mercoledì 15 gennaio 2020


FREDDO A LUGLIO
Joe R. Lansdale 
(Cold In July, 1989)

Questo romanzo è dedicato con grande affetto e stima alla memoria di Ray Puechner, mio grande amico e agente.
Era un tipo molto speciale, e mi mancherà.

Desidero ringraziare Gary L. Brittain, David G. Porter e Bob LaBorde per i loro consigli su alcuni specifici dettagli tecnici all'interno del romanzo.

Chiunque combatta i mostri, dovrebbe fare in modo di non diventare un mostro a sua volta.
Nietzsche

Prima parte
Figli

1

Quella notte fu Ann la prima a sentire un rumore.
Io stavo dormendo. Da un po' di giorni non riposavo tanto bene a causa di certe grane al lavoro, e anche perché le due notti precedenti il nostro bambino di quattro anni, Jordan, era stato male, con vomito e tosse, costringendoci ad alzarci dal letto di continuo. Quella notte però Jordan dormiva di un sonno profondo, e io con lui.
Fui risvegliato dal gomito di Ann conficcato nelle costole, e dalla sua domanda sussurrata: «Hai sentito?»
Non avevo sentito nulla. Però, dal tono della sua voce, potevo star tranquillo che lei aveva sentito sul serio qualcosa, e non era il richiamo di un rapace notturno o un cane che frugava nei bidoni dietro casa. Ann non era una che si spaventava facilmente, ed era dotata di un udito incredibile, che compensava forse la miopia.
Mi girai sulla schiena, mettendomi in ascolto. Un istante più tardi anch'io avvertii un rumore. Qualcuno stava facendo scivolare con cautela la porta a vetri che dal soggiorno si apriva sul retro. Forse poco prima Ann l'aveva sentito mentre forzava la serratura. Appena mi ricordai di Jordan che dormiva nella stanza dall'altra parte del corridoio, la pelle d'oca mi ricoprì con un'ondata gelida che culminò sulla cima del cranio.
Accostai le labbra all'orecchio di Ann sibilando uno ssst. Scivolato fuori dal letto, afferrai per abitudine la vestaglia appesa alla spalliera, infilandomela. Il lampione del cortile posteriore faceva filtrare i suoi raggi attraverso una fessura tra le tende, permettendomi di vederci quel tanto che bastava a raggiungere il guardaroba, aprirlo e tirar giù dal ripiano più alto una scatola da scarpe che appoggiai sul letto. Dentro trovai la calibro 38 a canna corta e una scatola di munizioni. Caricai velocemente la pistola, alla cieca. Solo quando ebbi finito mi accorsi, dallo stordimento che provavo, che avevo trattenuto il fiato per tutto quel tempo.
Da quando Jordan s'era ammalato, avevamo preso l'abitudine di lasciare aperta la porta della nostra camera, in modo da poterlo sentire nel caso ci chiamasse durante la notte. Così mi fu facile scivolare nel corridoio, impugnando la .38 stretta contro la coscia. In quel momento rimpiansi di non abitare più in città, invece che in quella fattoria di cinque acri accanto alla strada per i laghi. Non vivevamo completamente isolati, ma in situazioni del genere non faceva molta differenza. Il vicino più prossimo abitava a quattrocento metri, e la nostra casa era circondata da una folta pineta e relativo sottobosco, ricettacolo d'ombre.
Strano: mentre attraversavo il corridoio, notai con lucidità quanto fosse angusto, e valutai la disposizione della casa. Anche il soffitto mi sembrò basso e soffocante. Tra le dita dei piedi la trama della moquette pungeva come una distesa d'aghi. Mi chiesi oziosamente se era anche abbastanza folta da potercisi nascondere dentro.
Ormai riuscivo a scorgere il raggio della torcia elettrica che svolazzava nel soggiorno come una falena che cerca di scappare da un vaso, e sentivo un rumore di suole che scivolavano silenziose sul tappeto.
Cercando di mandar giù un groppo in gola grande quanto un pompelmo, mi feci avanti palmo a palmo fino a svoltare con circospezione l'angolo del salone.
Il ladro mi dava le spalle, stagliato contro la luce del lampione sul retro che penetrava attraverso la porta a vetri. Era alto e snello, vestito con abiti scuri e con un berretto di lana altrettanto scuro. In quel momento teneva la luce della torcia puntata contro un quadro alla parete, e probabilmente stava decidendo se valesse la pena rubarlo.
Fatica sprecata. Era una crosta di paesaggio raccattata alla fiera campestre, che Ann e io avevamo comprato solo perché conoscevamo l'autore. Riusciva a coprire quel tratto di parete quanto un Picasso.
Evidentemente il ladro giunse alla medesima conclusione sul suo valore, perché si disinteressò subito del dipinto. Quando si girò, la luce della torcia elettrica cadde su di me.
Per un istante rimanemmo entrambi impietriti, poi la torcia oscillò mentre lui portava la mano libera alla cintura. D'istinto capii che stava cercando una pistola. Eppure non riuscii a muovermi. Sembrava quasi che mi avessero pompato del cemento a presa rapida nelle vene e nei pori.
L'uomo estrasse la pistola dalla cintura e fece fuoco. La pallottola mi sfiorò la testa andando a conficcarsi nella parete alle mie spalle. Senza starci realmente a pensare, puntai la .38 e premetti il grilletto.
La testa dell'uomo scattò all'indietro, poi rimbalzò in avanti. Il berretto di lana s'inclinò di lato, senza sfilarsi dal capo. Poi il ladro si andò ad accomodare sul divano con un goffo passo all'indietro, come se fosse molto stanco. La rivoltella cadde sul pavimento, l'altra mano si lasciò sfuggire la torcia.
Non volevo distogliere lo sguardo da quell'uomo, eppure, quasi ipnotizzato, seguii la traiettoria della torcia, che rotolò sul piancito verso di me, si fermò, arretrò di un giro, e infine rimase immobile, con il suo raggio che mi si spandeva ai piedi come una pozzanghera di miele liquido.
M'accorsi che mi fischiavano le orecchie per il fragore della sparatoria, e che non ero più imbragato nel cemento. Ero tutto scosso da un tremito, con la pistola ancora puntata contro il ladro, il quale sembrava intenzionato a restarsene in panciolle sul divano.
Presi fiato con un lungo respiro e mi feci avanti.
«È morto?»
Spiccai un balzo di quasi mezzo metro. Era Ann, che m'era scivolata alle spalle in silenzio.
«Non lo so, maledizione. Accendi la luce.»
«Tu stai bene?»
«A parte che mi sono cagato addosso, sto benone. Accendi la luce.»
Ann premette l'interruttore. Avanzai con la pistola spianata, quasi mi aspettassi che il ladro potesse scattare in piedi da un momento all'altro per aggredirmi.
Non si mosse. Si limitò a starsene seduto, con un'aria molto serena e molto viva.
Tranne che per l'occhio destro, che rovinava l'effetto realistico. Non c'era più. Al suo posto spiccava un buco nero e umido, dai cui bordi traboccava del sangue che scendeva in rivoli lungo le guance, come un fiume di lacrime scarlatte.
Mi sorpresi a fissare intento l'occhio sano, che era ancora vivido, ma si stava pian piano opacizzando. Pareva morbido e bruno come quello di un daino.
Distolsi lo sguardo, solo per scoprire un particolare altrettanto agghiacciante. Il muro sopra il divano era imbrattato da schizzi di sangue, di grumi di materia cerebrale e di piccole schegge bianche che potevano essere frammenti ossei, in parte cosparsi sul mediocre paesaggio. Chissà che aspetto aveva il foro d'uscita sulla nuca. Ho letto non so dove che la pallottola, uscendo, apre un foro parecchie volte più grande di quello d'entrata. In un lampo di follia mi domandai se ci si poteva ficcare dentro un pugno per rimestare.
Non era però un particolare che ci tenessi davvero a controllare.
Barcollando, ficcai la rivoltella nella tasca della vestaglia. La stanza era torrida, sembrava, come me, sul punto di liquefarsi, quasi fatta di cera. Cascai giù come una pera, a braccia spalancate, aggrappandomi alle ginocchia del morto per non finire lungo disteso. Attraverso i pantaloni percepii il calore fievole della sua carne.
«Non guardarlo» mi consigliò Ann.
«Dio, il suo cervello del cazzo è sparpagliato su tutto quel muro di merda.»
A quel punto Ann fu vinta dal voltastomaco e mi crollò accanto, con le braccia attorno alle mie spalle. Ci ritrovammo entrambi in ginocchio a capo chino, come monaci di fronte all'altare. Però dalle nostre bocche, invece di una preghiera, scaturì il vomito, andando a imbrattare il tappeto e le scarpe del morto.
Intanto Jordan se la dormiva alla grande.

2

I poliziotti furono gentilissimi. Davvero gentili. Arrivarono in dieci. Sei in uniforme, gli altri erano agenti investigativi in borghese. I detective non somigliavano ai piedipiatti della televisione che mi sarei aspettato. Altro che sbirri sciattoni infagottati dentro un trench aperto, con la cravatta impadellata di salsa al chili. Erano addirittura eleganti. Per niente maleducati. Estremamente cortesi. Mostrandosi per nulla sospettosi, registrarono gli eventi senza batter ciglio.
Il responsabile delle indagini era un tal tenente Price, che sembrava una stella del cinema. Avrà avuto trentacinque anni, taglio di capelli impeccabile e smaglianti occhi azzurri intonati al vestito costoso. Le sue scarpe erano così lustre che ti accecavano.
Price mi si avvicinò, stringendomi un braccio. «Tutto bene, signor Dane?»
«Sì» risposi, mentre assaporavo il retrogusto del vomito. «Bel guaio.»
«Non poteva fare altrimenti. Ha sparato lui per primo.»
Assentii. Non mi rammaricavo per quel che avevo commesso, ero solo dispiaciuto per esserci stato costretto.
«Una volta ho ucciso un uomo» continuò Price. «Nell'esercizio del mio dovere. È stato difficile superarlo. A esser franchi, non lo si supera mai. Non se sei un essere umano. Però non deve prendersela con se stesso.»
«Certo che no, ma non mi aiuta a stare meglio.»
Ann s'era rifugiata in camera da letto con Jordan, che s'era finalmente svegliato per il trambusto sollevato dai poliziotti, e rimaneva con lui sul retro della casa perché non vedesse il morto.
Il morto.
Lanciai uno sguardo verso il divano dove prima stava seduto il ladro, verso quello che immaginavo fosse l'avvallamento prodotto dal suo corpo, anche se sapevo benissimo che era un'impronta permanente causata dalle molle sfondate e dal logorio. A segnare il passaggio del defunto restava solo lo sfregio di uno sbaffo di sangue sui cuscini. In quella situa¬zione stravagante, la roba sul muro e sopra il paesaggio pare¬va una vivida pittura astratta.
Il giudice di pace era arrivato, gli occhi pieni di sonno, vestito sommariamente con la giacca del pigiama e un paio di jeans con una gamba infilata dentro lo stivale da cowboy e l'altra fuori. Dichiarato l'uomo cadavere, il giudice di pace aveva borbottato qualcosa sul motivo per cui anche i paesini dovrebbero essere provvisti di un coroner. Dopo la sua partenza, la polizia aveva controllato la salma e scatta¬to fotografie, e infine due tizi delle pompe funebri s'erano portati via il corpo.
Continuai per un po' a fissare il muro: la macchia insan¬guinata non sembrava più un dipinto, anzi, adesso più che altro dava l'idea che qualcuno avesse tirato dei pomodori marci contro la parete. Quel pensiero mi scatenò una crisi di vertigini, provocandomi solo dei secchi conati di vomito, per¬ché non mi restava più niente da rimettere.
Inspirai profondamente, ma non servi a nulla. L'aria sem¬brava pervasa dall'aroma acido del vomito stantio e dal sen¬tore ramato del sangue.
«Farebbe meglio a sedersi» suggerì Price.
«Sto bene.»
«Si sieda lo stesso.»
Evidentemente ero diventato bianco come un cencio. Price mi condusse a una sedia e mi si accovacciò accanto.
«Vuole che le porti un bicchiere d'acqua? Qualcosa?»
«Sto bene. Lo conoscevate quell'uomo?»
«Perfettamente. Si chiamava Freddy Russel. Un pesce pic¬colo. Compiva furtarelli saltuari, soprattutto in zona. Era di queste parti, mi duole ammetterlo. Dentro e fuori dalla gale¬ra, proprio come il suo vecchio. Gli ha fatto un favore, a quel disgraziato.»
«Come no.»
«Ci rimarrebbe di stucco se le raccontassi come certe vol¬te banditi del genere agiscono con imprudenza programmata, sperando di farsi beccare in modo da tornarsene al fresco, dove la vita per loro è più comoda. O forse sperano in qual¬cosa di più definitivo. Come una pallottola.»
«Non mi pareva che cercasse di farsi ammazzare quando mi ha sparato.»
Price sorrise. «Uno a zero per lei. Questo mette a posto noi psicologi della domenica.»
«La ringrazio perché si dà tanto da fare per rincuorarmi. È molto gentile da parte sua.»
«Come le ho detto, ci sono già passato. Senta, pensa di far¬cela a venire alla stazione di polizia per rilasciare una depo¬sizione formale? Non ci metteremo molto. Ci penserà l'auto di pattuglia ad accompagnarla e a riportarla a casa. Nel frat¬tempo lasceremo qui un agente assieme a sua moglie e al bambino. La signora può venire a rendere la sua deposizione domani, quando preferisce.»
«Bene. Lo dico ad Ann e mi vesto.»

3

Fu una passeggiata. Ripetei a Price le stesse cose che gli avevo già detto a casa, solo che ora mi sentivo più distacca¬to, come se l'incidente fosse capitato a qualcun altro e io ne fossi stato solo un testimone lontano.
La stanza dove Price raccolse la mia deposizione puzzava di fumo stantio, ma era l'unico aspetto che corrisponde¬va alla mia immagine di una stazione di polizia. Sembrava piuttosto la sede di una compagnia di assicurazioni. Avevo visto troppi film e sceneggiati televisivi, e mi aspettavo pol¬vere, ragnatele, tazzine da caffè usate, pizze sbocconcellate e troppa luce.
In quella stanza invece non si notavano tanti mobili o sup¬pellettili. Qualche encomio alle pareti, uno schedario, una scrivania ordinata, la macchina da scrivere con carta sul rul¬lo, e Price dietro i tasti. In pratica, noi due eravamo gli unici nella stanza.
Ci misi venti minuti per ripetere tutto dalla A alla Z.
«E ora?» domandai.
«Poca roba. Il caso passa al gran giuri, che controllerà la sua dichiarazione, quella di sua moglie, la mia, poi la proscio¬glierà. Non le toccherà nemmeno andare in tribunale.»
«Ne è sicuro?»
«Caso lampante di legittima difesa. Quello è entrato con l'intenzione di rubare e le ha sparato. La sua pistola, signor Dane, era in regola. Lui è un ben noto malvivente, lei un one¬sto membro della comunità. Non abbiamo motivo di sospet¬tarla di nulla. È finita. Tranne che per la pistola. Ce la terre¬mo per un po', fino a quando lei non sarà stato prosciolto, poi gliela restituiremo. Adesso un agente la riporterà a casa.»

Quando rientrai, il poliziotto che era rimasto con Ann mi fece un cenno col capo e si accomiatò assieme al collega. Sprofondai nella poltrona del soggiorno fissando il divano. Escludevo categoricamente di poter tornare a usarlo, perciò progettai di farlo portar via la mattina dopo e di comprarne un altro. Volevo anche sbarazzarmi del paesaggio insangui¬nato e far ridipingere il muro. Cristo, avevo proprio una gran voglia di traslocare, e l'avrei anche fatto se solo me lo fossi potuto permettere.
Ann venne a sedersi sul bordo della poltrona, mettendomi un braccio intorno alle spalle. «Ti senti bene?»
«Per quel che posso. Va' a letto, tesoro. Ti raggiungo su¬bito.»
«Voglio pulire un minimo... prima che si alzi Jordan.»
Compresi a cosa alludeva, la parete, il divano e il dipinto, anche se non riusciva a formularlo a parole.
«Dici che facciamo bene?» le chiesi. «Sono prove, roba del genere. La polizia non se la prenderà?»
«L'agente mi ha detto che potevamo pulire quando vole¬vamo. Hanno già scattato le foto, hanno già fatto tutto quello che dovevano.»
«Ti do una mano.»

Con una bacinella di plastica piena d'acqua calda sapona¬ta strofinammo il divano e, dopo aver buttato il quadro nella spazzatura, ripulimmo il muro meglio che potemmo. Il diva¬no era da buttare. Il sangue era filtrato nel tessuto, imbrattan¬dolo di scuro ed esalando nell'ambiente un vago odore che ci ricordava la sparatoria.
Strofinammo il tappeto e lo spolverammo di bicarbonato per eliminare la puzza di vomito. A qualcosa servi. Alla fine, rovesciai l'acqua saponata nel lavello, restando ad ammirare i mulinelli scuri che scendevano verso le tubature, quindi get¬tai gli strofinacci e spruzzai in giro del deodorante.
Chissà perché, lo spray mi parve sinistramente comico. Mi immaginai una pubblicità di deodorante nella quale l'annun¬ciatore proclamava che non copriva soltanto l'odore di pesce e cipolle, bensì anche di sangue, cervello e vomito.
Ann s'infilò sotto la doccia e io mi lavai nella vasca, sen¬tendomi come Lady Macbeth alle prese con la sua macchia malefica, anche se su di me non si notava una goccia di san¬gue.
La morte vista dal vero non somigliava affatto a come ci appare in televisione. Era sporca, puzzava e ti si appiccicava addosso come una brutta malattia.
Legittima difesa o meno, non mi sentivo l'ispettore Callaghan. Stavo solo di merda, peggio di come mi fossi mai sen¬tito in vita mia.
«Andiamo a dormire» suggerì Ann, mentre usciva dalla doccia. Com'era bella. I trentacinque anni erano stati miseri¬cordiosi con lei. Forse i seni stavano lievemente cedendo, ma tutto il resto era a posto, e le tette non incidevano più di tan¬to. Era la mia donna e l'amavo, e sapevo che mi si stava of¬frendo. Lo capii da come si muoveva mentre si toglieva la cuffia da doccia, lasciando piovere sulle spalle i lunghi ca¬pelli biondi come una cascata di luce, lo capii dagli stiramenti appena esagerati e da come si passava l'asciugamano sulle gambe lunghe e lo muoveva con fare seducente sopra il pelo madido del pube.
Mi sorrise. «Perché non ci facciamo un po' di coccole?»
«Non ho molto sonno» risposi stolidamente.
«Così ce ne potremo fare un sacco. Possiamo dormire dopo.»
«Si può fare. Precedimi, vengo a letto tra un attimo. Ho ancora qualcosa da fare.»
Finì di asciugarsi e s'infilò le mutandine, facendoci scivo¬lare dentro le gambe tentatrici. Era quasi sufficiente per ecci¬tarmi, anche dopo quello che era appena successo. Quasi.
Indossò la veste da camera, mi diede un bacio sulla guan¬cia e uscì dal bagno, lasciandosi dietro la scia del profumo del sapone liquido.
Pisciai, feci la doccia e mi lavai i denti. Infilata la vesta¬glia, controllai in tutta la casa le serrature delle porte che da¬vano sull'esterno. Tutte a posto, tranne la porta scassinata, naturalmente. Ispezionai anche le finestre. Quando ebbi fi¬nito nella cameretta di Jordan, mi fermai di fianco al suo lettino, rimettendogli l'orsacchiotto sotto le coperte, che gli rincalzai. Avevo voglia di prendere una sedia e restare lì, a guardarlo dormire, ma invece uscii nel garage e, con fil di ferro e pinze, improvvisai una sottospecie di catenaccio per la porta forzata da Freddy Russel.
Poi rientrai dalla cucina, per versarmi un bicchiere di lat¬te. La casa mi sembrava strana, come se non fosse più mia. Non era più un santuario. Era stata profanata. Mi sentivo qua¬si la vittima di uno stupro. Violato. La nostra casa non era più un rifugio personale, pervaso dalle nostre anime, dai no¬stri pensieri, magari dai nostri litigi. Ora non era altro che un oggetto di vetro, legno e mattoni che un qualsiasi delinquen¬te con una sbarra e un cacciavite poteva scassinare.
Il latte sapeva di gesso e mi si depositò nello stomaco con il peso specifico del mercurio. Gettai il resto e me ne andai a letto.
Ann dormiva già, con mio sollievo. Avevo temuto che si sarebbe prodigata in una scopata di consolazione. Pronto soc¬corso sessuale. Si comportava così, a volte, e io lo detestavo. Lei aveva le migliori intenzioni, che però non bastavano a farmelo piacere. Quella notte mi avrebbe fatto schifo, per quanto amassi Ann o per quanto lei potesse essere seducente.
Rimasi sdraiato a contemplare il soffitto, ascoltando il re¬spiro di mia moglie. Mentre lo stomaco continuava a fare il burro col latte, un replay dell'incidente mi ripassava all'infi¬nito nella mente: vortici d'ombra, suoni soffocati, una torcia, l'acciaio del revolver, lo spostamento d'aria di una pallottola presso l'orecchio, la detonazione della mia pistola, le luci che si accendono, l'orbita vuota, sangue e materia cerebrale sul quadro col paesaggio, proprio sulla parete dove attaccavamo gli auguri di Natale.
Fu solo verso l'alba che riuscii ad addormentarmi.

4

Avrei potuto dormire fino a tardi, ma rinunciai. Mi alzai e mi vestii per andare al lavoro, poi mi sedetti al tavolo di cu¬cina insieme ad Ann e Jordan.
Come al solito, Jordan giocherellava col cibo. Non passa¬va mai un giorno senza che scoppiasse qualche bisticcio tra me e il bambino, o tra Jordan e sua madre, per colpa del modo in cui mangiava o si trastullava a tavola. Il piccolo non era autorizzato a uscire di casa finché non s'era scolato tutto il latte. Era una specie di rituale mattutino.
E c'erano migliaia di piccoli gesti di Jordan che mi man¬davano in bestia, come pure Ann. Io e mia moglie ogni gior¬no passavamo dalla gioia all'incazzatura totale, cercando di comprendere se eravamo noi eccessivamente esigenti per un bimbo di quattro anni oppure se Jordan era la reincarnazione di Pierino la Peste. O peggio, un delinquente in via di for¬mazione, creato da noi, maturato dalle nostre rabbie e im¬pazienze, forgiato da un patrimonio genetico nel quale ave¬va conservato tutti gli aspetti che detestavamo di noi stessi e nessuno dei lati che apprezzavamo.
Ogni notte, quando andavo a letto, pensavo anche che for¬se non mi prodigavo abbastanza, nonostante tutti i miei sfor¬zi. Non passava giorno che non lo sgridassi, o che non per¬dessi le staffe, e di sicuro gli dicevo più spesso no che sì. Per quanto mi ripromettessi di continuo di stare ad ascoltare le sue descrizioni delle gesta della Pantera Rosa o di Picchiarello, c'erano volte in cui la sua vocetta aveva su di me l'ef¬fetto del gesso che stride sulla lavagna e così preferivo smor¬zare il suo entusiasmo, capendo anche che lui si accorgeva della mia freddezza.
E c'era l'altra bambina, quella a cui pensavo più spesso di quanto non mi sarei aspettato. Quella che Ann s'era portata dentro per otto mesi e mezzo e avevo sentito muovere nella sua pancia, che gorgogliava là dentro quando posavo l'orec¬chio sul ventre. La stessa bambina che la riempi di veleno mandandola per alcuni giorni all'ospedale e provocando quel¬la telefonata in piena notte in cui lei mi informò che la nostra piccina era morta, e poi scoppiò a piangere.
Le indussero il parto con dei farmaci, dopodiché ci regala¬rono il cadaverino. Una bambina. Dissero che se non la vo¬levamo avrebbero praticato l'autopsia sul corpo a fini di ri¬cerca, e quindi avrebbero provveduto a eliminarla. Più tardi scoprii che, nel caso l'avessimo reclamata, ce l'avrebbero consegnata in un sacchetto nero per le immondizie.
Certe volte pensavo che almeno avremmo dovuto darle un'occhiata. Forse anche darle un nome e seppellirla. Altre volte sentivo che avevamo fatto la scelta giusta. Giusta o sba¬gliata che fosse, il volto della bambina che non ho mai visto mi raggiungeva in sogno; una faccina grigia, congelata, con gli occhi spalancati, ed erano gli occhi di Ann, verde chiaro, chiaro. E mi svegliavo, grondante di sudore.
Certe volte andavo con la macchina fino all'ospedale a os¬servare le nubi scure che gli aleggiavano sopra, nuvole che sembravano promettere tempesta. Sapevo che era il fumo de¬gli inceneritori neri sul retro, attraverso i quali si sbarazzavano delle placente e delle cavie di laboratorio. E mi domandavo se la mia bambina senza nome fosse passata di lì dopo l'autopsia. Soltanto carne sconciata in un sacco nero per l'immondizia, carbonizzata, incenerita, trasformata in fuliggine che sarebbe rimasta attaccata al tetto dell'ospedale e alle mura esterne.
E quando sognavo o pensavo queste cose, tornavo sempre con la mente a Jordan, chiedendomi come riuscisse a reggere le mie tante manchevolezze nel ruolo di padre. In quei mo¬menti, mi sentivo un pessimo attore che interpreta la parte di un genitore alla recita scolastica.
Quella mattina decisi che non mi sarei fatto smuovere da nulla. Era la milionesima volta che ricominciavo da capo. Ogni volta avevo tradito la consegna ma, come in una sorta di esercizio Zen, ero convinto che l'iterazione mi avrebbe spianato la strada. Dopo quello che era successo quella notte, guardavo il mondo sotto una luce diversa, più vulnerabile. Era bello stare a guardare il piccolo alle prese con i cereali e, come sempre, provavo un moto di malcelato orgoglio nel ri¬conoscere i miei lineamenti sul suo visino. Aveva i capelli biondi della mamma, ma gli occhi a mandorla, le labbra spor¬genti, la fossetta sul mento erano i miei.
Guardandolo in quel momento, sperai di riuscire a diven¬tare nella sua vita una presenza più duratura di quanto era sta¬to mio padre nella mia, di non ossessionarlo come aveva fat¬to mio padre con me. Sperai che, quando tutto sarebbe stato acqua passata, Jordan avrebbe conservato qualcosa di più di un vago ricordo, che rimanesse tra di noi qualcosa di più de¬gli auguri natalizi da città lontane con un «ti voglio bene» scritto in fondo.
Mi sporsi dalla sedia per baciarlo e abbracciarlo. «Buon¬giorno, ometto.»
«Cos'era tutto quel baccano stanotte, papi?» 'Baccano' era la sua nuova acquisizione verbale. L'usava a ogni pie' sospinto.
«È venuta della gente.»
«Perché?»
«Avevamo bisogno di loro.»
«Perché?»
«Per delle cose.»
«Quali cose?»
«Sciocchezze. Ti piacciono quei cereali?»
«Sì...»
Era una sbobba multicolore che conteneva troppa aria e troppo zucchero. Mi sentivo uno stronzo a propinargli quella merda, ma anche a sua madre piaceva, e quella maledetta pubblicità televisiva offriva giocattoli con ogni scatola, il che era sufficiente per fargliela piacere. E poi, come troppi geni-tori, avevo le mie debolezze. Decisi comunque seduta stante che dalla prossima spesa saremmo tornati carichi di avena e frumento, uova e pancetta affumicata, e con un'infinità di frutta. Con i complimenti di Richard Dane, assassino a tem¬po perso, padre a tempo pieno.
«Vuoi sagiare?» chiese Jordan.
Affondai il cucchiaio nella broda tirandolo su colmo di sagomine di animali. Sapeva di schifo.
«Vero che è bono?» insisteva Jordan. «Ti danno un fisbi con una tichetta.»
«Davvero?»
«Ah-ah.»
«Finisci i cereali poi mandiamo via il tagliando. Forse possiamo cominciare con i fiocchi d'avena, appena abbia¬mo finito questi. Non sarebbe un bel cambiamento? Fiocchi d'avena.»
«Non mi piaciono i focchi.»
«O le uova. E casomai le salsicce.»
«Neanche chelle mi piaciono. Solo i celiali.»
Acconsentii, non avendo intenzione di stare a discutere, già contento di essere riuscito a distoglierlo dal pensiero del¬la polizia. Ed ero ancor più grato che la notte prima non si fosse svegliato in tempo per vedere il cadavere sul divano.
«Vai a lavorare?» chiese Ann.
Vedeva che m'ero sbarbato e vestito, ma mi stava invitan¬do a rimanere a casa. Un'idea poco attraente. Restare a casa tutto il giorno con lei fuori e Jordan all'asilo sarebbe servito soltanto a farmi ripensare continuamente alla notte prima; mi tornava in mente ogni volta che guardavo il divano o la mac¬chia più chiara sul muro.
«Certo, esco.»
«Te la senti?»
«Abbastanza. Sempre meglio che restare qui.»
«Hai dormito?»
«Un po'.»
«Mi dispiace che mi sono fatta trovare addormentata quan¬do sei venuto a letto.»
«È stato meglio così. Ero comunque troppo stanco.»
«È per questo che si va a letto, papi, perché sei stanco» in¬tervenne Jordan.
Gli sorrisi. «Hai ragione. Dovevo capirlo prima.»
«Tu capisi tutto.»
Strizzai l'occhio a Ann.
«Cosa fai con l'occhio, papi?»
«M'è entrato qualcosa.»
«T'è usito?»
«Credo.»
Jordan tornò alla sua colazione, e io scoprii che avevo sul serio qualcosa nell'occhio.
Lacrime.
Prima che loro se ne potessero accorgere, mi scusai, andai in bagno e mi lavai la faccia guardandomi allo specchio. For¬se pensavo di scorgere un volto diverso che rispondeva al mio sguardo, ma era lo stesso tanghero che vedevo tutti i giorni. Ammazzare un uomo non aveva mutato minimamente il mio aspetto. Sembravo ancora un trentacinquenne in discreta sa¬lute, non brutto, lievemente stempiato.
Jordan fece capolino sulla soglia.
«Ho i miei bisognini.»
«Entra.»
«Esi prima tu.»
Gli diedi un colpetto sulla testa e chiusi la porta mentre uscivo. Le lacrime ripresero a scorrere. Dio buono, non ero mai stato un frignone. Poi capii cosa significavano quelle la¬crime. Non era solo perché avevo ammazzato un uomo. Ero improvvisamente diventato consapevole della mortalità di Jordan. M'ero fatto da tempo una ragione della mia, mai del¬la sua. Dopo la perdita della prima bambina, pensavo di es¬sere in pari coi miei debiti. Ma ora capivo che era ridicolo. Non esiste un mettersi in pari. Non ci sono garanzie.
Cominciai a pensare a cosa sarebbe successo se Ann non avesse sentito il rumore, svegliandomi immediatamente. E se fosse stato Jordan a sentirlo, se si fosse alzato a controllare, inoltrandosi nel soggiorno nella sua tutina-pigiama da Super¬man, abbracciato all'orsacchiotto?
Una scena macabra prese vita nella mia mente. Il ladro che sente Jordan, si volta, estrae la pistola, spara prima di pensar¬ci, un fiore rosso sboccia sul petto di mio figlio...
Sentendo lo scroscio dello sciacquone, andai in camera mia e chiusi la porta. Mi sedetti sulla sponda del letto, spe¬rando che Jordan non entrasse. Cercai di scacciare via tutti i pensieri funesti dalla mente, la mortalità dei miei familiari e la mia. Rimasi lì per qualche minuto, fin quando la finzione della felicità assoluta e della vita perpetua tornò di nuovo ab-bastanza reale, e il mio occhio interno divenne sufficiente¬mente cieco da non vederla scivolare dalle dita come sabbia.

5

Quando Ann uscì per andare al lavoro, concessi a Jordan pochi minuti di cartoni animati alla tivù mentre mi facevo l'ultima tazza di caffè, poi lo portai all'asilo della chiesa bat¬tista prima di recarmi anch'io a lavorare. Parcheggiai l'auto dietro la mia bottega di cornici. Erano solo le otto e mezza e già l'aria era appiccicosa. Il luglio nel Texas orientale è que¬sto. Gli alberi prima trattengono il calore, poi lo usano per asfissiarti. Certe volte il clima è così soffocante che l'umidi¬tà sembra dotata di massa propria, e quando cammini ti sem¬bra di guadare della gelatina.
Rimasi in auto a respirare il calore dell'aria di paese. No¬nostante l'afa, in momenti come questo ero contento di vi¬vere in una cittadina di quarantamila anime (compresi dieci¬mila studenti universitari fuori sede) invece che in un posto come Houston. Ann e io ci avevamo abitato brevemente quando eravamo appena sposati, e l'avevamo detestata. Era brutta, incasinata, deprimente. E c'era tutto quel crimine.
Crimine. Cazzate. Anche una cittadina come LaBorde non ne era risparmiata. Ve lo garantisce il sottoscritto, lo stermi¬natore di ladruncoli.
Tirata fuori la chiave entrai dal retro e cominciai a prepa¬rare il caffè. Alle otto e tre quarti arrivarono i miei aiutanti. Valerie e James.
Valerie è una ragazza carina e sveglia, e un'ottima corniciaia, anche se si dimostra un po' troppo brusca con i clienti. James, al contrario, non è molto in gamba a incorniciare ma è un campione nel decifrare i desideri dei clienti. Non ha però ancora capito bene quel che vuole Valerie, che lo tratta sem¬pre a pesci in faccia. James passa le giornate con gli occhi incollati al culo di lei, come uno scalatore può fissare traso¬gnato un picco agognato ma inattaccabile.
Quel giorno speravo arrivasse un sacco di lavoro per non essere costretto a restare con le mani in mano, augurando¬mi di non dover discutere troppo. Sapevo bene che, se mi fossi messo a chiacchierare a lungo su un qualsiasi argo¬mento, avrei cominciato a parlare della notte prima, e non ne avevo la minima intenzione. Se ne sarebbe discusso ab¬bastanza presto anche senza il mio contributo. Non s'era vi¬sta ombra di giornalista la notte precedente, ma l'incidente sarebbe di sicuro finito sui giornali, anche se solo nella suc-cinta cronaca nera del LaBorde Daily, che somiglia a un giornale serio come una pompa a un serpente.
Mentre Valerie e James si versavano il caffè, andai sul davanti, girai il cartello da 'Chiuso' ad 'Aperto' e spalancai la porta.
Verso le nove e mezza Ann chiamò, durante la ricreazione al liceo.
«Un attimo solo» le risposi, lanciando un'occhiata a James e Valerie che stavano nel retrobottega. Valerie era alle prese con una cornice e, china sul tavolo, concedeva a James un'ec¬cellente prospettiva delle sue chiappe, drappeggiate dall'abi¬tino rosso attillato come una pelle di tamburo. James intanto gesticolava scomposto e smozzicava qualche parola tra una tirata di sigaretta e un sorriso a trentadue denti. Mi ricordava un giocattolo meccanico. «Dimmi pure» ripresi.
«Come stai?»
«Non sono dello spirito giusto per andare a una sfilata ma direi che mi sento meglio. E tu?»
«La prossima ora prendo un permesso per andare a deporre alla centrale. Richard, a scuola lo sanno tutti. Non so come, ma è così. Alcuni insegnanti mi hanno chiesto ragguagli. Ho cer¬cato di farci due chiacchiere, ma ho dei grossi problemi a co¬municare. Anche qualche ragazzo m'ha fatto delle domande.»
«Merda. Forse è meglio se torni a casa.»
«Prima o poi lo dovrò affrontare, e credo che questo sia un momento buono quanto un altro... Sei sicuro di sentirti bene?»
«Ottimamente» mentii.
«Perfetto. Devo andare, piccolo. Ti amo.»
«Anch'io.»

Attorno alle dieci e mezzo si fece vivo Jack Crow, il po¬stino. Sbucò dalla calura di luglio, che sembrava volerlo ac¬compagnare all'interno aleggiando sulla soglia per quindici secondi buoni, come il fiato caldo di un cane.
Jack appartiene alla categoria di quegli omoni convinti che la mole, la faccia rude e il disprezzo per gli intellettuali li ren¬dano più maschi. Non si limita mai a consegnare la posta e salutare, ma deve sempre perdere qualche minuto in apprez¬zamenti sornioni su come gli piacciono le rosse, e su come Valerie sia una fanciulla coi fiocchi, le solite menate che tipi come Jack ritengono galanti. Ama anche disquisire sulle sue esperienze di caccia, di pesca e di guerra. A starlo a sentire, Hemingway era un pescatore d'acqua dolce e Audie Murphy un soldatino a molla. E lui il massimo.
«Non si sta male con l'aria condizionata, ragazzi» esordì. «Vi siete scelti un lavoretto comodo, gente. Ma, credetemi, non farei a cambio. Il mio, è un lavoro che ti tiene in forma.» Si piazzò una pacca sulla pancia. «Anche tu» prosegui squa¬drando Valerie «mi sembri in gran forma.»
«Pasti surgelati» gli rispose lei.
Jack sghignazzò che sembrava lo stessero strangolando. C'era proprio da auspicarlo.
S'appoggiò al banco fissandomi dritto negli occhi, come se fossimo vecchi confidenti, poi sbottò ad alta voce: «So che ne ha steso uno, stanotte.»
Mi venne il latte alle ginocchia. Sapevo che doveva suc¬cedere, ma mi sembrava un castigo crudele e perverso che fosse proprio Macho Jack la prima persona a tirar fuori il ca¬sino. Non sapevo come replicare, perciò tenni la bocca sigil¬lata. Provvide però Jack, al rifornimento di chiacchiere.
«Me l'ha soffiato Mack al giornale. Dice che ha beccato quel figlio di troia dritto nell'occhio, secco come un baccalà. Era un negro? Un messicano?»
Valerie e James abbandonarono il lavoro per raggiunger¬mi al banco.
«Di che si tratta?» chiese James.
«Dick ne ha fatto secco uno la scorsa notte» proclamò Jack.
Tanto per cominciare, detestavo essere chiamato Dick. È il soprannome dell'attrezzo maschile, e a questo punto tanto varrebbe chiamarmi Cazzo. E di sicuro non mi andava a ge¬nio che fosse Jack a chiamarmi così. Quello era un bastardo dal quale non avrei accettato un invito a cena.
«Ha sparato a quel cane dritto in testa» continuò Jack, sen¬za aspettare che replicassi. «Steso come una sogliola.»
«Basta così» suggerii.
«Non deve fare il modesto, Dicky.» Dicky? «Cazzo, io ne andrei fiero. Un pezzo di merda che mi s'infila in casa si deve preparare a raccogliere i denti in uscita dal buco del culo. Sotto il letto tengo un calibro 12 a pompa, e se...»
«Basta così, Jack. La faccia finita.»
«Non si deve mica vergognare. Se fosse successo a me...»
«Invece è successo a me. E non mi sto vergognando, ma non ne vado neanche fiero. Se ha della posta, me la dia. Al¬trimenti, smammare.»
La faccia di Jack divenne paonazza, mentre la mandibola gli si allentava. «Fa fuori uno stronzo, e comincia a esprimersi da maledetto duro. Mi sa che lei è un fetentissimo Clint Eastwood.»
«Per favore, esca.»
«D'accordo, cowboy.» Jack recuperò dalla borsa una man¬ciata di lettere che scagliò sul banco. Le buste scivolarono, spargendosi per terra. «Goditi la tua posta di merda, Dicky.»
Mi scoccò un'occhiata di commiato e si lanciò verso l'usci¬ta, lasciando aperta la porta abbastanza a lungo da far entrare un po' di luglio. «Spero che il tuo schifoso condizionatore si guasti» salutò.
«E io spero che un cane arrabbiato ti sbrani i coglioni» ri¬spose Valerie.
James e io ci voltammo simultaneamente. Valerie?
Jack si bloccò sulla soglia, impietrito. «Non è molto fine per una signora» tentò di minimizzare.
«È quel che ti meriti.»
Jack deglutì, mollò la maniglia della porta e se ne andò. Quando il postino tornò a scrutare attraverso la vetrina prima di scomparire dalla vista, Valerie gli mostrò il medio prote¬so, poi ci guardò, diventando più rossa del suo vestito. «Be', quel tipo non mi piace per niente.»

6

Riassunsi l'intera vicenda a James e Valerie, che furono tanto carini da non chiedermi di approfondire i dettagli rac¬capriccianti. Alla fine affidai loro la bottega e andai in mac¬china fino da Kelly. Non avevo proprio voglia di starne an¬cora a discutere o di avere vicino gente informata dei fatti, e per un bel po' di tempo. Come dicono in California, avevo bisogno di spazio. 0, come diciamo noi in Texas, me ne vo¬levo stare per i cazzi miei.
Per strada superai Jack che stava ancora facendo il suo giro, a testa bassa e con passo aggressivo. Ripensando a come Valerie gli aveva fatto abbassare la cresta, a momenti gli davo un colpo di clacson per rammentarglielo. Poi cambiai idea: il mio senso dell'umorismo non arrivava a tanto.
Kelly è un bar vecchia maniera del quartiere occidentale della cittadina, dove vado spesso a mangiare. Mi piace perché mi ricorda i tempi del liceo. Non sono uno che vive ancorato al passato, però non mi dispiace rispolverarlo ogni tanto. Di solito era da Kelly che fissavo i miei appuntamenti galanti, e ci fermavamo lì a bere bibite al malto mangiando hamburger. All'epoca il gestore si chiamava, per l'appunto, Kelly. Era un bel po' d'anni fa. Ormai Kelly s'era trasferito al cimitero muni¬cipale di LaBorde, sotto una composizione di fiori di plastica.
Non potevo mai metter piede nel locale senza pensare a Stud Franklin che un sabato entrò e si fece saltare le cervella con una calibro 22. Io non assistetti alla scena ma ne sentii parlare da chi se l'era vista per bene. Stud entrò, disse: «Vaf¬fanculo a lui e al suo maiale» e si puntò la pistola alla tempia. Era sconvolto perché non aveva vinto il concorso degli allevatori. S'era tirato su un maiale apposta, ci aveva sgob¬bato dietro un anno intero, investendoci tutti i suoi soldi, comprandogli i migliori pastoni e le medicine, ed era stato battuto da un allevatore che stava a casa di Dio, il cui maiale era stato allevato a pane raffermo e pezzi di torta, e imbottito di tabacco da masticare per ammazzare i vermi. Più tardi sco¬prirono il maiale di Stud impiccato al bel recinto di cemento che Stud aveva costruito per lui. Nessuno sospettò che fosse stato il maiale a suicidarsi. Fino a quel momento Stud era sembrato un tipo con la testa sulle spalle.
E poi c'era il separé in fondo, quello con lo strappo nel ri¬vestimento in pelle che per anni era stato riattaccato alla me¬glio con il nastro adesivo, dove era finita la mia prima vera storia d'amore. Avevo posato la mano sul ginocchio di Kathy Counsel cercando di farla scivolare sotto il vestito in cerca di una preda più appetitosa ma lei mi affibbiò una sberla, e il rumore dello schiaffo risuonò nel locale come un colpo di cannone. Me la svignai di corsa, con Kathy che mi urlava alle spalle mentre gli altri ragazzi sghignazzavano, e non ebbi il coraggio di rimettere piede da Kelly per un mese. Kathy Counsel fu messa incinta circa sei mesi dopo dal campione di football locale, il quarterback Herschel Roman. Dovettero abbandonare la scuola: Herschel fece il suo ultimo lancio dopodiché iniziò a infilare i tubi della benzina nei serbatoi delle auto alla stazione Fina sulla Main Street. Lo si poteva trovare ancora lì. Adesso era il proprietario e passava il tem¬po guardandosi vagonate di partite alla televisione piazzata di fianco al distributore della Coca. Kathy era diventata una panzona con una lingua tagliente come un coltello da macel¬laio. Il loro bambino, che giocava da schifo, detestava il foot¬ball, o almeno così si vociferava. C'erano momenti in cui sentivo l'impulso di telefonare a Kathy per ringraziarla di quel ceffone.
Sullo spiazzo dietro il locale avevo sostenuto le mie due uniche scazzottate. Perse entrambe. Non riuscivo neanche a ricordare il motivo scatenante. Entrambe con il mio miglior amico del liceo, Jerry Quail. Jerry fu chiamato alle armi su¬bito dopo il diploma, perché non era uno da college. Non è mai riuscito ad andare in guerra in Vietnam. La settimana pri¬ma di essere spedito laggiù ci rimase secco cadendo da un eli¬cottero durante un'esercitazione. Andai al suo funerale.
Quel giorno non mi accomodai in un separé, ma sedetti al banco, dove Kay mi raggiunse immediatamente. Era l'unica cameriera del locale in quelle ore della giornata e mi stava simpatica. Era carina, se vi piace il genere troppo ossigenato e truccato. Anche se mi consideravo felicemente sposato, non potevo fare a meno di godermi il modo in cui le sue an¬che si dimenavano sotto il grembiulino bianco inamidato. Aveva qualcosa in comune con Valerie, una sostanza che le donne vorrebbero poter comprare già confezionata, e i loro uomini pure.
Abbozzai il mio sorriso migliore mentre ordinavo un caf¬fè. Intanto che me lo versava, Kay sussurrò: «Ho sentito cosa t'è capitato.»
«Cristo, la gente del paese è tremendamente telepatica.»
«Sono solo dei gran chiacchieroni. Comunque, mi dispia¬ce. Penso che sia dura.»
«Era la cosa migliore che mi potevi dire, Kay. Grazie.»
Sorrise, mentre io mi trasferivo in uno scomparto. Rima¬si seduto con la testa appoggiata alla vecchia imbottitura in cuoio rosso, a occhi chiusi. E subito la nottata precedente m'irruppe nella testa.
Spalancai gli occhi e mandai giù metà del caffè in un col¬po solo. Era amaro. Chiesi a Kay che mi portasse una Coca. Quando ne bevvi un sorso, non aveva miglior sapore.
«Posso usare il telefono?»
Kay era dietro il banco, intenta ad asciugare un alone d'umi¬dità. «Fai pure. Sai dov'è.»
Entrai nel ripostiglio del retrobottega. Il telefono era posa¬to su un elenco sopra uno scaffale, di fianco a un bidone for¬mato famiglia di pomodori pelati. Servivano per il loro chili. Fantastico, ma bruciava come la piastra di una stufa.
Appoggiato allo scaffale, cercai un numero nell'elenco. Lo trovai stampato a caratteri cubitali in prima pagina.
«Dipartimento di polizia di LaBorde.»
«Vorrei parlare con il tenente Price.»
«Un attimo.»
Quando mi misero in comunicazione con Price gli dissi: «Sono Dane. Volevo solo sapere cosa ne avete fatto del cor¬po di Russel.»
«Verrà sepolto dopodomani. Sarebbe stato per oggi se non ci fosse stata l'autopsia di mezzo.»
«Perché?»
«Procedura standard. Com'è che vuol sapere del funerale?»
«Questo Russel aveva una famiglia, oltre al suo vecchio?»
«Non credo. Non a quanto sappiamo. Paga la contea. Le chiamiamo 'onoranze per indigenti'.»
«Dove lo mettono?»
«Al cimitero di Greenley. Non vorrà mica andarci?»
«Avevo una mezza idea.»
«Senso di colpa?»
«Più o meno.»
«Immagino come si deve sentire, ma così si fa prendere la mano. Deve accettare il fatto che l'ha ammazzato per legitti¬ma difesa. Se l'è ritrovato in casa.»
«Ci stavo solo pensando. Non mi sembra giusto che venga sepolto senza che sia presente nessuno al suo funerale.»
«Crede che la sua anima sarà più sollevata se lei è là? Pro¬prio l'uomo che l'ha ucciso?»
Restai in silenzio per qualche secondo. Quando Price ri¬prese a parlare, le sue parole sembrarono immerse nel ghiaccio. «Senta, non sto cercando di farla sentire di merda, va bene? Vorrei soltanto farle capire che non serve a niente. Dubito che Russel sarebbe venuto al suo funerale, se fosse riuscito a farla fuori.»
«Non è questo il punto...»
«Forse lo è. Si limiti a fare il possibile per dimenticare. Ri¬prenda la sua vita normale. La gente ne parlerà per un pezzo e lei dovrà stare ad ascoltarla. Non sarà piacevole. Ma passerà.»
«A che ora è il funerale?»
«È proprio testardo.»
«Mi venga incontro, Price. Non so cosa farò, ma mi senti¬rei meglio sapendolo. Dopodomani quando?»
Price sospirò. «Una e mezza. Dane, faccia la cosa più sen¬sata. Se ne stia alla larga.»
Appesi, quindi composi il numero di un mio amico im¬bianchino, spiegandogli a denti stretti cos'era successo e cer¬cando di essere il più chiaro possibile.
«Cristo, Richard, mi dispiace.»
«Non ce n'è bisogno. È andata così. Senti, ho bisogno di te per imbiancare il salotto. Non c'è più sangue sulla parete, ma mi sentirei più a mio agio con una mano di vernice fresca nella stanza.»
«Capisco. Raccolgo i ragazzi e arrivo verso mezzogiorno.»
«Grazie, Ted. Chiamo anche un fabbro e il negozio di mo¬bili. Se arrivano, fagli tu gli onori di casa. La maniera più fa¬cile per entrare è portarsi dietro una tranciafilo e passare da dietro tagliando il catenaccio che ho improvvisato stanotte con il fil di ferro.»
«Nessun problema.»
«Grazie.»
Consultai di nuovo la guida telefonica e feci il numero del negozio d'arredamento. Gli dissi che volevo un divano, spe¬cificandogli i colori e le dimensioni dell'ambiente. Mi de¬scrissero quel che avevano a disposizione, così feci la mia scelta, sperando che anche Ann fosse d'accordo. Comprare alla cieca non era un'idea luminosa, ma non avevo voglia di trattare con le persone più dello stretto necessario.
«Quando lo potete consegnare? Se ce la fate, preferirei in giornata.»
«Si può fare. Va bene all'una?»
«Perfetto. Ci troverete un imbianchino, Ted Lawson. Vi farà entrare lui. Potete anche togliermi dalle scatole il divano vec¬chio? Non vale niente, ma vi pagherò un extra per il trasporto.»
Quello ci pensò su un momento. «Direi che possiamo. Gratis.»
«Bene. E potete coprire quello nuovo con della plastica? Non vorrei che si sporcasse di vernice.»
Quando il commesso si fu dichiarato disponibile, attaccai per chiamare subito il fabbro.
«Truman Serrature, sono Truman.»
«Mi chiamo Richard Dane e...»
«Lei è il tipo che ha sparato a un ladro l'altra notte, vero?»
Santissimo Iddio, come si sparge la voce.
«Proprio così. Mi serve un catenaccio per la porta che mi hanno forzato. Me lo può fare per oggi?»
«Posso cominciare, oggi. Dipende da quanto è danneggiata la porta. Sarebbe meglio se prima qualcuno gliel'aggiustasse.»
«Serve soltanto una serratura.»
«Va bene. Ehi, la schiafferanno dentro?»
«È stata legittima difesa.»
«Di questi tempi non conta più un accidente. Non ti puoi fidare degli sbirri più che dei malavitosi. Qual è l'indirizzo?»
Glielo diedi.
«Senta, signor Dane. Che ne direbbe di un allarme antifur¬to e di qualche sbarra? Potrei farle un buon lavoro. Nemme¬no Houdini riuscirebbe a infilarsi in casa sua dopo che gliel'ho blindata io.»
Sapevo che stava sfruttando la mia paranoia, e che più tar¬di me ne sarei pentito, ma la notte scorsa era ancora troppo vicina. «Già. Diamoci sotto.»
«Bella mossa. Oggi piazziamo serratura e sbarre. E comin¬ciamo col sistema antifurto domani. Le gusta?»
«Fantastico» conclusi, e attaccai.
Tornato nel locale, mi sedetti nel separé a finire la Coca. Adesso aveva un sapore decente. Lanciai un'occhiata all'oro¬logio dietro il banco, sopra lo specchio. Le undici. Troppo presto per pranzare.
Al diavolo.
«Kay, perché non chiedi al cuoco se mi prepara un panino con le uova fritte, con molto strutto?»
«Ricevuto» rispose, e strillò verso la cucina: «Clyde.» Un nero con un grembiule bianco tutto macchiato fece capolino dal passavivande. «Due pulcini sul pane, e non star basso con lo strutto» ordinò Kay.
Clyde fece il saluto militare e scomparve. Poco dopo sen¬tii lo strutto che sfrigolava nella padella.
Kay mi raggiunse con una birra Lone Star che posò sul ta¬volo. «Offre la casa.»
Me la presi comoda prima a finire la birra e poi a sboc¬concellare il panino, mentre ascoltavo un paio di pezzi di Dwight Yokum al juke-box, e alla fine tornai in bottega.

