a Bordeaux, il guercio con il dente d'oro per una serata di gala all'Opera aveva noleggiato tutti i taxi della città solo per il piacere di vedere gli spettatori e le spettatrici in tenuta da gran sera tornare a casa a piedi sotto la pioggia battente. Ora, per via della crisi, vivacchiava grazie a un vecchio camioncino con cui faceva piccoli trasporti e svolgeva il servizio di nettezza urbana.

  La campanella di un'agenzia commerciale suonò l'una e mezzo. Nel caffè erano rimaste solo quattro persone, che ben presto diventarono tre. Timar, sempre seduto al tavolo, teneva lo sguardo fisso a terra.

  L'ultimo cliente vuotò il bicchiere e prese il casco dall'appendiabiti, mentre il cuore di Timar cominciava a battere più forte. In preda all'angoscia, si chiedeva cosa avrebbero detto a questo punto lui o Adèle.

  I passi si allontanarono. Timar fece uno sforzo enorme per alzare la testa.

  Aveva deciso di ordinare anche lui un calvados, a costo di rimanere intontito per il resto della giornata.

  Ma, nel momento in cui stava per formulare la richiesta, Adèle emise un sospiro come chi si accinga di malavoglia a un lavoro. Timar sentì che chiudeva la cassa. Poi lei uscì senza dirgli niente, senza guardarlo. La intravide ancora per un attimo, attraverso lo sportello che dava sulla cucina, mentre impartiva degli ordini sottovoce. Infine, si avviò su per le scale e i suoi passi risuonarono sopra la testa di Timar.

  La cena fu simile al pranzo, con l'unica differenza che, al piano di sopra, il corpo non era più disteso sul letto, ma chiuso in una bara appoggiata su due sedie.

  Inoltre, i clienti abituali si scambiavano sguardi d'intesa, come a ricordarsi l'un l'altro una decisione già concordata. E, dopo aver finito di mangiare, il commerciante di legname con la faccia da macellaio si avvicinò al bancone.

  "Senti, Adèle, non pensi che sarebbe meglio chiudere?".

  "È proprio quello che ho intenzione di fare".

  "E... immagino... ci sarà la veglia funebre?... In questo caso, lo sai, puoi contare su di noi...".

  C'era qualcosa di comico nel contrasto fra la sua faccia da bestione e l'espressione infantile che gli dava l'aria di uno scolaro che chiede il permesso.

  "A che serve vegliarlo? Non tornerà certo in vita".

  Gli occhi del commerciante di legname scintillarono. Dovette fare uno sforzo per non sorridere, e meno di cinque minuti dopo erano tutti fuori, compreso Timar. Erano usciti con finta noncuranza, con un'indecisione mal simulata.

  "Magari stiamo un'oretta in giro e poi ce ne andiamo a letto!".

  "A domani, Adèle".

  Uno scambio di occhiate. Il commerciante di legname toccò la spalla di Timar.

  "Vieni con noi. Preferisce stare un po'"da sola".

  Il caffè si era svuotato. In strada, nel buio, si ritrovarono in sei, e uno del gruppo cominciò a girare la manovella di un camioncino. La luna era piena. Il mare argentato rumoreggiava dietro il sipario delle palme da cocco, proprio come nelle fantasie di Timar quando, in Europa, provava a immaginarsi le notti delle isole.

  Si voltò verso il caffè, la cui desolazione lo rattristò. Il boy stava sparecchiando i tavoli mentre Adèle, dal bancone, gli dava istruzioni.

  Timar si accorse che fra loro c'era anche il vicedirettore della banca, ed era proprio accanto a lui, in piedi, sul camioncino che si stava mettendo in moto.

  Qualcuno già sbuffava: "Bah! Adèle esagera! Mi chiedevo se ce l'avrei fatta a resistere senza soffocare sino alla fine della cena".

  "Aspetta! Fermati a casa mia" fece un altro, piegandosi verso quello che guidava. "Vado a prendere un po'"di pernod".

  Non si vedevano bene le facce, o meglio, il chiarore lunare le deformava. Le sei sagome cercavano di tenersi in equilibrio e sobbalzavano a ogni buca.

  "Dove stiamo andando?" chiese sottovoce Timar al vicedirettore.

  "In una capanna, a passare la serata".

  E Timar notò che il giovanotto non aveva la sua solita espressione. Era un tipo alto e magro, con il viso delicato, i capelli biondi e i gesti misurati. Ma quella sera, nei suoi occhi, c'erano uno scintillio sospetto e uno strano smarrimento.

  Mentre aspettavano il pernod, Timar scambiò qualche frase a voce bassa con il suo vicino. Apprese così che Bouilloux, quello con la faccia da macellaio, non aveva mai fatto il macellaio, e che invece un tempo era stato maestro in un paesino del Morvan.

  Nel bel mezzo di una frase, il vicedirettore della banca ebbe un sussulto di buone maniere. In piedi sul camioncino, si inchinò con la mano tesa.

  "Mi permetta di presentarmi: Gérard Maritain".

  "Joseph Timar, della Sacova".

  L'auto ripartì. Percorsero una strada che Timar non conosceva, e il frastuono del motore rendeva impossibile parlare. La vettura era ormai ridotta a un precario ammasso di ferraglia, il che non impediva al conducente di prendere le curve a tutta velocità, sicché i passeggeri finivano ogni volta gli uni contro gli altri.

  Videro qualche luce ai lati della strada, poi più nulla. In lontananza scorsero un fuoco e dei coni neri, che erano le capanne indigene.

  "Da Maria?" chiese qualcuno.

  "Da Maria!".

  Da quel momento in poi Timar piombò in un incubo. Era la prima volta che vagava di notte per Libreville. La luna conferiva alle cose un aspetto a lui ignoto.

  Non sapeva più neanche dov'era, né dove andava.

  Al passaggio del camioncino delle ombre si scansavano, probabilmente negri che si confondevano subito con la foresta. I freni stridettero. Bouilloux scese per primo, si avvicinò a una capanna immersa nell'oscurità e diede un calcio contro la porta.

  "Maria!... Ehi, Maria!... Sveglia!...".

  Uno alla volta, scesero anche gli altri. Timar continuava a tenersi vicino a Maritain, che sentiva più simile a sé.

  "Chi è Maria? Una prostituta?".

  "No! È una negra come le altre. E tutte quante non chiedono di meglio che ricevere i bianchi. Visto che non ci sono caffè a Libreville, era giocoforza, stasera...".

  Faceva caldo, nonostante fosse notte. Nelle capanne vicine tutto era immobile.

  La porta di Maria si aprì, inquadrando la sagoma di un negro nudo, che abbozzò un saluto e si dileguò nella fitta oscurità del villaggio.

  Solo più tardi Timar capì che era il marito di Maria, e veniva mandato a spasso mentre altri uomini facevano visita a sua moglie.

  Nella capanna qualcuno accese un fiammifero, e con quello una lampada a petrolio.

  "Entrate!" gridò Bouilloux cedendo il passo ai compagni.

  Faceva ancora più caldo che fuori, un calore ripugnante, di corpi umani.

  Aleggiava un tanfo acre che prendeva alla gola e che finora Timar aveva solo vagamente percepito passando accanto a qualche negro sudato.

  Dopo aver acceso la lampada, la donna stava finendo di annodarsi un parco intorno al corpo, per il resto completamente nudo, ma Bouilloux glielo strappò di dosso e lo lanciò in un angolo della capanna.

  "Và a chiamare le tue sorelle! Soprattutto la piccola, mi raccomando!".

  I bianchi si comportavano come se fossero a casa propria, tranne forse Maritain, visibilmente impacciato. Nella capanna c'erano solo un tavolo, due vecchie sedie a sdraio e un misero letto da campo, con l'incavo e il sudore lasciati dai corpi.

  Eppure tre uomini vi si sedettero, sistemandosi sulla sudicia coperta.

  "Accomodatevi, ragazzi!".

  Timar non aveva mai sentito tanto caldo, neanche a mezzogiorno. Gli sembrava addirittura un calore malsano, un calore di febbre, da ospedale. Provava una ripugnanza fisica a toccare gli oggetti, perfino le pareti. Si aggrappava con lo sguardo a Maritain, che rimaneva pure lui in piedi, anche se si era addentrato molto di più nella capanna.

  "Bè, Adèle è un'altra cosa!" gli gridò Bouilloux da lontano.

  "Andiamo, bevi!... Ti farà bene...".

  Un bicchiere passò di mano in mano fino a Timar. Di bicchieri ce n'erano solo tre, e nessuno li aveva lavati. Il secondo l'aveva Bouilloux, il terzo il commerciante di legname guercio.

  "Alla salute di Adèle!".

  Era pernod liscio. Timar lo trangugiò senza il coraggio di opporsi ai cinque uomini. Il bicchiere e il suo contenuto lo disgustavano talmente che bevve trattenendo il respiro.

  "Certo, è carino far finta di non capire. Ma dal momento che ci siamo passati tutti...".

  A quel punto probabilmente sarebbe scoppiata una lite, se non si fosse aperta la porta. La prima a entrare fu Maria, con un sorriso docile sulle labbra. Dietro di lei veniva una negra molto minuta, giovanissima, che subito fu ghermita dal primo bianco seduto vicino all'uscio.

  Poi regnò una certa confusione, perché la capanna non era abbastanza grande per contenere tutti e bisognava stare a strettissimo contatto.

  Le negre quasi non aprivano bocca. Qualche parola isolata, frammenti di frasi incompiute. Per lo più ridevano, mostrando il luccichio dei denti bianchi. Maria tirò fuori da sotto il materasso una bottiglia di menta che gli uomini si scolarono dopo il pernod.

  Ci fu solo un momento di imbarazzo. Il commerciante di legname guercio aveva chiesto: "Che si dice al villaggio della morte di Thomas?".

  Sulle tre facce nere svanirono il sorriso, la cordialità, e anche ogni traccia di sottomissione. Le donne tacquero e abbassarono lo sguardo. Ma Bouilloux riportò il buonumore gridando: "Va bene! Va bene! Chi se ne frega di quello sporco negro! Alla salute, ragazze!

  Sapete che vi dico? Ce ne andiamo tutti insieme a fare un giretto nella foresta".

  Come era già accaduto durante la cena, i cinque uomini si scambiarono un'occhiata, e Timar intuì che quelle parole dovevano avere un significato, che c'era un piano prestabilito.

  "Un momento! Senti, Maria! Cento franchi se scovi da qualche parte una bottiglia di whisky o di qualunque altra cosa!".

  E lei trovò la bottiglia, in quel villaggio dove tutto sembrava dormire, dove non c'era un rumore, una luce, un bisbiglio, ma in cui da ogni capanna sentivano di certo quel che stava succedendo.

  Spezzoni di frasi nella confusione, mentre il gruppo risaliva sul camioncino.

  In piedi, vicino al tronco di un albero del cotone, c'era una negra che scorsero solo all'ultimo momento.

  "Sali anche tu!".

  Nel frastuono del motorino di avviamento, poi del motore e delle balestre, non si udì altro.

  Timar non voleva vedere nulla. Fissava ostinatamente le cime degli alberi che gli sfilavano accanto e di cui la luna metteva in evidenza i contorni. Le ruote giravano a fatica sulla sabbia e bisognava cambiare marcia di continuo.

  Gli misero in mano la bottiglia mezzo vuota, calda e con il collo tutto appiccicoso. Non riuscì a bere. Fece finta, e un po'"di whisky gli scivolò lungo il mento finendogli sul petto.

  "... dal momento che ci siamo passati tutti...".

  Era in preda a una smania dolorosa, e lo perseguitava un'idea fissa: avvicinarsi a quel Bouilloux con la sua faccia da bestione e pretendere un chiarimento.

  Perché non c'era niente di vero! Non era possibile! Bouilloux non era stato l'amante di Adèle, e neanche il guercio, né...

  Passava dal furore alla disperazione, poi di nuovo al furore. A un certo punto pensò di far fermare il camioncino per scendere. Ma non sapeva neppure dov'erano, quindi si vide costretto a restare con i compagni.

  Calcolò che avevano percorso almeno venticinque chilometri quando il veicolo si arrestò, proprio dove terminava la strada, al margine di una radura che costeggiava un fiume. Ricominciò la confusione. Scoppi di voci e di risate.

  "La bottiglia! Non dimenticate la bottiglia!" gridò qualcuno.

  Timar restò solo, di fianco al camioncino, senza farsi notare. Davanti a lui, fra le chiazze di luce e d'ombra, s'intravedeva un viavai di forme indistinte, che a volte procedevano a zigzag, in un sottofondo di bisbigli, mormorii, risolini nervosi.

  Per prima lo raggiunse la figura allampanata di Maritain, il quale, scorgendolo all'improvviso a meno di un metro, balbettò imbarazzato: "Ah, è qui!... Bisogna pur divertirsi un po'...".

  Una forma più bassa e robusta andava avanti e indietro nella radura. D'un tratto si avvicinò.

  "Presto! Tutti su! Ci sarà da ridere!".

  Era Bouilloux. Un'altra ombra si stava accostando, poi due, tre. Arrivò anche una negra.

  "Un momento, piccola! Prima i bianchi!".

  Si arrampicarono sul camioncino. Le quattro donne aspettavano il loro turno. Il motore girava.

  "Via!".

  Il veicolo partì più in fretta che poté e le donne si misero a corrergli dietro, gridando.

  "Giù le zampe! Ci vediamo, ragazze!".

  Erano nude, di una nudità assoluta, da animali della foresta. La luna le incastonava in una luce argentata. Lanciavano grida acute, agitavano le braccia.

  "Più in fretta, figliolo! Sono capaci di raggiungerci!".

  Il camioncino procedeva traballando sconnesso. Urtarono contro un ceppo d'albero e furono sul punto di cappottarsi. La scamparono per un pelo.

  Le negre continuavano a correre, ma a poco a poco perdevano terreno. Le figure si facevano più piccole, più lontane, i richiami più fiochi.

  "Uff! Ce l'abbiamo fatta!".

  Già, ce l'avevano fatta! Le avevano seminate!

  Scoppiarono non più di tre, quattro risate. Qualche raro commento: "Chi era la grassona?".

  Accanto a Timar, Maritain chinò la testa.

  Ancora delle oscenità, poi, a mano a mano che andavano avanti, il silenzio e un cupo sconforto.

  "Sono stato convocato per domani al commissariato!".

  "Anch'io!".

  "E Adèle? A proposito, forse dovremmo fare una colletta per una corona".

  Faceva caldo e freddo nello stesso tempo. Timar aveva il corpo coperto di sudore, la camicia fradicia. Gli pareva di respirare un'aria troppo afosa per i suoi polmoni, eppure il vento che gli arrivava addosso per via della corsa lo raggelava.

  Alla parola "Adèle" aveva sussultato. La luna era più bassa, dietro gli alberi, e Timar non distingueva più i compagni, però aveva individuato l'angolo in cui stava Bouilloux.

  "A proposito di Adèle, vorrei che mi dicesse...".

  La sua voce suonò così falsa che lui stesso ne fu sconcertato, e tacque.

  "Cosa vuoi che ti dica? Divertiti, se ne hai voglia, come noi stasera! Ma vedi di non fare il bambino!".

  Timar non replicò. Lo lasciarono all'angolo della banchina. Strinse soltanto una mano, la destra di Maritain, che balbettò: "A domani!".

  Era solo, nella notte. In albergo, l'unica luce proveniva da una finestra del primo piano. Sulle prime tentò, di aprire la porta, ma era chiusa a chiave e non se la sentì di bussare creando trambusto, sia per rispetto nei confronti del morto, sia per una sorta di sovreccitazione nervosa che gli faceva tremare le ginocchia e che aveva tutta l'aria di una paura irragionevole.

  Fece il giro della casa per raggiungere la porta sul retro, maledicendosi per il rumore provocato dai suoi passi. Un gatto in fuga gli mozzò il respiro. Pensava di essere sul punto di ammalarsi, forse per via del sudore che gli ricopriva il corpo e tuttavia non gli impediva di rabbrividire. Al minimo movimento sudava, si sentiva sudare, sentiva schizzare una gocciolina da ogni poro della sua pelle.

  Anche l'entrata di servizio era chiusa, ma quando tornò di nuovo davanti all'ingresso principale la porta si aprì.

  Dietro l'uscio c'era Adèle con una candela in mano, sempre vestita di seta nera, sempre calma. Timar riuscì a malapena a passare attraverso lo spiraglio, e subito la porta si richiuse. Adesso era nel caffè, a cui la luce danzante della fiammella dava un aspetto diverso. Cercò qualcosa da dire. Era esasperato, furioso con se stesso, con lei, con il mondo intero, inquieto come non mai.

  "Non stava dormendo?".

  La guardava di sottecchi, mentre in lui maturava una reazione inattesa. Era il risultato degli ignobili spettacoli della notte? O piuttosto una protesta rabbiosa, una sorta di vendetta da consumare?

  In ogni modo si sentiva in preda a un desiderio brutale, cattivo.

  "La sua nuova camera è a sinistra".

  Timar la seguì stancamente fino alle scale che entrambi dovevano salire. Sapeva che Adèle si sarebbe fermata per lasciarlo passare e illuminargli la strada.

  E proprio allora la afferrò per la vita, anche se non era sicuro di cosa volesse fare.

  Lei non cercò di svincolarsi. Aveva ancora la candela in mano, e una goccia di stearina calda cadde sulla mano di Timar. Adèle si limitò a inclinare il busto all'indietro, un
busto così muscoloso, così possente, malgrado la sua femminilità, che il giovane non riuscì a trattenerlo contro di sé.

  "Sei ubriaco, piccolo mio! Và a letto!" gli disse lei, semplicemente.

  Lui la fissò con occhi torbidi. Vide il volto pallido, che pareva ondeggiare alla luce della candela, e quelle labbra sinuose che, nonostante tutto, avevano sempre l'aria di accennare un sorriso ironico e tenero.

  Si slanciò goffamente su per le scale, inciampò, sbagliò camera, mentre lei gli ripeteva senza risentimento: "Quella a sinistra!".

  Dietro la porta, la sentì salire, aprirne un'altra e richiuderla. Alla fine, due scarpe caddero sul pavimento l'una dopo l'altra.

  Al cimitero Timar si sentì all'improvviso completamente spaesato, e quella sensazione lo invase, lo sommerse al punto che si ritrovò senza fiato, come se fosse stato travolto realmente da un cavallone.

  Eppure l'aveva cercata quella sensazione, nell'ambiente pittoresco, nella chioma lussureggiante delle palme da cocco, nella cantilena della lingua indigena, nel brulichio di corpi neri.

  Adesso però era un'altra cosa, era la chiara e disperante consapevolezza del significato di queste parole: "Per andarsene dall'Africa ci vuole una nave. Ne parte una al mese e impiega tre settimane per raggiungere la Francia!".

  Erano le otto del mattino. Avevano lasciato l'Hôtel Central alle sette, per evitare la canicola. Ma non era il sole a bruciare: era il terreno, erano i muri, gli oggetti. Le persone stesse diventavano fonte di calore!

  Timar era andato a letto alle quattro. Il malessere che provava da quando si era svegliato gli faceva supporre di aver bevuto più di quanto avesse creduto.

  Erano venuti i commercianti di legname, e Maritain, e tutti i clienti. Come in una qualunque città di provincia, i gruppetti stavano in attesa a qualche metro dalla porta. L'unica differenza consisteva nel fatto che la gente era vestita di bianco e che tutti portavano il casco, compresa Adèle, la quale uscì dietro al feretro con il solito abito nero e un copricapo di sughero.

  Il carro funebre era in realtà il camioncino della notte precedente, ricoperto di un drappo nero.

  Si avviarono lungo la strada di terra rossa, imboccarono una viuzza ripida costeggiata da capanne indigene. Chissà se quella di Maria era lì in mezzo.

  Camminavano in fretta, nonostante il caldo, perché il motore non teneva il minimo. Adèle procedeva da sola, in testa al corteo, con passo normale. Si guardava attorno e a volte girava la testa, come se andasse per gli affari suoi.

  Infine entrarono nel cimitero, sulla sommità di una collina che dominava il mare e la città. A sinistra, un fiume sbucava dalla foresta, e un cargo rosso e nero, fermo all'ancora, caricava legname.

  Forse era un effetto dell'aria eccezionalmente tersa, fatto sta che, malgrado la distanza, era possibile distinguere i minimi particolari; delle zattere seguivano un piccolo rimorchiatore di cui giungeva il pulsare del motore diesel, le catene stridevano intorno ai tronchi, gli argani cigolavano.

  Più in là, il mare. Solo mare, per i venti giorni di navigazione a tutto vapore che ci volevano prima di rivedere la costa francese!

  Ma era un cimitero, quello? Era visibile il tentativo di adeguarsi alle usanze europee. C'erano due o tre tombe di pietra, qualche croce di legno. Eppure non era un vero cimitero! Niente cappella, niente muri di cinta, niente cancellata!

  Solo una fila di arbusti sbilenchi dalle grosse bacche violette, che bastavano di per sé a rivelare la lontananza dell'Europa. E la terra era rossa! Un centinaio di metri più avanti, in piena campagna, si allineavano delle montagnette rettangolari, senza niente sopra: il cimitero indigeno! Al centro dello scenario, un enorme baobab.

  Alcune persone, che non avevano seguito il convoglio funebre - tra cui il governatore e l'amministratore territoriale -, erano venute in macchina e nell'attesa fumavano una sigaretta. Fecero un inchino ad Adèle.

  Dovettero fare in fretta, perché non c'era un filo d'ombra. I rumori della nave che stava caricando accompagnarono l'intera cerimonia. Il pastore era a disagio.

  Da vivo, Eugène Renaud era stato più che altro cattolico. Ma siccome il curato di Libreville era partito due giorni prima per un giro nell'entro terra, il pastore anglicano si era visto costretto a officiare al suo posto.

  Quattro negri lasciarono scivolare la bara in una fossa troppo poco profonda e vi ammonticchiarono sopra la terra, aiutandosi con le zappe.

  Il pensiero che anche lui, un giorno, avrebbe potuto essere sepolto allo stesso modo rendeva più angosciosa la distanza che separava Timar dalla Rochelle.

  Quello non era un cimitero! Quello non era un funerale! E lui non era a casa sua!

  Aveva sonno, aveva mal di stomaco. Quel calore, che gli si infiltrava sotto il casco e gli stringeva la nuca in una morsa infuocata, gli faceva paura.

  Si avviarono tutti, alla rinfusa, verso la città. Timar cercò di tenersi in disparte, ma accanto a lui si profilò una sagoma, la sagoma allampanata di Maritain, che mormorò con tono impacciato: "Dormito bene? A proposito, anche lei è stato convocato? Sembra che il governatore voglia assistere agli interrogatori".

  Timar quasi non vide il mercato, ma riconobbe la stradina del commissariato. La camicia gli si era appiccicata alle ascelle. Aveva sete.

  Non c'era sala d'attesa e avevano rimediato portando delle sedie sotto la tettoia della veranda. Ma il riverbero era così forte che nessuno si arrischiava a togliersi il casco.

  I piantoni negri se ne stavano seduti sui gradini di legno. La porta dell'ufficio era aperta, il governatore e il procuratore della Repubblica erano già dentro. In un altro ufficio, si udiva ticchettare la macchina per scrivere e, ogni volta che smetteva, arrivavano stralci di conversazione.

  Adèle era stata fatta passare per prima. I commercianti di legname si erano scambiati qualche occhiata, soprattutto quando avevano riconosciuto la voce deferente del governatore che si profondeva in convenevoli.

  "... tristi circostanze... ci scusi... urgenza di chiarire... penosa vicenda...".

  Il tutto durò non più di cinque minuti. Poi giunse un rumore di sedie smosse e apparve Adèle, serena, che scese i gradini e si diresse verso l'albergo. Da dentro l'ufficio il commissario gridò: "Il prossimo!".

  Entrò Bouilloux, dopo aver fatto una smorfia alla volta dei compagni. La macchina per scrivere era in funzione e non si sentiva altro. Il commerciante di legname uscì alzando le spalle.

  "Il prossimo!".

  Timar, seduto all'estremità della fila, non osava chiedere un bicchier d'acqua al piantone.

  "Adèle è stata l'amante del governatore!" gli bisbigliò Maritain all'orecchio. "E questo complica la faccenda!".

  Timar non rispose, limitandosi a scalare di un posto quando il vicedirettore della banca entrò a sua volta nell'ufficio.

  "... è sicuro che non sia uscito nessuno dalla sala fra mezzanotte e le quattro?... La ringrazio...".

  Il commissario avanzò fino alla porta, dietro Maritain. Lanciò un'occhiata verso la veranda e notò Timar.

  "Ah, è qui anche lei? Entri pure!".

  La sua testa rotonda era lucida di sudore. Timar lo seguì nella stanza dove, per via del contrasto con la luce di fuori, vide solo delle ombre nell'ombra. Una era seduta, a gambe larghe, accanto a un tavolino colmo di bicchieri.

  "Signor governatore, le presento il signor Timar, di cui le ho parlato poc'anzi".

  Il governatore gli tese una mano umida.

  "Molto lieto! Si accomodi... Pensi che anche mia moglie è di Cognac e conosce benissimo suo zio...".

  Poi, girandosi verso un terzo personaggio: "Il signor Joseph Timar, un giovanotto di ottima famiglia... Il signor Pellet, il nostro procuratore... Ha un altro bicchiere, commissario?...".

  Bisognava abituarsi alla penombra, che le stecche delle persiane striavano di luce. Il commissario servì lo whisky e armeggiò con un sifone.

  "Che cosa l'ha spinta a venire in Gabon?".

  Il governatore aveva una sessantina d'anni. Era massiccio, sanguigno. I capelli bianchi, che spiccavano sulla pelle segnata dalla couperose, gli davano un aspetto distinto. Aveva l'aria di un buon diavolo, come spesso lo sono gli uomini di una certa età che esercitano un potere di poco conto, e tengono sì al loro ruolo, ma ancor più ai piaceri della tavola e della bottiglia.

  "... La Sacova, poi! Ma lo sa, lei, che se non avessimo chiuso un occhio sulle multe in cui è incorsa, a quest'ora la società sarebbe già fallita?".

  "Non ne avevo idea. Mio zio...".

  "Alla fine, si è deciso a presentarsi alle elezioni per il senato?".

  "Penso di sì".

  "Alla sua! Deve essersi fatto una bella opinione di Libreville! A volte passano due anni senza un incidente, e poi gli scandali scoppiano uno dietro l'altro.

  Sembra che, proprio stanotte, alcuni energumeni abbiano abbandonato delle donne nella foresta, il che non facilita il mio compito in un momento in cui i negri sono furibondi per l'assassinio di Thomas".

  Il procuratore era molto più giovane. Timar l'aveva già visto, il giorno della festa in albergo, mentre beveva con gli inglesi.

  "Ha qualche domanda da fargli, commissario?".

  "Niente di speciale. Mi ero già permesso di convocarlo, ed è così che abbiamo fatto conoscenza. A proposito, signor Timar, se continuerà ad alloggiare all'albergo, le raccomando di essere prudente. Dall'inchiesta sono emersi certi particolari...".

  Esitava a parlare, ma il governatore proseguì con bonarietà, ritenendo che Timar potesse ascoltare tutto: "È chiaro che è stata quella donna a uccidere Thomas! Abbiamo una prova quasi schiacciante. È stato ritrovato il bossolo, che è dello stesso calibro della rivoltella appartenente ai Renaud".

