lunedì 13 gennaio 2020


MUCHO MOJO
JOE R. LANSDALE
(Mucho Mojo, 1994)

Questo libro è dedicato con amore e
con rispetto e con la più profonda devozione alla
persona più importante della mia vita.
Mia moglie. Karen.

È indispensabile ringraziare alcune persone che mi hanno aiutato a portare a conclusione questo progetto: Barbara Puechner; Andrew Vachss; Neal Barrett, Jr.; David Webb; e, ovviamente, Jeff Banks. Vorrei anche fare un cenno di sa¬luto ai miei vecchi amici di roseto, Sam Griffith e Larry Walters, e ringraziare mia "zia" Ardath nonché il mio istruttore di karaté, Richard Metteauer.

MUCHO MOJO

Non importa contro chi ti trovi a
combattere; il tuo avversario è sempre te stesso.

Nakamura

1

Era luglio e faceva caldo e io stavo interrando piantine e l'idea dell'omicidio manco mi passava per l'anticamera del cervello.
Tutti i lavori da roseto sono brutti, tipo fare innesti, o scavare, ma interrare è un lavoro buono per i peccatori all'inferno.
È nel pieno dell'estate che bisogna farlo. Funziona così: ti danno questa manciata di piantine e tu le prendi e sospiri e ti giri a guardare tutto il roseto, che va da dove ti trovi tu a un qualche posto a est della Cina, e ti rimbocchi le maniche, e ti chini, e infili le piantine nei filari, un po' distanziate. Non ti tiri più su se proprio non ci sei costretto, perché altrimenti non finirai mai. Tieni la schiena piegata e continui a interrare, seguendo il filare polveroso, sperando che prima o poi riuscirai a dare un taglio alla tortura, anche se pare che non succeda mai, e ovviamente il sole del Texas dell'est, che alle dieci e mezzo di mattina è come una piaga infetta che lascia colare pus fuso, non migliora le cose.
Così ero lì a divertirmi con le mie piantine, pensando nel cervelletto i soliti pensieri a base di tè ghiacciato e dolci donne disponibili, quando arriva il Boss Ambulante e mi batte sulla spalla.
Ho pensato che magari fosse l'ora della pausa per l'acqua, ma quando alzo gli occhi lui punta il pollice sul fondo del roseto e dice: "Hap, c'è Leonard."
"Non può lavorare qui," gli dico. "A meno che non riesca a interrare le piantine col bastone."
"Vuole solo vederti," ha detto il Boss Ambulante, e se n'è andato.
Ho sistemato nel terreno l'ultima piantina del mio fascio, ho raddrizzato la schiena e mi sono avviato giù per il lungo filare polveroso, passando davanti alle schiene chine e sudate degli altri.
Vedevo Leonard dall'altra parte del roseto, appoggiato al suo bastone. Da quella distanza, pareva fatto di scovolini e vestiti da bambolotto. La sua faccia nero uva passa era girata verso di me, e una cortina di calore ne riverberava, tremolando nella luce forte, e la polvere del terreno turbinò per qualche attimo nella cortina e si posò lentamente.
Quando Leonard vide che stavo guardando nella sua direzione, la sua mano si alzò nell'aria come una gracola in decollo.
Anche Vernon Lacy, il mio boss totale, l'uomo che io chiamo affettuosamente il Vecchio Bastardo anche se ha la mia età, agghindato in camicia bianca spiegazzata, calzoni bianchi e casco marrone da minatore, mi vide arrivare. Dopodiché andò da Leonard e mi guardò e in modo molto lento e meticoloso scrisse un'annotazione sul suo quaderno delle poesie. Per segnare il tempo di lavoro che avrei perso, ovviamente.
Arrivato in fondo al filare, cosa che richiese un po' meno della traversata dell'Egitto in groppa a un cammello morto, ero coperto di polvere e stanco per aver trascinato i piedi sul terreno molliccio.
Leonard sorrise e disse: "Volevo solo sapere se puoi prestarmi cinquanta cents."
"Se mi hai fatto fare tutta questa strada per cinquanta cents, provo a vedere se riesco a infilarti il bastone su per il culo."
"Prima lasciami mettere la vaselina, eh?"
Lacy girò la testa e disse: "Ti sei beccato una multa, Collins."
"Vai al diavolo," gli dissi.
Lacy deglutì e se ne andò senza voltarsi.
"Molto fine," disse Leonard.
"Sempre andato fiero della mia diplomazia. Adesso dimmi che non vuoi cinquanta cents."
"Non voglio cinquanta cents."
Leonard sorrideva ancora, ma il sorriso si piegò leggermente da un lato, come una nave che sta per imbarcare acqua e affondare.
"Cosa c'è, amico?"
"Mio zio Chester," disse Leonard. "È defunto."

Seguii la vecchia Buick di Leonard col mio camioncino. Lungo la strada mi fermai a comperare birra e ghiaccio. Arrivati a casa di Leonard, tirammo fuori un secchiello e lo riempimmo di ghiaccio e birra e ce lo portammo sulla veranda.
Leonard, come me, non aveva l'aria condizionata, e la veranda era il posto più fresco che si potesse trovare, a meno di andare giù al torrente e spaparanzarsi lì.
Ci sistemammo sull'altalena scassata e mettemmo il secchiello fra noi due. Mentre Leonard faceva partire l'altalena con la gamba buona, io aprii un paio di birre.
"È successo oggi?" chiesi.
"Lo hanno trovato oggi. Era morto da due o tre giorni. Attacco cardiaco. Adesso sta alle Pompe Funebri LaBorde. Lo hanno riempito di liquido."
Leonard sorseggiò la sua birra e studiò lo steccato col filo spinato sul lato opposto della strada. "Vedi quel tordo beffeggiatore sul palo dello steccato, Hap?"
"Perché? Sta cercando di attirare la mia attenzione?"
"È grasso. Non se ne vedono molti di così grassi."
"È una cosa che mi chiedo di continuo, Leonard. Chissà perché di solito i tordi beffeggiatori non diventano belli grassi. Pensavo di scriverci un saggio."
"L'uccello preferito di mio zio. A me sono sempre sembrati brutti, ma per lui erano la cosa più grandiosa del mondo. Quando ero piccolo mi chiamava il suo tordetto beffeggiatore perché prendevo sempre in giro lui e tutti quanti. Quando ne vedo uno penso a lui. Mieloso, eh?"
Non aprii bocca. Puntai lo sguardo sulle assi in fondo alla veranda e guardai un tafano surriscaldato che barcollava sulle zampe malaticce, cercando di strisciare fino al fazzoletto d'ombra proiettato dal tetto della veranda. Lo vidi sussultare e arrestarsi di botto. Un colpo di calore, pensai.
"Domani voglio andare ai funerali di zio Chester," disse Leonard. "Però non so. Mi fa un po' senso. Probabilmente lui non mi vorrebbe."
"Da quello che mi hai raccontato di zio Chester, a parte il fatto che ti ha ripudiato quando ha scoperto che sei frocio..."
"Gay. Adesso si dice gay, Hap. Voialtri normali dovete proprio impararlo. Solo quando siamo sbronzi, ci chiamiamo tra noi finocchi o checche."
"Quello che preferisci. Io sono sicuro che Chester, a modo suo, fosse un bravo ragazzo. Tu lo amavi. Non conta quello che avrebbe voluto lui. Conta quello che vuoi tu. Lui è morto. Non prenderà più decisioni. Se tu vuoi andare al funerale a salutarlo per le belle cose che ricordi di lui, vacci e basta."
"Vieni con me."
"Ehi, mi spiace per tuo zio Chester, per quello che significava per te, ma io manco lo conoscevo. Il fatto è che con lo zio morto, tu che arrivi sconvolto e io che alzo le chiappe dal roseto in quel modo, ho paura di non avere più un lavoro. Ha mandato a puttane il mio reddito, quindi perché cazzo dovrei voler andare al suo funerale?"
"Perché io voglio che tu ci venga e tu sei amico mio e non vuoi ferire i miei sentimenti piccini picciò."
Era vero.
Non mi piaceva, ma dissi di sì. Andare a un funerale pareva una cosa piuttosto innocua.

2

Il funerale era il giorno dopo alle tre del pomeriggio, così la mattina presto, con l'auto di Leonard, facemmo un salto a LaBorde da J.C. Penney.
Andammo a comperarci abiti interi, un articolo che Leonard e io non possedevamo da anni. Il mio ultimo completo aveva un colletto alla Nehru e un simbolo della pace grande all'incirca quanto il cerchione di una El Dorado, appeso a una catena un po' più piccola di quella che serve per trainare un camion cisterna.
L'ultimo completo di Leonard era stato un modellino firmato dall'esercito.
Da Penney, gli abiti interi non avevano più il panciotto e due paia di calzoni, almeno non quelli decenti, e i prezzi erano più alti di quel che ricordavo. Magari era il caso di andare a dare un'occhiata al Kmart, vedere se avessero qualcosa verde brillante. Qualcosa che se ti stufavi di portare potevi sempre usare per ricoprire una poltrona.
Alla fine mi ritrovai con un completo blu scuro e camicia azzurro chiaro e cravatta blu scuro. Comperai scarpe nere, calzini, e una cintura.
Provai tutto e mi guardai nello specchio. Avevo un'aria idiota. Come un toro da combattimento molto alto e molto bipede in gramaglie.
Leonard comperò un completo verde scuro stile selvaggio West, una camicia giallo canarino e una cravatta a strisce arancioni e verdi e gialle. Le scarpe invece erano nere, con la punta e le cerniere sui lati. Il tipo di scarpe che si sperava avessero smesso di produrre più o meno quando i Dave Clark Five avevano smesso di incidere dischi.
"Devi seppellire zio Chester," gli dissi. "Mica portarlo in crociera ai Caraibi. Fatti vedere con quella roba addosso, e magari lui salta fuori dalla cassa e ti spara un lenzuolo."
"L'invidia è una brutta cosa, Hap."
"Hai ragione. Piacerebbe anche a me somigliare a una collisione frontale tra Dolly Parton e Peter Max."
Ci rimettemmo i vestiti vecchi, e pagai io perché al momento ero l'unico dei due a lavorare, anche se solo sporadicamente, e perché Leonard non mi permetteva mai di dimenticare che la sua gamba fritta era colpa mia. Diceva cose tipo: "Lo sai che mi sono rotto la gamba per colpa tua", dopo di che prendeva qualcosa che gli piaceva e io pagavo, perché quello che diceva era vero. Non fosse stato per lui, i miei funerali si sarebbero svolti prima di quelli di zio Chester.
La cerimonia funebre si teneva in una piccola comunità alla periferia di LaBorde, e dopo essere tornati a casa a ciondolare per un po' indossammo i vestiti nuovi e ripartimmo sulla baracca di Leonard, senza l'aria condizionata.
Tempo di arrivare alla chiesa battista dove si teneva il funerale, ed eravamo coperti di sudore come porci nei nostri vestiti nuovi. Con l'aria calda che mi soffiava addosso, pareva che i miei capelli fossero pettinati alla porcospino, mentre il mio aspetto generale era quello di uno che ha fatto a cazzotti e ha perso.
Scesi dall'automobile e Leonard mi raggiunse e disse: "Hai ancora il fottuto cartellino del prezzo."
Alzai un braccio, ed eccolo lì il cartellino. Pendeva da una manica della giacca. Mi sentii un cafone. Leonard tirò fuori il suo coltello da tasca, tagliò il filo del cartellino ed entrammo in chiesa.
Sfilammo in parata davanti alla cassa aperta, e ovviamente zio Chester non si era perso l'occasione di fare l'ospite d'onore. Era un figlio di puttana molto molto brutto, e da vivo non doveva essere stato poi tanto meglio. Non era molto alto, però era largo, e il fatto di essere morto da un paio di giorni prima che lo trovassero non lo aiutava affatto a diventare una bellezza. Quelli delle pompe funebri erano solo riusciti a renderlo vagamente simile a una bambola di pezza stragonfia.
Dopo gli elogi funebri e le preghiere e gli inni e la gente che si buttava sulla cassa a piangere, che lo volesse o no, ci spostammo a un piccolo cimitero in un boschetto e la cassa venne estratta da un vecchio carro funebre nero. Sul parafango posteriore c'era un adesivo con la scritta DIO HA FATTO TOMBOLA.
Sotto un tendone a strisce, col vento caldo che ci soffiava addosso, ci ritrovammo davanti a una fossa aperta, e la cerimonia continuò. Tutta quanta la faccenda aveva una vaga aria di teatralità.
L'unico a parere veramente sconvolto era Leonard. Non parlava, ed è troppo macho per piangere in pubblico, ma io lo conosco. Vedevo che gli tremavano le mani, la piega della bocca, gli occhi velati.
"È un posto abbastanza carino per farsi seppellire," gli sussurrai.
"Quando sei morto, sei morto," disse Leonard. "Me lo hai detto tu. È una cosa che tende a farti perdere sensibilità per l'ambiente."
"Giusto. Zio Chester vada a farsi fottere. Parliamo di moda. Avrai notato che qui l'unico a somigliare a un Roy Rogers nero e frocio sei tu."
Questo gli strappò un sorriso.
Nel corso della generica maratona verbale del prete a beneficio di zio Chester, io passai un po' di tempo a guardare una bella nera in abito scuro, corto e aderente, che stava vi¬cino a noi. Anche lei, come Leonard, era tra i pochi che non si stessero dando da fare per l'Oscar. Non sembrava particolarmente triste, però era solenne. Ogni tanto si girava a guardare Leonard. Io non capivo se lui se ne fosse accorto. Un eterosessuale avrebbe capito subito se nell'atteggiamen¬to della donna ci fosse o no qualcosa di romantico. E auto¬matico. L'uccello di un eterosessuale, a prescindere dalle coordinate culturali e sociali del suo proprietario, si accorge di una bella donna, e punta sempre sul vero nord. O forse sul sud, adesso che ci penso.
Il prete finì una preghiera leggermente più lunga dell'edizione completa dell'Enciclopedia Britannica e fece segno di abbassare la cassa.
Un tizio alto e magro, con la mano sul congegno che abbassa la cassa, tirò una leva e la bara cominciò a scendere, oscillò, si raddrizzò. Qualcuno del pubblico emise un gemito e si zittì. Una donna di fronte a me, con un cappello dotato di tutto tranne la frutta fresca e una matassa di filo spinato, tremò e ululò un gemito e sventolò un fazzoletto.
Un attimo dopo era tutto finito, a parte il lavoro dei becchini che dovevano buttare terra nella fossa.
Ci furono un po' di strette di mano e chiacchiere, e quasi tutti andarono da Leonard a dirgli quanto fossero dispiaciuti, e mi guardarono con la coda dell'occhio, insospettiti perché io sono bianco, o forse perché presumevano che fossi l'amante di Leonard. Era già abbastanza brutto avere un parente o conoscente finocchio, ma merda, quello addirittura si scopava un bianco.
Fummo invitati, senza grande entusiasmo, a una riunione di parenti e amici, ma Leonard rifiutò, e la folla si disperse. La bella donna con l'abito scuro si avvicinò e sorrise a Leonard e gli strinse la mano e gli disse che le spiaceva.
"Sono Florida Grange. Ero l'avvocato di suo zio, signor Pine," disse. "Credo, anzi, di esserlo ancora . Lei è nel testamento. Ufficializzeremo le cose se verrà domani al mio studio. Eccole il mio biglietto da visita. E questa è la chiave della casa di suo zio. Le spettano la casa e un po' di soldi."
Leonard prese chiave e biglietto da visita e restò lì con un'aria stupefatta. Io dissi: "Salve, signorina Grange. Io sono Hap Collins."
"Salve," disse lei, e mi strinse la mano.
"Conosceva bene mio zio?" chiese Leonard.
"No. Non bene," disse Florida Grange, e se ne andò, e ce ne andammo pure noi.

3

La casa di zio Chester sorgeva nella parte di LaBorde che qualcuno chiama zona nera della città, qualcun al¬tro città dei negri, e tutti gli altri chiamano East Side.
Era una zona in rovina che dieci anni prima era stata in condizioni piuttosto buone perché si trovava ai confini della comunità bianca, prima che la comunità bianca si trasferisse più a ovest e la manutenzione delle strade del posto venisse abbandonata a favore di altre vie dove stanno i veri soldi e il vero potere, nei quartieri dei visi pallidi col portafoglio grasso.
Percorrendo Comanche Street, rimbalzammo su buche talmente profonde che un paracadute non ci sarebbe stato proprio per niente male, e Leonard svoltò in un sentiero d'accesso foderato di ghiaia e di un accumulo di parecchi giorni di quotidiani.
La casa in fondo al sentiero era a un solo piano, però grande, e un tempo graziosa. Adesso la vernice si scrostava dai muri, e il tetto era stato riparato alla meglio con latta e catrame. I pezzi di latta intercettavano la luce del sole e ri¬sputavano raggi caldi, riflettendoli sui mattoni mezzo sbriciolati di un camino e sui rami di una grande quercia prote¬sa su un lato del tetto. La quercia graffiava il tetto, proiettando un po' d'ombra sul cortile sottostante. Altri pezzi di latta attorno alla base della casa servivano a coprire l'intercapedine tra il terreno e le prime assi della piattaforma.
Un palo alto tre metri, coperto di glicine, era piantato nel terreno sull'altro lato della casa, e dal palo spuntavano lun¬ghi chiodi, e sui chiodi erano infilate bottiglie di birra e di bibite varie, e, a occhio e croce, molte delle bottiglie erano state frantumate da colpi di pistola o da sassi e clave. Alla base del palo, il vetro era ammucchiato come bigiotteria smessa.
Avevo visto un affare del genere anni prima, nel cortile di un vecchio falegname nero. Non sapevo cosa fosse all'epo¬ca, e non lo sapevo nemmeno adesso. L'unico nome che mi veniva in mente era albero bottiglia.
Davanti alla lunga veranda, qualche siepe cresceva alla selvaggia, tipo certi tagli di capelli alla afro vecchio stile, e in mezzo alle siepi scalini in pietra, inclinati, correvano verso le assi grigie della veranda, e sulle assi c'erano due uomini neri e un ragazzino nero.
Prima di scendere dall'auto, chiesi: "Tuoi parenti?"
"Che io sappia, no," disse Leonard. 
Scendemmo e ci avviammo alla veranda. Il ragazzo ci guardò, ma gli uomini non fecero quasi caso a noi. Dal brac¬cio del ragazzino fuoriusciva un tubicino di gomma. Lo buttò via e cominciò a grattarsi il braccio. Sembrava confuso ma esilarato, come se si stesse svegliando da un lungo sonno rilassato.
Uno degli uomini, un tipo alto e muscoloso, in maglietta e calzoni larghi, con una cresta di capelli alla indiano e un ago da siringa in mano, disse al ragazzo: "Altri dolciumi dal¬la stessa casa, se hai il grano."
Il ragazzo scese gli scalini, passò fra me e Leonard e rag¬giunse la strada. Mohawk lasciò cadere l'ago sulla veranda. Sulle assi era visibile qualche altro ago, oltre al tubicino di gomma.
L'altro nero portava una cuffia da doccia azzurro chiaro, una maglietta arancione e jeans, e aveva all'incirca le dimen¬sioni di un carro da sfilata del Giorno delle Rose. Dalla ve¬randa, abbassò lo sguardo su di noi come se la cosa lo stan¬casse. Disse a Leonard: "Merda, ma tu sei il fottuto uccello del paradiso."
"Pure appollaiato sul bastone," disse Mohawk. "Chi ti ve¬ste, fratello? E tu, ragazzo bianco. Predichi da qualche par¬te?"
"Vendo assicurazioni," risposi. "Ne vuoi? Ho la sensazio¬ne che te ne servirà una, fra qualche minuto."
Mohawk mi sorrise come se mi trovasse molto divertente.
"Cosa ci fate qui?" chiese Leonard.
"Ce ne stiamo sulla strafottuta veranda," disse Carro Al¬legorico. "Che cazzo ci fai tu qui?"
"Sono il proprietario."
"Ah," disse Mohawk. "Devi essere quel fesso del ragazzo dello zio Tom."
"Sono il nipote di Chester Pine, se è questo che intendi."
"Ehi, ehi, stavamo solo concludendo un piccolo affare," disse Mohawk. "Non gonfiarti le palle."
"Questo non è il tuo ufficio," disse Leonard.
Mohawk sorrise. "Hai ragione, sai, però pensavamo di aprirci una filiale." Si spostò sull'orlo della veranda e indicò la casa accanto. "Noi viviamo lì. Quella è la sede centrale, Capitan Raggiodisole."
Guardai. Era una casa grande e in rovina, sull'appezza¬mento di terreno vicino a quello di Leonard. Molti giovani neri uscirono sulla lunga veranda e restarono lì a guardare.
"Mica gli hai dato il vaccino per il morbillo a quel ragazzino," disse Leonard. "Quanti anni ha? Dodici?"
"So mica," disse Carro Allegorico. "Non è che gli faccia¬mo il regalo per il compleanno. Merda, per quello che ne sai tu, noi siamo medici. Liberi professionisti."
"Secondo me siete liberi professionisti della stronzaggine," disse Leonard.
"Fottiti," sibilò Carro Allegorico.
"Sono arrivati i boy-scout; perché voi due stronzi siete boy-scout, non è vero?" disse Mohawk.
Leonard squadrò Mohawk dalla testa ai piedi. "Uscite dalla mia proprietà. Subito. Altrimenti i vostri amici della porta accanto dovranno raccogliervi con la carta igienica."
"Fottiti," ripeté Carro Allegorico.
"Stavo pensando a quella cuffia da doccia," dissi. "Hai la¬sciato l'acqua aperta? Devo andare a cercarti una salvietta?"
"Fottiti," interloquì Carro Allegorico.
"Se hai finito la tua dotazione quotidiana di parole," dis¬si, "come farai a implorare pietà?"
"Uuuu," gongolò Mohawk. "Questa chiacchieratina po¬trebbe portare a qualcosa."
"Non rendermi prematuramente felice," disse Leonard.
Poi si mosse. Il suo bastone schizzò in mezzo alle gambe di Mohawk. Leonard lo spinse più avanti, gli agganciò un gi¬nocchio, e scaraventò Mohawk giù dalla veranda, a faccia avanti.
Leonard si scostò e Mohawk colpì il terreno di testa. A giudicare dal rumore, doveva essere stato doloroso.
Era il segnale che aspettavo. Quando Carro Allegorico cominciò a scendere dalla veranda per entrare in azione, gli tirai un calcio di sguincio e lo centrai diritto al ginocchio della gamba che si era appena mossa. Anche lui atterrò di testa. Appoggiò le due mani sul terreno, fece per alzarsi, e io gli assestai un calcio alla gola con un terzo circa della mia potenza disponibile.
Carro Allegorico rotolò sulla schiena, stringendosi la gola e gorgogliando.
La cuffia da doccia restò al suo posto. Non mi ero mai reso conto di quanto siano aderenti quegli affarini. O forse lo sono solo quelli azzurro chiaro.
Leonard aveva tirato su Mohawk, e, buttato a terra il ba¬stone, lo stava lavorando con una serie di destri e sinistri e alzate di ginocchio, senza lasciarlo cadere. Il corpo di Mohawk saltava per tutto il cortile, come avesse un trampo¬lo a molla infilato su per il culo.
"Basta così, Leonard," dissi. "Ti si gonfieranno le noc¬che."
Leonard colpì Mohawk un altro paio di volte sotto le costole, in basso, e questa volta non si avvicinò tanto da tener¬lo in piedi. Mohawk si afflosciò sull'erba, emettendo un suono che somigliava a una fuga di gas.
Carro Allegorico si era messo in ginocchio. Teneva ancora le mani sulla gola e sputacchiava. Controllai i tizi sulla ve¬randa della porta accanto. Se ne stavano lì e basta. In pose da duri, naturalmente.
Leonard si mise a strillare. "Se voialtri ritardati ne volete un po', venite qua."
Nessuno ne voleva nemmeno un pizzico. Il che mi rese felice. Non avevo voglia di strappare il mio vestito J.C. Pen¬ney nuovo di zecca.
Leonard raccolse il bastone e guardò Carro Allegorico. "Se rivedo qui tu o il tuo amico, se anche solo vedo qualcu¬no che mi ricorda voi due, vi uccidiamo."
"Non potremmo semplicemente rovinargli la capigliatu¬ra?" chiesi.
"No," disse Leonard. "Li voglio uccidere."
"Serviti, ragazzi," dissi. "O morte o niente."
Mohawk, con aria indifferente, era strisciato fino al¬l'estremità del cortile, vicino all'albero bottiglia, e stava cer¬cando di alzarsi. Carro Allegorico si era ripreso abbastanza da riuscire a tirarsi su e andare a dare una mano a Mohawk. Zoppicando, ansimando, si avviarono verso la casa alla porta accanto.
Dalla veranda, un nero alto strillò: "Voi due. Il vostro momento sta per arrivare. Arriva."
"È stato un piacere conoscervi, vicini," disse Leonard, quindi tirò fuori la chiave e insieme entrammo.

4

La casa era calda e lercia, il caminetto era pieno di sporcizia, e ovunque c'erano grandi matasse di ragna¬tele. Al nostro passaggio, la polvere si alzava e volteg¬giava nella luce che colava tra i pesanti tendaggi delle fine-stre, e c'era un puzzo di stantio che veniva da un sacco di cose. Una, ne ero certo, era zio Chester in persona. Se crepi in una casa e ci resti per due giorni al caldo, tendi a matu¬rare un po' troppo, e pure l'ambiente con te.
Spalancai la porta d'ingresso. Non che servisse a molto. Non tirava un filo di vento.
"Porcaccia," disse Leonard. "Pare quasi che non vivesse nemmeno qui."
Considerato l'aroma che si era lasciato alle spalle, trovai discutibile l'idea, ma dissi: "Era vecchio, Leonard. Forse si muoveva poco."
"Non era poi tanto vecchio."
"Non lo vedevi e non avevi sue notizie da anni. Poteva essere conciato male."
"Forse regalarmi questa casa è stata una specie di pugna¬lata finale al mio cuore. Amavo questa casa quando ero pic¬colo. Lui lo sapeva. Merda, guardala adesso."
"Magari negli ultimi giorni ha rimesso assieme il suo caz¬zo di cervello e ha deciso di metterci una pietra sopra. La signorina Grange ha detto che ti ha lasciato anche un po' di soldi."
"Fuori corso, probabilmente."
Ci aggirammo per casa. La cucina era squallida, con piatti sporchi ammucchiati nel lavandino e piatti di carta e confe¬zioni di cene surgelate infilate nel bidone della spazzatura. C'era una vera montagna di immondizia attorno al bidone, come se Chester si fosse stufato di portare fuori i rifiuti e avesse semplicemente cominciato a lanciare roba in quella direzione.
Le mosche ronzavano a stormi. Sul piano della cucina, in un contenitore di plastica, in mezzo a una polpa verde e pelosetta che poteva essere fatta di avanzi di enchilada si con¬torcevano dei vermi.
"Be'," dissi, "viveva qui. Poco ma sicuro."
"Merda," disse Leonard. "Questo cesso non è recente."
"No. Ci ha lavorato su duro."
Sulla destra della cucina c'era una camera da letto. Ci en¬trammo. Era relativamente pulita. Sul comodino c'era una copia sbrindellata, in rilegato, del Walden di Thoreau. Il li¬bro preferito di Leonard, specialmente il capitolo che si in¬titola Fiducia in se stessi.
Mi guardai attorno. Una parete era quasi tutta scaffali di libreria. I libri stavano dietro pannelli scorrevoli di vetro.
Leonard andò ad aprire la tenda. Il vetro della finestra era giallo di polvere e decorato da cacche di mosca. Al¬l'esterno c'era una griglia di sbarre, e si vedeva la casa dove abitavano Mohawk, Carro Allegorico e gli altri stronzi.
"Il vecchio aveva paura," dissi.
"Mai avuto paura di niente," replicò Leonard.
"Invecchi e finisce che hai paura. Il coraggio è proporzio¬nale alla taglia e alle condizioni fisiche e al calibro della tua pistola. In certi casi dipende da quanto liquore, crack o eroi¬na hai in corpo."
"Amico, questo quartiere non è mai stato il Ritz, ma ora è proprio finito in mano ai porci."
"I porci non lo vorrebbero mai."
"Prendi la merda alla porta accanto. Non ci arrivo. È uno spaccio di crack, e anche uno con solo un occhio di vetro capirebbe cos'è. Ma cosa fanno gli sbirri? Il ragazzino si sta¬va facendo una pera sulla veranda, amico. Davanti a Dio e a tutti quanti."
"Probabilmente era una pera gratis," dissi. "L'eroina mica costa poco. Dopo un po', quando quello ne ha voglia, gli di¬cono di provare il crack. Lui lo prova e poi ne vuole ancora perché lo fa godere ed è economico. Il crack lo puoi avere per cinque dollari, anche se magari sei costretto a rubare bi¬giotteria per pagartelo."
Leonard chiuse la tenda e tornammo in corridoio, e dopo il bagno infilammo la stanza accanto.
"Gesù," disse Leonard.
La stanza era piena di pile alte fino al soffitto di giornali ingialliti. C'era un sentierino nel mezzo. Ci avviammo, e il sentiero svoltò a sinistra e si allargò. Nello slargo c'erano una sedia e un tavolo, e sopra il tavolo un piccolo ventilato¬re e delle carte.
Se ti mettevi sulla sedia e guardavi oltre il tavolo, potevi vedere la finestra di fronte, e, se la tenda non fosse stata ti¬rata, avrei scommesso che si sarebbero viste delle sbarre e una polverosa panoramica dello spaccio di crack.
Sul tavolo c'erano una biro e un taccuino per appunti. Il taccuino era aperto e io guardai il foglio. Zio Chester faceva disegnetti. C'erano tanti piccoli rettangoli e i rettangoli era¬no numerati. In alto e in basso e sui lati erano tracciate delle linee.
A quanto pareva, zio Chester aveva troppo poco da fare.
Lì faceva caldo, e la polvere che avevamo sollevato stava sospesa nell'aria morta e attorno alle nostre teste come una veletta. Mi toglieva il fiato.
Uscimmo e tornammo in soggiorno, e ci incamminammo alla porta per prendere aria, e fu allora che scoprimmo che oltre alla serratura nella quale avevamo infilato la chiave sul¬la porta c'erano non meno di cinque serrature a mo' di bar¬ricate, se uno aveva voglia di usarle. C'erano due catene di sicurezza, un chiavistello e una sbarra di metallo che entrava nelle fessure sui due lati della porta, e sul fondo e in alto c'erano due ganci fermaporta.
"In quanto a misure di sicurezza, non lo fotteva nessu¬no," dissi.
"Gli stronzi della porta accanto, probabilmente," disse Leonard.
Uscimmo sulla veranda, e l'aria era ancora immobile e calda, ma enormemente meglio dell'aria putrida dentro ca¬sa. Un paio d'ore, e la temperatura si sarebbe abbassata sui trentadue gradi e magari si sarebbe alzato il vento, e in casa, con le finestre tutte aperte e un ventilatore acceso, forse si sarebbe riusciti a respirare senza la maschera dell'ossigeno.
Guardai lo spaccio di crack. Non si vedeva nessuno. "Te la sei cavata bene, per uno col bastone," dissi.
"Quei rottinculo sono davvero fortunati che non sono in forma come al solito. Una settimana e comincio le lezioni di ballo."
"Quel palo con le bottiglie. Che cazzo è? Roba decorati¬va?"
"È una di quelle stronzate mojo. Ti protegge dagli spiriti malvagi. Dice che gli spiriti entrano nelle bottiglie e ci resta¬no intrappolati. O forse entrano e vengono sputati fuori tra¬sformati in una roba innocua. Non so di preciso. Ricordo di averli visti qualche volta da bambino. Ne ho sentito parlare. Però zio Chester non ha mai creduto in quella merda. Sem¬pre stato pratico come un boia."
"Certe cose sulla gente non le scopri mai, Leonard. An¬che su gente che conosci bene come ci conosciamo noi due. Per quello che ne sai tu, io potrei ascoltare dischi di polka."
"Probabile. Senti, Hap, domani devo vedere quell'avvo¬cato. Credi che possa convincerti a restare con me per sta¬notte?"
"E se non ne avessi voglia?"
"È lunga, a piedi."
"Come immaginavo."