7

In negozio arrivò un po' di gente che aveva saputo del¬l'omicidio, e uno era soltanto un morboso ficcanaso che non finse nemmeno di aver bisogno di qualcosa, voleva soltanto sapere della notte precedente. Gli chiarii quel che pensavo di lui, poi mi ritirai in bagno in attesa che James e Valerie se ne sbarazzassero.
Per il resto della giornata lavorai alle cornici, solo soletto nel retrobottega, mentre James e Valerie stavano in negozio. Lì avevano poco da fare, e uno di loro mi sarebbe tornato più utile a incorniciare, ma preferivo stare da solo senza essere coinvolto in discussioni idiote. Parlare del tempo e dei Dallas Cowboys, quel giorno, non sarebbe servito a molto. Mi avrebbe soltanto ricordato che stavo alzando un velo contro i veri problemi, peggiorando la situazione.
Verso le quattro e mezzo stavo mettendo un passe-partout 100% tela a una stampa a tiratura limitata, quando suonò il telefono. Rispose James. Era per me.
Era Price. «Forse abbiamo un problema.»
«Di che genere?»
«Ben Russel. Il padre di Freddy. È uscito ieri da Huntsville. Sa che suo figlio è morto, che è stato ammazzato durante un furto, e si vocifera che si farà vivo al funerale. Potrebbe essere pericoloso. Non ci vada.»
«Ci penserò.»
«Stia alla larga da Ben Russel, Dane. È pericoloso. La sua presenza al funerale del figlio non farebbe che incasinare la faccenda. Se ne rimanga a casa, e forse lui gliela lascerà pas¬sare liscia. È probabile che non gliene freghi niente del figlio. Però è un attaccabrighe. Gli basta solo un pretesto.»
«Grazie per il consiglio, Price.»
«Mi dia retta, Dane. Si fidi di me.»
Riappesi, tornando alla mia mascherina. Foderai la stam¬pa e tagliai un pezzo di vetro antiriflesso, scoprendo che non riuscivo ad adattarlo alla cornice. Le mie mani non riusciva¬no a lavorare con precisione.
Lasciai che ci pensasse James a terminare il lavoro. Bevvi una tazza di caffè della quale non sentivo alcun bisogno, poi mi ritirai in bagno a riflettere. Cercai di raffigurarmi Ben Rus¬sel, dipingendomelo alto, snello, con i capelli a spazzola e una cicatrice su una guancia. L'immaginavo con la voce roca, pro¬prio il tipo che è capace di sbudellare il compagno di cella con un cucchiaio che si è tornito in officina. Mi vedevo il guardia¬no che gli dava i soliti consigli quando lo rilasciavano, intiman¬dogli di filare dritto. E Russel che pensava: «Già, ma solo dopo che avrò completato un lavoretto a LaBorde.»
Mi lavai la faccia e tornai a casa in anticipo.

8

È Ann che passa a prendere Jordan dall'asilo tutti i giorni, appena esce dal lavoro, perciò quando arrivai a casa mio figlio era già seduto a tavola che mangiava un panino alla mortadel¬la grondante maionese. Attorno alla bocca aveva un alone di quella robaccia spesso come la bava di un cane rabbioso. An¬che il vaso della maionese e il tavolo ne erano cosparsi.
«Ciao, papi.»
«Ciao, figliolo.»
Guardai il tavolo, il cucchiaio, il vaso e andai a prendere una salvietta di carta per pulire. Mi ripromisi di non fargli no¬tare il casino. Di norma l'avrei sgridato. Quel giorno però sta¬vo cercando di vedere le cose sotto la migliore luce possibi¬le, e all'improvviso il disastro mi sembrò meno importante di quel che sarebbe parso il giorno prima. Chi ero io per get¬tare la prima pietra? Al momento non sembravo tanto imma¬colato, eppure avevo trentacinque anni.
Notai che Ted e i suoi ragazzi stavano dipingendo il sog¬giorno. Avevano coperto il pavimento con teli di plastica, sui quali comunque si notavano pochissime gocce. Visto che mi davano le spalle e che ero passato dal garage, non s'erano an¬cora accorti della mia presenza. Per un minuto rimasi a guar¬darli mentre lavoravano, poi controllai l'orario. Le sei. Ecco il lato positivo quando ingaggi uno che lavora in proprio: quello va avanti finché non ha finito il lavoro, mica smonta alle cinque. Del resto, un imbianchino deve acchiappare al volo le commissioni che gli capitano, visto che non ha inca¬richi continuativi.
Baciai Jordan sulla testa e lui cominciò a raccontarmi la sto¬ria che quella mattina gli aveva letto la maestra in classe. Era la favola di Clifford, il Cagnone Rosso. Gli era piaciuta un sac¬co e me la ricapitolò ad alta voce, con un gran gesticolare. Nel frattempo salutai con un cenno Ted e i suoi figli che s'erano voltati per controllare chi fosse entrato. Appena Jordan ebbe finito il racconto, gli versai un bicchiere di latte da spargere in giro e passai in soggiorno per controllare i lavori in corso.
Sembrava che avessero quasi finito. L'ambiente era saturo dell'odore di vernice, un aroma che di solito detestavo ma che ora mi sembrava fresco come un mattino di primavera. E non c'era più il vecchio divano. Quello nuovo troneggiava al cen¬tro della stanza coperto da un telo, come da accordi.
Ted, prima di avvicinarsi a me, si asciugò le mani con uno strofinaccio che gli spuntava dal taschino posteriore dei pan¬taloni. «Scusa se non ti stringo la mano ma ho paura di spor¬carti di vernice. Ci toglieremo dalle palle più o meno tra un'ora. Se riesci a tenere il piccolo lontano dal muro, appena sarà asciutto, sembrerà bello che nuovo.»
«Farò il possibile.»
«È venuto il fabbro. Ha lasciato il conto in cucina.»
«Non l'ho visto.»
«L'ho attaccato al frigo con una di quelle calamite a forma di frutto. Ci ho dato un'occhiata. Ti ha pelato. Ha detto che torna domani per finire. E, come vedi, è arrivato il divano.»
«Già.»
«Stai bene, vero?»
«Tutto a posto.»
«Be', nel caso, fammi un fischio. Gesù, ti ricordi le chiac¬chierate che facevamo al liceo? Io sono sempre qui. Potrem¬mo vederci per una birra. È passato tanto tempo dall'ultima volta.»
«Hai proprio ragione.»
Appena Ted tornò all'opera, controllai la nuova serratura sulla porta. Aveva un'aria decisamente efficace. Ottimo. E c'era anche una grata a fisarmonica che si poteva far scorrere di notte sopra la vetrata per bloccarla, nel caso dovesse reg¬gere una carica di rinoceronte. Non sapevo se mi dovevo sen¬tire più sicuro o più stupido. La sola cosa di cui ero certo era che non avrei fatto parola di Ben Russel con Ann, almeno per il momento.
Presi il televisorino portatile dalla credenza e lo posai sul¬l'acquaio. Mi sintonizzai sui cartoni di Bugs Bunny, permet¬tendo che Jordan li guardasse mentre beveva il latte che non aveva ancora rovesciato.
Raggiunsi Ann in camera nostra. Era di spalle, seduta sul bordo del letto, con i gomiti sulle ginocchia e le mani che sostenevano la testa come se fosse diventata troppo pesante. Chiusi la porta e mi sedetti al suo fianco.
«Il divano mi fa schifo» esordi.
«Scusa, lo posso ridare indietro.»
«Mi potevi anche chiedere cosa volevo io. Non facciamo sempre così? Se vogliamo comprare qualcosa ci mettiamo d'accordo prima. Non è così?»
«L'unica cosa che volevo era far uscire di casa il prima possibile quello vecchio.»
«Potevi aspettare a prendere quello nuovo fino a che non ne avevamo visti assieme degli altri.»
«Non ho le idee molto chiare.»
«Non hai avuto una grande premura nei miei confronti.»
«Li faccio venire a riprenderselo. Possiamo parlare di qualcosa d'altro oltre al divano?»
«Non mi piace per niente, tutto qui.»
«Sei andata alla polizia?»
«Stai cambiando argomento, ma sì, ci sono andata. Il te¬nente Price è stato molto carino. Abbiamo fatto in un attimo.»
«Vuoi andare a mangiar fuori, stasera?»
«Jordan si è fatto un panino.»
«Pensavo che potesse tenerlo Dorothy. Ci deve un turno come baby-sitter, no? Cosa ne dici se usciamo noi due soli? Cucina messicana, magari.»
«La chiamo e sento.»
«Bene. Mi lavo e mi faccio la barba. Sono a pezzi.»
«Lavati i denti. Hai un alito che spacca... Pensi sul serio che abbiamo bisogno di sbarre su porte e finestre? Di allar¬mi? Hai visto il conto?»
«No, non l'ho visto. Ma in questo momento, da come mi sento, vorrei solo trasferire questa casa su Marte.» Mi alzai per uscire.
«Richard. Quel divano non mi piace proprio. Sembra di¬segnato da quello che ha progettato le scenografie di Alien.»
«Domani se ne va.»

Dopo cena, passammo a prendere Jordan e lo mettemmo subito a letto, poi facemmo l'amore. Fu bello. La nostra vita sessuale non s'era mai appassita, ma era diventata distratta, frammentata da troppi obblighi, e i nostri incontri troppo spes¬so avvenivano quando non ne avevamo una gran voglia.
Quella volta non fu così. Era come ai vecchi tempi, quan¬do non vedevamo l'ora di scopare. Ripensai al college e al sedile posteriore della mia Ford del '61 vecchia e scassata, già un ferrovecchio quando l'avevo comprata, ridotta ancor più a mal partito dalla mia incuria. Facevamo sempre l'amore al drive-in sul sedile posteriore di quell'auto, perché eravamo costretti entrambi a coabitare con dei compagni di camera, e per di più all'interno di pensionati rigidissimi. Conservavo il ricordo di quella Ford con la reverenza di un sacerdote per il tabernacolo.
Disteso sul letto con Ann addormentata sul mio braccio, ten¬ni lo sguardo inchiodato sulla fessura tra le tende, sulle sbarre che racchiudevano il vetro della finestra come un tessuto can¬ceroso imprigiona un occhio limpido. Fissai la grata finché non sparì. Tutto, feci sparire. Sognai noi due sul sedile della vec¬chia Ford con il rivestimento del tettuccio che penzolava in sta¬lattiti molli. Era una fredda notte di dicembre, non la fine di luglio, Ann e io stavamo sotto la vecchia trapunta all'uncinetto e i finestrini della Ford erano coperti di brina.
Giacqui così a lungo, credendo nella realtà di quell'imma¬gine, viaggiando a ritroso con una macchina mentale del tem¬po fino ai giorni in cui eravamo a posto col mondo, convinti che saremmo vissuti in eterno, e che il nostro futuro sarebbe stato sempre scintillante come le cromature di una Buick fre¬sca di fabbrica.

9

Così il giorno dopo installarono gli allarmi, il divano fu ri¬spedito al mittente e ne prendemmo un altro. E riuscii a inti¬marmi che era ora di continuare a vivere, e che era stupido prendere in considerazione l'eventualità di presenziare al fu¬nerale di Russel. Non avrebbe migliorato affatto la situazio¬ne, anzi, potevo soltanto incappare nel vecchio, e ne avevo poca voglia.
E se al funerale non si presentava nessuno eccetto i bec¬chini? Nemmeno quello mi sembrava giusto. Anche il boia sarebbe stato il benvenuto, pensai. Io per lo meno avevo vi¬sto Freddy in faccia, ed era un viso che mi sarebbe rimasto impresso per sempre nella memoria.
Eppure non ci sarei andato. E non ci stavo andando nem¬meno mentre guidavo verso il cimitero, dicendomi che ci sa¬rei soltanto passato davanti in macchina. E non ci stavo an¬dando nemmeno quando parcheggiai sotto le querce, dall'altra parte della strada che rasenta il camposanto, e non ci stavo an¬dando nemmeno quando uscii dalla macchina e mi appoggiai allo sportello, per seguire da lontano le esequie.
Non era un clima da funerale. Faceva un caldo umido, e le querce alla cui ombra m'ero riparato non fornivano molto sol¬lievo. Pareva che facessero piovere inchiostro caldo, più che ombra, ma sapevo che se fossi uscito da quel riparo, nella pie¬na luce del sole, sarebbe stato anche peggio, miele fuso. Questo genere di cerimonie dovrebbe godere di un clima freddo e piovoso. In tal caso il cimitero sarebbe stato affollato di perso¬ne in lutto, alcune in lacrime. Non fu così per Freddy Russel.
A lui erano stati riservati due becchini e un prete a nolo che attendeva impaziente presso lo steccato su una Buick nera lu¬cente con lo sportello aperto, facendosi vento con quello che sembrava un messale, forse l'utilizzo più consono del volume.
La tomba era già stata scavata, presumibilmente sin dal giorno prima, e sulla fossa incombeva l'aggeggio che adope¬rano per calare la bara. Uno dei becchini indossava una ca¬micia hawaiiana con pappagalli gialli e rossi, e stava sghi¬gnazzando con il compare, forse in seguito a una barzelletta sporca sui predicatori, mentre azionavano di buona lena il macchinario che stava calando Freddy nella fossa. Per quel che gliene importava a loro, la bara poteva essere vuota.
Quando il feretro si adagiò nel buco, i due richiamarono a gesti il predicatore, che aprì la Bibbia e cominciò a legge¬re, impalato di fianco alla fossa. Quando ebbe finito pronun¬ciò poche parole, veramente poche, coronandole con un bell'amen. L'intera cerimonia s'era svolta con la stessa par¬tecipazione emotiva con cui una puttana fa l'amore. Il pre¬te, controllato l'orario, si diresse verso la propria Buick, mise in moto e si allontanò. Probabilmente aveva un invito a pranzo da qualche parte.
Stavo per imitarlo quando una vecchia Ambassador azzur¬rina accostò presso lo steccato del cimitero. Ne uscì un tizio grande e grosso che si fermò di fianco al veicolo, osservando i becchini che gettavano terra sulla bara. Accese una sigaret¬ta, poi si voltò e mi vide. Sembrava andare verso i sessanta, un po' sovrappeso, ma di bell'aspetto, se vi piace il genere proletario. Restò lì a osservarmi mentre fumava, poi gettò la sigaretta per terra, la schiacciò col tacco e cominciò ad attra¬versare la strada.
Man mano che si avvicinava, notai che era più vecchio di quanto mi fosse sembrato in un primo momento. Forse gli mancava poco ai settanta. Portava bene i suoi anni. Il suo viso aveva l'aspetto di una vecchia scarpa comoda, e nella cammina¬ta traspariva qualcosa che sfidava l'età, una sicurezza di sé in¬dolente che lo precedeva come la polena di un grande vascello.
«Sei Dane, vero?» chiese quando approdò al mio lato del¬la strada.
La mia frequenza cardiaca accelerò. Sapevo chi era, an¬che se non combaciava con l'immagine che m'ero creato due giorni prima.
«Già, devi essere Dane» rispose l'uomo alla sua stessa domanda. «Mi conosci?»
«Ho un vago sospetto.»
«Io ti conoscevo già. Ci tenevo proprio. Quando sono arri¬vato in città, la prima cosa che ho fatto è stato raccogliere informazioni, e mi hanno detto quello che volevo sapere. Che la tua foto è stata spesso sul giornale. Roba da cittadino mo¬dello. Sono andato alla sede del giornale e ho chiesto di con¬sultare l'archivio, fingendo di essere interessato alla storia locale perché sono uno scrittore che fa ricerche per un libro. Ho visto la tua foto su più di un numero. Sei un pezzo grosso a LaBorde, Dane. A proposito, sei fotogenico.»
«Non credo che la faccia star meglio, ma non avevo inten¬zione di uccidere suo figlio. Sono stato costretto.»
«Hai ragione. Non mi fa star meglio. Comunque è stato gentile da parte tua farti vivo, per vedere la merda che cade¬va nel buco. Proprio carino.»
«È entrato con scasso in casa mia, per Dio. Aveva una pi¬stola. Ha cercato di ammazzarmi. Gli ho sparato per difen¬dermi.»
«Non credo che lui sia d'accordo. Era il mio unico figlio.»
«Mi dispiace.»
«Questo accomoda tutto. Mi sento già meglio, ora che hai detto che ti dispiace. Hai un figlio, se non sbaglio.»
Sentii un formicolio alla base del cranio, come se un tarlo gelido mi fosse entrato in azione nella testa.
«Dovrebbe avere circa quattro anni. Ho letto l'annuncio della nascita. Bel nome, Jordan. E mi piace anche il nome di tua moglie. Avevo una zia che si chiamava Ann. È finita sot¬to un camion.»
«Russel, mi stia a sentire...»
«I paesani con cui ho parlato dicono che il tuo ragazzo ti somiglia, che è la fine del mondo. Dio, non sarebbe tremen¬do se gli capitasse qualcosa?»
«Cos'è, una minaccia, figlio di puttana?»
«Assolutamente no. Ho detto soltanto che sarebbe tremen¬do se gli capitasse qualcosa. Potrebbe, no? Guarda cos'è suc¬cesso a mio figlio.»
«Forse, se lei fosse stato un padre migliore, non sarebbe accaduto.»
«Non sai un accidente di che padre sono stato.»
«Me l'immagino. Stia alla larga da mio figlio. Dalla mia famiglia. Compreso?»
«Non la menare troppo, Dane. Stavo solo puntualizzando quanto sarebbe orribile se capitasse qualcosa al tuo piccolo Jordan. I bambini non sempre fanno attenzione. Bisogna sta¬re continuamente in campana con loro. Si fanno male facil¬mente. E certe volte ci restano secchi.»
«Avvicinati alla mia famiglia e t'ammazzo.»
Mi sorrise, prese una sigaretta e l'accese, offrendomi il pacchetto. «Fumi?» Notai che le sue mani erano identiche a quelle di mio padre. Grosse, squadrate, potenti. Mi fecero sentire a disagio.
«Dico sul serio, Russel.»
Mentre aprivo lo sportello dell'auto per infilarmi dietro al volante, mi salutò: «Buona giornata, figliolo.»

10

«Gliel'avevo detto di stare alla larga» ringhiò Price.
Eravamo nella sala riunioni della polizia, che serviva an¬che da sala di ritrovo e, come tutto il resto della stazione, co¬stituiva una sorpresa. Era fresca e pulita, con dei distributori ben forniti.
Price era in tiro come al solito. Indossava un abito grigio con camicia marrone e cravatta a righe, e le scarpe erano im¬mancabilmente lustre.
«Lo so» risposi. «Ma quello non mi avrebbe lasciato in pace nemmeno se me ne fossi rimasto a casa. Ha chiesto in¬formazioni in giro su di me. È andato persino negli archivi del giornale per raccogliere notizie e per trovare delle foto che lo aiutassero a identificarmi.»
Price si passò una mano sul viso, come se stesse cercando di cambiarsi i connotati. «Vi ha sentiti nessuno?»
«No.»
«Mi riferisca esattamente cosa le ha detto.»
Obbedii.
«Non sarebbe stato molto diverso se vi avessero sentiti. Non c'era nessuna minaccia concreta. Le ha persino augura¬to buona giornata.»
«È stato il modo in cui l'ha detto.»
«Stronzate. Se ci fosse qualcuno che possa testimoniare che il tono della sua voce era minaccioso, allora avrebbe qualcosa in mano, anche se non molto. Altrimenti, ha solo un pugno di mosche.»
«Posso avere protezione per la mia famiglia?»
«Ufficialmente lui non ha commesso nulla.»
«È un ex carcerato.»
«Ha scontato la pena... Senta, io ci credo che l'ha minac¬ciata. Ma non conta niente dal punto di vista ufficiale. Non sono io che decido qui. Anche se volessi appostare qualcuno a sorvegliare la sua famiglia, non avrei il minimo appiglio le¬gale. Se è fortunato, Russel se ne andrà. Forse s'è solo la¬sciato trasportare dall'ira. È normale. Non è un crimine vo¬ler incontrare l'uomo che t'ha ammazzato il figlio. Se avesse voluto farle del male, ci avrebbe provato al cimitero.»
«Non è me che vuole, è mio figlio. Occhio per occhio, dente per dente... figlio per figlio.»
«Bene, apra le orecchie, Dane. Posso garantirle una prote¬zione ufficiosa per un paio di giorni. Mi ci gioco il culo, ma lo faccio lo stesso. È anche possibile che il capo, se lo sco¬pre, mi tolga il caso, ma faremo un tentativo, anche se doves¬si provvedere io di persona. Una macchina sorveglierà casa sua, e ci terremo saltuariamente in contatto voce.»
«Ha detto un paio di giorni. È il massimo che può fare?»
«Due giorni, Dane. Chiuso.»
«E se Russel aspetta fino al terzo?»
«Se lei può provare che costituisce una minaccia concreta, lo pizzichiamo. Nel frattempo gli do una controllata. Il mio consiglio è che lei si compri un'altra pistola, abbia il sonno molto leggero e speri che lui lasci il paese. Penso che ci sia¬no buone probabilità che lo faccia.»
«Non lo trovo molto incoraggiante. L'ha detto lei che era pericoloso. Ora mi sta punendo perché non le ho dato ascolto.»
«Stupidaggini. È pericoloso, però non posso muovere un dito finché non commette qualcosa. È innocente fin quando non viene giudicato colpevole, signor Dane.»
«Quando comincia questa protezione?»
«Stanotte. Prima non posso. Non mi è possibile fare di più. Siamo a corto di personale.»
«A LaBorde?»
«Qui succedono più cose di quel che immagina, Dane. Molte di più. Mi farebbe un favore se descrivesse l'auto. Se abbiamo fortuna, l'ha rubata. Sarebbe una possibilità per bloccarlo. Visto che è un pregiudicato, tornerebbe al fresco di filato. Forse per sempre, stavolta.»
Non sapevo il numero di targa, ma gli descrissi la macchina in tutti i dettagli, per quel che serviva. Per le strade dovevano viaggiare migliaia di vecchie Ambassador azzurrine.
Gli strinsi la mano malvolentieri prima di andarmene. Ca¬pivo la sua posizione, ma non contava lo stesso.
Mentre indugiavo al limite del parcheggio, mi misi a ri¬flettere su Russel e su suo figlio, cercando di raffigurarmeli quando vivevano assieme. Ben steso sul pavimento a giocare con il piccolo Freddy, o in accappatoio la mattina di Natale che ride mentre il bimbo apre i regali. Però non mi potevo aggrappare a queste visioni. Più facilmente me l'immagina¬vo occupato a insegnare al ragazzo a scassinare una serratura o a truccare una macchina.
Poi ripensai a quello che Russel aveva detto su mio figlio: sulle prime mi montò il sangue agli occhi, poi mi lasciai vin¬cere dal terrore. Andai all'asilo di North Street per riprende¬re Jordan in anticipo, prevedendo di telefonare ad Ann da lì per informarla che ero passato io a prendere nostro figlio e per dirle dove ci si poteva incontrare.
Quando entrai nel parcheggio della chiesa scorsi l'Ambassador di Russel con il proprietario che fumava una sigaretta di fianco ai cassonetti.
Parcheggiai accanto alla sua auto, questa volta cercando di memorizzare la targa, e lo raggiunsi.
Russel controllò l'orologio. «Non credo che il tuo figliolo esca prima delle tre e tre quarti.»
Cercai di colpirlo con tutta la forza che avevo. Scansò la testa come un pugile, ma lo beccai ugualmente alla mandibo¬la con un pugno abbastanza potente da scuoterlo, facendogli schizzare la sigaretta dalle labbra.
Subito dopo gli rifilai un gancio sinistro per cercare di stenderlo, ma lo bloccò con l'avambraccio sinistro, indie¬treggiando immediatamente per portarsi fuori dalla portata di altri colpi.
«Picchi duro per essere un corniciaio, Dane. Dovresti evi¬tare di abbassare la spalla perché così allarghi troppo il gan¬cio. Compromette il dinamismo, facendoti perdere metà del¬la potenza.»
«Figlio di troia» gridai.
«Forse.» Accese un'altra sigaretta. Io rimasi lì col fiato corto, guardandolo mentre tirava la prima boccata e riponeva in tasca l'accendino. L'osservai con attenzione per vedere se gli tremavano le mani. Le sue no. Le mie, invece...
«Già stato dagli sbirri? L'avevo previsto. Dritto come un fuso. Temo che tu sia convinto che stia minacciando te e la tua famiglia.»
Avevo voglia di saltargli di nuovo addosso, ma aveva in¬cassato i miei colpi con tale disinvoltura che m'immaginavo sarebbe stato capace di usarmi per spazzare il parcheggio, sessant'anni o meno.
«Ti ho già detto di stare lontano dalla mia famiglia. Non te lo ripeterò più.»
«Occhio, Dane. Se continui a minacciarmi in questa ma¬niera, sarò costretto a presentare regolare denuncia.»
Risalii in macchina per spostarla dalla parte opposta dello spiazzo, poi entrai dall'ingresso laterale. Superata la porta a vetri, mi voltai per controllare se Russel era ancora là.
Non c'era più, e l'Ambassador era sparita.

11

Lasciai un messaggio per Ann alla scuola, chiedendo alla centralinista se poteva informarla che era tutto a posto, e che non c'era da preoccuparsi di nulla, se non di raggiungerci alla stazione di polizia.
Alla centrale, Jordan era così irrequieto che gli dovetti comprare una Coca e un pacchetto di quei cracker ripieni di burro d'arachidi. Bevve un po' di bibita, quindi si servi della lattina per triturare i cracker sul tavolo. Price sembrava scoc¬ciato. Dovevo immaginarmelo che era suo, quel tavolo. Non ordinai a Jordan di smetterla.
«Chi è arrivato prima? Lei o Russel?»
«Russel.»
«Le ha fatto nulla?»
«No. Ha detto che non pensava che mio figlio sarebbe uscito prima delle tre e tre quarti e allora gli ho tirato un cazzotto.»
«L'ha beccato?»
«Già.»
«Lui ha reagito?»
«No.»
Price ripeté il gesto della mano che gli cambiava i con¬notati. «Non dimostra ancora niente, Dane. Al massimo lo potremmo accusare di vagabondaggio. Quello è un parcheg¬gio molto vasto. Forse aveva intenzione di recarsi in uno dei negozi sull'altro lato e si stava solo facendo una fumata pri¬ma di entrare. Potrebbe anche presentare denuncia contro di lei per il pugno che gli ha tirato. L'ammette lei stesso di averlo fatto.»
Non avevo affatto voglia di stare a discutere. Capivo dove voleva arrivare. «Se può servire a qualcosa, ho la sua targa.»
«Controllo al computer. Mi dia il numero. Non ci vorrà più di un minuto.»
Gli diedi la targa, e Price tornò dopo circa due minuti. Sta¬vo tenendo d'occhio l'orologio.
«Autonoleggio locale. Tutto in regola.»
«Mi sa che sono al punto di partenza.»
«Temo di sì. So quel che prova, ma non posso arrestare un uomo per le dicerie di un altro. Anche se l'accusato è un pre¬giudicato. Se arrestassimo tutti quelli che possono commet¬tere un crimine, le galere sarebbero intasate molto prima del tramonto del sole.»
«Mi sono fatto un'idea. Ha ancora intenzione di mandare qualcuno a far la guardia a casa mia, stanotte?»
«Certo.»
Recuperato Jordan, uscii per aspettare Ann sulla strada. Jordan mi raccontò la favola di un coniglietto azzurro che correva come un lampo, e cinque minuti dopo arrivò Ann. Le dissi di seguirci fino al nostro ristorante messicano preferito, dove l'avrei messa al corrente di tutto.

Ann mi elencò le obiezioni che avevo già rivolto a Price e io le risposi con tutte le argomentazioni di Price. Le mie re¬pliche non le piacquero più di quanto fossero piaciute a me in bocca al tenente.
«Penso che tu e Jordan dobbiate lasciare la città» le pro¬posi. «Andarvi a rifugiare in qualche posto finché le acque si saranno calmate.»
«Non mi va.»
«Non voglio la cicciata, papi. Voglio le patatine.»
«È l'enchilada, piccolo, e non mi piace che tu parli mentre stiamo discutendo. È segno di maleducazione.»
«Ma non voglio...»
«Vuoi star zitto, piccolo? Sto cercando di parlare con tua madre. O è lei che sta cercando di parlare con me... Gesù, non riesco neanche a ricordare chi stava parlando.»
«Voglio solo le patatine.»
«E mangiale allora, ma lascia in pace me e mamma.»
Jordan cominciò a piluccare la ciotola di chip di grantur¬co, fiero di se stesso.
«Stavo dicendo» riprese Ann «che l'idea non mi garba per niente. Non penso che dovremmo spostarci. Tanto quello ci può sempre venir dietro. Per esempio, se andiamo da tua ma¬dre e lui ci rintraccia, metterà a repentaglio anche la sua vita, oltre alla nostra. Io dico che dobbiamo fare come consiglia Price: procurarci una pistola e stare sul chi va là. Adesso ab¬biamo le sbarre e l'allarme antifurto. Conterà pur qualcosa.»
«Teniamo Jordan a casa dall'asilo per qualche giorno. E tu puoi prenderti dei giorni di permesso. Ci penseranno James e Valerie a mandare avanti il negozio mentre noi ce ne stia¬mo a casa per un po'. Aspettando che Russel si faccia vivo.»
«Mi sembra l'idea migliore. Dài, torniamo a casa.»

12

Feci strada con la mia auto, mentre Jordan era salito sulla macchina di Ann. Stavo cominciando a calmarmi, a vedere le cose sotto una luce differente. Mi sentivo uno stupido. Solo perché Russel tentava di spaventarmi, non significava che avesse le palle per agire. Poteva essere incavolato per la sorte toccata al figlio, il che era normale. Non era certo uno zucche¬rino, me n'ero accorto, ma era pur sempre un vecchio, e la mia casa era protetta da sbarre e allarmi, e in garage tenevo un fu¬cile, e per quanto fosse un duro non poteva mica digerire il piombo, come direbbero in un film d'azione di serie B.
Ripensai al fucile. Come la pistola, l'avevo acquistato più per impulso che per convinzione.
Circa cinque anni prima, in una cittadina vicina a LaBorde degli sballati avevano fatto irruzione in una casa sterminan¬do un'intera famiglia nel sonno. Due delle vittime erano bam¬bini. Visto che all'epoca Ann era incinta di Jordan, presumo di essere stato travolto dall'istinto paterno. Non avevo mai avuto una pistola, né avevo mai provato il desiderio di posse-derla, eppure ero corso a comprare la .38 che alla fine aveva fatto fuori Russel. Quando ne parlai al padre di Ann durante una visita a Houston, lui mi regalò il fucile, sostenendo che era meglio di una pistola. C'era minor rischio che perforasse una parete ferendo componenti della famiglia. Era un Win¬chester a pompa a canne corte, assieme al quale mi forni anche delle munizioni a punta cava. Portai a casa fucile e pal¬lottole e li ficcai in garage, mentre la pistola continuò a ri¬posare nella scatola da scarpe. Con lo scemare dell'isteria, m'ero del tutto dimenticato del fucile, e quasi completa¬mente anche della pistola.
A quanto ricordavo, il Winchester smontato riposava nell'armadietto del garage nella sua scatola originale, assieme alle lattine di lubrificante e ai relativi attrezzi. Mi ripromisi di tirarlo fuori dal cartone appena rientrato, e di caricarlo pri¬ma di infilarlo sotto il letto. Ero sicuro che alla fine mi sarei sentito un fesso perché il mio immaginario film western non si sarebbe materializzato. Russel avrebbe perso interesse per l'assassino del figlio, come probabilmente aveva nutrito scar¬so trasporto per lui quando era vivo, si sarebbe tolto dai piedi e le cose sarebbero tornate alla normalità.
Però, quando parcheggiai nel vialetto con Ann e Jordan al seguito, paura e incertezza riaffiorarono. Anche con sbarre e allarmi, o forse proprio perché ero stato costretto a procurar¬meli, sapevo che non mi sarei più sentito sicuro in quella casa. E ne fui ancor più convinto quando m'avvicinai alla porta con le chiavi in mano.
Era socchiusa di qualche centimetro.
Mi voltai, sollevando Jordan con un braccio e afferrando il gomito di Ann con la mano libera, spingendoli indietro ver¬so l'auto di Ann.
«Salite» ordinai.
«Richard?»
«Siamo appena arrivati, papi.»
«Mettiti al volante, Ann. La porta è stata forzata.»
Lei mi lanciò una strana occhiata, poi si voltò e apri lo sportello. Mentre Ann s'infilava al posto di guida, spinsi den¬tro anche Jordan.
«Va' dai Ferguson e chiama la polizia. Chiedi di Price.»
«Vieni con noi.»
«Vai.»
Chiusi lo sportello dell'auto e tornai verso casa. Rimasi in attesa del suono del motore alle mie spalle, sperando che quella testona di mia moglie facesse quanto le avevo detto, e finalmente sentii l'auto che s'avviava, seguito dal familiare fruscio dei copertoni sulla ghiaia del vialetto, in direzione della strada.
Non passai dall'ingresso principale ma aggirai l'edificio, cercando di muovermi in silenzio, anche se temevo che non fosse necessario. Se lui era dentro, di sicuro ci aveva sentito arrivare, e sapeva che ero rimasto solo io.
Mi chinai per svellere dalla sabbia un paletto che si trova¬va lì da una vita, da quando i carpentieri avevano terminato i lavori di ampliamento della rimessa, e ne saggiai la consisten¬za sul palmo della mano. Era ancora abbastanza solido da sfondare un cranio. Arrivai sul retro, aspettandomi che il ba¬stardo mi saltasse addosso da un momento all'altro. Mi chie¬devo cosa diavolo stavo facendo, perché non ero andato via assieme ad Ann e Jordan, ma in realtà sapevo già la risposta. Quel figlio di puttana m'aveva fatto incazzare e, nonostante tutto, nel mio sangue scorreva ancora troppa cultura texana da macho. Lo stronzo aveva offeso me e la mia famiglia e volevo mettergli le zampe addosso, picchiando il paletto sul¬la sua testa finché non mi si stancava il braccio e mi toccava passare all'altra mano.
Una parte di me intuiva la futilità di quel che stavo facen¬do. Era stupido. Russel aveva già dimostrato di essere perfet¬tamente in grado di tenermi a bada, e non pensavo affatto che il paletto mi avrebbe avvantaggiato più di tanto. Forse aveva persino una pistola, come suo figlio.
Quando arrivai alla porta posteriore stavo per usare la chia¬ve, ma anche lì il battente era aperto. Col cavolo che la gri¬glia e l'allarme l'avevano fermato.
Entrai, brandendo il paletto. L'aria condizionata mi colpi come un gelido vento di settentrione e, dopo l'abbacinante luce solare all'esterno, la vista mi si offuscò. Mi fermai, mezzo accecato, sentendomi come se avessi infilato le palle in una mor¬sa e stessi aspettando che qualcuno girasse la manovella.
Non accadde nulla. I miei occhi si adeguarono alla penombra, così vidi che il soggiorno e quel che riuscivo a scorgere della cucina erano vuoti. Controllai la parte restante della cucina, poi passai nella rimessa per recuperare il fucile. Mi ricordavo male. Era montato, e stava assieme alle pallottole. Lo caricai prima di andare a perlustrare il resto della casa. Ispezionai con scrupolo la camera di Jordan. Non c'era nes¬suno sotto il letto o nell'armadio o nascosto dietro la tenda con le sagome di Topolino.
Guardai nel bagno, quasi sperando che Russel balzasse da dietro la tenda della doccia. Cercavo solo una scusa per am¬mazzarlo. Non avevo acquisito il gusto per il sangue, ma ero fuori di me e desideravo soltanto che la questione tra di noi si risolvesse, e che l'esito fosse definitivo.
Scostai la tendina servendomi della canna del fucile, ma nella vasca non c'era nessun Russel in agguato. Scivolai al¬lora nella camera da letto principale.
Sul letto vidi la scatola da scarpe che prima riposava nel¬l'armadio, quella che conteneva la pistola della notte del fur¬to. Price aveva ancora la .38, ma le pallottole che prima sta¬vano nella scatola ora erano sparpagliate sul letto, e la scatola era stata fatta a pezzi.
L'orsacchiotto favorito di Jordan giaceva sdraiato tra i frammenti.

13

«Non ci vuole un genio a capire che è stato qui» dissi.
Eravamo seduti al tavolo di cucina, dopo che la polizia ave¬va scortato Ann e Jordan a casa. Mio figlio stava in salotto a guardare una cassetta del fantasmino Casper, mentre gli inve¬stigatori e gli agenti in uniforme giravano per la casa come tan¬ti topolini affamati in cerca di briciole. Fino a quel momento avevano in mano solo una scatola da scarpe distrutta e alcune pallottole calibro 38 che forse Russel aveva maneggiato. Ma non credevo che fosse stato così stupido. Era un professioni¬sta, lo si capiva da come s'era lavorato serrature e allarmi.
«Sappiamo che qui è entrato qualcuno» argomentò Price. «Non sappiamo se è stato Russel.»
Ann lo guardò fisso negli occhi. «Dice sul serio? Secondo me è stata Riccioli d'oro. Ci sono di mezzo un orso e un let¬to, e se voi ragazzi riuscite a trovare una sedia rotta e del porridge versato, potete chiudere il caso.»
«Price» intervenni io «sa bene quanto me che è stato Rus¬sel. Ha scovato la scatola delle cartucce con la macchia di lubrificante, e ha fatto due più due. Ha stracciato la scatola e piazzato l'orsetto di Jordan sul nostro letto in segno di mi¬naccia. Voleva solo dimostrare che può entrare e avvicinarsi a Jordan quando vuole.»
«Ha ragione, sono convinto che sia stato Russel, ma non posso provarlo. Dal momento che è sospettato, però, possiamo tenerlo d'occhio e sorvegliare contemporaneamente la vostra casa. Ora riuscirò a ottenere una protezione ufficiale senza alcun problema. Però Russel è troppo furbo per delle contromisure così ovvie, e noi dovremmo piuttosto cercare di prenderlo di sorpresa.»
«Ha qualche suggerimento?»
«Possiamo disporre delle banali misure di protezione attor¬no alla casa per un paio di giorni, poi fingere di essere soddi¬sfatti perché tutto fila liscio e annullarle... apparentemente. Suo figlio allora dovrà tornare all'asilo, e lei e la signora Dane riprenderete a lavorare. A quel punto, quando lui entre¬rà in azione, noi saremo in agguato.»
Consultai con lo sguardo Ann, che si alzò per andare ac¬canto al lavello e mettersi a guardare fuori dalla finestra. La seguii e le cinsi la vita con un braccio.
«Che si fa, Ann?»
Lei continuò a guardare fuori dalla finestra. Alla fine sibi¬lò: «Inchiodiamolo, quel bastardo.»

14

L'agente in uniforme che ci assegnarono, con una stazza da scaldabagno industriale, era un veterano del Vietnam e cintura nera di jujitsu. Era pure bruttissimo. Chissà perché, ma quella grinta mi faceva sentire più al sicuro. Non sembra¬va uno che si preoccupa del suo bel faccino quando si devo¬no menare le mani, e m'immaginavo che ci volesse uno così quando si aveva a che fare con uno come Russel, anche se Russel era sulla sessantina.
Il poliziotto, si chiamava Kevin, venne parcheggiato su una sedia nel corridoio, dopodiché gli altri uscirono per andare ad appostarsi. Il piano era semplice. Avrebbero protratto questa banale sorveglianza per due giorni. Senza stare spaparanzati nel cortile o cose del genere, ma infrattati nel bosco dietro casa, facendo un regolare giro di pattuglia, con un uomo sempre ap¬postato nel fosso che correva lungo il confine destro della no¬stra proprietà. Non dovevano apparire smaccatamente superfi¬ciali, ma fare comunque in modo che, se un tipo scafato come Russel passava da quelle parti, riuscisse a individuarli. Poi, tra¬scorsi i due giorni, se ne sarebbero andati. Tranne Kevin. Lui sarebbe rimasto in casa, senza essersi mai rivelato prima al¬l'esterno, in attesa. Era anche prevista una stretta sorveglianza nei nostri luoghi di lavoro e alla scuola di Jordan. Agenti di polizia in auto civetta ci avrebbero aspettato per seguirci a di¬stanza di sicurezza alla mattina e al pomeriggio, al nostro ritorno. Durante i fine settimana la polizia si sarebbe nascosta nel bosco circostante, solo che questa volta avrebbe fatto in modo di non farsi notare. «Molto organizzato e molto sicuro» commentò Price.
Così, cominciammo quella notte. I poliziotti se ne andaro¬no, tranne i pochi che si dovevano appostare nel bosco dietro casa e l'uomo nel fossato. All'interno, attaccammo l'allarme e sistemammo le griglie. Considerando con quale facilità Russel aveva eluso in precedenza quei sistemi, mi sentivo un po' sce¬mo a starmene ancora a preoccupare.
Il poliziotto, di fianco alla sua sedia nel corridoio, aveva cibarie e un thermos di caffè. Si doveva muovere soltanto per andare in bagno. E non aveva affatto l'aspetto di qualcosa che fosse possibile spostare: sembrava inamovibile come un doc¬cione medievale di pietra.
Price chiamò alle dieci. Non avevano visto Russel, ma avevano trovato la sua auto, non lontana da casa nostra, par¬cheggiata lungo una stradina sterrata che serpeggiava nel bo¬sco, terminando in un vicolo cieco di alberi e rifiuti scaricati da qualche concittadino poco sensibile ai problemi ambien¬tali. Si presumeva che Russel fosse in zona. Forse in quel me-desimo momento si stava avvicinando silenziosamente. Se Russel, vedendo i poliziotti, fosse scappato via, avrebbe tro¬vato altri agenti presso la sua macchina. Se poi abbandonava l'auto, avevamo pur sempre il nostro vecchio piano. Aspetta¬re qualche giorno, spianargli la strada, poi prenderlo di sor¬presa. Ce n'era per tutti i gusti.
Non credevo che sarei riuscito ad addormentarmi, ma ero più stanco di quanto pensassi. Tutti quei grattacapi mi ave¬vano logorato. Mentre stavo scivolando nel sonno, feci un ul¬timo tentativo frustrato di raffigurarmi Russel in compagnia del piccolo Freddy. Ripensai allora a mio padre, Herman Dane. Mi mancava, senza che ne capissi esattamente il mo¬tivo. Non avevamo mai passato molto tempo insieme. Lui andava sempre a caccia e a pesca, ma mi portò con sé soltanto una volta. Tutto il resto del tempo lo passava sfacchi¬nando per portare il pane in tavola. Mia madre, di notte, quando pensava che io dormissi, lo ricopriva d'insulti. Pen¬so che lui mi amasse, ma mi guardava sempre con una sorta di stupore, come se fossi sbarcato in casa sua da un'astro¬nave aliena. Mi dicevano che gli somigliavo.
Quando avevo dodici anni, un giorno mio padre prese il suo bel Winchester dalla mensola e caricò la giardinetta con canne e mulinelli, dicendo che andava a pescare. Mi permise di accompagnarlo alla macchina, si chinò e, stringendomi a sé, mi disse che mi voleva bene. È l'unico episodio di quel genere che ricordi. Poi parti, e non l'ho mai più rivisto. Lo ritrovarono in un campeggio per pescatori con la canna del Winchester in bocca e l'alluce nudo sul grilletto. Non aveva più la parte superiore della testa. Parlarono di troppi debiti e di mia madre che amava un altro. Non ho mai saputo la veri¬tà. Non andai al suo funerale.
Lo zio Ned, il fratello di mio padre, diceva sempre che era un uomo integro e con un gran senso dell'onore. Allora non capivo cosa intendesse ma, col passare degli anni e dopo ave¬re appreso altri particolari su mio padre da altre persone, fi¬nalmente seppi cosa sottintendeva lo zio Ned. Papà non si discostava di un millimetro dalla propria parola e aveva un codice d'onore granitico. Lo si potrebbe definire un codice hemingwayiano, o qualcosa del genere. Non assillava le per¬sone e non permetteva che gli altri lo assillassero. Si sapeva difendere da solo e non si aspettava che altri intervenissero in vece sua. E credo che si sia sparato perché l'infedeltà di mia madre era troppo per lui. Forse non riusciva a sopportare l'idea di essere un uomo di sani principi costretto a vivere una situazione disonorevole.
Dopo il suicidio, mia madre piombò in una depressione pazzesca e andò via di casa, lasciandomi con i nonni. Due anni dopo venimmo a sapere che era morta in quella che al¬lora chiamavano una locanda, appena fuori Amarillo. Troppe pillole e troppi uomini. Non sapevo quali sentimenti do-vevo esprimere.
Invece non riuscivo a smettere di ripensare a mio padre. Le grandi mani (simili a quelle di Russel) che mi afferrava¬no, che mi stringevano. L'odore dei sigari King Edward nel suo alito mentre mi diceva che mi voleva bene. I tunnel cavi delle sue pupille.
Dubito di ricordare veramente i suoi occhi. È possibile che sia solo un particolare che ho creato per avere qualcosa da ri¬evocare. Un fotogramma in più che si è infilato nel film del mio passato. Eppure i suoi occhi devono essere stati così, quel giorno che se ne andò. Mia madre era una gran bella donna.
Pensai alla bambina che avevamo perso, rivivendo ancora una volta quell'orribile dramma. Poi tornai a qualche notte prima, quando il gomito di Ann mi aveva svegliato ed era co¬minciato il nostro intermezzo d'orrore. Ripercorsi l'intero in¬cidente, arrivando al punto in cui stavo in piedi davanti al morto seduto sul divano, con un occhio in meno e il suo san¬gue sul quadro e sul muro.
Finalmente precipitai nella regione del sonno profondo dove vivono i sogni che non ricordiamo, e non sono più sicu¬ro di cosa sia successo in seguito. Più o meno andò così.
Russel era stato ancor più furbo del previsto. L'intrusione in casa nostra, lasciando le porte aperte, era stata una mano¬vra diversiva. Invece di uscire, aveva scovato nel ripostiglio l'apertura che immetteva nelle condutture dell'aria e si era issato attraverso il sifone per acquattarsi tra fili, travetti e pan¬nelli isolanti. Lassù doveva aver fatto la sauna, anche con l'impianto di condizionamento che refrigerava la casa, per¬ché quello era il punto dove rimaneva intrappolato tutto il calore in ascesa. Si doveva essere letteralmente liquefatto, con i vestiti appiccicati, umidi, caldi e stretti, simili a una benda catramata. Eppure rimase lassù, immobile e silenzio¬so, in agguato. Verso sera rinfrescò e finalmente, mentre dor¬mivamo, Russel tolse la griglia scorrevole nel ripostiglio e si calò a terra, scostando cautamente la porta. Da quel punto aveva a tiro Ann e me, inermi nel sonno. Però non era noi che voleva.
Uscì dal ripostiglio indirizzandosi verso la porta della ca¬mera da letto, che quella notte era chiusa a causa dell'ospite nel corridoio, e l'apri. Il nostro agente, pensando che fosse o Ann o il sottoscritto, domandò: «Signor Dane?»
L'udii dal profondo di quell'abissale regione del sonno. Ca¬rico di paura com'ero, balzai in fretta fuori dal sogno, come un missile Polaris che emerge dalle profondità del mare, spezzan¬do le onde e perforando l'aria.
Ma Russel aveva già aggredito il nostro poliziotto. Mi giun¬se il grido di Kevin e il rumore di qualcosa che picchiava con¬tro la parete del corridoio. Rotolai giù dal letto, cercai a tento¬ni il fucile sul pavimento e corsi verso la porta.
Sbucai sul corridoio giusto in tempo per vedere il reduce del Vietnam, il poliziotto cintura nera, beccarsi in pieno men¬to un magnifico gancio sinistro che lo sbalzò letteralmente dalla sedia proprio mentre la mano era in procinto di estrarre la rivoltella. Il tonfo del pugno e il modo in cui Kevin crollò al suolo come un manichino spezzato mi fecero capire che non si sarebbe rialzato per un pezzo.
Ora eravamo Russel e io. Lui si voltò nel medesimo istan¬te in cui gli puntavo il fucile addosso e cercavo di premere il grilletto, scoprendo che c'era ancora la sicura inserita. Men¬tre armeggiavo con la levetta, Russel attraversò il corridoio e smanacciò in alto la canna. A quel punto, con il meccanismo libero e il mio dito contratto sul grilletto, parti un colpo indi-rizzato al soffitto, che ci fece piovere addosso una nevicata d'intonaco.
Mi avvinghiai alla bell'e meglio a Russel con i piedi. Ca¬demmo assieme nell'apertura della nostra camera. Il fucile scivolò sotto il letto, credo, e Russel non tentò nemmeno di recuperarlo. Mi colpi invece con un pesante diretto in piena fronte. La testa mi si riempi di oscurità e di stelline.
Quando le stelle impallidirono, mi risvegliai alle grida di Ann: «È nella camera di Jordan!» E fummo entrambi in piedi e ci precipitammo. Io a dire il vero più che altro barcollai.
Sentii Jordan che gridava: «Papà!» Fui attraversato da una spossatezza simile al peggior male che si possa immaginare. Mi sentivo la persona più lenta, innocua, mortale sulla Terra. Avevo lasciato che Russel si facesse beffe di me, che mi col¬pisse, e ora aveva mio figlio.
Devo essere rimasto privo di sensi solo pochi decimi di se¬condo, perché, quando corsi incespicando all'inseguimento di Russel, lui era giunto sì e no a metà del tragitto verso il lettino di Jordan. Vidi mio figlio seduto con la schiena appoggia¬ta alla testata del letto, che guardava lo sconosciuto.
Balzai sulla schiena dell'aggressore, atterrando con le gam¬be intrecciate alla sua vita e le braccia che gli stringevano la gola. Russel incespicò, poi si proiettò all'indietro, schiaccian¬domi contro il muro con tale violenza che mi parve che la co¬lonna vertebrale stesse per spuntare dallo sterno. Rimasi senza fiato, le braccia e le gambe cedettero, mollai la presa, scivo¬lando lungo la parete come un lumacone agonizzante.
Ora c'era Ann addosso a Russel, quasi nella stessa posi¬zione da me occupata in precedenza. Gli stava artigliando il viso, e l'uomo piroettava in preda al dolore, cercando di scrollarsela di dosso, ma era come cercare di staccare un fo¬glio intriso di colla.
Alla fine Russel riuscì ad alzare le mani sopra le spalle fino ad afferrarle i capelli e diede uno scrollone, chinandosi contemporaneamente in avanti. Ann si andò a schiantare con¬tro il muro di fianco a me, in un groviglio di braccia e gambe.
Cercai di rialzarmi, ma non mi restava un briciolo di for¬za. Era come se qualcuno avesse aperto una valvola per fare defluire da me ogni traccia di vitalità. Non riuscivo a ritrova¬re il fiato, nemmeno quel che bastava per un singulto: avevo i polmoni inchiodati a metà strada tra il respiro e il colpo di tosse. La stanza becheggiava. Russel raggiunse il letto e Jordan gridò di nuovo: «Papà!» L'aggressore l'afferrò per la giacchetta del pigiama mentre con la mano libera estraeva dal taschino posteriore una forma nera dalla quale, con uno scat¬to del polso, fece spuntare una lama simile all'elitra argenta¬ta di uno scarafaggio.
Ritrovai il respiro e ricominciai a muovermi, richiamando le gambe. Sapevo che era troppo tardi. Nulla poteva fermare l'inerzia di quel coltello.
Tranne Russel. Si bloccò. Un enorme pugno stringeva il pigiama di Jordan, mentre il coltello spuntava dall'altro come l'aculeo di uno scorpione. «Merda» gridò lui, poi conficcò la lama nella testata del letto, lasciando andare Jordan. Lo col¬pii come un martello che conficca un chiodo, con una spalla protesa, e volammo entrambi attraverso la stanza. Russel mi afferrò il collo con le mani mentre si rialzava, tanto da solle-varmi di peso dal pavimento. Mentre ero così sospeso per aria cercai di scalciarlo, ma non riuscii a mettere la minima ener¬gia nei miei colpi. Le mie gambe lo frustavano con il vigore di spaghetti lessati.
Russel mi spinse contro il letto, prendendomi a calci nel basso ventre, fino a convincermi che le palle erano schizzate al posto delle orecchie. Poi m'inchiodò a terra, conficcando¬mi ì pollici dietro la trachea, e intanto mi sbatteva la testa sulla moquette strillando: «Non ci sono riuscito, figlio di put¬tana, non ci sono riuscito con quel tuo bastardo schifoso.» Mi lasciò andare con una mano, tenendomi sempre inchiodato al pavimento con l'altra, e prese a martellarmi sulla testa con le nocche. Nella pallida luce che proveniva dal corridoio i suoi denti sembravano ingranaggi, e dagli occhi gli spuntavano lacrimoni grossi quanto perle, che mi piovvero sulla faccia roventi come asfalto appena steso. I suoi colpi si fecero sem¬pre più fiacchi mentre ripeteva incessantemente: «Figlio di puttana!» e io mi dibattevo inutilmente sotto di lui, sferzan¬dogli i fianchi con i pugni. Fu allora che Ann lo colpi con il paralume di Jordan, e Russel mi crollò addosso.
Ann, in piedi sopra di me, sembrava una valchiria in ca¬micia da notte, che brandiva una lampada al posto della spa¬da. Aveva l'aria di provare una voglia matta di tornare a col¬pire Russel.
In un primo momento pensai che quella che ronzava era solo la mia testa, poi il mondo tornò a fuoco dal punto di vista visi¬vo e sonoro. I poliziotti avevano fatto scattare l'allarme, e ora li sentivo che tentavano di sfondare la porta principale. Di si¬curo ci stavano provando da quando avevano sentito il colpo di fucile. L'intera battaglia con Russel, per quanto fosse sem¬brata interminabile, era durata solo pochi minuti.
Strisciai da sotto il corpo di Russel, e Jordan mi corse in¬contro. Lo baciai e lo abbracciai, sussurrandogli: «Tutto bene. Va' dalla mamma.»
Jordan le si avvinghiò a un gamba mentre Ann teneva an¬cora sollevata la lampada, pronta a sbatterla sulla testa di Russel alla minima scoreggia.
Io invece mi diressi verso l'ingresso proprio nel momento in cui la polizia, divelta la porta, si apprestava a far saltare la serratura della griglia con un fucile a pompa.
«Tutto a posto» li informai. «L'abbiamo sistemato.» E intanto pensavo: «Benedetta la sua animaccia nera, che non è riuscita ad arrivare fino in fondo.» Staccai l'allarme e aprii la saracinesca per far entrare i poliziotti, che ammanettaro¬no Russel, il quale si era ripreso quel minimo da seguirli con le proprie gambe. Mentre mi passava accanto, si girò per dirmi: «Credo di averlo sempre saputo che non ne sarei stato capace.»
«Ora sì che si sentono sollevati» l'interruppe Price. «An¬diamo.» Due poliziotti lo condussero a un'auto sbucata appa¬rentemente dal nulla, portandoselo via.
Price e un altro agente risvegliarono Kevin e lo sdraiarono sul divano per dargli un'occhiata.
«Dovresti lavorare di più sul piede d'appoggio» gli consi¬gliò l'agente.
«Quel vecchio bastardo è forte come un bue» si giustificò Kevin.
Fu chiamata un'ambulanza, e il dottore ci visitò tutti, bofon¬chiando qualche frase, applicando un paio di cerotti e sommi¬nistrando un'aspirina. Un poliziotto estrasse il coltello dalla testata del letto di Jordan. Price disse che avrebbe provveduto perché per la notte in qualche modo la porta divelta venisse inchiodata, aggiungendo che l'indomani mattina avrebbe invia¬to un falegname per aggiustarla, a spese della comunità, poi mi strinse la mano e si accomiatò. Tirarono su la porta e sentii pic¬chiare sul legno, mentre sedevo sul divano assieme ad Ann e Jordan, tenendoli tra le braccia. Come in risposta a un segnale segreto, scoppiammo a piangere tutti e tre.