  Tese il suo portasigari a Timar.

  "Fuma? È molto increscioso che sia lei la colpevole, ma non possiamo farci niente, e questa volta bisogna dare un esempio. Capisce? La teniamo d'occhio.

  Controlliamo i suoi spostamenti. Alla prima imprudenza...".

  "Mi chiedo" mormorò il procuratore, che non aveva ancora aperto bocca" cos'abbia potuto combinarle questo boy! Adèle Renaud non è una donna che perda facilmente la testa.

  Sa quello che fa!".

  Timar avrebbe preferito essere interrogato come gli altri: con distacco, in piedi davanti alla scrivania.

  Perché tutti si ostinavano a guardarlo con curiosità e a escluderlo dalla vita locale? Perfino le autorità che tuttavia, in quella occasione, lo ammettevano nella loro cerchia e a parte dei loro segreti!

  "Lei non ne sa nulla, vero? I commercianti di legname non si sbottonano! Non ce n'è uno che parlerà, ed è naturale. Probabilmente, in un altro momento, sarebbe stato possibile metterci una pietra sopra. Non ha visto uscire nessuno nel corso della serata?".

  "Nessuno".

  "Deve venire a cena da noi, uno di questi giorni. Mia moglie sarà felice di conoscerla. Si ricordi anche che abbiamo un circolo - un circolo piuttosto modesto, beninteso - proprio di fronte al molo. Meglio di niente. Quando vuole fare un bridge...".

  Il governatore si alzò, mettendo fine alla conversazione con la disinvoltura di un uomo abituato alle udienze ufficiali.

  "Arrivederci, mio caro. Se avesse bisogno di me, per qualunque cosa, non si faccia scrupoli".

  Timar salutò goffamente, con eccessiva cerimoniosità. Fuori, quando rivide il mare, piatto come uno stagno, gli tornò in mente un'immagine che l'aveva ossessionato al mattino: la cartina della Francia, di una Francia minuscola, in riva all'oceano, una cartina a lui familiare, con i fiumi, i dipartimenti di cui conosceva i confini a memoria, le città. Il governatore era di Le Havre, la moglie di Cognac. Un commerciante di legname veniva da Limoges, un altro da Poitiers, e Bouilloux era nato nel Morvan.

  Erano tutti vicini. Timar, dalla Rochelle, avrebbe potuto andarli a trovare in poche ore. Ed erano riuniti lì, un pugno di persone su una piccola striscia di terra dissodata al limite della foresta equatoriale. C'era un andirivieni di imbarcazioni, piccole imbarcazioni come quelle del mattino, mosche dagli ingranaggi ronzanti! Lassù, a dominare Libreville, il cimitero, il finto cimitero!

  Timar passò davanti alla Sacova, intravide il direttore in fondo, dietro il bancone assediato dalle negre, e si salutarono con un pigro cenno della mano.

  E allora, insieme all'angoscia della lontananza, provò quella dell'inutilità.

  L'inutilità di essere lì! L'inutilità di lottare contro il sole che lo penetrava da tutti i pori! L'inutilità di quel chinino che gli rivoltava lo stomaco e che doveva ingoiare ogni sera! L'inutilità di vivere e di morire per essere sepolto in un finto cimitero da quattro negri seminudi!

  "Che cosa l'ha spinta a venire qui?" aveva chiesto il governatore.

  E lui? E tutti gli altri? E quell'impiegato della Sacova che laggiù, nel folto della foresta, minacciava di ammazzare a colpi di fucile chiunque si provasse a prendergli il posto?

  Era agosto. Alla Rochelle, vicino all'ingresso del porto, nella spiaggia orlata di tamarindi, ragazzi e ragazze se ne stavano distesi sulla sabbia.

  "Timar? È partito per il Gabon".

  "Beato lui! Che bel viaggio!".

  Ecco che cosa dovevano dirsi. Mentre lui si trascinava, con le gambe molli, in un paesaggio color piombo. Fu sfiorato dall'idea di tornare, ma la respinse infastidito.

  Era sì il nipote di Gaston Timar, consigliere generale e futuro senatore, ma aveva sorvolato sul fatto che suo padre era impiegato al municipio, che lui era stato costretto a lasciare l'università per problemi economici e che, sempre a causa dei soldi, gli capitava di non poter andare al caffè o al casinò con gli amici.

  La lancia che doveva portarlo al suo posto di lavoro, nell'interno, era ancora in secca sulla sabbia, in mezzo alle piroghe indigene. Nessuno vi lavorava, nessuno si preoccupava di ripararla.

  D'un tratto, con una risolutezza che lo lasciò sbalordito, prese una decisione e la mise in atto, restando senza fiato per la propria audacia. Di fronte al mare c'era un'autorimessa dove riparavano macchine e barche. Entrò: un bianco tentava di mettere in moto una vecchia automobile facendola spingere da alcuni negri.

  "Potrebbe riparare quella lancia laggiù?".

  "Per conto di chi? Della Sacova?".

  E con un gesto della mano l'uomo lasciò intendere che non c'era niente da fare.

  "No, scusi! Per conto mio e basta!".

  "Allora è diverso! Lo sa che le verrà a costare un migliaio di franchi, vero?".

  Timar si sentiva spinto da una forza oscura, da un bisogno d'azione, di eroismo.

  Aprì il portafogli.

  "Ecco mille franchi di anticipo. Ma è urgente!".

  "Ci vorranno tre giorni. Beve qualcosa?".

  "Grazie, no".

  Il dado era tratto! Nel giro di tre giorni la lancia sarebbe stata riparata e Timar sarebbe partito alla conquista del suo posto, perché di una vera e propria conquista si trattava.

  Spinse la porta dell'albergo con un movimento secco, deciso. La sala era vuota, immersa nella consueta penombra delle case africane. I tavoli erano già apparecchiati per il pranzo, ma Adèle era sola al bancone.

  Prima ancora di sedersi, Timar annunciò, senza guardarla: "Parto fra tre giorni!".

  "Ah! Va in Europa?".

  "Nella foresta!".

  Quella parola, per lui tanto piacevole da pronunciare, ebbe su Adèle il solo effetto di riportarle sulle labbra il solito sorriso ambiguo. Timar, offeso, andò a sedersi in un angolo, fingendo di scorrere dei giornali che aveva già letto due volte. Lei non gli badava. Andava e veniva, dava ordini in cucina, sistemava le bottiglie, controllava il registro di cassa.

  Timar si infuriò, sentì il bisogno di scuoterla dalla sua impassibilità. Non appena cominciò a parlare, capì che stava commettendo un errore, ma ormai era troppo tardi.

  "Lo sa che hanno ritrovato il bossolo?".

  "Ah!".

  "Il bossolo della pallottola che ha ucciso Thomas!".

  "Ho capito!".

  "Tutto qui l'effetto che le fa?".

  Adèle gli dava le spalle e armeggiava con alcune bottiglie.

  "Che effetto vuole che mi faccia?".

  Si lanciavano quei botta e risposta attraverso la sala vuota, solcata da strisce di luce e d'ombra, nell'aria pesante di umidità. E ancora una volta Timar provò per Adèle un desiderio improvviso che lo umiliò.

  "Dovrebbe stare attenta".

  Non aveva intenzione di minacciarla. Tuttavia gli sarebbe piaciuto spaventarla un po'.

  "Emile!".

  Per tutta risposta, lei chiamò il boy, che accorse subito.

  "Sistema le caraffe di vino sui tavoli".

  Ormai, fra loro due, c'era il boy che circolava per la sala, spostando da un tavolo all'altro la macchia vivida del suo abito bianco.

  Arrivarono i commercianti di legname, poi Maritain, il praticante di un notaio e un commesso viaggiatore inglese. L'atmosfera era la stessa degli altri giorni, con in più qualche mormorio, qualche risolino soffocato, a causa di quel che era successo la notte precedente.

  Fra tutti, Timar era quello che aveva il viso più tirato, gli occhi più stanchi.

  La sera, lui restò fino all'ultimo nel suo angolino, fingendo di leggere. Il primo ad andarsene era stato Maritain. I commercianti di legname avevano giocato a carte con il praticante fino alle dieci, poi erano usciti rumorosamente. Il boy aveva sprangato le porte e le persiane, spegnendo una parte delle luci; per tutto quel tempo Timar non aveva rivolto la parola ad Adèle, non l'aveva neanche guardata.

  Il che non gli impediva di assaporare un'intensa sensazione di intimità, ora che porte e finestre si erano serrate su loro due.

  Adèle era al bancone e stava chiudendo a chiave i cassetti. Intuiva i suoi pensieri? Lo guardava? C'era stato qualche momento, nel corso della serata, in cui l'aveva osservato?

  Il boy annunciò: "Finito, signora!".

  "Bene! Và a letto".

  Adèle accese una candela, perché il motore che forniva l'elettricità stava per bloccarsi. Timar si alzò, esitante, e andò verso il bancone. Era ormai a pochi passi, quando lei lasciò il suo posto, con la candela in mano, oltrepassò la porta e si avviò su per le scale.

  "Viene?".

  Non doveva fare altro che seguirla. Adèle lo precedeva sui gradini e lui vedeva le gambe nude, il vestito che si allargava a corolla. Appena lei si fermò sul ballatoio, Timar balbettò: "In quale camera devo...".

  "Ma... nella vecchia...".

  Quella che aveva occupato nei primi giorni, quella in cui Adèle l'aveva raggiunto una mattina e da cui lo avevano esiliato solo per collocarvi la bara! Lei gli porse la candela. E

  Timar capì perfettamente che, non appena l'avesse presa, sarebbe finito tutto.

  Adèle sarebbe entrata nella propria camera, e a lui non restava che andare a letto. Perciò rimase lì impalato, goffo, indeciso, mentre lei continuava a fargli cenno di prendere la candela.

  "Adèle!".

  Non aveva idea di come proseguire. Non sapeva neanche quel che voleva. Aveva l'aria di un bambino che piagnucola senza motivo, o forse perché si sente infelice, infelice di tutto, ma di niente in particolare.

  Adèle era quasi invisibile nel buio. Eppure, quando fece due passi verso la camera di Timar e aprì la porta, sulle sue labbra aleggiò un sorriso fugace. Lo lasciò passare per primo, poi chiuse l'uscio alle loro spalle e posò la candela sulla toletta.

  "Che vuoi?".

  Forse era la luce a scolpire così il suo corpo sotto il vestito nero, che adesso assumeva dei riflessi rossastri.

  "Vorrei...".

  Come la sera precedente, Timar tese le mani verso Adèle, la toccò, senza osare attirarla a sé. Lei non lo respinse. Indietreggiò appena.

  "Lo vedi che non partirai fra tre giorni! Dai, mettiti a letto".

  Senza smettere di parlare, Adèle si spogliò. Scostò la zanzariera, rimboccò le lenzuola, sprimacciò i cuscini, mentre Timar, a torso nudo, esitava a svestirsi del tutto.

  Lei si distese per prima, come se avessero sempre dormito insieme in quel letto, e lo aspettò senza impazientirsi.

  "Spegni!".

  Si svegliò più calmo. Ancor prima di aprire gli occhi, seppe che il posto al suo fianco era vuoto. Tastò il letto con la mano e sorrise, l'orecchio teso ai rumori della casa. Il boy stava spazzando la sala. Adèle doveva essere dietro al bancone. Si alzò pigramente e il suo primo pensiero, guardando verso la finestra, fu: "Sta per piovere!".

  Come in Europa! Quasi quasi - proprio come in Europa - lo infastidì la prospettiva di prendere l'ombrello. Il cielo era basso, di un grigio scuro, uniforme. Tutto lasciava supporre che entro cinque minuti si sarebbe scatenato il diluvio, anche se l'aria si manteneva calda e afosa, nonostante l'assenza del sole. No, non avrebbe piovuto! Non avrebbe piovuto per almeno sei mesi! Timar era in Gabon! Questo pensiero lo fece sorridere, un sorriso rassegnato, finanche aggressivo, mentre si avvicinava al catino.

  Aveva trascorso una notte agitata. Più di una volta, nel dormiveglia, aveva scorto attraverso gli occhi semichiusi la sagoma lattea della donna coricata accanto a lui, stretta a lui, con la testa appoggiata su un braccio piegato.

  Chissà se Adèle aveva dormito. A due riprese si era preoccupata di fargli cambiare posizione perché, quando stava disteso sul fianco destro, respirava con difficoltà. L'ultima volta che lui aveva sollevato le palpebre era quasi giorno, e Adèle, in piedi vicino alla porta, si guardava attorno alla ricerca delle forcine che potevano esserle cadute.

  Timar si scrollò l'acqua di dosso, si asciugò e guardò nello specchio il suo viso tirato. C'era un piccolo problema che lo turbava, ma non voleva pensarci e, del resto, non aveva abbastanza esperienza di donne per risolverlo. Quella notte, gli era sembrato che Adèle si abbandonasse, certo, ma che si abbandonasse troppo, come se lo facesse per lui e non per se stessa.

  Era quasi certo che lei non avesse dormito, né chiuso gli occhi: doveva essere rimasta per tutta la notte accanto a lui, con la testa sul braccio piegato, a guardare dritto davanti a sé, nel buio. Ma che significava?

  Timar non voleva più preoccuparsi. Mentre si lavava aveva preso una decisione: lasciar fare al caso e accettare gli eventi come si presentavano.

  Scese le scale e constatò che a causa del cielo coperto faceva ancora più caldo.

  Dopo una decina di passi si ritrovò grondante di sudore. Spinse la porta del caffè. Adèle era lì, al bancone, con la punta di una matita fra le labbra. Non sapendo che fare, le tese la mano.

  "Buongiorno".

  Lei rispose con un battito di ciglia, inumidì la punta della matita e riprese i suoi conti.

  "Boy, la colazione del signor Timar!".

  La sorprese un paio di volte a osservarlo con aria pensosa, ma forse neppure se ne rendeva conto.

  "Stanca?".

  "No, non troppo".

  Adèle chiuse la cassa, riordinò le carte sparse sul bancone, fece il giro e andò a sedersi al tavolo dove Timar stava facendo colazione. Non si era mai comportata così! Prima di parlare lo guardò, ancora un po'"indecisa.

  "Lei è in buoni rapporti con suo zio?".

  Non avrebbe potuto dire niente di più sconcertante. Allora anche Adèle era interessata al famoso zio!

  "Sì, in ottimi rapporti. È mio padrino, e prima di partire sono andato a salutarlo".

  "Ma è di destra o di sinistra?".

  "Il suo è il partito detto dei "democratici popolari", o qualcosa di simile".

  "Suppongo lei sappia che la Sacova è in fallimento, o comunque lo sarà tra breve".

  Timar beveva il caffè, chiedendosi stupefatto se avesse davvero passato la notte con quella donna che ora rifletteva con tanta cura prima di formulare una frase.

  Ma, in fondo, era poi molto diversa dall'Adele che aveva tenuto fra le braccia?

  Era l'ora in cui nella casa si respirava l'atmosfera più intima, l'ora delle pulizie, delle minute incombenze domestiche. Da fuori arrivava il brusio del mercato indigeno, anche se si trovava a quattrocento metri di distanza, e c'era un viavai di donne, drappeggiate nei loro parei, che tenevano in equilibrio sulla testa una bottiglia o del cibo avvolto in una foglia di banano.

  Adèle era pallida. Di sicuro aveva sempre avuto quella pelle madreperlacea, liscia e compatta, che sembrava non conoscere l'aria aperta. Chissà se, quando era più giovane, aveva anche gli stessi occhi, segnati da minuscole rughe sulle palpebre.

  A sei anni Timar aveva vissuto un grande amore, e il ricordo lo turbava ancora. Si era innamorato della maestra, dato che all'epoca abitava in un paesino in cui maschi e femmine frequentavano la medesima classe fino alla licenza liceale.

  Pure l'insegnante vestiva di nero e aveva nell'aspetto quell'insieme di severità e di tenerezza, ma soprattutto quella calma tanto estranea al carattere di Timar.

  Adesso, per esempio, lui avrebbe voluto prendere la mano di Adèle, guardarla negli occhi, dirle delle cose banali, evocare a mezze parole i ricordi della notte. A vederla con la stessa espressione della maestra di scuola mentre correggeva i compiti, Timar si confondeva, arrossiva, ma la desiderava più che mai.

  "Insomma, lei rischia di tornare in Francia senza un soldo!".

  Era una frase che avrebbe potuto suonare sgradevole, odiosa, eppure Adèle riusciva - e Timar non capiva come - a renderla affettuosa. Lo avvolgeva in quella tenerezza tutta sua, che non si traduceva mai in gesti o parole.

  Il boy stava lustrando la barra d'ottone del banco. Adèle teneva gli occhi fissi sulla fronte di Timar, ma come se guardasse oltre, al di là di lui.

  "E invece ci sarebbe il modo per guadagnare un milione di franchi nel giro di tre anni".

  Anche questo, detto da un'altra, sarebbe stato intollerabile. Ora Adèle si era alzata e parlava in maniera ancora più secca, andando avanti e indietro per la sala. Il rumore dei tacchi alti sull'impiantito scandiva il ritmo delle frasi precise, intervallate da pause sempre uguali. Era una strana voce, quella di Adèle: si sarebbe potuto giudicarla volgare, ma aveva molta personalità e si armonizzava perfettamente - ora profonda, ora stridula come una musica da quattro soldi - con il suo sorriso.

  Che cosa gli stava dicendo? Il senso del suo discorso si mescolava ad altre impressioni: le negre che sfilavano per la strada, i polpacci nervosi del boy in calzoncini bianchi, gli ansiti di un motore diesel che qualcuno nei dintorni stava mettendo a punto.

  Vi si sovrapponevano, poi, le immagini evocate dalle parole: lei parlava di commercianti di legname e Timar subito vedeva la faccia di Bouilloux illuminata dalla lampada a petrolio nella capanna di Maria.

  "Non comprano il terreno, ma il governo da loro una concessione di tre anni".

  Chissà perché, guardandola, la rivedeva come al mattino, quando cercava le forcine mentre lui fingeva di dormire...

  Adèle scelse una bottiglia dal ripiano, posò due bicchieri sul tavolo e li riempì di calvados. Forse era normanna. Doveva essere la terza volta che la vedeva bere quella roba.

  "I primi coloni, invece, hanno ottenuto concessioni di trent'anni e più, e anche dei contratti enfiteutici".

  L'espressione gli risuonò a lungo nelle orecchie, mentre Adèle continuava a parlare, e cercò invano di capire che cosa gli ricordasse.

  "In linea di principio, alla morte dei coloni il fondo dovrebbe tornare allo Stato, ma...".

  Non indossava mai né calze, né biancheria intima. Raramente Timar aveva visto gambe così bianche, e vi teneva fisso lo sguardo perché sentiva che Adèle lo stava osservando come per farsi di lui un'opinione definitiva.

  Entrò un negro e posò del pesce sul bancone.

  "Va bene! Ti pagherò la prossima volta".

  Adèle bevve il calvados come se fosse una medicina, trattenendo una smorfia.

  "C'è un tale, un certo Truffaut, che sta qui da ventott'anni e ha rotto i ponti con la civiltà. Si è sposato con una donna nera, da cui ha avuto dieci o dodici figli, ed è furibondo perché ormai, con le lance a motore, la sua concessione è a solo una giornata da Libreville".

  I loro sguardi si incrociarono e Timar capì che si era accorta di come lui l'ascoltasse distrattamente; ma sul viso di lei passò appena un'ombra di disappunto. Adèle continuò a parlare senza scomporsi, come la maestra di un tempo, che proseguiva la lezione fino all'ultimo, anche se i bambini non l'ascoltavano più.

  Era tutto come allora: la stessa atmosfera, la stessa svagatezza, lo stesso desiderio di fare altro e la stessa rassegnazione. Timar si figurava Truffaut nelle vesti di un patriarca biblico, circondato dai figli di colore.

  "Con centomila franchi...".

  E lui si rivedeva mentre dava mille franchi, dei tremila che gli restavano, al meccanico che ormai doveva aver iniziato a riparare la lancia.

  "Il suo primogenito vorrebbe studiare in Europa".

  La mano di Adèle si posò su quella di Timar, quasi a chiedergli un momento, un momento solo di vera attenzione.

  "I soldi ce li metto io. E lei ci mette l'ascendente di suo zio. Appartiene allo stesso partito del ministro delle Colonie, otterrà di certo che si faccia un'eccezione e che...".

  Quando Timar tornò a guardarla, Adèle stava inumidendo la punta della matita - come poco prima, mentre era al bancone. Poi si mise a scrivere, sillabando via via le parole: SACOVA BRUTTA POSIZIONE. STOP. RISCHIO RESTARE SENZA IMPIEGO. STOP. TROVATA

  OPPORTUNITÀ CHE ASSICUREREBBE AVVENIRE BRILLANTE. STOP. NECESSARIO SUO VIAGGIO A

  PARIGI PER INCONTRARE MINISTRO COLONIE E OTTENERE AUTORIZZAZIONE SPECIALE PER

  CESSIONE A MIO NOME CONTRATTO ENFITEUTICO TRUFFAUT. STOP. MASSIMA URGENZA

  PERCHE NOTIZIA AFFARE POTREBBE DIFFONDERSI. STOP. TROVATI CAPITALI PER

  SFRUTTAMENTO FONDO E CONTO SU SUA ABITUALE BONTÀ PER OCCASIONE CHE MI DARÀ

  FORTUNA. STOP. LA BACIO.

  Le ultime parole lo fecero sorridere. Adèle non poteva sapere che nella sua famiglia non si usava baciarsi tra uomini, e meno che mai parlare allo zio in un tono tanto confidenziale.

  Del resto, mentre lei scriveva, Timar aveva preso coscienza della propria superiorità. Ed era lui, questa volta, a sorridere con una condiscendenza intenerita, perché la postura di Adèle, quel modo di inumidire la matita, di sillabare le parole con eccessiva diligenza rivelavano allo stesso tempo la sua scarsa istruzione e la sua classe sociale.

  "È più o meno così che avrebbe scritto?".

  "Più o meno, sì! C'è da cambiare solo qualche parola".

  "La cambi!".

  E si avviò verso il bancone, dove aveva qualcosa da fare. Quando tornò accanto a lui, Timar stava leggendo, incredulo, il telegramma rimaneggiato. In seguito, non avrebbe saputo dire in quale preciso momento aveva preso la decisione. Ma l'aveva poi presa veramente? In ogni caso, un po'"prima di mezzogiorno, il boy portò il telegramma all'ufficio postale, ed era stata Adèle, con assoluta naturalezza, a consegnargli il denaro necessario, prelevandolo dalla cassa.

  "Ora le do un consiglio: vada a far visita al governatore".

  Timar non era uscito per tutta la mattina. Colse al volo l'occasione, ma con l'idea di non andare affatto dal governatore. Si cambiò comunque la camicia, perché quella che indossava era zuppa di sudore.

  La città era più deprimente degli altri giorni, a causa di quella luce plumbea e del calore perfido, inspiegabile in assenza del sole. Timar notò che anche i negri del mercato avevano la pelle lucida e striata di sudore.

  Veniva spontaneo aspettarsi da un momento all'altro lo scoppio di un tuono. E invece no! Sarebbe durata ancora per giorni, per settimane, quella atmosfera snervante da temporale, senza temporale e senza acqua! E intanto nessuno osava togliersi il casco per asciugarsi la fronte.

  Timar stava già per superare la casa del governatore guardando altrove, quando il commissario lo chiamò dall'alto della scalinata.

  "Entra?".

  "Elei?".

  "Sto uscendo. Ma salga a prendere un whisky col governatore. Gli farà piacere, mi ha parlato molto di lei".

  Le cose andavano in fretta, troppo in fretta, nonostante l'aria pesante. Timar si ritrovò in un ampio salone, del tutto simile a quello di un prefetto della Rochelle, di Nantes o di Moulins. L'unica nota esotica erano due o tre pelli di leopardo, che contrastavano con le tappezzerie e i tappeti sfarzosi ma di qualità scadente.

  "Ah, è lei, giovanotto!".

  Venne chiamata la moglie del governatore, una donna sulla quarantina, non bella e priva di grazia. Una borghese avvezza a preparare il té e ad ascoltare le conversazioni degli uomini.

  "Dunque, lei è della Rochelle? Conoscerà di certo mio cognato, l'archivista dipartimentale".

  "Ah, è suo cognato?".

  Whisky. Il governatore seduto a gambe un po'"divaricate. Uno scambio di sguardi tra marito e moglie. Timar capì perché il governatore era felice di ricevere visite: gli piaceva bere, ma la donna lo teneva d'occhio. Perciò, quando aveva un ospite, continuava a versargli da bere per aver la scusa di servirsi anche lui.

  "Alla sua! Insomma, che pensa di fare? La Sacova è sempre più in crisi. Glielo dico in confidenza, ma...".

  Il colloquio durò un quarto d'ora, senza alcun accenno al negro ucciso, né all'inchiesta. Ancora una volta, prima di pranzo, Timar si sentiva la testa appesantita dall'alcol, ma era uno stato piacevole perché i pensieri fluttuavano, sorvolando sulle questioni spinose.

  In albergo lo guardarono con palese curiosità, probabilmente perché aveva preso l'aperitivo dal governatore. I commercianti di legname stavano parlando animatamente fra loro: "... Gli ho dato cento franchi e un calcio nel sedere. Se n'è andato tutto contento...".

  Poco dopo, Timar scoprì che si riferivano alla conclusione della notte nella foresta. Il marito di Maria aveva fatto delle storie, minacciando anche di rivolgersi al praticante di un avvocato per scrivere alla Società delle Nazioni.

  Cento franchi e un calcio nel sedere! Gli uomini contribuirono con venti franchi a testa, tutti tranne Timar, a cui non ebbero il coraggio di chiedere nulla.

  Fece la siesta fino alle cinque, poi scese, con lo stomaco in subbuglio, e si rimise in sesto con due bicchieri di whisky.

  "Ha detto qualcosa il governatore?".

  "Niente di interessante".

  "Ho mandato un negro ad avvertire il vecchio Truffaut che lo aspettiamo per le trattative".

  "Ma ancora non sappiamo...".

  "Nulla ci impedisce di farlo tornare indietro, se l'affare non va in porto".

  Timar la guardò sbigottito. Eppure era una donna, una vera donna, dalle carni morbide, le forme sinuose, il corpo vellutato.

  Un po'"prima dell'ora di cena andò sulla riva e vide che la riparazione della lancia era già a buon punto.

  "Entro due giorni potrà partire" gli disse il meccanico.

  Il crepuscolo era di un colore livido, il mare e il cielo di un verde velenoso.

  Si accesero le lampade. Cena. Biliardo e partita a carte dei commercianti di legname con l'aspirante notaio, che aveva una pancia enorme.

  Maritain chiese a Timar: "Gioca a scacchi?".

  "Sì... No... Non oggi...".

  "Sta poco bene?".

  "Non lo so".

  In realtà, era a disagio dappertutto, non sapeva dove mettersi. Si sentiva fuori posto ovunque e si chiedeva come comportarsi più tardi con Adele.

  Sarebbero entrati con disinvoltura nella stessa camera e avrebbero dormito nello stesso letto? In tal caso la situazione avrebbe preso una piega di normalità acquisita, e Timar ne era sconvolto, soprattutto al pensiero che appena quattro giorni prima Eugène, il marito, aveva occupato quel medesimo letto.

  Eppure stava male quando non vedeva Adèle o quando un cliente la chiamava per nome.