Anche se non avevamo intenzione di restare, ci eravamo portati un cambio di vestiti. L'idea era quella di fermarci lungo la strada, toglierci gli abiti da funerale, mandare giù un boccone e magari andare al cinema.
Ci cambiammo e cominciammo a ripulire la casa. Io an¬dai giù in città a comperare sacchetti di plastica per la spaz¬zatura e un po' di articoli da pulizia, e quando tornai Leo¬nard si era messo a lavare i piatti nel lavandino.
Intanto che lui era impegnato lì, io tirai tutte le tende e aprii tutte le finestre e raccolsi la spazzatura, e la infilai nei sacchetti e la portai fuori.
Fatto quello, Leonard aveva finito coi piatti ed era partito con le pulizie generali. Scopava, passava stracci, tirava giù le ragnatele con la scopa, lucidava le sbarre delle finestre, spruzzava in giro lisoformio. Gli diedi una mano.
"Qui ci sono scarafaggi tanto grossi da poter essere proprietari terrieri," disse Leonard.
"Lo so. Uno di loro mi ha appena aiutato a portare fuori i rifiuti."
Finito quello che volevamo fare, eravamo coperti di sudo¬re e polvere, e andammo in bagno a turno, a lavarci al me¬glio possibile. Acqua calda non ce n'era.
Accendemmo la luce sulla veranda e chiudemmo le fine¬stre e poi la porta e riempimmo bagagliaio e sedile coi sacchi di spazzatura e partimmo. Scaricammo i sacchi in un cassonetto dell'università quando nessuno guardava, e an¬dammo a mangiare in un Burger King. Poi andammo al ci-nema, e tornammo a casa che era buio pesto, con gli occhi aperti, perché magari qualche amico della porta accanto vo¬leva farci una sorpresa.
Ma probabilmente stavano ancora ruminando sui calci in culo che avevano preso. Ce n'era un bel gruppo sulla veran¬da buia della loro casa, e ci guardavano. Noi raccogliemmo i giornali sul sentiero d'accesso, salutammo gli amici dello spaccio di crack e rientrammo in casa.
Leonard mi lasciò la camera da letto e si prese il divano in soggiorno. Per un po' restammo a ciondolare e leggere giornali, poi depositammo le chiappe. Io lasciai aperta la porta della camera da letto per far circolare aria, alzai il te¬laio della finestra e accesi la ventola sul soffitto.
Da dov'ero coricato, potevo girare la testa verso la porta e vedere Leonard sdraiato di schiena sul divano, col braccio sugli occhi.
"Mi spiace per tuo zio," dissi.
"Sì."
"Tutti se ne devono andare."
"Già. Vorrei solo che le cose fossero filate meglio fra noi," disse lui.
"Ti voleva bene, Leonard. Se no non ti avrebbe lasciato la casa."
"Mi sarebbe piaciuto sentirgli dire che mi voleva bene. A volte, quando sono stupido, mi sento in colpa perché sono omosessuale. Come se potessi scegliere come si combinano i miei ormoni. Zio Chester lo ha scoperto e mi ha trattato da pervertito. Come se essere gay significasse molestare bambini o approfittarsi sessualmente di uomini più deboli."
"Non era diverso da tanta gente, Leonard."
"Io non ho mai costretto qualcuno a fare qualcosa, e poi non è che mi freghi tanto del sesso. Il mio problema è che sono attratto da uomini normali, e non funziona. Tanti gay recitano la parte del gay, e questo mi dà fastidio."
"È strano, Leonard."
"No. È normalissimo per tanti gay. Mi sa che è un po' quello che succede alle donne, credo. Voglio avere una rela¬zione con un uomo, ma in un modo o nell'altro di solito non è che i gay mi servano a molto. Mi sa che sono riusciti a fic¬carmi in testa che sono strani, e io sono uno del mazzo. Vacci a capire. Te lo giuro, la natura mi ha fatto uno scherzo fottuto."
"Ah ah."
"Hap, tu ti senti mai sfasato a essere amico mio? Sapen¬do che sono gay?"
"Di solito non ci penso. Insomma, tu non sei esattamente il prototipo del gay."
"Nessuno lo è."
"Insomma, non è che ci faccia molto caso, e quando mi viene in mente probabilmente mi sembra strano. Lo accetto, ma non lo capisco. Non vedo i gay come pervertiti. Qualcu¬no lo è, qualcuno no, uguale sputato agli eterosessuali. Però io sono un ragazzo del Texas dell'est e sono cresciuto nella fede battista..."
"Anch'io sono del Texas dell'est e battista."
"Lo so. Sto solo parlando. A volte me ne rendo conto. Non è che mi dia proprio fastidio, però me ne rendo conto e mi sento un po' confuso."
"Se tu sei confuso, immagina come mi sento io. La vita sarebbe più facile se io fossi normale."
"Sì, però non lo sei."
"Porcaccia. Dovevo pensarci prima." 
"Tu hai mai visto Il carissimo Billy?"
"Sì."
"Alla fine dell'episodio, almeno da quello che ricordo, i due fratelli, Wally e Billy, si ritrovano nella stessa cameretta e si fanno quattro chiacchiere prima di spegnere la luce e andare a letto. Chiacchierando, tirano le fila dell'episodio che uno ha appena guardato, e i problemi che hanno affron¬tato, e tutto viene risolto e sistemato in quegli ultimi minuti, e la settimana dopo i due passano ad altro senza bagaglio appresso. Sai cosa?"
"Cosa?"
"La vita non è fatta così."
"No. Proprio no. Buonanotte, Wally."
"Buonanotte, Billy."

5

Il mattino dopo Leonard telefonò e fissò un appunta¬mento con Florida Grange e ci andammo in auto. Centro città o no, il suo palazzo era nella zona più eco¬nomica, vicino a un condominio distrutto da un incendio, su una collina di argilla trafitta da un'autostrada. Il condominio era bruciato tre anni prima e doveva ancora essere ricostrui¬to, e l'argilla sulla quale sorgeva aveva cominciato a slittare verso l'autostrada.
Entrammo nel palazzo, salimmo in ascensore e vedemmo uscire da una porta una donna di mezza età che si stringeva la mascella con le mani. Passammo davanti alla porta dalla quale era uscita. Era lo studio di un dentista che si chiamava Mallory. Florida Grange, Avvocato, stava fra quello e l'uffi¬cio di un tizio che anticipava soldi per le cauzioni.
Entrammo. Niente segretaria. Niente sala d'attesa. La stanza era grande all'inarca quanto i gabinetti per uomini dell'YMCA e quasi tutta occupata da scrivania e sedie e armadietti d'archivio e un computer. Sulla parete, diplomi e cer¬tificati in cornice vantavano le capacità professionali di Florida Grange.
Florida Grange sedeva alla scrivania. Sorrise quando en¬trammo e si alzò e tese la mano, prima a Leonard, poi a me. Quando la strinsi, i due grossi braccialetti d'argento al suo polso tintinnarono.
Portava un vestito corto, bianco come la neve, che rende¬va smaglianti la pelle color cioccolata e i lunghi, lucidi capel¬li neri. A occhio doveva essere sui trent'anni, trentacinque al massimo.
Dolce cioccolata in una bella confezione bianca.
A stare lì con lei, con addosso i vestiti nei quali avevo dormito, mi sentivo un po' a disagio. Mi ero lavato i denti col dentifricio di zio Chester e con il dito indice.
Ci sedemmo. Florida Grange si accomodò alla sua scriva¬nia, ne prese un fascicolo e disse: "La questione è semplice e non richiederà molto tempo. Però è privata, signor Pine."
Sorrise nel dirlo, tanto per essere sicura che io non scop¬piassi in lacrime.
"Hap e io non abbiamo segreti. Di quello che lei può dire non c'è niente che lui non possa sentire. Ha già detto che ricevo la casa e un po' di soldi. C'è dell'altro?"
"Il problema è quanto... Ha ragione, signor Pine. Sto fa¬cendo del melodramma."
"Leonard. Non mi piace sentirmi chiamare signor Pine. E lui lo chiami Hap."
"Molto bene, Leonard. Non è un testamento complicato, quindi salterò tutte le formalità, se non le spiace."
"So mica," disse Leonard. "Io vivo per le formalità. Se non me ne ciuccio un po', potrei deprimermi."
Lei gli sorrise. Avrei voluto che sorridesse a me in quel modo. "Le ha lasciato la casa e un po' di soldi. Centomila dollari."
Forse era per quello che a me non sorrideva nello stesso modo. Io non avevo centomila dollari.
"E dove cavolo ha trovato una cifra simile?" disse Leo¬nard. "Faceva la guardia, quando lavorava."
L'avvocato scrollò le spalle. "Se ha risparmiato un po', non è poi troppo insolito. Forse aveva delle obbligazioni in scadenza. Comunque, lei eredita quei soldi. Provvederò a farglieli avere. Un'ultima cosa. Le ha lasciato questa busta e quello che contiene."
Aprì il cassetto della scrivania ed estrasse una busta gon¬fia. La diede a Leonard. Lui la aprì e sbirciò dentro. La passò a me. Sbirciai. C'erano un sacco di ritagli di giornale. Vidi che uno era un buono per un dollaro di sconto sull'ac¬quisto di una pizza. Bene. La pizza ci piaceva.
Scossi la busta. Qualcosa di pesante si mosse all'interno. Alzai la busta, e la cosa che c'era dentro scivolò fra i ritagli e cadde sulla mia mano.
Era una chiave. La diedi a Leonard.
"Pare di una cassetta di sicurezza," disse lui.
"Esattamente la mia idea," dissi.
"Porca vacca, dottore!" strillò una voce dall'altro lato del¬la parete.
Florida Grange, avvocato, pareva un tantino imbarazzata. "Non credo sia un grande dentista. I clienti strillano parec¬chio."
"Tutto a posto," disse Leonard. "Non abbiamo intenzio¬ne di servircene."
"Continuo a pensare di traslocare," disse lei.
Leonard chiese: "Qual era la banca di zio Chester? Lei lo sa?"
"Certo. LaBorde, Main e North."
Leonard annuì, rimise la chiave nella busta. "Dice che non lo conosceva, però è il suo avvocato. Ha parlato con lui. Deve essersi fatta una qualche impressione."
"L'ho conosciuto circa un mese fa," disse lei. "Si è pre¬sentato da me e ha voluto che mi occupassi dei suoi affari."
"Le è sembrato malato?" chiese Leonard.
"Sembrava sotto stress. Come se avesse dei problemi. Pensava di avere l'Alzheimer. Questo me lo ha detto."
"E lo aveva?"
"Non so. Però lui pensava di sì. Voleva sistemare le cose nel caso gli partisse il cervello o fosse arrivato il suo momen¬to. Così si è espresso."
"Quello che le sto chiedendo in realtà è se ha detto qual¬cosa di me, a parte il fatto che sono l'erede."
"No, mi spiace."
"Non fa nulla," disse Leonard, ma capii che non era per niente così.
"Probabilmente lei lo saprà. Ha sparato a diverse perso¬ne, qualche mese fa. O così si racconta."
"Cosa?"
"Non che abbia ucciso qualcuno. Ho sentito delle chiac¬chiere. Io sono originaria di quella parte della città. Dove vi¬veva suo zio. Mia madre ci vive ancora. Pare che suo zio avesse problemi coi vicini di casa. Dicono che spaccino crack."
"È vero," disse Leonard.
"Qualcuno si stava divertendo a sparare alle bottiglie che stavano su un palo nel suo cortile. Suppongo si trattasse di un albero bottiglia."
"Esatto," disse Leonard.
"Suo zio era in veranda quando è successo, e ha detto che uno dei colpi lo ha quasi centrato, così ha tirato fuori il suo fucile da caccia, è andato dai vicini e ha sparato a degli uomini che stavano in veranda. Aveva in canna delle cartuc¬ce per topi. Alla fine è arrivata la polizia e lo hanno portato dentro e gli uomini sono andati in ospedale a farsi togliere i pallini. Suo zio è stato rilasciato, e per quel che ne so i gior¬nali non ne hanno nemmeno parlato."
"È successo nella città dei negri, ecco perché," replicò Leo¬nard. "Un branco di negri che si sparano non è una notizia per le aquile della stampa. Se lo aspettano."
"Probabile," disse Florida Grange. "Comunque, è una cosa che potevo raccontarle di lui, ma più o meno è tutto."
Era chiaro come il sole che Leonard era segretamente compiaciuto. La storia collimava coi suoi ricordi di zio Che¬ster. Forte e deciso, uno che non si lasciava pisciare in testa da nessuno.
Grange gli fece riempire qualche documento e gliene die¬de altri da portarsi via. Quando ebbero finito, il trapano del dentista aveva cominciato a uggiolare.
"Mi spiace," disse Florida Grange. "Usciamo in corri¬doio."
Uscimmo. Leonard disse: "Credo di non avere altro da chiederle, signorina Grange. Mi spiace di averla tirata fuori dall'ufficio."
"Tanto sono stufa del trapano," replicò lei. "E se io devo chiamarla Leonard, lei mi chiami Florida."
"OK, Florida. Grazie."
"Se ha altre domande, mi dia uno squillo," disse lei.
"È OK se faccio una domanda io?" le chiesi.
"Sì," rispose lei.
"È sposata?"
"No."
"Qualcuno d'importante nella sua vita al momento?"
"Niente di significativo."
"Ho qualche possibilità di portarla fuori a cena?"
"Non credo, signor Collins."
"Guardi che metto in ordine molto bene."
"Ne sono certa, ma penso di no. Comunque grazie di avermelo chiesto."

Mentre scendevamo in ascensore, Leonard disse: "Hap Collins, lo stracciafemmine."

6

In auto, con Leonard al volante, studiai il contenuto del¬la busta. "Qualcosa che abbia un senso?" chiese Leonard.
"Un casino di buoni omaggio per la pizza. Qualcuno per il Burger King. E se proprio dovessi crepare di fame, puoi farti una cena gratis al ristorante messicano Lupe."
"Tutto lì? Buoni omaggio?"
"Già."
"Cristo, stava perdendo le rotelle."
"So mica. I buoni omaggio fanno risparmiare un sacco di soldi. Io li uso. Una volta ho fatto il conto che con quello che avevo risparmiato mi ci potevo comperare un televisore usato."
"A colori?"
"Bianco e nero. Però invece ho comperato della Diet Pepsi e delle cotenne di maiale."
"Mi pare strano che zio Chester abbia lasciato dei buoni omaggio a un avvocato perché li consegnasse a me. Era roba che poteva lasciare sul tavolo di cucina."
"Forse pensava un po' di sghembo. Forse per lui i buoni omaggio avevano un bel valore. E c'era pure la chiave."
"È per la cassetta di sicurezza di una banca, immagino."
"Tu l'hai detto, Sherlock."
"Controlliamo subito."
"Leonard?"
"Sì."
"I buoni omaggio. Me ne sono appena accorto. Sono sca¬duti da un paio d'anni."
Nella sede tra Main e North della First National Bank di LaBorde, io mi accomodai su una sedia e Leonard parlò con un impiegato. L'impiegato lo spedì da una signora coi capel¬li grigi a una scrivania. Leonard, appoggiato al bastone, le fece vedere la chiave e alcuni dei documenti che Florida Grange gli aveva dato. La signora annuì, gli restituì la chia¬ve, si alzò e lo accompagnò a una porta fatta di sbarre. Fece un segnale alla guardia dietro le sbarre. L'uomo aprì la por¬ta, Leonard entrò e la guardia richiuse la porta. Qualche at¬timo dopo, Leonard venne fatto uscire. Aveva una grossa busta marrone e un pacco ancora più grosso avvolto in carta marrone e spago.
"Ci andrai pazzo," disse, e sollevò in aria la busta. "Den¬tro c'è' una copia tascabile di Dracula e una manciata di ri¬tagli di giornale, e indovina cosa? Un'altra chiave. Non si capisce a cosa serva. Il cervello di zio Chester doveva essere ridotto a noccioline. O a ghiande."
"E quello?" chiesi, indicando il pacco.
"L'ho già aperto."
"Questo lo vedo da come hai rimesso a posto lo spago. Cos'è?"
Leonard esitava. "Be'..." Si spostò a uno dei tavoli e slac¬ciò lo spago e tolse la carta. Il pacco conteneva un quadro. Un bel quadro, tutto ombreggiature. Una vecchia casa in stile gotico a due piani, circondata da alberi; anzi, gli alberi crescevano così fitti che sembravano imprigionare la casa.
"Lo ha dipinto tuo zio?"
"Io. Quando avevo sedici anni."
"Sul serio?"
"Sul serio. Volevo diventare pittore. Questo l'ho fatto per il compleanno di zio Chester. Forse adesso me lo restituisce per farmi sapere che non tutto è dimenticato."
"Di certo ti ha dato anche altre cose. I soldi. La casa."
"Buoni omaggio e una copia di Dracula."
"Esatto. E tutto lì? C'era nient'altro?"
"Niente, a parte il fatto che hai ragione. C'è la casa e io mi beccherò centomila dollari e tu no."

Così, pensai, Leonard sarebbe stato più ricco di prima, il che andava benissimo, e saremmo tornati alla normalità, a parte che lui non avrebbe lavorato nei roseti, e in quanto a me, sarei tornato a casa mia e ai roseti, ammesso di riuscire a riavere il mio vecchio lavoro, o un altro simile, e Leonard avrebbe messo in vendita il buco di suo zio e avrebbe vissu¬to di quei soldi e dell'eredità. Magari avrebbe investito il grano in qualche attività.
Ero triste per Leonard da un certo punto di vista, perché aveva perso una persona cara, ma da un altro punto di vista quello zio Chester, per quel che mi concerneva, era un figlio di puttana per come aveva trattato Leonard, ed ero conten¬to che Leonard avesse un po' di soldi e una casa da vende¬re, e una parte segreta di me era felice che il vecchio figlio di puttana fosse morto e sepolto e fuori dai piedi.
Così quel pomeriggio, dopo avere visto il bell'avvocato che non voleva uscire con me, Leonard mi riportò a casa e mi lasciò giù e ripartì. Dopo un po', pensai che doveva es¬sere a casa sua, coi piedi spaparanzati, ad ascoltare Dwight Yoakam o Hank Williams o Patsy Cline, a fumare la sua pi¬pa piena di tabacco color ciliegia, magari a leggere la copia di Dracula di suo zio o a contemplare perdite e profitti, chiedendosi cosa cavolo avrebbe finito col fare dei soldi.
Alla lunga, a parte il fatto che sarebbe avvizzito e morto come chiunque sia mai nato su questa Terra, probabilmente le cose gli sarebbero andate bene, per quanto bene possano andare.
Ma non avevo calcolato la nera nube del fato.

7

La nera nube del fato arrivò con la pioggia, ovviamen¬te. Due giorni dopo, nel primo pomeriggio, ero sedu¬to sulla mia veranda a inalare il vento fresco e il pa¬norama. Un momento prima c'era solo la solita strada, ros¬sa e vuota, che passa davanti a casa di Leonard, e più die¬tro grandi pini e querce e grovigli di rampicanti, e sopra tutto nubi bianche e morbide come le basette di Dio, e un momento dopo il vento cambiò bruscamente direzione, soffiò più potente da nord, diventò umido e appiccicoso, e le nuvole cominciarono a roteare e gonfiarsi e ingrigirsi agli orli. Da nord rotolarono giù altre nubi ancora più scure, e riempirono il cielo e scaricarono la loro pioggia e i pini diventarono color porpora per le ombre e la strada dal rosso passò al marrone del sangue coagulato, poi a un colore più scuro. La pioggia cominciò a picchiare duro, e il vento la scaraventò sulla veranda in aghi color acciaio che mi pun¬sero la faccia e mi riempirono le narici dell'odore della terra bagnata.
Mi alzai dalla vecchia sedia a dondolo ed entrai in casa. Mi sentivo depresso, non avevo un soldo e mi mancava Leo¬nard. Non si era più fatto vivo da che mi aveva scaricato lì, e gli avevo telefonato un paio di volte e più che squilli non avevo sentito.
Chissà se aveva già ricevuto i soldi. Chissà se li stava spendendo. Non era da lui e da me lasciar passare più di un paio di giorni senza toccarci tana, anche solo per il bisogno di litigare su qualcosa.
Pensai di richiamarlo, magari fare un salto da lui dopo il diluvio, vedere se per caso il suo telefono non funzionasse, ma all'incirca in quel momento il mio telefono squillò e io risposi.
Era il mio ex boss, Lacy, il Vecchio Bastardo.
Pareva cordiale. La bandiera di segnalazione pericolo si mise a sventolare. Probabilmente, il tizio che aveva preso il mio posto al roseto aveva trovato un lavoro migliore come buttafuori o spalatore di merda, oppure era morto d'infarto o del morso di un serpente, o si era dato alla predicazione, che è una carriera piuttosto buona, se hai il fegato di non vergognartene.
"Come ti gira, Hap?"
"È girato a sinistra."
"Ehi, quello è il mio lato buono. La palla è più grossa. Sei pronto per tornare al lavoro?"
"Non dirmi che stai chiamando dal roseto."
Lui si costrinse a una risata. "No. La giornata è stata ne¬gativa."
Il che significava che nessuno si era presentato, oppure che le consegne di materiali erano state sfasate, oppure che si aspettavano pioggia.
"Quella cosuccia dell'altro giorno," disse lui. "Lasciamo perdere. Non ti multo nemmeno. Domani avremo una gior¬nata piena, dopo il vuoto di oggi. Quindi, e che cazzo, Hap. Mi serviresti."
"Se un uomo o una donna hanno due mani e non sono su una sedia a rotelle, a te servono sempre."
"Ehi, ti sto offrendo un lavoro. Non ti ho chiamato per sentire insulti."
"Forse potremmo dare una ritoccata a quella merda di paga. Cinquanta cents in più all'ora e arriveresti quasi alla tariffa minima."
"Non ricominciare, Hap. La paga la conosci. E io pago in contanti. Così risparmi sulle tasse."
"Tu risparmi sulle tasse, Lacy. Con paghe del genere, io risparmio un cazzo. Preferirei guadagnare un po' per dover pagare le tasse."
"Già, be'..." E si mise a raccontarmi della sua vecchia mamma in una casa di riposo del Kansas. Doveva mandarle soldi tutti i mesi. Secondo me, aveva sparato alla mamma anni prima e l'aveva sepolta sotto un cespuglio di rose per risparmiare sul fertilizzante.
"La tua vecchia mamma non potrebbe battere un po'?" dissi. "È già attrezzata. Ha una stanza e un letto e tutto quanto. Se riesce anche solo ad aprire le gambe, può pagarsi la retta."
"Hap, bastardo. Non cominciare a fare lo stronzo con me o puoi dimenticarti il lavoro."
"Il mio cuore ha appena perso un colpo."
"Senti un po', finiamola qui, intanto che sei in vantaggio. Vieni pure e ti metto al lavoro. Di' al negro di venire anche lui, quando è pronto."
"Devo dire a Leonard che lo hai chiamato negro?"
"Mi è scappata. La forza dell'abitudine."
"Brutta abitudine."
"Non glielo dirai, eh? Lo sai com'è fatto."
"Com'è fatto?"
"Ma lo sai. Come quella volta nel roseto quando lui e quell'altro ne... quell'altro tizio di colore col coltello si sono messi a menare le mani."
"L'altro è mai uscito dall'ospedale?"
"Mi pare che adesso sia in qualche casa di cura. Mi sor¬prende che Leonard non si sia fatto un po' di galera. Non gli dirai della storia del negro, eh?"
"Se glielo dicessi, un lato buono ci sarebbe."
"Eh?"
"Hai già le rose per il tuo funerale."
Prima che riappendesse, avevo ottenuto l'aumento di cin¬quanta cents per Leonard e me, proprio come se pensassi che Leonard sarebbe tornato a lavorare.
Francamente, all'idea di tornare al roseto passai un brutto momento, ma un'occhiata al contenuto del mio frigorifero e una sbirciatina al grano nel vaso dei biscotti mi fecero capire che c'ero costretto.
Il mio umore passò dal grigio al nero, e mi concentrai sui fallimenti della mia vita. Scoprii che ce n'erano parecchi. Mi chiesi cosa sarebbe successo di lì a una decina d'anni, quan¬do sarei stato sui cinquantacinque.
Cosa avrei fatto?
Ancora il lavoro nei roseti?
Che altro sapevo fare?
Per cosa ero qualificato?
Non riuscii a tirare fuori troppe alternative, nemmeno de¬dicando allo sforzo un tempo considerevole.
Stavo prendendo in considerazione una carriera nel cam¬po dei rivestimenti in alluminio o, il diavolo mi aiuti, nelle assicurazioni, quando squillò il telefono.
Era Leonard.
"Porcaccia, uomo," dissi. "Ero in pensiero per te. Ti ho chiamato, e nessuna risposta. Cominciavo a pensare che avessi avuto un incidente. Che fossi finito sotto il frigorifero o roba del genere."
"Non sono tornato a casa mia," disse Leonard. "Non per fermarmici, comunque. Ho messo in valigia un po' delle mie cose e sono tornato qui a casa di zio Chester."
"Stai chiamando da lì?"
"Gli hanno staccato il telefono per le bollette che non aveva pagato. Mesi fa. Ti sto chiamando da un telefono pubblico. Vuoi sapere cosa ho addosso?"
"No, a meno che non pensi che mi ecciterei sul serio," ri¬battei.
"Ho paura che i vestiti debbano contenere una donna per eccitarti."
"Forse potresti fare la vocina acuta."
"Piantiamola con le stronzate, Hap. Resterò a vivere a ca¬sa di zio Chester per un po'. Ho frugato nella sua roba. Cre¬do di volerlo fare. Mettermi in contatto con l'uomo che era. E, cosa più importante, scoprire dove s'infila quella fottuta chiave."
"Serve per trovare il grosso della sua collezione di buoni omaggio."
"Può darsi. Ho guardato ovunque. Ho anche altri motivi. Voglio rimettere un po' in ordine la casa. Magari venderla per più di quello che prenderei adesso."
"Idea furba, Leonard. Le cose si sono messe in moto an¬che qui. Ho riavuto il mio vecchio lavoro al roseto."
"Perdilo un'altra volta."
"Fai presto a dirlo."
"Ehi, vieni a farmi da balia. Ti trasferisci qui per un po', almeno finché avrò fatto quello che devo fare, e ai riforni¬menti di pappa e carta igienica ci penso io."
"Non so. Troppa carità per i miei gusti. Non ho nemme¬no una gamba matta."
"Nemmeno io. Quasi più. Ho cominciato a spostarmi senza il bastone. Quasi sempre. Non ho intenzione di rico¬minciare a usarlo, se posso farne a meno. Senti, Hap, non è carità. Puoi aiutarmi a sistemare la casa."
"Quello che non posso aggiustare, cioè niente, lo mando a puttane.."
"Puoi reggermi il martello, passarmi i chiodi. E c'è dell'al¬tro. Gli stronzi dei vicini. Non mi hanno ancora dato pro¬blemi, ma ho idea che me ne stiano preparando, da come mi guardano. Se la stanno prendendo comoda. Mi piacereb¬be averti attaccato al culo, e c'è sempre la possibilità che becchino te prima di me. Mi piace l'idea di un paracolpi."
"Be', questo è chiaro."
"Bene. Posso contare su di te?"
Riflettei sulla prospettiva di tornare a lavorare per Lacy. Pensai ai roseti, al caldo, alle piantine, alla paga tanto dina¬mica.
"Tu che cazzo dici?" chiesi.