15

Quella notte Jordan dormi con noi. Io rimasi sveglio pen¬sando a Russel. Dopo tutto quel che era successo, non riusci¬vo a impedirmi di pensare che aveva le mani come quelle di mio padre e che mi aveva stretto il collo proprio con quelle. Era come se il mio vecchio fosse tornato dalla tomba a stran¬golarmi per qualcosa che avevo combinato. Nonostante tutto ciò che sapevo di mia madre, non riuscivo a togliermi del tut¬to dalla mente la convinzione di essere stato in qualche modo responsabile che lui si fosse ficcato in bocca la canna del Winchester.
Finì che rinunciai ai tentativi di prendere sonno e andai in cucina a mettere sul fuoco del caffè forte. Mentre andava, passai nella cameretta di Jordan, accesi la luce e mi guardai intorno. La lampada Little Sprout, che era sempre stata sul comodino di fianco al letto prima che Ann se ne servisse per colpire Russel, riposava sul pavimento dove era stata abban-donata all'arrivo dei poliziotti. Sulla testata del letto era ri¬masta un'intaccatura, nel punto in cui Russel aveva confic¬cato il serramanico, ma, oltre a quei due particolari, tutto sembrava normale.
Mi aggirai per la stanza sfiorando giocattoli e libri, per as¬sicurarmi che ogni cosa fosse in ordine e che avrebbe conti¬nuato a esserlo da quel momento in poi. Era una menzogna a cui desideravo credere.
Rimisi l'abat-jour al suo posto e mi sedetti sul lettino. Da quella posizione riuscii a notare un oggetto scuro che spunta¬va da sotto la sconquassata cesta dei giochi di Jordan. Mi misi a carponi e lo sfilai. Era un portafogli. Senza bisogno d'aprir¬lo, sapevo già che era di Russel, e che era scivolato lì sotto durante la lotta.
Avrei dovuto consegnarlo alla polizia, ma non riuscii a trattenermi dal darci una sbirciata. La prima cosa che notai fu una fotografia imbustata dentro una di quelle custodie di plastica. Nell'immagine Russel appariva giovane, bello, for¬te e felice. Era piegato su un ginocchio, con un braccio attor¬no alle spalle di un bambinetto biondo che teneva in mano una pistola giocattolo. Il piccolo aveva all'incirca l'età di Jor¬dan. Sul retro della foto c'era scritto: «Freddy e papà.»
Dietro vidi un'altra istantanea, che riproduceva un giova¬notto sui vent'anni, biondo, occhi azzurri, piuttosto bello, an¬che se il mento era troppo pronunciato. Sul retro della foto la medesima calligrafia aveva scritto: «Freddy.»
Ripensai a Freddy la notte che gli avevo sparato, cercando di far corrispondere la sua faccia con questa. I capelli del ladro che spuntavano da sotto il berretto erano scuri, e l'occhio inte¬gro era di colore castano. Aveva un mento piccolo e in tutta la sua vita non era mai stato bello o per lo meno attraente.
Se quella era una foto di Freddy Russel, l'uomo che avevo ucciso non era lui.

Seconda parte
Padri

16

Tornato in camera da letto, raccattai i miei vestiti al buio, cercando di togliermi il pigiama e di infilarmi gli abiti senza svegliare Ann o Jordan. Lasciai in cucina un biglietto per Ann, poi sgattaiolai fuori in silenzio per andare in macchina fino in città.
Quando arrivai alla stazione di polizia restai seduto per qual¬che minuto nel parcheggio, accasciato sul volante, cercando di capire se stavo commettendo un errore. Tolsi il portafogli di Russel dal taschino della camicia e aprii la portiera per far ac¬cendere la luce sul tettuccio. Riesaminai le foto e le scritte. Avrò guardato quelle istantanee sgualcite una dozzina di volte ciascu¬na. Comunque le rigirassi o le inclinassi verso la luce, non riu¬scii a riconoscere il volto del ladro che avevo ammazzato.
Infilai il portafogli nel cassetto del cruscotto e scesi dalla macchina.
All'interno della stazione comunicai alla poliziotta addet¬ta allo smistamento che ero lì per vedere Price.
«È a casa sua, signore. Però posso raccogliere un messag¬gio per lui.»
«Penso che farebbe meglio a chiamarlo a casa.» Poi le ri¬velai chi ero e cos'era successo, e che erano sopravvenute delle novità molto importanti. Le dissi che avrei parlato sol¬tanto con Price, e sarebbero state notizie che gli avrebbe fat¬to piacere apprendere.
«Molto bene» replicò lei, e compose il numero, fissando¬mi accigliata per tutto il tempo dell'operazione. Andai a cer¬care una sedia su cui accomodarmi, e pochi minuti dopo la poliziotta fece capolino dall'ufficio di smistamento. «Sarà qui entro pochi minuti. Ha detto che può andare nella sala riu¬nioni a farsi una tazza di caffè, se ne ha voglia.»
«Grazie.»
«È stato un piacere» rispose, ma non aveva l'aria di essere molto convinta di quel che diceva.
Percorsi il corridoio che portava alla macchina del caffè. Non ne avevo bisogno, ma almeno m'avrebbe aiutato ad ammazzare il tempo. Contemplai più di una volta la possi¬bilità di filarmela, ma non mi decisi. Me ne restai invece se¬duto a scaldarmi le mani col bicchiere di cartone, con lo sguardo fisso nel vuoto.
Entrarono due poliziotti sghignazzanti, scrutandomi con quel fare sospettoso con cui osservano chiunque. Bevvero il loro caffè seduti all'estremità opposta del tavolone, parlando sottovoce e guardandomi. Alla fine si alzarono e uscirono, portandosi dietro i bicchieri pieni.
Avevo quasi finito il caffè quando arrivò Price. Come sempre, era impeccabile. Sembrava che si fosse appena sve¬gliato da una nottata lunga e riposante. Non aveva una grin¬za sul viso e i capelli neri erano in perfetto ordine. Indossa¬va un vestito beige molto alla moda, una camicia azzurrina, cravatta beige e azzurra, e le scarpe erano abbacinanti come sempre.
«Problemi?» chiese.
«Più o meno. Voglio che rilasci Russel.»
Mi squadrò per un istante, poi si accostò alla macchina au¬tomatica, riempi una tazza e venne a sedersi accanto a me. «Perché?»
«In senso stretto, non ha fatto del male a nessuno. Non ce l'avrebbe mai fatta a uccidere mio figlio, era solo convinto di esserne capace.»
Mi rivolse quel genere di sorriso che gli inservienti dei ma¬nicomi riservano ai pazienti convinti di saper volare. «Ha fe¬rito un mio agente. Ha ferito lei. Non mi sembrava che fosse un valzer quello che stavate ballando prima che arrivassimo.»
«No. Certo, stava cercando di colpirmi, ma era fuori di te¬sta. Non lo rifarebbe mai. È finita. Ha avuto la sua occasio¬ne, e non l'ha saputa sfruttare perché non ha voluto.»
«E così sostiene di non voler sporgere denuncia?»
«Esatto.»
«Non funzionano così le cose, signor Dane. Lei non deve sporgere nessuna denuncia. Russel è stato colto in flagrante. Ha ferito uno dei miei uomini. Non abbiamo bisogno di lei per procedere d'ufficio.»
«Pensavo funzionasse al contrario.»
«Faciliterebbe le cose se sporgesse denuncia, ma non è necessario.»
«L'agente è stato ferito perché era in casa mia su vostra richiesta.»
«E con il suo consenso.»
«Sì, ma mi sbagliavo.»
«Andiamo, su, cosa succede, Dane? Appena qualche ora fa stava lottando con quel matto in giro per casa, e poco pri¬ma mi aveva urlato in faccia solo perché non lo sbattevo den¬tro ancor prima che quello avesse mosso un dito.»
«Lo so.»
«E adesso?»
Ripensai alle fotografie nello scomparto dei guanti del cru¬scotto, ma non aprii bocca. Non ancora. Stava succedendo qualcosa, ed ero certo che Price sapeva cosa. O almeno che lo sapeva la centrale di polizia. E non ero ancora pronto a scoprire le mie carte. Dovevo mettere Price alla prova.
«Mi presenterò con un avvocato, se sarò costretto. Non vo¬glio sporgere denuncia. Voglio perdonare e dimenticare, e ho la sensazione che anche Russel sia della stessa idea.»
«Perdonare e dimenticare. Che tenero.»
«È quel che voglio.»
«Mi dispiace per lei. Prima mi fa il fetentissimo oltranzista che esige che gli tolga dalle palle quel bastardo, e ora mi di¬venta un progressista con il cuore che sanguina, riempiendomi di merda tutto il pavimento. Lei è uno schizofrenico. Non sa cosa mi sta chiedendo. Quell'uomo è pericoloso. Ha cercato di uccidere suo figlio perché lei gli ha fatto fuori il suo. Ha cerca¬to di uccidere lei e sua moglie e ha ferito un mio uomo. Se fos¬si in lei non la prenderei tanto alla leggera. Lascerei questa merda del porgi-l'altra-guancia al catechismo domenicale per i bambini. Qui viviamo nel mondo reale, Dane, dove Gesù non sopravviverebbe cinque rognosissimi minuti. Non si prende¬rebbero nemmeno la briga di crocifiggerlo, quel coglione paci¬fista. Ci si mette troppo tempo. Gli passerebbero sopra con la macchina o lo squarterebbero con un apriscatole arrugginito.»
«Non ho bisogno che mi si faccia la lezioncina.»
«Lei di qualcosa ha bisogno, Dane. Cazzo, amico, non può dire sul serio. Ma ci pensa a quel che mi sta chiedendo?»
«Ci ho riflettuto bene. Esigo che rilasciate Russel. Non voglio sporgere denuncia, e se non ottengo quel che chiedo chiamerò un avvocato. Glielo giuro. Voglio che esca subi¬to, lo voglio vedere a piede libero, e le imputazioni devono essere ritirate. Desidero soltanto tornare alla mia vita, e che lui torni alla sua.»
«Crede veramente che io possa farlo?»
«Ho una grande considerazione di lei.»
Si sedette a osservarmi mentre faceva a pezzi il suo bic¬chiere di caffè, poi stracciò il cartone in frammenti sempre più minuti. Quando ebbe finito, posò entrambe le mani sul ta¬volo, fissandomi dritto negli occhi.
«Non cerchi di intimorirmi, Price. Al massimo riesce a scocciarmi.»
«La compiango.»
«Ecco, l'ha detto. Ora, o rilasciate Russel o io chiamo il mio avvocato e voi ragazzi comincerete a passare dei bei guai.»
Ora toccava a me intimorirlo, e ce la misi tutta. Poco dopo Price si alzò, raccogliendo sul palmo di una mano i pezzi del bicchiere di carta distrutto, e andò a gettarli nel cestino.
«Sta commettendo un grosso errore, Dane. Ma è la sua vita. Ed è la sua famiglia. La prossima volta non ci sarò io a salvarle le palle.»
«Se ben ricordo, siamo stati Ann e io a sistemare la que¬stione. Il suo uomo era fuori combattimento.»
Mi lanciò uno sguardo che deturpò il suo bel visino.
«Ha vinto, capo. Lo rilascerò. Soltanto, se lo ricordi che gliel'avevo detto, la prossima volta che le scatena delle grane.»
«Aspetterò nel parcheggio per accertarmi che lo lasciate andare.»
«Bastardo d'un fesso» ringhiò Price abbandonando la sala.
Aveva fallito la prova. Era stato troppo facile. Nella fac¬cenda c'era più di quel che saltava all'occhio. E Price era coinvolto.

17

Quando Russel uscì scortato da Price e da un agente in uni¬forme, io lo stavo aspettando nel parcheggio, appoggiato al cofano della mia macchina, con il suo portafogli in tasca. I tre si fermarono a guardarmi, poi Price diede una spintarella a Russel che mi si fece incontro. Price e l'agente in divisa ri¬masero dov'erano.
Quando Russel giunse alla mia altezza disse: «Stanno aspet¬tando di vedere se cerco di farti fuori.»
«Ci proverai?»
«No.»
Feci segno a Price e all'agente che si potevano accomiatare.
«Esci dal parcheggio» strillò Price. «Va' a farti ammazza¬re da un'altra parte.»
Russel si voltò con un sogghigno. «Non ha fede in me, te¬nente.»
«Siete tutti e due malati nella testa» commentò Price pri¬ma di rientrare. L'uomo in divisa rimase sul posto.
«Entra, dobbiamo parlare» suggerii.
Quando Russel fu salito misi in moto e uscii dal parcheg¬gio, risalendo lentamente California Street. «Che ne pensi?» gli chiesi.
«Sono d'accordo con Price. Sei suonato. Ho appena cerca¬to d'ammazzarti. Sai che facevo sul serio.»
«Non hai ammazzato mio figlio. Eppure ne hai avuto l'oc¬casione.»
«Non l'avrei... Merda, a te non so se t'avrei ammazzato o meno.»
«Me le hai suonate per bene.»
«Ero convinto di aver bisogno di ammazzare qualcuno. Ti odio da morire, lo sai?»
«Perché ho ucciso tuo figlio?»
Russel emise un suono a metà strada tra il colpo di tosse e lo sbuffo.
«Non l'ho ucciso.»
«Senti, sei così suonato da farmi uscire di galera... Non so come, ma ci sei riuscito, ma non puoi essere tanto pazzo da pensare che creda a queste cazzate. Mollami da qualche par¬te, ti va bene?»
«Ti voglio far vedere una cosa.» Tirai fuori il portafogli dal taschino della camicia e con una mano sola lo spalancai sulle foto, porgendoglielo. Accesi la luce interna dell'abita¬colo. «È tuo figlio, vero?»
«Lo sai benissimo che è lui. Se cerchi di scoprire se alla fine dei conti ti ammazzerò, sei sulla strada giusta.»
«Sei sicuro che il bambino e il giovanotto in quelle foto siano tuo figlio Freddy?»
«Lo conoscerò pure, mio figlio.»
Spensi la luce. «Non è l'uomo a cui ho sparato.»
Procedemmo in silenzio finché Russel disse: «Vuoi dire che non lo riconosci da queste foto?»
«Voglio dire che non è l'uomo a cui ho sparato. Non può essere cambiato tanto. Quanto è alto Freddy?»
«Non so. Alto. Quanto me.»
«Almeno uno e ottanta?»
«Già. Non ci si vedeva da un sacco. Non eravamo rimasti in contatto. Potrebbe essere cambiato parecchio.»
«Tanto che i suoi occhi sono diventati marroni da azzurri che erano?»
«Chissà, lenti a contatto.»
«No, quell'uomo non portava le lenti. Era anche più basso e più scuro. Non era tuo figlio.»
«Cosa diavolo stai dicendo, Dane?»
«Dico che sta succedendo qualcosa di assurdo.»
Mentre Russel si metteva a rimuginare, io curvai a destra su Crane Street, poi girai a sinistra appena raggiunto lo stra¬done principale. «E perché dovrei darti retta?» riprese. «For¬se mi stai solo prendendo per il culo. Gli sbirri mi hanno det¬to che mio figlio è morto e ho scoperto che sei stato tu, e adesso vuoi che creda il contrario solo perché me lo dici tu?»
«E a me che ne viene? Pensaci. Poco fa mi hai fatto nero di botte e hai minacciato mio figlio. Non è qualcosa che dimenti¬co o per cui ti perdono, anche se sono convinto che non saresti stato capace di arrivare fino in fondo. Cristo, mi posso anche sbagliare. Tu forse ora ammazzerai me e l'intera mia famiglia e sarebbe soltanto colpa mia. Ma non ho ucciso tuo figlio. L'ho capito appena ho visto le foto. Non so chi ho ammazzato o perché la polizia abbia affermato che era Freddy Russel, ma sono convinto che non sia stato un errore. Hanno agito di pro¬posito. Altrimenti, non ti avrebbero lasciato uscire nemmeno con tutti gli avvocati che potevo assoldare. Ti hanno smollato perché temevano che io potessi fare casino svelando qualcos'altro. Qualcosa su tuo figlio che cercano di nascondere.»
Un altro silenzio pregnante, prima di: «E se ti do retta? Che dovrei fare?»
«Cosa dovremmo fare. Ci sono dentro anch'io.»

Andammo in un All-Night Doughnut Shop sulla North, aperto, assieme al supermercato Kroger, dalle dieci di sera fino alle sei o alle sette del mattino. Lavorano di notte soprat¬tutto con gli studenti universitari.
Nel locale, specializzato in ciambelle, c'erano due ragazzi a un tavolo che bevevano caffè chini sui libri, probabilmente per recuperare intensivamente in vista di un esame sul quale
si sarebbero dovuti applicare già da un mese. Un ragazzo un po' più anziano stava dietro al banco delle ciambelle, con l'aria di chi è rimasto lì tutta la notte ed è già pronto per il cambio. Quando ne ordinai due assieme a del caffè, quello pronunciò solo le parole di prammatica, come se avesse an¬che la lingua stanca.
Prendemmo un tavolo appartato. Dopo una sorsata di caf¬fè, Russel chiese: «Ancora non capisco perché t'impicci. Per¬ché t'interessi tanto a me?»
Scivolai lungo il separé in modo da allungare i piedi sul sedile, con la schiena contro il muro, per non dover guardare Russel in faccia. «Personalmente, non me ne frega niente di te. Non mi piaci nemmeno. E perché mai, poi?»
«Per quale motivo, allora? Te ne potevi fregare tranquilla¬mente.»
«Mi hanno menato per il naso e non mi piace. Ho ucciso un uomo che non so nemmeno chi sia. E non mi piace. Ti hanno detto che ho ammazzato tuo figlio e tu ti sei incazza¬to tanto da minacciare mio figlio e da cercare di far del male a me e a mia moglie. E non mi piace. Ma sono un essere umano. Credo di capire cosa provi, con tuo figlio morto e tutto il resto. Penso che anch'io ci avrei visto rosso. Non ti sto perdonando, sia ben chiaro, sto solo dicendo che mi fac¬cio un'idea di come ti devi essere sentito, e poi perché è tut¬ta una montatura...»
«Non sono mai stato un buon padre per lui quando era vivo. Non so perché ho creduto di poterlo diventare ora. For¬se per un senso di colpa.»
«Lo vedevi di frequente?»
«No, solo quando era piccino. Quelle foto risalgono ad al¬lora. Sarà stata sua madre a convincerlo a mandare quella dove lo si vede più grande. Non so. Sono passati tanti anni. Io e sua madre siamo separati, ma lei ancora si faceva viva ogni tanto, per farmi sapere come stava Freddy. La squadra di football, cose del genere.»
«Per cosa sei finito dentro?»
«All'inizio per furto. Sono rientrato per rapina a mano arma¬ta. Me la sono cavata con poco perché non riuscirono a provare che avevo una pistola. Ed era vero. Era l'altro che ce l'aveva.»
«Conta, no?»
«Qualcosina. Gli ho impedito di far fuori il gestore del ne¬gozio. Appena gli ha sparato, io ho colpito il mio compare e l'ho disarmato. Non era previsto che finisse così, la sparato¬ria, intendo. Mi servivano dei soldi, e poi si prevedeva che bluffassimo. O almeno così diceva lui. Non immaginavo che quello stronzo fosse un assassino a sangue freddo.»
«Ti hanno preso mentre lottavi con il tuo compare?»
«No, gli ho strappato la pistola e l'ho steso con quella, poi ho aspettato che arrivasse la pula. Le cose s'erano già messe abbastanza male con il gestore che stava morendo dissangua¬to senza peggiorarle dandomela anche a gambe. A essere sin¬ceri, se avessi abbandonato il mio complice, quello avrebbe vuotato il sacco. Non volevo ammazzarlo, così sono rimasto e l'ho soccorso. Uno dei commessi ha testimoniato che ho impedito al mio socio di finire il ferito, ma non è servito a molto. Pochi giorni dopo quello era morto.»
«Cos'è successo al tuo complice?»
«È stato uno degli ultimi a beccarsi la sedia... fu prima delle iniezioni. Io mi sono preso un po' di anni.»
«Che progetti avevi quando sei uscito... prima di questa faccenda di tuo figlio? O dell'uomo che doveva fare la parte di tuo figlio?»
«Sono rimasto dentro vent'anni cercando di capire quel che volevo fare. Qualche progetto mi è anche passato per la mente. Niente di trascendentale. Volevo ritrovare mio figlio per recuperare il tempo perduto. Qualcosa del genere. Avrei accettato qualsiasi lavoro pur di rimanergli vicino, o di po¬terlo andare a trovare ogni tanto. Dovevo darmi da fare per recuperare gli anni sprecati, dargli tante spiegazioni. Ma ora non conta più un fico secco.»
«Tuo figlio dev'essere da qualche parte, dobbiamo solo ca¬pire come trovarlo.»
Russel posò sul tavolino le mani che mi ricordavano quel¬le di mio padre e le ispezionò, come se cercasse di capire come avevano fatto a finire all'estremità dei suoi polsi, poi sollevò il capo. «Conoscevo un tale, una volta. Prima che co¬minciassi a fare delle stronzate eravamo grandi amici. Era un tipo a posto. Cristo, non lo vedo da vent'anni. Adesso sarà sulla cinquantina, direi. Mi ha scritto in prigione e per un po' gli ho anche risposto, poi ho smesso. Le sue lettere però con¬tinuavano ad arrivare. Sai, conosceva me e la mia famiglia.»
«E allora?»
«Faceva l'investigatore privato. In gamba. Ho lavorato per lui per qualche recupero o cercando delle persone scompar¬se, prima di rovinarmi. Godeva di una certa reputazione.»
«Dove sta?»
«Ora non saprei. Allora abitava a Houston. Era stato nel¬l'esercito, berretto verde, esperto in tutte quelle lotte giappo¬nesi. Qualcosa m'ha persino insegnato. Era anche un discreto pugile. E s'intendeva di armi. Si chiama Jim Bob Luke.»
«Pensi che ci potrebbe aiutare a chiarire qualcosa?»
«Se è ancora in attività e ne ha voglia, sì. Se non ci riesce lui, non ci riesce nessun altro.»
Ci riflettei. Nonostante il mio discorso umanitario, comin¬ciavo a sentirmi un gran coglione. Avevo tirato Russel fuori di galera, e questo poteva bastare. Come diceva lui, non gli dovevo niente. Forse era pazzo e forse non credeva a una pa¬rola di quel che gli dicevo. Aspettava solo l'occasione per fi¬nire quanto aveva iniziato. E cosa avrebbe pensato Ann? Non solo l'avevo tirato fuori di prigione, ma ora progettavo di dar¬gli una mano a scoprire cos'era successo a suo figlio e di assoldare addirittura un investigatore privato. Non sembrava mica tanto sensato.
Poi ripensai all'uomo che avevo ucciso. Non puoi ammaz¬zare un tale senza sapere nemmeno come si chiama. E non mi piaceva l'idea di essere manipolato. Non capivo come avesse fatto la polizia a usarmi, ma era successo. E questo povero bastardo non avrebbe mai dato di matto se non gli avessero raccontato quella menzogna. Più cercavo di convin¬cermi razionalmente a non immischiarmi oltre, più sentivo di doverlo fare.
«Un detective costa dei soldi» riprese Russel, dando voce alle mie preoccupazioni. «Io non ne ho, e non credo che Jim Bob lavorerà gratis. Forse l'avrebbe anche fatto, ai vecchi tempi, ma ora non saprei. Sono passati un bel po' di anni. Mi sembra ieri che eravamo amiconi, ma i miei contatti sono sta¬ti decisamente limitati negli ultimi tempi. Jim Bob si sarà fat¬to un'altra vita, e non avrà voglia di aver a che fare con me, anche se avessi i soldi per ingaggiarlo.»
«Ai soldi ci posso pensare io. Non sono ricco, ma qualco¬sa posso tirar fuori. Per iniziare, vediamo se riusciamo a rin¬tracciarlo.»
Finii il caffè poi andai alla cabina telefonica posta tra il Doughnut Shop e la stazione di servizio Fina per chiamare il servizio informazioni di Houston. Prima chiesi di un'Agen¬zia Investigativa Luke, poi di Jim Bob Luke. Non c'era trac¬cia di nessuno dei due.
Provai Pasadena, che è un sobborgo di Houston. C'è molta gente che da lì va a lavorare in centro usando la macchina.
«Jim Bob Luke in Mulberry Street?» domandò l'operatrice.
Scattai. «Già, proprio lui.»
La donna mi diede il numero, che riportai su uno dei miei biglietti da visita, poi tornai dentro al locale e scivolai di fron¬te a Russel nel separé, annunciando: «Tombola.»

18

Quando uscimmo il cielo era pieno di lampi. Accompagnai Russel al motel Lazy Lodge, in periferia, dove lo registrai per la giornata. È un posto squallido che fa affari con i clandesti¬ni di passaggio, diretti verso lavori di merda che gli garanti¬scano abbastanza soldi per riuscire ad affittare una casa mo¬bile da dodici metri. I pasti erano garantiti da un distributore automatico di bibite e dolciumi nell'atrio scalcagnato. Con un dollaro o giù di lì ti potevi concedere una Coca e un cartoc¬cio di Snicker.
Diedi a Russel del denaro per le emergenze, tipo Coca e Snicker o un rasoio usa e getta come quelli che vendevano all'ingresso.
«Mi dài la paglietta?» mi chiese.
«Sembrerebbe proprio.»
Salimmo nella cameretta che gli era stata assegnata, la¬sciando la porta semiaperta perché dentro si soffocava e l'aria condizionata era disattivata. Nella stanza ristagnava un di¬screto odore di cesso sporco e di troppo deodorante al limo¬ne. Tre scarafaggi morti, ammucchiati in un angolo, uno sopra l'altro, da un negligente colpo di scopa, sembravano impegna¬ti in un numero di alto equilibrismo.
Russel si sedette sul letto che sprofondò nel mezzo, tanto che sembrava che il suo occupante si stesse squagliando dal culo in su. Russel riuscì a districarsi dal casino e si mise in ginocchio per guardare sotto il giaciglio, mettendosi a ridere. «È rimasta solo una stecca nel mezzo. Notevole.»
«Non mi posso permettere di più.»
«Non mi stavo lamentando.» Si sedette sull'estremo bor¬do del letto e scrollò l'ultima sigaretta dal pacchetto, infilan¬dosela in bocca. Senza accenderla, la lasciò penzolare dal lab¬bro. «Mi aiuterai davvero a trovare mio figlio?»
«Già.»
«Ti fidi di me dopo quel che ho fatto?»
«Non so. Devo. O forse sono solo un pazzo.»
«È stata come una follia calcolata, Dane. Pensavo di sape¬re cosa volevo, ma non ce l'ho fatta. La prima volta che mi è saltato in mente mi sembrava logico. Figlio per figlio, ma dentro di me sapevo che non ci sarei mai riuscito. Però ti po¬tevo ammazzare... Ci ho pensato su tutta la mattina. In mac¬china ti ho detto che non sapevo se ce l'avrei fatta. Era una bugia. Ne sarei stato perfettamente in grado. Ero convinto che tu avessi ucciso mio figlio, e perciò non sarebbe stato un pro¬blema farti fuori.»
«Saresti tornato in prigione.»
«Bella sfiga. Sarei stato più contento se mi avessero am¬mazzato.»
«E adesso?»
«Non so. Se mio figlio è vivo voglio trovarlo. Solo questo conta.»
Fino a quel momento ero rimasto in piedi. Mi accomodai sull'unica sedia della camera, che gemette come se patisse un forte dolore.
«Non lesinano qui, eh?» commentò Russel.
«La tua cella era meglio?» Mi sentivo meschino. Quel figlio di puttana ancora non mi andava giù, e aveva appena ammesso che se mi avesse ammazzato non ci avrebbe perso il sonno.
Non fu comunque turbato dalla mia domanda, che anzi in¬dugiò a soppesare.
«L'unico lato negativo della cella era la porta chiusa. Non la potevi aprire quando ne avevi voglia. Qui però mi sento come un pesce fuor d'acqua. Sono stato per troppo tempo lontano dalla vita normale. Non so come comportarmi. Non so nemmeno più come ci si rivolge a una donna. Difficile dire se è peggio qui o a Huntsville.»
«È triste come ti trattano in galera.»
Mi sorrise. «Me la sono meritata, la mia pena, Dane. Non mi sto lamentando.» Trovato un fiammifero s'accese la siga¬retta. «Ultima paglia e ultimo fiammifero.»
«Ti ho dato abbastanza soldi per il cibo e le sigarette. Mi rifarò vivo.»
«Rintraccerai Jim Bob?»
«Sì.»
«Lo sai che potrebbe anche avere cambiato vita?»
«Lo so, ma con un nome come Jim Bob Luke... Ritengo più probabile che non abbia trovato un altro mestiere.»
«Perché non mi fai parlare con lui? Eravamo amici.»
«Così hai detto. Forse è una ragione sufficiente per lasciar perdere quel cialtrone.»
«È più furbo di me. Crede nella giustizia e nella lealtà e nella libertà e in tutte quelle stronzate.»
«Va bene, gli parlerò. Qui c'è un telefono a gettoni. Quan¬do ti sei riposato e pensi che Jim Bob possa essere già alzato, chiamalo.»
L'alba filtrava dalla porta socchiusa, facendomi venire in mente Ann e Jordan. «Devo andare a casa.»
«Quando ti rifarai vivo?»
«Non so. Devo riflettere. Se hai novità su Jim Bob Luke, chiamami. Sono sull'elenco.»
Mi alzai.
«Dane, delle scuse non valgono molto dopo quel...»
«No, hai ragione.»
«Ma vorrei fartele.»
«Non sarebbero servite a molto se tu avessi fatto fuori me e la mia famiglia.»
«Non avrei fatto del male alla tua famiglia. Soltanto a te.»
«Questo mi rincuora molto, Russel.»
«Mettiti nei miei panni e pensa a quel che avresti fatto tu.»
«Non mi sarei comportato come te.»
«Non ho potuto pensarci su a lungo.»
«So che non mi sarei comportato come te.»
«No, non lo credo nemmeno io. Non sto fornendo delle spiegazioni, solo delle scuse.»
«Mi ci spazzo il culo con le tue scuse, Russel.»
«Ci toccherà lavorare insieme in questa storia. Io devo tro¬vare mio figlio e tu scoprire chi hai ammazzato, e cosa c'è sotto. Sarebbe meglio se andassimo d'accordo e imparassimo a fidarci l'uno dell'altro.»
«Non so se mi fiderò mai del tutto di te, Russel. Già ho dei dubbi e mi sto chiedendo se non avrei fatto meglio a la¬sciarti marcire dov'eri. Forse un figlio non te lo meriti.»
«Non posso ribattere.»
Non mi piaceva la piega che stava prendendo la discussio¬ne. «Sta' in campana. Se combini dei guai ti abbandono al tuo destino. Non ti potrei più aiutare, e non lo farei neanche se potessi.»
«Ci dovremo dare una mano. Se, come sostieni tu, ci sono di mezzo gli sbirri, non ci offriranno le risposte su un piatto d'argento.»
«Riposati. Ci si vede dopo.»
Mi fermai alla cabina tra la stazione Fina e il Doughnut per chiamare a casa. Non spiegai nulla, dissi solo che sarei arri¬vato in un lampo e che quel giorno non sarei andato a lavora¬re. Poi chiamai Valerie per informarla che la bottega doveva aprirla lei, in modo che si portasse dietro la sua chiave.
Mentre tornavo a casa in auto, riesaminai il mio compor¬tamento, domandandomi come facevo a giustificarlo di fron¬te ad Ann. Non ero nemmeno sicuro di riuscire a spiegarlo a me stesso. Russel era un ex-galeotto, non era uno stinco di santo e non aveva bisogno di un figlio. Per lui era molto meglio una bella cella calda dove qualcuno gli dava da mangia¬re e gli ordinava quando fare la doccia e quando cagare e quando respirare. Perché m'impelagavo con lui? Cosa spera¬vo di ricavarne? Anche se scoprivo chi avevo ammazzato, in cosa sarebbero migliorate le cose? Un signor Pinco morto non è diverso da un signor Pallino morto. La Terra non si sarebbe comunque spostata dal suo asse.
Allora, come fare a giustificarmi? Cosa potevo raccontare ad Ann che l'aiutasse a capire? Dovevo dirle che Russel ave¬va delle mani che mi ricordavano quelle di mio padre?

19

Quando entrai in casa, Ann stava preparando del pane to¬stato.
«Ne vuoi?»
«No, ho mangiato delle ciambelle in città. Però mi faccio volentieri un caffè in tua compagnia.»
«Cosa significava quel messaggio? Dove sei stato?»
«Dov'è Jordan?»
«Ancora a letto. Pensavo di tenerlo a casa dall'asilo, oggi. Ho già chiamato a scuola perché rimango a casa anch'io. E la mia domanda?»
«Sono andato alla stazione di polizia.»
Ci pensò su un attimo. «Per la riparazione della porta?»
«No, sono andato a parlargli di Russel.»
«Cioè?»
«Gli ho chiesto di rilasciarlo.»
Fino a quel momento Ann era stata impegnata a sistemare le fette di pane sul piatto, ma a quel punto si girò verso di me. «Lasciarlo uscire?»
«Ho trovato un portafogli nella cameretta di Jordan. Era di Russel. Dentro ho visto una foto di suo figlio. Non era l'uomo a cui ho sparato.»
«Hai chiesto alla polizia di sbatter fuori quel maiale dopo tutto quello che ha combinato?»
«È impossibile che fosse Freddy Russel. Quel tipo non gli somigliava per niente. L'uomo a cui ho sparato non era Freddy Russel. Allora sono andato a chiedere di lasciarlo libero, e l'hanno fatto.»
Le ginocchia le cedettero, e Ann si lasciò sfuggire il piat¬to con il pane tostato. Il vassoio si frantumò al suolo men¬tre le fette scivolavano sotto il tavolo. Ann s'appoggiò con la schiena al ripiano di cucina intanto che io accorrevo per sostenerla.
«Resta dove sei» m'intimò. «Non mi toccare.»
«Ascoltami. Ho passato la mattinata con Russel.»
«Gesù, allora l'hanno veramente rilasciato?»
«Vuole chiarire le stesse cose che voglio chiarire io. Chi era quello che ho ammazzato e perché hanno affermato che era suo figlio e dov'è il vero Freddy. Stiamo per ingaggiare un investigatore privato di Houston.»
«Richard, devi essere impazzito. Quell'uomo ha cercato di uccidere Jordan.»
«Non ci sarebbe mai riuscito.»
«Ha cercato di ammazzare te. Se non l'avessi colpito con quella maledetta lampada, ci sarebbe riuscito eccome.»
«Forse. Ma non credo. Era soltanto fuori di sé.»
«E adesso è guarito?»
«Ho trascorso la mattinata con lui e non m'ha torto un ca¬pello. S'è comportato da persona assennata. Penso che ci si possa fidare. L'ho sistemato in un motel.»
Ann scostò una seggiola dal tavolo e vi si sedette. «Cos'hai fatto?»
«L'ho sistemato in un motel. Dovrò chiamarlo più tardi.»
«E perché non lo inviti a cena, stupido stronzo? Chiamalo qua. Chiedigli che piatti gradisce. Poi, dopo cena, mi può sco¬pare in camera da letto prima di ammazzare te e Jordan. E forse a quel punto gli verrà voglia d'incendiare la casa. Sia¬mo pieni di fiammiferi, e poi facciamo ancora in tempo a comprare del cherosene. Sempre a disposizione.»
«Ann, non ti comporti da persona ragionevole.»
«Davvero? Dio santo, Richard, cosa t'ha preso? Ti sei be¬vuto quel po' di cervello che avevi.»
«Non urlare, sveglierai Jordan.»
«Urlo quanto cazzo mi pare... Dio, Gesù santo, Richard... L'hanno lasciato andare?»
«È per questo che sono sicuro che c'entra la polizia. Stan¬no nascondendo l'identità del ladro, attribuendogli il nome di Freddy Russel. Pensaci. Non l'avrebbero lasciato andare con tanta facilità. Vogliono evitare che mi rivolga a un avvocato e porti la faccenda in tribunale sollevando delle questioni del¬le quali preferiscono che non si parli.»
Non mi stava guardando in viso, ma a quel punto indiriz¬zò verso di me i suoi splendidi occhi verdi e rimase a fissar¬mi senza dire una parola, solo a fissarmi. Avevo una gran vo¬glia di mettermi a strillare.
«Non ti credo» disse. «Non posso.» Poi uscì dalla cucina.
Mi versai una tazza di caffè e rimasi seduto al tavolo, con¬templando il liquido scuro, poi dopo qualche minuto mi alzai per versarlo nel lavello e ripulire il pavimento dalle fette di pane e dai cocci del piatto rotto. Quindi andai in soggiorno a stendermi sul nuovo divano, più stremato di quanto pensassi. M'addormentai di colpo, e venni risvegliato da un tocco de¬licato sulla mia fronte.
Spalancai gli occhi: Ann era in ginocchio di fianco al di¬vano, reclinata su di me. Tra i capelli biondi che piovevano sul suo volto e sul mio, si scorgevano le minute zampe di gal¬lina che si cominciavano a formare all'angolo dei suoi occhi meravigliosi. Trovavo adorabili anche quelle. Tenendomi una mano posata sulla fronte, mi carezzò i capelli. «Hai ragione» diceva. «Non l'avrebbero liberato così alla svelta. C'è sotto qualcosa. Sono ancora convinta che ti sia comportato da stu¬pido e che ne avresti dovuto parlare prima con me, ma hai ragione, è strano che l'abbiano lasciato andare in quel modo. Raccontami tutto. Dalla A alla Z.»
«Dopo un bacio.»

Mi tornò l'appetito. Dopo toast e caffè le raccontai di nuo¬vo tutta la faccenda, ancor più dettagliatamente. Le riferii le esatte reazioni di Russel e quel che mi aveva confidato, e le parlai anche del personaggio di Jim Bob Luke, che doveva essere un detective un tempo amico di Russel.
«Piccolo,» commentò Ann «non voglio mettere il dito nella piaga ma Russel può anche essere matto come un cavallo e non essersi ancora convinto che non hai ucciso suo figlio. For¬se trama per entrare nelle tue grazie in modo da raggiungere Jordan. Penso proprio che tu ti sia comportato... da fesso.»
«Forse. Però ha già avuto l'occasione di uccidere Jordan, e io non sarei mai riuscito a fermarlo. Ha scelto di non farlo. Oggi aveva la possibilità di farmi fuori, e se avesse voluto ci sarebbe riuscito, infischiandosene che lo vedessero o meno. Non credo che gliene sarebbe fregato niente, perché tanto sa¬peva che la polizia avrebbe pensato subito a lui, visto che ero stato tanto stupido da portarmelo via in macchina. No, credo che l'amico ci vedesse letteralmente rosso per il dolore ma, quando si è arrivati al momento della verità, non ce l'abbia fatta. Gli è finita la benzina. Ora vuole solo ritrovare il figlio. Non dico che gli voglio bene, ma soltanto che adesso non ho più paura di lui.»
«Bene, lui è a posto. Ma tu, piccolo? Può anche cercarsi il figlio per conto suo.»
«Non ha un soldo.»
«Mi sembra più un problema suo.» Nel suo sguardo si sta¬va riaccendendo la scintilla, e volevo spegnerla prima che mi toccasse affrontare una scenata simile alla precedente. Ann aveva un brutto caratterino e, anche quando si era calmata, poteva sempre riaccendersi più velocemente di una brace sot¬tovento.
«I soldi non servono solo per lui. Russel trova suo figlio e io scopro chi ho ucciso.»
«E a noi che ce ne frega?»
«Potrò capire perché la polizia si sta comportando così.»
«Ripeto, a noi che ce ne frega? Jordan è al sicuro, noi sia¬mo al sicuro, e ora Russel è libero. Abbiamo fatto giustizia e, se c'è dietro qualcos'altro, è solo un problema di Russel. Che ci frega come si chiamava il ladro? Non è uno che avremmo voluto come amico. Ha cercato di ammazzarti.»
«È una questione di principio.»
«Principio? Chi è che ha dei principi?»
«Io ne ho.»
«Già, il duro. Il solito codice del macho.»
«Non è solo questo. Non potrei più guardarmi in faccia se mollassi adesso.»
«Smetti di usare lo specchio.»
«Merda, Ann, non ne sono capace. Mi conosci.»
«Questa storia dell'onore è andata bene fino adesso, e pas¬si, Richard. Me l'hai sempre menata, ed era sempre a riguar¬do di faccende insignificanti. Dicevi sempre la verità anche quando potevi mentire a tuo vantaggio. Ammirevole. Aiutavi gli amici in caso di bisogno. Magnifico. Ma sono stronzate da catechismo. Non servono nella vita vera. Non quando ci sono in ballo cose grosse e schifose, carino.»
«Price mi ha fatto un discorso simile da una differente an¬golazione. Però non mi ha chiamato 'carino'.»
Ann riuscì quasi a sorridere. «È un problema della polizia. Forse sanno quel che stanno facendo. E forse sarebbe meglio che noi non lo sapessimo.»
«Per colpa loro, delle loro bugie, uno di noi poteva finire ammazzato, dal momento che hanno sostenuto che avevo sparato a Freddy Russel. Se non avessero mentito sin dal¬l'inizio, non sarebbe successo nulla. Voglio capire perché.»
«Tu vuoi solo essere sicuro di non infangare il tuo onore del cazzo» gridò, alzandosi bruscamente per versarsi del caf¬fè che schizzò sul ripiano.
«È qualcosa in cui credere. Mi dà fiducia in me stesso e, con tutti i difetti che posso avere, io ci devo credere, ed è la sola cosa che posso lasciare a mio figlio che valga una min¬chia di qualcosa. È tutto quel che mi resta di mio padre.»
«Si è sparato, Richard. Il suo senso dell'onore non gliel'ha impedito. Ha scoperto che tua madre gli faceva le cor¬na e non ha retto. La cosa offendeva il suo onore maschili¬sta, così si è fatto saltare le cervella... Oh, Richard, non intendevo... Non quello.»
Rimasi in silenzio per qualche istante. «Credo che si sia sparato perché era deluso di se stesso. Non è riuscito a resta¬re fedele all'uomo che pensava di dover essere. Penso che si sia sentito come se si stesse accontentando di arrivare secon¬do, quando la notte faceva l'amore con sua moglie e capiva che si stava abituando a quella situazione. Sapeva che avreb¬be fatto meglio a lasciarla o a chiarirsi con lei, o entrambe le cose, ma non se l'è sentita. A questo non si è rassegnato, a essere così debole. Gli è stato più facile ammazzarsi che li¬mitarsi a levare le tende.»
«Stai tirando a indovinare, Richard.»
«Sì, ma penso di avere ragione. Riesco a immedesimarmi con la sua sensazione di non essere all'altezza delle proprie ambizioni. Non sto dicendo che mi ammazzo se non potrò andare in fondo a questa storia, perché non ce la farei mai, ma mi piacerebbe capire di che pasta sono fatto. Non posso tornare a casa e guardare la televisione e leggere i giornali e lasciar perdere come se non fosse successo nulla. Mi rode¬rebbe dentro per il resto della mia vita. Non sei un minimo curiosa anche tu, Ann? Non vuoi scoprire cosa sta succeden¬do e perché?»
Stava per rispondermi negativamente, poi ci ripensò. «Bene, vediamo se riusciamo a scoprire cosa c'è sotto.»

20

Chiamai il Lazy Lodge. Quando venne a rispondere al te¬lefono, Russel sembrava vecchio e stanco.
«Usa un po' dei soldi che ti ho dato per chiamare Jim Bob Luke» gli dissi. «Te ne darò degli altri. Ann e io arriviamo lì per l'ora di pranzo appena abbiamo sistemato Jordan.»
«Tua moglie?»
«Mi pareva che tu sapessi come si chiama. Conosci tutti i nostri nomi e le nostre abitudini. Non ti ricordi che hai svolto delle indagini?»
Seguì un lungo silenzio. «Va bene, portatela dietro.»
«Era appunto questa la mia intenzione. Chiama quel Jim Bob per verificare se è il tale che conoscevi, se sta ancora lavorando come investigatore privato e se è disposto a lavo¬rare per noi. Ti portiamo un hamburger o qualcosa del gene¬re quando arriviamo. Dopo possiamo ragionare sul da farsi.»
«Qual è il numero di Jim Bob?»
Glielo diedi.
«Cosa ne pensa tua moglie?»
«Ti vorrebbe veder morto. Sono stupito che accetti anche soltanto di trovarsi nella stessa stanza con te.»
«Che casino. Preferirei chiarire questa faccenda con lei.»
«Be', non puoi. Stattene buono e fai la telefonata. Arrivia¬mo lì il prima possibile.»