  Oltretutto, provava il bisogno di una spiegazione a proposito di Thomas, ma era una spiegazione che non osava e forse non avrebbe mai osato chiederle. Era stata lei a uccidere il negro? Timar ne era quasi sicuro, ma non riusciva a indignarsi. Avrebbe solo voluto sapere come e perché, e anche il motivo della sua calma.

  Il caffè, illuminato da quattro lampade elettriche, con il rumore del biliardo e le voci dei giocatori di carte, somigliava a un qualunque caffè di provincia.

  Timar vuotò altri due bicchieri e poi, approfittando di un momento in cui Adèle era occupata a versare da bere, si avviò su per le scale: "Vado a letto. Buonanotte!".

  Lei sollevò la testa. E Timar poté solo intravedere il suo terribile sorriso, quel misto di ironia e tenerezza. Si burlava di lui. Sapeva perfettamente che stava fuggendo, e anche perché lo faceva! Ma non se ne dava pensiero.

  Al contrario di quanto si aspettava, dormì profondamente e, quando si svegliò, era già l'alba. Adèle era in piedi, con il vestito nero, vicino al letto.

  "Si sente meglio?".

  "Ma...".

  Come faceva a sapere che era stato male? Lei si sedette sul bordo, allo stesso modo in cui si era seduta la prima volta che era entrata, quando Eugène e Thomas erano ancora vivi. Timar lasciò vagare la mano sulla seta del vestito e, a poco a poco, attirò Adèle fra le sue braccia. Fu una stretta veloce, soprattutto per la sensazione che gli dava quella pelle nuda e fredda - lei era appena uscita dalla doccia -sotto la stoffa morbida.

  "Devo andare".

  Timar, invece, scese solo due ore dopo. Se l'era presa comoda, si era divertito a sistemare alcune piccole cianfrusaglie che sua madre e sua sorella gli avevano messo in valigia, oggetti strampalati e inutili, come un ditale per cucire e una serie di rocchetti di filo di vari colori.

  "Laggiù dovrai aggiustarti i vestiti da solo!".

  C'era anche un assortimento di bottoni. Le due donne dovevano aver fatto il giro delle mercerie della Rochelle, e a Timar pareva di sentirle: "È per mio figlio, che parte la settimana prossima per il Gabon. Lì non ci saranno donne che...".

  Fece colazione scambiando solo qualche parola con Adèle, e annunciò che sarebbe passato dal commissario.

  "Buona idea!" commentò lei.

  Vi andò, in effetti, e gli fu servito il solito bicchiere di whisky.

  "Niente di nuovo, in albergo? Nessuno si chiede come mai l'inchiesta sembri sospesa?".

  "Io non ho sentito nulla di particolare".

  "Il padre di Thomas è venuto dalla savana. È sobillato da un indigeno che per due anni ha lavorato come praticante nello studio di un avvocato e che vorrebbe andare fino in fondo, reclamando non so quanti soldi a titolo di risarcimento danni. A proposito, la padrona non si è ancora fatta un amante?".

  "Non lo so".

  "Ma certo! Lei potrebbe vivere qui per vent'anni senza neanche vagamente sospettare tutte le porcherie che succedono!".

  Pranzo. Siesta abbrutente. Aperitivo. Cena. E ancora una volta Timar andò a letto prima della chiusura del caffè. Non riuscì a dormire. Sentì tutte le conversazioni, il rumore delle palle da biliardo, il tintinnio delle monete sul bancone, il boy che chiudeva le persiane e le porte. Infine, Adèle che saliva.

  Ebbe la tentazione di alzarsi, ma non trovò il coraggio e passò altre due ore buone cercando di prender sonno fra le lenzuola umide.

  Alle dieci del mattino dormiva ancora, quando la porta si aprì bruscamente.

  Entrò Adèle, tutta eccitata, tendendo un foglio con la destra.

  "La risposta di tuo zio! Leggi, presto!".

  Timar dissigillò il telegramma senza rendersi ben conto di quel che faceva. Il testo era stato dettato da Parigi.

  CONCESSIONE TRUFFAUT ACCORDATA FACILMENTE. STOP. TI RACCOMANDO ESTREMA PRUDENZA

  RIGUARDO ASSOCIAZIONE E ORIGINE CAPITALI. STOP. PREGO

  CHIEDERE CONSIGLIO NOTAIO LIBREVILLE E NON FIRMARE NIENTE IN SUA ASSENZA. STOP.

  MI ASSOCIO DI TUTTO CUORE EVENTUALE SUCCESSO. STOP. GASTON TIMAR.

  Timar non sapeva se essere contento, furibondo o preoccupato. Ma prese atto che qualcosa era cambiato. Fino a quel momento Adèle lo aveva trattato con una certa condiscendenza. Ora, invece, lo guardava con ammirazione. Era emozionata, e finalmente lo dava a vedere. Covava Timar con gli occhi e all'improvviso lo baciò su tutt'e due le guance.

  "Non c'è che dire, sei davvero qualcuno!".

  E, porgendogli i vestiti, proseguì con loquacità: "Di sotto c'è il vecchio Truffaut. La sua richiesta si aggira intorno ai centomila, con una o due casse di whisky per soprammercato. Tò! Sei stato punto di nuovo".

  Posò il dito sul petto di Timar, un po'"sopra il capezzolo destro, come aveva già fatto una volta.

  "Hai una pelle da donna! Vado a telefonare al notaio per fissare un appuntamento".

  Uscì. Era la prima volta che si mostrava così elettrizzata. Timar si alzò con lo sguardo cupo, fisso davanti a sé. Da giù arrivò un tintinnio di bicchieri: di sicuro, Adèle stava offrendo da bere al vecchio Truffaut per renderlo più malleabile.

  "... estrema prudenza... origine capitali...".

  Nel farsi la barba si tagliò, cercò inutilmente la sua pietra di allume e scese con la guancia striata di sangue. Si aspettava di trovare dabbasso un uomo della foresta, sporco e irsuto. Quello che si alzò per salutarlo era invece un vecchietto canuto, tutto lindo e pinto, con pantaloni e giacca inamidati.

  "Mi dicono che lei è...".

  Forse Timar si era agitato troppo, forse era per via di quel filo di sangue che gli scendeva a zigzag fino al mento, o magari dipendeva dal riverbero che quel giorno era più forte del solito. Fatto sta che si sentì invadere dallo stesso malessere già provato in due o tre occasioni da quando era a Libreville, fra l'altro una mattina a mezzogiorno sulla strada rossa: la sgradevole sensazione che il casco gli stringesse troppo il capo, unita all'impellenza di trovare un riparo dal sole, altrimenti sarebbe crollato a terra. La vista gli si era offuscata. Gli oggetti tremavano un po', ma appena appena, come se li guardasse attraverso gli sbuffi di vapore di una pentola.

  Era in piedi, di fronte al vecchietto che aspettava un cenno per rimettersi a sedere, mentre Adèle, appoggiata al bancone, li osservava entrambi con una soddisfazione quasi animalesca. Il boy, in equilibrio su una sedia, stava caricando l'orologio.

  Timar si sedette passandosi una mano sulla fronte e appoggiò i gomiti sul tavolo.

  "Adèle, un whisky!".

  E questo lo colpì, perché era la prima volta che la chiamava così nella sala del caffè, a voce alta e con lo stesso tono, la stessa naturalezza dei commercianti di legname o del praticante notaio.

  "Contento?" gli chiese Adèle guardandolo negli occhi, con il mento appoggiato sulle mani incrociate.

  "Contento!" ripeté lui, vuotando una coppa di champagne.

  "A quest'ora saremo già arrivati".

  Scandiva lentamente le sillabe, scrutandolo, e Timar ebbe la sgradevole impressione di essere sottoposto a un esame.

  "Ed è colpa mia se non siamo ancora là?" replicò rabbiosamente.

  "Ti prego, Jo, non ho detto questo".

  Stava diventando di una suscettibilità morbosa. Era depresso. Per accorgersene bastava guardare i suoi lineamenti tirati, gli occhi febbricitanti, di una mobilità anormale.

  "Tutto bene, ragazzi?" venne a chiedere il padrone, che quella sera aveva indossato un completo bianco da cuoco.

  Ormai, infatti, il padrone del Central era Bouilloux, già commerciante di legname e bottinaio a Libreville. L'affare era stato concluso in fretta, tra le risate, una delle prime sere in cui si era sparsa la voce che Adèle e Timar avevano ottenuto una nuova concessione nella foresta. La partita a carte languiva, Adèle era immersa nei suoi conti e Bouilloux, senza neanche interrompere il gioco, aveva buttato lì: "Dì un po', chi rileverà la baracca, adesso?".

  "Non me ne sono ancora occupata".

  "Il prezzo è alto?".

  "Di certo non sei abbastanza ricco da potertela permettere".

  Scherzavano. Bouilloux si era avvicinato al bancone.

  "Magari riusciamo a metterci d'accordo. Non ho mai gestito un caffè, ma potrebbe essere un'idea!".

  "Ne riparliamo domattina".

  E l'indomani l'affare fu concluso. Bouilloux doveva versare cinquantamila franchi in contanti e, per il resto, avrebbe firmato delle cambiali.

  Erano passate tre settimane da allora, ma quella era la prima sera che Bouilloux prendeva pieno possesso del locale. In tenuta da cuoco, offriva champagne ai clienti abituali. Era anche la prima volta, dalla morte di Eugène Renaud, che veniva messo in funzione il grammofono, e ai soliti avventori si erano uniti alcuni abitanti di Libreville.

  Timar e Adèle, seduti a un tavolino l'uno di fronte all'altro, parlavano poco.

  Lei scrutava insistentemente il compagno, e la sottile ruga che le attraversava la fronte rivelava una certa inquietudine.

  Lui non era malato, ma solo un po'"stanco, perché aveva trascorso un mese strano, fitto di avvenimenti che si erano succeduti a un ritmo così rapido e sconcertante che lui non si era reso conto della loro importanza.

  Neanche il tempo di arrivare a Libreville, e si era ritrovato seduto in uno studio notarile, con Adèle piazzata a fianco del notaio per leggere insieme a lui e indicargli col dito le cancellature e le modifiche da apportare. La concessione era a nome di Timar, ma era stata stipulata una società fra lui e la vedova Renaud, che metteva nell'affare duecentomila franchi, centomila per la concessione e gli altri centomila per lo sfruttamento. Era tutto previsto, tutto in regola. E il giovane, non avendo obiezioni da fare, aveva firmato i documenti che gli porgevano a uno a uno.

  In seguito erano accaduti molti altri eventi minori, ma - cosa ben più importante - si era instaurata una routine di cui Timar non poteva più fare a meno. Come, ad esempio, la passeggiata lungo la banchina rossa orlata di palme da cocco. Le sue soste fisse erano davanti al mercato, poi nel punto dove attraccavano le piroghe cariche di pesce, e infine sul molo, davanti alla casa del governatore.

  Con il caldo quella passeggiata era un vero e proprio tormento, eppure lui la portava a termine ogni giorno, come un dovere, e ogni giorno si chiedeva da chi sarebbe andato a bere un whisky. Alla fine, in genere, la scelta cadeva sul commissario di polizia. Si sedeva, dicendo: "Continui pure il suo lavoro!".

  "Ho finito. Novità? Un whisky?".

  Se ne stavano per un po'"a chiacchierare nell'ombra tiepida dell'ufficio. La cosa andò avanti finché la popolazione di Libreville non apprese la storia della concessione e della società fra Timar e Adèle. Di colpo, il commissario era diventato un'altra persona. Era seccato, e non faceva niente per nasconderlo.

  Fumava la pipa a piccole boccate, fissando le strisce d'ombra e di luce.

  "Lo sa che l'inchiesta non è ancora chiusa e che non abbiamo cambiato opinione sulla vicenda? Le dirò la verità: non troviamo la rivoltella, Adèle l'ha nascosta! Ma non è escluso che un giorno o l'altro...".

  Il commissario si alzava in piedi e camminava avanti e indietro per la stanza.

  "Temo che abbia commesso un'imprudenza. Un ragazzo come lei, con un brillante avvenire...".

  Timar reagiva sempre allo stesso modo. Abbozzava un sorriso condiscendente, ironico, si alzava e prendeva il casco.

  "Lasciamo perdere, d'accordo?".

  E si allontanava, tutto impettito, controllando l'andatura fintantoché pensava di essere in vista del suo interlocutore, per darsi l'aria di chi sa quello che fa.

  Dal momento che era passato dall'altro lato della barricata, la decisione più logica sarebbe stata quella di non frequentare più i tre personaggi che rappresentavano il clan nemico: il governatore, il commissario e il procuratore.

  Al contrario, Timar era andato a far visita a tutti e tre, spinto da un oscuro istinto, da un bisogno di esibizione o da una speranza.

  Col procuratore era stato abbastanza semplice. Il suo ospite gli aveva offerto tre bicchieri di whisky uno dietro l'altro e gli aveva dato una pacca sulla spalla.

  "Lei, caro mio, sta rischiando di rovinarsi la reputazione. La cosa non mi riguarda. Ma cerchi di fermarsi in tempo. Adèle è una bella figliola. A letto c'è tutto da guadagnarci! Ma dopo basta, chiuso! Capito?".

  E Timar si era ritrovato sulla scalinata, ostentando la solita sicurezza di circostanza.

  Dal governatore, invece, aveva ricevuto un brutto colpo. Il boy era entrato ad annunciarlo nell'ufficio che Timar conosceva bene, e mentre aspettava in anticamera aveva sentito il governatore che, senza curarsi di abbassare la voce, diceva: "Riferisci a quel signore che sono molto occupato e che non so quando potrò riceverlo".

  Gli si erano imporporate le orecchie, ma non aveva battuto ciglio. Si stava abituando, anche quando nessuno poteva vederlo, a sfoggiare il suo sorriso di degnazione.

  Aveva percorso la banchina in senso inverso, e aveva ritrovato l'albergo immerso nell'ombra, Adèle alla cassa, i commensali fissi. Continuava a comportarsi da cliente, pranzava con gli altri e in sala non faceva mai mostra d'intimità con la padrona. Come Bouilloux o il guercio, gridava: "Adèle! Un pernod!".

  Aveva imparato a bere pernod. E aveva acquisito anche altre abitudini, che erano entrate a far parte di un suo rituale. A mezzogiorno, per esempio, prima di sedersi a tavola, faceva al bar una partita a zanzi per giocarsi a dadi il giro di pernod. La sera, subito dopo cena, gli appassionati di carte organizzavano due tavoli di belote, e Timar restava sino alla fine. Di tanto in tanto, lui o un altro gridavano: "Adèle! Un altro giro!".

  Si stava perfino adeguando al modo di parlare degli altri! A volte i presenti si scambiavano un'occhiata, come a dire: "Fa progressi!".

  Certe sere, però, Timar provava disgusto a vedersi là, con le carte in mano per ore, avvolto in un tepore che lo abbrutiva e con il sangue greve di alcol. In quei momenti diventava di umore ombroso e bastava una parola, uno sguardo, a fargli saltare la mosca al naso.

  Insomma, non apparteneva più all'altro clan, non aveva più niente a che fare con funzionari e gente perbene; d'altronde, non sarebbe mai stato, neanche dopo vent'anni di quella vita, come i commercianti di legname, o il praticante panciuto che, quando giocava a carte, usava un vocabolario tutto suo, sconosciuto a Timar.

  Poi arrivava l'ora di chiudere le porte e le imposte. Adèle saliva per prima, con la candela in mano, e il motore che forniva l'elettricità smetteva di girare. Sul pianerottolo, c'era sempre un momento di esitazione: lei si voltava a guardare il compagno, e certe sere Timar diceva: "Buonanotte!".

  Allora Adèle rispondeva allo stesso modo, gli porgeva la candela ed entrava nella propria camera, senza un bacio, senza una stretta di mano. Altre volte lui mormorava: "Vieni!".

  Muoveva appena le labbra, ma Adèle capiva e, con la massima naturalezza, entrava nella camera di Timar, posava la candela sulla toletta, scostava la zanzariera, tirava le lenzuola e si metteva a letto, aspettandolo.

  "Sei stanco?".

  "No, perché?".

  Non voleva essere stanco! In realtà, si reggeva in piedi a stento, benché non lavorasse e non facesse sforzi. La sua era una spossatezza dovuta forse a un indebolimento del sangue, e gli dava per lo più la sensazione di avere la testa vuota e un'angoscia indefinita, che a volte lo faceva tremare come se si trovasse in pericolo.

  Si gettava su Adèle con una foga tanto più rabbiosa quanto più si sentiva privo di energie. E mentre la abbracciava, gli veniva in mente una quantità di domande che rimanevano senza risposta. Adèle lo amava? Ma che razza d'amore poteva provare per lui? Lo tradiva? Lo avrebbe tradito, un giorno? Perché aveva ucciso Thomas? Perché...

  Non le chiedeva niente. Gliene mancava il coraggio. Aveva paura delle risposte.

  Proprio perché teneva a lei! Quando vagava da solo lungo la banchina, gli bastava pensare al suo corpo nudo sotto il vestito per guardare con ostilità gli altri uomini.

  Quello che lo turbava di più era il suo sguardo. Da qualche tempo Adèle lo osservava a lungo, lo osservava troppo! Anche nell'oscurità della camera, mentre la stringeva fra le braccia, sentiva lo sguardo di lei puntato sulla macchia biancastra della propria faccia. Lo osservava durante i pasti, mentre se ne stava al bancone. Lo osservava pure mentre giocava a belote o a zanzi. Ed era uno sguardo che giudicava - con indulgenza, forse, ma che giudicava.

  Cosa pensava di lui? Ecco, questo avrebbe voluto sapere!

  "Non dovresti bere pernod. Ti fa male".

  E lui lo beveva lo stesso! Proprio perché sapeva che aveva ragione lei!

  Per completare le formalità, avevano dovuto aspettare alcuni documenti ufficiali da Parigi. Erano arrivati con la nave cinque giorni prima, ma Timar si era rifiutato di andare al molo. Dalla finestra della sua camera aveva intravisto il piroscafo francese ancorato nella rada e aveva seguito con gli occhi la scialuppa che si avviava verso la costa.

  "Dato che l'albergo è già venduto, nulla ci impedisce di partire anche domani stesso" gli aveva detto Adèle. "Per raggiungere la concessione ci vuole solo una giornata di lancia".

  Ma non erano partiti quel giorno, né il successivo, perché Timar lo faceva apposta a rimandare, trovava pretesti, rallentava i preparativi.

  Adesso era furibondo, perché si sentiva addosso lo sguardo di Adèle e sapeva perfettamente quel che lei stava pensando. Che aveva paura e, giunti al momento di lasciare Libreville, era in preda a un panico irragionevole e si attaccava alle piccole abitudini che ormai facevano parte della sua vita.

  Era vero! Quel mondo, che all'inizio gli era stato ostile e che lui aveva odiato con tutto se stesso, d'un tratto gli appariva sotto un'altra luce. Ormai lo conosceva nei minimi particolari. Trovava commoventi certe cose da niente, come la scialba maschera di manifattura indigena appesa al centro di un muro grigio perla. La maschera era di un bianco vivido, il muro dipinto a tempera, e l'accostamento delle due tonalità risultava di rara delicatezza.

  Il bancone verniciato bastava da solo a dargli un'illusione di sicurezza, perché era identico a quello di un qualsiasi caffè di provincia francese, con le stesse bottiglie, le stesse marche di aperitivi e di liquori.

  E poi c'era la passeggiata mattutina, il giro del mercato, la sosta sulla spiaggia davanti ai pescatori che tiravano in secco le piroghe!

  Nel caffè, attorno al loro tavolo, l'intrecciarsi delle conversazioni faceva da sottofondo uniforme; di tanto in tanto qualcuno lanciava una battuta ad Adèle, e lei replicava senza scomporsi. Tuttavia, con i gomiti sul tavolo e il mento fra le mani, non smetteva un solo istante di guardare Timar, che si accendeva una sigaretta dietro l'altra e soffiava fuori il fumo con aria sprezzante.

  "Avrete già del legname per il cargo tedesco che caricherà il mese prossimo?".

  "Forse!" disse Adèle.

  E con la mano dissipò la nuvola di fumo che avvolgeva il viso di Timar.

  Bouilloux scherzava, accentuando l'aspetto grottesco che gli conferiva il cappello bianco, alto quaranta centimetri, sul quale aveva attaccato una coccarda tricolore.

  "Mi permette, gentile amica, di versarle un bicchiere di ambrosia? A conti fatti, quanto mi viene a costare questa ambrosia? Finché ero cliente, la pagavo ottanta franchi a bottiglia. Ma ora?".

  Risate. Bouilloux era eccitato e si lasciava andare a battute scurrili.

  "La signora dormirà qui, stanotte? Con questo giovanotto? Boy, dovrà accompagnare il principe e la principessa nella camera degli specchi!".

  Solo Timar non rideva. Eppure il suo malessere era più fisico che morale, come se gli avessero fatto respirare un'aria malsana. Aveva la fronte madida. Gli era già capitato di notare che sudava più degli altri, e se ne vergognava come di una tara. Spesso, a letto, Adèle si chinava su di lui per passargli un asciugamano sul petto.

  "Certo che hai proprio caldo!".

  Anche lei aveva caldo, ma non in quel modo eccessivo, e comunque la sua pelle restava asciutta.

  "Vedrai che prima o poi ti abitui a questo paese! Quando saremo laggiù...".

  "Laggiù" significava in mezzo alla foresta, ma non era la foresta a spaventarlo.

  Durante la sua permanenza a Libreville aveva imparato che le belve non attaccano l'uomo, soprattutto se è un bianco, che i serpenti uccidono meno gente dei fulmini e che i negri della savana, quelli dall'aria più selvaggia, sono anche i più docili.

  C'erano leopardi, elefanti, gorilla, gazzelle e coccodrilli. Ogni giorno, o quasi, qualche cacciatore tornava con delle pelli. Anche gli insetti, le mosche tsetsè che aveva visto in città, lo lasciavano ormai pressoché indifferente, a parte un piccolo sussulto del tutto istintivo.

  No! Non aveva paura. Solo che bisognava abbandonare Libreville, l'albergo, la camera e le sue strisce di luce e di ombra, la banchina di terra rossa, il mare orlato di palme da cocco, tutto ciò che detestava, insomma, compresi lo zanzi al pernod e la belote al calvados! Un insieme di cose che avevano finito col creargli attorno un ambiente familiare, in cui si muoveva senza sforzo, confidando nei propri riflessi.

  E questo gli tornava utile, perché era diventato pigro, di una pigrizia senza limiti! Si radeva solo due volte alla settimana, e gli capitava di starsene seduto per ore nella stessa poltrona a fissare il vuoto, senza pensare!

  Dalla Rochelle, città che amava, era partito allegramente; solo una piccola stretta al cuore quando il treno si era mosso sui binari e i suoi familiari avevano sventolato il fazzoletto. Ora, invece, non ce la faceva a staccarsi da Libreville! Ormai vi era invischiato. Neanche vedendo la nave ferma nella rada gli era venuto il desiderio di andarsene, il che non gli aveva poi impedito di essere giù di corda per due giorni.

  Tutto lo disgustava, a cominciare da se stesso, ma di questo disgusto, di questa fiacchezza non riusciva più a fare a meno. Ecco perché diventava cattivo quando si sentiva pesare addosso lo sguardo insistente di Adèle. Lei capiva! E quello che non capiva, lo intuiva!

  Ma allora perché lo amava, o faceva finta di amarlo?

  "Vado a letto!" disse, alzandosi.

  Guardò gli altri clienti abituali, ormai tutti ubriachi. Oggi non aveva bisogno di aspettare l'ora di chiusura: Adèle non era più la padrona. Toccava a Bouilloux spegnere il motore, sprangare porte e finestre e salire per ultimo, con la candela in mano!

  "Buonanotte, signori!".

  Adèle si alzò insieme a Timar, e questa fu la sua prima soddisfazione della serata, perché lei aveva compiuto quel gesto come se fosse la cosa più normale del mondo.

  "Arrivederci, amici miei!".

  "Potresti anche baciarci, però! Non ci vedremo, domani mattina, quando partirete".

  Adèle fece il giro dei presenti, porgendo la guancia. Il guercio, più eccitato degli altri, approfittò dei saluti per carezzarle il seno, ma lei finse di non accorgersene.

  "Vieni?" disse a Timar, avvicinandosi.

  Si avviarono su per le scale; dietro di loro, il caffè continuò a risuonare di voci. Adèle e Timar occupavano sempre la stessa camera, quella in cui lui aveva dormito per la prima volta in terra d'Africa.

  "Avevi proprio una brutta cera, stasera. Non ti senti bene?".

  "Io? Benissimo!".

  Si svolse tutto come gli altri giorni. Adèle aprì la zanzariera, rimboccò le lenzuola e sprimacciò i cuscini, dopo essersi accertata che nel letto non ci fossero scorpioni o serpentelli. Infine si tolse il vestito con i suoi soliti gesti.

  "Dovremo alzarci alle cinque, in modo da arrivare prima che faccia notte".

  Mentre disfaceva il nodo della cravatta, Timar si guardò allo specchio. Il vetro era di cattiva qualità, la candela emanava una luce fioca e l'immagine riflessa aveva un che di sinistro, soprattutto per via delle palpebre gonfie.

  Si ricordò di quando Eugène, due volte più forte di lui, aveva annunciato, nel bel mezzo della festa, con una voce appena velata, che stava per crepare di bilharziosi.

  Girandosi, vide Adèle seminuda, seduta sul bordo del letto per togliersi le scarpe.

  "E tu, non ti spogli?".

  Fu allora che lo colse il pensiero: "Eugène è morto, ma lei è qui!".

  Non ne trasse alcuna conclusione. Preferiva non approfondire. Aveva un po'"di paura, una paura superstiziosa: sarebbe andato laggiù con Adèle; sarebbe morto come Eugène; e lei, con un altro, forse in quella stessa camera...

  Si tolse gli abiti e si avviò verso il letto.

  "Perché non spegni?".

  Timar tornò sui suoi passi per soffiare sulla candela.

  "A che ora hai detto?" chiese lei, facendo cigolare le molle.

  "Alle cinque".

  "Hai caricato la sveglia?".

  Le voltò le spalle, cercando nel cuscino l'incavo familiare, e sentì la carne calda di Adèle contro la sua. Nessuno dei due disse niente. Per non essere il primo a parlare, lui fingeva di dormire, ma aveva gli occhi aperti e i sensi all'erta. Sapeva che Adèle era sveglia e, distesa sulla schiena, fissava la macchia grigiastra del soffitto.

  Rimasero a lungo così, tanto a lungo che Timar finì per cedere al sonno. Era già mezzo addormentato, quando sentì una voce che diceva: "Buonanotte, Jo!".

  Trasalì, ma non si mosse. Non gli sembrava la solita voce di Adèle. C'era qualcosa di diverso. Un paio di minuti dopo avvertì un lieve sussulto nel letto.

  Si girò di scatto e si rizzò a sedere, scrutando l'oscurità.

  "Stai piangendo?".

  Allora si udì un singhiozzo, come se la domanda avesse finalmente consentito alla donna di dar libero sfogo ai suoi sentimenti.

  "Sdraiati" supplicò Adèle con voce soffocata. "Vieni!...".

  Lo forzò a distendersi. Gli circondò il petto con le braccia e, tra le lacrime, balbettò in tono amorevole: "Cattivo! Perché sei così cattivo?".