8

Riparazioni e pulizie cominciarono sul serio. Andai a vivere con Leonard a casa di zio Chester il giorno dopo, e da quel momento in poi lui ebbe il letto e io il divano. Di giorno facevamo le riparazioni, o me¬glio le faceva Leonard. Io andavo in giro con martelli e chio¬di e gli passavo una cosa o l'altra, canticchiando fra me e me. Me la cavo piuttosto bene con gli spiritual. Leonard dis¬se che era giusto così: un nero con un servo bianco poteva permettersi qualche gospel.
Parecchio tempo lo passammo sul tetto, a togliere la vec¬chia latta e mettere una copertura decente. Io potai tutto da solo la vecchia quercia che grattava il tetto. Riuscii a segare i rami incriminati senza trinciarmi un dito o fracassarmi le chiappe sul terreno.
Lassù faceva un caldo infernale, e la luce riflessa era così forte che per lavorare bisognava mettere gli occhiali da sole. Cominciai ad abbronzarmi e perdere chili, e la cosa mi pia¬ceva tanto che smisi di bere birra e mangiare quantità ecces¬sive di tacos.
Quando non tenevo fermo per Leonard il materiale di copertura del tetto mentre lui pestava sui chiodi, quando non gli andavo a prendere qualcosa, guardavo lo spaccio di crack e mi chiedevo chi ci fosse dentro. C'era gente che at¬taccava a entrare e uscire di buon passo nel tardo pomerig¬gio, e si andava avanti fino al mattino. Nel pieno giorno, la calma. Vendere crack ti sfianca. Bisogna riposarsi prima che arrivi un'altra ondata.
L'intera cosa mi deprimeva: vedere ragazzi e adulti, e persino bambinetti in braccio a delle tossiche che avevano le mestruazioni da un paio d'anni fare la fila lì davanti come fosse una tavola calda era uno schifo.
In quel periodo vidi un paio di auto della polizia, e ci fu persino una retata e qualcuno venne portato dentro. In ef¬fetti, fu Leonard a chiamare gli sbirri, ma il giorno dopo al¬cuni dei tizi arrestati tornarono a casa. Uno era Mohawk, l'altro Carro Allegorico. Riuscii a fare grandi passi nella comprensione del nostro sistema giudiziario senza lasciare la casa e il cortile.
Funzionava semplice semplice. Io avevo capito tutto alla rovescia. Se uno infrange la legge, non c'è bisogno che sof¬fra. Poniamo che tu venda droga ai ragazzini o a chiunque altro. Possono venire a prenderti, possono sbatterti dentro, ma il mattino dopo, se conosci qualcuno, se hai un po' di soldi, un buon avvocato, un rapporto solido col tizio che an¬ticipa i soldi per le cauzioni, puoi tornare a casa, farti dare un passaggio gratis fino alla porta. Ti riposi un po', bevi una Dr. Pepper, ti mangi un paio di Twinkies per tirarti su il morale, e sei di nuovo in affari, se entro sera ti sono arrivati i rifornimenti.
Era deprimente, e i nostri vicini dovevano sapere che era quella la nostra sensazione, perché col buio si divertivano a ciondolare sulla loro veranda e restare a guardarci. Li vede¬vamo sotto la loro lampada gialla, raccolti a congrega come gli insetti che svolazzavano attorno alla lampadina.
E la luce della loro veranda e della nostra, quando la ac¬cendevamo, erano più o meno tutte le luci disponibili per Comanche Street, perché ai lampioni avevano sparato tanto tempo fa e nessuno era mai venuto a sostituire le lampadi¬ne. Se lo avessero fatto, i crackisti avrebbero sparato un'al¬tra volta. L'unico faro che volevano sulla strada era il loro, per richiamare gente che voleva comperare qualcosa per vo¬lare e volteggiare, qualcosa che aiutasse ad andare alla deri¬va per un altro po' di ore.
C'erano un paio di case di fronte a noi, ma tenevano spente le lampade delle verande, e le poche luci interne era¬no fioche dietro le tende; pareva di vederle da molto lonta¬no, e sott'acqua. Le persone per bene di Comanche Street non uscivano di sera, per non incontrare gli spacciatori o i tossici, i drogati in cerca di qualche dollaro veloce per com¬perarsi una dose.
A dire il vero, neanche di giorno si vedeva molta gente. Chi lavorava usciva e rientrava, ma non stava in giro. Co¬minciammo a vedere più spesso il ragazzino che quel primo giorno era sulla veranda di Leonard. Aveva un cercapersone alla cintura. Un bel passo deciso. Bei vestiti. Dava l'impres-sione che la sua anima si stesse squagliando.
Le sbarre alle finestre e le serrature sulla porta di zio Chester cominciavano ad avere senso. Se in quel quartiere non chiudevi tutto sotto chiave, le tue cose sarebbero appar¬se al monte dei pegni, e i soldi ottenuti in cambio avrebbero permesso a un tossico di concludere un acquisto.
Dopo un po', ogni qual volta uscissimo, avevamo l'idea che al ritorno avremmo trovato la porta scardinata, abbattu¬ta, e che tutte le cosucce lasciate da zio Chester sarebbero scomparse, tranne i buoni omaggio. O magari i pezzi di merda alla porta accanto si sarebbero messi in testa di pareggiare i conti con me e Leonard, e al ritorno avremmo tro¬vato anche di peggio: fumo e legno bruciato.
Data la situazione, se avevamo bisogno di comperare qualcosa, quasi sempre uno dei due restava in casa, e l'altro usciva a fare spesa.
Andò a finire che Leonard rimase sempre sull'agitato. Te¬neva la fronte corrugata e il fucile da caccia di suo zio oliato e carico, e non con cartucce per topi. Sparava battute tipo: "Quanti negri della casa lì ci vorrebbero per ricoprire tutto il tetto, se li taglio a fettine molto sottili?"
Ripulimmo anche l'interno della casa. Finalmente zio Chester e i suoi odori levarono le tende. Le mosche migra¬rono in cerca di pascoli più defunti.
La sera, dopo una giornata di duro lavoro, facevamo le pulizie e le ricerche del buco adatto alla chiave. Non tro¬vammo casseforti o scatole chiuse o botole o pannelli con la serratura. Però alcuni dei buoni omaggio della cassetta di si¬curezza erano ancora validi. Li usammo per cena: uno dei due faceva un salto in città a prendere pizza o hamburger.
Di sera, lavoravamo al suono della musica country di Leonard: voci da montanari che facevano a botte col rap e il rock della casa accanto, roba quest'ultima che io a volte preferivo agli amori infelici e alle sbronze nei bar, ma Leonard usava la manopola dei decibel per affogarla. Se non altro, quella musica veniva soffocata in casa di zio Chester. Non so se alla casa accanto ci facessero caso. A parte noi, nessuno aveva mai chiamato gli sbirri. In quel quartiere, finché qualcuno non veniva menato o derubato, un po' di musica forte significava niente. Per l'utilità che la polizia aveva da quelle parti, tanto valeva che passassero nel quar¬tiere a clacson pigiati, lanciando dai finestrini un po' di opuscoli sulla lotta alla droga.
Tenemmo per ultima la stanza dei giornali. Lì dentro fa¬ceva caldo, e il piccolo ventilatore riusciva solo ad alzare polvere e farti strozzare. Il tetto aveva perso. L'acqua era colata sui giornali, li aveva fatti ammuffire, e in certi punti era riuscita a filtrare sotto la carta, inzuppare le assi e far marcire parti del pavimento. Lo sentivamo scricchiolare e imbarcarsi quando ci camminavamo sopra.
Decidemmo che la cosa migliore fosse togliere i giornali, sfogliarli il più in fretta possibile, vedere se ci fosse qualcosa che avesse un senso.
Dopo un paio di viaggi a camioncino carico al centro di riciclaggio, la piantammo di controllare i giornali e di pensa¬re che significassero qualcosa. Le uniche cose che notammo furono i buchi nelle pagine, dove zio Chester aveva ritaglia¬to i buoni omaggio.
Tutti i dubbi vennero messi da parte. A quel punto era piuttosto chiaro: zio Chester era svitato. Probabilmente la chiave serviva per qualcosa che lui non possedeva più, persa da chissà quanto tempo, ma in un modo o nell'altro signifi¬cativa per le cellule acquose che formavano il cervello di zio Chester.
Leonard mise via la chiave e se ne scordò e lesse Dracula. Disse che gli piaceva un sacco e che probabilmente lo avrebbe spaventato di più, non fosse stato per lo spaccio di crack. Guardavi fuori, vedevi cosa succedeva lì, ed era diffi¬cile lasciarsi spaventare troppo da un tizio con le zanne. I ti¬pi alla porta accanto erano vampiri più grossi: un branco di stronzi che ti spingevano a volere la droga come i vampiri vogliono sangue. Ti costringevano a fare di tutto per averla. Rubare e mentire, uccidere la fidanzata, darti all'astrologia e leggere gialli davanti al caminetto.
Dopo circa una settimana, Leonard smise di usare il ba¬stone e sostituì le bottiglie rotte sull'albero bottiglia. Credo stesse sfidando i vicini a romperle ancora. Cercava una scu¬sa per dar loro una ripassatina alla testa e una rimescolata agli organi interni.
Una notte mi svegliò urlando "Figli di puttana" nel son¬no. Cominciava a innervosirmi. Tendeva a tenere il fucile da caccia un po' troppo a portata di mano. Mi pareva che su Leonard si stessero scaricando cose più grandi di lui. In un momento o nell'altro, aveva deciso che gli stronzi alla porta accanto erano la causa della morte di zio Chester. E forse era vero. Il vecchio zio Chester era stato l'incarnazione di tutte le idee di Leonard sulla virilità.
Leonard era stato allevato dalla nonna, però d'estate an¬dava a trovare lo zio, ed era stato suo zio a spiegargli cosa significhi essere un uomo. Gli aveva insegnato tutto di bo¬schi e fucili e falegnameria e amore per i libri. Lo aveva in¬coraggiato a fare qualcosa della propria vita, gli aveva dato una spina dorsale. Poi, quando Leonard era cresciuto e ave¬va capito di essere gay e lo aveva detto allo zio, era andato tutto in frantumi.
Ma fosse come fosse, era stato suo zio a formarlo. Lo aveva impastato come farina e arrotolato e cotto in forno, ne aveva fatto ciò che era, e qualunque cosa io pensassi di zio Chester e del suo ripudio di Leonard, dovevo ammettere che aveva fatto un bel lavoro. O almeno, un lavoro che aveva retto sino ad allora, finché zio Chester era rientrato nella vita di Leonard, riapparso da morto come una specie di fan¬tasma. E un fantasma per nulla allegro.

Un sabato pomeriggio, con un caldo da infarto, io ero sul tetto a petto nudo, a cuocermi un bel cancro della pelle. Mi stavo chiedendo se fosse il caso di interrompere il periodo a secco con una birra, ed ecco che arriva Florida Grange. Guidava una piccola Toyota grigia, e quando scese dall'auto vidi che indossava un vestitino azzurro cielo, semplice sem¬plice, che metteva in mostra un bel po' di gambe e minac¬ciava allegramente di lasciar vedere anche di più.
Si fermò sul vialetto d'accesso di ghiaia, sistemò una mano sopra gli occhi come uno scout indiano e mi urlò: "C'è Leonard?"
"È in città. È andato a fare spese."
"Oh. Be', sono venuta a trovare mia madre. Ho pensato di fare un salto a vedere come vanno le cose. E ho un'altra carta da far firmare a Leonard. In ufficio mi era sfuggita."
"Un minuto."
Recuperai la camicia da un ramo di quercia segato e la in¬filai. Era una camicia di cotone, stile jeans, con le maniche corte, morbida e gradevole sulla pelle calda, sudata. Mentre la abbottonavo, tirai in dentro la pancia, nel caso Florida stesse guardando. Scesi sull'autostrada della quercia.
Saltai giù dall'albero, mi ripulii le mani sui calzoni, sorrisi e andai a godermi l'avvocato. Tesi la mano. Lei aveva la stessa mano morbida e gli stessi braccialetti tintinnanti. I ca¬pelli erano scuri e arruffati, come una nuvola da temporale. Il vento raccolse l'aroma del suo profumo e lo regalò a me. Mi serviva come un pugno sui denti.
Intravvidi il mio riflesso sul parabrezza della sua automo¬bile. Ero uno schifo, però avevo i denti puliti. Me li ero la¬vati col mio spazzolino non molto tempo fa, e avevo persino fatto gli sciacqui. Si stava progredendo.
"Vuole qualcosa da bere, signorina Grange?"
"Florida."
"Già. Giusto. Florida."
"Sì. Mi piacerebbe bere qualcosa."
"Vado. È meglio sistemarci fuori sulla veranda. Non ab¬biamo l'aria condizionata."
"Perfetto."
"Abbiamo la Coca. Diet Coke. Tè ghiacciato. Birra. Ab¬biamo anche birra analcolica. Sharp. Piuttosto buona."
"Prendo il tè ghiacciato. Senza zucchero."
Entrai in casa e le versai il tè, e per me una Sharp. Avevo scoperto di preferire la birra analcolica all'altra. Mi piaceva il gusto, non i risultati.
Portai tè e Sharp sulla veranda. Florida era seduta sull'al¬talena nuova che Leonard e io avevamo installato. Avevo fissato io i bulloni al soffitto. Speravo di aver fatto un buon lavoro. Sarebbe stato terribile se Florida Grange si fosse rot¬ta il suo delizioso culo.
Le diedi il tè e sedetti all'altro lato dell'altalena, e la mia mente andò in cerca di chiacchiere innocue. Feci per dire qualcosa sul clima, ma mi trattenni. Cercai di non guardarle le gambe, che erano nude e molto lisce. Chissà se erano morbide come la mano.
"Lei vive qui?" mi chiese lei.
"Per adesso. Aiuto Leonard a risistemare la casa per ven¬derla."
"Vedo."
Restammo in silenzio a sorseggiare le bibite. Una vecchia Chevrolet nera arrancò per la strada, e dal finestrino una vecchia faccia nera ci guardò, girò la testa, tornò a guardar¬ci. L'autista stava cercando di decidere se stessimo combi¬nando qualche porcata interrazziale.
Purtroppo no, anche se io lo speravo con la fantasia. A me, a dire il vero, pareva che da lì in poi mi sarei dovuto ac¬contentare di guardare le gambe di Florida Grange e sbir¬ciare le sue mutandine quando scendeva dall'auto, come fa¬cevo sempre con le ragazze alle superiori.
A pensarci, quasi mi sentii male. Ragazzi, che prospettive. Andiamo avanti così, e tra un po' mi ritroverò a infilare mo¬netine nei distributori di preservativi dei cessi delle stazioni di servizio, a cercare di beccare quei premi speciali che vor¬resti trovare quando non hai nessun bisogno di un preserva¬tivo. La Fica Istantanea, il Supersensibile Francese che sem¬bra un mortaio, e il libriccino con le barzellette sconce.
Stavo con un'intelligente professionista, e riuscivo solo a pensare quanto mi sarebbe piaciuto scoparmela. Dovevo pensare a qualcosa d'altro. La cosa da fare era parlarle come si parlerebbe a un avvocato che stuzzica il tuo interesse, ma¬schio o femmina che sia.
"Le capitano molti casi di risarcimento danni?"
"Come?"
"Ha presente... Incidenti stradali..."
"Oh. Ogni tanto. Un paio in tutto. Più che altro mi oc¬cupo di testamenti, cose del genere."
Forte, Hap. Proprio forte. Perché non le dai della insegui-ambulanze?
"Bella giornata, eh?"
"Già. Be'..."
"Insomma, fa caldo, però è OK. Meno umido del solito. Insomma, in genere c'è più umidità."
Florida Grange guardò l'orologio. "Secondo lei, quando tornerà Leonard?"
"Presto. Al diavolo, Florida. Mi sto comportando da idio¬ta. Ultimamente, quando mi trovo con una bella donna, mi capita di fare la figura del fesso. Non lo faccio apposta."
"Non c'è problema."
"No. No, non è vero. Se preferisce, me ne sto seduto qui buono buono... A lei interessa Leonard?"
Lei mi sorrise. "Leonard è gay."
"Lo sa? Speravo di darle io la notizia, e se fosse rimasta delusa, sarebbe toccato a me rimediare. Io non sono gay, fra l'altro."
"Cavoli. Non lo avrei mai immaginato. Da queste parti, quasi tutti sanno che Leonard è gay. Passava le estati qui. Mia madre conosceva suo zio, e ha visto crescere Leonard. Mi ha parlato di lui."
"Ah."
"Senta, signor Collins... Hap. Le devo le mie scuse."
"Lei deve scuse a me? Dopo tutte le mie sbirciate? Deve perdonarmi, Florida. Ho passato troppo tempo fuori dal mondo. Niente compagnie femminili. Al momento, sono ali¬mentato quasi completamente a ormoni adolescenziali."
"L'altro giorno, quando mi ha chiesto di portarmi fuori, le ho risposto di no..."
"Ehi, tutto a posto, è un suo diritto..."
"Vuole chiudere il becco un minuto?"
"Ma certo."
"Devo confessarle una cosa. Non sono uscita con lei per¬ché è bianco. Tutto qui."
"Non le piacciono i bianchi?"
"Non è questo. È che anch'io sono un prodotto del razzismo. Non sto a pensarci molto, non mi sembra di praticar¬lo. Però, vede, io sento sulla pelle tutte quelle storie sul mondo in mano ai bianchi. Sento di dover scarpinare in sa¬lita per tutto quello che riesco a ottenere, da nera. E quan¬do arrivo al punto di essere pronta ad avanzare, pare ci sia sempre un ostacolo bianco."
"Probabilmente c'è."
"A volte sì. A volte no. Però io ho lo stesso una scimmietta sulla spalla, e così, quando un bianco mi chiede di uscire, io mi metto a pensare che lui pensi Questa puttana nera sarà contenta di uscire con me. Io sono bianco. E siccome sono bian¬co, posso regalarmi una porzione del suo culo nero, dopo di che Buana può continuare per la sua strada e mettersi con una donna bianca, una donna rispettabile."
"Be', per essere onesto, alla storia della porzione di culo nero ci ho pensato sul serio."
"Lo so. L'ho capito. Lei trasuda umori maschili. Ma il punto è l'altra parte. La parte razzista. Non credo proprio che lei l'avesse in mente. Né allora, né oggi. Ma i condizio¬namenti sono duri a morire. Ci ho pensato su un sacco, e mi è dispiaciuto avere pensato una cosa del genere, e sa?, sape-vo che lei era qui perché mia madre mi ha detto di averla vista qui, e l'ha riconosciuta dal funerale, e be', volevo farle sapere che mi spiace di essere stata razzista. Porcaccia, sto facendo una grandissima confusione."
"Tutto a posto. Ho afferrato. È molto onesto da parte sua. Mi fa sentire di merda, ma è onesto."
"Sì, certo. E continuo a non voler uscire con lei."
"Capisco."
"Sa perché?"
"Sono brutto?"
"No. A dire il vero la trovo attraente, in un modo un po' grinzoso e demodé."
Grinzoso?
"Ma il problema è che a me piace ballare, e i bianchi non hanno ritmo. E lo sa che altro dicono di voi bianchi?"
Guardai un sorriso splendido illuminarle il viso.
"Cosa dicono?" chiesi.
"Che avete degli uccelli piccoli così."

9

Quando Leonard arrivò, Florida gli diede il documen¬to. Lui lo firmò e lei se lo riprese. La convincemmo a tornare la sera per cena. Leonard promise di pre¬parare gli spaghetti al sugo, e io l'insalata mista. Leonard mi scrutò mentre lo dicevo, e io gli assicurai che ero sincero.
Cercai di non sbirciare in maniera troppo evidente quan¬do Florida risalì in auto. Lei ripartì, e Leonard disse: "Uo¬mo, secondo me ti conviene farti una sega. Stai comincian¬do a guardare quella donna come se fosse un cannolo al cioccolato."
"Già, e mi ci sento pure imbarazzato. Non so che farci. Sono stato solo troppo tempo. Però ho fatto progressi. In¬tanto che tu non c'eri, abbiamo avuto una cortese e intelli¬gente discussione sulle dimensioni degli uccelli dei bianchi."
"Quegli sputaccini?"
Mi arrampicai di nuovo sul tetto e Leonard salì con me a controllare quello che avevo fatto, e fu soddisfatto nel con¬statare che non gli sarebbe toccato rifarlo.
"Ragazzo mio, tra un po' riuscirai a tirare l'acqua del wa¬ter senza dover leggere le istruzioni," disse.
"Sissignore. È una roba contagiosa. Ci sto prendendo gu¬sto. Ora volere me cantare uno di quegli spiritual, buana Leonard?"
"Voglio che tu chiuda il becco."
Appendemmo il martello al chiodo alle cinque per ripulir¬ci. Leonard aveva sborsato i soldi per una cisterna di buta¬no, quindi adesso c'era l'acqua calda. Dopo avere finito la doccia con l'acqua calda, girai il rubinetto su "Fredda tutta" e mi risciacquai con quella. Uscito dalla doccia, bello asciutto, mentre cominciavo a infilare biancheria pulita, ero già sudato fradicio; e le vecchie assi e la carta da parati del ba¬gno, umide di vapore e calore, emanavano l'aroma del culo di un cammello.
Infilai jeans e maglietta, sistemai i piedi nudi nelle scarpe antisdrucciolo da barca e andai in cucina. L'odore era buo¬no, e questa era una gradevole novità. Leonard si arrabatta¬va in giro, tagliava funghi e rigirava carne e aglio in padella. Sul fuoco c'era un pentolone d'acqua.
"Posso darti una mano?"
"Sì," disse Leonard. "Fammi il cazzo di piacere di restare fuori dai piedi."
"Potrei preparare l'insalata."
"Potresti, ma è troppo presto. Se la fai adesso, ora di ce¬na, la lattuga sarebbe avvizzita e i pomodori avrebbero il sa¬pore di palle da golf bagnate."
"Allora magari leggo qualcosa."
Presi uno dei libri che mi ero portato, La gang dell'aldilà di Neal Barrett, Jr. Mi trasferii alla veranda sul retro e mi buttai su una vecchia sedia a dondolo cigolante. Il lato sini¬stro della veranda era sbarrato dal legno compensato, pro¬babilmente perché zio Chester voleva bloccare la visuale sugli spacciatori alla porta accanto. Sul resto della veranda era calata una zanzariera. Sul fondo del telaio, le viti non tene¬vano più. La zanzariera era arricciata come se avesse avuto un infarto.
Sul retro della casa c'era una montagnola di spazzatura bruciata, in parte plastica nera, contorta, in parte lattine an¬nerite dal fuoco e riccioli scuri di carta.
Più avanti c'era la cisterna del butano e, ancora più die¬tro, un torrentello d'alberi e cespugli che gradualmente si in¬fittivano. Diventavano un bosco vero e proprio. Chissà fin dove arrivava. Fosse stato nella zona bianca della città, dove il terreno era alle stelle, lo avrebbero tagliato da un bel pezzo e coperto di cemento.
Lì, era una strana oasi di verde in mezzo a un quartiere in via di disintegrazione, e il quartiere era una fetta di torta umana né completamente rurale né urbana, un mondo a parte.
Lessi La gang dell'aldilà finché Leonard non uscì dalla porta sul retro e mi urlò: "Perché non vai a noleggiare un videoregistratore e un film? E per favore non prendere una di quelle maledette storie di riscatto sociale o una di quelle robe dove devi leggere in basso quello che dicono. E cerchiamo di non vedere un'altra volta La vita è una cosa mera¬vigliosa."
"Ti vanno bene i tre Stooges?"
Andai in città e noleggiai un VCR e un paio di cassette. Lo squalo, che non avevo mai visto, e Gunga Din, che avevo vi¬sto quando ero tanto alto da arrivare con la testa ai coglioni di un cocker.
Quando rientrai a casa ero accaldato e sudato e nervoso. Mi chiedevo se fosse il caso di darmi da fare con Florida, oppure guardare i film da bravo ragazzo. Francamente, non sapevo proprio più come si fa a partire all'attacco con le donne. Troppo giù d'allenamento. Cominciai a chiedermi se sarebbe venuta. Magari si sarebbe portata un uomo. Una si¬tuazione molto intima. Nel caso, avrei potuto prestargli qualche preservativo.
Intanto che Leonard collegava il videoregistratore, io pre¬parai l'insalata. Sono capace di spezzare la lattuga e tagliare pomodori alla grande. Non combinai casini nemmeno quan¬do misi dentro i pezzetti di bacon e i crostini di pane.
Circa un quarto d'ora dopo che avevo finito, bussarono alla porta e Leonard fece entrare Florida Grange. Aveva una bottiglia di vino e un lungo filone di pane francese. Teneva un libriccino nero in una cinghia appesa alla spalla. Questa volta vestiva giallo canarino. L'abito era uguale a tutti gli altri, molto semplice, però aderente e corto e capace di met¬tere ben in risalto il contenuto. Non aveva portato alcun boyfriend.
"Chi sono quei tesorucci di vicini?" chiese, passando a Leonard vino e pane.
"Solo lo spaccio locale di crack," disse Leonard. "Ragazzi che adorano divertirsi."
"E come no. Mi hanno appena dato una lezione verbale di anatomia."
"Mi spiace," dissi.
Lei sorrise. "Tutto a posto. Ho sentito di peggio in aula. A volte dai miei stessi clienti."
Ci sedemmo a tavola e attaccammo con l'insalata. Lei ne mangiò un po', ma non si udì verbo sull'eccellenza del piat¬to. Personalmente, mi sembrò che bacon e crostini fossero freschissimi. Florida si sperticò in lodi sugli spaghetti, le pol¬pette e il sugo. Leonard, lettore abituale di Bon Appetit, si sperticò in lodi sul vino che lei aveva scelto. Per me, tutti i vini hanno più o meno lo stesso gusto. Cattivo. Però dissi anch'io che mi pareva ottimo.
Dopo cena, guardammo i film. Lo squalo per primo. Il te¬levisore era un aggeggio con lo schermo piccolo così che Leonard aveva comperato in un banco dei pegni, ma il film, tagliato agli angoli, mi mise lo stesso una paura da pisciarmi sotto. Non mi è mai piaciuta l'acqua, e gli squali mi piaccio¬no anche meno. Florida si sistemò al centro del divano, e nelle scene spaventose non mi saltò sulla ginocchia in cerca di protezione e non mi strinse la mano. Pensai che da parte mia sarebbe stato di pessimo gusto saltarle in grembo, anche se tirai su i piedi sul divano, nel caso qualche squalo da pa¬vimento dovesse passare di lì.
Tra un film e l'altro facemmo una pausa per il caffè, e Florida si tolse le scarpe, poi guardammo Gunga Din. Mi piacque un sacco un'altra volta. Verso mezzanotte i film era¬no finiti e restammo un po' a parlarne, poi Leonard andò in veranda a fumare la pipa.
Io mi alzai dal divano e scoprii di non sapere cosa fare delle mani. Non sapevo nemmeno cosa fare della bocca. Dovevo dire: "Buonanotte"? O magari invece: "Che te ne pare dei Mets?"
Florida non mi fu d'aiuto. Restò seduta al suo posto, sor¬ridente. Disse: "Ho sonno."
"Già. È tardi. Vuoi che ti riporti a casa io? L'automobile puoi venirla a prendere domani."
"Non ho così tanto sonno. Però mi piacerebbe restare qui.
"Perché sei stanca?"
Mi sorrise di nuovo. Era il tipo di sorriso buono per i de¬boli di mente. "Vuoi che te lo dica chiaro?"
"Sarebbe utile. Credo di sapere cosa stai dicendo, ma se mi sbaglio, ragazzi se mi sentirò imbarazzato."
"Non ti sbagli. Andiamo a letto. Assieme."
"Un minuto."
"Un minuto?"
Andai in veranda. Leonard era seduto sull'altalena. Mi ar¬rivò l'odore del suo tabacco color ciliegia.
Disse: "Allora, come sta il punteggio?"
"Stanotte posso usare il letto?"
"Sì, però domani fai il bucato. Non voglio dormire sul ba¬gnato."
"Va bene."
Tornato dentro, cercai di non avere troppo l'aria di quello che aspetta il dessert. "Be', sei pronta?"
Lei rise. Bel suono. Tipo tintinnio di campane. "Dov'è il bagno?"
Le feci vedere.
Prima di entrare, lei disse: "Vai a guardare nella mia au¬tomobile e portami la borsa da viaggio, ti spiace? Le chiavi sono in borsetta."
Presi le chiavi dalla borsetta, uscii e recuperai la borsa. Sapeva fin dall'inizio che si sarebbe fermata. Cominciai a sentirmi un tantino più alto. Passai davanti a Leonard. "Spe¬ro ti ricordi ancora come si fa," mi disse.
"Mi tornerà in mente," risposi, ed entrai.

La pala sul soffitto muoveva le ombre lunari e l'aria cal¬da. Le ombre volteggiavano sopra di me e il sudore sul pet¬to si asciugava lentamente, deliziosamente.
Ero coricato sulla schiena, nudo. Florida era al mio fian¬co, sullo stomaco, e dormiva. La mia mano era posata su una natica scura, morbida. Non riuscivo a fermare le dita che correvano sulla sua carne.
Rivissi mentalmente, più di una volta, quello che aveva¬mo fatto. Un bel film, per quante volte lo facessi ripassare. Mi piaceva più di Lo squalo o Gunga Din.
La finestra della camera da letto era alzata, e dal letto, con la testa sul cuscino, vedevo benissimo fuori. In un punto o nell'altro ci furono risate e luci e ombre che si mossero tra le finestre, e le risate con loro.
Rotolai su un fianco e misi il braccio sulla schiena di Flo¬rida e le baciai l'orecchio. Odorava di sudore e sesso e pro¬fumo. Si mosse ed emise un suono che mi piaceva. Feci scorrere la mano sul fondo della schiena, sulle natiche, giù per una gamba. La mano planava a idrovolante sulle gocce di sudore. Lei aprì le gambe e io ci passai la mano in mezzo. Lì era morbida e bagnata, e si muoveva come se avesse idea di combinare qualcosa, ma poi si immobilizzò e si mise a russare come un boscaiolo.
Ottimo. Dopo tutto quello che avevamo fatto, le mie am¬bizioni potevano rivelarsi più grandi e robuste dell'arnese necessario per l'impresa. E avevo sete.
Mi scostai da Florida, scesi dal letto, liberai le caviglie dal lenzuolo. Mi stiracchiai, raccolsi il lenzuolo dal pavimento, lo scrollai senza fare rumore e lo gettai addosso a Florida. Prima le diedi un'occhiata come si deve.
Trovai per terra le sue mutandine, assieme alla piccola ca¬micia da notte che aveva indossato per pochissimo tempo. Ripiegai il tutto e lo depositai ai piedi del letto, andai alla finestra, afferrai le sbarre e guardai fuori. C'erano ancora at¬tività in corso.
Mi arrivò il suono del vento sull'albero bottiglia, come il chiurlo lontano di civette spettrali. Ascoltai la voce delle bottiglie e pensai di andare a prendere qualcosa da bere; poi, dietro il suono dell'albero bottiglia, sentii grattare. Il ru¬more veniva dalla stanza accanto.
Trovai i boxer e li infilai, poi misi i jeans. Avevo portato un piccolo revolver calibro 38 da casa mia, e lo tirai fuori dal cassetto dell'armadio, sotto i calzini, quindi scivolai fuori dalla camera da letto e restai in ascolto.
Niente.
Aprii con cautela la porta e guardai in soggiorno. Sul di¬vano, Leonard non si vedeva. Sentii grattare un'altra volta.
Entrai in soggiorno e vidi filtrare una luce dalla porta aperta della stanza dei giornali. Con la pistola abbassata sul¬la gamba, andai a guardare dentro. Seduto sul pavimento, con una pila di giornali umidi alle spalle, c'era Leonard. Stava togliendo le assi marce del pavimento. Le sollevava con un piede di porco e le accatastava vicino ai giornali. Il pic¬colo ventilatore era puntato nella sua direzione, e la rotazio¬ne era bloccata. Ronzava gradevolmente, come un'ape su un fiore.
Entrai.
"Per poco non ti sparavo," dissi.
Lui mi guardò.
"E chi diavolo credevi che fosse?"
"Devo essere un po' nervoso. Per via dei vicini."
"Ti è tornato in mente? Il sesso e tutto quanto?"
"Sì, però abbiamo fatto certe cose che non ricordavo di avere mai fatto. Comunque deve essere OK. Nessuno dei due si è fatto male."
"Cosa pensi di lei?"
"Be', non abbiamo spedito gli inviti per il matrimonio, però mi piace. È furba. Intelligente. Divertente."
"E ti si scopa."
"C'è anche quello."
"Vieni a darmi una mano. Ho trovato qualcosa d'interes¬sante."
Misi la pistola sul tavolo, vicino al ventilatore, mi spostai e mi inginocchiai e afferrai l'asse che Leonard aveva in ma¬no. Lo aiutai a tirarla su. Ci fu un miagolio di chiodi quando si liberò.
"Non riuscivo a dormire," disse Leonard. "Sono venuto qui e ho cominciato a guardarmi attorno, ho spostato un po' di giornali e ho trovato questo angolo. Noterai che non tutte le assi sono marce."
"Il che significa?"
"Significa che qui il pavimento è stato riparato con legno non trattato per sostituire il legno vecchio, e una parte di as¬si sono marcite perché il tetto perdeva. Penso che zio Che¬ster abbia sfruttato la riparazione del pavimento per co¬struirsi un nascondiglio."
Puntò l'indice. "Per questo," disse.
Nel buco del pavimento vedevo qualcosa di grosso sul terreno, nel buio. Doveva esserci circa un metro e venti fra pavimento e suolo.
"Quando ho spostato i giornali, l'ho intravvisto tra le fes¬sure e mi sono messo a togliere le assi," disse Leonard. "Non avrò svegliato Florida, eh?"
"Da quel che vedo, la piccola Florida non dorme: va in ibernazione."
"Vuoi aiutarmi a tirarlo fuori?"
Mi sporsi in giù e afferrai il pesante baule di metallo, per¬ché era proprio di questo che si trattava, lo tirammo fuori e lo depositammo sul pavimento. Era verde militare e aveva un lucchetto. Sul coperchio, a lettere bianche, era scritto a pennarello CHESTER PINE. Sapeva di terra umida.
Leonard prese il piede di porco, lo infilò nel gancio di chiusura del lucchetto e cominciò a fare pressione, ma io gli afferrai il braccio.
"Prima di farlo," gli dissi, "pensavo che potrebbe esserci un altro modo."
Lui mi guardò, e lentamente vide la luce.