Andammo all'asilo di Jordan e riuscimmo a farlo ammet¬tere, anche se era arrivato in ritardo. Poi ci fermammo a mangiare al Burger King, in modo da non essere costretti a pasteggiare assieme a Russel. Altrimenti, si esagerava col cameratismo. Dopo pranzo, gli comprai un panino con ham-burger, patate fritte e bibita, poi partimmo per il Lazy Lodge.
Ann, dando un'occhiata al posto, commentò: «Mi pare adat¬to al tipo.»
Ci avviammo verso la camera di Russel. Attaverso la porta ancora aperta, l'ospite ci stava guardando seduto sul letto. Io entrai, ma Ann rimase sulla soglia con gli occhi fissi su di lui. Russel non sostenne lo sguardo e preferì controllare degli strap¬pi sul tappeto che sembrava più vecchio del peccato originale.
«Entra pure, Ann» la invitai.
Le indicai la seggiola sulla quale mi ero già seduto io, e che anche questa volta si lamentò. Porsi a Russel il sacchetto con le cibarie, ma lui lo appoggiò sul letto di fianco a sé sen¬za aprirlo. «Grazie.»
Appoggiato al muro con le braccia conserte, sentivo il ca¬lore della stanza avvolgersi attorno a me come una cotta di maglia. L'impianto di condizionamento non era ancora entra¬to in funzione.
«Hai parlato con Jim Bob Luke?» chiesi.
Russel lanciò uno sguardo ad Ann, ma ciò che vide non gli piacque, quindi si girò di nuovo verso di me. «Sì.»
«Be'?»
«Tutto bene, è lo stesso Jim Bob Luke.»
«Per Dio, Russel, sputa fuori quel che vi siete detti.»
«Arriva fra tre ore, più o meno. Gli ho raccontato tutto. Non mi pare cambiato. È come se ci fossimo lasciati solo ieri.»
«Mi fa tanto piacere che abbiate parlato dei bei vecchi tempi andati» l'interruppe Ann. «Ma ci darà una mano?»
«Certo.»
«Cristo santo» commentò mia moglie uscendo dalla camera.
La seguii. S'era fermata a metà strada verso la nostra auto, e adesso stava appoggiata alla parete, scrutando davanti a sé come se vi fosse un fiume in piena che era costretta a guadare.
«Ti senti bene?» le chiesi.
«Come ho fatto a lasciarmi convincere?»
«Ann, sono a pezzi e so che lo sei anche tu. Io voglio insi¬stere e vorrei che tu fossi al mio fianco. Devo farlo. Preferi¬rei che capissi e ti adeguassi. O almeno che lo tollerassi. Ci conosciamo da troppo tempo per non fidarci l'uno dell'altro.»
Le porsi la mano.
Non sorrise, ma afferrò lo stesso la mia mano per tornare nella camera di Russel.

Verso le due e mezza una vecchia Cadillac rosso-sangue grande come un sottomarino parcheggiò direttamente da¬vanti alla porta di Russel. Appese allo specchietto retrovi¬sore vidi delle scarpette da lattante assieme a un dadone giallo di gommapiuma, e sul parabrezza spiccava un adesi¬vo fatto in casa con sei sagome umane e tre canine appena abbozzate, ciascuna obliterata con una X di traverso. L'au¬to aveva delle antennine anticordolo che stavano ancora vi¬brando frenetiche quando il conducente sbatté lo sportello e cominciò a stiracchiarsi.
«Merda, è la Caddy di Jim Bob. Quella carretta avrà vent'anni. Era nuova quando m'hanno sbattuto dentro.»
L'uomo che si stirava di fianco allo sportello mi sembrava un cantante folk in disgrazia. Era alto e magro e portava un frusto cappello di paglia con un paio di penne anemiche, una camicia bianca da cowboy a righine verdi, blue jeans scolori¬ti e stivali che dovevano essere finiti spesso a mollo nell'ac¬qua e nella merda.
Russel si sollevò dal letto per andargli incontro. Udii il cowboy che gridava: «Per Dio, vecchia belva, sembri una merda di cane appena cagata!»
«Sono stato malato» fece Russel conciliante.
«Malato? Sembra che tu abbia tirato le cuoia e qualche povero fesso ti abbia riesumato dalla tomba. È bello rivederti, vecchia merda puzzolente. Come butta?»
«Non male. Jim Bob, c'è una signora nella camera.»
«Ti costa dei soldi?»
«No, una vera signora.»
«Mi potessero inculare, me e la mia lingua del cazzo.»
Poi Jim Bob entrò in stanza sulla scia di Russel, così gli potei dare un'occhiata più da vicino. L'età era ardua da de¬terminare ma, da quel che aveva detto Russel, sapevo che an¬dava verso i cinquanta Aveva un bel volto scarno e abbron¬zato (tranne dove la fronte era protetta dal cappello) e una bocca piena di denti bianchi e sani fatti per sorridere.
«Tu devi essere Dane.»
Gli strinsi la mano e gli presentai Ann.
«Non avevi fatto cenno a una donna» fece notare Jim Bob all'amico.
«È stata una sorpresa anche per me.»
«Come va, signora? Mi scuso per il mio vocabolario là fuori nel parcheggio ma non sapevo che c'era una signora.»
«Trattatemi pure come se fossi uno di voi.»
«No, signora, non mi permetterei mai. Solo un sordomuto cieco potrebbe trattarla come uno di noi. Lei proprio non so¬miglia per niente a nessuno dei ragazzi.»
«Grazie» rispose Ann, dopo un momento di lieve per¬plessità.
«Ehi, Ben,» riprese Jim Bob «'sto cesso sembra un troiaio di Juarez, non ti potevi permettere niente di meglio?»
«Be', a dire il vero è il signor Dane che paga vitto e allog¬gio.»
«Sul serio? Questo non lo chiamerei un alloggio. Conosco negri che alloggiano in baracche migliori di questa.»
«Non cercavo un alloggio definitivo per Russel» spiegai. «Questo è solo un rifugio temporaneo.»
«Rifugio? Se fosse un pipistrello, si azzarderebbe a dor¬mire qui dentro? Cazzo, un pipistrello qui dentro manco ci verrebbe a cagare... Scusi il latinorum, signora!»
Guardai Ann e lei guardò me. L'espressione del suo viso era evasiva. Troppo evasiva.
«Statemi a sentire, signore e signori, togliamo le tende da qui e ci trasferiamo di filato all'Holiday Inn. Ci facciamo un po' di pappa buona e casomai procuriamo al vecchio Ben uno di quei letti magici che vibrano, e poi ci si rimbocca tutti le maniche. D'accordo?»
«Jim Bob, non ti conosco nemmeno» intervenni. «Russel ti ha spiegato cosa c'è in ballo?»
«Già, lui vuole trovare suo figlio e tu scoprire chi è quello al quale hai forato la zucca, sapere perché i poliziotti ti han¬no preso in giro e cosa stanno tramando. Il che non comporta che dobbiamo stare come vermi in questa sauna con questa graziosa signora appollaiata come un pappagallo su una se¬dia scassata. Spostiamo le tende dove c'è almeno l'aria con-dizionata. Ragiono meglio quando ho un bel bisteccone in pancia, con un paio di Lone Star ghiacciate per mandarlo giù. Non riesco a connettere quando sono più sudato di una troia cubana e il posto puzza come un porcile... senza offesa per i porci, anzi, io ne possiedo una dozzina, razza Yorkshire. Gen¬te, questo fa proprio schifo come quartier generale.»
Seguimmo Jim Bob e Russel all'Holiday Inn. Era impos¬sibile perdere le tracce della Cadillac, anche se Jim Bob gui¬dava come se stesse cercando di seminarci. Quella maledetta macchina saltava all'occhio a sei isolati di distanza più di un bosco in fiamme.
«E quel pagliaccio sarebbe l'investigatore privato?» chie¬se Ann.
«Ti aspettavi Mike Hammer o Jim Rockford?»
«Mi aspettavo uno che sapesse almeno leggere e scrivere. Quello sfigato non centrerebbe neanche il cesso, figuriamoci se sa condurre delle indagini. Non saprebbe nemmeno trovare il suo buco del culo con due mani e una mappa dettagliata.»
Scoppiai a ridere.
«Non è divertente» si lamentò Ann, ma anche lei si mise a ridere, mestamente. «Vuole solo spillarci dei soldi, e Russel gli tiene il gioco. Sono due pazzi, e noi non siamo da meno.»
«Be', in effetti Jim Bob è un tipo strano.»
«Strano? È un bifolco, uno del profondo Sud, è suonato. Hai sentito quel che ha detto delle baracche dei negri. Odio quel termine, 'negri', mi fa schifo. Non è solo matto, il no¬stro futuro compare è un fascista.»
«Non ho scelto la loro compagnia perché sono persone pro¬gressiste e socialmente impegnate. Intanto Russel non lo sono andato a cercare io, e Jim Bob al momento m'era sembrata una buona idea. Se è un cretino, non gli affido l'incarico.»
«Temo che si consideri già ingaggiato. Il quartier generale all'Holiday Inn? Dev'essere convinto che li installeremo lì. Non abbiamo bisogno di un quartier generale e loro possono dormire in quella mostruosità rossastra che adopera come macchina. Hai visto quelle scarpette e i dadi? E quelle insul¬se antennine per sentire dov'è il marciapiede?»
«Eppure non critichi i neri e i messicani per i loro dadi e le loro scarpette» rimarcai, e subito desiderai non aver aperto bocca. Ann non mi rivolse più la parola per tutto il resto del tragitto fino all'Holiday Inn.

21

Pranzammo al ristorante dell'albergo, o piuttosto, Jim Bob pranzò. Noialtri prendemmo tè e caffè, e Ann anche una fetta di torta di mele. Jim Bob ordinò bistecca, patate al forno e contorni vari. Quando diede il primo morso alla carne chia¬mò la cameriera e le ordinò: «Tesoro, riporta indietro la vac¬ca e finisci di ammazzarla. Lascia sul fuoco la mattacchiona per altri tre minuti, prima di ripresentarmela.»
Mentre Jim Bob aspettava la bistecca, chiacchierò sghi¬gnazzando con Russel dei vecchi tempi. Ann e io ci sentiva¬mo fuori posto, come se fossimo capitati alla festa sbagliata.
Quando la bistecca tornò, Jim Bob ringraziò la cameriera ordinandole anche una Lone Star Light, con un commento sul fatto che doveva rimanere un figurino, poi si avventò sulla carne gridando: «Proteine per il cervello.»
«Allora faresti meglio a mangiarne a quintali» ironizzò Ann.
La guardai. Russel la guardò. Jim Bob la guardò, e rise. «Maledettamente vero. Mi passi il condimento per l'insala¬ta? Quello che sembra che abbiano vomitato nella boccetta.»
Ann, con sguardo assente, gli passò la salsa. Jim Bob non era sensibile agli insulti, penso per un'inveterata pratica nel¬lo schivare apprezzamenti velenosi.
«Insomma, ci troviamo in una situazione ben strana» ripre¬se Jim Bob. «E, qualunque cosa stia succedendo, ci sono i poliziotti di mezzo. Direi anche che quella Ford beige nuova di zecca che ci ha seguito da quando abbiamo lasciato quel ci¬miciaio è della polizia, e il compare che l'ha posteggiata nel parcheggio entrando assieme a noi e ora se ne sta là seduto a bere la dodicesima tazza di caffè e a leggere per la terza volta le pagine sportive del giornale è un poliziotto. Come diceva il vecchio, poliziotti e macchine della polizia vanno sempre insieme. Quale che sia il letame in cui vi siete im¬pantanati, ormai è bello profondo.»
«Non posso sapere se è un poliziotto» obiettò Ann.
«Nemmeno io, signora. Ma immagino che lo sia. Non sa¬rei rimasto in circolazione tanto a lungo se non fossi capace di intuirlo. È normale che lei provi dell'ostilità nei miei con¬fronti, sorella. Non posso rimproverarglielo. Conosco Ben, e, dopo quel che ha combinato, lei mi sta accomunando con lui. Siamo amici ma non siamo la stessa persona, e il suo è tenta¬to omicidio. Anch'io al suo posto lo vorrei morto. Ma è ac¬qua passata. Ben ha perso il controllo, però adesso è sveglio come pochi, o quasi. Perciò collaboreremo, oppure ci mettia¬mo una bella pietra sopra e io porto il vecchio Ben a Houston per una sbronza di tre giorni e poi gli cerco un lavoro da qual¬che parte. Che ne dite? Lavoriamo assieme o no?»
«Non ho detto niente al riguardo» rispose Ann.
«Sì e no. Be', che ne dite, signori Dane?»
Interrogai con lo sguardo Ann, che rispose: «Bene. Quel¬l'uomo laggiù è un poliziotto e lavoreremo in gruppo.»
«Ottimo. Ora, la prima cosa da fare è andare a disseppelire il tizio a cui hai sparato.»
«Cosa?» domandai.
«Mi hai sentito. Voglio essere sicuro che il morto non sia Freddy. Ho sentito quel che hai detto e non credo che sia una balla, ma ti potresti anche essere sbagliato. E se fosse cam¬biato radicalmente? Se ti fossi sbagliato sul colore degli oc¬chi? Ho avuto a che fare con un esercito di testimoni oculari e non sempre ricordano cos'è veramente accaduto. Nel tuo caso, anche se non accetti che il ladro sia Freddy, potrebbe trattarsi di lui.»
«Impossibile.»
«Ecco le regole da cui partire. Se è Freddy, cerchiamo di capire perché hanno liberato Ben così facilmente e attacchia¬mo da lì. Se non è Freddy, cambiamo punto di vista. Lascia¬temi aggiungere una cosa.» Guardò Russel. «Se è Freddy, e tu sei ancora convinto che devi fare del male al signor Dane o alla sua famiglia, allora Ben, vecchio mulo, ti dovrò spara¬re in lesta e stenderti nella fossa assieme a tuo figlio copren¬doti di terra. Ricevuto?»
Russel sogghignò. «Non è detto che tu ci riesca.»
«Auguriamoci di non dover verificare, no?»
«Già, non ho voglia di ammazzarti, Jim Bob, dopo tanto tempo che siamo amici.»
«Anch'io soffrirei ad ammazzarti o a essere ammazzato da te, perciò speriamo che non si presenti l'occasione.»
«Non capiterà. Se è Freddy, accetterò l'evidenza che stes¬se rubando in casa di Dane e che Dane sia stato costretto a ucciderlo.» Russel mi fissò. «Ora so che non gli hai sparato mentre era disarmato, per infilargli la pistola in mano soltan¬to in un secondo momento. Non sei proprio il tipo.»
«Dio mio, non siamo obbligati a diventare amici per la pel¬le» brontolò Ann.
«Quanto a lei, signora, conservi pure tutto il suo sarcasmo, perché contribuirà a mantenerci lucidi. Adesso, lasciatemi fi¬nire il pranzetto, poi Ben e io ci facciamo dare una camera. Signori Dane, andate pure a casa. Vi chiamo io. Se il porta¬fogli sta cominciando a sudare e vi chiedete quanto vi coste¬rò, ecco qua. Trecento dollari al giorno, niente spese. Sto basso perché sono amico di Ben. Quanto alla permanenza all'Holiday Inn per noi due, provvedo io. Se vi pare esoso, non so che dire. È la tariffa. Non lo faccio per sport e non sono poi tanto amico di Ben da lavorare gratis.»
«D'accordo» dissi.
«È caro» replicò Ann.
«Ci sto» risposi io.
Jim Bob rise. «Non sono deliziose le donne? Strizzano i soldi tino a che non sentono uscire la scoreggia. Senza offe¬sa, signora. Sentite, andate a casa. Vi chiamo io appena ho bisogno. Non entriamo nei dettagli per telefono. Quando vi chiamo venite qui di corsa e parliamo a quattr'occhi. Da come butta, rischiamo di trovarci coinvolti in qualcosa di grosso e pericoloso. C'è il caso che siano già a casa vostra a mettere il telefono sotto controllo.»
Non riuscivo a immaginarmelo. Somigliava troppo a un brutto telefilm.
«Se l'amico là in fondo vi segue fino a casa, non prestate¬gli attenzione. Non vuol dire niente. Oppure ha un compare pronto a seguirvi. Voi limitatevi a tornare a casa e aspettare. Capito?»
«Capito» risposi.
«Signora, lei non deve tornare qua se non ne ha voglia. Ma se viene, che sia per collaborare: non voglio tra i piedi una tizia preoccupata di non smagliarsi i collant o cose del gene¬re. Prevedo che dovremo romperci il culo, e non ci servono dei pesi morti.»
«Le assicuro, signor Jim Bob, che non sono un peso mor¬to» sibilò Ann tra i denti.
«Ne ero sicuro.»
«Jim Bob ama ingraziarsi i clienti. Farli sentire coccolati e riveriti» s'intromise Russel.
«Il mio lavoro non sono le pubbliche relazioni, a meno che non menta per buoni motivi. Ma non mento mai ai miei clien¬ti. Non è così che si lavora.»
Ann uscì dalla sala ristorante senza aggiungere altro. Io mi alzai tirando fuori il portafogli.
«Nah, vi siete fatti solo un pezzo di torta e del caffè» si schermi Jim Bob. «Il conto tocca a me. La raggiunga. E, Dane, le dica pure che ha ragione, che trecento al giorno è caro. Ma, per Dio, sono il migliore, e di solito le spese non sono a carico mio.»

Sulla via del ritorno Ann tenne la radio a un volume dav¬vero alto, restandosene seduta a braccia conserte il più lonta¬no possibile da me. Dopo un po' spense la radio e cominciò a tamburellare sul cruscotto.
Jordan, sul sedile posteriore, pareva interdetto. Da quando eravamo passati a prenderlo all'asilo, aveva capito che stava succedendo qualcosa, però non capiva cosa.
«Mami, arabiata con papi?»
«Un pochino.»
«Non essere arabiata con papi.»
«Passerà.»
Cristo santo, lo speravo proprio.
Appena rientrati ci mettemmo d'accordo con i Ferguson perché badassero loro a Jordan. Certe volte eravamo noi a tenere i loro bambini, e al momento eravamo in credito di un paio di pernottamenti, per i quali Jordan e i suoi amichet¬ti ultimamente andavano pazzi. Qualche volta Jordan ci te¬lefonava quand'era il momento di andare a letto per farsi coccolare, ma nel complesso non gli rincresceva affatto dor¬mire fuori casa. E la mattina seguente dovevamo letteral¬mente strappare i bambini l'uno dalle braccia dell'altro per poter riportare a casa nostro figlio.
Mentre Ann l'accompagnava dai Ferguson, io rimasi a guar¬dare la televisione, con le orecchie tese verso il telefono. Nel¬l'aspettativa che suonasse. Nell'aspettativa di una novità.
Non successe nulla.
Ann tornò e alla fine andammo a letto verso le dieci e fa¬cemmo l'amore, ma fu un fallimento perché lei ce l'aveva an¬cora con me. Più che altro con Jim Bob, ma io ero quello più a portata di mano. Disse un paio di volte che avrebbe fatto in¬goiare a quel bastardo la battuta sui collant, prima che rinun¬ciassimo del tutto all'impresa per metterci a dormire. Ann mi scivolò tra le braccia e io le infilai una mano tra le cosce af¬fondando il naso nella fragranza dei suoi capelli. E, proprio nel momento in cui cedevo al sonno, suonò il telefono.
Senza nemmeno accendere l'abat-jour, afferrai a tentoni la cornetta farfugliandoci dentro qualcosa.
«Vieni subito qui.» Era Jim Bob.
«Sì, arrivo subito.»
«Eri sveglio?»
«In parte.»
«È meglio se lo sei del tutto prima che arrivi qui, capito?»
Risposi qualcosa e mi sdraiai di nuovo. Ann si girò nel let¬to, posandomi un braccio sul torace. «Jim Bob?»
«Già. Ci dobbiamo vedere con lui.»
«Vuol dire che non abbiamo tempo per una sveltina?»
«Non ha specificato nulla, sull'orario.»
Fu sesso frettoloso, ma Ann non era più incavolata e si di¬mostrò migliore di certe volte in cui avevamo più tempo a disposizione. Sapevo perché.
Avevamo entrambi paura.

22

Jim Bob e Russel ci vennero incontro nel parcheggio.
«Prendiamo il Troione Rosso» suggerì Jim Bob.
Ann e io salimmo di dietro, mentre Russel si accomodò davanti di fianco a Jim Bob. Pensai che forse quei due ci sta¬vano preparando un brutto scherzo, e si accingevano a por¬tarci in fondo al fiume per sbarazzarsi di noi. Chissà, forse sarebbe finita così. Erano amici da tanto tempo e non avevo la minima idea di quel che Russel gli aveva detto al telefono. Avrei preferito che mi fosse venuto in mente prima. Le luci degli edifici e dei negozi si riflettevano sul viso di Ann illu¬minando il suo profilo, all'interno dell'auto. Avevo la sensa¬zione che pure lei condividesse i miei timori. Già prevedevo che, se fosse finita in quel modo, le sue ultime parole sareb¬bero state: «Te l'avevo detto.»
Mentre uscivamo dalla città, osservai per bene il Troione Rosso. Era tappezzata di carminio, e sul cruscotto trionfava un «Jim Bob» in caratteri argentei a rilievo. Il volante era ri¬coperto da una volgarissima falsa pelle di ghepardo, con at¬taccato un 'pomello del suicida' color smeraldo che sembra¬va il batacchio di una porta. Jim Bob amava guidare con la sinistra sul pomello e la destra sul poggiatesta. Nello spec¬chietto retrovisore gli scorgevo parte del viso. Sembrava su di giri come un ubriaco.
«Come facciamo a disseppellirlo?» chiesi. M'era balenato nella mente che non avevo visto nessuna pala, il che mi ren¬deva ancor più nervoso.
«Ho dei badili e altra roba nel baule. Ogni genere di at¬trezzo. Ci tengo mezzo mondo là dietro, tranne un'altra auto.»
«Forse era meglio prenderne un'altra» fece Russel. «Que¬sta qui non passa proprio inosservata.»
«Perché dovremmo passare inosservati? Stiamo andando in macchina. Non è un crimine. Accidenti, avevo un furgone e me lo sono dimenticato.»
«Non scherzare.»
Jim Bob guardò Russel e sogghignò. «Vuoi vedere come semino il piedipiatti?»
Anche Russel sorrise. «Pensavo stessi perdendo il tuo smalto. L'ho notato quando siamo usciti dall'Holiday Inn. Hanno scambiato le macchine.»
Seppure tentati, Ann e io non ci girammo per individuare la presunta macchina inseguitrice.
«Siete sicuri che sia un poliziotto quello che ci segue?» do¬mandai.
«Certo» rispose Jim Bob.
«Non ci può costringere ad accostare?»
«Per cosa, per guida di una Caddy rossa? Non è un reato.»
«Forse con questa Caddy lo è» disse Ann.
Jim Bob rise. «Signora, lei mi piace, veramente.»
«Se scappiamo, poi la polizia non ci verrà a rompere le scatole?» feci io.
«Be', non è che scappiamo, li semineremo in modo lega¬le. Ma prima perché non mi dite dov'è questo accidenti di ci¬mitero?»
«Nella direzione opposta» lo informò Russel.
«Figurarsi» commentò Jim Bob sterzando a sinistra nel parcheggio del Safeway proprio davanti a un'enorme motrice con rimorchio. L'auto che ci pedinava prosegui. O almeno credevo fosse quella. Quando riuscii a gettare uno sguardo, vidi una Plymouth sportiva azzurra che rallentava spostandosi sulla corsia di sinistra. Il traffico però era tanto intenso che non riuscì a fare inversione.
Jim Bob si infilò sulla superstrada sbucando di fronte a una Volkswagen gialla che suonò il clacson e mise in azio¬ne i lampeggianti. La Volks ci superò sulla sinistra, acco¬standosi a noi. Il nerboruto studente universitario sul sedile di destra abbassò il finestrino e mostrò il medio a Jim Bob sbraitando qualcosa.
Jim Bob li salutò accomodante, poi premette a tavoletta e il Troione Rosso scattò in avanti, si riposizionò davanti alla Volkswagen, superò un'altra auto e infine tornò sulla corsia di destra. Procedemmo spediti per un paio d'isolati, quindi il detective curvò a destra, poi a sinistra, poi a destra e ancora a sinistra.
«Sto andando nella direzione giusta?»
«Quella giusta» rispose Russel.
«Molto bene.»
«Abbiamo seminato la polizia?» domandai.
«Certo» rispose Jim Bob. «Quelli e le loro macchinine. Com'è che ai bei tempi andati usavano le auto più grosse e toste che andavano in giro, e adesso hanno le più piccole e miserabili?»
«Gli Arabi, ecco cos'è stato» spiegò Russel.

Finalmente arrivammo al cimitero. Jim Bob spense il mo¬tore del Troione Rosso e scese per aprire il bagagliaio. Mi soffermai un attimo, domandandomi se ci stessero per am¬mazzare, ma era come aveva detto lui. Il baule era pieno di roba. Jim Bob prese due badili e un'ampia sacca di tela, la¬sciandoli cadere a terra, e porse le chiavi ad Ann.
«Porti il Troione più avanti lungo la strada e spenga i fari lasciando acceso il motore. La parcheggi rivolta da questa parte, così da poter seguire cosa succede, in caso di necessi¬tà. Cercheremo di fare più svelti della scopata d'un coniglio, le chiedo ancora scusa.»
«Vorrebbe smetterla di parlare in questo modo?» implorò Ann.
«Sa, ci provo. Quel che voglio dire è che, se dobbiamo es¬sere compagni di ballo, lei deve far finta di niente e conside¬rarmi sinceramente desolato per quel che mi scappa dalla bocca. Se non smadonno un po', mi si accumula tutto dentro manco fossi stitico e mi sento da schifo.»
«Non vorrei proprio che incorresse in una costipazione da parolacce. Piuttosto, io non sono una tassista.»
«No, signora, ma noi dobbiamo scavare e qualcuno deve pur guidare e sono io che dirigo questo bordello, così faccia quel che dico.»
«Ma siamo noi che paghiamo.»
«E sono soldi ben spesi. Non trovereste niente di meglio. Ora proceda.»
Quando Ann mi consultò con gli occhi, mi strinsi nelle spalle.
«D'accordo» decise.
«Stia attenta alla frizione» consigliò Jim Bob mentre Ann stava salendo.
«So guidare.» Chiuse lo sportello, mise in moto e si spo¬stò lungo la strada, quindi fece inversione, puntandoci contro i fari prima di spegnerli. La Caddy adesso era al lato della strada, sotto una quercia. A fari spenti, restava invisibile. Era una di quelle notti.
«Sapete che ci possono sbattere dentro per un po' d'anni per profanazione di tombe?» disse Russel.
«Cazzo, possono anche buttar via la chiave» commentò Jim Bob.
Arrivati alla recinzione del cimitero scoprimmo che il can¬cello era aperto. «Evidentemente non si aspettano che ci sia molta gente che muore dalla voglia di entrare» disse Jim Bob. «E quelli che sono dentro non scappano.»
Russel localizzò la tomba, poi io e lui brandimmo le pale.
«E tu?» chiese Russel a Jim Bob.
L'investigatore aprì la sacca togliendone una torcia elet¬trica. «Insomma, qualcuno dovrà pure far luce.»
Russel e io attaccammo a scavare. Durante l'impresa, co¬minciò a rinfrescare e si fece sempre più buio. Nell'aria si sentiva odore di pioggia. Giunti a metà strada verso la bara, iniziò a piovigginare.
«Meglio sbrigarsi» suggerì Jim Bob. «Sta per venire giù l'ira di Dio, e dopo, altro che scavare. Ci toccherà svuotare la fossa.»
«Come va la schiena?» gli chiese Russel.
«Alla grande. E la tua?»
«Fa male. Sto spalando.»
«E non te la cavi male.»
Russel cominciò a lavorare ancora più svelto. Man mano che ci avvicinavamo alla bara, scavava sempre più frenetica¬mente. A un certo punto lo osservai di sottecchi: sembrava un cadavere, alla luce della torcia. Aveva paura di quel che poteva trovare laggiù. Suo figlio e le sue speranze racchiusi in un feretro.
Guardai Jim Bob. Dato che reggeva la torcia, non ne di¬stinguevo bene i lineamenti, ma ostentava un'aria più solen¬ne del solito. Tanto per cambiare, stava anche zitto.
Il badile di Russel stridette contro la bara.
Cominciammo a togliere il terriccio, spalandolo fuori dal¬la buca. Stava diventando difficile lavorare. La pioggia s'an¬dava intensificando, e le zolle si appiccicavano fra di loro e si appesantivano.
Jim Bob a un certo punto comunicò che poteva bastare così e saltò sulla cassa da morto tenendo in mano torcia e sacca. Scivolò giù dalla bara, trovando un punto dove riusci¬va a stare in equilibrio tra la cassa e la parete della tomba, e apri la sacca.
«Non basta tirare il coperchio per aprire queste scatolette» spiegò. «Al giorno d'oggi le sigillano ben bene, le stronze. Ci vogliono gli attrezzi giusti. Fortunatamente, li ho con me.»
Tolse dal sacco degli strani aggeggi girandosi verso Russel. «Qualunque cosa troviamo, non voglio pazzie da parte tua. Se è il tuo ragazzo, mi dispiace, ma appena provi a tor¬cere un capello a Dane ti sfascio questo attrezzo sulla testa.»
Russel sorrise amaro. «Se ci provi... ma non temere, non ho più nulla contro Dane.»
«Così, nel caso ti saltasse la mosca al naso, ricorda quel che ti ho detto.»
Jim Bob mise in funzione gli attrezzi sulla bara. In un atti¬mo il coperchio si spostò di lato lasciando sfuggire un sibilo, come uno di quei pacchetti di noccioline sotto vuoto, ed ecco il cadavere. Era proprio ridotto male. Sembrava che qualcu¬no ci si fosse accanito sopra con un apriscatole ricucendolo alla bell'e meglio con dello spago nero da ubriaco. L'occhio al quale avevo sparato era imbottito, e anche in maniera mal¬destra, di roba che somigliava a cera. La salma pareva appe¬na uscita da un film dell'orrore.
«Non c'è molto da guardare» sussurrò Jim Bob posando una mano sulla spalla di Russel.
Quest'ultimo lanciò una rapida occhiata al viso e disse: «Punta la luce sulla mano destra.» Poi sollevò la mano per ispezionarla. «Te lo ricordi mio figlio, vero, Jim Bob?»
«Da piccolo. Era biondo, no?»
«I capelli si tingono... ma non è lui. Freddy aveva un grap¬polo di piccoli nèi chiari sul dorso della mano destra, a forma di quadrifoglio... come questi.» Lasciò cadere il braccio del cadavere e accostò il proprio alla luce. Scorsi il pallido dise¬gno dei nèi sul dorso della sua mano robusta. Strano che non li avessi mai notati.
«Ne sei sicuro?» chiese Jim Bob.
«Più che sicuro.»
Mi stava affiorando la nausea. «Dall'aspetto, sembrerebbe che abbiano cercato di deturparlo di proposito.»
«Penso che fosse proprio quella l'intenzione, amico» con¬venne Jim Bob.
Non avevo parlato seriamente ma adesso che anche Jim Bob s'era dichiarato d'accordo, capii che la faccenda era ancora più intricata del previsto. Un complotto. Piccoli ostacoli lungo il percorso. Forse, aspettandosi che il corpo fosse esumato, vole¬vano renderne difficile l'identificazione. E forse l'autopsia su un cadavere che si presume nessuno voglia vedere non viene eseguita con il massimo della pignoleria.
Lanciai la pala fuori dalla fossa e scalai la parete. Ne ave¬vo abbastanza. Jim Bob chiuse la bara salendovi sopra in at¬tesa che lo tirassi su.
Russel lo segui. La sua manona afferrò la mia e, mentre lo issavo, i suoi occhi mi si inchiodarono addosso. Non saprei dire cosa ci lessi, ma non era niente di minaccioso.
Afferrai il badile cominciando con foga a buttare dentro la terra. Russel m'imitò con l'altra pala. Jim Bob teneva la torcia.
All'inizio buttavamo dentro il terriccio a casaccio, poi sin¬cronizzammo il ritmo e cominciammo a lavorare all'uniso¬no, palata per palata, sempre più svelti. Sentivo Russel che grugniva di fianco a me, l'odore del suo sudore, la pioggerel¬la portata dal vento, e mi pareva di essere più rilassato, pro-vavo una strana sensazione di benessere. In quel momento l'unico scopo della mia vita era colmare quella buca.
E finalmente la tomba fu colma. Cominciammo entrambi a battere il terreno con le pale come in risposta a un segnale convenuto.
Ci guardammo.
«Non c'è più nessuno da queste parti che ha voglia di sca¬vare delle fosse» fece Russel. «Credo che potremmo trovare lavoro.»
Sogghignai. «Probabile.»
Le luci ci inchiodarono contro il buio della notte. Si senti lo sbattere di sportelli. Guardai in direzione della strada. Dai due camioncini, parcheggiati dall'altra parte della carreggia¬ta e rivolti verso di noi, uscirono quattro uomini armati di mazze da baseball. Passarono davanti ai furgoni e si fermaro¬no, stagliandosi nel bagliore dei fari.
Uno di loro, nervoso o forse impaziente, si stava battendo la mazza contro il lato di una scarpa. «Cosa cazzo state fa¬cendo?»
«Rendiamo omaggio a zio Harvey» rispose Jim Bob.
«A quest'ora?» chiese la voce.
«È a quest'ora di notte che ci sentiamo più sentimentali. E voi, invece, ragazzi, siete qui per allenarvi alla battuta?»
«Mettiamola così.»
«Come immaginavo. Penso che non sentirete ragione.»
«Temo proprio di no.»
«Già. Bene, ricordatevi che vi ho dato una possibilità.»
Uno degli uomini rise, poi avanzarono tutti insieme verso di noi, varcando il cancello.
«Che si fa?» chiesi.
«Semplice» sussurrò Russel. «Appena uno di quegli stronzi ti è a tiro, gli pettini il cranio con la pala.»
«Ma rischio di ammazzarlo.»
«Speriamo. Quelle mazze non ci faranno il solletico, te lo posso garantire.»
«C'è un motivo per tutto questo?» chiedeva intanto Jim Bob. «Insomma, che vi abbiamo fatto, amici?»
«Nulla» rispose il portavoce, e si avventò con la mazza contro Jim Bob.
Il detective, che si trovava un passo davanti a noi, lasciò ca¬dere la torcia mentre si girava in direzione della tomba, appa¬rentemente per beccarsi la botta sul dorso. Invece si lasciò sci¬volare e compì una mezza torsione, scagliando la gamba in direzione della caviglia dell'avversario. Gli sollevò i piedi da terra. L'uomo cadde al suolo, la mazza schizzò in aria, ricadde a picco e colpi proprio in mezzo agli occhi il tipo, che strillò.
Jim Bob a quel punto era già in piedi. Il secondo aggres¬sore gli era ormai addosso, vibrando la mazza. Jim Bob gli andò dritto incontro, passando sotto la traiettoria del bastone che gli sfiorò senza danni la spalla, poi afferrò l'uomo per la gola con una mano, sparandogli un montante nelle palle con l'altra, sollevò l'anca, gli cinse la vita con un braccio e si chinò facendolo volare lontano. E non aveva nemmeno perso il cappello.
Russel, fatto un passo in avanti, fintò un colpo di badile verso la testa del terzo assalitore, che alzò la mazza per para¬re. All'improvviso Russel abbassò la pala, colpendolo alla rotula. L'uomo s'abbatté tra le urla.
L'ultimo del quartetto s'involò verso i furgoni. Era quasi arrivato nel mezzo della carreggiata quando il Troione Rosso gli puntò dritto addosso accedendo i fari, poi frenò, ma non prima di averlo mandato a rotolare sul cofano e contro il pa¬rabrezza per poi cascare giù dal lato del guidatore. Il pove¬retto cercò di rialzarsi, o almeno credo, perché quando lo sportello s'apri, stagliando Ann contro la lucetta interna, la lamiera cozzò contro l'uomo con un impatto che mi fece ri¬salire i testicoli.
I ragazzi dei furgoni erano sistemati e io non avevo dovu¬to fare altro che tenere un badile in mano.
L'uomo che Jim Bob aveva fatto decollare stava cercando di rimettersi in piedi, perciò roteai la mia pala negligentemen¬te, senza metterci molto impegno, abbattendogliela sulla te¬sta. Al contatto lo strumento emise un piacevole tintinnio.
«Vedo che t'intendi sempre di quella roba giapponese» fece notare Russel a Jim Bob.
«Coreana. Haikido. Ehi, Dane, tua moglie, non è che ha una sorella?»

23

Andai a minacciare gli altri assalitori con il badile, intiman¬dogli di rimanersene distesi con le mani bene in avanti. Obbe¬dirono. Quello che s'era beccato la botta alla rotula da Russel stava strillando che aveva una gamba rotta, l'altro che invece aveva subito lo sgambetto di Jim Bob si lamentava per la ca¬viglia. Forse erano convinti che fossimo della Croce Rossa.
L'amico che avevo colpito col badile invece stava zitto. Era nel mondo dei sogni. Idem quello sbatacchiato da Ann con lo sportello della Caddy. Adesso mia moglie era scesa dalla macchina e, appoggiata allo sportello aperto, ci stava guardando da sopra la capotta. Quando mi fece uno cenno, le risposi. Era tutto molto edificante.
Jim Bob si rivolse ai ragazzi gementi rimasti sul terreno. «Spiacente di avervi dovuto spolverare un po', ma non ci ave¬te lasciato scelta. Adesso ce ne andiamo ma prima, tanto per chiarire un piccolo mistero, cosa ci siete venuti a fare qui, ragazzi?»
Nessuno rispose.
Jim Bob rifilò un calcio nella gamba più indicata a quello con la rotula distrutta, che ululò come un coyote. «Ora ve lo ripeto parola per schifosissima parola. Che ci siete venuti a fare qui?»
«Un tale ci ha assoldati per venire a vedere se qualcuno ficcava il naso nel cimitero» rispose Rotula Rotta. «Ha detto che, nel caso avessimo trovato qualcuno, dovevamo dargli una bella ripassata. Ci ha dato dei soldi.»
«Che aspetto aveva?» chiesi io.
«Alto, bell'aspetto. Sembrava un attore delle pubblicità di sigarette o di vestiti. Aveva un bell'abito, più di classe di quelli che compri al supermercato.»
«Dove vi ha scovati, ragazzi?» domandò Jim Bob.
«In una taverna fuori città, al Wagon Wheel. Su, amici, la¬sciatemi in pace. Sto malissimo.»
Jim Bob gli girò attorno per sferrargli un calcio nell'altra gamba, poi colpi anche l'altro compare alla caviglia buona. «Così il dolore è più equilibrato. La prossima volta che mi pestate i piedi, dolcezze, portatevi dietro i paparini. Voi non valete un cazzo di niente.»
Quelli rimasero sdraiati a lamentarsi.
«Ora vi comunico che noi ce ne stiamo per andare e sarei contento che rimaneste distesi dove siete, altrimenti vi faccio mangiare le mazze da baseball. Capito?»
Un paio di teste annuirono.
«Vi auguro una buona serata. Visto che sta spiovendo, se guardate da quella parte, appena si apre quella coltre di nubi, ammirerete l'Orsa Maggiore.»
Quando arrivammo nei pressi della macchina, le girai at¬torno per andare a dare un'occhiata all'uomo che Ann aveva steso con la portiera. Mugolando, stava cominciando ad ap¬poggiarsi sulle mani per rialzarsi. Spalancai nuovamente lo sportello sbattendoglielo contro la testa. Non era la sua notte fortunata. Si spense come una lampadina. Stavo comincian¬do a sentirmi aggressivo, anche se non ne avevo il diritto. Fin lì avevo soltanto picchiato in testa due tizi che erano già stesi a terra e minacciato un paio di feriti. Che duro!
Ann domandò se era tutto a posto e se non c'era nessuno in pericolo di vita. Jim Bob rispose: «Stanno bene, e lei è sta¬ta in gamba. I compari laggiù si lamentano che hanno le gam¬be spezzate, e forse hanno anche ragione, ma stanno molto meglio di come li avrei ridotti se fosse dipeso da me.»
Ann abbassò lo sguardo sull'uomo che aveva investito. «Avete visto com'è volato per aria?»
«Impeccabile» commentò Russel.
Jim Bob si fece dare le chiavi da Ann e aprì il bagagliaio, riponendo pale e attrezzi, quindi fece scivolare un settore del fondo del baule e ci frugò dentro fino a estrarre una doppietta a canne mozze.
«Non avrai intenzione di finirli, spero?» gli chiesi.
Ridendo, Jim Bob si avvicinò a uno dei furgoncini per spa¬rare alle gomme, poi aprì il fucile, ricaricò con altre due car¬tucce e si ripeté sull'altro pick-up.
Giratosi in direzione del cimitero gridò al quartetto che le gomme erano comunque tremendamente lisce, poi ripose il fucile nel baule. Risalimmo sul Troione Rosso, Jim Bob die¬de gas e ce ne andammo.

All'Holiday Inn salimmo nella camera di Jim Bob, che si tolse la camicia strappata durante la rissa per mettersene un'al¬tra. Ann gli chiese: «Quello tatuato sul petto è un pollo?»
«Un pollo? È un'aquila.»
«Sembra più un pollo.»
Tutti ci sporgemmo in avanti. Sembrava un pollo.
Russel confermò che aveva sempre pensato che somiglias¬se a un pollo.
«Ero ubriaco quando me l'hanno fatto, ma non avevo chie¬sto di sicuro un pollo. So solo che è un po' sbiadito.»
«Non era sbiadito quando l'ho visto la prima volta, e ho pensato subito che sembrava un pollo.»
«Chi se ne frega del pollo!» li interruppi. «Price ci ha teso una trappola, stanotte. Era lui quello che ha assoldato quei teppisti per bastonarci, se stiamo alla descrizione del tizio. Non so come abbia fatto a indovinare che saremmo andati al cimitero.»
«Non l'ha indovinato» rispose Jim Bob, mentre faceva scattare gli automatici della camicia. «Ha però pensato che fosse molto probabile. Ci vuole scoraggiare. Sono proprio queste le cose che mi fanno imbestialire. Ora almeno sappia¬mo che il corpo nella fossa non è di Freddy. Il prossimo pas¬so è scoprire dov'è Freddy e chi diavolo c'è nella tomba. E il motivo di questo casino.»
«E cosa possiamo fare?»
«Per adesso, lasciate che ci pensi io.»
«E noi?» domandò Ann.
«Lei e Dane tornate a casa alle vostre solite faccende. Andate a lavorare. Tornate a casa. Andate di nuovo a lavo¬rare. La solita merda. Dane, non mi dispiacerebbe se assu¬messi Russel nel tuo negozio. Ben diceva che sei proprieta¬rio di... Che cos'è?»
«Una corniceria.»
«Sì, gli dài un lavoro così non lo possono più considerare un vagabondo, mentre io lo sistemo qui all'Holiday. Mi ba¬sta che gli paghi un salario simbolico, che poi potrai scalare dalla mia parcella. Stai basso, comunque.»
«Non sono sicuro di essere d'accordo.»
«E neanch'io sono entusiasta» aggiunse Russel.
«E invece farete come dico io, agiremo alla mia maniera, oppure vi lascio continuare per conto vostro. Sono curioso, e voglio assolvere questo compito per Ben, ma sono io che di¬rigo le danze oppure chiudiamo bottega. Non è che mi ci sto facendo la villa in montagna, con questa storia.»
«Io ti pago» obiettai.
«Non è la mia tariffa regolare. Molte uscite le copro di ta¬sca mia. Ve lo ripeto, se volete che si continui, dovete cam¬biare atteggiamento. Non credo che ai tuoi clienti le cornici le regali, vero, Dane?»
«Non ti sto chiedendo di lavorare sotto costo. Hai propo¬sto una tariffa...»
«Non mi sto lamentando. Dico soltanto che i soldi non sono il motivo del mio interessamento. Non rimango un minuto di più se non sono io che comando. Punto.»
«Va bene. Lo prendo con me, basta che non si vada avanti per molto.»
«Ci vorrà quel che ci vorrà. Ben può cominciare a lavora¬re per te da domattina. Intanto, io passerò alla prossima mos¬sa. Se mi vuoi controllare per vedere come si procede, va bene, dammi un colpo di telefono. Però sappi che ci vorrà del tempo e voglio essere lasciato in pace il più possibile.»
«Siamo a posto così?» chiese Ann.
«Per adesso, madame. Perciò auguriamoci la buona notte, o sarebbe meglio dire il buon giorno, e andiamo a nanna. Non vai in negozio oggi, Dane?»
«Già.»
«Fai bene. Hai un aspetto tremendo. Ben comincia a lavo¬rare per te da domani.»
«Alle nove» comunicai mentre mia moglie e io ci alza¬vamo.
Jim Bob ci strinse la mano. «Limitatevi a condurre il soli¬to tran-tran.»
Russel mi porse la mano, che strinsi dopo un momento d'esitazione. Poi la offri ad Ann, che non si dimostrò altret¬tanto disponibile.
Russel annui facendo ricadere il braccio lungo il fianco. «Non posso darle torto.»
«Non me ne fregherebbe niente comunque.»
Sulla strada verso casa ricominciò a piovere, stavolta sul serio. Andò avanti così per tutta la giornata e per gran parte della notte e del giorno successivo.

24

La giornata di riposo non servi a molto. La mattina in cui tornai a lavorare mi sentivo ancora a pezzi. E depresso. Non ero per niente entusiasta di avere tutto il giorno Russel in mezzo ai piedi.
Per complicare ulteriormente la situazione, quell'uomo mi ricordava sempre di più mio padre. Si muoveva come lui, e persino la voce mi pareva molto simile.
Forse non c'era una tale somiglianza, ma ero soltanto io che cercavo di evocare il fantasma di mio padre e di dargli corpo.
Se era così, perché non avevo scelto un ospite più conve¬niente di un maledetto ex galeotto che aveva aggredito mio figlio e a me aveva quasi sfondato la testa?
Quella mattina faceva già caldo, come sempre. La pioggia era cessata soltanto da poche ore e adesso era spuntato il sole, facendo evaporare l'umidità dal selciato come dalle scaglie di un pesce in secca.
Dovevo passare davanti alla bottega prima di imboccare l'ingresso del parcheggio sul retro. Vidi così Russel che aspettava davanti al negozio, appoggiato alla porta a vetri. Avevo sperato che mi sarebbe stato concesso almeno qual¬che minuto, prima dell'apertura, il tempo di preparare il caf¬fè prima che mi toccasse avere a che fare con quell'uomo.
Parcheggiai, aprii dal retro e attraversai il negozio per andare a bussare sulla porta d'ingresso. Russel trasalì, mentre intanto io aprivo la serratura per farlo entrare.
«Mi hai fatto paura» si lamentò.
«Ti avevo visto passando qui davanti con la macchina. Pensavo che mi avessi notato anche tu.»
«No, ero distratto. Bel posticino. Sembra che gli affari ti vadano a gonfie vele.»
«Sì, non mi lamento.»
Lo condussi nel retrobottega suggerendogli di trovarsi una sedia mentre mettevo su il caffè. Poi regolai il termostato a una temperatura inferiore e andai ad aprire il registratore di cassa. Avevo portato da casa la borsa dei contanti, gli spic¬cioli e le banconote per le esigenze del negozio.
«Cosa vuoi che faccia?» chiese Russel, che intanto aveva lasciato la sedia per avvicinarsi al banco.
«Non so proprio. Non ci ho pensato. Credo che potresti dare una ripulita.»
«Bene. Con cosa, e come vuoi che sistemi?»
Gli mostrai il bagno e lo sgabuzzino con la scopa, lo strac¬cio e la paletta. «L'acqua per passare lo straccio la puoi pren¬dere in bagno. Da qualche parte nel ripostiglio ci devono es¬sere anche il secchio, il detersivo e ammennicoli vari. Non sono nemmeno sicuro di cosa ci teniamo, lì dentro. Non sia¬mo molto esperti in pulizie.»
«L'ho notato. Sotto i tavoli da lavoro il pavimento è tutto coperto di vetro, trucioli e segatura.»
«Be', siamo sempre con l'acqua alla gola. Fai come vuoi, basta che tu abbia l'aria impegnata. Non voglio che James e Valerie pensino che faccio favoritismi.»
James e Valerie arrivarono in quello stesso momento, os¬servandoci interdetti.
«Nuovo dipendente» comunicai. «L'ho assunto per qualche giorno per risistemare il posto, visto che noi non troviamo mai il tempo.» Esitai, domandandomi se dovevo pronunciare il nome di Russel. Mi pareva improbabile che si ricordassero come si chiamava il tizio a cui avevo sparato e, anche in tal caso, sembrava ancora più improbabile che associassero i due nomi come parenti. «Vi presento Ben Russel.»
James gli strinse la mano e Valerie gli sorrise, atto che equivaleva praticamente a un abbraccio caloroso. Sembrava che le andasse a genio quel che vedeva in lui, ed era ovvio che nemmeno a Russel dispiaceva guardarsela.
«Bene, mettiamoci al lavoro» proposi.
Russel sistemò subito il ripostiglio, poi spazzò e strofinò il locale fino a farlo luccicare come l'argenteria della Casa Bian¬ca. Quando non era in azione, chiacchierava con Valerie. I due filavano d'amore e d'accordo, apparentemente. Più di quanto non fosse successo a James, con la ragazza. Gli rodeva tanto, a James, che mi venne vicino appoggiandosi al bancone e sus¬surrando: «Cos'ha il vecchio che io non ho?»
«Un'erezione?»
«Divertente, capo. Sei la fine del mondo. Perché non met¬ti su un varietà televisivo?»
Nel giro di una settimana, mi sentivo già più a mio agio con Russel. Giunsi persino a elogiare il suo operato. Avrei preferito odiarlo, ma purtroppo quell'uomo mi piaceva. Ades¬so, quando lo guardavo, non mi tornava più in mente l'im¬magine di lui sul letto di mio figlio che afferrava la giac¬chetta del pigiama di Jordan con una mano impugnando un coltello nell'altra. Non riuscivo più ad associare la persona di quella notte con quella che stava lavorando per me. Ve¬devo un uomo che mi ricordava mio padre. E che mi faceva sentire a disagio. Mi costringevo a pensare alle sue male¬fatte per far montare la rabbia, ma anche così non durava a lungo.
Ero tanto soddisfatto di lui che ne parlavo positivamente anche a casa, e riferivo perfino qualche sua battuta diverten¬te. Ann allora mi guardava come se fossi un prete che aveva appena annunciato che il crocifisso è buono solo per grattarsi il culo. Eppure non riuscivo a impedirmi di ammirare il vecchio. Era un bel personaggio, aveva stile. Basti pensare a come trattò Jack il postino.
Dopo il nostro piccolo battibecco, Jack non era più stato molto amichevole. Ci consegnava la posta in questa maniera: apriva la porta, scoccandoci uno sguardo che avrebbe tramu¬tato in merda i mattoni, poi gettava la corrispondenza per ter¬ra con una tale violenza da farle attraversare in scivolata mez¬zo negozio.
Speravo sempre che gli sarebbe passata, ma alla fine capii che era meglio affrontarlo di petto, oppure rivolgermi al suo superiore. Invece ci pensò Russel.
Un martedì, dopo che Jack aveva interpretato la sua solita sceneggiata, Russel mi domandò cosa gli rodesse, al postino.
Avrei preferito non rievocare la notte della sparatoria, ma non avevo altra scelta che rivelargli tutto. In realtà, sgravarmi di quel peso parlandone mi fece sentire meglio. Col passare dei giorni, l'incidente mi si era di nuovo accumulato dentro, come una bronchite mal curata. Dormivo da schifo, rispondevo bru¬sco ad Ann e a Jordan, vedevo sempre gli aspetti più brutti del¬la vita invece di quelli migliori. E adesso era un gran sollievo potersi spurgare del veleno.
Quando ebbi finito il racconto, Russel disse che aveva ca¬pito e tornò alle sue incombenze.
Mercoledì, all'ora della posta, Russel lo stava aspettando sul davanti, presso la porta, fumando una sigaretta. Non m'accorsi di quanto stava tramando fino a un istante prima che succedes¬se. Jack arrivò con la sua camminata da pupazzo meccanico, apri la porta, infilò una mano piena di buste e piegò il polso per il lancio. Russel afferrò la mano, curvandola all'indietro, e uscì all'esterno con Jack, piazzandogli un braccio attorno alle spalle. Il postino tentò di scrollarselo di dosso senza successo, e me li vidi passare davanti alla vetrina per poi scomparire.
Un po' sulle spine, uscii dal negozio. All'angolo dell'iso¬lato trovai il berretto di Jack, con la nostra posta, e quando svoltai scoprii la borsa del postino e Jack in compagnia di Russel. Jack era steso lungo per terra con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso.
«È un reato» stava dicendo «aggredire la posta di Stato.»
«La prossima volta ti cago nel cappello e te la faccio man¬giare. Mi aspetto che d'ora in poi consegnerai la posta come si deve. D'accordo?»
La voce di Russel, così bassa e determinata, mi spaventò. Era il tono che aveva usato quel giorno nel parcheggio del¬l'asilo.
Jack rispose affermativamente, svuotato di tutta la sua ar¬roganza. Era solo un grosso bullo che aveva trovato pane per i suoi denti.
«Non sei così duro come dici. Io ho sessant'anni e t'ho ap¬pena fatto il culo. Alzati e smamma.»
Jack si appoggiò sulle mani e si mise in piedi. Vedendomi all'angolo dell'edificio arrossi di colpo. Mentre mi passava a fianco gli allungai la borsa della posta.
«E non dimenticare di raccogliere le lettere che hai buttato per terra» gli consigliò Russel. «Consegnale come si deve. Subito.»
Jack si girò a guardarlo, con una scintilla di sfida negli oc¬chi. Era solo una scintilla, che si dileguò come un ghiacciolo su una stufa.
«Subito» ripeté Russel con quella sua voce minacciosa.
Jack deglutì, girò l'angolo e raccolse le nostre buste. Lo seguimmo per controllarlo mentre apriva la porta e posava delicatamente la posta all'interno.
«Molto bene» commentò Russel.
Jack drizzò le spalle più che poteva mentre ci passava ac¬canto. Prima che fosse fuori portata d'orecchio, Russel gli gridò dietro: «Ti auguro una magnifica giornata. Hai sentito?»