  Cominciava appena ad albeggiare quando la lancia si staccò dal molo. Adèle, Timar e i bagagli erano arrivati al porto con il camioncino di Bouilloux. Nella luce ancora livida, accanto al veicolo parcheggiato sulla banchina, l'ex commerciante di legname agitava la mano, mentre l'imbarcazione scompariva dietro una prima onda, si raddrizzava e poi spariva definitivamente.

  Il mare era agitato. Per raggiungere la foce del fiume bisognava prendere le onde di traverso. Al timone c'era un negro con un vecchio casco in testa.

  Indossava una giacca di panno su un costume da bagno di cotone nero, eppure - chissà perché - non aveva un aspetto ridicolo. Guardava dritto davanti a sé, il viso impenetrabile, le mani - con i palmi più chiari rispetto al resto del corpo - appoggiate sulla ruota.

  Adèle rimase in piedi fintantoché riuscì a vedere Bouilloux e il camioncino, poi si sedette a poppa. Era vestita come al solito, ma aveva le gambe inguainate in morbidi stivali destinati a proteggerle dalle zanzare.

  Era il momento più difficile da superare. Si erano alzati troppo presto, nell'oscurità, e avevano preparato nervosamente i bagagli. Adesso navigavano, sballottati dalle onde, in una luce che non era ancora quella del giorno.

  Non parlavano, non si guardavano. Erano come due estranei, nonostante la scena della notte precedente, o forse proprio a causa di quella scena, che aveva lasciato in Timar un'impressione spiacevole. Non avrebbe saputo descriverla, perché aveva smarrito la padronanza di sé, il senso della realtà, delle cose concrete.

  "Perché piangi? Dimmi perché piangi!".

  E già mentre le poneva la domanda, avvertiva un certo distacco. Era teso, quasi minaccioso, prevedeva lunghe spiegazioni, e lui aveva sonno.

  "Dormi! È passato!".

  Timar aveva acceso la candela, si era spazientito, aveva accusato Adèle di non capire niente. Lui sì che aveva motivo di essere triste, non lei! Insomma, gli era venuta una vera e propria crisi di nervi, e Adèle, china su di lui, aveva dovuto calmarlo. Il tutto fra il caldo insopportabile del letto, l'umidità delle lacrime e del sudore. Il finale, quando Timar aveva chiesto perdono, era stato ancora più comico.

  "Ma no, Jo! Dormi! Se continui così, avrai un sonno agitato".

  Si era addormentato sfinito, con la testa sul seno di Adèle. Ed ecco che al mattino sembrava tutto dimenticato, e tra loro non il minimo gesto di affetto, semmai una certa freddezza.

  Procedevano, a circa mezzo miglio dalla costa, lungo la linea delle palme da cocco. Oltrepassata Libreville, virarono e qualche minuto dopo entrarono nel fiume, proprio mentre spuntava il sole.

  Questo segnò la fine della notte e di tutto ciò che di ridicolo e goffo aveva comportato. Timar si girò verso Adèle con occhi ridenti, che accarezzavano gli oggetti e il paesaggio.

  "Non c'è male!" disse.

  "Il meglio deve ancora venire".

  Timar si accese una sigaretta, e tutto il suo essere, in quel momento, era pervaso di ottimismo. Anche Adèle sorrideva. Si alzò per avvicinarsi e guardare il paesaggio insieme a lui, mentre il negro fissava l'orizzonte manovrando il timone con aria impassibile.

  Alcune piroghe se ne stavano immobili in mezzo al fiume. Passando scorsero i negri che, ancora più immobili, pescavano. C'era una calma irreale, esaltante.

  Veniva voglia di cantare qualcosa di lento e solenne, come un inno religioso, capace di soffocare il rumore della segheria e il ronzio della lancia.

  Avanzavano pigramente, lasciando lunghe scie sull'acqua. In sottofondo, i colpi regolari dell'elica. Superarono un albero, poi un altro.

  Dopo la prima ansa non videro più la segheria alla loro sinistra, né l'oceano alle loro spalle. C'erano solo le sponde del fiume, e la foresta che costeggiavano da vicino, talvolta a un metro di distanza. Era un groviglio di piante lussureggianti: mangrovie, le cui radici spuntavano dalla terra e raggiungevano l'altezza di un uomo, pallidi alberi del cotone dal fusto triangolare, con solo qualche foglia in cima. Ovunque liane e giunchi, e soprattutto un silenzio immenso, che il ronzio monotono del motore fendeva come fosse un aratro.

  "L'acqua è profonda?" chiese Timar con l'ingenuità di un gitante della domenica sulla Marna.

  Il negro non reagì, quasi che la domanda non fosse rivolta a lui. Fu Adèle a rispondere: "Qui sarà una trentina di metri. In altri punti, invece, c'è il rischio di incagliarsi sul fondo".

  "Ci sono coccodrilli?".

  "Ogni tanto capita di vederne qualcuno".

  C'era solo una parola per definire quel momento: "vacanza". Timar era in vacanza! Perfino il sole gli sembrava più allegro del solito.

  Giunsero in vista di un primo villaggio: quattro o cinque capanne fra gli alberi, vicino alla riva, e una mezza dozzina di piroghe ormeggiate. Alcuni bambini nudi guardarono passare la lancia. Una donna, che stava facendo il bagno, si immerse fino al collo gridando.

  "Hai fame, Jo?".

  "Per ora no".

  Aveva un animo da turista! Guardava con attenzione il paesaggio, senza lasciarsi sfuggire nulla.

  "Mostrami un okumé".

  Adèle cercò con gli occhi e infine gli indicò un albero.

  "Quello là? E vale così tanto?".

  "È l'unico legno adatto per il compensato. Si taglia a fogli con una macchina.

  Il lavoro è interamente meccanico".

  "E un mogano?".

  "Qui non ce n'è. Li vedremo più avanti, tra un'ora o due".

  "E un ebano?".

  "Anche quello fra un po'. Nel tratto a valle del fiume gli alberi pregiati sono stati abbattuti da tempo".

  "Ma noi abbiamo ancora qualche ebano, vero?".

  Era la prima volta che diceva "noi"!

  "Come no, ebani e mogani! Il vecchio Truffaut mi ha anche dato un'idea che potrebbe funzionare. La concessione è piena di orchidee. Mi ha regalato un libretto sull'argomento. Alcuni tipi di orchidee in Europa si vendono fino a cinquantamila franchi a pianta. E Truffaut ha trovato degli esemplari che assomigliano alla descrizione dell'opuscolo".

  Perché quella mattina era tutto così bello? Tutto filava liscio. Il paesaggio infondeva ottimismo. Faceva caldo come gli altri giorni, ma Timar non se ne accorgeva!

  Navigavano da due ore quando di colpo la lancia virò, puntando dritto verso la riva, dove la prua si arenò sulla sabbia. Il negro, sempre impassibile, spense il motore e gettò la cima a una donna che si trovava lì, con addosso solo un ciuffo d'erba secca che le copriva il sesso. Aveva un seno come Timar non ne aveva mai visti, largo, pesante, di una pienezza sontuosa.

  "Che facciamo qui?".

  Il negro si girò verso di loro.

  "Freddare motore".

  C'era soltanto qualche piroga, e un villaggio con una quindicina di capanne.

  Timar e Adèle saltarono sulla riva, mentre la negra scambiava delle frasi con il timoniere, ridendo.

  In mezzo alla radura si teneva il mercato: cinque donne, di cui quattro molto vecchie, erano accovacciate davanti alle stuoie che fungevano da bancarelle.

  Anche qui la calma era assoluta, e tutto - la misura delle cose e degli esseri, le proporzioni naturali - pareva capovolto.

  Ai piedi di alberi alti cinquanta metri, in una foresta di cui nessuno conosceva l'estensione, sulle stuoie del mercato erano esposti solo qualche pugno di manioca, qualche banana, quattro o cinque piccoli pesci affumicati. Le vecchie erano nude. Due di loro fumavano la pipa. Una terza teneva attaccato al seno un bimbo di due anni, che di tanto in tanto si girava con curiosità verso i bianchi.

  Nessun contatto tra loro e gli indigeni. Nemmeno un cenno di saluto. Adèle camminava avanti, guardando i mucchietti di mercanzie e chinandosi di tanto in tanto per lanciare un'occhiata dentro le capanne. Si curvò e prese una banana senza pagarla.

  Non c'era ombra di ostilità! Erano bianchi! Facevano quello che volevano, perché erano bianchi!

  All'improvviso, Adèle disse: "Aspettami un momento".

  E si avviò risolutamente verso una baracca più grande delle altre e un po'"in disparte. Vi entrò senza esitazione, mentre Timar si tratteneva a osservare il mercato.

  Adèle conosceva forse qualcuno del villaggio? Che idea le era passata per la testa?

  Stanco di guardare le vecchie e le loro misere mercanzie, si diresse verso la lancia. Il negro era sceso a terra. Si stagliava controluce, inondato dal riverbero del sole che scintillava sul fogliame e sulle liane. Era in piedi, accanto alla giovane donna nuda. Pur essendo vicinissimi l'uno all'altro, i due si toccavano soltanto con la punta della dita. Continuavano a ridere. Emettevano suoni sordi e lenti, che probabilmente esprimevano solo la loro contentezza.

  Timar non voleva disturbarli, perciò tornò sui suoi passi. Adèle ancora non arrivava. Fu tentato di raggiungerla nella capanna, ma non osò. Non sapendo cosa fare, tirò fuori da una tasca un pacchetto di sigarette. Un bambino completamente nudo tese la mano con espressione supplichevole.

  Tre metri più in là, anche una vecchia tese la mano, e quando Timar le lanciò la sigaretta, scoppiò un pandemonio. Le altre negre gli si radunarono attorno, allungando le braccia, sfiorandolo con i loro corpi, per contendersi il pacchetto. Gridavano, ridevano, si spingevano, si inginocchiavano nella polvere per recuperare qualche sigaretta caduta. Adèle, che intanto si era avvicinata, sorrise vedendolo alle prese con tutte quelle donne.

  "Andiamo!" disse.

  Passando, afferrò una seconda banana. Solo quando furono a bordo, con il motore ormai avviato, Timar le chiese: "Dove sei andata?".

  "Non ti preoccupare".

  "Conosci qualcuno del villaggio?".

  "Lascia perdere".

  La lancia avanzava in un'aria che si era fatta più calda, più afosa, e a un tratto Timar avvertì una sgradevole stretta al cuore.

  "Perché non mi dici la verità?".

  Lei gli sorrise con espressione umile e tenera.

  "Ti giuro che non è niente!".

  Chissà come, gli tornò in mente una vecchia storia che credeva di aver dimenticato. Era stata una delle sue prime avventure. Aveva diciassette anni. Si trovava da tre giorni a Parigi e una sera si era lasciato trascinare da una donna in un albergo di rue Lepic. Quando erano ridiscesi, lei, proprio come Adèle, gli aveva detto in corridoio: "Aspettami un momento!".

  Era entrata nell'ufficio. Timar aveva sentito un mormorio, poi la giovane l'aveva raggiunto con aria allegra.

  "Andiamo!".

  "Che hai fatto là dentro?".

  "Non ti preoccupare. Sono cose di donne".

  Solo tre anni dopo Timar aveva capito che si era fermata nell'ufficio per riscuotere la percentuale sul prezzo della camera.

  Perché proprio ora, sul fiume, collegava i due fatti? Non avrebbe saputo dirlo.

  Guardando Adèle, più animata del solito, rivedeva l'altra, di cui non aveva mai saputo il nome.

  "Era la capanna di un negro?".

  "Certo! Non ci sono bianchi qui".

  E siccome lui aggrottò la fronte: "Non fare quella faccia, Jo! Ti giuro che non ne vale la pena!".

  Impassibile, sotto il casco bucato e unto, il negro guardava dritto davanti a sé, dando qualche colpetto al timone.

  Lo stato d'animo di Timar non era dovuto solo all'episodio della capanna. Ci entravano di sicuro anche la stanchezza e il caldo. Il sole era a picco e la velocità della lancia non bastava più a creare una parvenza di frescura. Il paesaggio, sempre uguale, cominciava a divenire opprimente.

  Aveva mangiato una scatoletta di pàté tiepido, accompagnato da pane raffermo. In compenso, aveva già bevuto due bicchieri di whisky.

  Ci voleva, a quell'ora! Verso metà mattina, sentiva sempre un vuoto alla bocca dello stomaco e si rimetteva in sesto solo dopo aver mandato giù un po'"d'alcol.

  Adèle continuava a mostrarsi di buonumore. Ma forse lo ostentava troppo, e Timar trovava un che di forzato in tutta quell'allegria. Di solito, lei non si dava tanta pena per distrarlo a ogni costo. Era più spontanea, più calma.

  Che c'era andata a fare nella capanna di un negro? E perché, dopo, quei sorrisi, quelle moine?

  Alla fine Timar si era seduto in fondo alla lancia e, mentre il suo sguardo correva lungo le cime irregolari degli alberi alla stessa velocità dell'imbarcazione, cominciò di nuovo ad avercela con lei.

  "Passami la bottiglia!".

  "Jo!".

  "Embè? Che cosa c'è? Non posso più aver sete?".

  Adèle, rassegnata, gli porse la fiaschetta del whisky e, con una voce così bassa che lui la sentì appena, balbettò: "Stà attento!".

  "A cosa? Alle negre che potrei andare a trovare nelle loro capanne?".

  Sapeva di essere ingiusto. Da qualche tempo gli capitava spesso, ma non riusciva a controllarsi.

  In quei momenti, era convinto di essere davvero sfortunato, di essere lui la vittima e di aver il diritto di prendersela con tutti.

  "Non ti sognerai di protestare, proprio tu che ti sei guadagnata da vivere facendo ubriacare la gente!".

  Sul fondo dell'imbarcazione c'era un fucile, nell'eventualità di incrociare della selvaggina, ma, a parte alcuni uccelli, non si vedeva niente. Quel che abbondava, invece, erano le mosche, per cui bisognava agitare di continuo le mani per scacciarle dal viso. Timar, sapendo che il fiume era infestato di mosche tsetsè, sussultava ogni volta che un insetto gli si posava sulla pelle.

  All'improvviso si alzò, esasperato, e si tolse la giacca, sotto la quale indossava solo una camicia con le maniche corte.

  "È un errore, Jo. Ti buscherai un malanno".

  "E allora?".

  Non che sentisse meno caldo senza giacca, anzi! Ma almeno il sudore non gli ristagnava più, viscido, sotto le ascelle e sul petto. Era una sensazione diversa, come un bruciore intenso, quasi voluttuoso, sulla pelle.

  "Passami la bottiglia!".

  "Hai bevuto abbastanza".

  "Ti ho detto di passarmi la bottiglia!".

  Se si ostinava tanto era anche perché sapeva che il negro, nonostante l'apparente indifferenza, ascoltava tutto, e li giudicava, lei e lui! Per sfida, bevve con avidità, poi si distese sul sedile e appoggiò la testa sulla giacca arrotolata.

  "Ascoltalo, il sole picchia forte e...".

  Lui non rispose neanche. Aveva sonno. Era spossato, pronto a crepare là, se era il caso, ma incapace di compiere il minimo sforzo, fosse pure per stare seduto.

  Per un'ora o due o tre sprofondò in uno strano sonno. Dormiva con la bocca aperta e il suo corpo era diventato un mondo in cui accadevano cose misteriose.

  Era un albero, una montagna? Due o tre volte dischiuse gli occhi e intravide Adèle che cercava di fargli ombra.

  A un tratto, si udì un rumore sinistro; uno scossone violento, brutale, lo scaraventò giù dal sedile. Si alzò stravolto, con i pugni stretti, gli occhi fuori dalle orbite.

  "Che mi combinate ancora?".

  La lancia era inclinata e l'acqua scorreva a velocità folle a livello del bordo.

  In uno stato di semincoscienza, Timar vide il negro mettersi a cavalcioni della sponda. Pensò di essere inseguito, di essere caduto in trappola, e si avventò sull'indigeno facendolo volare in acqua con un pugno in piena faccia.

  "Ah! È così? Vi faccio vedere io!".

  In quel punto la profondità del fiume non superava i cinquanta centimetri. La lancia si era incagliata mentre oltrepassava una rapida. Il negro si issò a fatica, mentre Timar cercava il fucile che aveva visto al mattino sul fondo dell'imbarcazione.

  "Porca miseria! Vi faccio vedere io, sì...".

  Ma urtò contro qualcosa, non seppe mai cosa, forse un sedile, forse il fucile stesso. Perse l'equilibrio. Cadendo, ebbe il tempo di vedere in un lampo lo sguardo di Adèle, terrorizzato, ma soprattutto colmo di disperazione. Poi batté la testa contro un oggetto duro.

  "Porca miseria!" ripeté.

  E tutto prese a girare, a scomporsi, in un turbinio di oggetti che salivano verso il cielo e di ombre che calavano dall'alto.

  Ebbe ancora alcuni brevi istanti di relativa lucidità. Una volta, aprendo gli occhi, si ritrovò seduto a poppa, con il negro che gli sosteneva il busto, mentre Adèle si sforzava di sollevargli le braccia per infilargli la giacca di tela.

  Un'altra volta scorse il viso di Adèle chino sul proprio. Lui era sdraiato.

  Avvertiva una sensazione di freschezza umida sulle tempie e di bruciore lungo le braccia, sulla nuca e sul petto.

  Infine si sentì trasportare di peso. E non erano solo in due, ma in dieci, in cento forse! Una moltitudine di negri, le cui gambe si muovevano all'altezza della sua testa!

  Parlavano in una lingua che Timar non conosceva, mentre pareva che Adèle se la cavasse.

  Dietro le gambe dei negri, alberi, molti alberi; più in fondo, l'oscurità che odorava di terriccio umido.

  Quando riuscì a mettersi seduto sul letto, il suo primo sguardo non fu per Adèle, che l'aveva aiutato a sollevarsi, ma per le pareti attorno. Erano di un verde pallido. Dunque, non aveva sognato. Se un dettaglio era vero, tutto era vero.

  Timar aggrottò la fronte, la sua espressione si fece ambigua, una piega cattiva gli si disegnò sulle labbra. Aveva l'aspetto di un inquisitore, e lo sapeva.

  "Da quanti giorni sono qui?".

  Fissò Adèle con l'aria di volerla cogliere in fallo.

  "Quattro giorni. Perché mi guardi così?".

  Continuava a burlarsi di lui e aveva un risolino nervoso, involontario.

  "Dammi uno specchio!".

  Mentre lei lo cercava, Timar si passò una mano sulle guance non rasate. Era dimagrito. Aveva un'espressione irriconoscibile e gli era bastato fare quel minimo di movimento per sentirsi già stanco.

  "Dov'è Bouilloux?".

  Sapeva che c'era qualcosa di strano nel suo comportamento, e ci provava gusto. Intuiva che il suo sguardo fisso, febbricitante, metteva paura.

  "Bouilloux? Ma non siamo più a Libreville! Siamo a casa nostra, nella concessione".

  "Dov'è Bouilloux?".

  Aveva molte altre domande da fare! Domande? Una vera requisitoria, piuttosto!

  Perché, mentre era a letto, con quarantuno di febbre, aveva visto e udito parecchie cose. E dato che la camera era verde...

  Il secondo giorno, probabilmente, o comunque all'inizio della loro permanenza lì, Adèle, dopo aver rassettato tutto, aveva guardato le pareti con aria scontenta. Timar l'aveva sentita circolare al piano di sotto e dare istruzioni.

  Più tardi, si era messa a intonacare i muri di verde.

  Non pensava certo di essere osservata, ma Timar aveva gli occhi sgranati. Per il soffitto si era fatta aiutare da qualcuno.

  "Allora, Bouilloux?".

  Bisognava farla finita con quella domanda, perché ne aveva già pronta un'altra.

  "Non è venuto, Jo, te lo giuro!".

  Pazienza! Voleva dire che di Bouilloux ne avrebbero riparlato in seguito, benché fosse sicuro di aver udito la sua voce al pianterreno e anche di averlo sentito dire: "Povera piccola Adèle!".

  La sera, poi, lei non aveva forse aperto leggermente la porta per permettere all'ex commerciante di legname di dare un'occhiata a Timar?

  "E il greco?".

  Su questo punto non poteva mentirgli perché quello era certo di averlo visto, e anche molto bene, non una volta sola, ma quattro o cinque! Era un ragazzo alto, dai capelli unti, con un viso scarno e cotto dal sole, e aveva un tic: chiudeva di continuo l'occhio destro.

  "Constantinesco?".

  Sì! Dopo aver intonacato le pareti, Adèle l'aveva chiamato per fargli tenere la scala mentre lei dipingeva il soffitto. Timar aveva osservato tutto.

  "Che ci fa qui?".

  "È il capomastro. Aveva già lavorato nella concessione e l'ho assunto. Dovresti riposarti, Jo! Sei in un bagno di sudore!".

  Ma lui aveva bisogno di parlare, di fare domande, di essere cattivo. Alcuni particolari li ricordava con orrore.

  Per esempio, aveva sentito freddo come mai in vita sua aveva immaginato fosse possibile. Pur essendo madido dalla testa ai piedi, si era ritrovato a battere i denti e a gridare: "Portatemi delle coperte, in nome di Dio! Accendete il fuoco!".

  Adèle gli aveva risposto con calma: "Hai già quattro coperte".

  "Non è vero! Volete farmi morire di freddo! Dov'è il medico? Perché nessuno ha chiamato il medico?".

  Era sprofondato in incubi allucinanti. Vedeva Eugène, in un letto vicino al suo, che lo guardava impassibile.

  "Non ti sei ancora abituato, ragazzo! Ci arriverai. Io sono già più avanti, capisci?".

  Più avanti in che cosa? Timar aveva perso le staffe, si era messo a urlare, aveva chiamato Adele, che si trovava proprio accanto a lui.

  Ah, se avesse potuto ucciderla! Ma era disarmato! Lei si burlava di lui! Con quel Constantinesco che entrava in punta di piedi e mormorava: "Sempre quarantuno?".

  Ora avrebbe messo le cose in chiaro! Non aveva più febbre! Vedeva gli oggetti in modo nitido e, per esserne sicuro, batté ripetutamente le palpebre.

  "Ho avuto un attacco di bilharziosi, vero?".

  "Ma no, Jo! Non è affatto bilharziosi, la tua. Hai avuto una crisi di febbre rossa, come capita spesso ai nuovi arrivati qui, nella colonia. Niente di grave!".

  Ah, ah! Non era neanche grave!

  "Sarai stato punto da una mosca, mentre eravamo sul fiume, e il sole ha contribuito a scatenare un attacco acuto. La febbre rossa sale facilmente a quarantuno, ma non ne è mai morto nessuno".

  Timar cercava di scoprire se Adèle era cambiata. Si sporse, finanche, per vedere se portava gli stivali. Sì, li aveva ai piedi.

  "Perché sei equipaggiata così?".

  "Bisogna che di tanto in tanto vada a sorvegliare il cantiere".

  "Quale cantiere?".

  "Stiamo rimettendo a posto le macchine".

  "Chi?".

  E quel "chi" era una minaccia.

  "Constantinesco. È meccanico".

  "E chi altri?".

  "Abbiamo duecento lavoranti indigeni, che per ora sono impegnati a costruire le loro capanne".

  "Abbiamo? Chi hai".

  "Ma noi due, Jo! Tu e io!".

  "Ah! Va bene!".

  Aveva pensato che fossero lei e Constantinesco. Era già allo stremo delle forze e il sudore, lungo tutto il corpo, cominciava a diventare freddo. Adèle gli teneva una mano fra le sue e lo guardava senza tristezza, persino con un briciolo di ironia, come un bambino che fa i capricci.

  "Ascolta, Jo! Cerca di star tranquillo. Domani potrai alzarti. La febbre rossa butta giù in un niente, ma sparisce con la stessa rapidità. Riparleremo con calma dei nostri affari. Va tutto bene".

  "Sdraiati vicino a me!".

  Adèle ebbe un secondo, meno di un secondo, di esitazione. E lui si vergognò, perché sapeva che il letto emanava un tanfo di malato.

  "Più vicino".

  Timar aveva gli occhi semichiusi. La vedeva un po'"sfocata attraverso lo schermo delle ciglia. Lasciò scivolare la mano lungo le sue gambe.

  "Devi riposare, Jo!".

  Pazienza! Lui aveva bisogno di ribadire che Adèle era sua! E lo ribadì, madido, tremante, con lo sguardo cattivo. Quando ricadde sul cuscino, esausto, con un'angoscia che gli pervadeva il corpo, lei si alzò tranquillamente, si rassettò il vestito e disse senza rancore: "Che matto! Sei proprio un bambino, il mio bambino grande...".

  Timar non la sentiva più. Ascoltava solo i battiti del proprio cuore, il sangue che gli pulsava alle tempie.

  L'indomani, Adèle e Constantinesco, insieme, lo aiutarono a sistemarsi nell'ampia stanza al pianterreno. Da lontano, il greco poteva anche sembrar giovane, per via della magrezza e dei capelli neri, ma da vicino si scopriva una faccia già solcata di rughe, dai tratti irregolari e priva di fascino. Era rispettoso, perfino ossequioso. Quando parlava, cercava l'approvazione di Timar.

  La casa era vuota. Doveva essere stato buttato pressoché tutto ciò che vi si trovava prima, mobili e oggetti, che ora formavano all'esterno un mucchio di rifiuti al quale venne appiccato il fuoco. Erano rimasti solo pochi pezzi indispensabili - dei tavoli, delle sedie, due letti - e anche quelli avevano dovuto essere disinfettati.

  Timar fu adagiato in un'amaca che fungeva da poltrona. La stanza, che si apriva da tre lati sulla veranda, era grande e i muri di mattoni rossi, all'interno come all'esterno, le davano un'aria decisamente coloniale. Fuori, un ripido pendio portava al fiume, dove duecento neri lavoravano per costruire le baracche. Dagli altri tre lati, a meno di cinquanta metri dalla casa, cominciava la foresta.

  "Dove dorme Constantinesco?" chiese Timar, ancora un po'"diffidente.

  "In una capanna simile a quelle indigene, dietro il magazzino".

  "Con chi mangia?".

  "Ha una negra con sé. Vivono insieme".

  Timar trattenne a stento un sorriso e voltò la testa, perché capiva che Adèle se n'era accorta.

  "Lo vedi, Jo? È proprio come ti avevo detto: la casa è solida, confortevole, e la concessione - di cui ho fatto il giro - è la migliore di tutto il Gabon e ho già trovato la manodopera. Ora, per qualche giorno, devi riposare. Per sorvegliare i cantieri basterà Constantinesco".

  "Sì!".

  Eppure il suo umore non migliorava. Sapeva che non sarebbero stati quei giorni di riposo a consentirgli di lavorare come gli altri. Li vedeva andare e venire, sotto il sole, e già l'idea di affrontare il riverbero che regnava sotto la veranda gli dava una sensazione di paura quasi fisica.

  A cosa poteva mai servire, lui? Adèle, invece, era talmente a suo agio, e così naturale nel vestito di seta nera, con il casco bianco e gli stivali morbidi!

  Passava tra i negri, parlando nel loro dialetto, e dava ordini come se avesse trascorso tutta la vita in mezzo a quella gente.

  Fra gli oggetti lasciati dal vecchio Truffaut, Adèle aveva trovato qualche libro dalle pagine tarlate: un Maupassant, un Loti e un trattato di chimica.

  I romanzi Timar non riuscì a leggerli. Quando era in Europa, li divorava. Qui si chiedeva perché mai qualcuno si fosse dato la pena di stampare tante frasi.