10

Leonard andò a prendere la chiave, mentre nella mia mente danzavano visioni di buoni omaggio scaduti. Quando tornò, provò la chiave, e il lucchetto si aprì di botto. Leonard tolse il lucchetto e sollevò il coperchio. Ci fu uno sbuffo di polvere e uscì un odore che non riuscii a iden¬tificare del tutto. Stantio, abbastanza pungente.
Leonard abbassò la testa e guardò, e restò a occhi sgra¬nati. Guardai anch'io.
Non erano buoni omaggio.
Era un piccolo scheletro ingiallito, nero in certi punti. Il teschio era girato verso me. Alcuni denti erano da latte. Pro¬babilmente un maschio, ma non ero un esperto del campo. Otto, nove anni. Dall'alto della fronte fino a un punto dirit¬to in mezzo agli occhi, il cranio era aperto in due come un uovo di Pasqua. Le gambe erano state segate alle ginocchia per infilare lo scheletro nel baule, e le braccia erano disarti¬colate all'altezza delle spalle, piegate ad angolo come ali di pollo. Sotto e attorno alle ossa c'erano riviste ammuffite, e mi resi conto che buona parte dell'odore veniva dalla carta marcia, ma certo non solo da quella. Però le ossa erano vec¬chie, e avevano perso da molto tempo buona parte del puz¬zo della morte, e forse quella che fiutavo sulle ossa non era affatto morte, ma muffa.
Mantenemmo le nostre posizioni per un po', assorbendo lo spettacolo. Leonard prese un giornale e se lo arrotolò sul¬la mano, per fabbricarsi un guanto d'emergenza. Si mise in ginocchio, frugò dentro e ne estrasse un osso delle braccia. Quando lo sollevò, l'osso oscillò all'altezza del gomito e una parte andò in polvere. La polvere piovve nel baule. Le ossa di una mano si staccarono dal polso e ricaddero nel baule, mandando in frammenti le pagine di una vecchia rivista; i frammenti svolazzarono e ondeggiarono come un uccello colpito da un cacciatore.
Leonard tenne in mano l'osso del braccio e lo scrutò per un po', poi lo rimise giù con cautela. Usò il giornale per ti¬rare fuori una delle riviste. La gettò sul pavimento. Le pagi¬ne si staccarono e si ridussero in polvere come aveva fatto una parte del braccio.
La rivista conteneva quasi esclusivamente fotografie. Molte fotografie erano ancora visibili. Non mi piacevano. Erano di bambini, maschi e femmine, in posizioni sessuali con adulti e fra loro. Leonard tirò su un altro paie di riviste e le mise sul pavimento. Stessa roba. C'erano persino foto con bambini e animali.
Le guardai più a lungo di quanto volessi, per assicurarmi di vedere quello che stavo vedendo, poi mi accoccolai sui talloni e inspirai a pieni polmoni. Il mio fiato sapeva di carta marcia e di quell'altro odore.
Leonard prese le riviste e le rimise nel baule. Gettò den¬tro il giornale che stava usando come guanto e chiuse il co¬perchio, quindi mise il lucchetto e lo chiuse a chiave.
Si rialzò e si pulì le mani sui calzoni e si mise a passeg¬giare in cerchio, poi andò alla sedia del tavolo, si sedette e si puntò in faccia il ventilatore. Aveva la respirazione di chi ha appena fatto un lavoro duro.
"Zio Chester," disse. "Gesù Cristo."
Non so per quanto tempo siamo rimasti così, io accucciato sui talloni, Leonard sulla sedia, col ventilatore che gli sof¬fiava in faccia. Alla fine, io dissi: "Potrebbe anche non esse¬re come sembra."
"E com'è possibile? Questa è la chiave che mi ha lasciato. Apre il baule e dentro c'è quello che c'è. Quello scheletro è lo scheletro di un bambino."
"Lo so."
"E quelle riviste. Quello schifo... Gesù, voleva andare in pari con me perché sono gay? Mi stava dicendo di essere malato di testa perché pensava che lo fossi io? Oppure era talmente fuori di cervello da pensare di avere sepolto un vero tesoro? Di rendermi un figlio di puttana felice a ritrovar¬lo? Cosa faceva? Ogni tanto tirava fuori quella roba, guar¬dava lo scheletro, le riviste? E si faceva una sega?"
"Può darsi che tu stia saltando un po' troppo in fretta alle conclusioni."
"Sto saltando dove c'è da saltare. Lo stronzo pervertito aveva il fegato di criticare me, ed era... Gesù, Hap. Pensi che ce ne siano degli altri?"
"Non so cosa pensare. Però dovrai dirlo alla polizia."
"Già. Sono così fottutamente efficienti. Gesù, Hap."
Mi rialzai con calma. "Potresti anche rimettere il baule nel buco. Tuo zio ha fatto quello che ha fatto, e adesso è al di là del castigo, non può più fare del male a nessuno. Po¬tresti semplicemente andare avanti come se niente fosse."
"Non dirai sul serio?"
"No... Solo una piccola, triste parte di me dice sul serio."
"Bisogna identificare quel bambino. Ce ne potrebbero es¬sere altri. Gesù. Per quanto tempo può essere andata avan¬ti? Potrebbe esserci un'intera carrettata di corpi sotto la ca¬sa. Potevano esserci già quando venivo qui d'estate. Lui mi insegna a mettere la mosca artificiale sull'amo, mi legge una storia, mi mette a letto, e sotto i nostri piedi ci sono bambi¬ni a marcire."
"Non aveva la testa a posto, Leonard. Lo sai. Potrebbe essere successo solo di recente."
"Il che migliora di poco le cose. Merda, non le migliora affatto... Non dirlo a Florida. Non ancora."
"Non glielo dirò."
"Cristo."
"Stammi a sentire, Leonard. Per adesso rimettiamo via il baule. Stanotte non si può cambiare niente. Assorbi l'idea meglio che puoi. Domani, quando Florida se ne sarà andata, faremo quello che vorrai fare. Naturalmente, quando la po¬lizia lo saprà, non sarà più un segreto."
"Già. Dammi una mano col baule, Hap."
Rimettemmo il baule al suo posto. Leonard sistemò qual¬che asse sul buco, e sopra accumulammo un po' di giornali. Alla fine, Leonard disse: "Grazie, uomo."
"Di niente."
Ci lavammo, e io bevetti il bicchiere d'acqua che volevo. Tornai in camera da letto.
Florida aveva di nuovo scalciato via il lenzuolo. Era sdraiata di schiena. Il viso era liscio e bellissimo, e le sue labbra si muovevano un poco. I suoi seni e il pelo pubico at¬tirarono la mia attenzione, ma per una ragione o per l'altra, dopo quello che avevo appena visto, il mio interesse sessua¬le non si risvegliò.
Mi spogliai, mi infilai a letto e mi coricai sulla schiena a guardare la pala girare e girare. Ascoltai il vento sull'albero bottiglia e sperai che qualcosa stesse risucchiando nelle bot¬tiglie le anime degli spacciatori di droga. Mi chiesi se ci fos¬se entrata anche l'anima di zio Chester, l'anima della sua vittima... o delle sue vittime.
Pensai al baule e alle riviste e pensai a Leonard. Poco ma sicuro, il mondo gli era cascato addosso. Pensai allo schele¬tro del bambino e a come poteva essere stato il bambino da vivo. Era felice prima che accadesse? Pensava al Natale? Era triste? Aveva sofferto molto? Aveva capito cosa stava succedendo?
A poca distanza, nello spaccio di crack, sentii ridere qual¬cuno, poi qualcuno disse qualcosa ad alta voce e ci fu un'al¬tra risata, poi il silenzio.
Le ombre cambiarono, si ingrandirono. Una fetta di luce color pesca filtrò tra le sbarre e piovve sul letto, facendo brillare la pelle di Florida come fosse immersa nel miele. In¬vece della pala, restai a guardare la sua pelle, la guardai ac¬cendersi di luce. Rotolai su un fianco e le passai un braccio attorno alla vita. La pelle era calda, ma io avevo freddo. Mi alzai, raccattai il lenzuolo e lo stesi addosso a Florida, ci stri¬sciai sotto e la strinsi di nuovo. Lei si girò contro il mio pet¬to e io la baciai sulla fronte.
"È già mattina?" chiese.
"Se sei un gallo," dissi.
"Hmm. Non sono un gallo."
"Me n'ero accorto."
"Ti puzza l'alito."
"A te no. È dolce come una rosa... Naturalmente, di quelle che crescono nelle fosse settiche."
"Lo sai? Sei il mio primo cazzo bianco."
"E com'è stato?"
"A parte l'uccello piccolo così, fantastico."
"Delizioso."
"Te la faccio vedere io una cosa deliziosa. Fra un attimo."
Scese dal letto e acchiappò il lenzuolo e se lo avvolse at¬torno al corpo. "Vado a lavarmi i denti. Subito. Poi te li vai a lavare anche tu."
"Controlliamo se ci sono cavità da carie?"
"C'è una cavità che mi piacerebbe farti vedere," disse lei, e lasciò la stanza. Baule, scheletro e riviste cominciarono a uscirmi di mente. Per lo meno, non erano più in primo piano.
Quando tornò, lei disse: "Leonard è in piedi. Si alza sem¬pre presto?"
"A volte."
"Pensi che stanotte lo abbiamo svegliato? Abbiamo fatto un certo casino."
"Tutto a posto. Perché non ti togli il lenzuolo?"
"I denti."
Andai a lavarmeli. Sentii Leonard nella stanza dei giorna¬li. A quanto pareva, passeggiava avanti e indietro. Le vec¬chie assi scricchiolavano.
Quando tornai in camera da letto, Florida si era tolta il lenzuolo ed era sdraiata a letto con un preservativo poggiato sull'addome. Aveva un cuscino sotto il sedere, e le gambe aperte.
"Fuochino, fuochino," disse.

11

Era mezzogiorno e faceva caldo e non tirava un filo d'aria. Florida era ripartita da un pezzo, per andare a trovare sua madre. A lato del marciapiede, un'orda di auto della polizia, con o senza luci lampeggianti e stemmi. Leonard aveva chiamato gli sbirri circa un'ora prima.
Alla porta accanto, gli spaccia si erano alzati presto, sor¬presi che la visita non fosse per loro. In piedi o seduti sulla veranda se ne stavano a guardare. Mohawk chiamò per no¬me uno dei poliziotti in borghese che si trovavano in cortile, un grassone con un pessimo parrucchino. Lo sbirro grasso lo salutò con la mano.
Una nera anziana chiusa in un girello uscì dalla casa al la¬to opposto della strada e si fermò sulla veranda a guardarci. Era la prima volta che la vedevo. Mi ricordava un grillo mol¬to antico e molto corpulento. Sopra la sua testa, su un filo della luce, un corvo gracchiò come se avesse bisogno di pa¬stiglie per la gola.
Leonard e io eravamo in veranda, seduti sull'altalena. Leonard sembrava rimpicciolito durante la notte. Aveva un colorito più grigio.
Un grosso detective nero, sulla cinquantina, con l'aria du¬ra e un completo blu piuttosto largo, era accoccolato davan¬ti all'altalena, a farci domande; nel frattempo, un detective bianco con un vestito verde stile Kmart come quello che avrei voluto comperarmi io prendeva appunti e battagliava con una mosca. L'insetto continuava a tentare di atterrare sulla sua testa sudata e quasi calva.
"Maledetta mosca," disse il poliziotto bianco.
"Cercano sempre la merda," disse quello nero.
"Già," replicò in fretta il bianco. "Tra un po' ti saranno tutte addosso."
Il grosso poliziotto nero non lanciò una sola occhiata a quello bianco. Davano l'idea di bisticciare di continuo giu¬sto per tenersi svegli. Il poliziotto nero tirò fuori dalla giacca un sigaro color stronzo, se lo infilò in bocca e si mise a ma¬sticarlo. Non lo accese. Disse: "Per adesso è tutto. Con voi due dovremo parlare ancora. Magari verrete alla stazione."
Dentro, sentivamo sollevare assi. Un paio di tizi in jeans e maglietta ci passarono davanti. Trasportavano badili den¬tro casa.
"Io sono il tenente Marvin Hanson," disse il poliziotto nero. "Temo che avrei dovuto dirvelo prima. Non sono un campione d'educazione. Magari voi due vorrete spostare le chiappe per un po'. Dentro scaveranno e cercheranno per un pezzo... Volete venire a mangiare con me? Faccio mette¬re in conto alla città."
"Grazie," disse Leonard. "Accettiamo, OK, Hap? Non mi spiacerebbe andarmene da qui."
"Sì. Certo."
"E io?" chiese il poliziotto bianco.
"Tu resti a farti scoppiare il culo, Charlie," disse Hanson.
Charlie ridacchiò e rimise in tasca il taccuino. Hanson si alzò e io sentii schioccare le sue ginocchia.
"Torno fra un minuto," disse.
Entrò in casa e noi restammo lì. Charlie non aprì bocca. Non ci guardò. Appoggiato a un palo della veranda, conti¬nuò a combattere con la sua mosca.
Allo spaccio di crack, un furgone del Pizza Express acco¬stò al marciapiede e un nervoso ragazzo nero, con un cappellino di carta messo di sghimbescio, scese e portò sulla ve¬randa una mezza dozzina di grossi cartoni da pizza.
Ci fu uno scambio di chiacchiere e di dollari. Il ragazzo scese dalla veranda senza il suo cappellino di carta. Adesso lo portava Mohawk. Era troppo piccolo, e gli dava l'aria di una Testa di Cono nera. Charlie alzò gli occhi e lo vide. Strillò: "Ridaglielo indietro, stronzo."
"Ah, uomo," disse Mohawk.
"Ridaglielo."
"Tutto a posto," replicò il ragazzo della pizza, un piede sul furgone, uno a terra. "Me ne daranno un altro."
"Naaa," disse Charlie. "Ti sta bene quello."
"Che cazzo avete lì?" domandò Mohawk. "Dei morti?"
"Una fuga di gas. Ridagli il cappello."
"Sì, sicuro," disse Mohawk. "Vieni a prenderlo, ragazzo."
"Naaa," disse Charlie. "Glielo porti tu. E attento a essere cortese. Se no potrebbe toccarmi di dover perquisire casa tua. Vedere se hai delle sostanze illegali dietro il cesso."
"Dovete avere un motivo," disse Mohawk.
"Furto di cappello da pizzaiolo."
"Non l'ho rubato. L'ho preso in prestito." Mohawk si girò a guardare i suoi soci e sorrise, e tutti sorrisero con lui. Car¬ro Allegorico uscì di casa e lasciò sbattere la zanzariera co¬me se avesse voglia di menare le mani.
"Giusto, no, ragazzo?" strillò Carro Allegorico al ragazzo. "Il mio amico ha solo preso in prestito il cappello, no?"
"Per me va bene," disse il ragazzo. "Vacca miseria. Se non consegno l'altra pizza in fretta, la devo pagare io. Mi conviene correre."
Il ragazzo salì sul furgone e fece per chiudere la portiera.
"Naaa. Tutto a posto, ragazzo," disse Charlie. "Fermo lì. I soldi li ho io. E tu, Melton. Voglio darti un buon motivo per restituire il cappello. Se non lo restituisci, ti infilo un tu¬bo su per il culo. Di quelli che sparano pallottole."
Mohawk, o meglio Melton, sorrise. "Be', visto che fai dei discorsi così sexy, sergente, glielo ridarò."
Mohawk scese gli scalini verso il ragazzo. A passi lenti e sensuali, come fosse una sfilata di moda. Lanciò il cappello al ragazzo; il ragazzo cercò d'afferrarlo e mancò la presa, raccolse il cappello da terra, se lo mise in testa, salì sul fur¬gone e accese il motore. Partì chino sul volante.
Mohawk ci lanciò un'occhiata dura, come se da un mo¬mento all'altro potesse venire a spazzarci via. Leonard si alzò e si fermò in fondo alla veranda e lo guardò. "Perché non vieni a prendere un caffè, più tardi. Mi piacerebbe che ci facessi visita... Melton."
Mohawk sorrise a trecentosessanta gradi e tornò in veran¬da. Si alzarono chiacchiere e ci arrivò il termine "pezzo di merda". Mohawk entrò sbattendo la zanzariera. I tipi sulla veranda si spostarono come cani in cerca del posto giusto per fare la cacca, e alla fine si accucciarono.
"Un giorno o l'altro, quella casa lì potrebbe prendere fuo¬co," disse Leonard.
"Già. Che orrore," disse di rimando il poliziotto bianco. "Con tutta l'amicizia che ho per Melton."
"Si vede che anche lei gli piace," intervenni.
"Non ne abbiamo mai abbastanza di vederci," disse Charlie. "Ogni tanto ci incontriamo alla stazione. Melton Danner è quello che è, ma per quelli là è un dio. Ho fatto le superiori con lui. Ero più avanti di un paio d'anni. Al-l'epoca era a posto, credo."
Io dissi: "Quello che non riesco a capire è perché non possiate togliere di circolazione per sempre quei cazzoni."
"Ce lo stiamo chiedendo pure noi," disse Charlie. "Ab¬biamo domandato a Zio Sam, ma non ha risposte, e proba¬bilmente noi non siamo tanto furbi da trovarne una da soli. Merde del genere hanno i loro diritti, lo sapevate? E hanno avvocati che costano perché hanno un sacco di soldi fatti con la droga. Ci fa sentire leggermente inefficienti portarli dentro la sera per lasciarli uscire al mattino, dopo una cena calda e una doccia."
Hanson uscì di casa. Tolse di bocca il sigaro masticato, lo scrollò delicatamente e lo rimise nella giacca. Arrivò all'orlo della veranda e sputò un piccolo grumo di tabacco. Guardò Charlie e guardò noi. "Che c'è?" chiese.
"Stavamo solo parlando con Melton," rispose Charlie.
"Bravo ragazzo, quel Melton," disse Hanson. "E guarda come ha già riparato la porta dall'ultima volta che gliel'abbiamo buttata giù."
"È proprio un castoro," concluse Charlie.
"Avete trovato qualcos'altro?" chiese Leonard.
"Non ancora," disse Hanson. "Dai, andiamo. Non man¬dare tutto a puttane, Charlie."
"Ricevuto-roger," disse Charlie, e noi seguimmo Hanson fino alla sua automobile.

12

Pappare hamburger era l'idea di Hanson di un buon pranzo. Io ordinai caffè, un cheeseburger e patatine. Dal sapore, pareva che nel caffè avesse cagato un grosso animale, ma burger e patatine erano unti al punto giusto; a strizzare la carta che li conteneva si sarebbe ricava¬to olio a sufficienza per soddisfare un cardine cigolante.
Hanson disse a Leonard: "Tutto bene?"
"Non proprio," disse Leonard, "ma fra un centinaio d'an¬ni le cose andranno meglio. Non ci avrà invitati a pranzo per tirarmi su di morale, eh? Ha qualcosa in mente?"
Hanson sperimentò il caffè. Era buono anche il suo. Si vedeva dal tremolio del labbro superiore. Mise giù la tazza e tirò fuori il sigaro e lo infilò in bocca, e ci parlò attorno. "Conoscevo suo zio. Era venuto alla stazione."
"Perché aveva sparato nel culo ai miei vicini," disse Leo¬nard.
"E li ha denunciati cinque o sei volte. Noi li portiamo dentro, loro escono e ricominciano. È come respingere i Fi¬listei con l'osso mascellare di un criceto."
"Un giochino," disse Leonard.
"Già," confermò Hanson. "E voci brutte, voci insistenti, dicono che qualche poliziotto prende bustarelle."
"No," disse Leonard. "Mi dica che non è vero."
"Sulla questione posso solo dire che io non sono uno del mazzo, e le converrà crederci. In quanto a suo zio, pensava di essere una specie di poliziotto. Lo sapeva?"
"So che faceva la guardia privata. Che voleva lavorare dalla parte della legge. Fare il detective. Ricordo che leggeva un sacco di libri e riviste su veri casi criminali, e gialli. Tutto ciò che aveva a che fare col crimine. So che ha cercato di farsi assumere nella polizia, ma quando ci ha provato era troppo vecchio, e prima non avrebbero mai accettato un ne¬ro nella polizia di LaBorde."
"Mi creda," disse Hanson, "anche oggi non sono rose e fiori. Abbiamo ancora sulle spalle l'eredità del capo Calhoun."
"Se non ricordo male," dissi, "alla fine degli anni Sessanta il primo Calhoun capo della polizia diede ai suoi uomini un paio di metri di filo spinato arrotolato su un'impugnatura di legno e ordinò di usarlo su gente che protestava per i diritti civili dei neri. Una pacifica assemblea in città. Fece colpire i dimostranti col filo spinato. Donne e bambini. Il consiglio comunale ci restò così male che dotò tutti i poliziotti di nuo¬vi manganelli e assunse esperti di arti marziali per insegnare agli agenti a usarli. I manganelli lasciano segni più legali."
"Quel Calhoun era prima dei miei tempi," disse Hanson. "Ma la sua eredità è ancora viva. Il fatto è che, retorica a parte, il capo che abbiamo adesso, suo figlio, fa sembrare il primo Calhoun un libertario. Io sono l'unico nero nella po¬lizia, e non perché mi vogliano. Appena Calhoun mi vede, gli vengono i dolori di stomaco e gli si raggrinzisce l'uccello. Un negro con la pistola lo innervosisce, gli fa sognare tona¬che bianche e croci che bruciano. Ancora peggio, io sono un negro che viene dalla grande città, uno sporco negro figlio del cemento e del neon. E oltre al danno, la beffa. Sto qui da quasi dieci anni e sono ancora un estraneo, e per ultimo, ma non necessariamente in ordine d'importanza, sono un bravo poliziotto."
"Bravo e modesto," dissi io.
"Quello è il mio tratto più spiccato," disse Hanson.
"Non ci ha invitati a pranzo nemmeno per questo," ripre¬se Leonard, "per raccontarci che conosceva mio zio e che al¬la polizia la considerano uno sporco negro. E, poco ma sicu¬ro, non ci ha portati qui per spiegarci che razza di sbirro in gamba sia."
"Non sono certo di avervi portati qui per una ragione sensata. Volevo fare qualche altra domanda, all'incirca."
"La sfinge sarebbe più comprensibile di lei," disse Leonard. "Non ha ancora fatto una sola domanda."
Hanson sorseggiò il cattivo caffè senza togliere il sigaro di bocca. "Non ho motivo di dubitare che suo zio abbia com¬messo questo omicidio."
"Ehi," disse Leonard, "grazie per la notizia flash. Ma adesso le dico una cosa. La mia prima impressione è stata la stessa di chiunque altro. Però ci ho pensato un po' su, e mio zio poteva anche essere uno stronzo, ma non ha ucciso nes¬sun bambino. Lo conoscevo troppo bene. Qui c'è sotto qualcos'altro. Non me ne frega niente delle apparenze."
Hanson scrollò le spalle e aprì le mani a ventaglio. "Che¬ster si è presentato alla stazione non molto tempo fa a par¬lare di omicidi di bambini. Lo sapeva?"
"No," disse Leonard. "E come sarebbe a dire che ha par¬lato di omicidi di bambini?"
"Quello che sto dicendo è che potrebbero esserci altri omicidi, altri corpi oltre a questo."
"Non che pensassi che vi siate messi a squartare il mio pavimento in cerca di monetine cadute nelle fessure," inter¬loquì Leonard, "però lei non ha ancora risposto alla mia do¬manda."
"E se assassinava bambini," dissi, "perché lo avrebbe rac¬contato a voi?"
"Francamente, tutti pensavano che fosse svitato," disse Hanson. "Anch'io penso che lo fosse, verso la fine. Quanto al perché ce lo sia venuto a raccontare... Per depistarci. Un brivido che gli costava poco. Oppure stava cercando di di¬mostrare di poter essere un ottimo poliziotto. Scoprire gli omicidi, ma non l'assassino."
"Che secondo lei era lui," concluse Leonard.
Hanson scrollò di nuovo le spalle.
"Una nostra amica pensa che Chester potesse avere l'Alzheimer," dissi.
"Possibile," disse Hanson. "Però Chester ci ha raccontato che c'erano stati degli omicidi di bambini, e adesso sono sal¬tati fuori. Perlomeno uno."
"Voialtri non avete controllato la sua storia?" chiesi. "Co¬se del genere le fate, no?"
"Quando non stiamo mangiando ciambelline... Chester ha detto solo che nel quartiere nero si verificavano omicidi di bambini, e che all'esterno del quartiere non gliene fregava niente a nessuno."
"Aveva ragione?" chiesi.
"Negli anni sono state segnalate sparizioni di bambini."
"Quanti anni?" dissi.
"Minimo dieci. E, stando all'archivio, si è indagato su tut¬ti quei casi senza concludere niente. Stando alle dichiarazio¬ni scritte di un paio di uomini non più in servizio, l'impres¬sione era che i genitori avessero fatto fuori i figli perché prendersene cura era una rogna troppo grossa, però non po¬tevano dimostrarlo e non gliene fregava niente. In effetti, in fondo a uno dei rapporti c'era scritto Un negro in meno non farà del male a nessuno. Questo succedeva ancora dieci anni fa. Qui i diritti civili penetrano lentamente. Per lo meno nel¬le forze di polizia."
"C'è sempre una differenza quando un crimine è un cri¬mine nero," disse Leonard, "soprattutto se è ai danni di un altro nero e commesso nella parte nera della città. Se un ne¬ro uccidesse un bianco, gli sbirri ci si butterebbero come maiali nella fanga. Senta un po', tenente, questo pranzo è straficodelizioso e tutto quanto, però lei sta cercando un po' troppo di fare il furbo. Parla, ma non dice niente. Vuole ve¬dere se io ho in mano qualche carta che lei possa giocare, eh? Magari pensa che le stia nascondendo qualcosa, qualco¬sa che potrebbe darle una mano per il caso?"
"Può darsi che lei abbia dimenticato qualcosa," disse Hanson. "Può darsi che sappia qualcosa del passato di suo zio che ha a che fare con l'oggi, con gli omicidi."
"Sapessi qualcosa, gliela direi. Che lui fosse mio zio o no. Forse proprio perché era mio zio. Non c'è bisogno di burgherizzarmi e caffeinarmi per sapere le cose. Le ho parlato delle chiavi, dei buoni omaggio, del Dracula tascabile. Vi ho consegnato lo scheletro, no?"
"È questo che sta cercando di fare?" chiesi a Hanson. "Cerca di vedere se Leonard sa più di quel che ha detto?"
"Non è scafato," disse Leonard a Hanson. "Riesce mica a vedere i segni neanche se li ha sotto il naso."
"Già, essere scafati è un problema," disse Hanson. "Però anche lei potrebbe non essere così scafato, Leonard. La mia è pura cortesia. Vi porto via da quel posto, riempio lo sto¬maco a lei e al suo socio. Insomma, ho qualche domanda, ma è solo routine."
Leonard sorrise a Hanson.
Hanson gli restituì il sorriso.
Una coppia di squali che cercavano di dribblarsi.
Leonard disse: "Perché non fa girare un'altra volta il suo programma, lasciando perdere tutta la roba che dovrebbe spaventarmi, i punti in cui io dovrei pensare che lei sappia più di quello che sa, per cui se so qualcosa più di quello che ho già detto mi spavento e vado in pezzi e vuoto il sacco."
Hanson disse: "Allora va bene. Solo le nude ossa. Suo zio ha detto che ci sono stati omicidi di bambini. Non c'era la minima prova. Risultava soltanto che negli anni erano scom¬parsi dei bambini. Io non conoscevo il caso. Ho dato uno sguardo ai fascicoli sui bambini scomparsi nella zona nera. Mica mi hanno convinto, ma non c'erano basi per procede¬re. Suo zio voleva che gli dessimo una squadra, uomini con cui lavorare, e avrebbe risolto il caso."
"Ha detto questo?" chiese Leonard.
"Ha detto che lui e il suo socio avrebbero provato che stava succedendo qualcosa e chi fosse il colpevole."
"Chi era il suo socio?" chiesi.
"Non ha voluto dircelo. Ha detto che era meglio tenerlo in panchina. Ha detto che non era pronto a lasciare comple¬tamente la faccenda nelle mani della polizia perché sapeva che l'avremmo nascosta sotto il tappeto. Ha detto che gli servivano i nostri mezzi. Forse non aveva nemmeno un so¬cio. Forse sì."
"Vuole forse dire che potrei essere io?" chiese Leonard.
"Questo non l'ho detto," replicò Hanson.
"Inutile aggiungere," dissi, "che non avete dato a Chester la squadra che voleva."
"No," disse Hanson. "Era piuttosto sconclusionato. Diffì¬cile prenderlo sul serio. Non è che abbia portato vere prove. Ha solo parlato. E a volte perdeva il filo. Come se avesse di¬menticato perché si era rivolto a noi. Ogni volta che si presentava, c'era un po' meno con la testa. Non che gli avrem¬mo dato una squadra, se anche non fosse stato svitato. Sen¬za offesa, Leonard."
"Nessuno si offende," ribatté Leonard. "Però continuo a non sapere più di quello che le ho detto."
Hanson tolse il sigaro di bocca e lo rimise nella tasca in¬terna della giacca. "Allora OK," concluse. "La pianto di fare il furbo. Per adesso. Volete dell'altro caffè?"
"Io prendo una Coca," disse Leonard. "Visto che offre lei."