25

Per pranzo portai Russel da Kelly, a mangiare hamburger, patatine e birra. Fu più forte di me, l'amico aveva una marcia in più.
Dopo mangiato, mentre ci facevamo un altro paio di birre, Russel disse: «Te lo devo proprio chiedere. Hai cambiato idea su di me, Dane? Voglio dire, mi hai perdonato?»
«È importante?»
«Importa eccome.»
Ci riflettei su un istante. «Non so descrivere esattamente cosa provo. Evidentemente tu piaci a una parte di me, altrimen¬ti non sarei qui a offrirti il pranzo e a chiacchierare con te.»
«Una parte soltanto, però.»
«Mi sento in colpa perché non mi stai sui coglioni. Forse mi sei simpatico perché mi fai pensare a mio padre, almeno come me lo ricordo io. Si è ammazzato quand'ero molto gio¬vane. Ci sono volte in cui ripenso a quella notte in cui hai af¬ferrato Jordan con una mano minacciandolo con il coltello. Non l'hai usato, però ci ripenso sempre. È come un fotogram¬ma fisso nella mia mente.»
«Sai cosa vedevo mentre tenevo tuo figlio per il pigiama, quella notte, Dane?»
«No.»
«Mio figlio. Per qualche motivo vedevo Freddy, come me lo ricordavo. Non l'ho più rivisto da quando era ancora un bambino, tranne che in quella foto di lui già grande che sua madre mi ha mandato in prigione. Chissà se veramente mi ricordo qualcosa, o se sono solo immagini che mi sono co-struito in galera. È a lui che pensavo quella notte, a Freddy.»
«Parlamene.»
«Non so se ho altro da aggiungere. Il suo ricordo è più che altro come un parassita che mi rode dentro. Mi vengono in mente le sue manine, i capelli biondi, gli stessi nèi che ho io sul dorso della mano.»
«E gli occhi azzurri.»
«Già, e gli occhi azzurri. Mi ricordo che mi meravigliavo sempre di quanto fossero piccole le sue mani. Non solo per¬ché erano quelle di un bambino. Erano proprio minuscole. Non deformi, solo piccole. Mia madre aveva delle mani così. Anche lei sul dorso di una aveva alcuni nèi, proprio come Freddy e me. Sai, l'ultima immagine che conservo di lui è un po' sciocca. Era Natale e gli avevo comprato un camioncino rosso e me lo ricordo steso a giocarci sul pavimento. Ancora adesso, quando ripenso a lui, è la prima cosa che mi viene in mente. Devo riguardare quella vecchia fotografia e concen¬trarmi a immaginarmelo più grande di quando aveva cinque anni, eppure non ci riesco del tutto.»
«Qual è stata la mosca nella minestra, Russel? Cos'è suc¬cesso che ha guastato tutto?»
«Io sono stato la mosca. Penso di esser stato merce avaria¬ta sin dalla nascita. Non mostravo delle crepe evidenti, ma da qualche parte c'era una piccola fessura invisibile. Mio padre faceva il guardiano notturno in una fabbrica e mia madre la sarta, e più avanti mise su una bottega. Conducevano una vita dignitosa ed erano gente dignitosa. Non posso rimproverarli di nulla. Hanno fatto tutto quello che potevano per incorag-giarmi e indirizzarmi sulla retta via.»
«Ma non ha funzionato.»
«No, non riuscivo a combinare niente. Mi annoiavo, esi¬gevo tutto e subito. Non volevo cominciare dal fondo. Mi sentivo più furbo di tutti quelli che mi stavano attorno e mi dava fastidio che qualche stronzo burino mi dicesse quello che dovevo fare quando non lo sapeva bene nemmeno lui.»
«Siamo tutti convinti di essere più in gamba degli altri.»
«E io ancor di più. So come va il mondo ma, Dio santo, dentro di me ne sono ancora convinto. C'è una parte di me che non riesce a capire perché non posso viaggiare nella cor¬sia di sorpasso.» Sorseggiò la birra e mi sorrise. «Sono un caso clinico, vero?»
«Già, ma non tanto diverso da molti altri. Ancora però non si spiega quanto è successo.»
«Forse è stata solo una serie sfortunata di circostanze, Dane, non so. Lavoravo in fabbrica, a una macchina che pressava la¬stre di alluminio per farne mobili da giardino, e non riuscivo a vedere un futuro. Era come se quello che cercavo mi stesse sfuggendo, e nascondesse una fortuna. Mi sentivo come se mi avessero condannato all'inferno. Sai cosa sarebbe l'inferno per me, Dane? Lavorare in una fabbrica di sedie d'alluminio, pas-sare il tempo a pressare quella schifosa, monotona lastra d'al¬luminio, con l'eterno rumore di quelle macchine di merda, kachum, kachum, e qualche buzzurro che mi controlla ordinan¬domi di andare più svelto. Questo è l'inferno, per me.»
«A tanta gente è toccato fare lavori di merda. Me compre¬so. Però non ci si deve sprecare tutta la vita.»
«Non ne dubito, ma io non riuscivo a guardare oltre. Non possedevo una finestra aperta sul futuro, a quanto pare. Col passare del tempo mi sentivo sempre più svuotato, così sono passato alla ricerca del denaro facile.»
«Rubare?»
«Sì. Da giovane non mi beccarono mai. Solo fortuna, nient'altro. Mi aggregai a dei ragazzi che battevano le sta¬zioni di benzina nel Texas orientale. Facevamo i nostri col¬pi con delle pistole ad acqua che sembravano armi vere e poi ci dividevamo la torta. Anche allora ero convinto che fosse solo un'attività da svolgere finché non trovavo qualcosa di meglio, il lavoro che avrebbe riempito quella parte di me che si sentiva vuota.»
Russel sollevò teatralmente il bicchiere e bevve un sorso di birra lento e prolungato. Poi riprese: «Per farla breve, an¬dai avanti così finché non mi beccai una condanna per una rapina in un negozio d'alimentari. Arrivai lì con la mia pisto¬la ad acqua, ma il proprietario ne teneva una sotto il banco che non sparava liquido, e me la tenne spianata in faccia men¬tre un commesso chiamava la polizia. Presi qualche annetto. Non molti. Ero giovane e il giudice fu clemente, e non ave¬vano idea di tutte le rapine che avevo commesso. Per loro ero ancora incensurato. Comunque, quando uscii ero stato pro¬mosso al giro grosso. Andai in Florida a fare società con uno svaligiatore specializzato in alberghi che si chiamava Mick. Aveva un giro ben avviato. Teneva in ruolino paga i fattorini e gli addetti agli ascensori degli hotel, che lo avvertivano ap¬pena scendeva in albergo un pollo da spennare.»
«Per loro era solo un lavoro come un altro.»
«Esatto. Poi noi arrivavamo nel momento più adatto, sali¬vamo nella camera del pollo, scassinavamo la serratura, pra¬tica in cui sono esperto...»
«Lo so.»
«Ti hanno truffato. Le grate e le serrature che ti hanno ri¬filato potrebbero riuscire a tener fuori un ragazzino di dodici anni, ma un ladro ci passa attraverso come un verme nella merda. Ti dovresti far dare indietro i soldi.»
«Me ne ricorderò. Allora, quella storia della Florida?»
«Entravamo in camera, portavamo via quel che ci interessa¬va dentro la valigia del pollo, per aggiungere la beffa al danno, e ce la filavamo indisturbati. Conoscevamo tutte le vie di fuga alternative, e poi godevamo dell'appoggio interno. Era una bazzeccola. In quella maniera si tirava su della vera grana.»
«Eppure non eri ancora appagato.»
«No. Sempre la solita vecchia storia. Non riuscivo a ve¬dere un futuro oltre ai miei obblighi immediati. Lo desideravo, ma non ci riuscivo. Era come se in un dato momento ci fosse, ma, appena me ne accorgevo, tutto mi si richiude¬va intorno. Mettermi a rubare aveva chiuso il conto con la fabbrica, ma dopo un po' nemmeno quello funzionava più. E non riuscivo a placare il senso di colpa. Non ero un cri¬minale nato. Non riuscivo a razionalizzare la cosa come fa¬cevano Mick e gli altri, lo consideravo ancora un errore. Credo che sia stato per via della mia educazione. Voglio dire, ero consapevole di essere un malvivente e un poco di buono. Non mi sentivo un allegro topo d'albergo, ma un pezzo di merda. Una volta che stavamo rubando in una stan¬za, mentre uscivo, mi sono visto riflesso in uno di quegli specchi che partono fin da terra, impegnato a portar via la refurtiva in una valigia, e ci sono rimasto. Era come un qua¬dro della mia vita e non mi piaceva per niente.»
«Allora hai provato a redimerti.»
«L'ho fatto. Sono tornato nel Texas orientale, ho incon¬trato Jane e ci siamo sposati. Cominciai a lavorare in un im¬pianto di produzione di legno compensato e per un po' il la¬voro non mi scassò le palle. Avevo qualcuno che mi aspettava a casa e qualche speranza per il futuro. Poi, quan¬do nacque Freddy, il mondo crollò. Volevo che il bambino avesse tante cose e non credevo che potessero arrivargli dal¬la fabbrica di legno compensato. Ebbi anche una piccola promozione, ma era così ridicola che mi fece solo incazza¬re. Come ti dicevo, non ho molta pazienza. Voglio tutto e subito. A ripensarci, là non me la passavo male e la promo¬zione era arrivata alla svelta, e la successiva pure. A quel punto non stavo più alla catena di montaggio, e gli stronzi urlavano cosa dovevano fare ad altri poveri sfigati, non più a me. Eppure mi sentivo di nuovo svuotato e ricominciai a fare cazzate. Avevo continuamente le palle fumanti e lo si notava sia a casa che al lavoro, così venni retrocesso, e liti¬gavo sempre con Jane e urlavo così forte a Freddy che poi mi sentivo in colpa. Fu allora che cominciai a fare dei colpetti, rubando roba da poco. Aspettavo i fine settimana per andare a fare ricognizione fuori città. Non che sollevasse di molto il mio reddito, ma almeno mi dava uno scopo. Che mi venisse un colpo se riesco a farmene una ragione. Come quel tizio che all'inferno continua in eterno a far rotolare un masso su per una collina. Arriva quasi in cima, ce l'ha pra-ticamente fatta, e quel maledetto sasso lo travolge. La mia vita era così. Ce l'avevo quasi fatta, poi mi cascava tutto ad¬dosso.»
«Tua moglie lo sapeva?»
«Qualcosa sospettava, quando me la svignavo nel fine set¬timana sostenendo che andavo a caccia e a pesca. Non torna¬vo mai con niente. Non passavo nemmeno da un mercato it¬tico a comprare del pesce da portare a casa tanto per far finta. Se fossi andato al mercato, probabilmente avrei comprato dei bastoncini di pesce per farci ancora di più la figura dell'idio¬ta. Finì che rubai gli stipendi della fabbrica. I soldi arrivaro¬no una sera tardi, e io sapevo benissimo dove li tenevano, perciò quella notte tornai dentro, scassinai serratura e cassaforte e fregai il malloppo. Uno dei capi tornò giusto in quel momento a cercare qualcosa e mi vide mentre uscivo dal¬l'edificio. Il giorno dopo non gli ci volle molto per fare due più due uguale quattro. Me la cavai restituendo i soldi e fa¬cendomi licenziare. Non volevano grane.»
«Direi che sei stato fortunato.»
«Se la vogliamo mettere così. Il resto lo conosci. Mi sono messo in combutta con dei ragazzi per un colpo in un nego¬zio di liquori che mi è costato vent'anni. Jane ha provato a rimanere in contatto, e sulle prime ho risposto alle sue let¬tere, ma non le ho mai permesso di venire ai colloqui in par¬latorio. Non volevo che lei e Freddy mi vedessero in prigio¬ne. Non mi calavo ancora nello spirito del carcerato. Mi sentivo un perseguitato. Mi segui? Continuavo a pensare che prima o poi si sarebbero ravveduti lasciandomi uscire. Lei mi mandava le foto di Freddy e mi teneva al corrente dei suoi progressi. Diceva che andava bene a scuola e che giocava come quarterback nella squadra di football. Sem¬brava bravo in tutto. Da un certo punto di vista ne ero orgo¬glioso, ma da un altro mi sentivo la peggiore delle merde di cane. Sono giunto persino a bruciare delle lettere e alcune foto di mio figlio. Poi ho deciso di tagliare i ponti perché almeno loro si potessero ricostruire uno straccio di vita. Era come essere diventato peggio che vuoto, come se fossi sta¬to rivoltato da cima a fondo e di me non fosse rimasto più niente, soltanto un buco affacciato sul nulla.»
«Che ne è stato di tua moglie?»
«È rimasta a lungo in zona. Mi amava. Smisi di risponde¬re alle sue lettere. Lei per un po' continuò a scrivere, ma alla fine si perse d'animo. All'ultima lettera allegò quella foto di Freddy da giovanotto. Non ho più saputo nulla di lei. Più avanti ho saputo che era morta alcolizzata in un motel a Dallas. Non so altro.»
«Freddy?»
«Non ne ho idea. Però mi ero ripromesso che quando fossi uscito l'avrei cercato per provare a riallacciare i rapporti. Avrei tentato di colmare quel buco che ho in me, riempien¬dolo con qualcosa. Poi, subito dopo la scarcerazione, m'han¬no detto che era stato ammazzato, oltretutto mentre svaligia¬va una casa, e a quel punto non c'era più un buco, Dane, ma un vortice che mi risucchiava l'anima.»
«E ora che sai che non l'ho ammazzato?»
«Forse il buco si sta rimarginando. Ho qualche speranza. Non so chi sia quello sfigato nella fossa al cimitero, ma non è Freddy. Vuol dire che ci sono buone speranze che Freddy sia vivo da qualche parte e voglio trovarlo per provare a es¬sere un padre per lui. Convincerlo che vale la pena di volermi bene. E convincere me stesso che la mia vita non è stata sol¬tanto un teatrino d'ombre, che ha uno scopo. O può averlo.»
«Spero che funzioni, Russel. Sul serio.»
«Lo so che lo speri.»
Chiesi del caffè, e poi ne bevemmo ancora un'altra tazza. «Hai parlato con Jim Bob?» domandai.
«Ci ho provato un paio di volte. Non si sbottona. Mi ha consigliato di avere fede nel Signore e nei Radio Snack.»
«Nei negozi di elettrodomestici?»
«Almeno così ha detto. Non ha intenzione di sbilanciarsi finché non è pronto. Lo conosco da un pezzo. È più furbo di quanto pensi. Non lasciarti ingannare dalla prima impressio¬ne di zoticone e da tutte quelle smancerie sui bei tempi anda¬ti. Quando facevo le rapine, lui lo sapeva. Cercò di rimetter¬mi in riga, di darmi dei consigli. Ma...»
«Non lo hai ascoltato.»
«Sapevo che aveva ragione lui, eppure non lo stavo a sen¬tire. Sempre la stessa vecchia storia. So come stanno le cose, ma non ci posso far niente.»
Controllai l'ora sull'orologio alla parete. «Accidenti, dob¬biamo tornare a lavorare. Non credo che James e Valerie sia¬no tanto d'accordo che porti a pranzo un aiuto a tempo deter¬minato, a bere birra e a spettegolare mentre loro fanno le cornici.»
Pagai il conto e lasciai la mancia. Mentre lavoravo, seduto dietro il banco, pensai a Russel, che in quel momento stava spazzando, e a quello che mi aveva detto su quel buco interiore che s'era trasformato in un vortice che gli risucchiava l'anima.

26

Era una domenica afosa, con un vento rovente che soffia¬va attraverso le conifere come la tosse di un malato, portan¬do con sé il sentore del pesce marcio dal lago LaBorde. Gli uccelli cinguettavano sottovoce tra gli alberi come se per loro fosse più un dovere che un piacere. Pareva che avessero un gran bisogno dell'aria condizionata.
Conosco bene Ann, e la conoscevo bene anche allora. Ci stavamo dando il cambio davanti alla griglia in cortile a cuo¬cere hamburger, pentiti di non esserci fatti piuttosto dei sand¬wich di tonno nella fresca penombra della casa. Jordan però non se la passava male, seduto nel patio a giocare con una macchinina, emettendo rumori che imitavano quelli di un motore.
Avevo appena girato la carne quando sentii il telefono che suonava in cucina e tornai dentro per rispondere.
Era Jim Bob.
«Che state combinando?»
«Cuociamo degli hamburger, e grondiamo come braccianti.»
«Bel programma.»
«Sudare o cuocere?»
«Entrambi, ti confesso. Sono chiuso da tanto tempo in que¬sta stanza malefica che avrei proprio bisogno di una buona sudata come si deve. Mi sta già cominciando a crescere della moquette sulla pianta dei piedi.»
«Be', vieni a fare un giro da queste parti.»
«Posso invitare anche Russel da voi?»
«C'è Jordan e... insomma, lo sai cos'è successo.»
«Lo so, ma ho delle cose importanti da dirvi a tutti e due. Non potete arrangiarvi in una qualche maniera? Una baby-sitter?»
«È una gran rottura, ma credo di poter chiedere ai Ferguson. Sono ancora in debito di qualche turno.»
«Ottimo.»
«Le notizie che ci vuoi comunicare. Sono buone?»
«Buone? Be', non so se lo siano o meno, ma sono notizie. Ho fatto dei progressi. So che ne è stato di Freddy e so come trovarlo.»
«Ottime notìzie.»
«Non necessariamente.»
«È vivo?»
«Direi proprio di sì.»
«Non sono buone per Russel, allora?»
«Forse, o forse no.»
«Cos'è tutto questo mistero, Jim Bob?»
«Mi sarà più facile spiegarmi quando sono lì. Porto della birra.»
«Fantastico. Ci vediamo dopo.»
«A proposito, li voglio ben cotti. Quando quello schifo fuma, si sta cuocendo. Quando è nero è pronto.»
«Sembrerà un dischetto da hockey su ghiaccio.»
Gli hamburger erano pronti molto prima dell'arrivo di Jim Bob e Russel, così li riponemmo nel microonde per riscaldarli in un secondo tempo. Preparammo un panino per Jordan, poi telefonai ai Ferguson per chiedergli se erano d'accordo a che gli portassi mio figlio. Visto che si dichiararono disponibili, Ann lo accompagnò da loro, ma tornò indietro più incavolata di quando era uscita - ed erano già allora cavoli amari. Non voleva Russel a pranzo, per come la vedeva lei era come in¬vitare Hitler. L'unico desiderio che provava era trapanargli un occhio con un bastoncino appuntito inchiodandogli la te¬sta contro un palo, e poi versargli della trementina sulle palle per dargli fuoco. Per puro spirito di contraddizione mi comu¬nicò che avremmo mangiato all'esterno sul tavolo di sequoia. Quell'uomo non sarebbe entrato un'altra volta in casa sua.
Quando arrivarono gli ospiti, il vento era diventato fasti¬dioso e le zanzare, più simili a squadriglie di bombardieri, avevano cominciato a migrare dal bosco in cerca di preda. S'era fatto tardi: il sole stava scendendo a occidente e la gri¬glia s'era raffreddata, di modo che non faceva più tanto cal¬do. Avevamo smesso di andare a fuoco, ci stavamo soltanto arrostendo.
Sentendo il Troione Rosso che risaliva il vialetto, feci il giro attorno alla casa per accogliere gli ospiti e guidarli sul retro. Quando Russel vide Ann cominciò a dare segni d'inquietudine con le mani. Non sapeva dove metterle. Provò lungo i fianchi, poi nelle tasche, ma non sembravano stare a posto da nessuna parte e per la maggior parte del tempo si dimenarono come se cercassero d'involarsi dai polsi. Non l'avevo mai visto così tur¬bato come in presenza di Ann.
Jim Bob non sembrava farci caso. Aveva portato un pacco da sei di Lone Star, che Ann mise in ghiaccio prima di co¬minciare a scaldare gli hamburger al microonde. Feci acco¬modare Russel e Jim Bob al tavolo di sequoia, poi portai fuo¬ri i contorni su un vassoio.
Ann portò hamburger e birre, dopodiché tutti cominciam¬mo a prepararci i panini con senape, lattuga, pomodori, la ricetta tradizionale, insomma. L'unico che parlava era Jim Bob. Sproloquiava del tempo, del prezzo della benzina e su come la polizia di LaBorde gli stava alle calcagna come un anatroccolo con la sua mamma, poi si rivolse a Russel ag¬giungendo, nello stesso tono di voce: «Ho scoperto cos'è successo a Freddy, Ben.»
Russel rimase interdetto, mentre cercava di capire cosa l'altro avesse voluto dire. «È forse...»
«Per quanto ne so è tutto a posto, per quanto riguarda la salute, ma non sono sicuro che ti piacerà quel che ti dirò.»
«Dillo.»
«Va bene. C'è un intero repertorio di modi per rintracciare una persona scomparsa e, se non li conosco tutti, me ne man¬cheranno al massimo uno o due, e se valessero qualcosa co¬munque li conoscerei.»
«Non le fa difetto l'autostima, vero?» ironizzò Ann.
«No, so cosa sono capace di fare e cosa non sono capace di fare, e una delle cose in cui riesco meglio è trovare la gen¬te. Non perché sono un furbissimo figlio di buona donna, an¬che se un tantino lo sono, ma perché ho degli agganci. Quan¬do sei nel giro da tanto tempo come me accumuli parecchie conoscenze. Ma dei contatti ne parliamo dopo. Come punto di partenza ho fatto un salto al quotidiano locale. Supponen¬do che questa zona sia stato l'ultimo territorio di caccia co¬nosciuto di Freddy, almeno a dar retta alla polizia, ci doveva essere una qualche menzione su di lui, in cronaca. Anche sen¬za contare gli annunci mortuari, tutti ci finiscono, in una ma¬niera o nell'altra, così è il punto migliore da cui partire. È lo stesso metodo di ricerca che hai usato tu, Ben, quando cerca¬vi notizie su Dane.»
«Non me lo ricordare» supplicò Russel.
«Esatto, non ce lo ricordi» aggiunse Ann.
«Sono andato al giornale per vedere cosa riuscivo a sco¬prire e mi venga un colpo se Freddy non era citato un paio di volte. Una riguardava la sparatoria con Dane, che sappiamo com'è andata, visto che si trattava di un altro povero bastar¬do. Non era una notizia da prima pagina, ma non l'hanno re¬legata nemmeno in ultima. L'hanno pubblicata con fare in¬differente nelle pagine centrali. Insomma, volevano che ci fosse tanta gente che poteva vedere la sua faccia senza dare l'impressione di stare pompando la notizia. Non è un articolo lungo e non entra nei dettagli, ma è riuscito a citare il nome di Freddy in quattro occasioni.»
«Nel caso che a qualcuno fosse sfuggito» disse Ann.
«Già. Il giornale, o chi lo stava manovrando, voleva esse¬re sicuro che qualcuno si convincesse che Freddy aveva avu¬to il fatto suo. Ecco perché i poliziotti hanno approfittato di quel furto appioppando il suo nome al cadavere. Se Freddy è morto, la sua è una pista vecchia, un vicolo cieco, e nessuno avrà più motivo di cercarlo.»
«Ma perché ci dovrebbe essere qualcuno interessato a rin¬tracciarlo?» domandò Russel.
«Ci arrivo subito. Dicevo che ho trovato due notizie su Freddy. L'altra era di un mese prima. C'era scritto che un tale Freddy Russel era disponibile a testimoniare contro una banda che il giornale chiamava la Mafia del Sud, la Dixie Mafia.»
«Cristo, mi ricordo di averlo letto» lo interruppi. «Mi è en¬trato in un orecchio ed è uscito dall'altro. E non mi ricordo proprio il nome di Freddy.»
«Non ce n'era motivo. L'articolo era imboscato nelle ulti¬me pagine, non era più lungo di un paragrafo e citava solo una volta il suo nome. Sono sicuro che, se l'FBI avesse tenuto tutto sotto controllo, non sarebbe mai saltato fuori nemmeno quello. Però si sono presi la briga di insabbiare la faccenda un mese più tardi appiccicando a quel ladruncolo defunto il nome di Freddy.»
«L'FBI?» fece Russel.
«Sono loro gli stronzi che stanno dietro alla faccenda. Ecco perché Price ti ha lasciato andare, Ben. In simili circostanze era la cosa più saggia da fare. Non volevano che tu e Dane solle¬vaste un polverone che riconducesse a Freddy. Price è come tutti gli sbirri di paese, gli stanno sulle palle i federali ma è costretto a leccargli il culo, che gli piaccia o meno. E quando è saltato fuori quel ladro stecchito come un baccalà, s'è trovato davanti quello che l'FBI stava cercando. Un capro espiatorio. E, ciliegina sulla torta, il coglione era stato fatto secco proprio qui, nella cittadina di Freddy. Una coincidenza cagata dal cielo. La sua identità per il vecchio Freddy. Il tizio che hai ammazzato, Dane, di sicuro non aveva una famiglia o qualcuno a cui fosse facilmente ricollegabile, perciò gli hanno regalato l'identità del giovane Russel.»
«Va bene, ma ancora non capisco il perché» obiettai.
«Da quel breve paragrafo sul giornale ho capito che Freddy era collegato a quei mafiosi e svolgeva i compiti di un mafio¬so, poi le cose devono essere andate a puttane e la merda gli è arrivata sopra la testa. La legge gli è piombata addosso e, per evitare di finire schiacciato sotto i tacchi degli sbirri o dei suoi vecchi compari, ha cantato come un usignolo del cazzo con un attaccapanni rovente infilato su per il culo.»
«E in cambio gli hanno garantito l'immunità» aggiunse Russel.
«Uh-uh, e qualcosa d'altro. Non l'hanno strombazzato in giro, ma al vecchio Jim Bob sembra logico che, dal momen¬to che il Freddy morto non è quello genuino, avessero sin dall'inizio dei progetti per quello vero. L'hanno fatto sparire. Probabilmente ha sempre fatto parte dell'accordo. Freddy acconsentiva a cantare in cambio di una nuova identità, e l'FBI ha accettato. Quando ha finito il recital hanno fatto fin¬ta di lasciarlo libero per un po', mentre in realtà se ne restava al coperto. La Mafia del Sud gli era alle costole per spellarlo vivo, e poco tempo dopo questo coglione penetra in casa tua, tu gli spari...»
«E quando chiedo a Price se lo conosce, lui risponde subi¬to di sì e gli affibbia il nome di Freddy.»
«Scommetto che lo conosceva, e che sapeva di lui abba¬stanza da sperare di farla franca. Ha intuito di cosa avevano bisogno i federali e forse ha intravisto una promozione, un fiore all'occhiello. Price ha chiamato l'FBI dicendogli cos'era successo e quel che aveva combinato, e i ragazzi sono stati al gioco. Se invece l'idea gli fosse andata di traverso, ti avreb¬be richiamato sostenendo che s'era sbagliato, che era saltato fuori che il morto non era Freddy Russel. Gli era solo parso che si somigliassero un po', e...»
«E non sarebbe successo nulla di tutto questo» aggiunsi.
«Questo è il quadro della situazione. Price ha cercato per tutto questo tempo di coprire le sue tracce e quelle dei fede¬rali.»
«Sto cominciando a capire perché mia moglie è morta in quella maniera» intervenne Russel. «Mi aveva sempre men¬tito su Freddy. Lui aveva preso da un bel pezzo una brutta china.»
«Come il suo vecchio» concluse Ann. Se fosse possibile affilare le parole e scagliarle, quelle sarebbero spuntate dalla nuca di Russel di un palmo buono.
Russel la guardò, e non c'era un filo di sarcasmo nella sua voce quando sussurrò: «Proprio come lui.»
«Sai dov'è Freddy, vero, Jim Bob?» ripresi.
«Sì. Gran parte di quello che vi sto dicendo non erano che pure congetture, all'inizio. Stavo solo scovando degli indizi facendoli combaciare in base alla mia esperienza per decide¬re quale intreccio sembrasse più plausibile. Poi ho controlla¬to, e ho trovato dell'altro, e adesso so dove si trova.»
Russel accese una sigaretta, con le mani che tremavano lie¬vemente. Tale è l'influsso della carne e del sangue. «Se lo sai tu, allora anche la Dixie Mafia può scoprirlo, no?»
«Forse, ma devono avere gli agganci giusti. E secondo me, se fosse così facile trovare i testimoni, non ci sarebbero pro¬grammi di ricollocamento. Nessuno dei signori dell'FBI sarà Einstein, ma non sono così tonti come li dipingono i giornali¬sti. E sono maledettamente leali, almeno tra loro. Può capitare che spifferino qualcosa di troppo a qualcuno di cui si fidano, ma a un malvivente non direbbero nemmeno che ore sono. E se le cose prendono una brutta piega per i testimoni, quelli che hanno ricollocato, di solito li trasferiscono. Non voglio dire che passino notte e giorno con la gente che coprono. Li sistemano, li lasciano andare e gli danno un numero a cui possono telefo¬nare se si presentano dei problemi. Dopodiché i testimoni van¬no avanti per conto loro. Questo perché l'FBI ha una fiducia illimitata nei propri programmi di ricollocamento. Ogni tanto si apre una falla e un insetto si fa vivo, ma raramente. Se ci pensi ricollocano un sacco di gente, e per la maggior parte quelli ri¬mangono nascosti tutta la vita.»
«Che tipo di agganci avresti?» chiesi.
«Ben, ti ricordi di Calvin Hedges?»
«Mi ha arrestato un paio di volte per ubriachezza molesta nella contea di Smith. Mi teneva dentro una notte e poi mi mollava. Accidenti, allora ero quasi un bambino. È ancora vivo? Dovrà avere ottant'anni suonati.»
«Ottantacinque. E sostiene che il suo arnese gli diventa an¬cora duro come un cacciavite. Non è più sceriffo ma suo fi¬glio, Calvin Junior, lavora per i federali, e il vecchio Calvin mi doveva un paio di favori. Uno me l'ha ricambiato. L'ho convinto a dare un colpo di telefono a suo figlio per chieder¬gli di richiamarmi. Gli ci sono voluti due giorni per organiz¬zare perché Junior era chissà dove, ma alla fine ha chiamato rendendomi il favore.»
«Molto gentile, no?» dissi io.
«Come dicevo, il vecchio mi era debitore e il ragazzo vo¬leva dargli una mano a mettersi in pari. Uno dei favori che il vecchio mi doveva aveva proprio a che fare con Junior, e il giovanotto lo sapeva. Sapeva anche che stavo dalla parte dei buoni e così s'è prestato a dirmi quel che mi serviva, dopo avermela menata un po' e dopo che gliel'ho messa giù dura sugli obblighi suoi e di suo padre.»
«E dove si trova Freddy?» chiesi.
«Non è stato facile scoprirlo. Junior non voleva infilare il collo nel cappio più di tanto. Lavora agli archivi, comun¬que, e mi ha passato il codice d'ingresso al computer cen¬trale dell'FBI. Equivale a una ragazza che ti dà la chiave di casa sua. Mi ha dato un altro paio di codici e... Be', per far¬la breve, il computer, se sai come lavorartelo, è un gran tontolone. Ci sono stati dei ragazzini di quindici anni che, con un minimo di pratica, sono riusciti a sfondare codici impenetrabili come al Pentagono. Ci vuole del tempo per un'opera¬zione del genere, ma puoi star tranquillo che ce la puoi sem¬pre fare. Per prima cosa devi fare in modo di accedere a un computer di livello basso e attraverso quello passare ai li¬velli superiori. E se ci sai fare come me, e riesci a procurar¬ti i codici necessari senza dover perdere un'eternità a sta¬narli, ti risparmi molto tempo. Poi ti infili dentro come un serpente e raccogli quel che ti serve con una bassissima pro-babilità di farti beccare con le mutande abbassate. Quei com¬puter sono una potenza. Con uno di quegli affari e un mo¬dera puoi fare il cavolo che ti pare, tranne che portare fuori il cane a far la pipì.»
«Li sai usare? Sei un esperto di computer? Dove hai impa¬rato?» chiese Russel.
Jim Bob parve contrariato. «Sul manuale, scemo. Cristo, sono in gamba, cosa credi? E lo sai. Sono abbastanza sveglio da capire che è necessario stare al passo coi tempi. Solo per¬ché l'uomo è nato col culo scoperto non vuol dire che deve rimanerci per sempre. Si è fatto dei vestiti con le pelli d'orso, poi di cotone e infine di merda sintetica. Uguale con i com¬puter. Adesso le cose viaggiano così. Se non ti tieni al passo, sei come una ragazza che usa l'Ogino invece della pillola. È stupido.»
«Oppure» intervenne Ann «sei come un uomo che dipen¬de da una donna per il controllo delle nascite invece di pren¬dersi la briga di pensarci per conto suo.»
«Ha detto la sua. Contenta? E poi sul computer ci puoi far viaggiare dei giochini che sono la fine del mondo. Ce n'è uno con una scimmia che sale la scala e getta le noci di cocco ma intanto deve anche stare attenta a una serie di trappole e tra¬bocchetti. Mica facile, è questo che voglio dire. Ce ne sono degli altri che voglio provare, ma non è che te li regalano, non so se mi spiego.»
«Immagino che sia questo che intendevi quando hai parla¬to a Russel dei Radio Shack, vero?» m'informai.
«Già. E, tanto perché lo sappiate, vi ho appena comprato un computer e un modem per il vostro lavoro, tanto a me non serve. Ho un sistema più avanzato a casa.»
«Non ho bisogno del computer, e poi mi avevi detto che la tua tariffa non prevedeva spese.»
«La considero un'eccezione alla regola.»
Stavo per cominciare una discussione ma decisi che non ne valeva la pena. Jim Bob era una forza della natura. Se ave¬vi a che fare con lui, ne dovevi accettare le conseguenze. Più arduo sarebbe stato venire a patti con Ann, in seguito. Spera¬vo di riuscire a convincerla che la mia attività aveva bisogno di quella macchina. Nel frattempo evitavo di incrociare il suo sguardo. La situazione sarebbe precipitata abbastanza grave¬mente dopo che se ne fossero andati.
«Bene» conclusi. «Non ne posso più. Dicci cos'hai scoper¬to, per Dio, e facciamola finita.»
«Per concludere, Freddy sta a Houston, sotto il nome di Fred Miller. Ora il problema è: vogliamo andare fino in fon¬do?» Jim Bob si rivolse a Russel. «È tuo figlio, Ben, e la scel¬ta spetta a te. Se lo vuoi rintracciare, lo facciamo. Altrimenti, lasciamo perdere, cerchiamo di appurare quello che sta cer¬cando Dane e ce ne freghiamo del resto.»
«Non è questo che avevo in mente» ribatté Russel.
«È tuo figlio, sei arrivato fino a questo punto e forse le cose sono cambiate, ora che è lontano da quella manica di mafiosi. Non credo che intonerà degli inni o cose del gene¬re, ma potrebbe prenderla per il verso giusto. È possibile che non sia mai stato immischiato in niente di grave, che abbia solo scoperto delle cose molto sporche. Forse ha can¬tato perché cominciava a provare rimorso... D'altro canto, la situazione potrebbe prendere una piega molto peggiore di quanto immagini.»
Russel mi guardò. «Se hai ancora intenzione di finanziar¬mi per riuscire a scoprire anche quello che vuoi tu, io sono intenzionato ad andare avanti.»
«Non posso tirarmi indietro proprio adesso» risposi. «Devo sapere.»
«Vederci chiaro a qualunque costo, eh?» disse Ann.
La guardai. «Mi dispiace, ma è così.»
Lei scosse la testa senza replicare.
«Bene, allora» riprese Jim Bob. «Si fa. Domani sera, sul tardi, lasciamo questo cesso di paese. In giornata devo soddi¬sfare una certa promessa, e non mi libererò fino a tarda ora.»
«Che genere di promessa?» chiese Russel.
Jim Bob sorrise. «Be', ho promesso a quel bocconcino che lavora al ristorante dell'albergo che avrebbe goduto della mia compagnia per tutto il giorno, e sono un tipo che mantiene sempre i suoi impegni. Inoltre non sarebbe signorile privarla di quella che rischia di essere l'esperienza più gratificante di una vita intera.»
«L'ho detto prima e lo ribadisco» fece Ann. «Non le fa di¬fetto l'autostima.»
«Sacrosanta verità.»

27

Mi svegliai alle tre del mattino e scivolai da sotto le co¬perte per andarmi a sedere sul bordo del letto, ripensando al sogno che avevo appena fatto. Non me lo ricordavo con pre¬cisione, per quanto mi sforzassi, ma era stato scuro, spaven¬toso, tristissimo. Le lacrime mi bagnavano il volto. Forse ave¬vo sognato che ero morto e che non importava a nessuno. Non ne afferravo bene il senso.
Mentre ero seduto a riflettere, Ann mi si fece più vicina, sfiorandomi la schiena con le dita. «Sei proprio deciso ad an¬dare sino in fondo?»
«Sì.»
«Ho l'orribile presentimento che finirà molto male, pic¬colo.»
Non le dissi che condividevo totalmente la sua sensazio¬ne. Mi sentivo come un soldatino meccanico indirizzato su una traiettoria che non poteva mutare. Non avevo altra scelta che andare avanti finché non mi scaricavo. Questo pensiero di essere guidato mi faceva pensare a Russel, al suo disagio esistenzale, alla sensazione di un buco in corpo attraverso il quale gli sfuggiva l'anima, senza sapere se sarebbe mai riu¬scito a riaverla indietro. Com'era accaduto? E sarebbe suc¬cesso anche a me?
«Starai attento?» chiese Ann.
Mi sdraiai sul letto prendendola tra le braccia, attirandola a me, e aspirai il suo profumo con tanta forza che mi vennero le lacrime agli occhi.
Un uomo senz'anima non ha nulla per cui piangere, perciò considerai le lacrime come un ottimo segno.
«Per favore, promettimi che farai attenzione.»
«Lo farò. Starò attento.»
«Jordan e io ti amiamo. Abbiamo bisogno di te.»
Anch'io avevo bisogno di mio padre, eppure mi aveva la¬sciato. Mia madre mi aveva abbandonato, e anche di lei ave¬vo bisogno. Invece non riuscivo a ricordare che nessuno dei due avesse mai avuto bisogno di me. Ripensai a papà che mi abbracciava quell'ultima volta, che mi guardava dicendomi che mi voleva bene.
«Gesù.»
«Fai l'amore con me. Non pensare più a niente. Soltanto a fare l'amore con me.»
La baciai e quel che segue. Dopo rimasi sdraiato, abbrac¬ciato a lei. Aveva un magnifico odore, un aroma distillato di profumo, sudore e sesso. In quella luce fievole sembrava così giovane, la ragazza di cui mi ero innamorato tanti anni pri¬ma. La sua pelle pareva liscia e immacolata, come quando era giovane e le cose parevano tanto semplici e il sonno cancel¬lava ogni pena.
Annusai i suoi capelli, accarezzai il suo calore e la sua soli¬dità, mi sentii colmare di vita, di spirito, di ogni cosa positiva.
Eppure sapevo che non poteva durare.
Maledizione, sapevo che non poteva durare.

Terza parte
Padri e figli

28

Quando mi risvegliai, provai un senso di disorientamento. Il mondo era stato messo tutto sottosopra, e durante la notte il mio letto s'era rimpicciolito. Stavo per chiamare Ann ad alta voce quando capii dove mi trovavo. Sobborghi di Pasadena, Texas, nell'abitazione di Jim Bob, camera degli ospiti. Jim Bob era al piano di sopra, mentre Russel dormiva sul di-vano del salotto.
Seduto sul bordo del letto, mi grattai la testa meditando sui vantaggi di un buon caffè. La notte prima mi pareva un so¬gno, un brutto sogno. Avevamo lasciato LaBorde verso mez¬zanotte, e io mi ero addormentato sul sedile posteriore del Troione Rosso, per risvegliarmi come se mi avessero dato uno scrollone deciso.
Mi ricordavo di essermi rizzato sul sedile della macchi¬na mentre superavamo il ponte sullo Ship Channel, e avevo visto l'acqua e le barche in basso, e poi le fonderie mentre entravamo a Pasadena. Quei luoghi avevano un'aria cupa e aliena con i loro fumaioli che eruttavano nel cielo scorie nere e puzzolenti. Ogni volta che vedevo quelle fonderie, soprattutto di notte, quando grandi lingue di fuoco erutta¬vano dagli alti camini affusolati mischiandosi con il fumo sudicio, mi veniva in mente l'Inferno di Dante. Pensavo a quanto doveva essere tremendo lavorare in quelle acciaie¬rie, in mezzo a tutto quel caldo e quel fumo e quella puzza, con quegli agenti chimici e quelle caldaie innescate per il disastro.
Quel pensiero mi aveva indotto a sdraiarmi di nuovo sul se¬dile, appisolandomi al rumore di Jim Bob e Russel che discu¬tevano dei bei tempi andati, e man mano le parole avevano perso significato, diventando un ronzio che aveva su di me un effetto non dissimile alla ninnananna di una madre. La prima parola che compresi in seguito proveniva da Jim Bob che mi chiamava tirandomi per una scarpa, cercando di svegliarmi.
Poi mi ricordavo di aver scaricato la mia sacca, e che la casa di Jim Bob era grande e solitaria e polverosa. La stanza in cui mi aveva alloggiato non era molto spaziosa, con un lettino e un minuscolo condizionatore che si sforzava freneticamente di rinfrescare l'aria viziata da giorni e giorni di ristagno.
Adesso era mattino ed ero sveglio e faceva quasi freddo e il mio stomaco reclamava la colazione, il corpo esigeva caf¬fè, e il cervello stava cercando di decifrare esattamente come e perché m'ero ficcato in quel pasticcio.
Guardai l'orologio. Ann e Jordan, a casa, non si erano an¬cora alzati. Un'altra oretta, poi avrebbero iniziato il trantran mattutino, Jordan avrebbe rovesciato il suo primo bicchiere di latte della giornata. Accidenti, come mi sembrava confor¬tante quella scena.
Molto probabilmente Ann si sarebbe alzata arrabbiata con me, e sarebbe rimasta di quell'umore tutto il giorno. La notte prima mi aveva dato il permesso di partire, regalandomi del sesso terapeutico, ma poi si sarebbe infuriata di nuovo pen¬sando a Russel e a come mi comportavo da coglione, riscal¬dandosi come quei camini che sputano fuoco nelle fonderie.
James e Valerie sarebbero riusciti a mandare avanti il nego¬zio alla perfezione, con James impegnato soprattutto a guarda¬re biecamente il culo di Valerie. Era capace di fissarcisi sopra fino al punto di riuscire a sbagliarsi nel dare il resto.
Forse il postino Jack, con Russel fuori dai piedi, avrebbe ripreso a esibirsi nel lancio della posta.
Mi alzai stiracchiandomi, e mi sentii ancor peggio di pri¬ma. Infilati i vestiti, uscii in corridoio e sbucai nel salotto dove Russel giaceva sveglio sul divano, intento a fissare il soffitto mentre fumava una sigaretta.
«In piedi anche tu?» chiese.
«Mi sono appena alzato.»
«Io non sono riuscito a chiudere occhio.»
«Io invece ho dormito, ma non è servito a niente. Devo aver sonnecchiato troppo in macchina. Dopo mezzanotte non fa molto bene.»
«Più si invecchia, più è peggio.»
«Se deve andare peggio di così, tanto vale che ci rimanga secco subito.»
Russel scostò le coperte per alzarsi. Indossava dei boxer grigio chiaro con un motivo triangolare in corrispondenza del cavallo. La pancia pendeva sull'elastico come se si stes¬se liquefacendo, braccia, schiena e spalle erano coperte di peluria grigia, il viso allungato appariva solcato da rughe, lo sterno pareva che fosse sprofondato nel torace come il tetto di una casa diroccata, e oltretutto Russel non stava nemmeno bello dritto. Solo le mani e le braccia suscitavano una sensazione di forza. Era come se la vecchiaia, implaca¬bile, gli fosse calata addosso durante la notte, infiltrandosi sotto la pelle.
«Cerchiamo del caffè» propose, accendendo una sigaretta.
S'infilò i vestiti, tossicchiò del fumo, dopodiché ci trasfe¬rimmo dove il salotto cedeva il passo alla cucina. Russel tro¬vò una moca e, dopo avere rovistato negli armadietti, un ba¬rattolo di caffè.
«Forse c'è qualcosa da mangiare in frigo» suggerì.
Andai a guardare nel frigo scoprendo dei tranci tagliati grossi di bacon avvolti nella carta, e delle uova. Posai le ci¬barie sul banco, tolsi delle fette dal portapane e iniziai a to¬starle. Scovai una padella, presi il bacon e lo misi sul fuoco cominciando a rigirarlo con una spatola.
«Sarebbe consigliabile cuocerlo nudi» avverti Jim Bob. Quando mi girai lo vidi vestito solo di jeans e senza magliet¬ta, con quel demenziale pollo sul petto, e i piedoni nudi che apparivano goffi senza gli stivali.
«Nudo, eh?» dissi io.
«Già. Perché appena un goccia d'olio bollente ti schizza sulle palle, impari subito a tenere bassa la fiamma.» Venne ad abbassare il fuoco e mi tolse di mano la spatola, conti¬nuando a rigirare il bacon. «Hai dormito bene?»
«Mica tanto» risposi. «Ma non per colpa della sistemazio¬ne. Sono i pensieri.»
«Idem per me» aggiunse Russel.
«Peccato. Io ho dormito come un ghiro.»
Spazzolammo la colazione. Il bacon era magnifico, il mi¬gliore che avessi assaggiato da anni. Chiesi ragguagli a Jim Bob.
«Lo faccio coi miei porci. In effetti ne allevo qualcuno, di quei grugnenti merdosi. Dopo ti porto a fare un giro. Me li guarda un messicano. Le uova invece me le procuro da un ti¬zio che sta più avanti lungo la strada. Ai suoi polli non gli fa mica beccare della merda e non li mette nemmeno in quelle scatole a ingozzarsi.»
«E Freddy?» chiese Russel all'improvviso.
«Andremo presto a fargli visita.»
«Prima lo dobbiamo trovare» obiettai.
«Nessun problema. Mi è appena arrivato l'elenco di que¬st'anno, e siccome è nuovo in città deve avere un telefono. Voglio dire, non è più Freddy Russel. Ha una nuova vita e un nuovo nome e l'FBI gli ha regalato un nuovo passato.» Prese l'elenco del telefono e lo sfogliò. «Qui c'è un sacco di Fred Miller, ma non è una gran rottura comunque. Controlliamo sul vecchio e vediamo quale Fred Miller s'è venuto ad ag¬giungere alla lista aggiornata.»
Posò l'elenco spalancato sul tavolo, andò a prendere l'al¬tro e glielo accostò per fare il raffronto. «Eccoci. C'è soltanto un nuovo Fred Miller nell'elenco, e così abbiamo scovato il suo indirizzo.»
«Sei sicuro che sia lui?» chiese Russel.
«Abbastanza. Comunque controlleremo.»
«Troppo facile. Non mi sarebbe mai venuto in mente» commentai.
«È per questo che io sono uno stronzo d'investigatore e tu fai cornici» rispose Jim Bob con un sorriso scaltro. Poi si ri¬volse a Russel. «Vuoi chiamarlo tu, Ben?»
«Sarà al lavoro.»
«Prima o poi dovrai farlo. Ora che siamo arrivati sin qui, devi arrivare sino in fondo.»
«Mi piacerebbe vederlo senza che lui se ne accorgesse. Non posso tirar su il telefono dopo vent'anni che non mi sono nemmeno dato la pena di rispondere alle lettere di sua madre e che non gli ho mai mandato una riga.»
«Se ti butti, risolvi tutto. Secondo me è la maniera più fa¬cile.»
«Per te, forse. Ma è mio figlio e mi sono comportato come se non m'importasse niente di lui. Forse non sa nemmeno che sono ancora vivo o non gliene frega un accidente. Non è così facile per me.»
«Va bene. Lo sorveglieremo finché non ti sei fatto corag¬gio.»
«Lo fai sembrare come una specie di duello.»
«In un certo senso lo è, no?»
Russel annui. «Cosa dicevi prima sul fatto che ci portavi a vedere quei tuoi porci pelle e ossa, Jim Bob?»
«Sempre che voi ragazzi promettiate di non disturbarli. Sono molto timidi.»