  Quando Adèle tornò da lui, lo trovò immerso nel trattato di chimica.

  Passavano i giorni, tutti uguali per Timar. Al mattino scendeva, da solo o appoggiato al braccio di Adèle, si piazzava nell'ampia stanza e, di tanto in tanto, si sgranchiva le gambe facendo due passi.

  Attorno a lui, tutti erano già al lavoro, perché Constantinesco suonava la campanella alle sei. Ogni tanto, con gli stivali ai piedi e la frusta in mano, veniva a fare rapporto ad Adèle, che non lo invitava a sedersi e gli dava poca confidenza.

  "Ho lasciato venti uomini a completare le capanne e ho mandato tutti gli altri nella foresta. I tavoli per la casa saranno finiti entro stasera. Ho anche incaricato un cacciatore di prendere un bufalo per dar da mangiare ai neri".

  Timar era sbalordito dalla mole di lavoro svolto durante la sua malattia.

  Eppure, per quel che ricordava, ogni volta che aveva aperto gli occhi, Adèle si trovava al suo capezzale. Il che non le aveva impedito di provvedere a tutto, di dirigere tutto! È vero, però, che era più pallida del solito, e le sue occhiaie erano più profonde.

  "Bisognerà costruire una rimessa per la lancia, altrimenti il giorno che ne avremo bisogno il motore non partirà".

  "Ci ho già pensato. Due uomini stanno piantando i pali, a sinistra del villaggio dei lavoranti".

  Poi Adèle e Timar restavano soli. Lei continuava a sfaccendare.

  "Vedrai, Jo, che ti ci abituerai. È una delle zone più salubri. Nel giro di tre anni, torneremo in Francia con il nostro milione di franchi".

  Era proprio questo a spaventare Timar! Non aveva nessuna voglia di tornare in Francia! A far cosa? Dove si sarebbe stabilito? Sarebbe rientrato in famiglia?

  Avrebbe tenuto Adèle con sé?

  I due romanzi che aveva tentato di leggere erano la dimostrazione che per lui non c'era più posto da nessuna parte. Mai e poi mai sarebbe tornato alla Rochelle ad ammazzare il tempo con gli amici ai tavolini del Café de la Paix!

  Vivere a Parigi con Adèle? Ma Adèle, in Francia...

  No! Preferiva non pensarci! Se ne sarebbe preoccupato in seguito! Intanto, cercava di acclimatarsi, di crearsi delle abitudini, di familiarizzare con il paesaggio. Nel giro di qualche giorno sarebbe potuto uscire e avrebbe sorvegliato i neri che vedeva brulicare sulla riva. Sarebbe andato nella foresta e avrebbe indicato lui gli alberi da abbattere.

  Era ancora troppo debole. Dopo aver camminato cinque minuti nella stanza dal pavimento di mattoni rossi come i muri, si sentiva svuotato e doveva sedersi.

  "Sei sicura che, mentre stavo male, non sia venuto Bouilloux?".

  "Perché me lo chiedi?".

  Rideva, ma con la stessa espressione di quando l'aveva interrogata sulla sua visita alla capanna indigena. Sicché lo stato d'animo di Timar era un continuo alternarsi di distensione e di sospetto, se non di amore e di odio.

  Quando Adèle non era accanto a lui, diventava nervoso e si trascinava cento volte fino alla veranda per controllare se stava tornando. Si sentiva già più tranquillo appena scorgeva Constantinesco nella direzione opposta a quella che aveva preso lei.

  Il terzo giorno provò una tale gioia che, nonostante le raccomandazioni di Adèle, uscì di casa. Una sessantina di negri, aggiogati come buoi a un enorme tronco di okumé, lo stavano tirando su dei rulli verso il fiume.

  Il primo albero! Il suo primo albero! Pur sentendosi le gambe molli, Timar si aggirava in mezzo ai negri seminudi, da cui esalava un odore acre. Dietro di loro, Constantinesco, sempre con gli stivali, impartiva ordini in dialetto indigeno. Il tronco avanzava un centimetro alla volta. I corpi grondavano di sudore. I lavoranti avevano il fiato mozzo.

  "Quanto varrà?" chiese Timar, che nel frattempo era stato raggiunto da Adèle.

  "Circa ottocento franchi a tonnellata, ma ce ne sono trecento di trasporto.

  Questo qui dovrebbe renderci attorno ai duemila franchi".

  Timar era stupito che quel gigantesco blocco di legno non costasse di più.

  "E se fosse mogano?".

  Adèle non rispose. Stava in ascolto.

  Anche lui percepì il ronzio, ancora lontano, di un motore.

  "Una lancia!".

  Il tronco continuava a scivolare verso la riva e gli uomini erano entrati in acqua per legarlo. Cominciava a farsi buio ed entro mezz'ora sarebbe calata la notte. Constantinesco, che aveva alle spalle vent'anni di Gabon, si era tolto il casco già da un pezzo.

  Nel momento stesso in cui il tronco, saldamente ormeggiato, come un'enorme bestia prigioniera, iniziò a galleggiare sul fiume, una lancia sbucò dalla curva e andò ad arenarsi sulla sabbia.

  A bordo c'erano due negri e un bianco, che saltò a terra e strinse la mano ad Adèle.

  "Ha preso possesso dei luoghi?".

  Erano arrivate le provviste. Ogni mese la stessa lancia risaliva il fiume, sostando in tutti i piccoli centri per consegnare la posta e i viveri ai commercianti di legname.

  "Avrà sete. Venga a casa".

  Dopo aver bevuto un whisky, il giovanotto tirò fuori dalla borsa una lettera indirizzata a Timar. Sulla busta c'era un francobollo francese e la scrittura era quella di sua sorella. Prima di farla scomparire in tasca, Timar ne lesse qualche frase: "Caro Jo, "Ti scrivo da Royan, dove siamo venuti a trascorrere la giornata. Il tempo è bello, ma di certo meno bello che nel meraviglioso paese dove hai la fortuna di vivere. Ci sono anche i figli dei Germain e tra poco faremo una partita di acquaplano...".

  "C'è niente per me?" chiese Adèle.

  "Niente. Ah, sì! Pensi che Bouilloux ha avuto un guasto al motore discendendo il fiume e ha dovuto dormire in un villaggio indigeno".

  Timar si girò di scatto verso Adèle, che non arrossì, né mostrò turbamento.

  "Ah!" disse a fior di labbra.

  Ma da quel momento, ostentò un'allegria forzata.

  "Che si dice laggiù?".

  "Le solite cose".

  Si trovavano nella grande stanza di mattoni rossi, dove c'erano solo tre sedie a sdraio e un tavolo. Sulla riva del fiume, i negri che avevano trascinato l'okumé si asciugavano il sudore ridendo. Constantinesco si diresse verso la campanella che serviva ad annunciare l'inizio e la fine del lavoro.

  "A parte la vicenda Thomas...".

  Il giovanotto esitava a parlare. Aveva l'aria di un bravo ragazzo, un po'' impacciato, un po'"timido. Viveva per tre settimane al mese sulla lancia, in compagnia di due negri, e andava su e giù per il fiume, dormendo quasi sempre in tenda, nella foresta. In Francia faceva il commesso viaggiatore. Il suo forte erano i paesini più sperduti, dove vendeva alle ragazze da marito corredi completi, pagabili a rate mensili. E in Gabon esercitava il suo mestiere con la stessa goffaggine, la stessa giovialità sempliciotta di quando girava per i borghi della Normandia e della Bretagna.

  "È stato scoperto l'assassino: un negro, naturalmente!".

  Adèle non batté ciglio. Era calma. Il suo sguardo andava da Timar al commesso viaggiatore.

  "L'hanno arrestato - anzi, è stato il capo del suo villaggio a consegnarlo - due giorni dopo la vostra partenza. Da allora ci sono state assemblee e discussioni a non finire. Il capo ha portato anche dei testimoni".

  Timar, che pendeva dalle labbra del giovanotto, respirava a fatica.

  "E poi?".

  "Il negro fa il finto tonto, giura di non capirci un tubo! E siccome tutte queste discussioni hanno luogo tramite un interprete, le cose vanno per le lunghe. Fatto sta che hanno trovato la rivoltella sotto il pavimento della capanna! Secondo alcuni testimoni, lui e Thomas corteggiavano la stessa donna.

  "A proposito, che cosa vi lascio? Ho dell'ottima aragosta in scatola. Se avete bisogno di benzina, posso vendervene una ventina di bidoni".

  Timar non ascoltava più. Guardava Adèle, che rispose: "Vada per i venti bidoni! E due sacchi di riso per i lavoranti. Ha sigarette?

  Qui posso venderle a tre franchi al pacchetto".

  "Gliele do a un franco al pacchetto la confezione da mille".

  Stava calando la notte. Il fiume non si scorgeva quasi più. Constantinesco avviò il motore che azionava la dinamo, e le spie luminose si colorarono di rosso, poi di giallo.

  "Con cinque o sei confezioni...".

  "Senta un po'! Di quale villaggio è l'uomo che è stato arrestato?".

  "Ma via. Jo!".

  "Avrò pure il diritto...".

  "Di un piccolo villaggio a valle...".

  Timar si alzò e andò sulla veranda. Distingueva vagamente i contorni del tronco che galleggiava come una barca all'ancora. I negri avevano acceso un fuoco in mezzo al cerchio delle capanne. La foresta, tutt'attorno alla casa, era nera come l'inchiostro; spiccava solo il fusto pallido di un albero del cotone che si slanciava dritto verso il cielo.

  Timar fu certo di udire, o piuttosto intuì - tanto i suoi sensi erano acuiti -, una parola che Adèle, chinandosi verso il commesso viaggiatore, bisbigliò a denti stretti: "Imbecille!".

  "Sta zitto, Jo, ti prego! Si sente tutto!".

  

  La voce di Adèle era un soffio, e Timar intravedeva appena il suo viso immobile, rivolto verso il soffitto. La camera era immersa nel buio, con solo un rettangolo più chiaro: la finestra aperta. E l'albero del cotone, che spiccava bianco nella notte, divideva quel rettangolo in due parti ineguali.

  Erano nudi sul letto. Fino a qualche istante prima, avevano udito il commesso viaggiatore andare e venire nella camera attigua.

  "Dì la verità!".

  Timar parlava in tono secco, senza muoversi. Fissava il vuoto, o piuttosto la cappa d'oscurità sopra la sua testa. Del corpo di Adèle sentiva solo il gomito e l'anca.

  "Aspetta fino a domani. Quando saremo soli, ti spiegherò...".

  "Voglio saperlo oggi".

  "Ma cosa vuoi che ti dica?".

  "L'hai ucciso tu, Thomas!".

  "Zitto!".

  Adèle non si muoveva, il suo corpo non aveva neppure un fremito. Continuavano entrambi a restare immobili, stesi fianco a fianco.

  "Insomma, parla! L'hai ucciso tu, non è vero?".

  Timar aspettava col fiato sospeso, e dal buio accanto a lui provenne un pacato "sì".

  Allora si girò di scatto e le afferrò un polso, ringhiando: "L'hai ucciso tu e fai condannare un altro al posto tuo! Dillo! L'hai ucciso tu e sei andata in quella capanna per...".

  "Ti supplico, Jo! Mi fai male!".

  Era un vero e proprio grido di dolore fisico, perché ora Timar, a metà riverso su di lei, la stringeva con cattiveria.

  "Ascolta! Giuro che domani ti spiegherò tutto!".

  "E se non avessi bisogno di spiegazioni? Se non volessi più vederti né sentirti?

  Se... se...".

  Aveva la voce strozzata, era più che mai inondato di sudore e le forze lo stavano abbandonando. Era talmente fuori di sé che doveva fare qualcosa, qualunque cosa, ucciderla o tirare pugni contro il muro. Scelse la seconda soluzione, mentre Adèle tentava invano di calmarlo.

  "Jo, ascolta!... Di là c'è un estraneo che sente tutto... Te lo dirò... Ma non fare così!...".

  Con le nocche doloranti, Timar smise di colpire e la guardò senza vederla, forse cercando un altro modo per sfogare la sua rabbia.

  Erano in piedi e i loro corpi formavano due lunghe macchie pallide nel buio della camera. Dovevano spalancare gli occhi per distinguere i tratti l'uno dell'altro, eppure Adèle passò un fazzoletto sul torace madido di Timar.

  "Stenditi! Sennò avrai un altro attacco".

  Era vero, e Timar lo sapeva. Il ricordo dei giorni di febbre lo calmò all'istante. In un angolo c'era una sedia, e nel buio la prese e si sedette.

  "Parla! Ti ascolto!".

  Non voleva starle troppo vicino, per non aggredirla di nuovo. Ci teneva a rimanere calmo, ma la sua era una calma innaturale, malsana.

  "Vuoi che ti racconti tutto, è così?".

  Adèle non sapeva dove mettersi, né che atteggiamento assumere. Infine si sistemò sul bordo del letto, a un metro da Timar.

  "Tu non l'hai conosciuto, Eugène... Era geloso, soprattutto negli ultimi tempi, quando sapeva di essere condannato...".

  La voce di Adèle era appena un mormorio, per via della presenza invisibile nella camera accanto.

  "Davvero così geloso? Però poi stringeva la mano a Bouilloux, al governatore, al procuratore e a tutti gli altri che sono venuti a letto con te...".

  Benché non la vedesse, sentì che lei tratteneva il ' respiro e inghiottiva. Calò un silenzio tale che, a un certo punto, riuscirono a percepire, al di là della finestra, il silenzio solenne, pieno di vita della foresta.

  Adèle si soffiò il naso e riprese con il medesimo tono: "Non puoi capire. Non era la stessa cosa. Da te ero venuta come...".

  Non trovava la parola. Quelle che le salivano alle labbra le sembravano forse troppo romantiche? Come un'amante?...

  "Non era la stessa cosa!" ripeté. "Ecco qua. Thomas mi ha vista uscire! Mi ha chiesto mille franchi. Era da tempo che andava in cerca di soldi per comprarsi una donna. Ho rifiutato. La sera della festa è tornato alla carica, e quando...

  ".

  "L'hai ucciso!" pronunciò nell'ombra la voce assorta di Timar.

  "Avrebbe parlato...".

  "Insomma, è per me che...".

  Con tranquilla franchezza, Adèle replicò: "No! L'ho tolto di mezzo per non avere rogne. Non potevo prevedere che Eugène sarebbe morto comunque".

  Timar si sforzava di mantenere quella calma ambigua, che gli permetteva di non perdere la testa. Fissava il rettangolo della finestra, il tronco dell'albero del cotone, ascoltava il fruscio della foresta.

  "Vieni a letto, Jo!".

  Era davvero troppo! Avrebbe voluto di nuovo gridare, prendere a pugni il muro.

  Adèle aveva confessato e ora gli chiedeva di tornare a sdraiarsi al suo fianco, contro il suo corpo tiepido e nudo!

  Faceva tutto facile, lei! Aveva ucciso per stare tranquilla! E Timar, con le sue domande, le impediva di assaporare quella tranquillità come meritava! Quando le aveva parlato del governatore e degli altri, Adèle non aveva negato! Solo che non era la stessa cosa! Con lui era diverso, e il marito lo sapeva, ma Timar non poteva capire!

  A tratti, si domandava se avrebbe resistito alla tentazione di alzarsi e di picchiarla, picchiarla sino allo sfinimento.

  "E il negro che hanno arrestato?".

  "Preferisci che io sia condannata a dieci anni?".

  "Stà zitta! No! Non dire più niente, lasciami stare!".

  "Jo!".

  "Ti prego, stà zitta!".

  Andò ad appoggiarsi contro lo stipite della finestra. L'aria della notte gli gelava addosso il sudore che grondava da tutto il corpo. Si soffermò a guardare un riflesso sull'acqua del fiume, vicino al tronco ormeggiato. Stava lì da almeno cinque minuti quando una voce alle sue spalle sussurrò: "Dai, perché non vieni a letto?".

  Rimase dov'era senza risponderle. Ma non pensava più ad Adèle, e ancor meno a Thomas. Vagava con la mente. Pensava, ad esempio, che non lontano c'erano dei leopardi e che in Europa, nei posti di mare, era l'ora in cui la gente usciva dai locali notturni.

  Chissà, forse avevano proiettato un film esotico, con piantagioni di banani, un colono dai baffi sottili e una scena d'amore accompagnata da musiche indigene.

  Tornò a guardare l'okumé nel fiume. Durante la stagione delle piogge la corrente l'avrebbe trascinato a valle, insieme a tutti gli altri alberi abbattuti.

  Centinaia di tronchi sarebbero stati issati a bordo di un piccolo vapore rosso e nero imbozzato nell'estuario. Ma prima sarebbero passati davanti al villaggio dove si trovava la capanna in cui era entrata Adèle.

  Come ridevano di cuore sulla riva, senza dirsi niente, il timoniere negro e la bella ragazza dal seno nudo!

  Insomma, da vivo, Eugène tollerava che sua moglie avesse degli amanti, a patto che fossero persone influenti, persone che potessero tornargli utili! Era chiaro! D'altronde, non era questo il mestiere di entrambi?

  Timar si girò, intuì che Adèle aveva gli occhi aperti e finse di immergersi di nuovo nelle sue fantasticherie. Aveva sonno, era un po'"infreddolito, e per darsi un contegno si accese una sigaretta.

  Che cosa avrebbe fatto? La concessione era a suo nome. Aveva messo in gioco il credito di suo zio, le relazioni della sua famiglia.

  Di fronte a lui, nella foresta, doveva esserci un branco di elefanti. Gliene aveva parlato Constantinesco nel pomeriggio.

  Adèle era andata a letto anche con Constantinesco? Si accorse che il respiro di lei era diventato più pesante, il ritmo più regolare, e ne approfittò per scivolare in silenzio fra le lenzuola.

  Forse si sbagliava, però ebbe l'impressione che a quel punto il respiro di Adèle avesse di nuovo cambiato ritmo. Aveva finto di dormire, o magari era stato lui a svegliarla, e ora era lei a spiare il respiro di Timar.

  Non si toccavano, non si vedevano, ma si sentivano vivere. Ogni minima vibrazione sembrava moltiplicarsi per mille.

  Non capisce proprio! Insomma, segue semplicemente il suo istinto e la sua educazione!... Eppure, Adèle non dava mai l'impressione di essere una donna facile! Quegli amplessi non l'avevano segnata, non avevano lasciato traccia!

  Nonostante il corpo appesantito e quella carne un po'"molle, che Timar tanto amava, c'era in lei una sorprendente freschezza.

  Chissà cosa facevano gli elefanti, di notte, nella foresta. Passeggiavano, come gli altri animali più piccoli? Timar doveva essersi quasi addormentato, perché sentiva che il proprio respiro aveva il ritmo di chi ha ormai preso sonno. Adèle tese la mano verso di lui e gli toccò il petto all'altezza del cuore.

  Timar rimase immobile, per lasciarle credere che stava dormendo. Poi non percepì altro, a parte il suono della campanella e davanti ai suoi occhi strisce d'ombra e di luce.

  Sollevò le palpebre. Era giorno. Udì passare i lavoranti che andavano nella foresta. Tastò con la mano il posto accanto a lui: Adèle non c'era più e il lenzuolo era già freddo.

  Si attardò a letto un altro quarto d'ora, guardando il soffitto. Era stupito della propria calma, una calma da uomo indebolito, da convalescente che in una volta sola ha speso tutte le proprie forze. Aveva le nocche indolenzite, la pelle sopra le articolazioni scorticata.

  Alla fine si alzò, si infilò un paio di pantaloni e una camicia, si diede una ravviata ai capelli. Nella sala al pianterreno trovò il commesso viaggiatore che faceva colazione da solo, leggendo un vecchio giornale.

  "Dormito bene?".

  Timar cercò Adèle con gli occhi, ma vide soltanto Constantinesco, in cortile, che impartiva gli ordini della giornata a una mezza dozzina di negri.

  "È uscita?".

  Non aveva nulla di particolare da dirle, ma gli mancava. Sentiva il bisogno di vederla, fosse solo per guardarla con aria indifferente.

  "Le ha lasciato un biglietto".

  In quel momento Timar si trovava proprio davanti a uno specchio appeso al muro, e poteva vedersi. Rimase stupefatto, persino compiaciuto, dell'espressione impassibile del viso. Eppure era pervaso dal più assoluto sgomento.

  "Un biglietto?".

  Il commesso viaggiatore gli tese un foglio, mentre Timar si rendeva conto che era la prima volta che lei gli scriveva. Riconobbe le lettere quasi dritte, troppo grandi: "Carojo, "non ti spaventare. Sono dovuta partire per Libreville, ma sarò di ritorno entro due o tre giorni al massimo. Abbi cura di te. Constantinesco sa quel che deve fare. Tu cerca soprattutto di mantenere la calma, ti prego.

  La tua Adèle".

  "Ha preso il primo treno?" chiese Timar con sferzante ironia.

  "Sarà partita di notte, con la lancia, perché un'ora fa, quando mi sono alzato, non c'era già più".

  Timar non aggiunse nulla. Misurava a grandi passi la stanza, con lo sguardo fisso e le mani dietro la schiena.

  "Non è niente di grave, sa? Le ho portato io stesso il messaggio. Il procuratore ha bisogno di vederla per chiudere la faccenda dei negri".

  "Ah! È stato lei a...".

  E Timar guardava il povero ragazzo con feroce disprezzo.

  "È tutto a posto! Dal momento che c'è un colpevole, la faccenda è risolta. Ma, per una questione di forma, sono obbligati a sentirla perché è sua la rivoltella che...".

  "Certo!".

  "Dove va?".

  Timar salì in camera, si rasò, si vestì con gesti secchi, decisi, di una risolutezza insolita. Poi scese e domandò al commesso viaggiatore: "Può noleggiarmi la sua lancia?".

  "Impossibile. Ho appena iniziato il giro".

  "Duemila!".

  "Le giuro che...".

  "Cinquemila!".

  "Ma nemmeno per cinquantamila! La lancia non è mia, è della società per cui lavoro! Se non ci fosse la posta, magari...".

  Timar uscì senza rivolgergli neppure uno sguardo. Dal capannone dei macchinari, dove lavorava Constantinesco, proveniva il frastuono di un motore. Sdraiato per terra, il greco stava controllando la dinamo.

  "Lei era al corrente?" chiese Timar senza salutare.

  "Bè, io...".

  "Lasci stare! Ascolti, mi serve subito una piroga con dei rematori. Dev'essere tutto pronto entro pochi minuti".

  "Ma...".

  "Ha capito?".

  "Prima di partire, la signora mi ha detto...".

  "Sono o non sono io il padrone?".

  "Ascolti, signor Timar, non me ne voglia se insisto. È per lei che lo faccio.

  Nelle sue condizioni...".

  "E allora?".

  "Devo oppormi in tutti i modi...".

  Timar non era mai stato così calmo. Eppure, non aveva mai avuto tante ragioni per perdere la testa. Sarebbe stato capace di uccidere freddamente il greco con un colpo di rivoltella, o di partire da solo in piroga, se si fossero rifiutati di accompagnarlo.

  "La prego, rifletta! Tra poco...".

  "Subito!".

  Il sole era già caldo. Constantinesco si mise il casco, uscì dal capannone e si diresse verso le baracche sulla riva. La lancia del commesso viaggiatore era ancora lì e, per un istante, Timar pensò di prenderla senza dire niente. Ma perché complicare le cose?

  Il greco stava parlando con alcuni negri radunati attorno a lui. I lavoranti guardarono Timar, poi le piroghe, poi il tratto a valle del fiume.

  "Ebbene?".

  "Dicono che è tardi e che bisognerà fermarsi a dormire lungo il tragitto".

  "Non mi interessa!".

  "Dicono anche che per risalire il fiume ci vorranno almeno tre giorni, per via della corrente".

  Il greco guardava Timar più con commiserazione che con stupore. Doveva aver già visto casi simili e seguiva l'evoluzione della crisi come un medico assiste al decorso di una malattia.

  "Pazienza! Verrò con lei!".

  "Non se ne parla nemmeno! Resterà qui a sorvegliare la concessione! Voglio che il lavoro continui, sono stato chiaro?".

  Constantinesco impartì qualche altro ordine ai neri e tornò verso la casa insieme a Timar.

  "Mi permetta di darle qualche consiglio. Innanzitutto, non faccia bere niente ai rematori e - se vuole darmi ascolto - non beva neanche lei. In lancia si sente un po'"di vento, grazie alla velocità, ma in piroga il sole è molto più pericoloso. Porti con sé il letto da viaggio, nel caso dovesse dormire nella savana. E poi...".

  Era più nervoso del suo compagno.

  "Mi lasci venire con lei! Sono preoccupato! Pensi che la sua presenza a Libreville complicherà tutto! La signora Adèle, da sola, è sicura di farcela, mentre...".

  "Si è confidata con lei?".

  Constantinesco era imbarazzato.

  "No! Ma io le conosco queste storie. Lo so come vanno le cose. Lei viene dall'Europa, vede la vita in un altro modo. Quando si sarà fatto dieci anni di Gabon...".

  "Magari mi divertirò ad ammazzare qualche negro!".

  "Sarà costretto a farlo, un giorno o l'altro".

  "E lei? Ne ha ammazzati, lei?".

  "Io sono arrivato in un'epoca in cui, nella foresta, i bianchi venivano accolti a colpi di freccia".

  "E lei rispondeva a colpi di rivoltella?".

  "Ho conosciuto un bianco che si è salvato solo lanciando nel mucchio una cartuccia di dinamite. Ha fatto colazione? Mi creda... Mangi, prima...

  Rifletta".

  "... e non parta!" lo schernì Timar. "No, grazie, caro mio!... Ah! È ancora qua, lei?".

  La domanda era rivolta al commesso viaggiatore che, sul punto di mettersi in viaggio, chiese a Constantinesco: "Qualche commissione per lassù?".

  "Lassù" era un tratto a monte del fiume, nel folto della foresta.

  "A proposito, vedrò il brav'uomo di cui avrebbe dovuto prendere il posto. Ha capito chi? Quello che promette fucilate...".

  Qualche minuto dopo i tre bianchi erano sulla riva, accanto al tronco di okumé.

  I due negri misero in moto la lancia del commesso viaggiatore, dopodiché l'imbarcazione, descrivendo un arco, affrontò la corrente.

  Una dozzina di indigeni attendeva accanto a una piroga, dove avevano caricato qualche banana, dell'olio di palma e un po'"di manioca. L'aria era arroventata.

  A ogni soffio di vento ci si sentiva sfiorare da una carezza bruciante.

  Constantinesco guardò Timar negli occhi, come a dirgli: "È ancora in tempo!".

  Timar si accese una sigaretta e tese il pacchetto al greco.

  "Grazie, non fumo!".

  "Sbaglia".

  Parole futili, pronunciate per riempire il vuoto. Timar guardò la salita che portava alla casa, le capanne indigene appena costruite, con i loro tetti di foglie di banano, poi una finestra, in alto, di fronte all'albero del cotone: la finestra da cui, la notte, osservava la foresta.

  "Andiamo!" disse a un tratto.

  I rematori, che avevano capito, presero posto sulla piroga; il capo, invece, rimase in attesa di aiutare il bianco a imbarcarsi. Constantinesco voleva dire qualcosa, ma esitava.

  "Mi scusi se... Non ha intenzione di farle del male, vero? Soprattutto, stia attento a non complicare la situazione! E una donna straordinaria!".