13

Tre giorni più tardi e la mattina era molto chiara e la luce che entrava dalle finestre era chiazzata di verde perché i raggi del sole filtravano tra le foglie di quer¬cia, e c'erano intervalli di ombre nere come l'inchiostro create dalle sbarre alle finestre.
Dopo aver scoperto lo scheletro, ci eravamo trasferiti alle nostre case fuori città, ma adesso eravamo tornati. Gli sbirri se n'erano andati senza trovare altri scheletri di bambini, però Leonard ci aveva guadagnato cinquantacinque cent re¬cuperati sul terreno sotto il pavimento e consegnatigli da Hanson, che forse lo aveva fatto per dimostrarci di essere un poliziotto onesto. E che cavolo, magari venivano diretta¬mente dalle sue tasche.
Gli sbirri erano stati tanto gentili da portare via i giornali e le assi marce, nel caso in un nodo del legno o fra le pagine dello sport si nascondesse un indizio, così Leonard comperò delle assi di pino e un sacchetto di chiodi e ci mettemmo al lavoro per riaggiustare il pavimento.
Era quello che stavamo facendo la mattina di cui sto par¬lando. Le assi erano tagliate di fresco, e il clima talmente caldo che si sentiva l'odore di resina e l'accumulo di segatu¬ra sulle mani. Era un po' strano rimettere un pavimento e vivere in una casa dove solo pochi giorni prima Leonard aveva scoperto tutte quelle ossicina, ma coi giornali tolti di mezzo, l'odore del legno nuovo e la luce calda che entrava dalle finestre, la casa sembrava vagamente diversa. Pareva non avesse mai contenuto i resti di un bambino morto da tanto tempo.
Dopo avere sostituito una bella fetta di pavimento col nuovo materiale a prova di bomba, Leonard propose di fare una pausa.
Versammo un po' di caffè tiepido nelle tazze e andammo in veranda, a sederci sull'altalena. Quel giorno non c'era poi tanta umidità, per cui forse si stava meglio, anche se io ho sempre sostenuto che, gratta gratta, certe distinzioni sono stronzate: bollire o friggere, il caldo è caldo. Se non altro, quando c'è umido mi rendo conto di avere caldo; se non è umido, ho la sensazione che qualcuno mi stia cuocendo di nascosto.
Sorseggiammo il caffè per un po' e guardammo la strada, le poche automobili che passavano. Allo spaccio di crack tutto era tranquillo.
Leonard rientrò in casa e uscì con un sacchetto dei suoi biscotti preferiti, quelli con la crema alla vaniglia. A dire il vero, basta che sia vaniglia e lui preferisce qualunque cosa. Sistemò il sacchetto sul suo lato dell'altalena e non offrì bi¬scotti. Mi costrinse a chiederne uno.
"Non è che tu abbia parlato molto di tutta questa storia," dissi.
"Un'asse è un'asse," disse Leonard. "Tu esegui i miei or¬dini e non farai puttanate."
"Tuo zio, Leonard. Non hai parlato di tuo zio."
"Sto ancora rimettendo assieme i pezzi. Non solo la fac¬cenda dello scheletro, ma tutta la mia vita."
"Siamo a un momento d'introspezione?"
"Credo di sì. Le uniche cose che io abbia mai desiderato sono essere amato e stare bene e realizzarmi nel lavoro. Per come sono messe le cose, tutti quanti nella mia famiglia so¬no morti, da anni, a parte una sola persona, che è appena morta, e senza nemmeno dire che gli dispiaceva o che pote¬va accettarmi per quello che sono. A livello finanziario, pro-babilmente adesso sto meglio di prima perché lui è morto, però salta fuori che la casa che ho ereditato e amato ha un bambino morto sotto le assi del pavimento, e si suppone che sia stato mio zio a mettercelo, e se come merda non bastas¬se, non ho uno straccio di lavoro da fare o da amare. Ti sta bene come depressione?"
"Magari potresti buttare nel mazzo il tuo caro cagnolino messo sotto da un camion o roba del genere. E non hai par¬lato della mamma o di un treno, come nelle canzoni country-and-western. "
"Mi sa che hai ragione. E poi ho i miei biscotti. E Flori¬da? Cosa ne pensa?"
"È venuta a casa mia ieri l'altro. Le dispiaceva molto per tutto quanto. Era scioccata. Normale. Mi ha detto di farti tutti i suoi migliori auguri."
"Ho notato che qui non si è più fatta viva."
"Be', siamo appena tornati. Ti aspettavi di trovarla ad aspettarci sulla veranda?"
"Sarà la vecchiaia che mi stuzzica la sensibilità."
"Tornerà. Penso che tornerà. O lo spero."
"Come va fra voi due?"
"Non so di preciso. Ci piacciamo. Facciamo sesso e riu¬sciamo a scherzare, e io vorrei qualcosa di più di quello che abbiamo al momento, però ho la sensazione che lei non vo¬glia farsi vedere in pubblico con me."
"Ho lo stesso problema anch'io."
"No, sul serio. Secondo me è perché sono bianco. Una volta lo ha anche detto, ma mi ero illuso che l'avesse supe¬rato."
"Probabilmente ha abbastanza cervello da pensarla in maniera diversa, ma questo non significa che se ne possa sbattere completamente. Non in un periodo così breve, co¬munque. Ehi, guardala da questa prospettiva. Ha fatto gran¬di passi. Ti si scopa, e tu sei bianco."
"È questo che mi piace in te, Leonard. Sei un tale roman¬tico."
"Hap, tu credi che mio zio abbia ucciso quel bambino?"
"Non so. Così sembra. La cosa importante è che non lo creda tu."
"L'ho pensato all'inizio, e tu mi hai detto di non saltare alle conclusioni. Ricordi?"
"Sarò onesto. Io ho pensato che fosse stato lui nel mo¬mento in cui hai trovato il corpo. Ho detto quello che ho detto per essere gentile con te. Ci sono cose che lo indicano come colpevole, a parte la più ovvia, lo scheletro sotto le assi del pavimento. Roba tipo il suo pallino per la polizia. Il che di per sé non significa niente, però un sacco di volte i tizi che vogliono fare gli sbirri e non possono, i tizi ossessio¬nati dall'idea, hanno una specie di fissazione, di mania di potere. Abusare di un bambino, di chiunque sia più debole di te, è una forma di potere. Come lo stupro. O picchiare la moglie. Magari tuo zio da piccolo ha subito violenze e gli hanno dato alla testa. Combacia tutto."
"Io conosco mio zio."
"Conoscevi tuo zio."
"Non è cambiato poi tanto. Non mi ha mai lasciato in¬tendere di avere subito violenze da piccolo. E se gli è suc¬cesso, la cosa non ha fatto di lui un molestatore di bambini. Tanta gente che ha subito violenze nell'infanzia resta perfet¬tamente normale. È stato lui a insegnarmi a vivere, a pensa¬re. Non è possibile che un giorno abbia cambiato idea e gli sia venuta voglia di mettersi a uccidere bambini."
"Può darsi che andasse avanti da un po'."
Leonard scosse la testa. "No. E non credo che avesse una mania di potere. Secondo me voleva un lavoro rispettabile, e fare lo sbirro era rispettabile. Non c'è mai riuscito solo perché era quello che era e viveva dove viveva. Può anche darsi che alla fine abbia cominciato a perdere il cervello, ma questo non significa che abbia perso la sua etica. Voglio sco-prire cos'è successo, Hap, a prescindere dai risultati, e vo¬glio che tu mi aiuti."
"Cosa ti fa pensare di doverlo chiedere?"

14

Finimmo il caffè e stavamo per rimetterci al lavoro quando, dall'altra parte della strada, vedemmo la vec¬chia signora nera col girello uscire in veranda. Fu un processo lento e meticoloso, la sua uscita, e guardarla mi mise in agitazione. La zanzariera le sbatté su un fianco per¬ché lei non riuscì a spostarsi abbastanza in fretta, e la donna barcollò e la veranda emise un gemito tanto forte che lo sentimmo anche noi all'altro lato della strada. Scommetto che non pesava neanche quaranta chili, ma vedevo le assi in¬curvarsi sotto i suoi piedi.
Guardò nella nostra direzione e noi sventolammo le ma¬ni. Lei rispose al saluto, attenta a non agitare troppo il brac¬cio, se no magari le si staccava dalla spalla.
Immobile nell'intelaiatura del girello, restò a guardarci per un po', poi sollevò lentamente la mano e con le dita ci segnalò di andare da lei.
Noi andammo, ci fermammo sul primo gradino della sua veranda e alzammo la testa a guardarla. Aveva addosso la luce del sole come una fetta sottile di formaggio, e non era una grande bellezza. Pareva che l'avessero bollita e strizzata e messa ad asciugare. Le rughe della faccia erano molto profonde, canali di sudore. Gli occhi color prugna gocciolavano e il bianco non era più bianco, era un'Hiroshima di vasi san-guigni esplosi: rosa, rosso e blu. La dentiera era troppo bas¬sa in alto e troppo alta in basso, dando l'impressione di cose vive che cercassero di uscire da un buco. La testa era per la maggior parte calva. I pochi capelli erano sparsi a ciuffi grigi e parevano cotone sporco soffiato dal vento su una roccia nera, umida. Il seno cadeva e tremolava sulle costole, sotto il vestitino blu. Portava ciabatte da casa rosa e pelose, e un dito, nero come una noce brunita dall'acqua, sporgeva da un buco nella ciabatta destra.
Cercai di immaginarla più giovane, magari di mezza età, ma era impossibile pensare che potesse mai avere avuto un aspetto diverso.
Dissi: "Possiamo darle una mano, signora?"
Lei inspirò una boccata d'aria, per trovare il fiato per par¬lare, mi ignorò e si rivolse a Leonard. "Tu," disse, "il ragaz¬zo di colore," nel caso Leonard potesse avere le idee confu¬se sui suoi progenitori. "Ho sentito di tuo zio. Non ci ho creduto nemmeno un minuto. Me ne frega niente se trova¬no dei neonati nel suo cesso. Lui non ha mai ucciso e segato bambini. Ho conosciuto quel ragazzo per tutta la sua vita."
"Certo che le voci corrono," replicò Leonard.
"Mica ci sono segreti nella città dei negri," disse lei.
"No, signora, penso di no," disse Leonard.
"E se i poliziotti prendono qualcuno sarà per sbaglio. Hanno deciso che è stato Chester, e morta lì."
"È quello che temo anch'io, signora," ribatté Leonard.
"I ragazzi che stanno vicino a voi," disse lei. "Mica dovete avere a che fare con quei negri. Sono drogati."
"Sì, signora," disse Leonard. "Era più o meno quello che pensavamo noi."
"Si vede da come camminano," spiegò lei.
"Sì, signora," disse Leonard.
"E la vendono anche," proseguì lei. "Tutti i bambini che vedete entrare e uscire da lì, gli hanno venduto la droga. Uccidono la loro razza, e ci scommetto che da qualche parte c'è un bianco col portafogli gonfio che si becca i soldi."
"Sì, signora," disse Leonard.
Lei mi guardò, come per studiare le mie tendenze a di¬ventare un bianco col portafogli gonfio. Immagino non se ne vedessero. Le sue rughe si mossero. Disse: "Sentite qua, ho in forno delle torte di mele e di pere. Voialtri ragazzi ve¬nite dentro a darmi una mano a tirarle fuori prima che si brucino. Mi sono ammazzata a prepararle."
Salimmo sulla veranda, e la veranda si mise a urlare. Guardai giù e vidi una crepa nelle assi e il terreno che mi guardava. Se la vecchia cadeva giù dalle assi, poteva rom¬persi una gamba o uccidersi.
Il profumo di torte in forno che veniva da dentro era ricco e ottimo e mi mise fame. Aprii la zanzariera e la tenni spa¬lancata. Leonard restò a fianco della donna nel girello, e do¬po avere fatto qualche passo lei mi disse: "Chiudi la zanza¬riera, figlio. Così fai entrare le mosche. Ci metterò un po'."
Chiusi la zanzariera finché lei non fu arrivata nei paraggi, il che in effetti richiese un certo tempo, e quando fu abba¬stanza vicina tenni aperta la zanzariera e lei e Leonard en¬trarono al ritmo delle assi che scricchiolavano.
Li seguii all'interno e chiusi la zanzariera, lasciando aper¬ta la porta perché dentro faceva caldo per via del calore del forno, e a rinfrescare la cucina c'era solo un piccolo ventila¬tore sul tavolo. Avevo un inizio di vertigini, come se avessi fatto un giro troppo veloce sulla giostra. Quando mi voltai a guardare la zanzariera, era tutta un ronzio di mosche che speravano di potersi pulire le zampe merdose su una torta.
La cucina era pulitissima, e sotto il profumo delle torte fiutai un'ombra di disinfettante al pino. Chissà se teneva pu¬lito lei; e se lo faceva, proprio non capivo come potesse riu¬scirci da sola. Fragile com'era, un'escursione al bagno dove¬va essere identica a una spedizione nelle giungle del Sud America.
Una parete era proprio sorprendente. Era tappezzata di fotografie appiccicate col nastro adesivo, alcune a colori, al¬tre in bianco e nero, alcune molto vecchie e molto sbiadite. Nel punto in cui il muro rinunciava alle foto c'era una porta, e dietro la soglia vedevo un'altra stanza, e anche la zona di parete che vedevo lì era coperta di fotografie. Sopra la stufa a gas era appeso un antico dipinto da due soldi: un Gesù se¬reno in tunica rossa e sandali, con un mendicante in adora¬zione ai suoi piedi. Il quadro era incorniciato sotto vetro, ma la cornice era troppo grossa e il vetro non faceva pres¬sione sul dipinto e l'immagine aveva cominciato a sbiadire, e il calore l'aveva arricciata in un angolo; dava l'impressione che la tunica di Gesù si stesse arrotolando all'insù e che tra un po' avrebbe mostrato parti intime al mendicante.
Il resto della cucina era armadietti e ganci per presine da pentola e tende trasparenti, ingiallite dal tempo, su una fi¬nestra inclinata.
"Spegni il forno e tira fuori le torte," disse la vecchia, e si chinò in avanti nel girello come se abbassare la testa la aiu¬tasse a respirare meglio.
Leonard spense il forno e prese da un gancio un guanto da forno, aprì lo sportello e tirò fuori tre torte, alte e con una crosta meravigliosa, quindi le posò sulla stufa. Il profu¬mo delle torte mi riempì la testa come un'allergia.
La vecchia signora disse: "Quindi non ti ricordi di me, eh, Lenny?"
Leonard chiuse il forno e la scrutò per un lungo momen¬to, poi scosse la testa. "No, signora. Temo di no. È un po' che non torno qui. Quando venivo a trovare mio zio, qui ci vivevano i Brown. Il signor Brown lavorava in ferrovia o qualcosa del genere."
"I Brown sono tutti morti e sepolti," disse lei. "Mi chia¬mano MeMaw."
"MeMaw?" esclamò Leonard. "MeMaw Carter. Lei vive¬va nella Sheraton. Andavo sempre al parco che c'è lì. Mi ci portava mio zio. E voi venivate a trovarci intanto che io gio¬cavo."
"È stato solo per un paio d'anni," disse lei. "Quindi non mi sorprende che non ti ricordi di me. Praticamente eri un bambino. Però io dimentico mica mai niente. Lo sai che adesso lì non c'è più un parco? Un parco che si possa usare, ecco."
"No, signora."
"Lo hanno preso in mano i drogati negri. Ragazzi con quegli accidenti di cercapersone e aghi e pistole nei calzoni. Da quelle parti non c'è più un posto per fare qualcosa, a parte farsi uccidere. Mio figlio Clarence mi ha fatta trasferi¬re qui dieci anni fa. Gli sembrava meglio di Sheraton Street. E lo era, a quei tempi. La vecchia casa stava andando in pezzi e c'erano in giro tutti quei negri drogati. Adesso li ho dall'altra parte della strada e questa vecchia casa non è un granché."
"Lei mi raccontava le storie di Fratel Coniglietto e com¬pagnia bella," disse Leonard.
"E tu mangiavi la roba che preparavo io, quando venivi con tuo zio. Ti piacevano le torte e i biscotti alla vaniglia. Tutti i tipi di dolci alla vaniglia."
"Sì, signora, quello sono io. Avrei dovuto riconoscerla su¬bito."
Lei esibì a Leonard un ettaro di dentiera e qualche sua ruga si spianò. "Sono un po' cambiata, Lenny. Lo sai quanti anni ho?"
"No, signora. Non sono bravo a indovinare le età."
"Non indovinare mai l'età di una donna," disse lei. "Sa¬ranno solo guai. Naturalmente, quando una è vecchia come me, importa più niente. Un giorno in più o in meno può mi¬ca farmi sembrare più vecchia. Tra un po' cuocerò torte per Gesù... Ho novantacinque anni."
"Non li dimostra," disse Leonard.
La gola della vecchia signora emise un suono come di cracker che venissero sbriciolati. "Adesso non cominciare a raccontare balle a MeMaw. Ne dimostro centonovantacinque. Ragazzi, aiutatemi a sedermi."
La afferrammo per le braccia, che parevano bastoncini bagnati di sudore coperti di gommapiuma, la tirammo fuori dal girello e la depositammo su una sedia del tavolo.
Lei sospirò e disse: "Grazie. Sedermi e tirarmi su da sola mi sfinisce. Girate il ventilatore verso di me."
Spostai il ventilatore in modo che la rotazione fosse nella sua direzione. Chiesi: "Vuole un bicchiere d'acqua?"
"No," disse lei. "Sono a posto, però mi piacerebbe che voi ragazzi mi aiutaste a mangiare un po' di quelle torte."

Leonard tagliò le fette e versò il latte e mangiammo. La torta era ottima. Mi fece venire nostalgia di casa mia e di mia madre, ma mia madre se n'era andata da tanto tempo, come la casa dove ero cresciuto.
Mi girai a guardare le fotografie. Gente di tutti i tipi. Neri e bianchi e marroni. Abiti e capigliature e sfondi svelavano da quanto tempo fosse iniziata quella mostra fotografica, anche se parecchie foto erano state scattate in anni recenti sulla veranda di MeMaw, o nel suo cortile, o proprio lì in cucina. Un buon numero mostrava persone che mangiavano alla sua tavola.
"Ha una bella collezione di fotografie, MeMaw," dissi.
Lei girò la testa verso la parete e guardò le foto. "Ne ho un'altra stanza piena. Fotografo sempre la gente. Mi fanno allegria, tutti quelli che ho conosciuto. Guardo le pareti e mi vengono i ricordi."
"E chi sono?" chiese Leonard.
"Un po' di parenti," disse MeMaw. "La maggioranza no, però. C'è gente che viene qui a leggere il contatore del gas o dell'acqua o a portare la posta, e se sono simpatici li foto¬grafo e li metto lì, poi cerco di ricordare di cosa abbiamo parlato quel giorno. Questi qui," indicò con l'indice una fila di fotografie, "sono tutta la mia famiglia."
Alcune delle foto che stava indicando erano vecchie e al¬cune erano nuove, e alcune erano state scattate non da Me¬Maw ma da un'altra persona, perché lei compariva in parec¬chie fotografie coi figli. Nelle foto meno recenti non era molto diversa da adesso, finché non si arrivava a quelle più vecchie in bianco e nero, e anche lì era anziana, però coi ca¬pelli più scuri e più folti, forse un po' meno rughe, e qual¬che dente suo.
Ci indicò i figli e disse i loro nomi, ed erano otto in tutto, cinque ragazze e tre ragazzi. I primi sette sfornati a distanza ravvicinata; l'ultimo, un maschio, nato quando lei aveva quarantacinque anni, e ormai da parecchio tempo pensava di non poter più avere figli.
"Ce n'è mica uno che ami più dell'altro," disse MeMaw, "ma Hiram è il piccolino. Una sorpresa. Vive a Tyler, ma viaggia molto. Fa il commesso viaggiatore."
Guardai il piccolino. Nelle fotografie più recenti, Hiram aveva all'inarca la mia età e la mia corporatura, però con spalle più robuste. Aveva un bel viso.
La fotografia più recente della figlia minore, Pleasant, era quella di una donna come minimo sui settantacinque anni. MeMaw disse che era in pensione e riceveva il suo assegno, però aveva messo in piedi una piccola attività; vendeva Bib¬bie rilegate a mano in pelle bianca.
Demmo uno sguardo a nipoti e pronipoti, e lei ci disse i loro nomi e raccontò storie su tutti quanti.
"Com'è che ha cominciato, MeMaw?" chiese Leonard. "A fare queste fotografie e attaccarle alla parete?"
"Tutta quanta la mia famiglia se n'è andata da qui, a parte un ragazzo, Cletus. Si sono trasferiti per cercare di combina¬re qualcosa di decente. Io volevo qualcosa da fare, e dopo che è morto mio marito, il signor Carter, ho cominciato a scattare ancora più fotografie. Se qualcuno mi piaceva, lo fo¬tografavo e lo appiccicavo al muro. Devo avere fatto fuori una mezza dozzina di Polaroid. Tutte le volte che una smette di funzionare, i miei figli me ne comprano un'altra. Ci sono foto di tuo zio Chester nell'altra stanza, e anche una tua vec¬chia fotografia. Te l'ho fatta che eri solo un bambino."
"Sul serio?" disse Leonard. "Le spiace se vado a veder¬le?"
"Te le dovrai cercare," disse lei. "Mica ho voglia di alzar¬mi. Sono nell'altra stanza."
Andai di là con Leonard, e la stanza era piena di mobili e calda e tutte le pareti erano rivestite di fotografie, alcune relativamente nuove, alcune arricciate per gli anni e il caldo e tendenti al verde. Non so perché, mi diedero un senso di solitudine.
Su una parete, vicino al battiscopa, Leonard trovò una fo¬to in bianco e nero di suo zio. C'era anche lui, seduto su una giostra in un parco, probabilmente il parco di Sheraton Street di cui aveva parlato MeMaw. Leonard doveva avere una decina d'anni, e suo zio aveva più o meno la nostra età.
La foto non era molto buona, e i tratti del viso di Leo¬nard sfumavano nel nero della pelle. I denti spiccavano bianchissimi, e sembrava felice. Suo zio era incorniciato da un raggio di luce e meglio definito. Somigliava molto a Leo¬nard adulto. Dedicai un minuto a prenderlo in giro, per far¬gli capire che gli volevo bene, e lui mi mostrò il dito medio per dirmi che anche lui mi voleva bene.
Cercammo a lungo, nel caldo soffocante, e trovammo al¬tre foto di suo zio a età diverse, e alla fine, appena prima d'uscire, ci imbattemmo in una fotografia vicino alla porta. Quello zio Chester somigliava un sacco allo zio Chester che avevo visto nella bara, solo un po' meno gonfio e un casino meno morto. Era a fianco di un nero alto e spigoloso all'incirca della sua stessa età, e gli teneva un braccio attorno alle spalle. Non stavano esattamente sorridendo. I due parevano molto, molto seri, come se si preparassero a un'operazione di emorroidi ma fossero decisi a uscirne alla grande.
"Chi è il tipo con lui?" chiesi.
"So mica," disse Leonard.
MeMaw ci sentì. "Sono praticamente sicura che sia Illium," disse. "Stacca la foto dalla parete e fammela vedere."
Leonard tolse la foto e la portò in cucina e la diede a Me¬Maw. Lei disse: "Giusto. Illium Moon."
"Chi è?" chiese Leonard.
"Lui e tuo zio pareva che fossero attaccati come gemelli siamesi," disse lei. "Ne vedevi uno, vedevi anche l'altro. Il¬lium si è trasferito qui da San Antonio. Prima faceva il po¬liziotto o roba del genere. Lui e tuo zio si sono conosciuti in quella baracca dove si gioca a domino, dalle parti dell'auto-strada."
"Illium è ancora al mondo?" chiese Leonard.
Lei ci rifletté su un momento. "Non lo vedo da un po'. Un paio di settimane, mi pare. Mica c'avevo pensato. Ades¬so che non c'è più tuo zio, non mi aspettavo di vederlo. Non riuscivi più a immaginare uno senza l'altro."
"Sa dove vive?" chiese Leonard. "Se era amico di zio Chester, pensavo che magari potrei parlarci."
"No, non lo so," disse MeMaw, "però ogni tanto lavora alla chiesa battista per neri. Questo lo so. Guidava anche il bibliobus."
"Per la biblioteca?" chiesi.
"Non per la vera biblioteca, quella in centro," disse lei. "Illium era come tuo zio. Voleva fare del bene alla gente, così si è preso questo bus... o come li chiamano adesso?"
"Furgoni?"
"Giusto," disse lei. "Ha sistemato questo furgone, ha ca¬ricato su i suoi libri, e andava in giro a darli a prestito qui nell'East Side, come una biblioteca. Non ne ho mai preso uno. Dieci anni fa ho smesso di leggere, a parte il buon Li¬bro, siccome non ero più tanto in gamba da poter andare in chiesa. Ho pensato che Dio me l'avrebbe lasciata passare li¬scia, se stavo attenta a non dimenticare la Sua parola. Però per me Illium era un brav'uomo. A volte tuo zio gli dava una mano, andava in giro con lui."
"Può dirci dove si trova questa chiesa dove lavora Illium?" chiese Leonard.
"Posso sì," disse MeMaw. "Però prima, Lenny, vai ad aprire quell'armadietto."
Leonard raggiunse l'armadietto che lei indicava con un dito cadaverico e lo aprì. Dentro c'era una macchina foto¬grafica Polaroid.
"Portami la macchina," disse lei.
Leonard obbedì.
MeMaw mi guardò. "Tu come ti chiami, figlio?"
"Hap Collins."
"Hap, tu e Lenny sedetevi a tavola."
Ci sedemmo e avvicinammo le sedie e le teste.
"Fareste una bella coppia di portasale e portapepe," disse lei. Alzò la macchina fotografica al viso e sorrise. "Adesso, ragazzi, dite cheese."