Così andammo a far visita ai maiali di Jim Bob. Saranno stati una ventina, più qualche porcellino. Erano enormi, bian¬chi e con grandi orecchie, e Jim Bob ci informò che erano di una razza che si chiamava Yorkshire.
I porci erano alloggiati in uno spazioso edificio climatiz¬zato con una porta stile saloon, di modo che se ne avevano voglia potevano uscire a far due passi in un grande spiazzo cintato. Nell'aria stagnava un forte sentore di piscio e di sterceo, niente affatto sgradevole. I maiali crescevano belli sani e Jim Bob ci rivelò che il suo latino, Raoul, veniva una volta al giorno a cambiare lo strame, a controllare le condutture del¬l'acqua e ad assicurarsi che le mangiatoie automatiche fosse¬ro ben fornite. Appena i maiali erano abbastanza grassi, Jim Bob li vendeva, tenendosene uno per il proprio congelatore, e qualche altro a scopo riproduttivo. Ogni tanto sostituiva i verri e le scrofe da figliata con individui più giovani e più affamati di sesso, che comprava per mantenere vigorosa la stirpe, a suo dire.
Dietro la porcilaia ci mostrò una grande gabbia di legno e rete metallica ingombra di strame di maiale. «È la mia riser¬va di letame. Io e Raoul spaliamo fuori la merda dal porcile e la ammucchiamo qui a fermentare. Per la primavera è pronta da spargere. Pago anche uno di colore, Henry, perché mi porti fin qui i suoi muli per smuovermi la terra. Poi io e Raoul, al¬meno quando lui non è stato rispedito temporaneamente in Messico dall'Immigrazione, la spargiamo e seminiamo il più presto possibile. La merda di maiale, se è concimata bene, ti fa crescere di tutto. Raoul dice sempre che vuol provare a piantare un pelo di figa e vedere se vien su una donna, ma gli unici peli di figa che può recuperare sono quelli di sua mo-glie ed è strasicuro che non ne vuole un'altra uguale.»
Passammo oltre il letamaio per addentrarci nell'orto di Jim Bob, passeggiando tra filari di piante di granturco dagli steli verdissimi, alte tre metri. C'erano le montagnole delle piante di zucca con sopra dei germogli bianchi, grandi come il cucuzzolo di un cappello da cowboy. Passammo accanto a folti filari di pomodori puntellati su pertiche di due metri, e il buon odore penetrante del pomodoro ci fece attorcigliare i peli del naso. I frutti erano sodi come bocce e rossi come piaghe. Jim Bob ce ne spiccò uno per ciascuno e così ci aggi¬rammo per i filari assaporando i tiepidi frutti sugosi, osser¬vando meravigliati le piante di cetriolo che invadevano l'orto e mettevano in mostra dei frutti che, parole di Jim Bob, era¬no grossi come un cazzo artificiale.
Giunti all'estremità dell'orto, girammo a sinistra seguendo¬ne il limitare, poi tornammo indietro lungo un viale di germo¬gli di rapa, grandi e verdi, più simili a carnivore pigliamosche che a germogli di rapa. Quando uscimmo dal giardino per rientrare in casa, mi sentii come se ci avessero cacciato dal giardino dell'Eden.

29

«Quella è la casa di Freddy» comunicò Jim Bob.
Era pomeriggio avanzato e la parte inferiore del cielo era del colore del pomodoro marcio, pian piano sovrastato dal grigio del crepuscolo, anche se potevamo ancora scorgere il punto che Jim Bob ci stava indicando. Ci trovavamo dal¬l'altra parte della strada, mezzo isolato prima della casa di Freddy. Era un'abitazione come tante, mattoni rosa pallido in una strada di casette identiche, qualcuna con mattoni grigi, altre a mattoni rossi. Il prato era falciato, e nel cortile si scor¬geva il pomello di un irrigatore. A quanto pareva Freddy te¬neva ben annaffiata la sua erba. Mi domandai se aveva anche un barbecue sul retro e un cane chiamato Boscoe con la sua cuccia e il nome dipinto sopra la porticina.
«Potrebbe anche essere un altro Fred Russel» disse Russel. «Non sappiamo se è il nostro.» Nella sua voce traspariva una nota di speranza. Non capivo se era ossessionato dagli anni passati o da quel che poteva essere diventato il figlio o da quel che era diventato lui. Forse da un po' di tutto questo.
Lambì una sigaretta, l'accese con un Bic e inspirò. Circa un quarto di sigaretta s'incendiò prima di finire in cenere alla prima boccata.
«Servono per fumarle, non per succhiarle» precisò Jim Bob. «Ti ci vorrebbe piuttosto una cannuccia con qualcosa da bere. E Freddy abita qui, ci scommetterei il mio coglione sinistro.»
«Che me ne faccio della tua palla sinistra?»
«Preferisci la destra? La tengo sempre più pulita.»
«Ah, ah» commentò Russel risucchiando un altro spezzo¬ne della cicca. La cenere gli ricadde in grembo.
«Ehi, attento alla tappezzeria, e sforzati almeno di aprire il finestrino. Mi sembra di essere in una cazzuta camera a gas.»
Russel spazzolò se stesso e il sedile, poi abbassò il fine¬strino per soffiare all'esterno una boccata di fumo. Solo a guardarlo mi veniva ancor più caldo. Il climatizzatore del¬l'auto s'era spento appena Jim Bob aveva spento il motore, e l'aria all'esterno era quasi altrettanto stagnante. Per lo meno non era satura di fumo. Abbassai anch'io il finestrino per fic¬care la testa fuori e prendere un profondo respiro, che mi scaldò gola e polmoni e mi fece venire ancor più sete. Poi mi staccai la camicia sudaticcia dalla schiena e mi piegai in avanti chiedendo: «E adesso?»
«Già, Ben, e adesso?»
«Non so proprio» rispose Russel.
«Stai sprecando i soldi di Dane. È lui che paga il conto.»
«Macché, non è quello il problema» intervenni. «Solo che non voglio stare a tergiversare. Mi prudono le mani.»
«Non ce la faccio ancora» si lamentò Russel.
Jim Bob singhiozzò mentre faceva scendere il vetro del suo sportello. «Forse preferisci che sposti la macchina fino al¬l'altro capo della strada e te la giri in modo da poter vedere la casa sotto un'angolazione diversa.»
Jim Bob intendeva essere sarcastico, ma Russel, che non era molto in forma, rispose che per lui andava bene.
Jim Bob si volse a guardarmi levando gli occhi al cielo. «D'accordo.» Tutti rialzammo i reciproci finestrini. Appena Jim Bob mise in moto, anche l'impianto di condizionamento s'innescò ansimando.
Quando raggiungemmo il fondo della strada chiusa, Jim Bob fece inversione con tanta pignoleria che sembrava quasi che il Troione fosse fatto di gusci d'uovo.
Russel non aveva nemmeno dato un'occhiata alla casa quando ci eravamo passati davanti, e non dava l'aria di vo¬lerla ammirare nemmeno stavolta. Teneva gli occhi inchio¬dati davanti a sé.
«Se i colori della casa sono coordinati con l'irrigatore, è il caso che compriamo a Freddy qualche simpatico aggeg¬gio da giardino. Un bel fenicottero rosa, per esempio» disse Jim Bob che, mentre procedeva a passo d'uomo applican¬dosi con tanto impegno a prendere in giro Russel, non s'ac¬corse del portone del garage dell'abitazione di Freddy che si stava alzando, né della Chevy Nova azzurra che schizza¬va a marcia indietro nel vialetto. Anch'io la notai solo al¬l'ultimo, e non feci nemmeno in tempo a lanciare un grido che l'auto ci era già addosso, cozzando contro il Troione Rosso all'altezza dello sportello posteriore destro e mandan¬domi a volare dall'altra parte della macchina, dal momento che non avevo la cintura di sicurezza.
Mi aggrappai al sedile anteriore per riportarmi in posizio¬ne eretta. Jim Bob aveva spento il motore e stava smadonnando: «Maledetto idiota, gli sfondo quel culo di merda.»
«Forse è Freddy» disse Russel.
«Non me ne frega niente, potrebbe anche essere Dio» ri¬spose Jim Bob mentre apriva la portiera per scendere.
Russel si girò verso di me. «Tutto a posto, Dane?»
Mi sfregai il collo. «Credo di sì. Un po' di colpo di frusta.»
Guardai verso l'auto che ci aveva investito: lo sportello si stava aprendo e l'autista scendeva. E scendeva. E scen¬deva. Era grosso come King Kong. Messicano e con una fac¬cia che indicava che avrebbe preferito ingoiare uno stronzo caramellato prima di prenderle da qualcuno. Jim Bob com-preso.
Mentre abbassava il finestrino, Russel mi confessò: «Quan¬to ho aspettato questo momento. Anche in prigione non facevo che pensarci. È tutta la vita che sogno che qualcuno spacchi la faccia a Jim Bob. Che io sappia, non è mai successo.»
Intanto Jim Bob aveva avviato la conversazione. «Ehi, tortilla. Non li mettono gli specchietti retrovisori nelle mac¬chine a casa tua? Cosa cazzo hai che non funziona, capo?»
Il messicano si limitò a squadrarlo. Indossava una camicia azzurra hawaiiana che gli andava stretta, con delle palme gialle e rosse, ampi pantaloni giallastri e grandi mocassini neri con esplosioni olivastre sulle punte. Sarà stato alto più di due metri, con un torace che sembrava un barile di birra.
«Dici a me?»
«No, stronzissimo mangiapeperoncino, parlo con quella Nova del cazzo. Sembra la più intelligente dei due. Hai visto cosa mi hai combinato alla macchina? Mi hai mandato in vacca la vernice. Guarda che roba.»
Jim Bob si voltò per indicare e il messicanone (alias Tor¬tilla e Mangiapeperoncino) gli calcò la falda del cappello con tale violenza da ridurlo in ginocchio. Poi gli sparò una ginoc¬chiata secca in faccia.
«Mi sa che faremmo meglio a dargli una mano» proposi.
«Merda, guarda quant'è grosso quel tizio» suggerì Russel.
Il messicano ora teneva Jim Bob per la nuca e per il fondo dei pantaloni e lo stava usando per chiudere lo sportello della Nova.
«È troppo» esclamai uscendo dall'auto. Dalla parte della strada, però. Da dietro la macchina gli urlai contro: «Ehi, smettila!»
Il messicano mi guardò come se fossi scemo, poi continuò a suonare la grancassa sulla Nova con la testa di Jim Bob.
Aggirai la macchina, senza troppa fretta. «Ora ne ho abba¬stanza. Smettila!»
Il messicano lasciò andare Jim Bob sul marciapiede. «Va bene. Tocca a te.» Poi aggiunse qualcosa in uno spagnolo secco e minaccioso come il suo inglese.
Non me la filai. Rimasi sul posto.
Fui costretto. I miei piedi sembravano incollati al terreno. Guardarlo mentre mi veniva incontro era come assistere a un cataclisma naturale. Mi era già quasi addosso. Sollevai i pu¬gni. Non che pensassi di farmene qualcosa. Speravo soltanto che fosse breve e indolore.
Russel aprì lo sportello del Troione. Non lo vidi uscire, ma lo sentii. Contemporaneamente Jim Bob si risollevò da terra, con una faccia più imbarazzata che seccata.
«Ehi, ci vuoi riprovare, cagafagioli? Solo che questa volta non cerchi di prendermi di sorpresa!»
Il messicano si volse verso Jim Bob, che aggiunse qual¬cosa in spagnolo, facendo segno a Russel di farsi da parte. «Solo io e lui.»
Arretrai spostandomi di lato, in modo da poter vedere la faccia del messicano. Stava sorridendo. Era un sorriso ampio, come quello di uno squalo che sta per avventarsi sulla gamba a penzoloni di un bagnante.
Poi Jim Bob si mosse. Scartò di lato mentre la gamba de¬stra si estendeva e il piede scattava verso l'alto, beccando il messicano nelle palle con il tacco dello stivale. Poi la gamba si piegò e il piede si abbatté sul ginocchio.
Il messicano gridò. Il piede di Jim Bob scattò di nuovo in su mentre la gamba roteava, colpendo l'uomo con il tacco dietro la tempia, producendo lo schianto di un righello di le¬gno che si spezza.
Il messicano cadde per non rialzarsi più.
«Merda, non sarà mica morto?» chiesi.
«No, volevo solo dargli una lezione, a quel testa di cazzo. Dovrebbe fare più attenzione quando va a marcia indietro.»
Raccolse il cappello e se lo ficcò in testa con una smor¬fia di dolore. «Oh, gente. Voleva farmi passare attraverso lo sportello... Grazie per aver tentato di darmi una mano, Dane. E vaffanculo, Ben.»
«M'è stato proprio sui coglioni vederti mentre menavi il bastardo» rispose Russel.
Russel girò il messicano sulla pancia per riuscire a toglier¬gli il portafogli dal taschino posteriore e lo aprì per identificario. Lesse i suoi dati poi restituì il maltolto. «In tasca ave¬va anche un piccolo sfollagente. Devi essere contento che non l'ha tirato fuori.»
«Lo sono» lo rassicurò Jim Bob. «Il documento non dice¬va che si chiama Fred Miller, vero?»
«No, furbone.»
Jim Bob andò a suonare al campanello della casa, mentre Russel restava a guardare con una sigaretta spenta tra le lab¬bra, in contemplazione della porta. Nessuno venne ad aprire. Jim Bob allora bussò. E ancora nessuno venne ad aprire.
Il detective privato tornò sui suoi passi per andare a con¬trollare il punto in cui la coda della Nova aveva urtato il Troione. «Ma lo vedete? Il mio merdosissimo sportello di dietro è andato a puttane.»
«Prendi la targa se vuoi immerdarti con l'assicurazione» consigliò Russel.
«Dopo che l'ho fatto nero? No, grazie. Magari mi tocca spaccargli il culo un'altra volta, e non so se avrei uguale for¬tuna. Minchia, guardate qua.» Rincalzò di qualche centimetro la gamba dei pantaloni del messicano, mostrando una fon¬dina contenente una piccola rivoltella. «M'è andata bene che non era dell'umore 'sfida all'O.K. Corral'.»
«Filiamo, è possibile che i vicini abbiano visto la scena.»
Jim Bob tornò a controllare la sua auto. «Merda.» Poi pas¬sò in rassegna la Nova. Lo sportello deformato del portaba¬gagli era aperto, e Jim Bob gettò un occhiata all'interno. «Un appassionato di cinema.»
Andai anch'io a guardare. C'era una scatola piena di video¬cassette, con degli adesivi lungo i lati su cui erano riportati i titoli dei film, alcuni messicani, altri inglesi e americani. Uno era Guerre stellari. Jim Bob sfilò per l'appunto quella cassetta. «Con questo e con la suonata che ho rifilato a quel figlio di buona donna mi dichiaro soddisfatto dal punto di vista assicu¬rativo. Non sarà sufficiente, ma per ora può bastare.»
Salimmo in macchina e Jim Bob ci portò via di lì.

30

Pasteggiammo ad hamburger e patatine fritte da un McDo¬nald's, fermandoci a riflettere in uno scomparto isolato. C'era¬no molte cose da prendere in considerazione.
«Bene, come disse la fatina, cosa cazzo vuol dire 'sto ca¬sino? Chi era quel grosso messico, e perché è schizzato in retromarcia fuori dal garage di Freddy in pieno pomeriggio con un baule pieno di videocassette, dimostrando che è pos¬sibile procurarsi la patente anche dal fruttivendolo?» si do¬mandò Jim Bob.
«Forse ti sei arrugginito come investigatore, e quella non è la casa di Fred Miller» gli spiegò Russel.
«Quella è casa sua, e tu lo sai benissimo. Io non faccio cappelle del genere.»
M'intromisi. «Non mi pare una vicenda così misteriosa. Freddy ha un amico messicano che ha libero accesso a casa sua e in quel momento si trovava lì per un motivo qualsiasi, e guarda caso aveva nel baule della macchina la sua raccolta di video. Forse abita in quella casa assieme a Freddy, per di¬videre le spese o che altro.»
«A pensarci bene» concluse Jim Bob «non è che sia un problema così determinante. Quel che importa invece è che il nostro amico Ben, qui presente, dovrebbe decidersi a fare quella chiamata a Freddy, così la facciamo finita.»
«Non mi sento dell'umore giusto» si sottrasse Russel.
«Non sarai dell'umore giusto nemmeno domani, se è per questo.»
«Forse no, ma quando sarò pronto me ne accorgerò.»
«Se ne accorgerà. Hai sentito, Dane? Se ne accorgerà! Merda.»
Tornammo a casa di Jim Bob senza che Russel aprisse più bocca. Da quel punto di vista nemmeno Jim Bob si distinse, e io non sono mai stato un gran chiacchierone. Jim Bob si sintonizzò su una stazione country & western, canticchiando qualche strofa delle canzoni. Mi venisse un colpo se non era bravo anche nel gorgheggio.
Rientrati a casa, Russel si ritirò a fare un bagno mentre Jim Bob recuperava due birre. Io mi sedetti sul divano e Jim Bob si accomodò su una sedia di fianco alla televisione.
«Non so tu, socio,» disse «ma io sono così scoglionato che potrei cantare una serenata al mio pisello.»
Stavo cercando di visualizzare la scena, senza grande suc¬cesso, quando Jim Bob aggiunse: «Ehi, e se ci guardassimo quel film di cacca, Guerre stellari?»
«Va bene. Ma sul grande schermo rende decisamente me¬glio.»
«Se mi procuri un grande schermo, son disposto a vederlo anche lì. Nel frattempo io me lo guardo nell'RCA 19 pollici che ho giustappunto a disposizione. Non ti disturba, vero?»
«No, non mi dispiacerebbe rivederlo.»
«Ottimo, perché tanto io me lo guardavo comunque.»
Avendo lasciato la videocassetta sul Troione Rosso, uscì per andare nel garage. Al suo ritorno era tutto imbronciato. «Ami¬co, quella Nova gli ha fatto un culo grande così al Troione. Devo chiamare un tizio che conosco per vedere se me l'aggiu¬sta domani.»
Infilò la cassetta nel videoregistratore e accese il televiso¬re. «Ho dei popcorn. Potrei prepararne un po'.»
«Ai popcorn non dico mai di no.»
Il video era disturbato, pieno di crepitii e distorsioni. Jim Bob, che s'era già alzato per mettere il granturco sul fuoco, si fermò a controllare. «Si direbbe una pessima copia.»
«Comunque è meglio che spegni se vuoi preparare i pop-corn. La parte con la grande astronave subito all'inizio è uno schianto.»
Non comparvero i titoli di testa, e non era Guerre stellari. Era una pessima ripresa video di una ragazza messicana se¬duta su un letto, mani e piedi legati.
«Che cazzo è? Non mi sembra Guerre stellari.»
«No, si direbbe più un qualche porno girato in casa.»
Poi l'enorme messicano col quale Jim Bob era venuto alle mani entrò nell'angolo visivo della telecamera. Era nudo, ses¬sualmente eccitato, e così privo di vestiti pareva anche più grosso.
«Merda, i filmini del messico e della sua pupa.»
Il messicano si accostò alla ragazza, la spinse giù, le slegò i piedi allargandole le gambe e la montò. La ragazza non si di¬batteva. Era completamente passiva. Soltanto il suo sguardo suggeriva che non gradiva molto quel che le stava capitando.
Il messicano non si dilungò. Quando ebbe finito, rimase in piedi accanto al letto, poi un altro individuo entrò nell'inqua¬dratura. Anche lui era nudo. Era più basso del latino di almeno una testa, non possedeva la medesima stazza e sfoggiava una discreta pancetta, eppure aveva un aspetto vigoroso. L'angola¬zione della telecamera si spostò in modo da fornire una miglio¬re visuale del suo volto. Aveva capelli biondi e radi, occhi az¬zurri, e denti regolari che stava sfoderando al gran completo. La camera tornò alla precedente inquadratura laterale. Il bion¬do saltò sulla ragazza imitando le gesta del messicano. Venne, quindi afferrò la ragazza per i capelli, costringendola a sedersi sul bordo del letto. La giovane emise uno squittio come un topo a cui sia caduto un mattone sulla coda. Il biondo allungò un braccio, e una mano fuori quadro gli passò una piccola rivol¬tella. La ragazza, capendo di colpo cosa stava per succedere, cercò di sollevare le mani legate a proteggere il viso, ma l'uomo con la pistola fu svelto a spararle in piena fronte. Il san¬gue schizzò da dietro la testa imbrattando il letto. La ragazza cadde all'indietro, lanciando qualche calcetto, come se doves¬se mettere in marcia una motocicletta, e pisciandosi addosso. L'urina si raccolse in una pozza sotto il corpo, mischiandosi al sangue. L'occhio sinistro si rovesciò mentre il destro e la testa restavano inchiodati, come se avessero appena scoperto qual¬cosa d'impagabile sul soffitto. L'inquadratura strinse sul viso: il buco in fronte era largo come una monetina da dieci centesi¬mi, e ne stillava una goccia di sangue. La faccia del biondo entrò nell'inquadratura. L'uomo leccò la goccia rigirandosela in bocca cose se stesse assaggiando del buon vino.
Le immagini furono sostituite dalla neve di fine cassetta. Jim Bob fermò il video. Quando mi parlò, la voce uscì arrochi¬ta. «Facevano sul serio. Uno snuff movie, com'è vero Dio.»
«È più vecchio, appesantito e stempiato, ma ancora somi¬glia a quello della fotografia, e quando ha afferrato la pistola...»
«I nei sul dorso della mano erano a forma di quadrifoglio.»

31

«Non diciamo niente a Ben, non ancora» propose Jim Bob.
Tolse la cassetta dal videoregistratore e spense la televi¬sione, poi prese carta e penna presso il bar della cucina but¬tando giù qualche riga.
«Lascio scritto a Ben che siamo andati in città a farci una birra. Noi due dobbiamo parlare.»
Jim Bob lasciò il biglietto sul tavolo e portò la cassetta con sé in garage. Invece di usare il Troione salimmo sul furgon¬cino Dodge nero. Scivolammo nella notte con la videocasset¬ta posata tra di noi come se fosse un ordigno. Non parlammo per un gran tratto di strada, poi io interruppi il silenzio.
«Forse non era vero. Forse sono riusciti a farlo sembrare reale. Oggi riescono a farti credere di tutto.»
«Va bene essere fiduciosi, Dane, ma non serve a niente es¬sere stupidi. Era roba vera.»
Proseguimmo in silenzio finché non formulai la domanda che entrambi avevamo in mente. «E che si fa con Russel?»
«A quel povero bastardo non ne va mai bene una, vero? Non si può dire che non abbia fatto una vita d'inferno. E adesso questo. E c'è una sola cosa peggiore di un figlio mor¬to ammazzato: scoprire che non è un essere umano.»
«Ma cosa significa questa faccenda? Perché fa certe cose?»
«Stai avendo un altro attacco di rincoglionimento, Dane. A Freddy piace. Non hai visto la faccia che aveva? Non lecchi il sangue di una ferita da arma da fuoco se proprio non ti piace. E scommetto che è un ospite fisso di questi filmetti. Protagonisti lui, il messicano e qualche ragazzotta che nessu¬no verrà a reclamare. Secondo me se le porta con qualche sotterfugio da oltre confine. Ha fatto espatriare clandestina¬mente la ragazza, una qualche puttana a cui ha dato dei soldi dicendole che la portava a qualche bella festa dove, se vole¬va guadagnarsi un altro paio di biglietti da mille, le bastava chiavare con i suoi amici. Solo che è finita diversamente. Cristo, quanti anni avrà avuto la pupa, Dane?»
«Non so, quindici?»
«Già, più o meno la pensavo anch'io. Scommetto che non è la prima ragazza che ha fatto secca né è stata l'ultima. Na¬stri come quelli li può smerciare a peso d'oro nel giro dei per¬vertiti, con un ragionevole margine di sicurezza. Non è il ge¬nere di filmetti alla cui visione il proprietario invita i vicini. Quella è merda per tarati che se lo guardano al buio sparan¬dosi delle gran seghe.»
«Gesù, c'è gente che paga per vedere quel vomito?»
«Cerca di ricordarti che vivi nel mondo reale, amico. C'è gente che pagherebbe per vedere qualsiasi schifezza, che compra cassette dove le ragazze si cagano in faccia tra di loro, i cani se le inculano e via di questo passo. Non sto par¬lando di roba per persone normali. So di un riccone che sta¬va dall'altra parte di Houston che collezionava cassette di operazioni, vivisezioni e atrocità di guerra, legalmente. Non mi stupirei se tenesse in una cassetta di sicurezza della roba simile a quella che abbiamo visto qui dentro.» Toccò il na¬stro con un dito come se stesse stuzzicando un mostro per controllare se era morto. «Forse li usa per eccitarsi in modo da riuscire a chiavare ancora la sua vecchia, fantasticando che appena ha sborrato le può tirare un colpo di pistola...»
«Mi sono fatto un'idea» supplicai.
Jim Bob accostò all'improvviso, come se le mani non riuscissero più a stringere il volante. Me le mostrò. «Vaffanculo. Le vedi? Sto tremando come una verginella.»
Rimanemmo lì a lungo, con il motore in funzione e i fari accesi, poi Jim Bob disse: «Possiamo buttare la cassetta nella pattumiera, e io dico a Russel che mi sono stufato di questa menata di Fred Miller, che il mio contatto all'FBI è un gran sparaballe, e che alla fine dei conti forse Freddy non è sotto copertura. Posso far finta di investigare ancora un po', poi alzo bandiera bianca più avanti, e gli dico che non ho trovato tracce. Non lo verrebbe mai a sapere.»
«Se questa fandonia la venissi a raccontare a me non ci crederei mai. Non adesso che ti conosco. Tu non rinunceresti mai. Sei troppo egocentrico.»
«Vero.»
«Ma anche se Russel ci cascasse, non cambierebbe niente di quello che abbiamo visto o di quello che Freddy sta facen¬do, no?»
«No, l'amico continuerebbe dritto per la sua strada.»
«Ti importa qualcosa?»
«Certo che sì. Penso che quel sacco di merda dovrebbe es¬sere abbandonato legato come un salame sull'autostrada fin¬ché un camion con rimorchio non gli passa sopra.»
«E allora che si fa?»
«Che mi possano inculare se lo so.»
In città comprammo della birra. Quando rientrammo Rus¬sel era seduto sul divano letto aperto, con una sigaretta acce¬sa in bocca, a guardare la fine del telegiornale.
«Ho preso della birra» lo informò Jim Bob sollevando la confezione.
«Ottimo.» Poi Russel mi guardò. «E tu l'hai accompagnato.»
«Già, l'ho accompagnato.»
«Per la birra?»
«Sì, per la birra» rispose in mia vece Jim Bob.
«Cosa state combinando voi due finocchi?»
«Birra» risposi. «Possibile che non si possa uscire per una stramaledetta birra senza subire il terzo grado?»
Aggirai il divano per infilarmi in camera mia. Chiusi la porta e mi sedetti sul letto, ripensando al nastro, alla ragazza, al messicano e a Freddy. Alla pistola e al sangue e all'urina. Abbassai le palpebre cercando di non pensare più a nulla. Senza successo.
Pensai anche ad Ann e a Jordan, ma mi fece sentire sol¬tanto peggio, così uscii dalla stanza avvicinandomi al divano di Russel.
«Hai il ballo di San Vito, Dane?» fece lui. «Siediti, mi ren¬di nervoso.»
«Va bene, voglio discutere. D'accordo? Mi vuoi fare la multa?»
«Non scaldarti tanto. È solo che mi innervosisci. Tu e Jim Bob vi comportate come bambini che sono appena stati sor¬presi con l'uccello in mano.»
«Ho nostalgia di casa. Jim Bob, posso usare il tuo telefono di sopra? Pago la chiamata.»
«Non c'è problema, basta che non la tiri per le lunghe» ri¬spose l'investigatore.
«Grazie.» Poi mi voltai verso Russel. «Sto di merda. Mi manca la mia famiglia.»
«Capisco.»
Andai di sopra. Il telefono stava su un tavolinetto a colon¬na nel pianerottolo, e accanto c'era una seggiola. Mi sedetti e chiamai casa. Ann rispose al terzo squillo. Dalla sua voce, che pareva mi arrivasse da sott'acqua, capii che era già anda¬ta a dormire. Controllai sull'orologio. Era più tardi di quanto pensassi, e lei era sempre stata una da presto-a-letto-presto-in-piedi.
«Ciao, sono io.»
«Richard?»
«No, l'altro marito.»
«Eh?»
«Sì, sono io. Come va, bimba?»
«Bene... Che ora è?»
«Circa le dieci e mezzo. M'ero dimenticato che potevi già essere a letto. Non avevo presente che ora fosse.»
«Tutto bene?»
«Già.»
«Sono veramente stanca, amore. Domattina devo andare a lavorare.»
Signori, vi presento Ann, una gran romanticona.
«Ah sì, bene... Mi dispiace. Volevo solo chiamarti per dir¬ti che ti amo.»
«Ma sì, va bene. Solo che sono tanto stanca. Ti amo an¬ch'io.»
«Dov'è Jordan?»
«A letto.»
«Sta bene?»
«Ah-ah. Ti sento strano, Richard.»
«La linea. Anch'io sono stanco. Ann?»
«Sì?»
«Credi che Jordan mi voglia bene?»
«Certo. So che ti vuole bene.»
«Voglio dire, pensi che io sia un buon padre?»
«Sì. Ogni tanto perdi la pazienza e gli urli dietro spesso, ma sei un buon padre. E anche un buon marito. Specialmente quando mi lasci dormire.»
Stavo quasi per mettermi a ridere, ma non ne trovai la forza.
«Gli dirai che gli voglio bene?»
«Uh-uh.»
«Glielo dirai appena si sveglia domattina?»
«Lo farò.»
«Non ti dimenticare.»
«No, non mi dimentico... Sei sicuro di stare bene, Richard?»
«Tutto a posto.»
«Chiamami domani. Adesso sono confusa. Non sono ca¬pace di risvegliarmi di colpo.»
«Lo so. Non dovevo chiamare.»
«No, davvero, va bene così.»
«Ti amo.»
«Ti amo anch'io.»
«Non dimenticarti di dirlo a Jordan.»
«No. Quando torni? Ci manchi.»
«Prestissimo.»
«Ancor prima.»
«Ci provo. Buona notte, tesoro.»
«Buona notte, Richard.»

32

Mi svegliai con Jim Bob che mi stava scrollando. «Alzati. Io non riesco a prendere sonno.»
«E se io invece ci fossi riuscito?»
«Sfiga per te. Stavi dormendo?»
«Mi stavo esibendo in una discreta imitazione del sonno.»
«Non riesco a non pensarci, sai?»
«Al video?»
«Sì, a quello e a Russel.»
Mi alzai a sedere sul letto. Jim Bob si sistemò su una sedia vicino alla finestra e guardò fuori scostando la tenda. La luce della luna gli illuminò la faccia con una lama d'argento. Senza cappello, seduto lì in mutande, aveva un'aria differente.
Lasciò cadere la tenda e mi guardò, adesso con il viso in gran parte immerso nell'ombra. «Sono amico di quel bastar¬do da tanti anni.»
«Ma se non l'hai visto negli ultimi venti.»
«Non conta niente. Siamo praticamente cresciuti insieme. Quante volte ho pensato a lui che stava al fresco. Ho tentato di tenermi in contatto, ma Ben ha tagliato tutti i ponti. Come pure con sua moglie e Freddy... Cazzo, pensi che Freddy sia venuto su così perché non ha avuto un padre?»
«Chissà. È difficile credere che ci sia qualcosa che può ri¬durre così una persona. C'è da pensare che ci siano nati. Qual¬cosa che gli manca. Anche Russel sostiene di avere qualcosa che gli manca. Si sente come se avesse un buco in corpo, un buco da cui gli scappa via l'anima.»
«Sembra proprio lui. Non è così cattivo come si vuol di¬pingere.»
«Di sicuro non è come Freddy. Se gli manca qualcosa, al¬meno lo capisce e cerca di metterci una pezza.»
«Hai chiamato tua moglie?»
«Sì. Ti devo dare i soldi della telefonata.»
«A posto così. Come sta?»
«Bene.»
«E il ragazzo?»
«Bene.»
«Sei un uomo fortunato, Dane. Hai una famiglia. Qualcu¬no che ti stia dietro. Io ho il mio lavoro e il Troione Rosso... e me l'hanno pure ammaccata.»
«Allevi i maiali.»
«Sì, ma ogni tanto me li mangio, perciò è difficile instaura¬re un buon rapporto personale. Non credo che si fidino di me.»
«Jim Bob, adesso che facciamo?»
«Hai qualche idea luminosa?»
«I poliziotti. Gli diamo l'imbeccata, gli mandiamo il na¬stro con l'indirizzo. Qualcosa del genere.»
«Uh-uh, ci ho pensato. E ho anche deciso. Mentre tu dor¬mivi sono uscito a prendere una boccata d'aria e sono arriva¬to fino al Seven-Eleven dove abbiamo comprato la birra, per servirmi della loro cabina telefonica. Non so perché ma m'è sembrato opportuno telefonare da una cabina. Ho chiamato quel vecchio ex-sceriffo che mi deve ancora un favore, lui ha sentito suo figlio e il figlio mi ha chiamato alla cabina. Ho raccontato al giovane una storia ipotetica di un informatore dell'FBI a cui regalano una nuova identità ma rimane di nuo¬vo coinvolto in un'attività criminosa. Ricordava molto quel¬lo che sappiamo di Freddy.»
Fece una pausa durante la quale scostò nuovamente la tenda per guardare all'esterno. La luce lunare non rese un miglior servizio al suo volto nemmeno in quel frangente.
«E?»
«E l'FBI non muoverà un dito.»
«Come?»
«Gli hanno dato l'immunità e un'identità nuova.»
«E cosa c'entra? Era un altro genere di accordo, quello. Questa faccenda è tutto un'altro paio di maniche.»
«I federali non la pensano così. Ci starebbero anche a in¬chiodare il bastardo, ma credono che il minore dei mali sia lasciarlo nel suo brodo, almeno per adesso. Per lo meno que¬sta è la teoria del mio informatore. Non è al corrente di que¬sto caso particolare, ma sa di altri simili. Vedi, l'FBI ha fatto in modo che Freddy sembrasse morto, e gli ha detto che era al sicuro come una zecca nel culo di un orso. Non gli dispia¬cerebbe saltargli sopra con entrambi i piedi fino a fargli usci¬re la merda dal buco di sopra e da quello di sotto, ma hanno una reputazione da salvaguardare.»
«Una reputazione?»
«Cerca di capire, hanno organizzato tutto in modo che Freddy figurasse ammazzato in una stronzata come un furtarello. Se viene a galla che gli hanno coperto il culo ma non ci sono riusciti del tutto, altri possibili informatori pen¬serebbero che quella dell'FBI è solo una fregatura. Col ca-volo che ti danno una copertura decente. Tu canti, loro fan¬no finta di darti una nuova identità poi, bam! Ti inchiodano. Caso mai con un'imputazione di vagabondaggio.»
«Ma chi lo verrebbe mai a sapere? Tutti pensano che Freddy sia morto.»
«Forse nessuno. Ma se lo sbattono dentro, e partono le im¬putazioni, forse tutti. Non possono correre il rischio. Una vol¬ta che lo arrestano o che lo ammazzano, sarebbe difficile te¬nere segreta un'altra volta la sua identità. Ci possono riuscire, o forse no.»
«Bene, urteranno i sentimenti di qualche informatore. E al¬lora?»
«Allora la prossima volta che i federali vogliono mettere i bastoni tra le ruote a una banda di cattivoni al prezzo di sal¬vare uno di loro, e hanno sottomano qualcuno intenzionato a cantare, il pentito può ripensarci.»
«Stronzate. Siamo negli Stati Uniti d'America. Non puoi lasciare che un pezzo di merda del genere la faccia franca.»
«Vuoi che ti dia una bandiera da sventolare, o preferisci intonare l'inno nazionale?»
«Stronzate» dissi di nuovo, questa volta con più animosità.
«Piano, o sveglierai Ben.»
«Allora, cosa succede se l'FBI o qualcun altro va a spiffe¬rare alla Mafia dove si nasconde l'amico che ha fatto il dop¬pio gioco? Non sarebbe magnifico se facessero loro il lavoro al posto dell'FBI?»
«Ma allora sembrerebbe che l'FBI non sa garantire la co¬pertura della gente che cerca di nascondere.»
«È vero. Noi l'abbiamo trovato.»
«Io l'ho trovato. E ho un aggancio. E quasi tutti i miei con¬tatti sanno che sto dalla parte dei buoni.»
«La Mafia non potrebbe avere anche lei una talpa?»
«Sì, possibile. Immagino però che se ce l'avesse avrebbe già beccato Freddy. No, secondo me lui se l'è cavata pulito pulito. Poi c'è un'altra cosa. Freddy elimina ragazze messi¬cane, non americane. Non è gente nostra quella che crepa.»
«Però muoiono qui, in America. Nel Texas, per Dio.»
«Certo, ed è un crimine da qualsiasi parte lo rigiri, ma per ora l'FBI chiude un occhio. Col tempo provvederanno. Ora è troppo presto.»
«E quando verrà il momento buono?»
«Non so. Forse tra un anno. Per allora potrebbero riuscire a farlo sembrare un incidente. Ma se succede qualcosa ades¬so, l'FBI ci fa una figura di merda.»
«Sono cagate. L'FBI non ci vuole perdere la faccia e allora lascia che quello psicopatico ammazzi delle donne facendoci anche dei video.»
«Loro pensano in grande e noi in piccolo.»
«Chiedi a quelle donne quanto è piccolo.»
«Non sto sostenendo che sono d'accordo con loro, Dane. Ti dico soltanto come stanno le cose. Guardiamola da un al¬tro punto di vista. L'FBI ti ha indotto a credere che hai ucciso Freddy Russel per regalargli una nuova identità, e non ti han¬no fatto il più vago accenno di cosa stava succedendo. Nem¬meno quando Ben ha cominciato a dar giù di matto perse¬guitandoti. Pensa a quante gliene hanno combinate. Cazzo, l'hanno fatto impazzire. E i poliziotti locali gli hanno dato una mano. Voglio dire, gli sbirri sono fatti così. Fanno comu¬nella, giusto o sbagliato che sia. Io ti lavo l'uccello, tu lavi il mio. Il mondo non somiglia a Miami Vice o a Perry Mason. Non quando arrivi al dunque, quando o salti o muori.»
«O il mondo sta diventando più complicato, oppure io sto cominciando soltanto adesso a vedere come stanno le cose.»
«Un po' di tutt'e due.»
«Questo contatto dell'FBI, non t'ha detto nient'altro?»
«Ha detto che tutti i miei favori fatti a suo padre erano sta¬ti ripagati.»
«Tutto qui? Nessun consiglio?»
«Solo uno. E non m'è piaciuto molto.»
«Be'?»
«Ha detto che potevamo sempre sistemare il bastardo per conto nostro.»

33

Discutemmo ancora, senza decidere nulla. Tutte le varie alternative facevano schifo. Jim Bob alla fine cedette e salì per cercare di dormire qualche ora. Io tentai di riaddormen¬tarmi, ma riuscii solo a restare disteso sul letto ad ammirare il soffitto. E a pensare a com'era strana la vita. A come appena poco tempo prima ero un tipo felice, insicuro di ben poche cose, e vagamente preoccupato di che razza di padre potevo mai essere. E a come adesso ero un tizio assai infelice, insi¬curo di tutto, e molto preoccupato di che razza di padre pote¬vo mai essere, perché nulla più al mondo sembrava facile o si¬curo e tutto al mondo coinvolgeva l'essere un padre. Tutto.
Steso sul letto pensai a Russel là fuori, che ora dormiva senza sapere quel che sapevamo noi, che cercava di cavarsi dal cuore un po' di coraggio per andare a parlare al suo unico figlio, per dirgli che gli voleva bene.
«Ciao, figliolo, ti voglio bene.»
«Ciao, papà. Adesso faccio i film. Ammazzo le figliole e registro tutto in video.»
Era triste e vomitevole, e mi faceva credere che mio padre avesse visto nel mondo qualcosa che io non avevo capito, forse delle ombre, quelle ombre danzanti di cui mi aveva par¬lato Russel, e con quelle ombre non ci riusciva proprio a con¬vivere, così aveva preso un fucile e se l'era ficcato in bocca, premendo il grilletto per scacciare le ombre. Non doveva più affrontarle. Aveva detto ciao a tutti i suoi problemi. Non do¬veva stare a preoccuparsi del suo onore. Di essere un codar¬do. Della natura dell'universo. Del prezzo della birra e delle noccioline, e da dove sarebbero arrivati i soldi dell'affitto.
Per tutti gli anni del mio stare al mondo avevo sognato tan¬te cose. Giocattoli, poi giocattoli più grandi e una donna da amare e una casa piena di bambini e una vita da telefilm, e forse essere ricco e rispettato e avere tanto tempo a disposi¬zione, e che fosse del tempo in cui mi sarei divertito. Eccomi lì, poche ore prima del mattino, ed erano ore orrende, ed era come se in quei giorni avessi a disposizione più tempo che mai, ed era tutto tempo per uccidere, non per godere. Quel pensiero finì col deprimermi del tutto. E dall'altra parte di quelle ore c'erano altre ore, e temevo che dopo i giorni se¬guenti ci sarebbero state ore ancora più lunghe, piene di quel¬le maledette ombre danzanti.
Mi dissi che, se non riuscivo a dormire, allora vaffanculo.
Ma alla fine chiusi gli occhi. Subito dopo s'era già fatto giorno e mi alzai, mi vestii e andai in salotto.
Russel stava bevendo caffè al tavolo mentre Jim Bob os¬servava attraverso la finestra di cucina il porcile o il giardino o niente di tutto ciò. Sentendomi arrivare si voltò. Nessuno di noi due riuscì a sostenere lo sguardo dell'altro. Recuperai una tazza per versarmi del caffè.
Russel ci scrutò. «Che avete, amici? Non cercate di fregar¬mi, c'è sotto qualcosa. È Freddy, vero? Avete saputo qualco¬sa che non mi avete detto.»
«Penso di aver fatto una cazzata» gli disse Jim Bob. «In fin dei conti non credo che questo Fred Miller sia lui. Stavo pensando a come dirtelo, ma non trovavo il modo. Non ho uno straccio di idea di dove si possa trovare Freddy.»
Ruussel non la smetteva di guardarci. Facendo un po' il broncio, si lamentò: «Mi stai prendendo in giro, Jim Bob.»
«Come vorrei. È imbarazzante essersi sbagliati, e mi spia¬ce per te, ma...»
«Com'è che ti sei accorto all'improvviso di esserti sba¬gliato?»
«Il messicano che c'era in casa.»
«Potevi trovare qualcosa di meglio. Non vuol dire un bel niente. Quello non era Fred Miller. Era un messicano, l'hai det¬to anche tu. Ho letto un nome messicano nel suo portafogli.»
«Certo, ma...»
«Senti, anche quando dicevo che potevi avere fatto in pas¬sato delle stronzate, non ci credevo nemmeno io. Era solo per dare aria alla bocca. Ti conosco da un pezzo, e anche se non ti vedevo da vent'anni, per me è come se fosse dall'altro gior¬no. Non sei cambiato di un pelo. Sei ancora lo stesso bastar¬do egocentrico che sei sempre stato. E sei in gamba nel tuo mestiere. Tu lo sai, e io lo so. E tu, Dane? Cos'hai?»
Avrei voluto che mi scaturisse di bocca una menzogna ben congegnata, ma non accadde. Rimasi lì col caffè in mano, senza guardare Russel.
«Se è morto, ditemelo. Il peggio per me è non sapere che ne è stato di lui. Se sapete qualcosa, voglio saperlo anch'io.»
«Va bene. Ma c'è anche di peggio che essere morti» rispo¬se Jim Bob.
«Ditemelo e basta.»
Jim Bob posò il suo caffè, uscì dalla stanza e tornò con la videocassetta. La teneva scostata, come se potesse morderlo. Accesa la televisione, infilò la cassetta nel videoregistratore.
«Che fai?» chiese Russel. «Stavamo parlando di Freddy. Non voglio vedere un film.»
«Questo qui risponderà alle tue domande. Poi non dire che non t'avevo avvertito. Dane, vieni con me.»
Fece partire il nastro, poi s'avviò verso l'uscita. Lo seguii, portandomi dietro la tazza piena di caffè.
«Ehi» ci chiamò Russel.
«La risposta è nella cassetta» gli suggerii.
Jim Bob e io uscimmo, restando in cortile a fissare l'asfal¬to, senza aprire bocca.
Nel giardino, accanto alla strada, c'era una quercia, e sulla quercia c'era un merlo sul quale concentrai la mia attenzio¬ne. Saltellava da una zampa all'altra, fino allo sfinimento. Sembrava debole e malato, e gli mancavano un sacco di pen¬ne. Forse qualcuno gli aveva sparato.
Sulla strada passò un vecchio furgone sferragliante. Il vec¬chio nero alla guida ci salutò e noi rispondemmo.
Tornai a guardare la quercia e il mio merlo, ma se n'era volato via, o forse stava rintanato dietro uno dei rami più grossi.
Consultai l'orologio, senza far realmente caso a che ora fosse, poi finii il caffè, lasciando penzolare la tazza dal dito, quasi fosse un anello ciclopico.
Stava già cominciando a far caldo, e il mio nervosismo e il caffè che avevo bevuto non contribuivano a un maggiore benessere. Sotto le ascelle mi sentivo la camicia tutta appic¬cicosa.
La porta d'ingresso si spalancò.
Russel uscì di corsa di casa, dritto verso Jim Bob.
«Ben.»
Ben scagliò un pugno, non uno dei suoi colpi da esperto di pugilato. Faceva schifo anche rispetto a quelli che mi aveva consigliato di evitare, e fendette l'aria con un sibilo. Jim Bob poteva scansarlo tranquillamente. Cristo, faceva anche in tempo ad arrivare in centro in autobus prima che il colpo lo beccasse.
Ma non volle. Chiuse solo gli occhi l'attimo prima dell'im¬patto. Il pugno di Russel lo colpi sopra l'orecchio facendolo barcollare. Poi un secondo cazzotto di Ben gli si abbatté sul lato della mandibola e Jim Bob crollò sulle ginocchia.
Russel si girò verso di me, caricando un altro colpo. An¬ch'io rimasi immobile in attesa. Come Jim Bob, accettai di incassarlo. Catarsi attraverso il dolore.
Ma non mi colpi. Il furore era scemato. Ben lasciò cade¬re la mano, incerto sulle gambe. Lo afferrai e lui mi si aggrappò, mi abbracciò, cominciando a piangere e dandomi del figlio di puttana. Ansimava con tale forza che pensavo mi avrebbe sfondato lo sterno con il torace. «Era lui, vero?» chiese. «Era proprio Freddy, vero?»
«Era lui.»
«Figli di puttana. Siete due figli di puttana.»
Jim Bob ci venne accanto, cingendoci entrambi con le brac¬cia. «Mi dispiace, Ben. Non sono mai stato così desolato.»
«Gesù, Gesù, mio figlio, mio figlio.»
Poi Ben crollò, e io lo afferrai per le spalle, Jim Bob per i piedi, e lo riportammo in casa stendendolo sul divano. La te¬levisione era sempre accesa e il nastro stava ancora girando, ma non si vedevano più immagini, solo neve. Spensi il video e il televisore. Jim Bob si sedette sul divano a fianco di Russel, tenendogli la mano come si fa con un bambino.
Io tornai fuori e notai che avevo lasciato cadere la tazza sul¬l'erba. La raccolsi, poi andai ad appoggiarmi contro la quer¬cia, cercando di assorbire un po' di forza dal vecchio colosso vegetale, ma non funzionò. Mi sentivo sempre più fiacco.
Quando abbassai lo sguardo, capii cos'era successo al mio merlo. Lo vidi stecchito presso il tronco, con il becco spalan¬cato come se la caduta l'avesse colto di sorpresa.