  Timar fu sul punto di replicare, e guardò duramente il suo interlocutore. Ma no!

  A che scopo? Andò a sedersi, accigliato, in fondo alla piroga, mentre dodici pagaie intagliate si sollevavano tutte insieme, per poi inabissarsi nell'acqua.

  La casa andava scomparendo rapidamente. Si vedeva solo il tetto di tegole rosse, poi più nulla, tranne la cima dell'albero del cotone che dominava la foresta.

  L'ultima volta che aveva guardato quel tronco pallido e spigoloso, Timar era steso accanto ad Adèle, nuda, a portata della sua mano, mentre lei tratteneva il fiato fingendo di dormire. E lui che si ostinava a non dire niente! Chissà, forse sarebbe bastata una parola, o un semplice movimento del braccio...

  Dopo, Adèle l'aveva toccato con un gesto furtivo e Timar aveva fatto finta di non sentire.

  Ora aveva voglia di piangere, per il disgusto, il desiderio, la disperazione, o piuttosto perché aveva bisogno di lei!

  Erano sullo stesso fiume, a una trentina di chilometri l'uno dall'altro: Adèle a bordo della lancia con il negro, lui rannicchiato in fondo a una piroga instabile. Le dodici pagaie uscivano dall'acqua all'unisono, sgranando fluide perle nel sole, rimanevano sospese in aria per un istante e poi si rituffavano, mentre un lamento saliva dal petto dei rematori. Un lamento che era un canto triste, sempre lo stesso, un motivo sordo e potente che avrebbe ritmato l'intera giornata.

  

  Un negro minuto dai denti guasti pronunciava velocemente una trentina di parole.

  Nel momento in cui le pagaie erano tutte sollevate, taceva di colpo ed era come se la vita della piroga si arrestasse: neppure una vibrazione.

  Poi, mentre le pagaie s'immergevano due volte nell'acqua, dodici voci rispondevano al recitante, modulando un'aria vigorosa.

  E di nuovo il primo negro attaccava in falsetto.

  Il ritmo corrispondeva esattamente a due colpi di pagaia. C'era sempre la stessa battuta d'arresto, e poi la stessa foga nella ripresa del coro.

  Era forse la cinquecentesima volta che quell'esercizio si ripeteva, e Timar - il collo teso, gli occhi strizzati - aspettava il momento in cui il solista avrebbe salmodiato per riuscire a distinguere le sillabe. Fatto sta che da quasi un'ora il negro pronunciava sempre le stesse parole! Ne cambiava al massimo un paio.

  Recitava con distacco, ma sul viso dei suoi compagni passavano espressioni diverse a seconda delle strofe. Ridevano, manifestavano stupore, sorridevano, o si commuovevano.

  E ogni volta, nel momento esatto in cui le dodici pagaie intagliate erano sospese in aria, le dodici voci prorompevano con veemenza.

  A un tratto Timar fu consapevole di quali fossero i pensieri che lo occupavano e si stupì di essersi lasciato andare a osservare i neri con una curiosità cordiale, sentendosi tranquillo, sereno. Ne fu contrariato, come se avesse commesso un'infedeltà nei confronti di qualcuno, di se stesso, del dramma che stava vivendo.

  Poi, senza neanche accorgersene, ricominciò a esaminare gli indigeni uno per uno. Nel fiume si alternavano zone di forti correnti e zone di calma. A volte, nonostante il vigore degli uomini, la piroga si metteva di traverso. Ogni colpo di pagaia le imprimeva una forte spinta, una vibrazione che percorreva da un capo all'altro lo scafo, e sulle prime Timar ne aveva provato fastidio. Adesso si era abituato, così come si era abituato all'odore dei neri. La maggior parte di loro portava un parco annodato intorno alle reni, ma tre erano completamente nudi.

  Anche i negri, girati verso la prua della piroga, guardavano il bianco seduto di fronte. Lo guardavano cantando, ridendo quando un verso li faceva ridere; in altri momenti, invece, maneggiavano la pagaia con aria truce.

  Timar si chiedeva se lo giudicavano, se si stavano formando di lui una qualunque opinione non banalmente schematica. Quanto a lui, ad esempio, era la prima volta che osservava i negri con un'attenzione che andava oltre la semplice curiosità per il loro lato pittoresco, per i tatuaggi - o piuttosto per le vere e proprie sculture della pelle -, per gli anelli d'argento che alcuni portavano alle orecchie, per la pipa di terracotta che altri tenevano intrecciata ai capelli crespi.

  Li osservava come uomini, tentando di cogliere la loro vita di esseri umani; e tutto gli sembrava molto semplice, forse per via della foresta, della piroga, della corrente che li trasportava allo stesso modo in cui, da secoli, spingeva verso il mare altre piroghe identiche.

  Più semplice, per esempio, dei negri vestiti di Libreville o dei boy come Thomas.

  In fotografia, lo spettacolo sarebbe risultato pittoresco, e Timar immaginava i gridolini della sorella e delle sue amiche, i sorrisetti d'intesa degli amici.

  Era anche una tipica scena di vita coloniale: la piroga, Timar a prua, in completo bianco, il casco di sughero in testa - senza dirgli niente, i neri gli avevano costruito una tettoia di foglie di banano che gli dava un'aria, se non proprio di regalità, almeno d'importanza -, e poi, per tutta la lunghezza della piroga, i rematori, nudi o seminudi, in piedi uno dietro l'altro.

  E invece non c'era niente di pittoresco! Era tutto naturale, rasserenante. Timar si dimenticava perfino di pensare a se stesso, anzi di pensare in generale. Si limitava a registrare le immagini, le sensazioni, gli odori, i suoni, mentre il calore lo intorpidiva e la luce lo costringeva a tenere le palpebre semichiuse.

  In fondo, tutti quei neri avevano per lo più l'aria di bravi ragazzi, un po'' ingenui, che lanciavano grida acute quando la piroga passava davanti a un villaggio o a una semplice capanna. Allora imprimevano all'imbarcazione una velocità vertiginosa e, con la pagaia brandita al di sopra della testa, urlavano tutti insieme, di gioia, d'orgoglio, mentre altre grida rispondevano dalla riva.

  A un certo punto alcuni ragazzini di un villaggio si buttarono in acqua, tentando un'impossibile rincorsa. Uno di loro, senza timidezza, disse a Timar: "Sigaretta! Dai sigaretta!".

  E completò il suo pensiero miniando il gesto di tirare le sigarette nel fiume.

  Timar ne gettò una manciata, e vide da lontano i ragazzini che facevano a gara per impadronirsene, fradicie com'erano, in un fuoco d'artificio di schizzi d'acqua; finché, tutti fieri, si affrettarono a tornare verso la foresta.

  Una profonda sensazione di pace, ecco che cosa provava veramente; ma era una pace triste, e non sapeva perché. C'era in lui come un residuo di commozione che non aveva un oggetto preciso, e gli sembrava di essere lì lì per capire quella terra d'Africa che fino ad allora gli aveva suscitato solo un'esaltazione malsana.

  I negri spinsero la piroga verso la riva e la ormeggiarono in un angolo tranquillo del fiume, Timar, benché si trovasse da solo con loro, senza la possibilità di comunicare, non ebbe paura, neppure un'ombra di timore. Anzi!

  Sentiva che si erano assunti l'impegno di proteggerlo, e lo trattavano come un bambino affidato alle loro cure.

  Immersi fino alle ginocchia o alla cintola, i rematori si spruzzavano tutto il corpo, prendevano una sorsata d'acqua, si sciacquavano la bocca e la risputavano fuori.

  A Timar venne voglia di provare anche lui il contatto con l'acqua fresca. Si alzò in piedi, ma l'uomo dai denti guasti, quello che aveva cantato, capì la sua intenzione e scosse la testa: "Non buono per bianchi".

  Non andava bene per i bianchi! Perché? Timar non ne aveva idea, ma si fidava. E quando il negro gli disse di mangiare, lui mangiò il contenuto di una scatoletta di pàté. I negri si accontentarono di sbocconcellare un po'"di manioca e qualche banana. La foresta era buia. Solo una volta gli uomini tesero l'orecchio e si sporsero sorridendo. Quando Timar li guardò con aria interrogativa, uno di loro fece una smorfia, scoppiò a ridere e disse: "Macaco!".

  Ma la scimmia non si fece vedere. La sentirono solo muoversi tra i rami. Si rimisero in viaggio. Il sole era alto nel cielo. Due o tre volte Timar si attaccò al collo della bottiglia di whisky e presto fu colto da una voluttuosa sonnolenza.

  Vedeva sempre i rematori e senza rendersene conto si divertiva a fare un giochino che consisteva nel trovare delle somiglianze tra loro e i suoi conoscenti europei.

  Poi, dalla Francia, il suo pensiero saltò a Libreville, al governatore, al commissario, a Bouilloux e ad Adèle. Per un pezzo l'incanto fu rotto. Non guardò più niente, chiuse gli occhi, sentendo avvicinarsi una crisi.

  Era come se la rabbia gli montasse nel petto, aveva voglia di bere per essere cattivo, voglia di gridare, di far soffrire qualcuno, e anche se stesso. In uno di questi momenti aprì leggermente gli occhi e gridò ai negri, che cantavano sempre la stessa melodia: "Silenzio! Chiudete il becco!".

  Non capirono subito. Fu l'uomo dai denti guasti, che doveva conoscere qualche parola di francese, a girarsi verso i suoi compagni per tradurre. Non si levò una sola protesta. I rematori tacquero, semplicemente, continuando a guardare il bianco: dodici paia di occhi che non tradivano alcun sentimento, ma che mettevano Timar in imbarazzo, soprattutto quando aveva voglia di bere! E questa era la gente che veniva abbattuta senza pensarci due volte con un colpo di rivoltella!

  Del resto, non gli avevano assicurato che tutti i negri, senza eccezione, maneggiavano il veleno con altrettanta innocenza?

  La parola "innocenza" lo fece sogghignare. Proprio divertente! Qui ci si ammazzava con innocenza, ecco com'era! I bianchi ammazzavano i neri, e i neri si ammazzavano fra loro, talvolta - ma di rado - assalivano un europeo. Senza cattiveria! Perché bisogna pur vivere! Nessuno però aveva la faccia d'assassino. Chissà se il negro sdentato aveva ucciso qualcuno!

  Magari servendosi di minuscoli peli impregnati di veleno e mescolati al cibo che a poco a poco perforavano l'intestino. Oppure spargendo delle spine avvelenate davanti alla capanna della vittima predestinata!

  Si fermarono di nuovo. Timar se ne chiese la ragione. E la ragione era che il sole aveva fatto il giro e adesso gli batteva sulla nuca. Due neri andarono a sistemargli altre foglie di banano dietro alle spalle, in modo da ripararlo. E forse anche quei due avevano avvelenato qualcuno!

  Bevve ancora, ma l'alcol non gli faceva lo stesso effetto degli altri giorni.

  Non provava collera, e neanche nervosismo. Se ne stava disteso, con gli occhi chiusi, a rimuginare con tristezza.

  Tornò alla realtà solo quando calò la notte. L'oscurità si diffondeva nel cielo a macchia d'olio, negando il piacere di un crepuscolo. Stavano percorrendo un tratto del fiume privo di correnti. Il letto era ampio, l'acqua intorno alla piroga, ma soprattutto sotto gli alberi delle rive, sembrava nera. Da qualche parte, molto lontano, risuonava un tamtam, e gli uomini - che non osavano più cantare perché il bianco l'aveva proibito - si contentavano di emettere a ogni sforzo un "ha" soffocato.

  Inutile chiedere dov'erano. Nessuno avrebbe capito e, in ogni caso, la risposta sarebbe risultata incomprensibile a Timar. Dove avrebbe dormito? Che ci faceva lì? Adèle gli aveva promesso di tornare entro due o tre giorni. Perché non aveva aspettato a casa, dove almeno c'era un altro bianco?

  Come si sarebbe comportato, una volta giunto a Libreville? Non ne aveva la minima idea. La verità era che non sopportava di essere trattato come un bambino, che temeva di apparire complice, e per di più era geloso! Soprattutto questo! Che cos'era venuto a fare Bouilloux alla concessione? Perché Adèle aveva mentito?

  L'inquietudine si andava risvegliando. Bevve un sorso di alcol tiepido, e lo stomaco gli si rivoltò al punto che per un istante dovette sporgere la testa al di là del bordo.

  Il buio avvolgeva da ogni parte la piroga e gli uomini non remavano più all'unisono. I loro movimenti erano febbrili e ogni tanto due pagaie si urtavano. Invece di fissare il bianco, gli sguardi dei neri vagavano spesso sulla foresta, finché, con un ultimo slancio energico, l'imbarcazione fu spinta verso la riva, dove penetrò fra i cespugli.

  Una volta a terra, Timar riconobbe il posto. Era lo stesso villaggio in cui, quando avevano risalito il fiume con la lancia, c'era il mercato; il villaggio dove Adèle era entrata nella baracca di un nero e dove aveva mangiato due banane.

  Nella radura, in mezzo al cerchio delle capanne, alcune ombre erano accovacciate attorno al fuoco. Timar non osava farsi avanti, aspettava i rematori, e in particolare l'uomo dai denti guasti che istintivamente considerava la sua guida.

  I negri del villaggio non si alzarono, limitandosi a girare la testa verso la riva del fiume, da dove provenivano i rumori. Gli uomini stavano scaricando dalla piroga il letto da viaggio e le provviste di Timar. Poi tre di loro trasportarono il tutto al centro della radura, e il solito negro si rivolse al bianco facendogli segno di seguirlo.

  Ci fu una conversazione molto breve, una ventina di parole al massimo! Quindi il negro mingherlino cominciò ad aprire le porte delle capanne, gettando un'occhiata all'interno, senza che gli occupanti si sognassero di protestare.

  Infine, fece uscire una vecchia, una di quelle che, qualche giorno prima, erano accoccolate davanti alle bancarelle del mercato.

  Nella sua baracca furono depositati il letto da viaggio e le provviste. Il negro lanciò fuori le stuoie indigene e, mostrando l'ambiente, disse: "Buono! Qui buono!".

  Poi se ne andò in silenzio, lasciando Timar da solo nella capanna illuminata.

  Poteva stare in piedi soltanto al centro. Vi regnava un acre odore di fumo, perché il fuoco doveva esser rimasto acceso tutta la giornata, e le ceneri erano ancora calde.

  Per una decina di minuti Timar fu costretto a lottare contro il letto da viaggio che non riusciva a montare perché non ne conosceva il meccanismo. Finalmente ne venne a capo e si spostò davanti alla porta, dove si fermò in piedi a fumare una sigaretta. I suoi rematori si erano uniti alla gente del villaggio attorno al fuoco, e tutti quanti stavano finendo di mangiare. Timar distingueva soltanto le sagome, accanto ai grandi piatti di terracotta da cui ciascuno prendeva con le mani un po'"di manioca bollita.

  Qualcuno parlava senza sosta, con lo stesso andamento del cantore sulla piroga.

  Anzi, forse era proprio lui, perché la voce era identica. Pronunciava molto velocemente quattro o cinque frasi quasi uguali l'una all'altra. Poi taceva, e invece del ritornello dei rematori, si levava dal gruppo una lunga risata.

  Parlavano di Timar? Per un momento ne fu convinto, ma poi, osservando qualche faccia meglio illuminata dal fuoco, concluse che con ogni probabilità non stavano parlando di niente! Avrebbe giurato che il tipo sdentato diceva parole sconnesse, tanto per dirle, e che tutti si beavano di quella musica e delle loro stesse risate. Si divertivano come bambini che cicalano a ruota libera senza preoccuparsi del senso delle loro chiacchiere.

  C'era un buon profumo di legna bruciata, di spezie sconosciute a Timar, unito all'odore acre dei negri. Era quest'ultimo, adesso, a infastidirlo.

  Non aveva fame. Non voleva aprire una scatoletta di cibo e si accontentò di mandar giù di tanto in tanto una sorsata di alcol e poi di fumarsi una sigaretta. Di certo lo vedevano tutti, dato che la sua sagoma bianca si stagliava contro la macchia scura della capanna, ma nessuno gli rivolgeva uno sguardo. E lui ne era mortificato, quasi intristito.

  "Sigaretta?" gridò, tirandone una verso il negro più vicino.

  Aveva trovato una ventina di pacchetti nel letto da viaggio. Doveva averceli messi Constantinesco. Il negro raccolse la sigaretta, si alzò, indeciso, e scoppiò a ridere mostrandola agli altri. Una vecchia si girò a sua volta, ancora esitante, e allungò entrambe le mani.

  Timar lanciò un pacchetto intero, e le ombre presero a muoversi strisciando sul terreno, urtandosi, mentre i più audaci si alzavano e accorrevano con la mano tesa, tra urla e risate. C'erano uomini e donne. Timar se li ritrovò quasi addosso, che lo sfioravano. In equilibrio sulla punta dei piedi, teneva le braccia sollevate al di sopra delle loro teste.

  In mezzo alla massa ondeggiante, da cui saliva un odore sempre più forte, c'erano anche delle ragazzine dal seno ancora acerbo. Ma Timar guardava solo una negra, la bella ragazza che, la volta precedente, aveva visto ridere sulla riva con il timoniere della lancia.

  Era vicinissima a lui, meno ardita delle compagne più giovani, e con lo sguardo lo supplicava di tirare le sigarette dalla sua parte.

  Timar lo fece per tre volte di seguito, ma venivano sempre acciuffate al volo o rotolavano nella polvere, dove una decina di ragazzini se le contendevano in mezzo alle gambe degli altri.

  La ragazza aveva un seno abbondante e sodo. I suoi fianchi, come quelli di un maschio adolescente, erano meno larghi del busto, ma il ventre aveva ancora la tipica rotondità infantile. Si guardavano l'un l'altro, attraverso tutto quel fermento. Lei supplicava e lui poteva solo sorriderle.

  L'ultimo pacchetto di sigarette fu lanciato verso di lei. Timar gridò: "Finito! Non ne ho più!".

  Ma la gente attorno a lui continuava a tendere le mani, e lo sdentato dovette spiegare che il bianco non aveva più niente da dare. Allora, con la stessa velocità con cui si era avvicinato, il gruppo indietreggiò. Un attimo dopo, erano tutti accovacciati vicino al fuoco. Le labbra carnose si arrotondavano intorno alle sigarette e i neri guardavano con orgoglio il fumo che usciva dalle loro bocche. Spesso tre o quattro persone si passavano la stessa sigaretta.

  Ora Timar era solo davanti alla baracca. Stava quasi per coricarsi, ma il ricordo della giovane negra non smetteva di perseguitarlo. No, non era un desiderio bestiale, ma un bisogno di tenerezza. Si sedette su una bassa panca.

  Non aveva pensato a tenere da parte qualche sigaretta per sé. Alcune donne, trascinandosi dietro i bambini più piccoli, stavano rientrando nelle loro capanne, da cui ben presto non uscì più alcun rumore. Nessuno aggiungeva nuova legna sul fuoco, e i rematori furono i primi ad allontanarsi.

  Timar non aveva idea di dove andassero a dormire. La cosa gli era indifferente.

  Cercava con gli occhi la ragazza, che era scomparsa, e si chiedeva quando avesse lasciato i suoi compagni e verso quale capanna si fosse diretta. Continuava a sentirsi calmo e triste, di una tristezza greve, da animale. Intorno al fuoco si vedevano ormai solo cinque o sei sagome e più nessuno parlava. Timar guardò a sinistra, poi a destra.

  E all'improvviso ebbe un fremito. La ragazza era lì, ritta nell'ombra, appoggiata alla parete della capanna vicina e lo guardava. Aveva intuito il desiderio dell'uomo? Le piaceva, Timar, o si offriva semplicemente perché lui era un bianco?

  Bouilloux, al suo posto, si sarebbe limitato a indicarle col dito la capanna e a seguirla dentro. Timar non ne aveva il coraggio, e meno che mai aveva il coraggio di avvicinarsi a lei. Si sentiva goffo, e non era nemmeno sicuro di volerla chiamare.

  Si alzò soltanto. E allora lei si fece avanti, a piccoli passi, pronta a indietreggiare se lui l'avesse rifiutata. Timar rimase sulla soglia, lasciandole lo spazio sufficiente per passare, e con un movimento meccanico della mano le indicò la strada.

  Lei entrò rapidamente e si fermò, ansimante, senza che nessuno dei neri intorno al fuoco si girasse. Timar fu tentato di chiudere la porta, ma non osò. Non sapeva che dire, perché in ogni caso lei non avrebbe capito una parola!

  La ragazza non lo guardava più. Fissava il pavimento, proprio come una giovane europea, con lo stesso pudore. In un certo senso l'unica differenza stava nel fatto che lei, a parte un piccolo ciuffo d'erba che le copriva il sesso, era nuda.

  Timar le sfiorò la spalla. Era la prima volta che toccava di proposito il corpo di un negro. La pelle era liscia. Sentì guizzare i muscoli.

  Finse di cercare una sigaretta, sapendo bene che non ne avrebbe trovate. Voleva darle qualcosa, ma all'interno del letto da viaggio era rimasto solo un thermos.

  Si controllò le tasche. Le dita incontrarono l'orologio, un regalo di suo zio.

  Era agganciato a una catena, che Timar d'impulso staccò e tese alla giovane.

  "Per te!".

  Era angosciato. Voltandosi, constatò che intorno al fuoco non c'era più nessuno.

  Che fare, adesso? Come uscirne? La desiderava? Non lo sapeva neanche lui! Aveva la gola secca. E la negra era ancora là, con la catena d'oro nel cavo della mano.

  Tornò verso di lei, le accarezzò di nuovo la spalla, lasciò scivolare lentamente la mano fino al seno e ne seguì il contorno.

  La ragazza non lo incoraggiava, ma neppure lo scoraggiava. Stava lì a fissare la catena.

  "Vieni!".

  La trascinò verso il piccolo letto da viaggio, formato dalle due metà del baule aperto appoggiato su gambe pieghevoli. Lei lo seguì.

  "Non sei mica...".

  Voleva chiederle se era vergine, perché questo l'avrebbe dissuaso, ma lei non poteva capire.

  "Siediti!".

  E prendendola per le spalle, la forzò a sedersi sul bordo del letto, poi, al colmo dell'imbarazzo, andò ad attaccarsi al collo della bottiglia di whisky.

  Infine, con un gesto brusco, chiuse la porta della capanna, che non aveva chiavistello.

  

  Un primo incidente, mentre stavano superando una rapida, mise Timar di malumore.

  I rematori, sovreccitati, erano al massimo dello sforzo, con la bocca aperta in una risata muta e, insieme, per aspirare più aria. La velocità era impressionante. Gli uomini guardavano i gorghi nell'ansa del fiume e prendevano lo slancio per oltrepassarli.

  Proprio nella traiettoria della piroga un tronco d'albero seguiva la corrente, e le fronde gli davano l'aspetto di un isolotto. L'imbarcazione avrebbe ancora potuto scansarlo. Invece, per gioco, i negri si sbilanciarono tutti su un lato, remando freneticamente.

  Dodici paia d'occhi sgranati brillavano di gioia infantile, volgendosi dal tronco ai gorghi, all'uomo bianco. I rematori volevano passare a un pelo dai rami, per suscitare un brivido in Timar e in se stessi.

  Un lato dell'albero filò via rasentando il bordo, ma il fusto era stato quasi superato, quando un urto sollevò in aria un'estremità della piroga.

  Timar non aveva fatto in tempo ad alzarsi, né a rendersi conto di quel che stava accadendo. Niente di grave: la barca aveva sbattuto contro un ramo sommerso, e non si era rovesciata solo perché i negri, spostandosi tutti insieme, avevano ristabilito l'equilibrio.

  Il che non aveva evitato che entrasse parecchia acqua, per cui Timar si ritrovò seduto in una pozza.

  Allora, preso da una rabbia improvvisa, cominciò a gridare insulti che i negri non potevano capire. Quando poi si vide ridotto in uno stato pietoso, tutto bagnato e sporco, perse completamente la testa.

  Non aveva più sigarette, e questo aggiungeva malumore a malumore. Inoltre, al mattino, svegliandosi nella capanna indigena, si era ricordato di aver diviso il letto con una negra. La ragazza non c'era più e Timar non avrebbe saputo dire quando se n'era andata.

  Accompagnato dai suoi uomini, si era diretto verso la piroga che li aspettava.

  Sulla riva si erano radunate le vecchie del villaggio con i bambini. Nel capannello c'era anche la ragazza con cui aveva passato la notte, e che non osava muoversi, avvicinarsi a lui né rivolgergli un saluto.

  Timar era stato sul punto di fermarsi, poi aveva cambiato idea e aveva preso posto all'estremità della piroga, mentre i negri, pagaia alla mano, si sistemavano in fila uno dietro l'altro.

  La ragazza era sempre là, tra il fogliame scintillante. Indietreggiava a poco a poco, per staccarsi dal gruppo. E lo guardava.

  Le dodici pagaie sprofondarono nell'acqua e, di colpo, la piroga fu a cinquanta metri dalla riva, in piena corrente. Solo allora Timar ebbe l'impressione che la negra alzasse il braccio, o piuttosto che lo scostasse dal corpo, ma di una decina di centimetri appena, in un cenno incompiuto d'addio.

  La collisione aveva comunque provocato una piccola falla nello scafo, perciò ora uno degli uomini doveva svuotare di continuo la piroga, servendosi solo delle mani unite a coppa.

  Timar lo guardò lavorare per un pezzo, poi prese una scatoletta di cibo che gli era rimasta, l'aprì e versò il suo contenuto nel fiume per dare la latta al nero.

  Subito, dodici paia di occhi lo fissarono con uno stupore senza limiti. I negri sapevano che una scatoletta di pàté costava dodici franchi, più o meno il loro guadagno di quindici giorni. L'uomo che usava la latta vuota a mò di sassola, si abbandonava al piacere di agitare il metallo brillante nell'acqua iridata dal sole, mentre gli altri lo guardavano invidiosi.

  Ma già Timar non era più interessato a loro. Via via che si avvicinava alla meta, veniva riassalito dalle sue preoccupazioni. Adèle doveva essere arrivata a Libreville il giorno prima, probabilmente a metà pomeriggio, perché la lancia poteva sfruttare la corrente. Dove aveva dormito? Con chi aveva cenato? Che cosa aveva fatto per tutta la mattinata?

  Durante le prime ore di viaggio, Timar aveva continuato a pensare alla giovane negra. Quando il sole si spostò sull'altro versante del cielo, la sua mente fu invece del tutto assorbita da Adèle, in particolare dai ricordi della loro ultima notte: sdraiati fianco a fianco, nel buio, a fissare il soffitto, fingendo di dormire, mentre si spiavano con i sensi all'erta.

  Mangiò una banana. Non sapeva a che ora sarebbero arrivati e non riuscì a farsi intendere dal negro sdentato. Il tempo non passava mai. A due riprese, Timar fece fermare la piroga perché i negri accomodassero il suo riparo di frasche.

  Un'altra volta borbottò: "Perché non cantate?".

  Quelli non capirono, e lui intonò la loro melodia del giorno precedente. Allora i negri si guardarono, come liberati da un grosso peso, e il rematore mingherlino attaccò una tirata più lunga e più spedita delle altre che Timar aveva già sentito.

  Non rimase ad ascoltare. Dopo cinque minuti, neanche si accorgeva più del canto che proseguiva in sottofondo. Perché Bouilloux era venuto alla concessione? E perché Adèle era partita senza preannunciare il suo viaggio?