15

"Tu ricordi di avere visto Illium al funerale?" chiesi.
"No," disse Leonard, "però mica lo cercavo. Avrebbe anche potuto esserci."
"Non credo, e se lui e tuo zio erano così intimi come dice MeMaw, avrebbe dovuto esserci, non ti pare?"
Stavo guidando il mio vecchio camioncino Dodge. Cam¬biai marcia e ci arrampicammo su per una collina piena di buche, con un fondo stradale ridotto a brandelli. Il sole era quasi in mezzo al cielo e brillava sul cofano grigio sbiadito del camioncino, costringendomi a socchiudere le palpebre, e il vento caldo che entrava dal finestrino aperto mi faceva su¬dare come se fossi in una sauna. Ricordai a me stesso che, tempo un paio d'ore, avrebbe fatto caldo sul serio.
Avevo portato con me il mio camioncino quando erava¬mo tornati a casa di zio Chester dopo i tre giorni in campa¬gna, ed ero contento di averlo, per quanto fosse vecchio e scomodo. All'inizio, quando mi ero trasferito da Leonard, era venuto a prendermi lui e io avevo lasciato il camioncino a casa perché mi dava rogne. Poi era saltato fuori che le ro¬gne erano anelli di pistone andati al creatore e benzina da due soldi e niente grano per le riparazioni.
Ma dopo il ritorno alla casa di zio Chester, Leonard ave¬va bisogno di un mezzo di trasporto per le assi, così mi ave¬va dato i soldi per le riparazioni e per benzina vera. Adesso non inquinavo più metà Texas dell'est, il che mi faceva sen¬tire meglio, e senza la nube rivelatrice di fumo nero dietro il culo mi imbarazzava meno essere visto al volante.
Stavamo seguendo le indicazioni di MeMaw, in cerca del¬la Prima Chiesa Battista Primitiva, e lungo strada riuscii a dare una bella occhiata all'East Side. Vidi parti che non ave¬vo mai visto, e mi resi conto di quanto fossi lontano dal tipo di vita che dominava lì. Oltre a case decenti c'erano case senza elettricità, case diroccate e cadenti, con le pareti tenu¬te su a forza di pali, e nei cortili sul retro c'erano toilette al¬l'aperto e tinozze arrugginite nelle quali era stata bruciata spazzatura mai raccolta, perché i furgoni della nettezza ur¬bana non sempre arrivavano lì.
Bambini neri con occhi ancora più neri e abiti luridi se¬devano in cortili di sabbia cotta dal sole ed erbacce sifilitiche, guardandoci passare senza entusiasmo.
Era quasi mezzogiorno, e uomini in età da lavoro vagava¬no per le strade come cani in cerca di ossa, e alcuni si radu¬navano davanti alle vetrine dei negozi, con un'aria solitaria e disperata, e ci guardavano passare con la stessa mancanza d'entusiasmo dei bambini.
"Uomo, odio questi spettacoli," sbottò Leonard. "Qual¬cuno di quei figli di puttana dovrebbe avere voglia di lavo¬rare, no?"
"Per lavorare devi avere un lavoro," dissi.
"Però devi anche volerlo," disse Leonard.
"Stai dicendo che quelli non lo vogliono?"
"Sto dicendo che troppi di loro non lo vogliono. L'uomo bianco li tiene ancora attaccati alle sue tette, solo che loro non muovono un dito e stanno ad aspettare le briciole come cani, e quando gliele lanciano le prendono, e stanno lì con le mani in mano e vogliono solo che l'uomo bianco faccia qualcosa di più."
"Forse l'uomo bianco è in debito con loro," provai a con¬trobattere.
"Può darsi, però puoi fare il barbone oppure puoi tirare su le chiappe e cominciare a vederti come una persona, non come un bastardo che deve vivere di avanzi. Io ho sempre lavorato, Hap. Nei roseti o come manovale oppure ad alle¬vare cani da caccia, e a quanto mi risulta non ho mai preso i soldi dell'elemosina solo perché sono nero, e nemmeno mio zio li prendeva."
"Quasi tutti quelli che prendono i soldi dell'elemosina pubblica sono bianchi, Leonard."
"È vero, e mica mi piacciono nemmeno quei figli di put¬tana. A meno che tu non sia paralitico o ti trovi in un mo¬mento difficile, non ci sono scuse."
"Un minuto qui le cose vanno male perché è la parte nera della città, e un minuto dopo apri la bocca per dire che è colpa dei neri. O l'uno o l'altro."
"No. Non esistono sensi unici, Hap. Ogni moneta ha due facce, e a volte gli stessi problemi hanno due risposte diver¬se. A questa gente mancano ambizione e orgoglio. Non vo¬gliono fare altro che esistere. Pensano che Dio li debba mantenere in vita."
"E alcuni di loro proprio non hanno lavoro, Leonard, e questa è la semplice verità."
"Alcuni," disse Leonard. "Certi ti racconteranno che per sopravvivere devono vendere droga perché le cose sono messe male, e io ti dico che tutto si può razionalizzare. De¬vo vendere droga, devo vendere me stesso, devo mangiare merda con le mosche sopra. Tu mica sei finito a fare cose del genere. Tu sei cresciuto povero, Hap. Hai mai voluto vendere droga o metterti in strada a farti succhiare l'uccello o magari restartene seduto ad aspettare un assegno?"
"Il governo potrebbe pure spedirmi un assegno, se ne avesse voglia. Però vorrei qualcuno che vada in posta a riti¬rarlo e me lo porti. Magari nemmeno farmi succhiare l'uc¬cello sarebbe poi così brutto, specialmente se qualcuno fos¬se disposto a pagarmi."
"Stronzate. Io ti conosco. Tu hai orgoglio."
"Non tutti hanno avuto la possibilità di coltivare l'orgo¬glio, Capitan SoTutto. Non è che ci nasci. È come con le automobili nuove. Bisogna installare gli optional."
"Già, però c'è gente che gli optional se li va a comperare, e poi li installa con le sue mani. Come tuo padre e mio zio. Da quello che mi hai raccontato, tuo padre non ha avuto una vita facile."
Non l'aveva avuta. Sua madre era morta quando lui ave¬va otto anni, e suo padre lo aveva messo a lavorare nei cam¬pi di cotone, e quando papà non raccoglieva la stessa quan¬tità di cotone di un adulto, suo padre prendeva la frusta. Ri¬cordo, da bambino, mio padre a torso nudo, sdraiato sul pavimento davanti alla tivù dopo una dura giornata di lavoro al suo garage, e sulla sua schiena c'erano sottili solchi bian¬chi, le cicatrici della frusta del caro nonnino. Mio padre non sapeva né leggere né scrivere. Non perdeva mai una giorna¬ta di lavoro. Non si lamentava mai. E morto col grasso d'au¬tomobile su mani e viso. Sono contento di non avere mai conosciuto mio nonno. Sono contento che sia morto prima che nascessi io.
"Però avevo ugualmente dei vantaggi, Leonard. Io sono bianco. Anche i bianchi conciati peggio, la spazzatura dei bianchi, hanno avuto una situazione di partenza migliore delle minoranze."
"Le minoranze sono una cosa. Le scelte un'altra. Vai un po' a vedere quanti orientali vivono dell'assistenza pubblica. Non ne troverai molti."
"Vai un po' a vedere quanti di questi orientali hanno an¬tenati che erano di proprietà dei bianchi e sono stati venduti come schiavi. Francamente, Leonard, penso che qui ci vo¬glia una citazione dalla Bibbia. Non giudicare se non vuoi es¬sere giudicato. Più o meno."
"Già. Be', ho una citazione anch'io. Se decidi di prenderlo in culo, lo prenderai in culo."
"In quale Bibbia si trova?"
"La Bibbia di Leonard."
Dopo questo scambio, chiusi la bocca e meditai. C'era una parte di verità in quello che diceva Leonard, ma alla fin fine, secondo me, non esiste nessuno di più sgradevole e rompicoglioni dell'uomo che si è fatto da sé. E nessuno di più ammirevole.
Leonard mi disse di svoltare a destra e io obbedii, e dal fondo stradale squarciato passammo su una liscia strada in cemento che aveva sui due lati dolci eucalipti e noci ameri¬cani dai grandi rami. Il sole traeva dagli alberi ombre blu co¬me lividi e le depositava sulla strada, e dietro gli alberi, su entrambi i lati, c'erano case carine e non troppo costose, con marciapiedi molto puliti.
Leonard guardò le case e disse: "Visto? Qui non c'è nes¬suno che viva in mezzo alla spazzatura e ciondoli in giro per la strada."
"Lavorano tutti, Leonard."
"Esattamente quello che intendevo."
"Ricordami di ucciderti nel sonno," dissi.
Dopo un po' gli alberi finirono, e restò solo la luce acce¬cante del sole e sulla destra un paio di acri di terreno, e sul terreno un parcheggio e una chiesa bianco candeggina, e sul davanti un'insegna in bianco e nero che diceva PRIMA CHIESA BATTISTA PRIMITIVA. MINISTRO IL REVERENDO HAMIL FITZGERALD.
Dietro la chiesa c'era una semplice casa in legno vernicia¬to di blu, con un prato ben tenuto. Un irrigatore spruzzava acqua sull'erba e su diverse aiuole circolari, delimitate da mattoni. Sul sentiero d'accesso c'era una Chevrolet blu del¬l'anno prima, lavata di fresco, e accanto un piccolo autobus azzurro e bianco con la scritta PRIMA CHIESA BATTISTA PRIMITIVA su un fianco.
Il bus pareva piuttosto vecchio, e alcuni dei finestrini po¬steriori avevano compensato al posto del vetro. Secondo me, a grattare per bene la vernice azzurra e bianca, sotto si sarebbe trovato il giallo di un bus scolastico; uno di quelli che chiamavano "piccoli bus", e che usavano per portare a scuola i bambini ritardati.
Infilai il parcheggio e spensi il motore.
Leonard disse: "Vedo una chiesa e mi viene da pensare che di solito ai neri si insegna ad accettare la loro miseria confidando in Dio. È una cosa che mi fa cagare."
Non dissi niente. Scendemmo dal camioncino, e Leonard guardò l'insegna della chiesa e disse: "Mica riesco a capire la storia del Primitiva. Che cazzo significa? Vanno tutti in giro con le lance?"
"Leonard," replicai, "tu sei prevenuto. Quando troviamo il reverendo, forse è meglio se parlo io."
"Un bianco?" disse Leonard. "Non credo proprio. Fidati, lo so io come intortarmi un tipo come il reverendo. Sono cresciuto qui, non te lo dimenticare. Se sono costretto a sta¬re al gioco, conosco le regole."
Ci incamminammo a fianco della chiesa, verso la casa. Dietro c'erano erba verde e un campo da gioco che si apriva sul cortile laterale. L'aria sapeva di erba tagliata e di profu¬mo di fiori.
Dal retro della chiesa veniva un suono, un martellare rit¬mico, così ci fermammo ad ascoltare quello e la voce dell'irrigatore che sputacchiava acqua, e nel giro di pochi secondi avevamo capito tutti e due cosa fosse quel suono, perché anche noi lo avevamo prodotto in passato.
Era il rumore dei pugni che colpiscono un punching ball, veloce e ritmico, dolce e competente.

16

Il suono veniva da un edificio lungo e basso sul retro della chiesa. Dal punto in cui ci trovavamo in quel momento, potevamo vedere che la chiesa era molto più grande di quanto sembrasse dalla strada. Ci dirigemmo verso il suono.
La porta dietro era aperta; entrammo e percorremmo un corridoio, seguendo le orecchie. Arrivammo a una porta chiusa sulla destra, e il suono veniva da lì. Aprii la porta e guardai dentro e sentii l'aria condizionata e fu un piacere.
Era una palestra, piccola ma carina. Il pavimento era li¬scio e lucido e c'era un cesto da basket sul fondo, e a ridos¬so di una parete dei sedili da gradinata. In un angolo della palestra era appeso un punching ball, e chi gli stava tirando pugni era un nero a petto nudo, in calzoncini blu e scarpe nere da pugile. Era sulla quarantina, alto circa un metro e settantacinque, con spalle forti e pelle sudata e capelli grigi tagliati corti. Pareva robusto, anche se un po' troppo grosso di fianchi, ma lo stomaco era solido come una ruota da ca¬mion, e i muscoli delle braccia si tendevano e scattavano a ogni colpo. Si muoveva veloce, da vero esperto, e il pun¬ching ball cantava sotto i suoi pugni.
Restammo lì un attimo a guardarlo, ammirati, poi lui fece una pausa, fermò il punching ball con una mano, lasciò an¬dare il fiato, girò la testa e ci vide.
"Posso fare qualcosa per lor signori?" chiese, e cominciò a togliersi i guantoni.
Lo raggiungemmo e lui gettò i guantoni e ci furono stret¬te di mano e presentazioni. Saltò fuori che era il reverendo Fitzgerald in persona, niente di meno.
"Mi sembra piuttosto in gamba," gli dissi.
"Guantoni d'Oro da ragazzo," disse il reverendo, ma non a me. Stava studiando Leonard. "Insegno a boxare ad alcuni ragazzi del quartiere. Ci conosciamo?"
"Non credo," disse Leonard.
"Signor Fitzgerald," mi inserii, "stiamo cercando un uo¬mo che a quanto ci risulta lavora qui. Illium Moon."
"Illium?" disse lui. Usò le mani per togliere sudore dal petto, poi le ripulì sui calzoncini. "Non lo vedo da giorni. Qui fa qualche lavoretto ogni tanto. È in pensione, non vuo¬le impegni fissi. Si sceglie da solo gli orari. Io gli do qualche soldo. A volte dà una mano coi programmi per i ragazzi. Fa da assistente agli allenatori di pallavolo e baseball."
"E guida anche un bibliobus," dissi.
"Giusto," disse lui. "Ma non per la chiesa. Quello è un progetto suo. Ne ha tanti, di progetti."
"Quando lo ha visto per l'ultima volta?" chiese Leonard.
"Non so," rispose Fitzgerald. "Una settimana o due fa. Voi due non avete l'aria degli sbirri."
"Non lo siamo," dissi. "Abbiamo solo bisogno di trovarlo per una faccenda personale."
"Sul serio?" chiese Fitzgerald.
"Era amico dello zio di Leonard. Vorremmo semplice¬mente parlargli. Sa dove vive?"
"In campagna. Dalle parti di Calachase Road. A essere sincero, non ne sono del tutto certo. Andiamo nel mio uffi¬cio."
Seguimmo Fitzgerald fuori dalla palestra, nel corridoio, fino a una stanzetta a pannelli di legno con una scrivania e i dipinti religiosi che ci si potevano aspettare: Gesù sulla cro¬ce, Gesù battezzato da Giovanni Battista, un tizio che lotta¬va con un angelo. Sulla scrivania, Fitzgerald aveva uno di quei vecchi posacenere di creta, tipo quelli che si fanno ai campeggi estivi. Era verde scuro e tutto crepato e io avevo una mezza idea su quel posacenere, e pensai di usarla per riscaldare l'atmosfera. "Lo ha fatto suo figlio?" chiesi.
"Non sono sposato," disse lui. "Per la verità, l'ho fatto io da ragazzo. Per mio padre. Sedetevi."
Alla faccia dell'atmosfera. C'erano due poltroncine in pel¬le davanti alla scrivania, e un'altra dietro. Fitzgerald prese posizione dietro la scrivania, e io e Leonard inforcammo le poltroncine che restavano. La mia doveva avere il perno rot¬to e non si muoveva, mentre quella di Leonard funzionava benissimo. Lui si mise a ruotare lentamente da sinistra a de¬stra. Gli toccava sempre la roba migliore.
Per un momento restammo ad ascoltare il ronzio del con¬dizionatore. Fitzgerald giunse le mani. Aveva una faccia cor¬diale. Il tipo di faccia alla quale raccontare i tuoi problemi. "Giusto come parte del mio lavoro, posso fare una domanda a voialtri ragazzi?"
"Sicuro," disse Leonard, "ma le spiacerebbe non chiamar¬ci ragazzi? Non è che io vada troppo per il sottile, ma gli an¬ni passano e mi riesce difficile immaginarmi in calzoncini corti."
Fitzgerald sorrise. "Va bene. È un'abitudine. Con noi sa¬cerdoti va sempre a finire che chiamiamo tutti ragazzo, o fi¬gliolo, o figliola. Ma la domanda era questa: voi siete cri¬stiani?"
"Be', è stato lei a metterci in angolo," disse Leonard. "E la risposta è no. Per tutti e due."
Fitzgerald mi guardò per una conferma. Io annuii, dissi: "Già. E non per offendere, reverendo, ma non siamo venuti qui a discutere di religione. A noi serve solo trovare Illium Moon."
"Vi ho già detto tutto quello che so sul posto dove vive," disse Fitzgerald. "Non sono mai stato a casa sua. So solo dove si trova in linea generale."
Non gli credetti. Secondo me non si fidava delle nostre ragioni, e non avrebbe dato l'indirizzo di Illium a due tizi che non conosceva, oltrettutto due infedeli. Una reazione ri¬spettabile, però volevo sempre sapere dove abitasse Illium Moon. Stavo meditando un approccio quando all'improvvi-so Fitzgerald puntò l'indice su Leonard. "Aspetti un minuto. Non mi pareva di conoscerla, ma c'è qualcosa che mi ha colpito. Il cognome. Pine? È il nipote di Chester Pine?"
Leonard gli assicurò di sì.
"Ho sentito parlare di lei," disse Fitzgerald.
"Le voci girano," disse Leonard. "E anche i giornali."
"La sua è una famiglia che ha problemi," disse Fitzgerald.
"Può dirlo forte," disse Leonard. "Ma non per nostra scelta. E in effetti, se parliamo di famiglia, tolto o aggiunto qualche cugino piuttosto lontano e molto noioso che perso¬nalmente preferirei togliere, l'unica famiglia che mi interessi sono io. A parte Hap qui."
"Che sembra un parente molto lontano," disse Fitzgerald, con un sorriso.
"Non riuscivamo a tenerlo alla larga dalla candeggina," ri¬batté Leonard.
Fitzgerald mi guardò e io gli sorrisi, col tipo di sorriso che rivolgi a qualcuno quando vuoi fargli capire che sai che il ti¬po che sta con te si considera molto in gamba, ma tu ti li¬miti a tollerarlo.
Fitzgerald riportò gli occhi su Leonard. "Anche suo zio era svelto di lingua. Come lei. Non mi piaceva."
"Una dichiarazione onesta."
"Ogni tanto veniva qui con Illium. Ho avuto con lui qual¬che sgradevole conversazione."
"Su cosa?" chiese Leonard.
"Su Dio e sulla religione," disse Fitzgerald. "Argomenti sui quali aveva un atteggiamento piuttosto arrogante."
"Zio Chester era fatto così, sì," ammise Leonard.
"Le assicuro che io non auguro del male a nessuno," dis¬se Fitzgerald, "ma pare che il Signore abbia chiuso la partita con suo zio."
"Non ho sentito il tono cristiano che mi sarei aspettato," disse Leonard. "Per Dio, lei mi sembra un po' troppo male¬dettamente contento."
"Preferirei che lei non pronunciasse il nome del Signore invano," disse Fitzgerald. "Specialmente nella Sua casa."
"E io preferirei che lei non facesse insinuazioni maligne su mio zio," ribatté Leonard.
"Sinceramente," replicò Fitzgerald, "non intendevo essere tanto brusco. Chiedo scusa."
Leonard non rispose. Restò a studiare la faccia del reve¬rendo. Intervenni io: "Reverendo, non siamo venuti qui per litigare, e proprio non capisco come ci siamo finiti. Abbiamo un paio di domande da farle. Tutto qui, poi toglieremo il di¬sturbo."
"Ma non stiamo litigando," disse il reverendo. "Vi sto so¬lo suggerendo, con tutto il rispetto, di non usare quel tipo di linguaggio qui, e sto chiedendo scusa per ciò che ho detto. A volte sono troppo zelante. Se vedi le cose che vedo io, senti le storie che sento io, ti viene voglia di imbarcarti in una crociata, di fare qualcosa per il marcio che c'è là fuori. Di aprire il mondo a Dio."
"Va bene," disse Leonard. "Scuse accettate. E io mi scuso per il mio linguaggio. Non perché pensi che abbia importan¬za, ma perché la chiesa è sua."
"Come preferisce vederla," disse il reverendo. "Senta, per suo zio... Mi lasci aggiungere qualcosina in più. Non sono contento di quello che gli è successo. Volevo solo far notare che tutti noi prima o poi dobbiamo essere giudicati dagli oc¬chi del Signore. Non soltanto suo zio, anche lei e me. Sto solo suggerendo che dovremmo sforzarci di riuscire a resta¬re nella luce del Signore senza dover socchiudere gli occhi. Non intendevo dire quello che è parso a lei. O forse c'era una certa amarezza da parte mia. Suo zio era un uomo mor¬dace, e svelto con le battute. Sembrava nutrire un odio spe¬ciale per la religione."
"Gli dava fastidio l'ipocrisia," disse Leonard. "Non la re¬ligione."
Il reverendo Fitzgerald rifiutò di abboccare. Aveva un to¬no molto cordiale quando disse: "È insolito che suo zio e Illium Moon fossero tanto amici. Il signor Moon è molto re¬ligioso. Molto coinvolto nelle attività della chiesa. Special¬mente quando hanno a che fare coi giovani. E da quello che ho letto sui giornali..."
"Non creda a tutto quello che legge sui giornali," disse Leonard.
"Molto bene," concluse Fitzgerald. "Lo terrò presente. Sa, stavo cercando di ricordare cosa ho sentito sul suo con¬to, e adesso mi è tornato tutto in mente."
"Spero si tratti di complimenti," disse Leonard.
"A quanto ho sentito, lei è omosessuale e lo ostenta," dis¬se Fitzgerald.
"Non porto cappellini da donna e tacchi alti e non studio l'arte di disporre i fiori, se è questo che intende," disse Leonard. "Però non sto nemmeno nascosto sotto una sedia in cucina."
"È orgoglioso della sua omosessualità," dichiarò Fitzgerald.
"Non devo renderne conto a lei."
"No. Non deve renderne conto a me. È al Signore che deve renderne conto. Io non ho niente contro di lei. Sto so¬lo dicendo che la sua via non è la via del Signore. Conosce la Bibbia, signor Pine?"
"Hap e io citavamo la Bibbia proprio venendo qui."
"Conosce la storia di Sodoma e Gomorra?"
"Certo," rispose Leonard. "È l'allegoria dei froci preferita dai battisti. Mi vengono i brividi tutte le volte che la sento. Il che accade piuttosto spesso. Mi piace soprattutto quando la moglie di Lot viene trasformata in una statua di sale."
"Se conosce la storia, cerchi di impararne qualcosa, signo¬re. Lot incontrò gli angeli del Signore ai cancelli di Sodoma e li portò a casa sua per un festino, e la casa venne subito circondata da omosessuali che volevano conoscerli."
"Conoscerli significherebbe fotterli, giusto?" chiese Leo¬nard.
Fitzgerald sbatté le palpebre un paio di volte ma finse di non sentire e andò avanti. "E gli omosessuali si raccolsero attorno alla casa di Lot e gli chiesero di portare fuori gli an¬geli e consegnarli alla folla, e gli angeli resero cieca la folla. A lei questa sembra tolleranza per gli omosessuali, signor Pi¬ne?"
"Perfetto," disse Leonard. "Non è arrivato alla statua di sale, però ha lasciato fuori della roba interessante. Ad esem¬pio il fatto che Lot, per voler proteggere quegli angeli che non avevano bisogno di protezione, ha offerto alla folla le sue figlie. Proprio il padre esemplare che vorrei avere io. 'Ehi, ragazze, abbiamo questi ospiti e i froci se li vogliono scopare, ma, cavolo, sono angeli e non hanno ancora finito i petti di pollo, così mando voi al loro posto. Giù le mutan¬dine e fuori.'"
"Lei ha una scelta di frasi infelice, signor Pine," riprese Fitzgerald. "Il suo problema non è dissimile da quello che aveva suo zio. E per essere onesti, da quello che avevo io. Sì, anche i sacerdoti possono avere una crisi di fede. Ma col tempo la verità mi si è fatta chiara. Quello che lei sta facen-do è quello che facevo io. Lei sta cercando un Dio che operi a livelli umani. Se lo scordi. Dio ha stabilito la legge, e la legge esiste, e non sta a noi metterla in discussione. Non im¬porta che appaia giusta o no ai nostri occhi. È la legge, e tutto comincia e finisce lì."
"Il problema in discussione al momento non è la religio¬ne," dissi, "e noi non volevamo sollevarlo."
"È sempre il problema," replicò Fitzgerald. "Signor Pine, sia orgoglioso oggi, perché quando lascerà il mondo della carne e incontrerà il suo Creatore e sarà scaraventato negli ardenti pozzi di lava dell'inferno, l'orgoglio non le servirà. La logica non le servirà. La legge è la legge."
"Adesso so perché chiama primitiva questa chiesa," disse Leonard.
Io pensai: Vai così che entriamo nelle sue grazie, Leonard. Questo sì che è giocare bene le carte. L'unico modo per fare un'impressione peggiore sarebbe stato entrare a calzoni ca¬lati sventolando l'uccello.
"Il peccato è un atto primitivo," disse Fitzgerald. "Le no¬stre convinzioni basilari sono quelle che le ho illustrato. Non vanno discusse, perché sono la legge e la legge è fatta da un Giudice più saggio e più potente di noi. Col tempo, nell'al¬dilà, comprenderemo il Suo giudizio. E se no, non spetta a noi disquisirne. Nostro compito è obbedire alla legge di Dio. Semplicissimo. E se mai c'è stato un momento in cui abbiamo avuto bisogno della legge di Dio, è oggi. Guardi a cosa sta arrivando il mondo. Lasci perdere il mondo. Guardi qui. Abbiamo un tremendo problema di droga proprio qui a LaBorde, Texas. Specialmente qui nella zona nera. Ragazzi che si iniettano veleno nelle vene. Bambini che si prostitui¬scono per i soldi e la droga. Lo sa che molte madri della no¬stra comunità nera non sono sposate? Che i loro figli sono illegittimi?"
"Ho sentito questa voce, sì," disse Leonard.
"Loro non lo vedono come un peccato, signor Pine. Il mondo dice che è tutto a posto. La fornicazione è accetta¬bile. Quelle ragazze, in realtà solo bambine di tredici e quattordici anni, hanno prodotto ragazzini concepiti nella lussu¬ria e nati dalla bile del peccato. E chi si prenderà cura di quei bambini? Delle bambine che li hanno partoriti? Che razza di futuro avranno? Bambini nati da bambine."
"Qui c'è bisogno di soluzioni pratiche," spiegò Leonard. "Non di dosi maggiori di religione. Il trucco sono lezioni sul controllo delle nascite e sulla prevenzione delle malattie."
"Questo non fermerà il peccato," disse Fitzgerald. "L'at¬to in sé. Il sesso al di fuori del vincolo matrimoniale. L'asti¬nenza è quel che occorre."
"Va bene anche quella," disse Leonard. "Ma per chi non ha intenzione di astenersi c'è bisogno di preservativi."
Fitzgerald inspirò a pieni polmoni, ma quando parlò era paziente come sempre. "Il problema è esattamente questo, signor Pine. Tolleranza. Troppa tolleranza. Ci saranno puni¬zioni per chi pecca contro Dio. Il che comprende anche lei. Gli omosessuali non entreranno nella Casa del Signore. Chieda a Dio di perdonarla per le perversioni che ha com¬messo con altri uomini. Affidi a Lui la sua vita."
"Io non mi metto in ginocchio davanti a nessuno," disse Leonard.
Fitzgerald spostò l'attenzione su di me. "E lei, signor Collins?"
"Ehi, io ho mica fatto niente."
"Bisogna credere per essere salvati," disse Fitzgerald.
"Ci penserò su," dissi. "Chi lo sa? Potrei tornare."
Fitzgerald sorrise cortese. "A quanto pare, non posso es¬sere di grande aiuto a lor signori, nella zona della spiritualità e nemmeno per le indicazioni. Vi ho già detto tutto quello che so dell'indirizzo del signor Moon. Da qualche parte nei paraggi di Calachase Road." Fitzgerald appoggiò le mani sulla scrivania come per alzarsi. "E adesso vorrei proprio tornare al mio allenamento."

Fuori, dove il prato della chiesa si fondeva con quello della casetta blu, c'era un omaccione. Era alto più di un me¬tro e ottanta, portava una tuta di cotone grigio, e la sua pel¬le era nera come il peccato e tutto in lui era grande e muscoloso e rotondo, quasi fosse fatto di macigni sapientemen¬te accostati. Anzi, forse ce n'era abbastanza per chiedere una concessione mineraria.
Stava spostando l'irrigatore, e ad ogni suo movimento piccoli macigni gli correvano su per le braccia e si gonfiava¬no in alto e poi tornavano di nuovo giù. Aveva la bocca aperta e ci stava studiando. Da lontano, pareva avesse denti molto piccoli. Non gli importava niente che l'acqua dell'irrigatore lo stesse annaffiando dalla testa ai piedi. Ci guardò andarcene, e forse restò a scrutarci anche dopo che gli gi¬rammo la schiena.
Nel parcheggio dissi: "È andata bene, non ti pare? È raro vedere due persone che fanno amicizia così in fretta."
"Già," disse Leonard. "Scommetto che io e Fitzgerald an¬dremo assieme al prossimo raduno dei battisti."