34

Mentre Russel giaceva in stato di attonito stupore sul di¬vano e Jim Bob gli stava seduto a fianco, recuperai una bir¬ra e andai a passeggiare dalle parti del porcile, dove trovai Raoul, un tipo segaligno con abiti troppo larghi e un cappello di paglia che sembrava fosse passato attraverso un ventilato¬re. L'avevo già visto un paio di volte da lontano, ma non gli avevo mai rivolto la parola. Raoul andava e veniva simile a uno spettro, accudendo orto e maiali.
Mi guardò sospettoso più di una volta, ma anche se pensava che fossi fuori luogo, se lo tenne per sé. Quando ebbe finito, mi lanciò un timido saluto, a cui risposi, salì su un camioncino con uno sportello tenuto insieme con il fil di ferro e parti la¬sciandosi dietro sul terreno almeno un litro dell'olio da supermercato più scadente, in una pozza scura e velenosa.
Restai là, seduto, a soffiare dentro una bottiglia vuota di birra, cercando senza successo di intonare un motivetto. Un moscone blu tanto grosso da aver bisogno di un certo disim¬pegno aerodinamico mi volò più volte attorno alla testa. Cer¬cai di colpirlo con la bottiglia, ma quello se ne volò via. Era grosso, ma svelto. Smisi di soffiare nella bottiglia e il moscone non tornò. Stava facendo sempre più caldo. Mi sentivo para¬lizzato. Mentre il sudore mi scorreva sul viso e dentro il col¬letto, mi domandai che clima ci poteva essere a Maui.
Poi Jim Bob mi chiamò. «Vieni dentro, Dane.»
Obbedii, anche se non ne avevo tanta voglia. Quando en¬trai, Russel era seduto al tavolo, davanti a una bottiglia di Jim Beam e a un bicchierino. Non avendo mai notato prima il bourbon, immaginai che l'avesse fatto saltar fuori Jim Bob. Russel mi guardò sforzandosi di sorridere, ma i muscoli del¬la bocca si dimostrarono poco collaborativi.
«Ben ti vorrebbe dire qualcosa» esordi Jim Bob. «Ti vuoi sedere, per favore?»
Andai ad accomodarmi sul divano. Jim Bob versò del Jim Beam in un bicchiere e me lo porse. Anche se odiavo il bour¬bon, ne assaggiai un goccio. In quel momento avrei bevuto anche della piscia di cane. Mi sentivo come se mi avessero colpito con una mazza. Sarà stata la birra a stomaco vuoto, sarà stato il povero Russel, o il video. Più probabilmente una combinazione del tutto.
«Freddy è incontrollabile» disse Russel con un tono stra¬namente sommesso. «Ma che sto dicendo, è partito del tutto. È mio figlio e mi sento responsabile.»
«Non sei responsabile di niente» dissi.
«Taci... per favore. Mi sento responsabile. È carne della mia carne, sangue del mio sangue e tutte quelle stronzate. Ma non merita un cazzo. Non c'è più niente che si possa salvare in quel ragazzo. Non è un piccolo delinquente, raccoglie lo sporco come la griglia in fondo a una fogna.»
Una lacrima gli spuntò dall'occhio destro, scendendo lun¬go la guancia, svelta come una pallottola, fino a impigliarsi sugli ispidi peli della barba. Russel scolò il bourbon e se ne versò dell'altro.
Jim Bob sembrava più vecchio che mai, appoggiato con¬tro il bar con un bicchiere di bourbon in mano a guardare Russel con una faccia che sembrava stesse per scoppiare a piangere da un momento all'altro.
Bevvi un sorso di liquore. Pessima idea. Era caldo e rivol¬tante, ma ne bevvi ancora un altro goccio. Mi aiutava a tene¬re occupate le mani.
«Sono convinto che quando un uomo ha perso le qualità che lo rendono un uomo, non ha più motivo di vivere» ripre¬se Russel. «Jim Bob dice che gli sbirri non sono disponibili a farlo. Non capisco perché. Sono un ladro schifoso ma non li capisco. Se non ci pensa la legge, provvederò io.»
«Non puoi farlo. È tuo figlio» obiettai.
«Ecco perché lo devo fare. L'ho messo al mondo io, e io lo devo togliere dal mondo. È l'unica cosa che posso fare per Freddy in qualità di padre. Lui non sarà senza dubbio d'ac¬cordo, ma invece è un maledetto regalo. Vaffanculo, è già morto.»
«Potresti pagare qualcuno.»
«No.»
«Mi sono già offerto io» mi spiegò Jim Bob.
«No, ci devo pensare io.»
«Se lo fai, te lo porterai dietro per tutta la vita» dissi.
«Me lo porto dietro già adesso, dopo questa bella novità.»
Restammo seduti in silenzio a bere bourbon. Un orologio nascosto ticchettava, e si percepiva anche un ronzio al quale non avevo mai fatto caso. Il frigo, forse.
«Cosa vuoi fare, Ben?» chiese poi Jim Bob. «Voglio dire, in che modo?»
«Non lo so ancora. Vado là e lo faccio, credo.»
«Ci potrebbe essere anche il grosso messico, con Freddy.»
«Sparerò anche a lui.»
«Forse non sarà tanto facile.»
Russel guardò Jim Bob negli occhi. «Cerchi di aggregarti?»
«Già. Come rinforzo. Ti do una mano. Se proprio ci vuoi provare, preferirei che tu ne uscissi vivo e senza pendenze con la legge. Non avranno una gran voglia di perseguire Freddy, ma con te ci darebbero dentro di sicuro. Se no fini¬sce che ci fanno una pessima figura. Si direbbe in giro che l'FBI non sa fare il suo lavoro, o che fanno il doppio gioco. Visto che non vogliono che succeda, preferiranno farti un culo così.»
«Sai che anche tu rischi il culo?»
«Lo so, non sono uno sprovveduto. Ma non ci lascerò le penne. Sono un immortale della madonna.»
Lentamente si volsero verso di me, che risposi: «Non so, io ho famiglia.»
«E anche una bella famiglia» aggiunse Russel. «Torna da loro a prendertene cura. Non è roba per te, questa, e non vor¬rei nemmeno che lo fosse. Se ti dovesse succedere qualcosa, non riuscirei mai più a cavarmelo dalla testa. Le cose vanno già abbastanza male senza aggiungerci degli altri guai.»
«Sono convinto che, se non avessi una famiglia...»
«Non devi stare a giustificarti» disse Jim Bob. «Non ti bia¬simiamo per questo.»
«Tanto, a noi che potrebbero farci? Siamo uno un ladro e l'altro un detective che alleva porci» precisò Russel.
«Sei sicuro di volerlo fare?» gli domandai.
«È la prima cosa di cui sono veramente sicuro in vita mia. Per quanto sia schifosa.»
Jim Bob mi versò dell'altro liquore del quale non avevo voglia, e poi ne versò ancora per sé e per Russel.
«Sapete cosa faccio?» ripresi. «Sto con voi finché non vi siete organizzati, finché non avete deciso come agire. Quan¬do sarà ora di... quando sarà ora, accompagnatemi alla sta¬zione dei pullman.»
«Buona idea. E grazie» rispose Russel.

35

«Questo è Manuel Rodriguez. È nello staff del coroner, ma non è un medico autorizzato» spiegò Jim Bob presentandocelo.
«Bella introduzione» commentò Rodriguez stringendoci la mano. «Spero di poter ricambiare, Jim Bob.»
«È importante che qui tutti sappiano come siamo messi.»
«Ah, gli affari.»
Rodriguez era un ometto di neanche un metro e mezzo, con dei capelli corvini che ingrigivano alle tempie. Anche quando ti fissava negli occhi pareva sempre che gli cascasse¬ro le palpebre, come se non dormisse da un sacco tempo. In bocca aveva delle protesi tanto malfatte che mi trattenevo a stento dal tenergli una mano sotto il mento nel caso cascas¬sero mentre parlava. Eravamo in casa sua, una baracchete afosa che condivideva con Raoul, tre donne e una bambina. Il posto sapeva di sudore e cavolo, e della muffa proveniente dalla paglia vecchia che imbottiva la pressoché inutile vento¬la ad acqua piazzata alla finestra del soggiorno. Due donne parevano sui trenta, l'altra, forse la moglie di Rodriguez, era più vicina ai cinquanta. Indossavano tutte vestiti o troppo lar¬ghi o troppo stretti, jeans, camicette e scarpe senza tacco di fresca provenienza dalle aste giudiziarie. La bambina, vestita di un abitino giallo macchiato, teneva in mano una bambola nuda e mi guardava stando seduta per terra. Le sorrisi. Lei mi sorrise in risposta ma non mi si avvicinò.
Jim Bob s'era portato dietro carne e verdura, che conse¬gnò alla donna più anziana, la quale lo ringraziò in spagnolo, con un cenno della testa. Jim Bob le rispose qualcosa, poi la donna ripose la carne nello scomparto del ghiaccio di un fri¬go tutto bombato, e sistemò i pomodori più in basso. L'okra, invece, cominciò subito a pulirla nell'acquaio. Una delle don¬ne più giovani recuperò una padella da sotto il lavello, la mise sul ripiano dell'acquaio, poi tagliò l'okra con un coltello met¬tendo i pezzi nella padella. La terza rimase a guardare, come se fosse di guardia. Aveva una faccia severa, di chi ne ha pas¬sate di tutti i colori e non le è piaciuto. Mi domandavo se fos¬se la moglie di Raoul, la donna il cui pelo di figa lui non ci teneva a seminare. Il quale Raoul, frattanto, dopo averci sa¬lutato calorosamente, s'era defilato.
Nessuno ci presentò le donne.
Rimanemmo seduti per un po' sul divano, mentre Jim Bob e Rodriguez parlavano del tempo e Jim Bob si dilungava sui maiali. La terza donna, quella che poteva essere la moglie di Raoul, sembrava provare un interesse personale nei miei con¬fronti, anche se non pareva trovarmi tanto migliore delle cose che aveva già conosciuto. Le lanciai un sorriso, ma quella non ricambiò. Con fare disinvolto controllai la patta dei pan¬taloni. A posto. Finalmente la donna smise di scrutarmi e uscì dalla stanza, senza dubbio per andare a contemplare un pez¬zo di carta da parati o qualcosa di altrettanto interessante. La bimba mi allungò la bambola perché la potessi vedere me¬glio, benché rimanesse a debita distanza. Continuava a non volersi avvicinare più di tanto. Le sorrisi e lei continuò a sor¬ridermi. Intanto le due donne all'acquaio continuavano a vol¬gerci le spalle. Russel a quel punto pensò bene di uscire per fumare una sigaretta. Io mi rigiravo i pollici cercando di sem¬brare interessato alla conversazione, che era passata dai porci agli Houston Astros di baseball. Jim Bob e Rodriguez erano molto preoccupati dello stato di salute del braccio di un lan¬ciatore. Avevo davvero voglia di una sigaretta.
«Usciamo, signori?» propose Rodriguez.
«Perché no?» rispose Jim Bob, così uscimmo a raggiunge¬re Russel sulla veranda. Mentre le passavo accanto, sorrisi alla bambina, dando dei colpetti sulla testa della bambola che mi stava porgendo.
Sotto la piccola veranda faceva più fresco che all'interno. Rodriguez si sedette su un vecchio divano. Jim Bob trovò po¬sto su un lato, mentre Russel si accomodava sugli scalini. A me non restò che appoggiarmi al montante della veranda, per¬ché la parte rimasta libera del divano era tutta sconquassata. Le molle spuntavano dall'imbottitura come cacciaviti fame-lici pronti ad azzannarti il culo.
Ora che ci trovavamo all'esterno i modi di Rodriguez cam¬biarono. Sembrava persino più sveglio. «Soldi anticipati come la volta scorsa?» esordi, andando subito al sodo.
«Cinquecento anticipati. Se non succede niente, sono tuoi. Se ci sforacchiano, ti pagherò quel che ci vuole per ram¬mendarci.»
«L'ultima volta erano cinquecento solo per te.»
«Stavolta sono cinquecento per tutti. Se ti toccherà lavorare su più di uno, ti pagherò il dovuto. Sai che la mia parola è oro.»
«Le medicine, quando non sei in regola, sono molto costo¬se» spiegò Rodriguez con un'espressione affranta.
«Lo so. Non avrei bisogno di te se tu fossi in regola. Vo¬gliamo solo essere sicuri che ci sarà qualcuno che ci curi, in modo da non dover andare a rispondere alla polizia su certe ferite da arma da fuoco.»
«Non posso fare molto. Se è roba grave...»
«È sempre così tutte le volte.»
«Voglio solo che sappiate tutti» e ci abbracciò con un ge¬sto «che faccio quel che posso, senza un ambulatorio e infer¬miere e buoni farmaci.»
«Loro capiscono.»
Rodriguez continuò a rimuginare. «Cinquecento anticipati per tre non è molto.»
«Quelli o vatti a inculare una capra.»
Quando Rodriguez sorrise, i denti falsi sembrarono pronti per il gran balzo. Stavo per scattare per cercare di prenderli al volo, ma per qualche miracolo rimasero dentro la bocca. «Adoro le capre. Sono morbide e strette sul cazzo, e non di¬scutono, e non vogliono sempre arrivare all'orgasmo. Fanno solo tee ogni tanto. Ma, vedi, ho moglie. E lei chiacchiera. Le piacciono i soldi. Dobbiamo pagare l'affitto di questa reg¬gia. Lei e io siamo legali, ma gli altri sono clandestini. Sgob¬bano forte per pagare la loro quota d'affitto, ma non trovano lavori decenti...»
«Io lo pago bene, Raoul» replicò Jim Bob con qualcosa di più di una punta d'indignazione.
«E nemmeno mia moglie e io ce la caviamo tanto bene. Dopo che hanno legalizzato l'aborto, faccio già fatica a por¬tare la pappa in tavola. E Rosalita ha quei problemi alle ginocchia. Poi c'è la ragazzina...»
«Cristo, va bene, va bene, basta che la pianti con questa tiritera.»
«E non ti ho ancora detto della vecchia mamma in Messico a cui spedisco i soldi.»
«Bene. Non farlo. Diciamo mille anticipati, solo per averti a disposizione, Ma è più di quel che vali. Lo faccio per tua moglie, che avrebbe fra l'altro tanto bisogno di un orgasmo, e per la bimba di Raoul. Chi se ne frega invece della mamma in Messico. Sarà morta da quindici anni.»
«Venti.»
Jim Bob gemette come se gli avessero appena affidato l'impegno di sostituire Atlante, col pianeta intero da sorreg¬gere. Si cavò di tasca il portafogli voltandosi di tre quarti af¬finché Rodriguez non ci potesse guardare dentro, ed estras¬se qualche banconota. Poi, rimesso in tasca il portafogli, si chinò su Rodriguez posando i biglietti ben separati lungo la gamba del messicano.
«Contali» gli intimò.
«Ottimo. Mille. Ora sono a disposizione.»
«Più che altro bada nei prossimi giorni di non andare in Messico a visitare la tomba della vecchia mamma.»
Rodriguez rise mettendo di nuovo in mostra quell'orribile dentiera scompagnata. Maledizione, particolari come quello mi rendevano nervoso. «Rimarrò qui finché non mi dirai che è tutto a posto, e se hai bisogno di me.»
«Un'altra cosa ancora. Dovremmo prendere in prestito una macchina per uno o due giorni. Al massimo tre.»
«Benvenuti sul camion di Raoul.»
«Il camioncino è un'offerta assai generosa, ma non ho pro¬prio voglia di emettere segnali di fumo dovunque mi sposti. Preferirei qualcosa con quattro porte. Che non si noti, a dif¬ferenza del Troione. E, visto che solo tu possiedi un'altra macchina, è di quella che sto parlando.»
«Vada allora per la Rambler.»
«Magnifico.»
Rodriguez scosse la testa. «La macchina per me è una gran comodità. Faccio cose, vedo gente, vado in tanti posti.»
«Quanto?»
«Sui quaranta dollari al giorno.»
«Quaranta dollari al giorno! Alla Hertz dei miei coglioni posso affittarne una a meno. Ti darò venti dollari sparati per tutto il periodo che mi servirà. Controllo l'olio e l'acqua e te la riporto col pieno.»
«D'accordo. Venti dollari e la tieni finché ne hai bisogno.»
Jim Bob assunse un'aria insospettita. «Questa me l'hai concessa troppo facile.»
Rodriguez si strinse nelle spalle. «Ha tre gomme a terra.»

36

Quando tornammo dalla città con tre pneumatici nuovi per la Rambler, Jim Bob mi disse: «Da qui in poi, tu non tiri più fuori un soldo. È una faccenda mia e di Russel, e ci penso io alla grana. Ho messo da parte abbastanza soldi da cavarmela egregiamente. Tu puoi stare con noi fin quando vuoi, e poi defilarti appena lo ritieni opportuno.»
La Rambler riposava dietro la casa di Rodriguez, par¬cheggiata sotto una tettoia che un tempo aveva alloggiato dei polli e che ancora conservava i loro souvenir: penne lu¬ride e cacche essiccate. Appena ci si addentrava all'interno, le piume e la polvere si sollevavano in una nube secca e fina, che cercava di intrufolarsi nel naso e nella gola per far¬ti morire soffocato. Visto che la tettoia era costruita in gran parte di lamiera, sotto faceva più caldo che nello scroto di un leone congolese.
La Rambler aveva un'aria decisamente triste con le sue tre gomme a terra, e l'altra così liscia che si vedeva quasi la ca¬mera d'aria. Era coperta da una coltre di polvere così spessa che ci potevi piantare le rape.
Jim Bob, presi dal baule la chiave a stella, la sbarra e il cric, sollevò il davanti della Rambler mentre Russel allenta¬va velocemente i dadi. Rodriguez fece capolino sfoderando i suoi dentacci.
«Buone gomme?»
«Le migliori fregature del supermercato» rispose Jim Bob. «Ti metto in conto i copertoni?»
«Potresti.»
«Hanno tutto il battistrada e tengono dentro l'aria. Molto di più di quel che si possa dire di questi cessi. Ora torna ai tuoi giochi e lasciaci lavorare.»
«Stringete bene i bulloni.»
Quando Rodriguez fu fuori portata d'orecchio, Russel ag¬giunse: «Possiamo fidarci di lui?»
«Non l'avrei coinvolto se non ne fossi convinto. Me ne sono già servito almeno un paio di volte. Non ho mai avuto bisogno di chiamarlo, ma sapere che era lì m'è stato di gran conforto.»
«Già, ma se ci beccano speriamo di fare in tempo ad arri¬vare da lui.»
«Cerca di essere ottimista. Io lo sono. Così puoi vivere lie¬to e sereno.»
«E per le pistole?»
«Provvedo io.»
«Quando sparo a Freddy, non voglio... Voglio qualcosa che lo faccia fuori subito. Sai cosa intendo. Non voglio che soffra. Bam, e che sia finito tutto.»
«Dipende sempre da come sai usare l'attrezzatura, ma cer¬cherò di mettere le mani su qualcosa di potente. Ho una .357. Potrebbe andare. E poi ci sono sempre il canne mozze e un Ithaca calibro 12.»
«Non mi va molto l'idea di un fucile. Mi sembra... sporco.»
«È sporco sì, tutto è sporco... Guarda che se vuoi fare mar¬cia indietro, a me sta bene.»
«Se tu non ci stai, io arrivo fino in fondo lo stesso, in un modo o nell'altro.»
«Va bene. Ti trovo qualcosa di veramente efficace. Poi sta¬rà a te recapitare la pallottola nel posto giusto.»
«Ero un buon tiratore.» Russel sfilò la gomma vecchia. Gli feci rotolare vicino un copertone nuovo, che lui infilò nell'asse, avvitando poi i dadi. Jim Bob abbassò il cric. Dopo che Russel ebbe stretto i bulloni passammo a sostituire le altre due gomme.
Alla fine Russel si rialzò pulendosi le mani sui pantalo¬ni. «Voglio che capisca chi sono e perché lo faccio. Ma non voglio che soffra molto. Dev'essere una cosa svelta. Per questo desidero l'arma giusta, Jim Bob. Hai capito cosa vo¬glio dire?»
«Ho capito.»

Io mi misi alla guida della Rambler, mentre Jim Bob e Russel salirono sul furgone. Arrivati a casa, Jim Bob ci fece accomodare al tavolo della cucina offrendoci una birra, poi andò a prendere le pistole al piano di sopra.
Posò una rivoltella sul tavolo.
«Una .38, canna corta, niente mirino. Pistola da cintura. Io penso di usare questa e la doppietta a canne mozze che tengo nel bagagliaio del Troione. Per avere il culo coperto nel caso che entri in ballo il messicano. Ho la vaga sensazione che entrambi i signorini girino armati.»
«La .357 è per me?» chiese Russel.
«Sì.» Jim Bob tolse dal taschino della camicia un conte¬nitore di plastica che, assieme alla .357, posò sul tavolo di fianco alla .38. «Ecco le munizioni. Per te ho un caricatore e una fondina. Forse preferisci indossare una delle mie giac¬che sportive per nasconderla meglio.»
«Giacche sportive?»
«Be', le porto di rado. Non è il mio stile.»
«Ci credo» commentai.
«Direi che siamo a posto.» Russel guardava la pistola come se fosse uno stronzo che qualcuno aveva cagato nel bel mezzo del tavolo.
«Ho anche una .38 a canna corta nel bagagliaio del Troione, con una fondina da caviglia. Puoi portare quella come riserva.»
«Potrebbe essere.»
«Non sto chiedendo, sto ordinando. Sono ancora io che co¬mando qui, e ti ordino di metterti la fondina alla caviglia. Se poi nessuna di queste ti convince, di sopra ne ho un altro paio, una .45 automatica, un revolter in stile western calibro 44, e in più un Ithaca calibro 12. Niente che scotti, fra l'altro. Im¬possibile risalire a noi a meno che non diventiamo più stupi¬di di quel che siamo e le lasciamo in giro con le nostre im¬pronte digitali sopra.»
«O a meno che trovino i vostri cadaveri» aggiunsi. «Ci avete pensato? Potrebbero essere loro che sparano a voi.»
«Ho preso in considerazione la possibilità di essere ferito» rispose Jim Bob «ed è il massimo che posso concepire. Non voglio immaginare che possa succedere di peggio. Le ultime due volte non è successo niente. Me la sono cavata senza neanche un graffio.»
«C'è stata una sparatoria?»
«La prima volta ho bleffato. La seconda c'è stato uno scon¬tro a fuoco. Sono stato più veloce io.»
«Adesso qual è la prossima mossa?» domandò Russel.
«Per ora lasciamo qui le pistole e cominciamo a sorveglia¬re Freddy. Lo pediniamo per qualche giorno, verifichiamo dove va e quando si muove, per avere un'idea se sia un'im¬presa facile o difficile. Cerchiamo di capire i suoi program¬mi, poi buttiamo giù i nostri. Quindi si parte.» Jim Bob si voltò verso di me. «Ho preso la Rambler nel caso servisse una macchina in più, qualcosa di meno vistoso del Troione Rosso. Ben e io faremo il primo turno di guardia sul furgone. Se scopriamo che c'è bisogno di te e della Rambler, ci fac¬ciamo sentire. È possibile che sia necessario uno scambio d'auto perché non si insospettiscano vedendo sempre la stes¬sa per troppo tempo. Direi che è tutto quello che dovete sa¬pere, per ora.»
«D'accordo» feci io.
«Prima di dirlo, cerca di capire esattamente in cosa ti sei ficcato. Stai diventando complice di un omicidio premeditato. Uccideremo un uomo, e tu sarai complice nel misfatto. Anche se non ti beccano, te lo trascinerai dietro tutta la vita. Pensi di farcela?»
«Non mi piace l'idea, ma se mi ritirassi adesso saprei co¬munque quello che state per fare, e saperlo è già una tortura. In un modo o nell'altro vedrò di farmene una ragione.»
«Io voglio solo che sia ben chiaro che quando siamo da¬vanti a Freddy, sono io che sparo, Jim Bob» precisò Russel.
«Non prometto nulla. Se si mette che Freddy si appresta a rifilarmi una sventagliata, lo faccio secco. Farò il possibile per rispettare i patti con te, ma non voglio infilare la testa nel cap¬pio. Non lo farei per nessuno. Ci proviamo, e questo è tutto.»
«Quando si comincia?» chiesi.
«Domani mattina. Presto.»

37

La mattina seguente, molto prima dell'alba, Jim Bob e Russel se ne andarono con il pick-up. Mi aggirai un po' per casa cercando di ammazzare il tempo. Feci una colazione precoce con uova fritte, pane bruciacchiato e caffè troppo forte. Più tardi, verso le otto, mi procurai una focaccia e un bicchiere di latte. Prima di mezzogiorno m'ero già scolato una birra. Alle dodici, mangiai un panino. Poi bevvi del tè freddo guardando la televisione, metà di un film dell'orrore dove dei pupazzi incazzatissimi smantellavano una città di cartapesta. Dove sono i tre Stooges quando hai bisogno di loro?
Ero nervoso come una strega davanti al tribunale dell'In¬quisizione. Volevo tornare a casa, volevo vedere mia moglie e mio figlio, volevo andare a pesca.
Mi sedetti di fianco al telefono fissandolo.
Non si fece intimidire, non suonò. Allora smisi di guardar¬lo. Recuperai una rivista sull'allevamento dei maiali dove les¬si un articolo sugli acari delle orecchie nel sud degli Stati Uniti, che sembravano un bel problema, ma non insormonta¬bile. Chissà se i porci di Jim Bob avevano gli acari nelle orec¬chie, e chissà cosa ne pensavano, in caso affermativo. Cercai anche di prendere in considerazione la questione dal punto di vista degli acari.
Il telefono non si decideva a suonare. Sapeva che lo stavo sorvegliando con la coda dell'occhio. Un telefono non si scompone quando si sente osservato.
Salii di sopra, non tanto per ficcare il naso ma per avere qualcosa da fare. Ero quasi pronto per cominciare ad arram¬picarmi sui muri come l'Uomo Ragno. La porta della came¬ra di Jim Bob era aperta, così entrai. C'era un tavolone con sopra un computer e dei manuali d'informatica. Di fianco al letto una fila di libri, tutti western, Louis L'Amour e T.V. Olsen. Su una rastrelliera a corna di cervo sul letto era ap¬peso un fucile. Andai a controllare col dito la punta delle corna. Meno aguzze del previsto. Il mio cervello lo era an¬cora di meno. M'ero fatto coinvolgere nel piano per uccidere un uomo che non conoscevo e col quale non avevo nemmeno mai parlato. C'era già un morto a mio carico, e nemmeno di quello sapevo il nome.
Sopra il comò trovai un preservativo ancora avvolto nel suo involucro, delle chiavi, spiccioli e una pila di riviste. Playboy, Penthouse, Gallery, e altre più spinte. Le sfogliai, ripassando le più porche un paio di volte. Forse anche tre.
Intonai l'inno nazionale poi scesi.
Il telefono squillò.
Era un rappresentante di rivestimenti per l'edilizia. Lo man¬dai a quel paese e agganciai. Continuai a guardare il telefono ancora per qualche minuto. Ma non troppo a lungo. Avevo imparato la lezione. Mi feci un'altra birra poi andai in bagno.
Naturalmente il telefono suonò all'istante.
Mi tirai su la lampo senza amputare parti importanti della mia persona, riuscendo a rispondere al terzo squillo.
«Vorremo una di quelle pizze ai peperoni, con tutti i con¬dimenti del cazzo che ci mettete, basta che non ci ficcate quei pesciolini di merda. Mi fanno vomitare.»
«Troppo divertente, Jim Bob.»
«Mica tanto. Be', siamo qui davanti al Caravan Video Store e a quanto pare Freddy ne è il proprietario. Forse gli hanno messo su il negozio i federali.»
«Arriverebbero a tanto?»
«Certo che sì. Glielo devono. Non te le fa girare? Mettono su bottega per quel pezzo di merda e lui fa quel che gli pare solo perché i federali non devono mai far la figura degli stu¬pidi. Non te li immagini proprio quei figli di puttana che si comportano così con la gente onesta, vero?»
«C'è rimasto tutto il giorno?»
«Il messico è passato a prenderlo verso le sei e mezzo del mattino, l'ha portato a lavorare e se l'è persino scarrozzato al Pizza Hut per pranzo. Sai, hanno portato la Chevy Nova a riparare.»
«Tutto qui quello che hai scoperto?»
«Gli piace la pizza ai peperoni.»
«Grande.»
«Cosa vuoi scoprire in un giorno solo? Dubito comunque che salteranno fuori delle rivelazioni stupefacenti. Il massi¬mo che possiamo sperare è verificare le sue abitudini per ca¬pire quando sarebbe meglio colpirlo. Sarebbe opportuno se potessimo operare senza il messico tra le balle. A quanto si direbbe, il figlio di troia condivide con Freddy anche lo stes¬so paio di scarpe.»
«Bene, bene... Io invece mi annoio.»
«Sparati una sega. Come faccio io quando mi rompo. Rie¬sce a vivacizzare anche la giornata più scoglionante. Vai su a leggerti qualche pornazzo sul comò.»
«L'ho fatto.»
«Te lo fanno venire duro come un piede di porco nelle mu¬tande, vero?»
«Non voglio un piede di porco nelle mutande.»
«Dane, mi sembra che ti frullino le palle. Forse ti dovresti fare un bel bicchiere di latte con dei biscotti, alzare al massi¬mo il condizionatore del salotto e sdraiarti sul divano a fare un pisolino. È probabile che non avremo bisogno di te tutto il giorno, perciò rilassati.»
«Più facile a dirsi che a farsi. Tra l'altro sei a corto di birra. Se ne vuoi, farai meglio a portarla a casa.»
«E quanto a pane e latte, amore? Siamo senza?»
«Ah-ah.»
Appesi e andai in cucina a cercare latte e biscotti. Trovai il primo ma non i secondi, alzai al massimo il condiziona¬mento e mi allungai a pisolare sul divano. Non mi andava giù la storia dei biscotti.

38

Il giorno dopo Jim Bob e io partimmo con la Rambler men¬tre Russel restava a casa. Lo compiansi. Speravo che amasse più di me leggere articoli sugli acari delle orecchie.
Gli impegni di Freddy erano pressoché identici a quelli del giorno prima. A Houston, arrivammo nella zona residenziale dove viveva il giovane Russel verso le sei e dieci. Parcheg¬giammo nello spiazzo di un grande magazzino Safeway, dove la viuzza che usciva dal quartiere confluiva nella superstrada.
Esattamente alle sei e trentacinque arrivò la Nova, col messicano alla guida, sterzando subito a destra sulla super¬strada. La seguimmo con la Rambler usando ogni precau¬zione. Nell'auto di Rodriguez non c'era l'aria condizionata, e alle sette faceva già un bel caldo. Pedinammo la Nova at-traverso il traffico sostenuto, senza che Jim Bob la perdesse mai di vista. Notai che la Nova aveva i finestrini chiusi. Aria condizionata. Il massimo. Eccoci qui, i buoni, e ci toc¬cava una Rambler bollente. E per giunta il cattivo aveva un autista personale e un videoshop che gli era stato regalato dall'FBI. Un bel vantaggio per il suo hobby, che consisteva nel filmare ragazze che lui e il messicano prima si chiavavano e poi facevano secche. Di sicuro possedeva tutte le più pre¬stigiose carte di credito.
La Nova uscì dal centro di Houston infilando la 59 in di¬rezione nord e alla fine giunse in un circondario che un tempo pullulava di bordelli. Adesso ci si trovavano solo dei top¬less bar, tavole calde, parcheggi di case mobili e rivenditori di macchine usate. E il videoshop Caravan.
La Nova uscì dalla 59 girando attorno allo stabile del Ca¬ravan. La videoteca era situata esattamente a metà tra un ri¬venditore di auto e un'officina la cui insegna la spacciava come specializzata in auto straniere e riparazioni di scatole del cambio. Erano le sette e mezza in punto.
Noi proseguimmo per qualche decina di metri, poi Jim Bob fece inversione per andare a parcheggiare in un vicolo. Trovato un bar per camionisti, facemmo colazione. Poi ci spostammo in un piazzale di auto usate che stava dall'altra parte della strada rispetto al Caravan, e ci aggirammo osser¬vando le auto, calciando i copertoni e controllando con la coda dell'occhio il negozio di video. Un venditore grassoc¬cio con i capelli grigi pettinati all'indietro, una giacca scoz¬zese, cravatta marrone, pantaloni verde limone e scarpe bian¬che, stava cercando nel frattempo di spiegarci perché una macchina usata era dieci volte meglio di una nuova.
Jim Bob gli chiese di illustrarci tutte le auto nel piazzale dalla parte della strada, e le ispezionammo con estrema pigno¬leria, ponendo delle domande tecniche e facendo a turno nel sederci dietro al volante di ogni macchina, una per una. Il sorriso del venditore gli era quasi sceso in gola e l'amico co-minciava a sembrare disorientato dalla calura. Sotto le ascelle della giacca scozzese a buon mercato comparivano già delle chiazze di sudore. La traspirazione lasciava anche un anello attorno al collo e una macchia sotto il nodo della cravatta.
«In confidenza, Horace,» disse Jim Bob, che aveva affer¬rato il nome del venditore «non credo che potrei comprare un'auto che non ho guidato.»
«Certo che no» rispose Horace.
«Vorremmo provare qualcuna di queste ragazze, per con¬trollare le prestazioni. Se sei d'accordo, cominciamo da que¬sta Skylark.»
«Senza problema.» Horace si asciugò il viso con un faz¬zoletto verde monogrammato. «Qui alla Horace Williams's Motors vogliamo solo servire il cliente. Questa è la nostra parola d'ordine, e a quella ci atteniamo costantemente.»
«Ed è una magnifica parola d'ordine. Un esercizio che se ne frega dei clienti non è un buon esercizio. È quel che dico sempre, vero?»
«Certo, è quel che dici sempre» affermai.
«Prendo le chiavi» comunicò Horace.
Andammo in giro per un po' sulla Skylark con aria condi¬zionata, passando ogni tanto di fianco al videoshop, senza mai allontanarci troppo.
Sostituimmo la prima macchina con una Chevrolet rossa del '68, con aria condizionata, e ci facemmo un giro sopra, stavolta passando direttamente davanti al Caravan, e poi fian¬cheggiando il concessionario all'aperto per arrivare sul retro del negozio. Vedemmo la Nova parcheggiata di fianco a una Corvette grigia.
Jim Bob fece inversione per tornare dal rivenditore. Dopo cinque macchine Horace non sembrava più tanto pronto a servirci. Ci confessò persino che pensava che le vecchie Rambler fossero delle ottime macchine e che, se ne posse¬devi una, potevi anche continuare con quella.
«Credo che tu abbia proprio ragione» disse Jim Bob. «Però torniamo domani a provare tutte le altre. Credo che se quella Skylark fosse stata azzurro metallizzato ci saremmo anche potuti mettere d'accordo.»
La nostra fermata successiva fu una stazione di servizio quasi di fronte al Caravan. Jim Bob strinse la mano al pro¬prietario, del quale aveva fatto la conoscenza il giorno prima.
«Questo è Phil» disse, presentandomi il gestore della pom¬pa. Non si preoccupò di comunicare anche a Phil come mi chiamavo. «Uno nuovo, Phil. Penso di impratichirlo oggi.»
«Non vi invidio, ragazzi. Un bel caldo a star seduti lì in macchina.»
«Com'è vero» sospirò Jim Bob sorridendogli. «Vieni, an¬diamo a lavorare» intimò poi a me.
L'auto era parcheggiata presso una cabina telefonica, pun¬tata in direzione del videoshop. Entrammo, dopodiché doman¬dai: «Quale sarebbe esattamente il nostro lavoro, Jim Bob?»
«Assessorato al traffico. Dovremmo contare quanti camion con rimorchio passano di qui in un certo lasso di tempo.»
«Per quale motivo?»
«Danni alle strade. Per avere delle indicazioni sull'usura dell'asfalto. Quei bestioni mettono a dura prova la pavimenta¬zione. Li conti per tre ore al giorno per qualche giornata così ti fai un'idea delle sollecitazioni che subisce la strada. Poi puoi ottenere una media, pianificando così le riparazioni del tratto. In questo modo non devi aspettare che sia malridotto, e che si siano già formati dei crateri abbastanza grandi da inghiottire una Volkswagen, anche se non mi addolorerebbe poi tanto se quelle stronze di straniere cascassero tutte in una buca. Io sono convinto che si debba comprare americano.»
«Dove le hai imparate queste stronzate, Jim Bob?»
«Le ho inventate ieri.»
Restammo lì un paio d'ore, e faceva veramente un caldo infernale. Mi pareva che il cervello stesse per bollire, ormai pronto a colarmi fuori dalle orecchie. Jim Bob raccontò delle barzellette che non facevano ridere, poi cantammo assieme una canzone. Visto che non facevamo tanto schifo ripassam¬mo tutte le sigle televisive che conoscevamo, poi intonammo anche degli inni a bocca chiusa.
Finì che non avevo più nemmeno voglia di gorgheggiare. Jim Bob recuperò una rivista dal sedile posteriore e si mise a leggerla, occhieggiando di tanto in tanto il videoshop da so¬pra le pagine. Era una di quelle riviste sull'allevamento dei porci. Mi chiesi se anche lì ci fosse un articolo sugli acari delle orecchie.
Il Caravan aveva il vento in poppa. I clienti andarono den¬tro e fuori per tutto il giorno, noleggiando e talvolta comprando delle videocassette. Un paio di volte mi domandai anche se qualche cliente poteva essere entrato per comprare uno snuff, poi esclusi l'eventualità. Troppo facile. Roba del gene¬re la vendi a gente speciale in posti speciali per molti soldi.
O forse no. Forse, se la persona giusta aveva i soldi, se le poteva vedere appoggiate sul banco. Un Porky's, un cartone animato con Buggs Bunny... ah, dimenticavo, il vostro ulti¬mo snuff.
Jim Bob mi passò la rivista. La sfogliai. C'erano delle splendide fotografie di suini.
«Questa scommetto che non la conosci» fece Jim Bob, e intonò il tema di Secret Agent Man.
«Secret Agent Man, basta che stai zitto.»
Verso le undici e un quarto la Nova superò l'angolo con il messicano alla guida e Freddy di fianco a lui.
«Ora di pappa» esclamò Jim Bob avviando il motore. Li seguimmo fino al Pizza Hut, restando nei paraggi.
«Gente abitudinaria» commentai.
«Già. Scendiamo a farci un hamburger, poi vediamo se li si becca di nuovo al negozio. Ho la sensazione che abbiano abitudini molto regolari. Amico, non ti farebbe senso man¬giare pizza ogni santo giorno?»
«Quello che impressiona è che si comportano così normal¬mente. Vanno a lavorare, mangiano la pizza, e ammazzano le donne. Pensi che ci riproveranno?»
«Sono convinto che andranno avanti finché non li ferme¬remo. Anche se l'avessero fatto solo una volta, mi bastereb¬be. Visto che la legge non gli mette le mani addosso, tocca a me e a Russel.»
Ci facemmo un hamburger bisunto e una Coca, prenden¬docela comoda, poi tornammo alla stazione di servizio, dove ci comprammo un paio di bibite dal distributore automati¬co, e infine ci sedemmo a sorseggiarle sulla Rambler, la nostra casa lontano da casa. La mia Coca era già calda pri¬ma ancora di essere arrivato a metà, così aprii lo sportello per gettarla. La noia era tale che cominciai sul serio a con¬tare i camion con rimorchio che passavano. La teoria di Jim Bob cominciava a sembrarmi sensata. Era tutta colpa di quel caldo.
Verso le tre riaprii lo sportello, stavolta per vomitare la Coca tiepida. Jim Bob tornò al distributore per comprarmi dei cracker al burro d'arachidi e una Sprite. «Ecco qua, questi fanno bene a uno stomaco ribaltato» mi spiegò.
Ne dubitavo, ma sorseggiai ugualmente la Sprite rosic¬chiando un cracker. Cominciavo a invidiare Russel che se ne stava a casa all'aria condizionata. Nient'altro da fare salvo guardare film horror e sfogliare riviste con le ragazze nude e leggere articoli sugli acari delle orecchie.
«Quel che mi attira in questo lavoro è la bella vita» ripre¬se Jim Bob. «Orari comodi, bei panorami. La possibilità d'in¬contrare gente brillante, e naturalmente c'è la pensione.»
Alle quattro la Nova spuntò da dietro il negozio, con sol¬tanto il messicano a bordo. Jim Bob mise in moto la Rambler, trovò un varco nel traffico e attraversò la strada per infilarsi nel parcheggio del videoshop.
«Soltanto il messicano ci ha visti, perciò tu puoi entrare tranquillamente a dare un'occhiata. Osserva la disposizione del locale. Può darsi che agiamo qui.»
«Qui?»
«O qui o in casa. Se il messicano torna, suonerò il clacson come se mi fossi rotto di stare ad aspettare fuori. Controlla l'uscita di servizio, cose del genere.»
Dentro era tutto scaffali su scaffali di videocassette. Die¬tro il banco stazionava un omino magro, con indosso un com¬pleto bianco vecchio di almeno dieci anni. Ormai era tutto ingiallito, con una tonalità più cupa in corrispondenza delle ascelle. Sotto portava una camicia bianca senza cravatta. E aveva un gran bisogno di radersi.
Niente di speciale da guardare. I soliti video. Nessun set¬tore di film snuff. Stavo per andarmene quando da una porta dietro il banco sbuccò Freddy. Sentii la tensione che mi bat¬teva le ali dentro lo stomaco.
Indossava un vestito grigio costoso, tagliato in modo da nascondere la pancetta, e ci riusciva alla perfezione. Portava anche una cravatta grigia con righine azzurre, con uno spillo¬ne fermacravatta d'oro infilato nella camicia scura. C'era da scommettere che le scarpe fossero belle lustre. Poteva fare a gara con Price per chi andava in giro vestito meglio.
Non riuscii a trattenermi. Mi avvicinai al banco rivolgen¬domi direttamente a Freddy. «Avete Sussurro del cuore? È un film francese.»
«Non teniamo roba straniera, tranne giap e messicani» ri¬spose in sua vece il magrolino. «La roba giap va forte. Solo azione, con un casino di spade e calci e salti.»
Freddy mi sorrise, e mi venisse un colpo se non era un sor¬riso affascinante. Era proprio un bel ragazzo quando non stu¬prava e ammazzava. Fui scosso da un brivido. Sembrava così normale. Il tipo che potrebbe allenare tuo figlio nella squadra di football o insegnare educazione civica. «Proprio così, si¬gnore. Solo film giapponesi o messicani. Per il resto cassette americane e qualche film inglese.»
«Abbiamo roba di quei signorini?» chiese il rachitico.
Freddy lo guardò ilare. Era un sorriso piacevole, come di¬cevo, ma mi ricordavo di averlo già notato sul suo volto pri¬ma che sparasse alla ragazza e le leccasse il sangue dalla fe¬rita. «Viviamo in un'era di progresso» disse rivolgendosi al magrolino. «Preferirei non usassi termini come 'giap' o 'gial¬lo' se vuoi continuare a lavorare per me. D'accordo?»
«Certo. Non volevo mica offendere.» Il magro tentava di¬speratamente di sembrare convincente.
«Ne sono certo, ma preferirei non dover sentire questi ap¬prezzamenti razzisti in mia presenza, che sia o no davanti ai clienti.»
Freddy mi sorrise ancora, e m'accorsi che non riuscivo a distogliere lo sguardo. Stavo cercando un segno della bestia, qualcosa che mi segnalasse la sua follia o malvagità, o come si potrà mai chiamare la bile in un uomo come Freddy, ma vedevo soltanto un normale essere umano. Non era come quelli che nei film finiscono sempre per interpretare i cattivi par suo: apparteneva più al genere che finisce costantemente per recitare nel ruolo del migliore amico dell'eroe del film.
«Bene, grazie comunque» salutai.
«Forse la prossima volta. Siamo intenzionati ad allargare il catalogo» disse Freddy.
Feci un cenno e mi allontanai. Anche se l'impianto di con¬dizionamento all'interno funzionava alla perfezione, ancor pri¬ma di aver raggiunto la porta mi si erano formate gocce di su¬dore sulla fronte e mi sentivo i palmi delle mani appiccicaticci.
Ci posizionammo nuovamente nel nostro punto d'apposta¬mento dietro la pompa. Circa un quarto d'ora dopo tornò il messicano, andando di nuovo a parcheggiare dietro il nego¬zio. Forse era uscito per farsi un frullato al Seven-Eleven.
Il videoshop chiuse alle sette in punto. La Nova parti, e a ruota s'avviò anche la Corvette grigia con il magrolino bian¬covestito. Ora si notava decisamente che la Corvette aveva bisogno di parecchi ritocchi. Svoltarono sulla superstrada prendendo la medesima direzione, con la Nova in testa. Li seguimmo. Arrivati all'altro capo della città la Corvette suo¬nò rivolta alla Nova e curvò. La Nova non rispose.
La tallonammo fino a casa di Freddy. Il messicano se la ca¬vava a meraviglia nel traffico. Manovrava la Chevrolet come se fosse un carrellino da golf, infilandosi con destrezza tra le macchine.
Raggiunsero il quartiere di Freddy alle otto meno cinque. Non li seguimmo. Tirammo dritto, facemmo inversione e tor¬nammo a casa.

39

Quando arrivammo a casa di Jim Bob nella tarda serata, Russel mi venne incontro sulla porta informandomi che mia moglie aveva chiamato.
«Oh, e che ha detto?»
«Non voleva parlare con me, come puoi immaginare. Non l'avrebbe mai fatto se non fosse stata costretta. Voleva esse¬re richiamata dopo le cinque.»
Naturalmente le cinque erano passate da un pezzo. «Jim Bob, posso prendere la macchina per andare al supermercato? Preferirei usare un telefono pubblico.»
«Prendi il pick-up, che ha l'aria condizionata. Questo cal¬do di merda mi fa stare male. Gesù, puoi prendere il Troione Rosso se preferisci.»
«Il furgoncino andrà benissimo.»
Al negozio cambiai i soldi e telefonai ad Anne. Rispose al primo squillo.
«Come stai?» mi chiese.
«Bene.»
«Torna a casa.»
«Non posso. Non ancora.»
«Devi.»
«Jordan sta bene?»
«Sta benone. Sono io che non sto bene. Torna a casa. Smetti di giocare a guardie e ladri e torna a casa.»
«È una faccenda seria, Ann.»
«Motivo in più per tornare. Non ti sei già divertito abba¬stanza? Chi se ne frega chi è quello a cui hai sparato. Se l'è cercata. Il fatto che non sia Freddy, poi, è solo un problema di Russel.»
«Abbiamo quasi finito.»
«E ti sei già divertito abbastanza. Torna a casa.»
«Le cose sono cambiate. È una storia molto peggiore del previsto.»
Silenzio.
«Pare che Freddy sia coinvolto in storie molto brutte.»
«Cosa ti aspettavi da un pentito del crimine organizzato?»
«Storie veramente brutte, Ann.» Le raccontai cos'aveva¬mo scoperto, e cosa stavano tramando Jim Bob e Russel. «E io gli darò una mano. All'inizio pensavo di collaborare con loro solo fino a un certo punto, ma non posso. Oggi, quando ho visto Freddy, ho capito che devo andare sino in fondo.»
«Tu non c'entri niente, non è compito tuo.»
«Di chi, allora? Della legge? Non gli torceranno un capello. Almeno finché non diventerà incontrollabile, e anche in quel caso non gli importerà niente, fin quando si tratta di messica¬ne. Hanno una reputazione da mantenere immacolata.»
«Allora lascia che ci pensino Jim Bob e Russel. Vogliono farlo e sanno come farlo. Tu non sei un pistolero.»
«Non posso lasciare che facciano da soli fingendo di non essere parte in causa soltanto perché non premo il grilletto. Devo essere là con loro, per coprirgli le spalle.»
«Coprirgli le spalle. Dio, se ti sentissi, Richard. Coprirgli le spalle. Parli come un malavitoso.»
«Come un cowboy.»
«Non me ne frega un accidente. È infantile, roba da giusti¬ziere della notte.»
«Non c'è nulla di infantile, a meno che tu non stia par¬lando della piccola puttana che Freddy ha ammazzato. Lei sì che era infantile. Credo che avesse quindici anni. Forse meno. È l'età che lui preferisce. Riesce a fregarle più facil¬mente, per la loro mancanza d'esperienza. Anche se sono puttane. E non me ne frega un cazzo di niente se è roba da giustiziere della notte. Preferirei tanto che ci pensasse la po¬lizia, ma non lo fa.»
«Richard, ti amo. Ma non ho intenzione di restare qui a domandarmi se non sei già morto stecchito in qualche fos¬so. O torni a casa subito o è meglio che non torni. Quando hai finito mi avverti per dirmi che stai bene, ma non torni a casa. Mai più.»
«Ann...»
Appese.

Mentre tornavo da Jim Bob, mi sembrava di avere una pentola vuota al posto dello stomaco. Forse, come stava suc¬cedendo a Russel, dentro di me s'era formato un buco dal quale mi colava l'anima.
Sapevo però che ogni tentativo di distogliermi dai miei progetti sarebbe stato inutile. Quel mio maledetto senso del¬l'onore era cieco, non ne voleva sapere del buon senso. Era fatto di qualcosa di cui mi aveva parlato mio padre una volta, uno dei pochi ricordi che mi restavano di lui. Aveva detto: «Fai quel che è giusto solo perché è giusto, non ti serve un motivo.»
Un uomo deve fare quello che deve fare.
Mi domandavo se papà la stesse pensando nella stessa ma¬niera mentre s'infilava la canna in bocca.
Un uomo deve fare quello che deve fare.
Arrivato da Jim Bob mi sentivo così piccino da riuscire a camminare sotto il ventre di una lumaca stando sui trampoli. Non feci in tempo a entrare che Jim Bob disse: «C'è tua mo¬glie al telefono. Sembra un po' stressata. È rimasta in linea in attesa che rientrassi.»
«Grazie.» Mentre mi avviavo verso il telefono, Jim Bob m'afferrò per una spalla.
«Dane, se hai dei casini laggiù, torna a casa a sistemarli. Non è affar tuo. Non fino in fondo. Sei un corniciaio di LaBorde, Texas, non un sicario.»
«È quello che dice anche Ann.»
Sollevai la cornetta. «Ciao.»
«Richard, penso che tu sia un gran figlio di puttana, fesso e suonato, che abbia visto troppi film con John Wayne e letto troppi romanzi western, ma ti aspetterò. Fai quel che devi fare, per Dio. E per favore, per favore, sta' attento e vedi di non farti ammazzare. Jordan e io ti vogliamo bene.»
«Anch'io ti voglio bene.»
Appesi, quindi mi girai verso Russel e Jim Bob. «Ci vorrà una pistola anche per me. Ci sto. Fino in fondo.»

40

«Salvo inconvenienti imprevedibili» disse Jim Bob «scom¬metterei che la routine di Freddy è pressoché immutabile da un giorno all'altro. Esce per andare al lavoro alle sei e trentacin¬que, torna poco prima delle otto. Tranne forse nel fine settima¬na. Ma non aspetteremo tanto a lungo. Agiremo domani.»
Più tardi, nella stessa serata, eravamo seduti al tavolo di Jim Bob a bere caffè e a mangiare biscotti. Li aveva sempre avuti, solo che erano nascosti.
«Voglio darti un'altra possibilità di tirarti indietro, Dane» fece Jim Bob.
«Approfittane. Possiedi quello che vorrei tanto mi fosse ri¬masto. Una moglie e un figlio, e sei anche un buon padre» aggiunse Russel.
«Non sarei tanto sicuro della parte relativa al buon padre» risposi. «Mi sento sempre come se facessi delle cazzate.»
«In confronto a me, sei il massimo.»
«Non è stata colpa tua se Freddy è diventato un mostro.»
«Un tempo era solo un bambino che giocava per terra con un camioncino giocattolo. Era come tutti gli altri bambini. Non c'era nessun mostro in lui.»
«Ormai queste sono solo chiacchiere» c'interruppe Jim Bob. «Dentro o fuori, Dane? È il momento di mettere le car¬te in tavola. Vedi di esserne convinto.»
«Ho detto che ci stavo e ci sto.»
«Bene. Semplifichiamo le cose. Nessun appostamento. Riusciremmo soltanto a farci notare. Prenderemo il furgo¬ne. Ci rimetto la capotta, e ho dello stucco che sembra fan¬go, per imbrattarci le targhe in modo che nessun cittadino solerte le possa trascrivere. Ho anche delle strisce di nastro azzurro da attaccare alle fiancate. E ci mettiamo pure una bella decalcomania sul cofano. Quando abbiamo finito il la¬voro torniamo qui e ci sbarazziamo del nastro adesivo, dello stucco, della decalcomania, e togliamo la copertura.»
«Lo so che andiamo ad ammazzarli, ma qual è il piano?» domandai. «Ci accostiamo col camioncino e cominciamo a sparare?»
«No, non è abbastanza sicuro. Entriamo in azione quando rallentano per passare sopra al cordolo che porta al vialetto di Freddy. Accostiamo al marciapiede, saltiamo fuori e gli spariamo attraverso i finestrini. Non saranno nella condizio¬ne migliore per reagire. È il momento più adatto.»
«E se i finestrini sono alzati?»
«Ci spari attraverso. Le pallottole ci passano tranquilla¬mente, dal vetro» rispose Russel.
«Che killer che sono. Non ci avevo pensato.»
«Quel che dobbiamo fare adesso, invece, è andare a nanna, dormire fino a tardi, poi domani prepariamo il furgone e an¬diamo laggiù ad aspettarli. E poi colpiamo» concluse Jim Bob.