  Si addormentò due o tre volte, ma sempre per brevissimo tempo. Più che altro era uno sgradevole stato di torpore, dovuto al caldo e al riverbero. Poi il sole sprofondò dietro agli alberi e ci fu un breve crepuscolo, con una parvenza di frescura e una luce meno violenta, che restituiva alle cose il loro vero colore.

  Un quarto d'ora dopo era già buio pesto, e non avevano ancora raggiunto Libreville. Timar era furibondo, tanto più che non poteva nemmeno chiedere informazioni agli uomini.

  Navigavano da un'ora nell'oscurità, quando apparvero due puntini luminosi, uno verde e uno rosso. Più in alto, nel cielo, scintillava una luce che non era una stella. Nello stesso momento, percepirono la musica di un grammofono e rumori di movimenti precipitosi su un tavolato.

  La sagoma massiccia di un cargo si delineò a pochissima distanza dalla piroga, che continuò a filare sull'acqua e raggiunse la foce, là dove una volta Timar aveva visto un'altra nave caricare tronchi. Il disco era finito, ma non lo avevano tolto e nel silenzio si udiva perfino il cigolio della puntina.

  Si accese un faro, di una luminosità abbagliante. Il fascio di luce fece qualche volteggio sull'acqua prima di trovare la piroga e seguirla. Proveniva dal ponte di comando. Tre uomini, appoggiati al parapetto, guardarono passare l'imbarcazione con un bianco a bordo.

  "Ehilà!" gridò una voce.

  Timar non rispose, per qualche motivo che lui stesso non avrebbe saputo spiegare. Rimase nel suo angolo, con aria imbronciata.

  Si riscosse solo quando la piroga, superata la foce del fiume, cominciò a beccheggiare.

  Davanti a lui c'era l'oceano, a destra una fila di luci, una banchina come tutte le altre banchine del mondo, come una vera banchina europea, e i fari delle automobili che sfrecciavano nella notte.

  Si accostarono alla spiaggia sabbiosa, nel punto in cui ogni mattina attraccavano le piroghe dei pescatori. Sulla banchina stavano passando alcuni negri vestiti come i bianchi, altri in costume arabo; per Timar era come tornare da un lunghissimo viaggio.

  La luce elettrica smorzava il rosso del viale; per contrasto, la vegetazione sembrava di un verde squillante. Il paesaggio, nell'insieme, faceva pensare a un fondale di teatro, soprattutto se si alzava lo sguardo verso le palme da cocco, le cui foglie, illuminate dal basso, si stagliavano contro il cielo di un nero vellutato.

  A tutto ciò si accompagnavano rumori, voci, passi, scricchiolii, andirivieni di persone che non si conoscevano tra loro, una macchina i cui occupanti neanche si chiedevano chi fosse quel viaggiatore emerso così dalla notte.

  I tre negri nudi si annodarono uno straccio intorno alla vita, mentre gli altri tiravano in secco la piroga. Timar era indeciso: doveva ordinare ai negri di rientrare alla concessione? O era meglio tenerli lì, nel caso gli servissero? Ma come li avrebbe nutriti, dove li avrebbe fatti alloggiare? E loro si sarebbero orientati in una città? Timar si avvicinò all'omino sdentato e cercò di farsi capire: "Tu potere dormire qui?".

  E per spiegarsi meglio si appoggiò una mano sulla guancia, inclinò la testa e chiuse gli occhi.

  Il negro sorrise, accennando un gesto rassicurante.

  "Vedere signora!".

  Sarebbe andato da Adèle! L'uomo lo sapeva bene: quella che contava era lei!

  Timar era uno capitato là per caso! Nella gerarchia degli esseri umani occupava un posto unicamente in quanto protetto della signora. Non era neanche un vero colono, perché non parlava il dialetto indigeno e non aveva tirato alle anatre che sorvolavano la piroga! Per di più si era messo a distribuire sigarette! Non aveva picchiato nessuno! Non aveva indicato dove fermarsi! Era proprio un dilettante, uno di passaggio!

  "Io vedere signora!".

  Timar gli voltò le spalle e raggiunse il viale illuminato da lampioni elettrici.

  Per via dell'incidente della piroga, aveva i pantaloni inzaccherati e sgualciti.

  Inoltre non si faceva la barba da tre giorni. Proprio mentre si trovava nel cerchio luminoso di un lampione, passò una macchina. Sentì il rumore del motore che rallentava. Un viso fece capolino da dietro il vetro, e Timar riconobbe il commissario di polizia, che proseguì per la sua strada, girandosi due volte.

  Soltanto trecento metri lo separavano dall'albergo. In un angolo buio una negra in parco azzurro rideva strusciandosi contro un indigeno molto elegante. Era un po' grassa, come tutte quelle di città. Portava i capelli crespi raccolti in un'alta e complicata acconciatura e aveva perduto quel senso di rispetto verso il bianco che, nella foresta e nella savana, è la norma. Quando Timar le fu davanti, lo guardò senza dire una parola, ma non appena si allontanò di cinque metri, la donna scoppiò a ridere di nuovo.

  Erano solo piccoli dettagli, eppure lo turbavano perché andavano ad aggiungersi a tutti i suoi motivi di malumore.

  In albergo si faceva musica. Sul grammofono girava un disco hawaiano, che Timar aveva sentito una cinquantina di volte, e si udiva il rumore delle palle da biliardo che si urtavano.

  Prima di entrare, si fermò un istante, con la fronte aggrottata, e istintivamente assunse un'aria minacciosa. Nessuno però se ne accorse. Un commerciante di legname stava giocando a biliardo con il praticante panciuto; i due gli davano le spalle, nascondendolo in parte ad altre quattro persone sedute attorno a un tavolo, vicino al grammofono, che parlavano fitto fitto, come se avessero cose importanti da confidarsi. L'orologio segnava le undici. Dietro al bancone non c'era nessuno. Il praticante, indietreggiando, andò a sbattere contro Timar e si girò.

  "Ma guarda! E lei, giovanotto!".

  E nella sua esclamazione Timar percepì un certo imbarazzo.

  "Ehi, voialtri!...".

  Lo fissarono tutti senza eccessivo stupore, ma con evidente contrarietà. Per loro era proprio un intruso. I presenti si scambiarono qualche occhiata, poi Bouilloux - uno dei quattro seduti attorno al tavolo - si alzò e gli andò incontro, gridando con falsa allegria: "Questa sì che è una sorpresa!".

  In realtà, l'arrivo di Timar era esattamente ciò che aveva previsto e che temeva di più.

  "Dica un po', è venuto in aeroplano?".

  "In piroga!".

  L'altro lanciò un piccolo fischio di ammirazione.

  "Beve qualcosa?".

  Timar gli strinse la mano a malincuore, poiché non osava fingere di non aver visto il gesto di Bouilloux. I giocatori ripresero la partita di biliardo.

  Qualcuno cambiò il disco sul grammofono.

  "Ha cenato?".

  "No... Sì... Non ho fame...".

  "Comunque, vecchio mio, scommetto che non prende la sua dose di chinino da qualche giorno! Basta guardare che occhi ha!".

  Il tono era amichevole, gioviale, ma privo di vera cordialità. Il guercio, dal tavolo in cui erano rimasti in tre, fissava Timar con un'espressione tragica, mentre Maritain, anche lui del gruppo, si alzò bruscamente, affrettandosi a stringere la mano ai presenti.

  "Vado a letto. È tardi".

  Aveva tutta l'aria di una fuga, come se temesse una scenata e preferisse non esserne testimone. Era la prima volta che Timar si trovava al centro dell'attenzione, in una situazione alquanto teatrale. Lui era il personaggio da trattare coi guanti, quello che incute paura, e questo gli ricordò che in tasca aveva una rivoltella.

  "Venga, beviamo un goccetto!".

  Bouilloux lo trascinò verso il bancone, passò dall'altro lato e riempì due bicchieri di calvados.

  "Alla sua salute! Si accomodi!".

  Timar si issò su uno sgabello e vuotò il bicchiere d'un fiato, con lo sguardo fisso sull'uomo. Non sarebbero riusciti ad abbindolarlo! Sapeva che, alle sue spalle, i giocatori di biliardo continuavano la partita soltanto per forma, e che anche a destra, vicino al grammofono, la conversazione si era interrotta.

  A tutti stava a cuore una sola cosa: il confronto tra lui e Bouilloux o, per meglio dire, lo scontro che si preparava fra i due.

  "Un altro!" disse tendendo il bicchiere vuoto.

  Bouilloux ebbe una breve esitazione. Aveva paura! E proprio per questo Timar accentuava la sua aria cupa e feroce, così come i modi minacciosi, simulando una sicurezza che non aveva.

  "Adèle?".

  Bouilloux, con la bottiglia di calvados in mano, continuò a recitare la commedia per guadagnare tempo.

  "Sempre innamorati? Ah, ah! Certo che dovete star bene laggiù, voi due, lontani dai seccatori!".

  Era falso, falsissimo!

  "Dov'è?".

  "Dov'è? E a me lo viene a chiedere?".

  "Non è in albergo?".

  "Perché dovrebbe essere in albergo? Alla sua! Ma, mi dica, quanto tempo ha impiegato per discendere il fiume in piroga?".

  "Poco importa! Dunque, Adèle non è venuta in albergo?".

  "Non dico questo! Per essere venuta, è venuta, ma al momento non è qui".

  Timar gli aveva tolto di mano la bottiglia e si versò un terzo bicchiere. Si girò di scatto verso i giocatori di biliardo e li sorprese immobili, con l'orecchio teso.

  "Tocca a te! Forza, un bel quattro sponde" disse con prontezza il praticante.

  Timar non era mai stato così nervoso e, al tempo stesso, così lucido. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, anche i gesti più stravaganti, ma tutto con la massima freddezza. Rivolse di nuovo lo sguardo verso Bouilloux, uno sguardo più duro. Convinto di apparire terrificante, non si rendeva conto di avere l'aspetto di un malato divorato dalla febbre. Era questo - la sua anemia, la sua agitazione - che spaventava i commercianti di legname, tanto che Bouilloux afferrò i bicchieri.

  "Vieni qua, figliolo! Facciamo due chiacchiere".

  Lo trascinò in un angolo del caffè dove potevano parlare senza essere sentiti, posò bottiglia e bicchieri sul tavolo, si appoggiò sui gomiti e tese una mano verso quella di Timar.

  I clienti ancora seduti all'altro tavolo se ne andarono, bofonchiando: "A domani, Louis! Buonanotte a tutti!".

  I loro passi risuonarono in strada. Rimasero solo i giocatori di biliardo, che mettevano nella partita un insolito zelo.

  "Stai calmo! Questo non è il momento di fare sciocchezze".

  Il tono era paternalistico, ma così umano da ricordare a Timar la voce di certi preti della sua adolescenza.

  "Inutile prenderci in giro. Parliamo da uomo a uomo".

  Senza smettere di spiare il viso del compagno, Bouilloux portò il bicchiere alle labbra, ma tolse la bottiglia dalle mani di Timar.

  "Non ora!".

  Le maschere negre erano sempre al loro posto, sulle pareti dalle tonalità pastello. Nel caffè era rimasto tutto come prima; solo che Adèle, con il suo vestito di seta nera e l'espressione seria, non era più dietro il bancone, immersa nei conti o con il mento appoggiato sulle mani incrociate e lo sguardo fisso davanti a sé, indifferente.

  "La faccenda passerà in Corte d'Assise domani! Capisci?".

  Il suo viso era quasi attaccato a quello di Timar. Un viso strano! Visto così da vicino, Bouilloux non era più il bestione che sembrava di solito. E ancora una volta Timar pensò a un suo confessore che parlava sempre con lo stesso tono burbero.

  "È tutto a posto. Ma non bisogna agitare Adèle! Perciò è stato necessario prendere un mucchio di precauzioni".

  "Dov'è?".

  "Ti ho detto che non ne ho idea! Il tuo nome non deve venir fuori in Corte d'Assise. E sarebbe anche meglio non far sapere in giro che sei a Libreville. Capisci o no? Adèle è una brava figliola, che non merita di farsi otto o dieci anni di galera".

  Era come un'allucinazione: Timar sentiva le parole, le comprendeva, ma gli sembrava di cogliere nello stesso tempo anche quello che c'era al di là delle parole, come se queste formassero una grata.

  Adèle era una brava figliola! Ecco come ne parlavano! Ed erano pure andati a letto con lei, che diamine! Erano vecchi amici, sì, tutti della stessa combriccola, e lui veniva a fare il guastafeste!

  Come un bambino arrabbiato, che non vuol sentire ragioni, ripeté: "Dov'è?".

  Bouilloux fu sul punto di perdersi d'animo, bevve il suo bicchiere e si scordò di impedire a Timar di versarsene un altro.

  "Ascolta! Tra noi bianchi, qui, ci sosteniamo a vicenda. Adèle ha fatto quello che doveva fare. Non serve a niente discuterne! Ti ripeto che è tutto a posto, devi solo aspettare e avere fiducia...".

  "E quando lei era il suo amante...".

  "Ma no, ragazzo mio, no!".

  "È stato lei a dirmi...".

  "Non è la stessa cosa! Devi sforzarti di capire, perché la situazione è grave!

  Io ho detto che ero andato a letto con Adèle! E anche altri l'hanno fatto! Ma questo non c'entra niente!".

  Timar scoppiò in una risata stridula.

  "Non c'entra niente, proprio così! E perciò non permetterò, adesso...".

  Bouilloux vide il suo interlocutore impallidire all'improvviso e serrare i pugni, allora si affrettò a spiegare: "Nella vita ci sono delle necessità. All'epoca, Adèle aveva il marito che la istigava. Ancora non hai capito? Lo sai qual è la prova che non è la stessa cosa?

  Eugène non è mai stato geloso per quelle vecchie storie! Sapeva che cosa occorreva fare".

  Timar sogghignava, ma non era sicuro di mantenere il controllo ancora per molto senza scoppiare in singhiozzi di umiliazione.

  "Con noi - tutti quelli di qui, compresi i gran signori, il governatore e compagnia bella - lei lo faceva, come dire, per cortesia, era una necessità del mestiere...".

  La voce di Bouilloux si fece più dura, quasi minacciosa.

  "Conosco Adèle da dieci anni! Ebbene, credo proprio che con te sia stata la prima volta. E se l'avessi saputo prima, avrei fatto di tutto per impedirlo, ecco!".

  Il tono era sempre più accorato.

  "È una fortuna che Eugène sia morto quella notte, perché sono sicuro che te la saresti vista brutta. Ancora non capisci? Bisogna spiegarti tutto? Ti dico questo, parola di Bouilloux: Adèle è nei pasticci! Ed è un miracolo che ne sia quasi fuori... Non del tutto, però, giacché la fine di questa storia si deciderà domani. Allora, ripeto, qui c'è gente - io, come altri -che non permetterà...".

  Tacque. Forse si rendeva conto di essersi spinto troppo in là? Oppure gli faceva paura il viso di Timar, pallido, chiazzato di rosso per via della febbre, con gli occhi lucidi, le labbra paonazze? E poi quelle dita troppo affusolate che tremavano sul tavolo!

  "Non serve a niente dirsi cattiverie. Adèle sa quello che fa".

  Le palle del biliardo continuavano a sbattere l'una contro l'altra e i due uomini si muovevano con aria concentrata intorno al tavolo verde.

  "Si da da fare per cavarsela! Entro domani sera sarà tutto risolto! E lei se ne potrà tornare laggiù con te. Quanto a sapere se ha fatto bene a lasciare Libreville e il resto, questi sono affari suoi".

  "Dov'è?".

  "Dov'è? Non lo so! E nessuno qui ha il diritto di chiederglielo, hai capito? Tu meno che mai. Dov'è? Forse sta facendo l'amore per salvarsi la testa!".

  Bouilloux si girò bruscamente verso il boy, che se ne stava immobile all'angolo del bancone.

  "Chiudi tutto!".

  Poi si rivolse ai giocatori.

  "Sparite, voialtri".

  Adesso era lui ad arrabbiarsi. Timar non sapeva che dire. Aveva la mano contratta, tanto forte era il suo desiderio di afferrare la rivoltella. Si udì il rumore delle imposte che venivano chiuse, e i passi dei due ultimi clienti risuonarono in strada.

  Bouilloux si era alzato in piedi, alterato quasi quanto lui, e lo guardava dall'alto in basso, dominandolo con la sua mole.

  "Se Adèle ha bisogno di questo per salvarsi la testa, non sarai tu a metterti in mezzo...".

  Stringeva i pugni, pronto a colpire, mentre Timar era quasi deciso a sparare.

  E invece no: il bestione ridivenne umano, cordiale, e diede una pacca sulla spalla del giovanotto.

  "Vedi, figliolo, non bisogna farsi venire strane idee! Ora tu vai a letto, senza storie! E domani sera tutto sarà finito, ve ne tornerete insieme laggiù, a casa vostra, dove potrete amarvi come vi pare...".

  Timar si versò un ultimo bicchiere di calvados e lo mandò giù d'un fiato. Aveva ancora un'aria cupa, inquietante, ma quando Bouilloux lo spinse verso la scala, non fece resistenza.

  "È una donna che merita tanto di cappello!" disse dietro di lui la voce dell'ex commerciante di legname.

  Timar non seppe mai chi gli avesse messo una candela in mano, né come fosse arrivato in camera, dove, buttandosi tutto vestito sul letto, strappò la zanzariera.

  In seguito si ricordò solo che aveva pianto, singhiozzando convulsamente: più tardi si era svegliato di soprassalto quando la candela, ormai consumata, si era spenta, e lui aveva stretto forte il cuscino, come se avesse Adèle fra le braccia.

  

  Anche il tribunale, come il cimitero, aveva un'aria improvvisata, rivelava trascuratezza e disprezzo delle tradizioni: forse per questo Timar pensò al funerale di Eugène Renaud.

  Non c'erano modanature, né rivestimenti di legno scuro, niente che conferisse all'ambiente la solennità necessaria. La grande sala spoglia avrebbe potuto essere la sede di un'agenzia commerciale. Le pareti erano intonacate a calce.

  Quattro vetrate si aprivano sulla veranda, dove si accalcavano almeno duecento negri - quelli vestiti della città e quelli nudi della foresta -, chi in piedi, chi seduto per terra.

  All'interno, né sedie, né panche per il pubblico, nemmeno la gabbia dell'imputato: nulla, insomma, di ciò che fa di un tribunale un vero tribunale.

  Una semplice corda separava i funzionari dalla folla, ma quasi tutti i bianchi avevano avuto accesso alla zona riservata.

  Dall'altro lato della corda stavano i negri, gli spagnoli, i portoghesi, e qualche francese che, come Timar, era arrivato tardi.

  Il tavolo coperto da un tappeto verde doveva essere quello del presidente del tribunale. Era giudice unico, o i due seduti al suo fianco erano i giudici a latere? Il tipo che scriveva era di certo il cancelliere. Ma che ci facevano là il procuratore e il commissario di polizia, seduti sulle sedie dal fondo impagliato con le gambe allungate? E tutti quegli altri che Timar non conosceva e che erano riusciti a procurarsi un posto?

  Le finestre erano aperte e i negri della veranda si stagliavano, immobili, in controluce. I bianchi indossavano abiti di tela e la maggior parte di loro, per paura del riverbero, teneva il casco in testa.

  La gente fumava e molti si erano tolti la giacca.

  Timar, sperduto in mezzo ai negri, cercava con gli occhi Adèle e a tutta prima non riuscì a individuarla.

  Si era addormentato all'alba. Bouilloux - apposta, c'era da scommettere - non lo aveva svegliato, e quando aveva aperto gli occhi erano già le dieci. Era sceso senza neanche radersi, aveva trovato soltanto un boy e si era precipitato fuori, con la barba lunga e l'abito sgualcito. Non aveva nemmeno preso il caffè. Si era immerso nella massa nera, nel caldo del tribunale, e ci aveva messo un bel po'' ad abituarsi all'atmosfera, a vedere e capire ogni cosa.

  I bianchi, tutti senza eccezione, erano prostrati dall'afa. In prima fila, davanti alla corda, un indigeno seminudo, dai tratti grossolani tipici del negro della savana, recitava una sorta di monotono lamento, accompagnandosi a volte con un gesto timido della mano dal palmo rosa, mentre i piedi scalzi restavano fermi sull'attenti.

  Ma sembrava che nessuno lo ascoltasse. I bianchi chiacchieravano fra loro. Di tanto in tanto il presidente si girava verso le finestre gridando qualcosa, e i grappoli di negri ammassati sulla veranda indietreggiavano, per tornare poco dopo ad accalcarsi di nuovo.

  Timar non capiva le parole dell'indigeno. Non sapeva chi fosse. Ma finalmente aveva scorto, non lontano dal procuratore, il vestito nero di Adèle e una parte del suo profilo. Lei non l'aveva ancora visto. Stava rivolgendo dei segni d'intesa a qualcuno.

  Il negro continuava a salmodiare, sciorinando una frase dietro l'altra con voce lamentosa. Appeso al muro c'era un grosso orologio sbiadito, come se ne vedono in tutti gli uffici pubblici. Le lancette avanzavano a scatti. Un boy si aprì un varco fino al presidente, portando un vassoio con dei bicchieri, un sifone di selz e una bottiglia. Gli uomini seduti al tavolo si versarono da bere con comodo, sempre senza prestare ascolto al negro. Nel frattempo, Adèle si era accorta della presenza di Timar e, bianca come il quadrante dell'orologio, con il fiato sospeso, lo guardava da lontano, mentre lui la fissava con aria crudele.

  L'odore dei negri pigiati gli uni contro gli altri era acuto. Timar non aveva ancora mangiato né bevuto niente. Si sentiva venir meno, tanto più che non poteva sedersi, anzi doveva tenersi in equilibrio sulla punta dei piedi per vedere qualcosa.

  "Basta così!" dichiarò all'improvviso il presidente, guardando l'orologio che segnava le dieci e quarantacinque. "Silenzio!".

  Il nero non capì, ma tacque d'istinto.

  "E tu, traduci quello che ha detto!".

  Si era rivolto a un altro negro, in pantaloni bianchi e giacca nera, con un colletto di celluloide e gli occhiali. Era l'interprete, che parlava con voce bassa e profonda, come un tuono in lontananza.

  "Dice che non ha mai visto Thomas, dato che non erano dello stesso villaggio, e lui non sapeva neanche che Thomas esisteva".

  Solo per formulare questa frase l'interprete impiegò tre minuti. Il presidente gridò: "Più forte!".

  "Dice che è per via delle capre che pretendeva dal cognato, perché sua moglie se n'era andata con un uomo dell'altro villaggio. Era la sua prima moglie, figlia del capo, e raccontava in giro...".

  Nessuno lo ascoltava. Timar non era più attento degli altri: gli riusciva difficile seguire il filo ingarbugliato del discorso e, per di più, gli sfuggiva una parola su due. Teneva lo sguardo fisso su Adèle, mentre si chiedeva dove e con chi avesse passato la notte.

  Sotto il vestito era nuda come sempre? Un altro uomo aveva forse visto le sue cosce che emergevano a poco a poco dalla seta nera, le cosce bianchissime, il ventre morbido, il seno un po'"sfiorito?

  "... Non gli hanno mai voluto restituire la capra e...".

  D'un tratto, quattro negri si misero a parlare tutti insieme nel loro dialetto, interpellando l'indigeno e interpellandosi reciprocamente. Avevano voci acute, e l'accusato, vestito solo con uno straccio che fungeva da perizoma, spostava lo sguardo dall'uno all'altro con espressione sgomenta.

  Bastava distogliere l'attenzione per qualche secondo e la scena perdeva ogni parvenza di realtà, diventava un incubo assurdo, una parodia senza capo né coda.

  Sul tavolo con il tappeto verde c'era il whisky, i bianchi si offrivano sigarette a vicenda e parlavano d'altro.

  Fra loro c'era Bouilloux, e anche il praticante e tre commercianti di legname.

  Costituivano un gruppo a parte, tra i funzionari da un lato e i negri dall'altro, e se ne stavano in piedi vicino a una finestra, all'altezza della corda. Fu Bouilloux il primo a gridare: "Basta!".

  Alcuni bianchi gli fecero eco: "Basta!".

  Il presidente agitò una campanella stridula, un giocattolo da bambini più che uno strumento da tribunale.

  "Resta da sentire la moglie di Amami. Dov'è la moglie di Amami?".

  La donna si trovava vicino all'ingresso e fu spinta avanti attraverso la folla di neri fino all'altezza della corda. Era una vecchia negra, con il seno cadente, aveva tatuaggi in rilievo sul petto e sul ventre, il cranio rasato.

  Se ne stava ferma là dove l'avevano lasciata, non diceva niente, non vedeva niente. E nel cervello di Timar, senza che lui se ne accorgesse, si fece strada un dubbio. Guardava la donna di profilo, poi di scorcio, e gli ricordava la ragazza che aveva posseduto nel villaggio sul fiume. Non avevano forse gli stessi lineamenti, lo stesso disegno delle spalle e dei fianchi? Questa negra non poteva essere la madre dell'altra?

  In tal caso, l'accusato - ossia l'indigeno che aveva parlato a lungo senza che nessuno lo ascoltasse -era il padre?

  Allora Timar confrontò la fulgida visione della ragazza dal corpo liscio, le forme piene, con lo spettacolo pietoso offerto dalla coppia. Erano quelli meno vestiti di tutti. La pelle della vecchia aveva un aspetto terroso.

  Marito e moglie erano a un metro l'uno dall'altro. Timar li sorprese a scambiarsi un'occhiata e capì che non sapevano assolutamente dove si trovavano, né cosa facevano, né tantomeno perché se la prendevano tutti con loro. L'uomo, in particolare, con il naso camuso e gli occhi piccoli e arrossati, di quando in quando lasciava scorrere intorno uno sguardo irrequieto che aveva un che di folle.

  Nessuno se ne curava. Nello stesso istante, Timar notò che Bouilloux fissava su di lui uno sguardo carico di sottintesi, accennando anche un movimento della testa come a dirgli, a metà fra la minaccia e la preghiera: "Buono, eh!".

  Adesso si udiva la voce della negra, un suono uniforme, come se tutte le parole avessero uguale valore. E la donna, senza mai smettere di parlare, annodava e snodava il suo striminzito parco. Per farsi coraggio, fissava un punto preciso del muro, accanto all'orologio, dove c'era la macchia di una mosca schiacciata.

  Dietro una finestra, Timar riconobbe il capo dei suoi rematori, che gli rivolse un ampio sorriso. Il caldo si faceva sempre più opprimente. Un vero e proprio vapore saliva dai corpi, tanto dei bianchi quanto dei negri, e il sudore dolciastro degli uni si mescolava a quello acre degli altri, e al tanfo delle pipe e delle sigarette.

  Ogni tanto qualcuno si dirigeva in silenzio verso l'uscita, faceva un salto in albergo per bere qualcosa e tornava poco dopo.

  Timar aveva caldo, sete e fame, ma resisteva, perché aveva i nervi tesi fino allo spasimo. Non cessava un istante di cercare lo sguardo di Adèle, mentre lei sfuggiva il suo, prestando ascolto a un tizio, un bianco sconosciuto, che le mormorava qualcosa all'orecchio. Era sempre pallida, con gli occhi cerchiati.

  Timar era in collera con lei, ma al tempo stesso ne aveva pietà: insomma, era in preda a un groviglio di sentimenti contraddittori che non riusciva a districare.