17

Essendo il clima del Texas dell'est quello che è, quan¬do rientrammo a casa dalla chiesa, pronti a mangiare, il tempo cambiò. Prima che riuscissimo a spalmare la senape sui panini al prosciutto, la luce calda e accecante del sole venne risucchiata da nubi esagitate giunte da ovest. Che scesero nere e cattive e portarono con sé lampi alla se¬gno di Zorro e cappellate d'acqua.
Continuò a piovere sodo per due giorni. La pioggia mar¬tellò il tetto, spruzzò in giro la ghiaia del sentiero, portò alla luce l'argilla rossa che stava sotto, la fece scorrere in muli¬nelli color sangue sotto la veranda e sui due lati della casa. La terra si raccolse nelle erbacce bruciate dal sole come san¬gue coagulato su una testa coi capelli tagliati a spazzola.
La pioggia era talmente insistente che gli uccelli smisero di nascondersi. Li sentivi cantare e cinguettare fra un'esplosione e l'altra dei lampi e tra i rombi di tuono. Mica un bel segno. Significava che avrebbe continuato a piovere, e pro¬babilmente per un bel po'. Fuori, a parte i momenti in cui i lampi squarciavano il cielo, c'era lo stesso buio della mezza¬notte in punto di una notte senza luna.
Il secondo giorno di pioggia, nel tardo pomeriggio, alzai gli occhi da La gang dell'aldilà che stavo leggendo a lume di lampada e guardai il profilo serio di Leonard incorniciato dalla finestra del soggiorno. Si era portato lì una sedia e ave¬va assunto la posizione del Pensatore: gomito sul ginocchio, pugno sotto il mento. Scrutava la pioggia, e io restai a guar¬dare quando la lingua biforcuta di un fulmine blu-bianco leccò l'aria sopra e oltre le sbarre e per un attimo striò di blu la pelle di Leonard. Dentro casa, l'aria si impregnò dell'odore di zolfo dell'ozono. I miei capelli e la peluria crepi¬tarono come cellophane surriscaldato.
Leonard mi guardò, accigliato. "Hai detto a Florida di re¬stare a casa?"
"Sicuro, ma lei mi dà ascolto quanto te. Niente."
"Allora dovrebbe arrivare fra un po'?"
"Se non è finita in un fossato."
Prima, annoiato a morte e stufo di lavorare sul pavimento con Leonard, avevo sfidato il temporale con uno smilzo om¬brello per correre da MeMaw. Avevo usato il suo telefono per chiamare Florida in ufficio.
Era saltato fuori che lei aveva da lavorare più o meno quanto una suora in un bordello. Voleva venire a trovarci e cenare con noi. Avevo cercato di dissuaderla, visto il tempo, ma lei aveva risposto che sarebbe venuta lo stesso, e con una Pepsi gigante. Chissà se era una specie di bustarella.
Avevo lasciato la casa di MeMaw dopo essere stato alle¬gramente costretto a mandare giù una fetta di pane di gran¬turco affogata nel burro, ed ero tornato guadando l'acqua alta fino alla caviglia che allagava la strada e cercava di farmi cadere.
Dopo essermi asciugato, guardai l'orologio e calcolai quanti minuti fossero passati dalla telefonata con Florida. Feci quattro conti, e per via della pioggia raddoppiai il tem¬po normalmente necessario per spostarsi dal suo ufficio alla casa di zio Chester.
"Se non arriva tra qualche minuto, vado a cercarla," dissi.
"Così poi io dovrò venire a cercare te," disse Leonard. "Col brutto tempo, guidi di merda."
"Ti vedo cupo, Leonard, amico mio. Qual è il problema?"
"Ho mandato tutto a puttane con Fitzgerald."
"Secondo me ti stai sottovalutando. È stato più vicino a un disastro nucleare."
"È che non sopporto i merdosi come quello lì. Uno che si nasconde dietro la Bibbia e la Chiesa, che giudica tutti quel¬li che non la pensano come lui."
"Dovevi solo tenere a freno la lingua per cinque minuti e avremmo saputo dov'è la casa di Illium. Secondo me quello sa benissimo dove vive Illium, però non si fidava del tutto di noi. Dopo avere saputo quello che ci interessava, se il reve¬rendo non ti piace, potevamo smerdargli le finestre o cagargli sul prato. A me è sembrato che fosse piuttosto gentile. Se non altro sta cercando di affrontare i problemi della sua co¬munità, e probabilmente la religione è meglio di niente. Il fatto è che tu cercavi la lite."
"Mettimi al muro, va bene?"
"Non è la prima volta che mandi tutto in vacca. Me ne vengono in mente un sacco."
"Grazie, Hap."
"Seriamente, socio. Il reverendo non è mica l'unico a sa¬pere dove abita Illium. Non è che quello si nasconda. Appe¬na smette di piovere, lo troviamo."
Una decina di minuti dopo sentii un'automobile arranca¬re nella pioggia. Andai ad aprire la porta. La pioggia era co¬me una tenda di perle d'acciaio tutt'attorno alla veranda. Percuoteva il terreno col rumore di un diluvio di cuscinetti a sfera. Un vento così freddo non si era sentito dall'autunno precedente.
Vedevo i fari di un'auto sul sentiero d'accesso, e nient'altro. Si spensero, sentii sbattere una portiera. Un ombrello nero e un impermeabile giallo inzuppato d'acqua fendettero la cortina d'acciaio, e Florida era sulla veranda, col suo viso bellissimo che mi guardava da sotto il cappuccio. Sorrise e capovolse l'ombrello e lo scrollò e lo chiuse e lo appoggiò al¬la parete accanto alla porta.
"Ciao," disse.
"Dovevi restare a casa."
"Anch'io sono contenta di rivederti."
Entrammo.
"Ciao, Leonard," disse Florida.
"Florida," disse Leonard. "Speravo non uscissi con que¬st'acqua. Eravamo preoccupati."
Florida si tolse l'impermeabile, e io lo appesi allo schiena¬le di una sedia a fianco della porta. Indossava stivali con le stringhe, jeans e una camicia a scacchi con le maniche arro¬tolate fino ai gomiti. Sotto l'impermeabile aveva una borsa di tela. La mise sul sedile della sedia, la aprì e tirò fuori una Pepsi da tre litri e un sacchetto dei biscotti alla vaniglia che piacciono a Leonard.
"Hap mi ha detto che ci vai matto," disse a Leonard.
Leonard si alzò a dare un'occhiata. "Ha ragione. Grazie." La abbracciò.
"Lo sai che mi spiace molto per come stanno le cose," disse lei.
"Sì," disse Leonard. "Grazie."
"È la prima volta che non ti vedo con un vestito completo addosso, Florida," dissi.
"Stavo facendo pulizie in ufficio," spiegò Florida. "Mi pa¬reva lurido. Prepara una cioccolata o qualcosa di caldo, Hap. Non credo di essere pronta per la Pepsi."
"O caffè o tè o latte leggermente cagliato riscaldato sul fornello," dissi. "Scegli tu."
"Il latte cagliato dev'essere ottimo," disse Florida, "ma prenderò il tè."
Preparai il tè, ed eravamo seduti in cucina a bere e man¬giare biscotti invece di cenare, quando sentii arrivare un'al¬tra automobile.
"Vuoi andare a vedere tu?" disse Leonard. "Io sto bene qui vicino ai biscotti."
"Sissignore, buana Leonard. Io corre."
Andai alla porta e la aprii: una grossa forma in impermea¬bile nero stava salendo i gradini della veranda. Somigliava un po' allo Spirito del Natale Futuro. Spinse indietro il cap¬puccio dell'impermeabile e mi sorrise.
Era il tenente Hanson.
"Entri," gli dissi.
Hanson si tolse l'impermeabile. Io lo presi e accompagnai dentro il tenente. Appesi l'impermeabile a una sedia. L'ac¬qua gocciolò sul pavimento. Dissi: "Ehi, gang, guardate chi c'è."
"Porcaccia," esclamò Leonard, scrutando nello spazio aperto fra cucina e soggiorno, "se non è Sherlock Holmes. E ha fatto tutta questa strada sotto l'acqua solo per venirci a trovare. Posso avere la sua pistola, signore?"
"No," disse Hanson, "però può portare per un po' il mio distintivo, se promette di non perderlo."
Hanson e io entrammo in cucina, e Hanson scoccò un sorriso grosso così. "Ciao, Florida."
"Ciao, Marvin." Anche Florida aveva un sorriso piuttosto ampio.
"Voi due vi conoscete?" chiesi.
"Ci siamo incontrati una volta o due," disse Hanson. "Ho arrestato un paio di suoi clienti." Hanson indicò con un cen¬no la tazza dalla quale Florida stava bevendo. "Caffè?"
"Tè," disse Florida. E sorrise. Con un certo calore, mi sembrò.
Offrii a Hanson la mia sedia, gli versai il tè e presi la mia tazza, quindi andai ad appoggiarmi al bancone della cucina e guardai lo sbirro guardare Florida con la coda dell'occhio. A dire il vero, guardai anche Florida guardarlo. Mica potevo dare torto a Hanson: lei era bella. E non potevo dare torto nemmeno a lei: Hanson era imponente e carismatico e sim¬patico, anche se grosso e brutto e tanto vecchio da poter es¬sere suo padre.
Hanson scrutò il tè e disse: "Avete del latte? A me piace berlo col latte."
"Hanno solo latte cagliato," disse Florida.
"Non è che mi piaccia troppo," disse Hanson. "C'è dello zucchero?"
"Vuole anche una rosa nel vasetto per fare scenografia?" chiesi.
"No," disse lui, "ma accetterò un po' di quei biscotti."
Leonard spinse verso Hanson il sacchetto dei biscotti, con una certa riluttanza, mi parve. Per la verità, già non gli aveva fatto tanto piacere dividerli con Florida e me.
Hanson mandò giù un paio di biscotti e sorseggiò il tè.
"Ha domande per noi, tenente?" chiese Leonard.
"No," rispose Hanson.
"Allora ha qualcosa da comunicarci?" riprese Leonard.
"Sì," disse Hanson. "Ho pensato che vi facesse piacere conoscere i primi risultati degli esami medici."
"Terribilmente amichevole da parte sua," disse Leonard.
Hanson scrollò le spalle. "Sono divorziato. Vivo solo. E non ho niente di meglio da fare."
"Come mai non non riesco a credere che lei sia qui per questo?" chiese Leonard.
"Perché lei è un tipetto molto sospettoso," disse Hanson. "C'è di mezzo la casa di suo zio. Forse anche suo zio. Il ca¬davere lo ha trovato lei. Mi sembrava semplicemente giusto tenerla informata."
"Non faccia caso a Leonard," intervenni. "È cresciuto in un fienile."
Hanson bevve un sorso di tè e corrugò la fronte. Posò la tazza. Abbiamo fatto venire un esperto di medicina legale da Houston. Si è riportato le ossa a casa, però ha dato un'occhiata qui, ci ha fatto un rapporto preliminare. Dopo un esame più approfondito potrebbe modificare un tantino le idee, comunque il tizio dice che lo scheletro nel baule ap¬partiene a un bambino dai nove ai dieci anni, e che proba¬bilmente la morte è stata provocata da un grave trauma alla testa. Dopo di che, il corpo è stato tagliato per infilarlo in qualcosa di piccolo."
"Il baule," disse Leonard.
"No," disse Hanson. "Inizialmente, il corpo si trovava in una scatola di cartone. Sulle ossa c'erano fibre di carta e re¬sidui di un tipo di colla che si trova nel cartone. Posso avere dell'altro tè?"
La sua tazza era piena a metà, ma versai lo stesso.
"Sta dicendo che il corpo è stato messo in una scatola di cartone, e poi la scatola è stata messa nel baule?" chiese Leonard.
Hanson scosse la testa. "No. Nel baule ci sono pochi re¬sidui di cartone. Se l'avessero messo lì, ce ne sarebbero di più. Quello zucchero?"
Portai a Hanson la zuccheriera e un cucchiaino.
"Non ha un cucchiaino più lungo? Questo è troppo corto per mescolare bene."
"Non mi meraviglia che lei sia divorziato," dissi. "E no, non abbiamo cucchiaini da tè."
Hanson versò lo zucchero nella tazza. "Il corpo è stato messo nella scatola di cartone in un primo tempo, ma quan¬do le ossa sono state messe nel baule, il cartone si era per la maggior parte disintegrato. Alcune fibre di cartone sono rimaste sulle ossa. Un'altra cosa. L'argilla sulle ossa non col-lima col tipo di terreno sotto la casa di suo zio. Il terriccio che è stato trovato sul fondo del baule."
"Allora il corpo è stato spostato da qualche altra parte e messo nel baule?" chiese Leonard. "E prima di essere ri¬mosso, era rimasto nel terreno per un po' di tempo."
"Così pare," disse Hanson. "Ma questo non scagiona suo zio. A volte un assassino uccide in un posto, sposta il cada¬vere, lo seppellisce, poi lo sposta di nuovo. Se suo zio era malato di mente, potrebbe essere stato tanto attaccato al corpo da volerlo vicino. Così è andato a riscavarlo e se l'è portato qui."
"Zio Chester non era malato di mente," replicò Leonard. "E comunque, quella non è roba da malati. È roba da vol¬tastomaco."
"Non sto dicendo niente di concreto su di lui," disse Hanson. "Sto solo ipotizzando. Non sappiamo nemmeno se sia stato un delitto a sfondo sessuale. Potrebbe essere stato omicidio puro e semplice."
"Ha importanza?" chiesi.
"Sì," rispose Hanson, "ne ha. Se è un crimine sessuale, la cosa potrebbe non essersi fermata a una sola vittima. Se è un omicidio puro e semplice, magari una morte accidentale per una reazione di rabbia, tutto potrebbe finire qui."
"L'esperto di medicina legale può stabilire dallo scheletro se il bambino è stato violentato?" chiesi.
"No," disse Hanson. "Almeno non in fase preliminare, e dubito anche in seguito. Resta poco su cui lavorare. Ha sta¬bilito che il bambino è stato ucciso otto o nove anni fa."
"Però le riviste nel baule indicano un crimine a sfondo sessuale, no?" chiese Leonard.
"Puntano in quella direzione," disse Hanson.
"Indicazioni sulle riviste?" chiesi. "Sono rimaste sepolte per lo stesso tempo del corpo? A occhio e croce, direi che se fosse così avrebbero fatto la stessa fine del cartone."
"Domanda intelligente," ammise Hanson. "Sono state ag¬giunte al baule in cattive condizioni, ma non tanto cattive da essere state dissepolte assieme al cadavere quando il corpo è stato spostato dal terreno al baule. Non sono rimaste sepol¬te quanto il cadavere."
"Quindi non avete trovato prova che questo scheletro sia collegato ai bambini scomparsi?" chiesi.
"No. A parte le prove indiziarie. Lo zio di Leonard che parla di bambini assassinati, lo scheletro che viene ritrovato qui. Bambini che nel corso degli anni spariscono dal quar¬tiere. Nient'altro, in effetti."
"Tu cosa ne pensi, Marvin?" chiese Florida.
"Non so," rispose Hanson. "Pare un puzzle, e io li odio. Cazzate alla Agatha Christie. Non riesco a capirci mai un cavolo."
"C'è speranza di poter vedere i fascicoli su quei bambini scomparsi?" disse Leonard.
"Non credo," disse Hanson. "A cosa servirebbe?"
"Leggendoli, e conoscendo mio zio come lo conoscevo, magari potrei trovare qualcosa che getti luce."
"Ne dubito," disse Hanson.
"Molto coscienzioso," disse Leonard. "Però mi pare che a lei servirebbe tutto l'aiuto che può trovare. Anzi, magari sta addirittura chiedendo aiuto."
"Be'," disse Hanson, "l'inconscio è un brutto figlio di puttana, ma il mio conscio sa benissimo che non è il caso di mettere in mezzo un civile. Per essere onesti, dopo tanto tempo, se qualcuno riuscirà a scoprire esattamente cosa sia successo qui, o anche solo chi sia il bambino, sarà un caso. È così che di solito vengono risolte faccende del genere. Per caso. Se mai vengono risolte."
Hanson depositò la tazza e si alzò dal tavolo. "Signori. Deliziosa signora, alla quale chiedo di nuovo scusa per la mia rozzezza e stupidità passate. Devo andare. Ho del lavo¬ro da fare."
"Stasera?" chiese Florida.
"Tutte le sere. O il lavoro, o la televisione, così mi porto gli incartamenti a casa e lavoro."
"Considerato che quasi tutte queste faccende vengono ri¬solte per caso," gli domandai, "ha qualche importanza quel¬lo che fa?"
"Pochissima," rispose Hanson. "Maledettamente poca."

18

Quella notte, con la pioggia che batteva sulla casa e un lenzuolo umido di sudore sui nostri corpi, tenni Florida fra le braccia, ed ebbi la triste, sognante sen¬sazione che per quanto forte potessi stringerla, presto lei sa-rebbe sgusciata via.
La baciai sul naso, e lei aprì gli occhi e sbatté le palpebre e le abbassò di nuovo. "Non riesci a dormire?" chiese sotto¬voce.
"No," dissi.
"Arrapato?"
"Non proprio."
Lei riaprì gli occhi e mi guardò. "È la pioggia."
"Sarà."
"Cosa c'è?"
"Come stiamo noi due, Florida?"
"Cosa?"
"Come siamo messi? Tu e io?"
"Siamo OK."
"Parlo sul serio."
Scivolò via dalle mie braccia e si sollevò su un gomito. Al buio, non vedevo bene il suo viso. "Siamo messi come sia¬mo sempre stati messi."
"E sarebbe?"
"Non vorrai diventarmi complicato."
"Può darsi."
"Non stiamo assieme da tanto tempo."
"Per me è abbastanza."
"Il cliché vuole che siano le donne a volersi sempre spo¬sare."
"Mica ho parlato di sposarci."
"Ma se stiamo insieme sul serio, non è questo che inten¬devi?"
"Suppongo di sì."
"Tutti gli uomini che sono usciti con me erano pronti a mettermi l'anello al dito. Qualche appuntamento, e soprat¬tutto se arrivano ad assaggiare un pezzo del mio culo, zac!, vogliono stringere il nodo."
"Di questa parte non voglio sentir parlare... Appuntamen¬ti. Uscire assieme. È questo che stiamo facendo?"
"Sì. Usciamo assieme. Scopiamo anche, ma a volte que¬sto rientra nell'uscire assieme."
"Io credevo che facessimo l'amore."
"Oh, Hap. Non metterla sul tecnico."
"Scopare è tecnico. Fare l'amore è come lo scorrere di un fiume. Una nube in cielo."
"Dove cavolo hai sentito queste stronzate?"
"Mi pare che lo dicesse il monaco bisteccone di Kung Fu allo stronzetto. Mai visto? David Carradine non ne sapeva un cazzo di karaté."
"Roba di altri tempi. Io ho ventinove anni."
"Non mi prendi per il culo?"
"Ti sembro più vecchia?"
"No. Pensavo solo che fossi più vecchia. Insomma, sei av¬vocato e tutto quanto."
"Hap, a volte funziona così. Qualcuno va al liceo, lo fini¬sce, va all'università, nel mio caso l'università di legge, e poi comincia subito a lavorare. Qualcuno."
"C'è un significato recondito in tutto questo?"
"Un po'. Hap, tu mi piaci. Parecchio. Sei divertente. Sei un uomo per bene. Non sei brutto, e sai fare l'amore. Però non mi sembri una scommessa vincente."
"Stai riducendo tutto alle prospettive economiche. Che fine ha fatto l'amore?"
"Io non sono innamorata... capiscimi, non completamen¬te. Ma potrei anche esserlo. Innamorata. Però..."
"Però cosa?"
"Mia madre si è sposata per amore. Mio padre si è spo¬sato per avere una madre. Dopo che sono nata io, lui ha deciso di lavorare quando ne aveva voglia. Aveva fatto l'uni¬versità, Hap. Era intelligente. Era un uomo dolce. Però è andata a finire che mia madre si è messa a lavorare per mantenere lui e me, e ogni tanto, nella stagione giusta, mio padre andava a lavorare in un frutteto dalle parti di Winona. Guadagnava quello che gli bastava per comperare un carto¬ne o due di birra, poi tornava a casa. Io voglio bene a mio padre. Però mia madre ha fatto una vita da schifo. Vale la pena, per amore?"
"Chi ti dice che io me ne starò a pancia all'aria a guardare le repliche in tivù e scolarmi birra?"
"Qual è la tua professione, Hap?"
"In genere lavoro tra roseti e affini."
"Quella non è una professione. È un impiego tempora¬neo. O dovrebbe esserlo. Tu hai passato la quarantina, giu¬sto? E al momento vivi alle spalle di Leonard..."
"Lui lo ha fatto con me per un po'. Ehi, senti, io pago le bollette. La mia parte la faccio. Non sono tuo padre."
"Forse. Però a me piace l'ambizione. Mi piace la gente che al mattino si alza e ha uno scopo. Un vero scopo. Io ne ho uno. Voglio che anche l'uomo che amo ne abbia uno."
"Io sono sempre lì ad aspettare l'ora di colazione."
"Ti nascondi troppo dietro le battute."
"E tu non ascolti abbastanza il tuo cuore."
"Il mio cuore non è furbo come la testa, Hap. E chi ti di¬ce che io non possa trovare da amare un uomo con delle ambizioni, uno scopo? Per essere onesta, forse il mio cuore non mi racconta quello che tu vorresti fargli sentire."
"Io non sono senza ambizioni. Sono solo momentanea¬mente deragliato, tutto lì. Salterà fuori qualcosa..."
"È esattamente questo che intendo, Hap. Tu aspetti il colpo di fortuna. Aspetti di vincere la lotteria. Aspetti che qualcuno di meraviglioso bussi alla porta. Non te ne vai fuo¬ri a cercare di far succedere qualcosa."
"Per adesso ho soldi a sufficienza."
"Per adesso. E non è un problema di soldi, credimi. È lo scopo. Le ambizioni. Tu preferisci andare alla deriva."
"E magari per un bell'avvocato nero non è il massimo avere come marito uno che lavora nei roseti. E io sono anche bianco. Buttiamo sul tavolo anche questo aspetto e se¬zioniamolo. Da quando... usciamo assieme, come dici tu, in effetti non siamo mai usciti assieme una sola volta. Sul serio. Tu vieni qui o a casa mia, e mangiamo e andiamo a letto e facciamo l'amore, e al mattino te ne vai. Tu non vuoi andare al cinema con me, o fuori a cena, perché qualcuno potrebbe vederti con un bianco."
Lei si girò, si coricò sulla schiena e guardò il soffitto. Si tirò il lenzuolo sotto il mento. "L'unica cosa che ho detto è che ho qualche problema."
"Allora, in fin dei conti, si riduce tutto al fatto che sono bianco, sono pigro, non ho soldi, e potrei avere un lavoro migliore."
"Detto così sembra spietato. Non volevo. Non proprio. Se queste cose mi dessero realmente fastidio, non sarei qui." Florida ruotò su un fianco, mi passò un braccio attor¬no alla vita. "Sei davvero innamorato di me, Hap, o sei in¬namorato dell'idea di essere innamorato?"
Ci riflettei su. "Hai ragione. Sto esagerando. Forse sono stato solo per troppo tempo, come diceva quella canzone degli Young Rascals."
"Chi?"
"Roba di altri tempi. Come Kung Fu."
"Vuoi che me ne vada?" chiese lei.
"Con quest'acqua?"
"Vuoi che me ne vada domattina e non torni più?"
"No, ovviamente."
Restammo zitti per un po'. Poi lei disse: "Hap, anche se io sono una stronza razzista e castrante, una che ti vuole mi¬gliore di come sei, una che nella vita vuole farti concludere qualcosa di più che limitarti a ciondolare, pensi di poter tro¬vare nel tuo cuore, nel tuo ridicolo uccellino da uomo bianco, la forza di farlo rizzare per me? In altre parole, mi vuoi scopare?"
Mi girai su un fianco, le baciai la fronte, il naso, e alla fi¬ne le labbra. Lei allungò una mano e mi toccò.
"Sarebbe questa la tua risposta?" chiese.
"Sicuro," dissi. "Io sono senza pudore."

19

Nel mattino grigio mi svegliai col profumo di Florida nelle narici e il segno della sua testa sul cuscino. Non l'avevo sentita andarsene. Pioveva ancora.
Dopo colazione, Leonard e io ci rimettemmo al lavoro sul pavimento. Il picchiare dei nostri martelli non era molto più forte del battito della pioggia sul tetto.
Andammo avanti a sprazzi fino all'ora di cena. Poi la pioggia si fermò, e pure noi. Uscimmo e prendemmo l'auto di Leonard e andammo a mangiare in un ristorante messica¬no, poi decidemmo di fare un salto a Calachase Road, per vedere di trovare la casa di Illium Moon. Se non avesse fun-zionato, avremmo fatto quel che bisognava fare: saremmo andati in giro fino a rintracciare qualcuno che sapesse dove abitava Illium.
C'era ancora luce, perché qui nel Texas dell'est le giorna¬te estive sono lunghe, però il sole colava giù sull'orlo del pianeta, e ad ovest il cielo pareva un capillare esploso. L'aria era piuttosto fresca, con un buon odore di terra bagnata.
Calachase Road è una lunga strada in terra battuta, con qualche zona qua e là di asfalto e ghiaia. Serpeggia tra pini e querce, e d'estate l'aria è impregnata del profumo degli al¬beri, e il sole della prima sera che filtra tra i rami colora di smeraldino scuro le ombre sulla strada.
Andammo in giro per un po', incontrammo case e roulot¬te, ma nessuna cassetta postale col nome di Illium Moon. Alla fine parcheggiammo davanti a una schifosa baracca che dava l'idea di poter volare via con una scorreggia. Era grigia e malconcia, con un tetto che aveva in tutto quasi una deci¬na di assicelle. Il resto del tetto era catrame, latta e chiodi.
Le altre assicelle che avrebbero dovuto stare sul tetto erano malamente ammucchiate su un lato della casa, in compagnia di un palanchino e un martello. Un paio di zanzariere pen¬zolavano dalle finestre, attaccate a un unico chiodo. La ve¬randa e la porta d'ingresso erano nere per la carezza del fuoco. Sulla veranda c'era un bel mucchio di lattine di birra che non erano nemmeno umide, e aveva piovuto per quasi tre giorni di fila. Per la maggior parte, birra Budweiser.
Su un lato della casa c'era un uomo. Era nero e calvo e tutto ossa e portava una maglietta di un colore che non si troverebbe mai in un catalogo di stoffe e calzoni cachi, di un rosso argilla alle ginocchia. I mocassini un tempo neri erano rossi d'argilla e grigi di chissà cosa. Aveva un badile e stava scavando, e in un modo o nell'altro riusciva a farlo senza staccarsi da una lattina di birra. Alzò la testa quando arri¬vammo.
Scendemmo dall'auto e gli andammo incontro. Il grigio chissà-cosa delle sue scarpe venne reso immediatamente identificabile dal puzzo. Liquame.
Stava proprio scavando una fognatura coi fiocchi.
"Salve," disse Leonard.
L'uomo ci guardò. Aveva la faccia macerata nel sudore. Aprì la bocca per rispondere, e si scoprì che gli mancavano tutti i denti anteriori. E per via di quel fatto, pareva che par¬lasse con un calzino in bocca. "Merda, uomo. Dovevate mi¬ca venire domani?" Si tirò su e gonfiò il petto in fuori. "Lo so che avete visto le lattine, ma qui c'è mica di algolizzati."
Algolizzati?
"Lei ci ha confusi con qualcun altro," dissi. "Noi voglia¬mo solo chiedere indicazioni."
"Non siete mica di Azione Comunità?" chiese quello.
"No," gli risposi.
"Puttanaccia, meglio così," disse lui. "Le lattine le devo far sparire."
"Cos'è Azione Comunità?" chiesi.
"Vengono a vedere se mi devono dare un'aggiustata alla casa. Roba da poveri. Mi sa che se tiro giù ancora un po' di assi dal tetto, me lo devono aggiustare tutto, mica rappez¬zarlo come hanno fatto l'ultima volta."
"So mica," disse Leonard. "Dubito che quelle dieci o venti assicelle possano servire a una cicca. Io lascerei stare. Però quelle assicelle di copertura lì le sposterei in cortile, fuori vista."
"Gli dirò che è stato il vento," bofonchiò l'uomo. "Ha ti¬rato vento di brutto, con l'acqua. Naturalmente, le ho tolte io prima che pioveva."
"E anche paranchino e martello hanno un'aria sospetta," dissi.
"Li infilo sotto casa," disse lui. "Ehi, secondo voi, se arri¬va uno di Azione Comunità e mi vede un tetto del genere, si metterebbe mica a ripararlo?"
"Io dico che sferrerebbe subito un attacco frontale a quel figlio di puttana," disse Leonard.
"Come pensavo," disse l'uomo. "Però mi dispiace avere tolto le assi prima che pioveva. Mi è colata giù acqua. Mi ha fottuto mezza tivù. È colata nel videoregistratore e s'è fot¬tuta pure quello, però l'ho comperato al Wal-Mart. Prendo¬no indietro tutto e te ne danno un altro. Una volta ho usato un paio di scarpe per un anno e le ho riportate. Però ti devi tenere lo scontrino."
"Sta scavando una fognatura nuova?" chiesi.
"Naaa," disse l'uomo, succhiando l'ultimo sorso dalla lat¬tina di birra e gettandola a terra. "Sto scavando nella vec¬chia. Ho perso i denti."
"Ah," disse Leonard.
"Ieri sera ero così sbronzo che ho vomitato nel water, e m'è cascata la dentiera e ho tirato l'acqua. Sarà qui da qual¬che parte, se non è finita nella fossa settica. Se è nella fossa, mi sa che sono fottuto."
"Mi spiace per i denti," dissi.
"Mica sono scappati," disse lui. "Non abbiamo più tirato l'acqua, e così mi sa che sono qui da una parte o dall'altra. Non è che c'è tanta pressione."
Guardai giù. Era una specie di pozzo nero: un tubo di terracotta sbrindellata, e liquame grigio. Le mosche pareva¬no gioielli.
"Mica che voglio comperare denti nuovi," disse l'uomo. "E bisogna che li trovo subito, così posso tirare l'acqua. La stronza di mia moglie ha cagato un paio di volte anche se sapeva che non si può tirare l'acqua. Se entri in casa, muori dal tanfo."
Guardai la casa, e pensai che un po' di puzzo di merda avrebbe potuto darle un certo charme.
"Volevamo sapere di uno che potrebbe essere un suo vi¬cino," dissi.
"Merda," borbottò l'uomo, "questi vicini qui sono tutti dei maledetti stronzi fottuti. Casa nostra ha preso fuoco e quegli stronzi non ci hanno preparato nemmeno uno stufato o una torta."
"Che fegato," disse Leonard. "Senta, questo tizio potreb¬be anche non abitare troppo vicino. Sta su questa strada."
"La strada è lunga, uomo."
"Di nome fa Illium Moon," dissi. "Ha un bibliobus."
"Quello stronzo," esclamò l'uomo. "Merda, ha avuto il coraggio di venire qui a vedere se volevamo leggere dei libri. Gli ho detto che ho già 'Tv Guide', e mia moglie la sa leg¬gere, e allora a che cazzo mi serve un libro?"
"Vedi 'Tv Guide' e muori," disse Leonard.
"Quello stronzo è matto," ribadì l'uomo. "Viene qui un'altra volta e vuole sapere se voglio aggiustare casa mia col suo legno vecchio. Dice che noi due assieme possiamo fare il lavoro. Io ci cago su. Quelli di Azione Comunità ti portano il legno nuovo, e il lavoro lo fanno loro."
"Sa dove viva questo tale?" chiesi.
Lui puntò l'indice. "Giù di lì. A un pezzo di strada da qui."
"Di pezzi di strada ne abbiamo già fatti," dissi, "e non sappiamo cosa stiamo cercando."
"Ha il furgone, quello dei libri, davanti a casa," disse l'uo¬mo. "È bianco. E ci sono pure mucchi di assi vecchie come il mio culo e un sacco di robaccia sotto dei teloni. Se non l'avete vista, avete mica fatto tanta strada."
"Grazie," dissi. "Buona fortuna con Azione Comunità, e spero che lei trovi i suoi denti."
"Se li trova," domandò Leonard, "cosa ne fa?"
"Li sciacquo e me li metto," rispose l'uomo.
"Come immaginavo," disse Leonard.
"Io farei qualcosa di più di un semplice risciacquo," dissi. "Dovrebbe spruzzare un po' di Clorox per uccidere i germi, poi lavarli con l'alcol e poi con l'acqua."
"Mica mi lascio incantare da queste stronzate," ribatté l'uomo. "Mai visto un germe in vita mia, e mai stato malato un giorno."
"Ricevuto," dissi.
Lo lasciammo lì, a infilare il badile nel liquame.
In auto, Leonard disse: "Lo so che non è una bella cosa da dire, con uno così ignorante e tutto quanto, però magari, se questo mondo ha un po' di culo, quel povero stronzo morirà stanotte nel sonno. L'unica cosa che sa fare è pro¬durre stronzi."
"Già," aggiunsi. "Con dentro i suoi denti."