Quella notte sognai che mi trovavo all'estremità di una stra¬da polverosa, infagottato nei panni di Roy Rogers, cappello bianco, frange e una cintura con due fondine che contenevano rivoltelle dall'impugnatura di madreperla. All'altro capo della strada c'era Freddy, vestito dell'abito che indossava nel nego¬zio. Non aveva pistola alla cintura. Il messicano gli stava a fianco, tenendogli un cavallo color della Nova. Entrambi sorri-devano. Cominciai a camminare. Anche Freddy s'avviò, e più mi si avvicinava più diventava alto, finché la sua testa non ol¬trepassò le nubi. Estrassi le mie pistole, veloce come il vento, come dicono nei film western, le puntai e cominciai a sparare, e Freddy si piegò da oltre le nubi, la sua faccia s'avvicinò sem¬pre più al suolo, e le mie pallottole gli punteggiarono la carne come grani di pepe nero, eppure non sembrava preoccuparse¬ne. Sorrideva. E i suoi occhi erano gelidi come le banchise polari. Allungò le mani, che erano diventate gigantesche, e mi afferrò, cominciando ad appallottolarmi. Grandi schizzi di san¬gue gli sprizzavano tra le dita.
Mi sollevai in un bagno di sudore. Appoggiai la schiena alla testata del letto, invidiando i fumatori.
La porta della camera si spalancò. Era Russel.
«Stavi gridando.»
«Davvero?»
«Già. Tutto a posto?»
«Sì, sì, era solo un incubo.»
«Anch'io ne faccio spesso.»
«E dopo quello che accadrà domani?»
«Credo che ne avrò anche di più. Sei sicuro di star bene?»
«Sì, tutto a posto.»
«Bene, buonanotte, figliolo» mi augurò Russel mentre usciva.
Stavo quasi per rispondere: «Buonanotte, papà.»

41

Mi alzai verso le undici e trovai Russel e Jim Bob in gara¬ge che stendevano lo stucco sulle targhe del pick-up. La co¬pertura del furgone, il fregio per il cofano e le strisce di na¬stro adesivo erano già al loro posto.
«Che giornata pesante che ho avuto» mi lamentai.
«Sissignore, roba da scarnificarsi le dita fino all'osso. Fra un minuto ci inglobiamo un panino» rispose Jim Bob.
«Posso fare nulla?»
«Non ora» mi comunicò sorridente Russel.
Mangiati i panini, Jim Bob estrasse da un cassetto della cucina le pistole che avevano scelto lui e Russel. Le posò sul¬la tavola e poi andò a prendere dal Troione il canne mozze e la piccola fondina da caviglia con il suo revolver. Quindi salì al piano di sopra, tornando con l'Ithaca calibro 12, una .45 automatica e la .44 modello western, assieme a parec¬chie scatole di munizioni e a un kit di manutenzione per le armi da fuoco.
«Benissimo, ti suggerirei di prendere l'Ithaca» mi disse. «Non sei abituato a sparare con la pistola, e questo è leggero e ci puoi colpire un bersaglio anche se non hai una gran mira. Proprio nel caso che ti serva un'arma di rimpiazzo, puoi por¬tarti dietro una delle pistole.»
Presi la .44. Mi sa che Ann aveva ragione, troppi film di John Wayne e romanzi western. La rivoltella riposava in una fondina nera e lucente, che non aveva cinghietti, bensì un anello che potevi agganciare alla cintura o a una fascia.
«Ottima scelta» commentò Jim Bob. «I revolver non s'in¬ceppano.»
«È un bel mucchio di artiglieria per far fuori di sopresa due persone, non trovate?»
«Qui la regola è che non ci sono regole. Agiamo svelti e ce la battiamo subito. Ma possono anche saltar fuori delle complicazioni. Come dicono i boy-scout, sempre all'erta sto. Visto che agiamo all'aperto, ci camufferemo. Roba sempli¬ce, tanto per non essere riconosciuti troppo facilmente, e con il furgone mascherato, be', dovremmo farcela. Il segreto è agire alla svelta e filare.»
«Lo faremo sul serio, no?»
«Com'è vero Dio.»

Dopo le cinque ci avviammo verso il quartiere di Freddy. Tutti e tre stipati nell'abitacolo del furgone, Jim Bob al vo¬lante, Russel in mezzo, io sul sedile del passeggero. Aveva¬mo ficcato le rivoltelle e il canne mozze in un sacco infilato dietro il sedile, chiuso da una corda un cui capo era legato alla rastrelliera alle nostre spalle, dove, visibilissimo, era ap¬poggiato l'Ithaca. Le pistole erano pulite e cariche, e lo spor¬tello del cruscotto era pieno di munizioni di riserva, nel caso che avessimo dovuto ingaggiare un conflitto a fuoco con l'in¬tero corpo dei marines.

Arrivammo dalle parti di Freddy in anticipo perché il traf¬fico si era rivelato insolitamente scarso. Proseguimmo per qualche chilometro oltre l'abitazione di Freddy, fermandoci a un McDonald's per un caffè. Russel non aveva aperto boc¬ca da quando avevamo lasciato la casa di Jim Bob. Ma pare¬va cambiato. Era di nuovo un duro. Concentrato. Come se durante la notte fosse riuscito a raccogliere abbastanza ener¬gie da scacciare dalle ossa la vecchiaia. Aveva un aspetto deciso, occhi limpidi e spalle dritte. Sembrava un vecchio soldato in procinto di uscire in battaglia.
Prima delle sette e mezza mi scusai, uscii dallo scompar¬to del McDonald's e corsi in bagno a rigettare il caffè nel cesso. Vomitare stava diventando un'abitudine. Se non era causato dall'avere ammazzato qualcuno, si trattava del cal¬do oppure della progettazione di un omicidio. Mi lavai la faccia e mi risciacquai la bocca raccogliendo l'acqua nel cavo delle mani. Mi studiai la faccia nello specchio. Come quando avevo ammazzato il ladro, uguale. Nessun segno. Solo il buon vecchio Richard Dane, marito e padre, giusti¬ziere della notte a tempo perso.
Mi chiesi se ci sarebbe stato molto sangue dopo l'assassi¬nio, e se quelli avrebbero gridato. Se Russel sarebbe stato realmente in grado di far capire a Freddy che era suo padre, e se in fin dei conti contasse veramente qualcosa. Credo che contasse molto per Russel.
Mi risciacquai nuovamente la bocca, poi tornai a sedermi di fianco a Jim Bob e passai il tempo facendo a pezzi il bic¬chiere di cartone. Alle sette e mezza partimmo, di nuovo di¬retti verso il quartiere di Freddy.
Non era ancora scuro quando arrivammo. Il cielo si stava ingrigendo, e nell'aria c'era una luce brumosa, ma le giorna¬te si stavano allungando, e morivano lentamente. C'era anco¬ra abbastanza luce da vederci, per uccidere, per essere uccisi. Mi sentivo come se stessimo sbandierando un vessillo con so¬pra scritto 'Identificateci'.
Per ammazzare il tempo ci aggirammo per le strade vicine all'isolato dove viveva Freddy, pensando a quel che stavamo per fare, controllando l'orologio.
Jim Bob raccattò degli oggetti da sotto la sua porzione di sedile e li gettò in grembo a Russel. «I travestimenti che vi ho promesso.»
Il primo oggetto era un berretto con parrucca incorporata, che sembrava la capigliatura che corona la zucca delle bambole Raggedy Ann e Andy, dello stesso color carota. Jim Bob si tolse il cappello da cowboy appendendolo alla rastrelliera e s'infilò il berretto che gli stava porgendo Russel. I capelli arancione gli calarono sulle orecchie e anche sugli occhi. S'infilò pure un paio di occhiali da sole che prese nello scom¬parto del cruscotto. Ormai gli mancavano soltanto un nasone rosso e delle scarpe flosce.
Russel mi porse una parrucca nera, riservando per sé quel¬la bionda. C'era anche un barattolo di lucido da scarpe. «Fa¬tevi dei baffi o qualcosa del genere con quella roba» consi¬gliò Jim Bob.
Russel s'infilò la parrucca e aprì il barattolo di lucido, strofinandosene un po' sul labbro superiore e un puntino sul mento, poi mi passò la scatola. Anch'io mi misi la parruc¬ca, spalmandomi uno spesso paio di baffi col lucido. Sem¬bravo Groucho Marx con una parrucca da Beatles.
Riposto il barattolo nello scomparto, consultai l'orologio.
Nove alle otto.
Mentre svoltavamo nella strada che portava alla casa di Freddy, Jim Bob sciolse il nodo della corda che chiudeva il sac¬co delle armi. «Fate attenzione, quei figli di troia sono armati.»
«Lo so, merda» rispose Russel.
I coraggiosi sicari stavano diventando un po' nervosetti. M'accorsi che stavo respirando dalla bocca, e che mi sentivo la testa leggera.
Russel si appoggiò il sacco sulle gambe e lo apri. Tolse il fucile a canne mozze e la .38 posandole in grembo a Jim Bob, che si attaccò la fondina alla cintura con una mano mentre te¬neva ben stretto il volante con l'altra. Da sotto i capelli color carota gli stavano colando sul viso gocce di sudore grosse come la condensa su un bicchiere di tè freddo.
Agganciai la .44 alla cintura, presi l'Ithaca dalla rastrel¬liera e, puntando la canna per terra, cominciai un conto alla rovescia a partire da cento, per cercare di calmarmi. Le mie mani erano umide e scivolose, sul fucile.
Russel s'era già legato alla caviglia la piccola fondina con il revolver prima di uscire di casa, così ora si doveva destreg¬giare soltanto con la .357, che si mise sul ginocchio, posan¬doci sopra la manona come un coperchio su una pentola in procinto di bollire.
Eravamo armati e pericolosi.
Arrivati all'altezza della casa di Freddy, infilammo una strada in lieve salita. Giunti in cima alla collinetta scendem¬mo lungo l'altro versante attraverso poche case sparpagliate, percorremmo la strada fino in fondo poi facemmo inversione lentamente, ricominciando la salita. Eravamo arrivati in cima, in procinto di iniziare la discesa, quando finalmente la Nova fece la sua comparsa. Erano le otto meno cinque.
Jim Bob ci comunicò che era ora di scendere e sollevò il piede dall'acceleratore nel momento stesso in cui la Nova iniziava la lenta svolta nel vialetto. Ma prima che Jim Bob riuscisse a completare la manovra, un furgone Dodge verde arrivò in coda alla Nova, parcheggiando di fianco al marcia¬piede subito prima del vialetto. La Nova prosegui lungo la stradina mentre noi continuammo a costeggiare il marciapie¬de per fermarci poco più avanti.
La porta del garage si aprì e la Nova si infilò all'interno. Il messicano e Freddy smontarono. Anche l'autista del fur¬gone scese, per andare a stringere la mano al messicano e a Freddy. Poi dal retro del furgone smontò un altro uomo che s'andò ad appostare sul vialetto, di faccia alla strada. Ci acquattammo sui sedili mentre Jim Bob spegneva il motore e si toglieva il berretto imparruccato per azzardare un'occhia¬ta, sporgendosi all'esterno. «Il messico è in casa, Freddy e gli altri due si stanno fumando una sigaretta. Quello sulla strada sta guardando da questa parte ma non dimostra di es¬sersi accorto di nulla. Anche l'uomo seduto al posto del pas-seggero dentro la cabina osserva da questa parte, ma sta solo guardando. Adesso sta dando un'occhiata al frontale del van.»
«Immagino sia una delle circostanze imprevedibili a cui avevi accennato» dissi.
«Più o meno. Il messico esce con delle borse in spalla e ha qualcosa in mano. Potrebbe essere una carabina o un fucile. Freddy abbassa il portone della rimessa con il telecomando... No, non è un fucile quello che tiene in mano il latino, è un pie¬distallo. Penso che dentro abbiano tutta l'attrezzatura video.»
«Non mi piace questa storia» commentò Russel.
«Dovevo immaginarlo che essendo venerdì dovevano ave¬re qualcosa in programma per il fine settimana, oltre alla tivù. Dovevamo aspettare fino a lunedì.»
«E adesso che succede?» chiese Russel.
Jim Bob sollevò lievemente il capo. «Il messico sta infi¬lando il treppiede e le borse sul retro del furgone, e l'altro che stava dietro sta risalendo. Anche Freddy va con loro. L'auti¬sta si siede dietro il volante. Fanno retromarcia nel vialetto... tornano verso la strada.»
Ci risollevammo.
«Che facciamo ora?» domandai. «Aspettiamo fino a lu¬nedì?»
«Seguiamoli per un po'» propose Russel. «Se stanno pro¬gettando quel che penso io, penso che faremmo bene ad arri¬vare prima che agiscano.»
«Ora non sono solo in due» disse Jim Bob. «Sono due da¬vanti e tre di dietro. E sono soltanto quelli che sono riuscito a scorgere. Dietro potrebbero essercene altri.»
«Seguili comunque. Presto.»
Jim Bob mise in moto e percorremmo la strada a velocità sostenuta, svoltando poi a sinistra ancor più velocemente. Rus¬sel e io ci togliemmo le parrucche e le raccogliemmo assieme al berretto cappelluto di Jim Bob, ficcando il tutto sotto il sedi¬le. Per un'esecuzione erano travestimenti adeguati, ma durante un pedinamento risultavano soltanto ridicoli e davano nell'oc¬chio. Difficile non accorgersi di Raggedy Ann, un pittore fran¬cese e Groucho Marx con una parrucca da Beatles.
Russel e io facemmo a turno a ripulirci la faccia dal lucido da scarpe con la tela del sacco, dentro il quale poi infilammo le armi prima di riporlo sotto il sedile. Sistemai l'Ithaca sulla rastrelliera, su cui Jim Bob riappese il cappello.
Giunto alla superstrada, il furgone verde girò a destra. Gli concedemmo alcuni secondi prima di schizzare attraverso l'incrocio per seguirlo, cercando di tenere in mezzo sempre una o due vetture. L'autista del van guidò lento e prudente fino a quando non uscimmo dalla città, sulla 59, direzione nord. A quel punto accelerò e seguirlo diventò più arduo. Lo stavamo pedinando da quasi un'ora.
Le case al lato della strada cedettero il passo a pini impo¬nenti, in mezzo ai quali le ombre si addensavano come pipi¬strelli. Il traffico era intenso, ma tutta quell'attività moto¬rizzata non mi aiutava a sentirmi meno terrorizzato. Stavo pensando alla piccola puttana del nastro, o quel che era. Era soltanto una bambina, da chiavare e ammazzare per il diver¬timento di Freddy e del messicano.
E adesso stavamo seguendo quegli stessi assassini, e an¬che un gruppo di individui probabilmente discutibili che for¬se costituivano la loro troupe fissa, lungo una nazionale buia in cui case e luci scemavano, e pinete, luna, ombre comincia¬vano a spadroneggiare. Ero convinto che l'allegra brigata furgonata si fosse riservata la notte per un filmetto molto spe¬ciale che erano intenzionati a girare, e non doveva essere di sicuro un documentario scientifico sulle abitudini sessuali delle falene.
Continuammo ad avanzare. Eravamo già a metà strada tra Houston e LaBorde, e le luci delle altre automobili si stavano facendo più rade. La notte era calata sulla campagna come un cappuccio.
Passammo attraverso un paesello che consisteva di un con¬cessionario di auto usate, un pollaio, un binario ferroviario, un semaforo e una manciata di edifici abbandonati. All'altro capo del paese il furgone girò a sinistra imboccando un'angusta secondaria asfaltata che sembrava quasi sbocconcellata dalla pineta.
Jim Bob accostò al bordo della carreggiata per dare agli altri la possibilità di distaccarci, in modo da non dare troppo nell'occhio. Russel si accese una sigaretta e io abbassai il fi¬nestrino, seguendo con lo sguardo le volute del fumo che ve¬niva risucchiato all'esterno, simile a uno spettro.
«Basta così» disse Jim Bob. Controllò il traffico sulla na¬zionale, quindi s'infilò nella stradina secondaria. Russel mi si fece più vicino per gettare la sigaretta quasi intera attraver¬so lo spiraglio nel finestrino, poi io sollevai il vetro. «Fuori l'artiglieria» annunciò Jim Bob.

42

La strada asfaltata scendeva lungo una collina scoscesa, pie¬gando bruscamente in un tornante che pareva tappezzato di pini. Alla luce della luna, con le picche degli alberi che s'erge¬vano su ambo i lati, la stradicciola sembrava un enorme nastro di melassa, tanto liscio da poterci fare lo scivolo sopra.
Scendemmo la collina, affrontammo la curva e prose¬guimmo per un tratto di strada, e ancora niente furgone. Passammo accanto a un vialetto in ghiaia, a un cancello per il bestiame, e poi a un altro vialetto asfaltato, e superammo una seconda curva.
Nessun segno del furgone.
«Non abbiamo aspettato troppo a lungo» commentò Jim Bob. «Hanno svoltato in questo tratto.»
Tornammo indietro più lentamente. Mentre superavamo il vialetto asfaltato, scorsi delle luci tra gli alberi. «C'è una casa laggiù.»
Jim Bob prosegui finché non arrivammo all'altezza del cancello per il bestiame, poi andò a parcheggiare il camion¬cino in un pascolo, spegnendo le luci.
«Torniamo indietro a controllare» propose.
«E se non sono loro?» domandò Russel.
«Risaliamo sul furgone e ripartiamo. Non credo che que¬sto pascolo sbuchi altrove che in un altro prato, o forse in un bosco. Credo che gli serva una casa per il loro lavoro. Anche la stradina in ghiaia più avanti può essere quella giusta, ma prima è meglio controllare questa.»
Uscimmo dal furgone con le armi in mano, senza più starci tanto a preoccupare di parrucche e lucido. Oltre a quelli che avevamo intenzione di eliminare, laggiù eventuali altri testimoni erano pochi e sparpagliati. E non ci serviva il nerofumo per proteggerci dall'esposizione ai raggi lunari. La luna era ridotta appena a una falce, e le ombre fitte ci avrebbero protetto con altrettanta efficacia. Dopo il tramon¬to l'aria s'era rinfrescata, ma avevo ancora problemi a re¬spirare, mi pareva troppo densa e greve per riuscire a pas¬sare attraverso naso e bocca.
Jim Bob faceva strada, Russel e io seguivamo a ruota. Poco prima di arrivare all'altezza del vialetto d'accesso, Jim Bob disse: «Se sono loro andateci calmi. Vediamo che aria tira poi mettiamo insieme un piano. Quando si arriva al dun¬que, ricordatevi che siamo di meno ma abbiamo il vantaggio della sorpresa. Un elemento che non funziona nella vita quan¬to nei film, ma è sempre meglio di niente. Quando scoppia il casino, non sparate per ferire. Qua si fa sul serio, e quando si alza il fumo noi dobbiamo essere ancora in piedi, o almeno respirare ancora.»
«Ricordati che devi fare in modo di lasciarmi Freddy» ag¬giunse Russel.
«Io e Dane non abbiamo intenzione di farci ammazzare solo perché tu possa mirare con calma, ma se ci è possibile te lo lasciamo.»
Dietro una curva si profilarono i fasci di luce dei fari di un'auto. Ci tuffammo nell'erba alta. Era la Corvette grigia.
«Il tizio del negozio» dissi.
Seguimmo con gli occhi le luci dei fanalini di coda, che si intensificarono quando l'auto frenò per svoltare nel vialetto asfaltato.
«Mi sa che abbiamo trovato i nostri amici» commentò Jim Bob.
Quando arrivammo all'altezza della stradina, la imboccam¬mo tenendoci sulla sua destra, avanzando tra gli sterpi e gli ar¬busti. Più ci avvicinavamo alla casa più il terreno diventava aperto. Finalmente arrivammo in un punto in cui la sterpaglia s'interrompeva presso un filare di rosa selvatica che pareva il recinto spinato di un lager, dietro il quale si stagliava una mac¬chia di alte conlfere. All'estrema destra terreno e arbusti preci¬pitavano in una scarpata. Dall'altra parte della strada identica situazione: la sterpaglia che s'interrompeva, la radura, i pini sparsi, solo che non c'era il burrone. Posizionato con un certo gusto in fondo al vialetto, un alto edificio in vetro e sequoia si stagliava tra i pini, con tutte le luci accese, che ci permisero di scorgere delle scale e un uomo che le stava salendo. Dietro di lui apparve Freddy. Lo riconobbi dalla stazza e dalla cammi¬nata, identica a quella del suo vecchio. In cima i gradini svol¬tavano dietro una parete. I due uomini sparirono.
Fuori dalla casa sostava un gruppo di persone, cinque, per la precisione. Dalla Corvette scesero lo smilzo in abito bian¬co e una ragazza, raggiungendo il gruppo. Non potevo vede¬re granché della ragazza, ma non pareva la stessero sottopo¬nendo ad alcuna costrizione. Non voleva dir nulla. Non le avevano certamente esposto il progetto per intero: la parte con le armi da fuoco era stata omessa di sicuro. Era bassina, aveva i capelli neri lunghi fino alla vita, camminava sculet¬tando vistosamente e aveva un culetto proprio adatto.
Uno del gruppo commentò ad alta voce: «Traini un vagone, pupa?» L'amico biancovestito gli intimò: «Parla messicano» e allora la guardia ripeté in spagnolo la medesima domanda, credo, perché la ragazza emise una risata squillante. Il suo «sì» veleggiò fino a noi, seguito da sghignazzate maschili aspre ed esasperate come l'abbaiare di cani in gabbia.
Tutti entrarono in casa, tranne un tizio che sembrava un macigno vestito da uomo. Il macigno si posizionò presso la porta a braccia incrociate sul davanti, posate a coppa sull'in¬guine come se si stesse soppesando i testicoli.
«Pensate che sia la vittima designata?» chiese Russel.
«Probabile» rispose Jim Bob. «Credo che dovremmo agi¬re di conseguenza. Occhio alla ragazza. Potrebbe anche esse¬re una complice, forse è anche armata, e ti può far volar via l'uccello con un colpo di pistola. Voi due vi avvicinate alla casa dalla scarpata, io appena posso attraverso la strada e mi accosto dall'altro lato. Sono in gamba in questo genere di manovre furtive.»
«A starti a sentire non c'è niente in cui tu non sia in gamba.»
«Non so fischiettare tanto bene. Ora ricordate, abbiamo visto sei uomini all'esterno, più due che salivano le scale. Fanno otto. Ma dentro ce ne potrebbero essere degli altri. E non dimenticate la ragazza, come dicevo potrebbe anche non stare dalla nostra parte. Per farla semplice, ci avviciniamo dai due lati al tizio sulla porta, e il primo che arriva lo mette fuo¬ri combattimento. Io non vi aspetto, e voi non aspettate me. Poi comincia la rumba, entriamo in casa e cominciamo a spa¬rate a tutti i figli di puttana che vediamo. Quando siete den¬tro, muovetevi decisi. Cerca e spara, pianoterra e di sopra. Tenete il conto di quanti ne fate fuori, e sfoderate la grinta. Cercate di essere schifosamente padroni di voi stessi perché è l'unico modo per arrivare sani in fondo.»
«Gesù santo» sussurrai.
«È una bella schifezza, vero? Ora muovetevi.»
Ci calammo nella scarpata scivolando sull'erba sdruccio¬levole e sull'argilla secca che tappezzavano il dirupo. I nostri piedi affondarono in un misero rigagnolo di acqua salmastra, sollevando una nube di zanzare che ci atterrò su faccia, mani, schiena, spalle, succhiandoci il sangue anche attraverso la camicia. Il groviglio di radici e sterpi sul letto della scarpata ci si avvinghiava ai piedi cercando di farci incespicare. So¬pra di noi, oltre il ciglio del dirupo, facevano capolino alberi artritici e arbusti, nascondendo in gran parte la falce della luna e rendendo tremendamente buio il nostro cammino sul fondo. Eppure avanzammo svelti e silenziosi. Almeno lo spe-ravo. Non ci sentivo tanto bene per colpa del sangue che mi pulsava alle tempie.
Poi gli alberelli e gli arbusti lassù in alto si diradarono, e la luce proveniente dalla casa, divenuta più forte della scarsa luce della luna, cominciò a colare nella scarpata come un fiotto di burro marcio. La conca si andava restringendo. La parete sinistra s'abbassò bruscamente al punto che ci dovem¬mo chinare, facendo capolino ogni tanto per controllare esat-tamente dove ci trovavamo.
Eravamo arrivati quasi in linea con la facciata della casa. Il masso vestito da uomo stava in piedi sotto la luce gialla di una lampada tonda, sul porticato anteriore. Non riuscivo a non pensare che forse stava fantasticando su quel che succe¬deva all'interno, dove avrebbe tanto desiderato trovarsi, men¬tre invece era inchiodato lì a fare la sentinella. O forse non ci stava pensando per niente, non gliene fregava un cazzo. For¬se stava sognando auto veloci e donne e i Dallas Cowboys, o forse calcolava il costo dei vestiti su misura che si potevano adattare al suo corpo massiccio.
Consultai Russel con lo sguardo.
«Addosso» sussurrò.

43

«Ho il fucile. Dovrei andare avanti io» proposi.
Russel non cercò di dissuadermi. Temporeggiai un paio di secondi sperando che ci provasse, poi varcai il ciglio della scarpata con la pallottola in canna. Prima che riuscissi ad ar¬rivare a metà strada il macigno si voltò, mi vide e si portò una mano alla giacca. Stavo per sparargli quando Jim Bob, uno spettro con un cappello da cowboy in testa, sbucò dalla notte colpendolo alla tempia con il suo canne mozze. L'uomo fece quasi un'intera piroetta su se stesso, e Jim Bob lo sgam¬bettò. La testa della sentinella sbatté contro il cemento del portico con un rumore sordo. Jim Bob gli si chinò sopra fa¬cendo scattare la mano.
Complessivamente l'intera azione s'era svolta in un relati¬vo silenzio.
Raggiunsi Jim Bob, poi arrivò anche Russel, col fiato corto. Guardai l'uomo disteso. Il canne mozze gli giaceva di traverso sul petto e sotto il mento si notava un'area scura, che s'andava allargando. Jim Bob aveva in mano un serramanico, dalla cui lama gocciolava sangue. Lo richiuse contro la gamba dei pan¬taloni, lo ficcò in tasca, quindi raccolse il canne mozze. «È ora di iniziare la festa» disse aprendo la porta. Entrò, e Jim Bob e io lo seguimmo. Non c'era nessuno a cui sparare.
Jim Bob fece segno verso le scale, avviandosi in quella direzione. Russel prosegui a destra, io a sinistra, con il fucile spianato. Raggiunsi una porta e l'aprii, scoprendo uno sgabuzzino. Nessun vestito cercò di aggredirmi. Richiusa la porta, girai l'angolo e attraversai il corridoio, poi il mondo cominciò ad andare a pezzi al fragore della sparatoria pro¬veniente dal piano di sopra. Mentre mi giravo, udii un ru¬more di passi. M'accucciai. Uno degli uomini del furgone mi stava correndo incontro. Quando mi vide cercò di arre¬starsi: sembrava una di quelle gag in cui l'attore cerca di fre-nare ma riesce soltanto a scivolare. Però non era un attore. La sua mano volò verso la giacca. Gli puntai contro l'Ithaca beccandolo in pieno petto. L'uomo cadde, rotolò sulla schie¬na, raggiungendo una posizione semiseduta dalla quale mi sparò un colpo. La pallottola mi sfiorò rovente il collo. Pom¬pai in canna un'altra pallottola e sparai di nuovo, beccan¬dolo in pieno mento. La testa gli si rovesciò, l'uomo cadde al suolo e il corridoio fu invaso dall'odore di merda e pol¬vere da sparo.
Intanto la sparatoria stava continuando, perciò decisi di arri¬vare in fondo al corridoio a controllare cosa c'era laggiù, per poi tornare verso le scale sperando per il meglio. Scavalcai il morto e girai l'angolo aspettandomi di essere accolto a schioppettate, ma trovai solo un'ampia cucina vuota con un banco su cui erano tutti gli ingredienti per preparare panini. Quand'era cominciata la sparatoria, il morto si stava preparan¬do un tramezzino. Tornai di corda nel corridoio, girando a si¬nistra verso la scala. Notando un movimento indistinto, mi pie¬gai su un ginocchio caricando contemporaneamente l'Ithaca. Un uomo barcollante, con un braccio che gli pendeva molle e mezzo storto sul fianco, un'automatica appesa a un dito come un gingillo attaccato a un gancio, crollò contro uno dei grandi finestroni che costituivano la facciata dell'edificio e cominciò a scivolare verso terra, lasciando una striscia di sangue sul ve¬tro. Poi apparve Russel, che si avvicinò all'uomo, poggiando¬gli la canna della .357 contro la testa, e lo fulminò.
«Russel» dissi.
Si girò, con la rivoltella pronta a sparare, poi sollevò la canna. Gli occhi gli erano diventati pezzi di pietra, ed era pallido in volto come un camice del Ku Klux Klan.
«Scale» mi suggerì.
Lassù si sentivano ancora dei colpi. Arrivati alla svolta della scala, trovammo un messicano. Non quello che già co¬noscevamo, un altro. Gli mancava la calotta cranica.
Lo superammo di corsa, poi una porta si spalancò in cima alle scale e ci arrivò un grido come di dinosauro ferito. Jim Bob schizzò attraverso la porta, andandosi a schiantare con¬tro la parete e crollando sul pianerottolo. Aveva perso il cap¬pello e, come Russel, era pallido come un cencio, con una luce folle negli occhi. Aveva ancora il canne mozze in mano, mentre la .38 era scomparsa dalla fondina.
Non era Jim Bob che gridava. L'uomo che il detective amava soprannominare 'il messico' uscì barcollando sul pia¬nerottolo. Aveva il davanti della sua camicia umido e scuro, ricoperto di una sostanza che veniva risucchiata entro la cas¬sa toracica ogni volta che l'uomo inspirava. Il latino si muo¬veva come una marionetta.
Jim Bob si girò verso di noi gridando: «Sparate a quello stronzo. Io gli ho già scaricato addosso due caricatori.»
Mentre la .357 di Russel si sollevava esitante, la testa del latino scattò a destra e a sinistra come se fosse caricata a mol¬la. Non aveva più metà del viso. Il messico si chinò per affer¬rare Jim Bob per una gamba e ce lo scagliò contro. Il detective mi beccò in pieno mandandomi a crollare sul messicano morto lungo le scale. Russel rimase fermo al suo posto.
Il messico ora stava scendendo gli scalini verso di lui, avanzando come il mostro di Frankenstein. Russel alzò la mano armata, tenendosi il polso con l'altra, e fulminò il messico sul naso. Il latino si piegò, rotolando sopra Jim Bob, il sottoscritto e il suo compatriota.
Russel prosegui su per le scale. Jim Bob, che intanto si era rialzato in piedi, aprì il canne mozze e, recuperate due cartucce dal taschino della camicia, ricaricò l'arma.
Raccolsi l'Ithaca che m'era sfuggito di mano, e seguii Jim Bob sulle orme di Russel, che s'era già infilato nella porta dritto di fronte a noi.
Era la stanza dove avevano realizzato il video che aveva¬mo visto. All'estrema destra c'era una telecamera posta su un treppiede, mentre un'altra giaceva rovesciata al suolo. Una terza senza tripode era buttata su un angolo del letto, dove era steso anche un uomo. Il tizio che avevo visto salire le scale davanti a Freddy. Lo riconobbi dal vestito. Era riverso sopra la ragazza. Non riuscivo a capire in che condizioni fosse la messicana, dato che riuscivo soltanto a vedere le piante dei piedi nudi, le braccia spalancate a mo' di crocefissione e i capelli neri sparpagliati sui lenzuoli candidi come una chiaz¬za di petrolio sulla neve.
«Freddy e la mezza sega sono qui da qualche parte» disse Jim Bob. «Quando sono entrato erano qui dentro assieme a 'sto morto qui e al messicano. Il magrolino le stava dando dell'uccello.»
Afferrai l'uomo sul letto per il colletto del vestito, toglien¬dolo di dosso alla ragazza e girandolo a faccia in su. Aveva l'aspetto di uno che non ha mai dovuto lavorare, bei capelli argentati e baffetti in tinta. Avrà avuto almeno cinquant'anni. Abbastanza vecchio per essere il padre della ragazza. Jim Bob gli aveva sparato a più riprese nel petto e all'inguine. Probabilmente con la .38. I fori erano minuscoli.
La ragazza non si muoveva, tranne che per gli occhi, che ruotarono verso di me. Erano del colore delle noci mature. I capezzoli dei seni magri erano stranamente ampi, dello stesso colore degli occhi. Il pelo del pube era stato spuntato così ac¬curatamente che pareva una minuscola mutandina di pelliccia. Le gambe corte luccicavano, come se fossero state unte. Me la immaginavo sui diciotto. In quel frangente, era sensuale come un sedano. Adesso riuscivo a scorgere le cordicelle bianche che le legavano i polsi alle sbarre del letto. Non provai a liberarla, non ce n'era il tempo. Le lanciai quello che speravo fosse un sorriso rassicurante. Se aveva capito l'inten-zione, volto e occhi non me lo diedero a intendere. Si limitò a restarsene sdraiata a guardare, tranquilla, forse rassegnata.
Restava solo una porta nell'angolo di sinistra, nel punto in cui si trovava Russel, oltre all'accesso a uno spogliatoio situa¬to tra il letto e la porta di cui sopra. Jim Bob sollevò i cani del canne mozze e spalancò la porta dello sgabuzzino. Il magro, nudo come un verme, saltò fuori urlando. Il lampo di una lama che calava oltre la spalla di Jim Bob, affondandogli nella schie¬na. Jim Bob conficcò entrambe le canne del corto fucile nel ventre dell'uomo e premette i grilletti. Uno spruzzo rosso schizzò dal corpo dell'ometto, davanti e dietro, poi la mezza sega crollò al suolo. Jim Bob si accovacciò, reclinando la te¬sta. Il coltello gli sporgeva dalla schiena come un aculeo.
Russel, senza starci tanto a pensare, afferrò il coltello per il manico estraendolo di scatto.
«Maledizione!» si lamentò Jim Bob.
Russel s'infilò il coltello nella cintura, apri la porta che ave¬va di fronte e si scansò di lato, ma nessuno gli sparò.
Russel gridò verso la stanza. «Freddy, sono Ben Russel. Sono tuo padre. Sono venuto per ucciderti.»
Mi portai alle sue spalle, cercando di sbirciare oltre la so¬glia. Quando Russel s'infilò all'interno, gli tenni dietro. Jim Bob si rialzò, appoggiandosi allo stipite della porta. «Che male, Ben.»
Era un vasto ambiente adibito a ufficio, con una scrivania metallica, schedari contro le pareti e un grande caminetto, dietro il quale sporgevano parte di una gamba di un paio di pantaloni, una spalla e un volto. Freddy.
Puntai l'Ithaca, ma una mano mi fece abbassare la canna, così l'arma si scaricò al suolo. Era stata la mano di Jim Bob, che disse: «Eccolo, Ben, il caminetto.»
Freddy balzò fuori dal riparo e sparò a Jim Bob con una pistola, scaraventandolo indietro. Sparò di nuovo, colpendo una seconda volta l'investigatore privato e scagliandolo oltre la soglia.
«Sono tuo padre» disse Russel e la .357 salì, ma non ab¬bastanza in fretta. Freddy gli sparò alla spalla destra facen¬dogli saltare la pistola di mano. Russel s'inginocchiò con un grugnito.
Alzai di nuovo il fucile, facendo fuoco. Una porzione di caminetto andò in frantumi rovinando al suolo. Freddy però era rimasto incolume.
Mi sparò addosso mentre stavo ricaricando l'Ithaca, sfo¬racchiandomi un fianco. Il braccio destro mi s'intorpidì, e il fucile schizzò via come se fosse stato preso in mezzo a un battente, cadendo per terra. Cercai di afferrare la .44 con la sinistra, con la tremenda consapevolezza che non ce l'avrei mai fatta. Stavo fissando il foro nella canna della pistola di Freddy, la bocca della morte pronta a sputarmi in un occhio.
La pistola da caviglia di Russel abbaiò, e Freddy buttò fuo¬ri l'aria come se fosse stato percosso. Cascò seduto per terra, con la pistola abbandonata tra le gambe. «Merda, m'ha bec¬cato» si lamentò.
Mise a fuoco con gli occhi la pistola che aveva davanti sul pavimento e cercò di afferrarla, ma le dita non lo aiutarono nel¬la presa. Sembrava stessero cercando di prendere del mercurio. Freddy rimase allora a fissare l'arma come se l'avesse tradito. Quando tossi un grumo di sangue gli imbrattò il mento.
Russel gli si accostò. Stringeva nella sinistra la piccolo calibro, mentre il braccio destro ripiegato sul petto era coper¬to al mio sguardo.
«Non volevo farti soffrire. Speravo che fosse una cosa ve¬loce perché ti voglio bene.»
Freddy sorrise alzando lo sguardo. «Mi vuoi bene? Ami¬co, falla finita subito. Cazzo, sei veramente papà?»
«Ah-ah.»
«Questa sì che è una sorpresa» commentò Freddy, e Rus¬sel gli sparò in piena fronte.

44

Il fianco non era più intorpidito, anche se il braccio, per qualche motivo insondabile, sembrava un Kleenex fradicio. Con la mano sinistra andai a tastare i punti in cui la pallot¬tola era entrata e uscita attraverso la carne e la camicia, ma nessuna delle due ferite sembrava particolarmente allarman¬te. Non mi pareva che sanguinassero molto, con mio gran¬de sollievo.
Lasciai Russel accanto al figlio morto e andai a inginoc¬chiarmi vicino a Jim Bob. Il viaggio da una stanza all'altra servi ad assicurarmi che ogni parte di me era funzionante, e che mi stava ritornando la sensibilità al braccio. Mi dava qua¬si l'impressione che fosse andato a fare la nanna e adesso si stesse dibattendo per risvegliarsi.
Russel si venne a chinare al mio fianco, e sfiorò il braccio di Jim Bob. Il detective aprì gli occhi e ci guardò.
«Pensavo che non ce l'avresti fatta» disse Russel.
«Al momento sembrava la cosa migliore» bisbigliò Jim Bob. «Non credo che lo rifarei.»
«Male?»
«Tanto, e temo che Rodriguez vorrà dei gran soldi. Anche tu mi sembri un po' malconcio.»
«Un po'.»
«Dane?»
«Sono ferito» risposi. «Ma sto bene. Penso che sia passata attraverso lo strato di adipe del fianco. Non sanguino nem¬meno molto.»
«Hai un taglio sul collo.»
Mi toccai dove una pallottola m'aveva colpito di striscio, ritraendo una mano insanguinata. «Pareva che ne saltassero fuori da tutte le parti.»
Russel sfiorò la fronte di Jim Bob. «Non hai febbre.»
«Non ho mica l'influenza. Cristo, li abbiamo stesi tutti?»
«Ah-ah.»
«Accidenti, siamo meglio di quel che pensavo.»
«Puoi andare a prendere il furgone?» mi chiese Russel. «Forse sto invecchiando. Mi sento privo d'energie.» Aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Vado» risposi.
«La ragazza sembrava a posto, vero?» chiese Jim Bob.
Diedi un'occhiata al letto. Non era scappata da nessuna parte. Teneva il volto girato verso di noi, fissandoci con gli occhi color noce.
«Sta bene» risposi. «Solo spaventata a morte.»
Presi le chiavi dalla tasca di Jim Bob e andai a recuperare il furgone. Quando tornai al piano di sopra, Russel aveva usato il coltello del magrolino per tagliare un lembo delle lenzuola su cui era distesa la ragazza (scommetto che s'era divertita un sac¬co a vederlo avanzare verso di lei con quel maledetto coltello in mano), lembo che gli era servito per improvvisare un ben¬daggio per Jim Bob. Quando arrivai, Russel si tolse la camicia per farsi bendare da me, poi mi rese il servizio. Ci rivestimmo, e infine io andai a cercare le nostre armi, compresa la .38 che Jim Bob aveva perso quando il messicano gliel'aveva fatta volare di mano. La trovai impigliata nell'abito bianco del ma¬grolino, ripiegato per terra di fianco al letto.
Riposi l'artiglieria nel pick-up, poi Russel e io ci servim¬mo delle braccia buone per trasportare dabbasso Jim Bob, scavalcando i cadaveri. Ci cadde per terra solo una volta. Smadonnò da far screpolare i muri. Lo stendemmo di dietro, posandogli il cappello sul petto, poi risalimmo di sopra a li¬berare la ragazza. Scovammo i suoi vestiti sotto il letto, e le demmo le spalle mentre se li infilava. Appena si fu vestita, la portammo al pianterreno. Non aprì mai bocca e i suoi occhi mi fecero capire che ancora non ci aveva inquadrato troppo bene. Dopo quel che aveva passato, aveva tutto il diritto di essere sospettosa e di restarsene in silenzio.
La infilammo nel retro del furgone accanto a Jim Bob. Anche Russel salì dietro, poggiando la schiena contro la pa¬rete. Recuperò una sigaretta, l'accese e tossi alla prima boc¬cata. Poi mi chiese se ero sicuro di farcela a guidare.
«Non ho le farfalle davanti agli occhi. Ho male al fianco, ma la mano sinistra è a posto. E la mano destra sta recupe¬rando la sensibilità rispetto a pochi minuti fa.»
«Se ti senti mancare, ci diamo il cambio alla guida.»
«Andrò più veloce che posso senza attirare l'attenzione della legge. Cercherò di evitare il più possibile gli scossoni, Jim Bob.»
«Non mi viziare» rispose il detective. «Non sto tirando le cuoia. Finché non mi sparano al cazzo, non mi fanno gran danni.»
Chiusi il portellone e andai a mettermi al volante, per al¬lontanarmi dalla grande casa piena di morte.

45

In un calda domenica pomeriggio d'agosto, seduto al ta¬volo da picnic dietro casa, stavo ammirando le gocce di con¬densa sulla bottiglia di birra e Jordan che giocava sul suo nuovo dondolo.
Stavo pensando alla mia famiglia. A quello che avevo fatto. Le mani che poco prima avevano stretto mio figlio erano le stesse che avevano impugnato delle armi servendosene per ammazzare della gente. Non mi sembrava giusto. Anche se era una giornata luminosa, appena mi soffermavo su quei pensieri avevo la sensazione che dietro gli occhi mi scivolassero delle ombre. Forse era il genere di ombre con cui Russel aveva dan¬zato, e adesso avevo anch'io delle compagne di ballo speciali.
Era passato quasi un mese dalla sparatoria e non un gior¬no, non un risveglio era passato senza che ci pensassi. Ave¬va rimpiazzato le mie teorie sul ladro che avevo ucciso, e persino la tenera faccina della figlia che non avevo mai co¬nosciuto. Il ricordo di quella notte era tanto forte che tal¬volta annusavo ancora l'odore della polvere da sparo, del san¬gue e della paura. Era stata un'esperienza esaltante, come guidare un'auto troppo veloce, come camminare sul filo senza rete. Forse meglio di entrambe queste bravate. Dopo quei brevi attimi intensi di sangue e furore, m'accorgevo che ne volevo altri. Ormai la vita mi sembrava insipida e paurosamente monotona.
E quando passò il desiderio di rievocare o ripetere quegli istanti di fuoco e acciaio, li riempii con il gelido odio per me stesso e con la preoccupazione per la mia anima. Non in senso religioso. Non ce la facevo a credere che c'era qualcosa dal¬l'altra sponda dell'abisso, non dopo quello che avevo visto. Ma in senso personale. Temevo che la mia umanità mi stesse sfug¬gendo, e forse mi stava già gocciolando da un buco sul fondo.
Il collo e il fianco erano guariti perfettamente, lasciando solo cicatrici impercettibili, grazie a Rodriguez, e James e Valerie erano riusciti a mandare avanti il negozio senza pro¬blemi, durante quello che chiamavo il mio periodo di conge¬do sabbatico.
Avevo ricevuto una cartolina da Jim Bob che m'informa¬va che lui e Russel stavano «bene un casino» e avevo letto numerosi servizi giornalistici sulla strage. Tutti incolpavano la Mafia del Sud. La ricomparsa di Freddy Russel, questa volta morto sul serio, era stata cagione di serio imbarazzo per l'FBI. Specialmente dopo che i poliziotti locali che avevano identificato il cadavere avevano girato l'informazione ai gior¬nali, i quali se n'erano impossessati come se fosse un pallone di football e se l'erano portata avanti più yarde possibile, ar¬rivando praticamente in meta.
I giornali avevano identificato anche l'uomo dai capelli argentati. Era un ricco industriale la cui casa era un arsena¬le di snuff movies. In alcuni figurava anche da protagoni¬sta, quello che dava personalmente il colpo di grazia. Si fece molto baccano sulla faccenda, ma sembrava che nessuna ipo¬tesi potesse portare a noi, perciò smisi di preoccuparmi.
Comunque ero lì fuori che mi bevevo una birra, pensiero¬so, quando Ann uscì dicendomi che «quell'uomo» era venu¬to a trovarmi. Dalla faccia che mostrava e dalle sue parole, capii subito di chi si trattava.
«Non voglio che entri» continuò. «Una volta è abbastan¬za. E non filartela con lui, per nessun motivo. Fosse anche per una Coca. Non offrirgli nulla.»
Le risposi che ero d'accordo. Ann non gli aveva perdona¬to le malefatte con Jordan e poi, anche se non ero mai stato in grado di spiegarle per filo e per segno la notte in quella casa, s'era fatta un'idea di quel che era successo senza che le dovessi illustrare i dettagli con pignoleria. Ce l'aveva con lui anche per questo.
Richiamò dentro Jordan con la promessa di latte e biscot¬ti. Mio figlio si staccò dal dondolo e mi corse incontro affer¬randomi per una gamba. Lo sollevai da terra, tenendomelo di fronte a braccia tese. «Ti voglio bene, papi» disse.
«Anch'io ti voglio bene» gli risposi, stringendolo come se stessi toccando una fonte d'energia. Il vuoto che temevo sva¬nì di colpo, mi sentivo di nuovo integro. Per il momento. Lo baciai, poi lo rimisi giù, dandogli una lieve pacca sul sedere. Corse dentro dalla mamma, mentre io uscii sul davanti attra¬verso il soggiorno.
Russel mi stava aspettando sul vialetto, appoggiato alla Rambler di Rodriguez. Gli strinsi la mano, ma ci andai piano. Da come teneva il braccio capii che gli faceva ancora male.
«Ero indeciso se venire o meno» disse. «Non volevo scon¬volgere Ann. L'ho vista che mi guardava dalla finestra, e ho capito che sarebbe venuta ad avvertirti. Temo che avrei fatto meglio a non venire.»
«Desideravo vederti.»
«Vedo che sono sparite le sbarre dalle finestre.»
«Mi sembrava di essere un canarino. Me ne sono sbaraz¬zato subito.»
«Ottimo. Jim Bob m'ha detto di riferirti che il ladro si chiamava William Randolph. Ti dice niente?»
Scossi la testa. «A dir la verità me n'ero dimenticato. Come l'ha scoperto?»
«Questo ti piacerà. Ha chiamato Price, dicendogli che aveva letto sul giornale di Freddy Russel e, visto che quello era Freddy Russel, il tizio a cui tu avevi sparato non poteva essere lui e pensava che Price fosse in debito con te dopo averci mandato dietro quei teppisti con le mazze.»
Risi. «Sembra proprio degna di Jim Bob.»
«Price non ha detto nulla. Gli ha spifferato il nome. È pos¬sibile che sospetti che c'entriamo in qualche maniera con la storia della casa, ma non credo che gliene freghi niente. Pen¬so che sia contento che è finita e che quel pezzo di merda abbia avuto il fatto suo. Non è più compito suo aiutare l'FBI a coprire qualcuno.»
«Come sta Jim Bob?»
«Bene. Non c'è nulla che lo riesca a stendere a lungo. Mi sa che è sul serio il superuomo che crede di essere. È sotto le cure della messicana che abbiamo salvato, e sta già comin¬ciando a gironzolare per casa. La prossima settimana riman¬da la ragazza in Messico, e le regala anche una discreta sommettina.»
«Anche questo è da Jim Bob. E ora tu che farai?»
«Non mi resta più niente da fare. Un uomo che è capace di uccidere il proprio figlio, qualunque cosa abbia combinato, è già andato in pezzi. Nell'anima. O come la vuoi chiamare. Ho messo le sue fotografie assieme a quel nastro maledetto e gli ho dato fuoco, cercando di bruciare anche tutto quello che provo per lui. Ma non ci sono riuscito. Tanto lo so, gli voglio ancora bene persino dopo quello che ha fatto, e poi non l'ho mai conosciuto veramente. Non significherà molto, Richard, ma se avessi potuto scegliere il figlio che volevo, l'avrei vo¬luto esattamente come te.»
«Significa molto per me.»
«Vorrei tanto non averti coinvolto in questo casino.»
«Non saresti riuscito a impedirmelo.»
Mi abbracciò, e io risposi alla sua stretta. Ripensai all'ulti¬ma volta che avevo visto mio padre, prima che se ne andasse a infilarsi la canna in bocca.
Quando ci staccammo aggiunse: «Questo è tutto quel che mi rimane dentro.»
Tremava lievemente. Era difficile parlare.
Salì in macchina e abbassò il finestrino. «Ho portato questo per Jordan.» Prese dal sedile il modellino di un carro rosso dei pompieri e me lo consegnò. «Non gli devi dire che viene da un altra persona. Forse, quando sarà più grande, se si ri¬corda di quella notte... be', gli puoi dire... diglielo, va bene?»
«Sì.»
«Tieniti alla larga dalle ombre, Richard.»
«Farò del mio meglio, Ben.»
Fece manovra con la Rambler e si allontanò lungo il vialetto. Salutai l'auto che se ne andava, senza sapere se Ben mi vedesse nello specchietto retrovisore. Mi voltai per rientrare in casa. Un fragoroso ritorno di fiamma mi smosse il sangue, e riprovai l'esaltazione della notte della sparatoria. Mi girai di scatto, capendo subito che la detonazione proveniva dalle candele della vecchia Rambler. Poi l'eccitazione spari. Allo¬ra provai paura, perché per un momento il rumore, così si¬mile a uno sparo, mi aveva travolto con un'ondata di limpi¬dissima euforia. E adesso che l'onda era passata, mi sentivo deluso. Fu questo a spaventarmi di più. La delusione.
«Alla larga dalle ombre» proclamai ad alta voce, e poi, men¬tre varcavo la porta d'ingresso, ripetei quella frase come se fos¬se un incantesimo contro il male. «Alla larga dalle ombre.»

FINE