  L'idea che Adèle, ad esempio, avesse passato la notte con un altro gli faceva venir voglia di ucciderla e insieme di stringerla teneramente fra le braccia, piangendo sulla sorte di entrambi!

  Sentiva appena la voce della negra, che parlava e parlava senza che nessuno la interrompesse, forse solo per rimandare a più tardi il momento della decisione.

  Vedeva il suo cranio rasato di vecchia, il seno avvizzito, e le gambe gracili, con le ginocchia un po'"storte.

  Lei continuava a parlare senza mai riprendere fiato, inciampando sulle sillabe, mangiandosi le parole, spinta dalla caparbia volontà di farsi capire e di convincere. Non usava i mezzi dei bianchi, non cercava di commuovere. Mai, neppure per un istante, alzò la voce. E invece di piangere, di svenire, restava rigida come una statua, quasi fosse per lei una questione d'onore.

  Di umano aveva solo l'accento, il timbro della voce, quell'intonazione da diacono imperturbabile, quelle sillabe che si somigliavano tutte e che, se non vi si prestava attenzione, arrivavano all'orecchio come un mormorio confuso, simile al rumore della pioggia sui vetri.

  Timar stringeva i pugni per la tensione. Il lungo monologo suscitava in lui lo stesso struggimento di certe nenie che le nutrici di campagna cantano ancora oggi. Era come una malia, una musica nostalgica e terribile, per quanto il viso della negra rimanesse impassibile. Un viso nel quale sempre di più Timar aveva l'impressione di rivedere l'altro, quello della ragazza che lo guardava allontanarsi dal villaggio a bordo della piroga e non osava neppure sollevare un braccio.

  Altre immagini gli si affollarono nella mente, sorprendendolo per la loro nitidezza. Le dodici paia d'occhi indigeni che lo fissavano mentre le pagaie andavano su e giù e un canto, anch'esso simile a un lamento, si levava nell'aria afosa... La faccia da cane bastonato degli stessi uomini quando, il giorno prima, avevano urtato contro il ramo sommerso e Timar era andato su tutte le furie.

  Gli faceva male il petto. Chissà, forse era la fame, o la sete. A furia di stare sulla punta dei piedi, gli tremavano le ginocchia. All'improvviso gli venne voglia di gridare anche lui: "Basta! Finiamola!".

  Ma proprio allora il presidente agitò la sua ridicola campanella. La donna, che non capiva, si mise a parlare più forte per continuare a farsi sentire. Non voleva tacere! L'interprete tradusse e lei alzò ancora un po'"la voce, senza un gesto, ma con un tono disperato.

  Sembrava il Parce, Domine, l'invocazione che, al profilarsi di una catastrofe, i fedeli innalzano in chiesa per tre volte, su tonalità diverse, a voce sempre più alta.

  Adesso, la sua, era una voce di testa. La vecchia parlava in fretta. Voleva arrivare a dire tutto! Tutto!

  "Portatela via!".

  E altri neri, che i bianchi avevano rivestito con uniformi blu da poliziotti e un fez piatto in testa, trascinarono via la donna attraverso la folla. Chissà se almeno sapeva perché l'avevano fatta venire e perché ora, d'un tratto, la obbligavano a uscire. Ma lei non faceva resistenza, e continuava imperterrita a parlare, da sola!

  Timar incrociò lo sguardo di Adèle e nei suoi occhi vide il panico. Non capì che era a causa della sua faccia. La fatica, il malessere, gli sforzi, il caldo, tutto, assolutamente tutto, era impresso sul suo viso tormentato, soffuso di un pallore malsano. E gli occhi febbricitanti, incapaci di star fermi, andavano da un negro a un bianco, dall'orologio alla macchia sul muro.

  Era inondato di sudore gelido. Respirava a fatica e, così come non riusciva a fermare lo sguardo, non era neanche più in grado di fermare la mente. Eppure sentiva che aveva bisogno di pensare, un bisogno urgente, imperioso.

  "Ci ripeta in breve quello che ha detto la testimone".

  In breve! Magnifico! In breve!

  "Dice che non è vero".

  L'interprete era sicuro di sé, compreso della propria importanza. Dietro le finestre si levarono dei mormorii e il presidente agitò la campanella, gridando: "Silenzio! O faccio allontanare tutti!".

  Altri due negri si fecero strada, da soli, verso il posto dei testimoni. Il presidente, tornato calmo, si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sul tavolo.

  "Parli francese, tu?".

  "Sì, signore".

  "Che cosa ti ha fatto pensare che Amami abbia ucciso Thomas?".

  "Sì, signore".

  Quei due erano i testimoni a carico. Ormai Timar aveva capito tutto. E non solo aveva capito quello che stava succedendo, ma poteva anche ricostruire, punto per punto, gli avvenimenti! Mentre lui guardava la bella ragazza nuda, al villaggio, Adèle era entrata nella capanna del capo: doveva avergli offerto una grossa somma di denaro perché trovasse un colpevole tra i suoi uomini, e gli aveva consegnato la rivoltella che si era portata dietro.

  Era così semplice! Il capo aveva scelto quello che meno gli piaceva fra gli uomini del villaggio, il nero che aveva sposato sua figlia e che, quando lei se n'era andata con un altro, si era permesso di reclamare la dote. Fra loro c'era tutta una storia di capre e di zappe! Cinque zappe! Cinque pezzi di ferro! Altri due negri erano stati mandati a testimoniare, due negri a cui doveva essere stato promesso qualcosa. E quelli cercavano di guadagnarsi la ricompensa.

  "Sì, signore".

  "Ma non ti sto chiedendo questo! Quando ti è venuta l'idea che Amami aveva ucciso Thomas?".

  "Sì, signore".

  E il presidente, esasperato: "Interprete, traduca la domanda".

  Seguì uno scambio di frasi in lingua indigena che pareva non dovesse mai finire, al punto che bisognò interromperli; allora l'interprete, senza scomporsi, tradusse: "Dice che Amami è sempre stato considerato un bandito!".

  C'era da urlare di rabbia. Amami era rimasto in aula quando avevano fatto uscire la moglie. Guardava con aria inebetita i suoi accusatori, ogni tanto cercava di parlare, ma lo zittivano. Non ci capiva più niente. Era smarrito.

  La negra con cui Timar era stato a letto era davvero la figlia di quell'uomo?

  Adesso arrossiva al pensiero che la ragazza era vergine e che lui l'aveva posseduta lo stesso, con rabbia, con l'impulso - sia pure per un attimo - di vendicarsi dell'Africa intera.

  "È questa l'arma che hanno trovato nella capanna di Amami?".

  Il presidente mostrò una pistola a tamburo. Timar si sentiva addosso lo sguardo di Adèle, insieme a quello di altre tre persone: Bouilloux, il guercio e il praticante panciuto.

  E non capiva, giacché non poteva vedersi, per quale motivo Bouilloux, nonostante la gravità del momento, si facesse largo tra la folla dei neri per avvicinarglisi.

  Non sapeva che anche gli indigeni accanto a lui lo guardavano con stupore e spavento. Respirava affannosamente, come se avesse la febbre alta, e si stringeva le mani con tale forza da far scricchiolare le ossa.

  "Confermano entrambi che questa è proprio la rivoltella che hanno trovato. Tutte le deposizioni sono concordi in tal senso. Nessun bianco è andato al villaggio dopo il delitto".

  Il negro dal naso camuso fissava l'interprete con uno sguardo implorante, pieno di angoscia. Anche lui somigliava alla ragazza e, come la moglie, aveva una pelle grigiastra, terrosa.

  Il guercio e il praticante guardavano Bouilloux che, fendendo la folla, si avvicinava alla meta. Dall'altro lato della corda, nella zona ufficiale, il procuratore si chinò verso Adèle e parlottarono fra loro a bassa voce, con gli occhi puntati su Timar. D'un tratto, una mano gli serrò il braccio. Era Bouilloux, che disse: "Attento!".

  Attento a che cosa? A chi? Per un attimo, Timar provò una sensazione di terrore: si vide al posto di quel povero negro seminudo che si dibatteva in mezzo alla folla, accerchiato, braccato, sopraffatto da essa.

  Sì, anche lui era braccato. Gli mandavano Bouilloux per tenerlo a bada. Le dita di ferro del commerciante di legname gli stringevano il braccio in una morsa.

  Adèle lo guardava. Anche il procuratore lo guardava. Persino il presidente alzò gli occhi con aria preoccupata, come se avesse fiutato una minaccia nell'aria, ma poi si limitò a bere una sorsata di whisky.

  Chissà se in quel medesimo istante il negro aveva le stesse reazioni, le stesse angosce. Sentiva, forse, che tutto era contro di lui e che stava per essere stritolato, come se quella massa di corpi - dei neri e dei bianchi - avanzasse su di lui da ogni lato fino a soffocarlo? Fatto sta che si mise a parlare in mezzo al tumulto, a parlare da solo, con voce acuta, a ripetere la sua storia che nessuno aveva voluto ascoltare.

  Allora i suoi nervi cedettero e, a dispetto di Bouilloux che gli massacrava il braccio, a dispetto dello sguardo di Adèle, a dispetto del procuratore che gli sorrideva, Timar urlò, urlò letteralmente, sollevandosi il più possibile sulla punta dei piedi, il viso inondato di sudore ma esangue, la gola così serrata che le parole gli facevano male: "Non è vero! Non è vero! Non è stato lui! È...".

  Tanto peggio! Doveva farla finita! Era ora!

  "È stata lei! E voi lo sapete bene!".

  Con uno sforzo, Bouilloux gli torse il braccio, spingendolo in mezzo alla massa di gambe e di piedi dei negri, e Timar crollò a terra.

  

  Mormorò, sogghignando: "È evidente! Non esiste!".

  Due passeggeri si voltarono e lui li guardò senza batter ciglio, alzò perfino le spalle: erano gli ennesimi funzionari. Il piroscafo, che aveva appena ritirato le scialuppe, si stava lentamente allontanando dalla rada di Libreville. Timar era seduto al bar, in fondo al ponte di prima classe. Di punto in bianco si alzò, rendendosi conto a un tratto che vedeva per l'ultima volta la linea gialla della spiaggia, la linea più scura della foresta, i tetti rossi e i pennacchi delle palme da cocco.

  Aveva lo sguardo teso, i lineamenti alterati, ma per lui era ormai un'abitudine fare le smorfie, contrarre le dita affusolate, parlare a voce bassa tra sé e sé, incurante degli altri.

  "A proposito, mi hanno accompagnato alla stazione?".

  Sapeva bene che stava dicendo una sciocchezza: a Libreville la stazione non c'era e l'avevano lasciato imbarcarsi da solo, senza nessuno che sventolasse un fazzoletto sulla banchina. Ma la parola "stazione" gli piaceva, perché gli ricordava il momento della partenza, la stazione della Rochelle, la madre e la sorella.

  Era molto stanco, glielo avevano ripetuto tutti. Era successo dopo il tafferuglio. Fino ad allora Timar non aveva mai dato scandalo, soprattutto in pubblico, perché era educato e di carattere alquanto docile.

  Ma quando Bouilloux gli aveva storto il braccio, in mezzo a quella folla di gente che si agitava, si era accorto che ce l'avevano con lui, e aveva cominciato a colpire alla cieca. Ecco com'era andata. Negri e bianchi erano mescolati insieme. Mentre la massa brulicante si riversava in strada, Timar aveva ricevuto dei calci in faccia. Gli era volato via il casco. Perdeva sangue.

  Il sole scottava.

  Gli era già capitato di assistere a qualche rissa, ma non vi aveva mai preso parte. Anzi, in genere se ne teneva alla larga, mentre quella volta era proprio al centro. E si rese conto che i colpi fanno meno male di quanto si creda, e che non ci vuole coraggio per battersi. Aveva tutti contro? E lui picchiava tutti.

  Picchiò fino a quando, senza sapere come, si ritrovò nella semioscurità del commissariato di polizia.

  Riconobbe le strisce d'ombra e di luce, il tavolino del whisky. Era seduto su una sedia e il commissario, in piedi, lo guardava con un'aria strana. Tanto che Timar, stupito, si passò una mano sulla fronte balbettando: "Le chiedo scusa. Non so cosa sia successo. Ce l'avevano con me".

  E abbozzò un sorriso educato a cui il commissario non rispose, continuando anzi a fissarlo con gelida curiosità.

  "Vuole bere?".

  Il tono era lo stesso che avrebbe usato con un negro o con un cane. Gli servì un semplice bicchier d'acqua e riprese a misurare la stanza a grandi passi.

  Timar fece il gesto di alzarsi.

  "Stia lì!".

  "Che cosa aspettiamo?".

  La situazione era ancora un po'"confusa. Sarebbe bastato un niente per darle una dimensione del tutto irreale.

  "Si sieda!".

  Il commissario non si prendeva neanche la briga di rispondere alla sua domanda, al punto che Timar fu di nuovo sfiorato dall'idea di un complotto ordito contro di lui.

  "Entri, dottore! Come sta? Ha saputo quel che è successo?".

  Il commissario indicò Timar con un'occhiata. Il medico parlò sottovoce: "Cosa accadrà adesso?".

  "Saremo costretti ad arrestarla. Dopo un simile scandalo...".

  Il dottore, rivolgendosi a Timar, borbottò con la stessa freddezza del poliziotto: "È lei che ha provocato tutta quella cagnara?".

  Nel frattempo, sollevò la palpebra di Timar, la lasciò ricadere, gli tastò il polso - cinque secondi appena - e squadrò il giovane dalla testa ai piedi, mugugnando: "Già!".

  Quindi si voltò verso il commissario: "Le dispiace venire un momento di là?".

  Confabularono a voce bassa, sulla veranda. Infine il commissario rientrò nella stanza, grattandosi la fronte, e fece venire subito un boy: "Chiamami il governatore al telefono".

  Poi, all'apparecchio: "Pronto! Come pensavamo, sì! Provvedo ad accompagnarlo? Anche se così non fosse, non potrei fare diversamente, a causa dello stato d'animo dei commercianti di legname. Sarà lì anche lei?".

  Prese il casco e disse a Timar: "Venga".

  Timar lo seguì, meravigliandosi lui stesso della propria docilità. Non reagiva più. Non avrebbe mai immaginato di poter essere così stanco, così svuotato nella testa e nel corpo. Entrò, dietro al commissario, nel cortile dell'ospedale, senza chiedersi perché mai fosse stato condotto lì. La macchina del governatore era già arrivata. In una camera molto pulita, di certo più pulita di quelle dell'albergo, c'era il governatore in persona. Ignorò la mano tesa di Timar.

  "Non so se si rende conto di quello che ha combinato, giovanotto!".

  No! A essere sinceri, si rendeva e non si rendeva conto. Aveva fatto a pugni.

  Ricordava un negro e una negra che salmodiavano in una sala surriscaldata, e Adèle che lo fissava da lontano come a ipnotizzarlo.

  "Le è rimasto del denaro?".

  "Penso di averne ancora un po'"in banca".

  "Allora le do un consiglio. Tra due giorni, una nave, la Foucault, rientra in Francia. La prenda!".

  Timar cominciò ad agitarsi. Sforzandosi di assumere un atteggiamento dignitoso, disse: "Vorrei parlarle di questa storia di Adèle".

  "Un'altra volta. Si metta a letto".

  Il governatore e il commissario uscirono, l'uno più freddo e sprezzante dell'altro. Poi Timar si era addormentato. Aveva avuto la febbre alta e un mal di testa insopportabile. Non faceva che ripetere all'infermiere: "E questo maledetto ossicino, proprio qui, alla base del cranio!".

  Adesso si trovava a bordo. Non c'era stata, per così dire, alcuna transizione.

  Il commissario era andato a trovarlo un paio di volte nella sua camera. Timar gli aveva chiesto se poteva vedere Adèle.

  "Meglio di no".

  "Ma lei che dice?".

  "Non dice niente".

  "E il dottore? Sostiene che sono pazzo, non è vero?".

  Questo lo seccava. Si rendeva conto di avere l'aria di un pazzo, ma era certo di non esserlo. È vero, faceva smorfie e gesti da pazzo! E, a volte, gli si agitavano in testa pensieri confusi da pazzo!

  "Non esiste!".

  No! Ne era sicuro! E lo dimostrava la sua calma! Aveva fatto i bagagli da solo!

  Si era accorto che mancavano gli abiti bianchi e li aveva richiesti, ben sapendo che a bordo, sino a Tenerife, la gente usa vestirsi di bianco.

  Alle sette del mattino, sul molo, da solo con i facchini, si era girato sogghignando verso la strada rossa orlata di palme da cocco che si stagliavano contro il cielo, e aveva esclamato: "Non esiste!".

  Esisteva, ovviamente, ma lui si capiva! Così come capiva che tutto questo era soltanto uno stato passeggero. E, dunque, non ne provava vergogna.

  Era salito sulla scialuppa. D'un tratto, con il viso nascosto fra le mani, aveva mormorato: "Adèle!".

  Aveva stretto i denti. Attraverso le dita, vedeva i negri che sorridevano. Il mare era calmo.

  Finito! Ormai l'Africa era scomparsa alla vista.

  Gli si avvicinò il barman.

  "Desidera?".

  "Un'aranciata!".

  E, in un breve scambio di sguardi, Timar intuì che anche il barman lo prendeva per pazzo. Probabilmente erano state avvertite le autorità di bordo.

  "Non esiste!".

  Un treno... Quale treno?... Ah, sì! Il treno della Rochelle, e sua sorella che sventolava il fazzoletto...

  Rifletteva, seduto in una poltrona di vimini. Era vestito di nero, perché i suoi abiti coloniali non erano stati recuperati. In fondo, gli faceva piacere distinguersi dagli altri passeggeri. C'erano molti ufficiali, troppi.

  "Troppi galloni!" borbottò.

  E troppi funzionari! Troppi bambini che correvano sul ponte!

  Cos'è che gli ricordava? Ah già, Adèle! Anche lei era sempre vestita di nero!

  Solo che non aveva bambini e sotto il vestito era nuda. Mentre la negra era nuda senza vestito!

  Si ricordava benissimo! Di tutto! Era molto più furbo di quanto credessero!

  Avevano cercato di condannare il padre della negra! Timar l'aveva salvato e loro si erano messi d'accordo per picchiarlo.

  Perché era una cospirazione! C'erano dentro tutti! Anche il governatore, e il procuratore, e i commercianti di legname! E tutti andavano a letto con Adèle, naturalmente!

  Alcuni passeggeri, in bianco, facevano dieci, cento volte il giro del ponte per ammazzare il tempo.

  "Ammazzare? Non esiste!".

  E d'improvviso Timar smise di pensare, o piuttosto di pensare così velocemente.

  Restò come sospeso. Si vedeva dall'esterno, vestito di nero, con il casco sulla nuca, seduto al bar del piroscafo. Stava tornando in Francia!

  Doveva aver ricevuto dei colpi in testa. Aveva rischiato di diventare pazzo, e tale lo credevano. Ma non sarebbe) durata a lungo, lo sentiva! Lo sentiva con tanta chiarezza che rinviava il momento di guarire, di pensare davvero, per tutto il tempo!

  Era un piccolo trucco. Rifletteva a voce alta. Socchiudeva gli occhi e le immagini si mescolavano, deformate come nei sogni.

  Stava facendo buio. Al tavolo accanto, alcune persone - dei funzionari, naturalmente - giocavano a belote e bevevano pernod. Come a Libreville! Da Adèle! Anche lui aveva imparato a giocare a belote! Non era difficile!

  Già un'altra sera... Sì, qualche settimana dopo... Un po'"prima di arrivare nella concessione... Sulla lancia... Insomma, sì, aveva avuto una crisi... Si era dibattuto... Aveva picchiato... Lo avevano messo a letto...

  Adèle era sdraiata, nuda, al suo fianco. Si spiavano a vicenda. Facevano finta di dormire, ma poi Timar aveva preso sonno e lei ne aveva approfittato per filarsela. Quando si era svegliato, Adèle non c'era più!

  La giovane negra era vergine.

  "Non esiste!".

  C'era un continuo viavai di gente, fra gli altri un giovane tenente deciso a non togliersi il casco, nonostante il sole fosse tramontato. Un capitano che giocava a belote gli gridò: "Paura del colpo di luna?".

  Timar si girò di scatto. Quell'espressione l'aveva già sentita, non ricordava dove, mentre dormiva o mentre si agitava! E dato che era stata pronunciata con la stessa ironia, fissò con aria aggressiva il capitano, come se esigesse da lui una spiegazione o delle scuse.

  Ci fu un breve conciliabolo a bassa voce. I giocatori si alzarono.

  "Andiamo a cambiarci?".

  E Timar, in piedi sul ponte, lanciò alle loro spalle uno sguardo diffidente.

  A cena, solo a un tavolo, fu molto tranquillo. Si limitò a sogghignare di tanto in tanto, dato che la gente lo guardava con una curiosità piena di commiserazione, e a mormorare di proposito frasi sconnesse.

  La cosa divertiva in particolare una ragazzina, e Timar si divertiva altrettanto vedendola ridere di nascosto, dietro il tovagliolo.

  Non aveva importanza! Lo sapeva bene! Come la marea! Arriva sempre l'ora in cui il mare, anche se sembra in tempesta, si ritira. È matematico!

  Nella sua testa le immagini diventavano via via meno confuse, meno ingarbugliate. Tranne la notte. Due volte Timar si mise a gridare, seduto sulla cuccetta, inondato di sudore, con le membra tremanti, cercando con la mano il corpo di Adèle.

  Ma non era più come prima. Era notte! E Adèle non c'era. O, meglio, c'era, ma lui non poteva toccarla, prenderla, accarezzare il suo seno candido.

  Inoltre, il letto era occupato dalla negra, inerte e rassegnata. Bisognava sistemare le cose, prendere una decisione, forse partire insieme ad Adèle, andare lontano, molto lontano...

  Sì, per non parlarne più! Niente Africa! Niente Gabon! Niente tronco di okumé!

  Meglio dare il tronco ai negri e lasciare che se la sbrigasse Constantinesco!

  Solo Adèle contava, nelle strisce d'ombra e di luce, nel letto umido di sudore.

  Poi sarebbe scesa dabbasso Timar, con l'orecchio teso, avrebbe sentito gli andirivieni del boy che spazzava il pavimento mentre lei faceva i conti dietro il bancone.

  Fu svegliato dal medico di bordo, un giovanotto stupido, che si sentiva in dovere di recitare la commedia.

  "Mi dicono che siamo della stessa città. Allora...".

  "Di dov'è/, lei?".

  "La Fallice!".

  "Non è la stessa città!".

  Certo! Tre chilometri di distanza, ma tre chilometri sono pur sempre qualcosa!

  Senza considerare che il medico aveva una faccia da idiota e gli occhi bovini. In realtà, voleva solo sapere come stava Timar. Ebbene, era calmo!

  "Ha passato una notte tranquilla?".

  "Pessima!".

  "È inutile dirle che di qualunque farmaco avesse bisogno...".

  "Non esiste!".

  Che lo lasciassero in pace! Chiedeva solo questo! Non aveva bisogno di nessuno!

  E tantomeno dei medici! Lui era più intelligente di tutti i medici del mondo!

  E anche più intelligente di com'era prima! Perché ora aveva le antenne! Intuiva cose troppo sottili per la maggior parte degli uomini. Intuiva tutto, anche il futuro, la visita che gli avrebbe fatto alla Rochelle, nella loro casetta di rue ChefdeVille, il medico di famiglia, ostentando pure lui un sorriso cordiale: "Allora, Joseph, vecchio mio, come va?".

  E sua madre, e sua sorella, e tutti gli altri, a preoccuparsi per lui. E il dottore che, andandosene, avrebbe sussurrato in corridoio: "Un po'"di riposo. Passerà!".

  Diamine! E l'avrebbero circondato di attenzioni. Gli avrebbero riparlato della cugina Blanche, quella di Cognac, e una domenica lei sarebbe spuntata con un vestito rosa comprato per l'occasione!

  D'accordo! L'avrebbe sposata, come no! Purché lo lasciassero in pace! E avrebbe accettato l'impiego alle raffinerie di petrolio di cui gli avevano già parlato!

  Alla Fallice, appunto! In un quartiere dove, a cento metri dal mare, avevano costruito delle orrende case a schiera per gli operai! Lui, invece, avrebbe avuto una casa più grande, con il giardino, "genere villa"! E una moto! Sarebbe diventato un tipo tranquillo e gentile! Non ne aveva mai avuto tanta voglia!

  Chissà, magari si sarebbe anche convinto ad avere dei bambini.

  Le persone che lo incrociavano, sul ponte o nel salone della musica, non potevano sapere che lui aveva le antenne, e si giravano, stupite, mormorando fra loro.

  "E con ciò?".

  Il momento più bello, sì, proprio il più bello di tutti, era quando le dodici pagaie si alzavano in perfetta sincronia e, per una frazione di secondo, i dodici negri trattenevano il fiato, e dodici paia di occhi erano puntate sul bianco, per poi emettere un sospiro profondo.

  E subito le dodici pagaie affondavano nell'acqua, gli addomi si contraevano, i muscoli guizzavano; nuove perle di sudore brillavano sulla pelle dei rematori e perle d'acqua schizzavano tutt'intorno alla piroga!

  Ma non era il caso di parlarne! Nessuno avrebbe capito!

  Soprattutto nel suo ufficio della Fallice! Soprattutto a Blanche, che era una bella ragazza.

  "Non esiste!".

  Incontrò lo sguardo divertito del barman, che l'apostrofò: "Buongiorno, signor Timar!".

  "Buongiorno!".

  "Scende a terra, a Cotonou?".

  "A terra? Non esiste!".

  Il barman gli sorrise con aria complice: "Le servo un'aranciata?".

  "Un'aranciata, sì. E già! Mi hanno proibito il whisky? Bè, il whisky non esiste!".

  Ma lo diceva senza convinzione. C'erano dei momenti, come questo, in cui era perfettamente calmo, perfettamente freddo, e vedeva le cose con assoluta chiarezza.

  Non doveva farlo! Non ancora! Oppure... Forse, ad esempio, sarebbe stato capace di punto in bianco di gettarsi in acqua! Ma neanche questo doveva fare!

  La prua tagliava lentamente la seta grigioazzurra del mare. I tavolini del bar erano all'ombra. Un marinaio dipingeva di rosso l'interno delle bocche di areazione.

  Timar giurava a se stesso di essere gentile! Con Blanche e con tutti, alla Rochelle e alla Fallice! Avrebbe visto partire delle navi per l'Africa! E anche dei giovani! E dei funzionari!

  Ma non avrebbe detto niente! Proprio niente! Solo che a volte, di notte, avrebbe avuto il suo colpo di luna, la sua crisi, come si dice, e questo l'avrebbe aiutato, nel vuoto del letto, a ritrovare la carne troppo bianca di Adèle e l'aria pesante, e un sottofondo di sudore, e l'odore dei rematori neri, mentre sua moglie, in camicia da notte, gli avrebbe preparato una tisana.

  Sulla nave alcuni si voltavano ancora al suo passaggio. E invece lui era così calmo, collegava i pensieri con tanta precisione, con tanto controllo, che provò il bisogno di confonderli un po', non foss'altro per divertire il pubblico.

  Perciò, spiando i volti con quei suoi occhietti febbricitanti e ironici, disse a voce alta: "L'Africa non esiste!".

  E per un quarto d'ora ripeté, andando su e giù per il ponte con aria seria: "L'Africa non esiste! L'Africa...".