20

Rosse dita di luce solare erano tutto ciò che restava del giorno, e artigliavano gli alberi all'orizzonte. Quando trovammo il posto che ci era stato descritto dall'uo¬mo senza denti anteriori, il tramonto sanguinava ancora, ma a est era spuntata la luna piena, perfettamente visibile, e del colore di una noce di cocco fresca.
L'uomo senza denti anteriori aveva ragione. Non aveva¬mo percorso abbastanza strada. Illium Moon viveva in una casetta tipo cottage ai margini della strada. La riconoscem¬mo dai cumuli di materiale, probabilmente legno, coperti da teloni e dalla cassetta postale sul davanti, con MOON scritto a lettere nere.
Per arrivare alla casa bisognava infilarsi in un buco in un recinto di filo spinato, superare un fossato chiuso da una griglia e scendere un sentiero fangoso. La casa era bianca, con tetto e persiane blu, e su un lato c'era una tettoia che ospitava una Ford bianca del '65, pulitissima. Il cortile era impeccabile. Sul lato opposto c'erano diversi mucchi molto ordinati di qualcosa di grosso, ricoperto da teloni verdegrigio. Del bibliobus non c'era traccia.
Parcheggiammo accanto a una delle cataste col telone e scendemmo. Afferrai il lembo del telone più vicino e lo sco¬stai. Sotto c'erano assi disposte su una piattaforma di pino. Le assi erano vecchie, usate, come aveva detto l'uomo senza denti, però in ottime condizioni e prive di chiodi.
Bussammo alla porta e aspettammo, e nessuno rispose. Girammo attorno alla casa, ma non c'era nessuno. Sul retro, ci incamminammo in un grande pascolo. L'erba era stata mietuta da poco. Nell'aria c'era un odore dolciastro, come di succo di frutta. A sinistra, in fondo, c'era un piccolo fienile, grigio per gli anni e la pioggia. Dal punto in cui ci era¬vamo fermati potevamo vedere un piccolo stagno di acqua marrone, con una grande quercia su un lato, e più dietro una lunga linea scura di pini. La luce del sole che colava fra i rami era un fuoco di segnalazione in agonia.
Mentre raggiungevamo il granaio, le cavallette saltavano davanti ai nostri piedi. La porta era socchiusa ed entrammo e chiamammo Illium, ma nessuno rispose. Dentro faceva un caldo asfissiante. C'erano un trattore e altri attrezzi e qual¬che balla di fieno di bassa qualità. Non sapevo di preciso quanto terreno possedesse Illium, però non avevo l'impres¬sione che avesse del bestiame. Probabilmente raccoglieva solo un po' di fieno, niente di più.
Sotto il trattore c'erano due mucchietti di roba coperta da teloni. Guardai sotto un telone. Pigne di giornali accata¬state su una piattaforma di legno. Sotto l'altro telone c'era¬no cartoni sistemati in perfetto ordine; i cartoni conteneva¬no lattine d'alluminio e bottiglie di plastica. Nella mia testa risuonò una specie di ticchettio, come un alfabeto Morse, ma durò poco, e non riuscii a decifrarlo.
Tornammo alla casa, sulla veranda.
"Niente bibliobus," dissi, "e niente Illium."
"Lasciamogli un messaggio," propose Leonard. "Gli spie¬ghiamo che sono il nipote di Chester. Vediamo se si mette in contatto."
Leonard andò all'auto, prese taccuino e matita. Tornò da me e appoggiò il taccuino alla porta e fece per cominciare a scrivere. La porta si spalancò alla pressione.
"Apriti sesamo," disse Leonard.
Sbirciai dentro. Una casa ordinarissima. I mobili del sog¬giorno non erano nuovi, ma ben tenuti. Le pareti bianche dovevano essere state ridipinte da poco. Non c'era moquet¬te, però c'erano tappetini dai colori sgargianti. Il divano blu e marrone aveva sui braccioli coperture protettive in plasti¬ca. Sul divano c'era una scatola di cartone.
Chiamai: "Illium."
Nessuna risposta.
"Dovrebbe chiudere a chiave," dissi.
"Forse non era in grado di farlo," disse Leonard.
Lasciai la frase in sospeso, dopodiché Leonard entrò, e io con lui.
"Per una cosa del genere potremmo finire col culo in pa¬della," dissi, ma non ci fermammo.
Facemmo il giro della casa. La cucina di Illium era ancora più pulita di quella di MeMaw e sapeva di disinfettante al mentolo. La camera da letto era molto ordinata, col letto fatto. Il bagno era immacolato, a parte la vasca: attorno al bordo c'era un cerchio di sabbia, con qualche frammento di fieno umido. Tornammo in soggiorno.
Guardai nella scatola sul divano. Conteneva riviste. Vidi immediatamente, dalla prima copertina, che si trattava dello stesso tipo di riviste che avevamo trovato nel baule di zio Chester. Le presi. Sotto c'era altro materiale della stessa razza. Però queste riviste non erano vecchie come quelle nel baule di zio Chester. Davano l'impressione di essere state esposte all'umidità, ma erano in buone condizioni.
"Oh-oh," dissi.
Anche Leonard le stava guardando. "Già. Oh-oh."
Sotto le riviste c'era un mucchietto di capi d'abbigliamen¬to. Calzoni. Camicie. Biancheria intima. Tutta roba da bam¬bini.
"Un oh-oh più grosso," dissi.
"Non so," riflette Leonard "Arriviamo qui e Illium non c'è e ha lasciato la porta aperta e sul divano c'è una scatola di riviste porno con bambini e vestiti per bambini. Mi pare maledettamente comodo."
"Niente dice che Illium non possa essere stupido."
Rimettemmo tutto a posto, uscimmo e chiudemmo la porta. Con le falde della camicia ripulii la maniglia, e restai a chiedermi cosa avessi toccato in casa, a parte le riviste.
"Guardiamo sotto la tettoia," disse Leonard.
Per prima cosa controllammo la vecchia Ford. Niente.
"Sarà in giro col bibliobus," dissi. Poi mi voltai e, in un angolo sotto la tettoia, su delle scaffalature, vidi dei grossi barattoli di vetro, e dentro i barattoli ritagli di giornale. An¬che se non ero tanto vicino da poter vedere, indovinai subi¬to cosa fossero.
Leonard li notò. Andò a prendere uno dei barattoli, svitò il coperchio, ne estrasse un po' di ritagli e me ne passò una manciata.
Avevo indovinato. Buoni omaggio.
Leonard li rimise nel barattolo e riavvitò il coperchio. "In¬tanto che diamo un'occhiata," disse, "perché non guardiamo sotto quei teloni?"
Controllammo tutto. Sotto alcuni teloni c'erano assi di le¬gno, e sotto altri parti meccaniche di ogni possibile tipo, dal¬le tubature idrauliche ai pezzi di ricambio per automobile. Illium era una formichina ordinata. Forse usava quella roba per aggiustare casa sua e l'automobile, per cercare di fare il bravo vicino di casa con gente come Niente Denti dividen¬do la sua roba con loro.
E nel tempo libero tagliava fieno e lo vendeva e lavorava per la chiesa e andava in giro col bibliobus, e la sera, dopo una dura giornata di lavoro al servizio della gente, leggeva riviste da pedofili con una mutanda da bambino calzata in testa. Sono cose che possono succedere.
Tornammo all'automobile di Leonard e appoggiammo la schiena alla carrozzeria e intrecciammo le braccia e restam¬mo a guardare il cielo diventare sempre più scuro, e la luna più chiara. Cominciavano a saltare fuori le stelle. In distan¬za, lo stagno risucchiava il chiarore lunare e dava all'acqua il colore di un caffè macchiato.
"Ma che cazzo c'entrano i buoni omaggio?" disse Leo¬nard. "All'inizio ho pensato che zio Chester fosse diventato scemo come una foca, ma adesso non so. Anche questo qui li raccoglie."
"Odio parlarne," dissi, "ma un'altra coincidenza sono le riviste porno con bambini qui e a casa di tuo zio. E c'è il fat¬to che si conoscevano, ed erano buoni amici. Un casino di prove indiziarie. Le cose cominciano a mettersi sul brutto per il parente di un certo caro amico, e lo dico con tutto il dovuto rispetto."
Leonard restò zitto per un po'. Poi disse: "Chi se ne fre¬ga. Io ho fiducia in zio Chester. Non ha ucciso nessuno, di certo non un bambino. Se qualcuno andava a rompergli le palle, avrebbe anche potuto ucciderlo, ma un bambino, impossibile. E non leggeva merda porno come quella. C'è una risposta a tutto questo. Non me ne fotte niente di quello che sembra."
Lo speravo, per il bene di Leonard. Abbassai gli occhi sul terreno e guardai i rivoli d'acqua inargentati dalla luna che si erano raccolti nelle impronte di pneumatici davanti a noi. I pneumatici del bibliobus, probabilmente.
Dov'era il furgone? Dov'era Illium? Il muschio cresce davvero solo sul lato nord degli alberi, e come mai gli Houston Oilers continuavano a perdere tutte le partite?
Scrutai meglio le impronte. Proseguivano sull'erba, nel campo di fieno. Erba e fieno erano stati schiacciati, ma rico¬minciavano a tirarsi su. Il che significava che dovevano esse¬re stati pestati non molto tempo prima, ma a causa di un paio di giorni di pioggia continua non erano ancora riusciti a rialzarsi. La giornata era stata calda; il tempo sufficiente per un inizio di ritorno alla normalità. Le impronte erano state lasciate tre, quattro giorni prima.
"Guarda qui," dissi.
Leonard e io ci accoccolammo per guardare più da vici¬no. La sera era luminosa, si vedeva bene. E sapevamo anche cosa stessimo vedendo. Metteteci in una città, e non riusci¬remo nemmeno a fermare un taxi; ma eravamo cresciuti tut¬ti e due in mezzo ai boschi, avevamo imparato a inseguire e cacciare fin da quando la nostra testa arrivava solo alle palle di un cane della prateria, quindi sapevamo leggere i segni. Animali, o umani. L'impronta di una zampa o di uno pneu¬matico erano la stessa cosa, per noi.
Ci rialzammo e ci incamminammo nell'erba, poi nel fieno falciato. Un altro paio di giorni, ed erba e stoppie di fieno si sarebbero rizzate completamente, e non ci sarebbe più stato un sentiero da seguire. A meno di sapere dove guardare.
Non occorreva un esperto di nanotecnologia per capire dove portassero le impronte. Arrivavano alla riva dello sta¬gno, e c'erano impronte più profonde nel punto in cui il vei¬colo era caduto in acqua. Nel fango sulla riva c'erano un paio di libri rilegati, e la luna fluttuava sulla superficie mar-rone dello stagno come un piattino d'argento. Sentivo l'odo¬re dell'acqua: fango e pesci e pioggia recente. Un uccello notturno lanciò un richiamo da un albero, in lontananza, e qualcosa guizzò sull'acqua e creò cerchi, frammentando l'immagine della luna.
Leonard scese in riva all'acqua, raccattò uno dei volumi e tornò su.
"Non dirmelo," gli dissi. "Il vecchio e il mare."
"No. Come riparare il caminetto."
"Avranno fatto a botte per poterlo leggere."
Guardai lo stagno, poi guardai Leonard. Lui disse: "En¬trerei in acqua, ma ho qualche problema con la gamba."
"Mi pareva fosse a posto."
"A volte mi dà rogne."
"Adesso, ad esempio?"
"Giusto."
"Mi pare logico. Senti, lo sappiamo che è lì dentro."
"Per quello che ne sappiamo, Illium ha affogato nello sta¬gno un vecchio trattore, oppure un ubriaco è arrivato fin qui in auto ed è affondato nello stagno convinto che fosse un parcheggio."
"Sicuro," dissi.
Mi sbottonai la camicia e la lanciai a Leonard, mi bilan¬ciai su un piede e tolsi calzino e scarpa, cambiai piede e ri¬petei l'operazione. Mi tolsi calzoni e mutande, appallottolai il tutto e lo lanciai a Leonard, poi misi i calzini nelle scarpe.
"Non ti imbarazza spogliarti davanti a un finocchio?" chiese Leonard. "Per quel che ne sai, potrei buttarmi sul tuo bocciol di rosa."
"Adoro provocare."
Scivolai in riva allo stagno e cominciai a entrare in acqua.
Leonard disse: "Hap, stai attento, uomo. Non abbiamo ancora finito quel pavimento."

L'acqua era calda in superficie, ma a un metro di profon¬dità era già fredda. Il fondale era in discesa, e viscido. Mi immersi. L'acqua mi coprì la testa; guardai su e riuscii a ve¬dere il chiarore lunare che filtrava dall'alto.
Immergendomi in quel modo, avevo stupidamente smos¬so il fango, che si alzò in una nuvola, come inchiostro di seppia, mi raggiunse, mi circondò, e mi spaventò. Per un at¬timo mi trovai nel buio più totale, poi il fango cominciò a depositarsi e io scesi più in profondità, in cerca del furgone che sapevo avrei trovato.
Qualche metro sotto, l'acqua era meno fangosa, ma più scura. Mi chiesi che cazzo mi avesse spinto a farlo. Avrem¬mo dovuto chiamare gli sbirri, lasciare cercare a loro. Non avrei mai dovuto promettere a Leonard di aiutarlo in quella faccenda. Avrei dovuto andare all'università e trovarmi un vero lavoro. Mi chiesi per quanto tempo Florida si sarebbe ricordata di me, se fossi annegato.
Lo stagno non era molto profondo. Dopo un po', chinan¬domi, riuscii a toccare il fondo con mani e piedi. Avanzai per un po' in quella posizione, sollevando fango; poi mi rad¬drizzai e nuotai in avanti. Avevo bisogno d'aria.
Risalii veloce nel buio, e la mia testa andò a sbattere con¬tro qualcosa di molto solido, e quasi restai senza riserve di fiato. Era come se l'acqua sopra di me si fosse trasformata in pietra.
Virai a sinistra e incontrai una parete, e dalla parete guizzò fuori qualcosa che mi toccò; diedi una spinta coi pie¬di e rimbalzai contro un'altra parete, e anche da lì uscirono cose che si protesero a toccarmi. Strinsi le dita su quelle co¬se, e di colpo me le ritrovai in mano.
I polmoni cominciavano a bruciarmi, e non potevo risali¬re, e non potevo deviare a destra o a sinistra. Ruotai su me stesso e nuotai in avanti e incontrai una barriera poco alta, e sollevai il braccio e toccai qualcosa di morbido. Strinsi la cosa con una mano, e con l'altra toccai qualcosa di diverso.
All'improvviso capii dove fossi e cosa stessi toccando.
Le portiere posteriori del bibliobus dovevano essere aper¬te, quando il furgone era affondato. Si erano spalancate. Questo spiegava i libri in riva allo stagno: erano saltati fuori nel momento dell'affondamento, e per colpa dell'inclinazio¬ne della riva dello stagno, il furgone si era impiantato nel fango con la parte posteriore sollevata, e io senza saperlo c'ero finito dentro. Le pareti che avevo colpito erano le fian¬cate interne del bibliobus, e le cose che erano schizzate via dalle pareti erano libri.
Ciò che la mia destra stava toccando in quel momento era un volante. Da quello avevo capito tutto. Memoria tat¬tile. E il buon senso, la cosa di cui in quei giorni ero più a corto, mi disse cosa stava toccando, con ogni probabilità, la sinistra. Un cadavere gonfio d'acqua. Tastai attorno, in cer¬ca dei contorni di quella che pensavo dovesse essere la fac¬cia. Non riuscii a decifrare molto. Naso, mascella, fronte: la carne era troppo gonfia. Dopo qualche secondo, ne avevo abbastanza. Staccai la mano dal cadavere, ma mi tenni at¬taccato al volante con l'altra.
Stavo quasi per svenire per mancanza d'aria. Nubi nere mi roteavano dentro la testa. Era difficile ricordare che non era il caso di provare a respirare.
Mi spostai in avanti, sopra il sedile; mi infilai tra cadavere e volante. Tastai sul lato del finestrino dell'autista. Era aper¬to. Uscii da lì e schizzai su. Riemersi come un delfino in un acquashow. Il chiarore lunare mi piovve addosso. L'aria era tagliente. Ne ingoiai boccate che mi trafissero i polmoni.
Nuotai fino a riva, dove Leonard stava a guardare. Si chi¬nò, mi tese una mano e mi tirò su. Io tossii, rabbrividii. "La prossima volta, ti tuffi tu."
"C'è il furgone, lì sotto?"
"Sì," dissi. "E secondo me c'è anche Illium Moon."

21

Secondo me dobbiamo andare alla polizia," proposi.
 "Parlare con Hanson."
 "Non ancora," disse Leonard. "Voglio pensarci su." La mia camicia era ancora umida perché mi ero rivestito subito dopo il bagno nello stagno, però lì faceva caldo, non mi dava fastidio. Emanavo un vago odore di acqua stagnan¬te. Eravamo tornati nell'East Side, in un piccolo locale fu-moso per neri che si chiamava Congo Bongo Club, e ci sta¬vamo bevendo una birra. Be', a ben dire, Leonard si beveva una birra. La mia era analcolica. Le servivano anche lì, però sembravano quasi imbarazzati. Il barista, che era anche il cameriere, si era chinato a mettermela sul tavolo come un paziente che consegni un campione d'orina a un'infermiera molto graziosa.
L'illuminazione non era delle migliori. Quasi tutta la luce veniva da insegne al neon rosse e blu sopra il banco, coi no¬mi di marche di birra, e dal bagliore azzurrino del jukebox. Sul fondo del locale c'era talmente buio che uno avrebbe potuto tirare fuori l'uccello per mettersi un preservativo e nessuno se ne sarebbe accorto. E non era nemmeno il tipo di posto che ha una sezione per non fumatori. Il fumo di si¬garette e sigari era talmente denso da poterci appoggiare so¬pra un boccale di birra.
Il locale puzzava di rischio d'incendio. Se esisteva un'uscita posteriore, probabilmente bisognava attraversare un ufficio per raggiungerla. Se scoppiava un incendio lì, e l'ufficio era chiuso a chiave, e la porta d'ingresso bloccata dalle fiamme, potevi dire addio al tuo culo strinato. Comun¬que, la musica del jukebox era grande. John Lee Hooker.
Stavamo cercando di decidere la mossa successiva. O for¬se Leonard stava cercando di deciderla. Io mi stavo chie¬dendo cosa ti fanno gli sbirri se vengono a sapere che hai scoperto un cadavere in uno stagno e non sei andato a dir¬glielo. Ero certo che sull'interrogativo aleggiassero truci conseguenze. Avevo già passato un po' di tempo in galera, e non desideravo un altro soggiorno lì. Nemmeno l'idea di una multa mi faceva impazzire di gioia.
"Ci sono cose che non mi quadrano," disse Leonard, "ma non riesco a mettere il dito sul problema."
Nel bagliore del jukebox, vidi che un nero molto grosso ci scrutava a occhi sgranati da un tavolo. Mandava giù birra come fosse acqua. In effetti, scrutava me, con la stessa at¬tenzione che un bird watcher potrebbe dedicare a un usignolo con due becchi. Mi resi conto all'improvviso di quan¬to fosse bianca la mia pelle. Forse avremmo fatto meglio a comperare una confezione da sei lattine al supermarket.
Non dissi niente a Leonard, perché la minima traccia di intimidazione glielo faceva diventare duro, ma continuai a tenere d'occhio il tizio.
Comunque, non avremmo mai dovuto entrare al Congo Bongo. Con la vecchiaia, a quanto pareva, stavo diventando meno saggio e cauto. Non dovrebbe succedere il contrario? Forse, dopo i quaranta, una specie di pulsante di autodistru¬zione si preme da sé.
"Non sono sicuro che ci fosse un cadavere nel furgone," dissi, sbattendo le palpebre per il fumo. "Mi pare solo pro¬babile, perché di certo la cosa che ho toccato non era un mucchio di libri. Il problema è, se è un cadavere, e se è Illium, perché si trova nello stagno?"
"Era un pessimo autista?"
"L'idea non è al primo posto della mia lista di ipotesi. Sul serio, Leonard."
"Suicidio?"
"A dire il vero, ci ho pensato. Non incazzarti. Lasciami solo sparare una teoria, OK?"
"Spara."
"Diciamo che tuo zio e Illium si sono conosciuti e si sono piaciuti come la merda piace alle mosche. Hanno scoperto di avere qualcosa in comune. Una passione per i bambini, e non per carezzarli sulla testa."
"Me l'aspettavo."
"Diciamo che tuo zio ha ucciso il bambino che stava sotto il pavimento. L'ha ucciso da qualche altra parte e l'ha por¬tato a casa."
"Per giocarci?"
"Sto cercando di essere delicato."
"Il che non significa che non lo pensi."
"Illium e zio Chester scoprono che quel tipo di cosa piace a tutti e due, e a zio Chester fa piacere far vedere a Illium cosa tiene nel baule sotto le assi del pavimento, e si diverto¬no con qualche rivista, e diciamo che, quando tuo zio muo¬re, Illium comincia a sentirsi in colpa... No, diciamo che si sente solo. Insomma, non è mica un club. Non puoi mica andare alla Cooperativa Molestatori di Bambini e trovare un branco di gente come te."
"Per quel che ne so io, non è difficile come pensi tu," mi interruppe Leonard.
"Quindi Illium sente la mancanza di tuo zio. Si stanca di guardare da solo le riviste per fottibambini, di starsene da solo in casa a lustrare la corda del pozzo..."
"Così gli occhi gli si riempiono di lacrime, mette sul diva¬no la scatola di roba pornografica, e gli indumenti da bam¬bini, che magari si è procurato con gli omicidi che ha com¬messo, o con gli omicidi di mio zio se Illium era uno che si accontentava di fantasie, e dice 'Addio, mondo crudele' alla sua scatola di giochini, salta sul bibliobus, si infila diritto nello stagno e si annega."
"È una teoria."
"Puzza, Hap. Puzza come un fottuto cazzo d'asino. Pro¬prio non me la bevo. E cosa c'entrano i buoni omaggio? E hai presente il libro che ho raccolto in riva al lago? Sulla pri¬ma pagina c'era un marchietto identico a quello che c'è nel¬la copia di Dracula che mi ha lasciato zio Chester. Un cerchio nero con un cuore rosso all'interno."
"Adesso è il mio turno di demolire te. Erano amici. È lo¬gico pensare che Illium mettesse quel marchietto ai libri che dava in prestito, e tuo zio ne ha avuto uno."
"Già, e mio zio mi ha lasciato una cassetta di sicurezza che conteneva un libro con quel disegno, e dei buoni omag¬gio, per cui forse queste cose significano più di quanto non sembri. I buoni omaggio parevano un'idea da svitati, prima di trovarli anche a casa di Illium. Io sto cominciando a pen-sare che zio Chester stesse cercando di dirmi qualcosa."
"E ti ha lasciato un quadro," dissi.
"Sì, c'è anche quello," disse Leonard. "E se stava cercan¬do di dirmi qualcosa, perché non lo ha semplicemente la¬sciato scritto bello chiaro? O perché non si è messo in con¬tatto con me per parlarmene? Perché questa storia di un co¬dice? Che cavolo significa?"
"Ho paura che Hanson abbia ragione," affermai. "Questa faccenda comincia a sembrare una stronzata alla Agatha Christie, e io gli indovinelli li ho mica mai saputi risolvere. Mi fanno venire il mal di testa."
"Abbiamo bisogno di miss Marple?"
"Mi sa che sta arrivando," dissi.
Il nero grosso che ci stava guardando puntò diritto sul nostro tavolo. Be', non proprio diritto. Sbandava un po'. Aveva in corpo la quantità giusta di birra. Me lo soppesai, cercai i punti migliori da centrare, nel caso non avesse inten¬zione di discutere di politica o di moda per l'estate.
Si fermò al nostro tavolo e si rivolse a Leonard: "Che caz¬zo ci fai qui con questo muso bianco, fratello? Stai cercando una promozione in ufficio? Questo non è un posto per musi bianchi."
Leonard si protese sul tavolo. "Sta parlando di te."
"Sì?"
"Sì," spiegò Leonard. "Vedi, muso bianco è un termine dei neri per i bianchi, molto offensivo. Vedi, roba tipo muso bianco, stronzo bianco, e pezzo di merda bianco è molto offen¬siva. È come quando i bianchi ci chiamano negri o scimmie nere o rifiuti della giungla."
"Ma va'," dissi io.
Il grosso nero mi fulminò con gli occhi. "Avevi mai senti¬to prima muso bianco, stronzo malcagato?"
"Conduce una vita ritirata," disse Leonard. Poi, rivolto a me: "Stronzo malcagato, Hap, è un termine di uso comune che significa che sei uno stronzo venuto male. Anche se co¬me stronzo sei venuto benissimo, certa gente te lo dice se è incazzata con te o se vuole farti incazzare. Dovrebbe suona¬re come un insulto."
"Capisco," dissi.
"A voi due ciucciacazzi vi conviene piantarla di prender¬mi per il culo!" urlò il nero grosso.
"Ciucciacazzi," mi disse Leonard, "è un termine di uso co¬mune..."
"Piantatela, stronzi!"
Adesso c'era parecchia gente a guardarci. Si chiedevano quanto sangue sarebbe corso. Il jukebox finì l'ultimo pezzo, e nell'aria calò un silenzio che prometteva morte.
Il barista, dal bancone, disse piano: "E dai, Clemmon. Vacci piano. Quei due sono venuti solo a bere qualcosa."
"Io ci vado piano se ho voglia di andare piano," replicò il nero grosso.
Guardai la porta con la coda dell'occhio. Una ventina di passi. Cinque, se ti mettevi a saltare.
"Ehi, amico," dissi, fingendo più sicurezza di quanta ne provassi, "mica ti sto dando fastidio."
"Tu vieni qui a fare culo e camicia coi negri. È questo che mi dà fastidio," disse il nero grosso. "Voi bianchi pezzi di merda ci guardate sempre dall'alto in basso. Tu vieni qui e mi prendi per il culo. Te ne succederanno delle brutte. Scommetto che secondo te io vivo coi buoni dell'assistenza pubblica."
"Non ci avevo pensato," risposi.
"Be', non è vero. Ho il mio giro d'affari."
"Congratulazioni," dissi, "però ti avverto: fatti gli affari tuoi. Perché se fai lo stronzo con me, domani i tuoi parenti si divideranno i tuoi beni materiali."
"E questo che cosa vuol dire?" chiese il grosso nero. "Di che cazzo stai parlando?"
"Ti sta minacciando di stirarti stecchito il culo," disse qualcuno a un tavolo vicino.
"Grazie per la traduzione," dissi.
"Ma prego," replicò l'uomo al tavolo.
E finalmente, il grosso nero afferrò che lo stavano insultando, e il gioco finì. Si lanciò verso me.
Gli immobilizzai la mano con la destra e schizzai su dalla sedia, gli appoggiai il gomito dell'altro braccio dietro la testa e diedi una bella spinta con tutto il mio peso, e la sua testa andò a sbattere contro l'orlo del tavolo, di brutto. Le botti¬glie sul tavolo saltarono per aria e si rovesciarono. Assestai un colpo sul collo del tipo con l'avambraccio, e quello volò giù e finì a sbattere sul mio ginocchio, e si rotolò sul pavi¬mento ed emise un suono come se volesse rialzarsi, ma non ce la fece. Restò raggomitolato a palla, cercando di darsi l'aria di chi sta molto comodo. Per fortuna, era sbronzo.
Leonard si alzò. Un sacco di gente si stava alzando. Sen¬tii, vicino, il clic di un coltello che si apriva. Presi una delle bottiglie cadute e la impugnai per il collo. Una parte del contenuto si rovesciò e mi piovve sulla scarpa. Infilai la ma¬no libera in tasca, trovai qualche soldo e lo misi sul tavolo. Mi sarebbe piaciuto indossare un cappello nero a tesa larga e un poncho, ma dovevo accontentarmi di camicia e calzoni umidi.
Il barista disse, molto sottovoce: "Adesso tagliate la cor¬da, ragazzi."
Mi girai a guardarlo. Era un tizio piccolo, nero come l'in¬chiostro, in camicia bianca e farfallino nero. Il neon sputava pulsazioni di colori sulla sua camicia. Aveva in mano un fu¬cile a pompa a canne mozze, calibro dodici. Non lo impu¬gnava con troppa intensità; lo sfoggiava e basta. Se non era fesso, doveva averlo caricato a pallini. Se ti partiva un colpo, c'era meno rischio di fare fuori troppi clienti innocenti.
"Ce ne stavamo andando," dissi.
"Mi pareva," disse lui. "Non dimenticarti la mancia."

22

Quando arrivammo a casa di Leonard, sul sentiero d'accesso c'era l'automobile di Florida, e lei stava in veranda, sull'altalena. La sera era molto luminosa, e così riuscii a vedere che portava una maglietta con un per¬sonaggio dei cartoni animati, minishorts di jeans, e zoccoloni in legno che parevano delle chiatte in miniatura. Era de¬liziosa come un cuccioletto.
Alla porta accanto era in corso la solita attività di vendita di droga. Sopra tutte le altre, spiccava la voce di Mohawk, alias Strip, alias Melton. Quando si eccitava, le sue corde vocali raggiungevano un tono molto stridulo, come se qual¬cosa di unto si stesse arrampicando su per il suo culo, e lui lo trovasse godurioso.
"Non è un gran posto per una signora, a quest'ora," dissi a Florida.
"Quelli pensano che io stia in casa, ci scommetto."
Tra la posizione dell'altalena e le ombre, era possibile, però continuava a non sembrarmi una buona idea. Gente come i nostri vicini, se si fossero accorti che io e Leonard eravamo fuori e che lei era arrivata, be', potevano decidere di indagare.
"Però mi prometti di non rifarlo un'altra volta, eh?" dissi.
"Promesso."
"Vuoi entrare?" le chiese Leonard.
"No," disse lei. "Ti rubo Hap. Lo porto a fare un picnic."
"Picnic?" dissi. "A quest'ora?"
"È dal tramonto che aspetto," disse lei. "Ho fame. E non me ne frega niente se tu hai appena cenato. Facciamo il pic¬nic, e tu mangerai. Ho preparato tutto io."
"Sissignora."
"Non vorrei essere scortese," disse Florida a Leonard. "Ti rubo Hap e non ti invito, però..."
"Tutto a posto," disse Leonard. Abbassò la testa sul petto e finse di essere triste. "Ho una cena surgelata già pronta. Polpettone di carne, se non sbaglio, e poi c'è una maratona di repliche di Tre cuori in affitto sul canale nove. Non me la perderei mai. E subito prima c'è un'ora di Casa Brady."
Florida ridacchiò dolcissima e Leonard sollevò la testa e sorrise.
Dissi a Leonard: "Parliamo dopo."
"Tanto su un po' di cosucce voglio dormirci sopra," disse Leonard.
"Molto misteriosi, voi due," si inserì Florida.
"Siamo fatti così," disse Leonard. "Il Duo Misteria."
Salii sull'auto di Florida e lei imboccò l'autostrada 7, in direzione est. Io mi protesi sul sedile posteriore e arrancai verso il cesto da picnic, un affare molto serio in vimini, con tanto di manico, e lei disse: "Naa naa."
"Volevo solo sapere cosa si mangia in questo picnic."
"Sorpresa. Mangia e lo scoprirai. Però scommetto che sai già cosa ci sarà per dessert."
"È color cioccolata e dolce e a forma di taco e la tieni sempre in caldo?"
"Mio Dio," disse lei. "L'Incredibile Mister IndovinaTutto. Vieni un po' qui a farmi compagnia, ragazzo."
Mi accoccolai contro di lei. Era dolce e deliziosa. Lei dis¬se: "Cos'è quell'acqua di colonia, Hap? Rana e Stagno?"
Mi scostai. "Puzzo così tanto?"
"Torna qui," disse lei. "Mi sono sempre piaciuti gli uomi¬ni che sanno un po' di rana. Magari mi racconterai come hai fatto a procurarti quest'aroma."
"Magari," dissi, quindi tornai a protendermi verso di lei e la baciai sul collo.
Proseguimmo fino a un'uscita che annunciava una Vista Panoramica. L'idea di una vista panoramica nel Texas del¬l'est, specialmente se uno è stato in Colorado, in qualche posto con vere montagne, è piuttosto ridicola. Significa solo che c'è una collina un po' alta, e nemmeno tanto.
Salimmo, e in cima alla collina c'erano un paio di tavoli da picnic in cemento, un cestino per i rifiuti fermato da una catena, e una grossa catena verniciata di bianco che correva fra i pali che delimitavano l'area.
Scendemmo dall'auto, e io portai il cestino a un tavolo. Florida mi passò un braccio attorno alla vita, arrivammo alla catena e guardammo giù. Se cadevi, ti toccava fare almeno un paio di metri prima di atterrare su un pascolo. Non esat¬tamente una visuale da togliere il respiro. Ma il bello era questo: lì, da quella collina, a puntare lo sguardo avanti di¬ritto, si apriva una grande V nella solita linea di alberi, e si poteva vedere parecchio lontano, e gli alberi in lontananza, specialmente adesso di sera, sembravano montagne blu e porpora, e sopra gli alberi le stelle parevano lustrini versati in un imbuto. E in alto, il cielo era talmente chiaro che avevi l'impressione di poter catturare le stelle con un retino per farfalle. L'aria era tonificante.
La depressione che provavo dopo la sbornia di adrenalina per la scoperta del cadavere nello stagno e il veloce scambio di insulti al bar cominciava a evaporare.
"Carino," dissi.
"Sì, molto," disse lei, e mi strinse più forte. "Da qui si può vedere l'eternità."
"Ci vieni spesso?"
"Ogni tanto. È un posto che mi ha fatto scoprire un vec¬chio boyfriend delle superiori."
"Lascia perdere. Preferisco non sapere."
"Voleva fare l'astronomo," disse lei. "Gli interessavano le stelle."
"Perfetto."
"Be', aveva una teoria o due sui buchi neri."
"Ah ah."
Lei rise. "Non sono mai stata qui con qualcun altro. Non fino a oggi. È un posto che ho sempre tenuto tutto per me."
"Bene," dissi.
Una stella cadente avvampò in cielo e si spense. La salu¬tammo con una selva di oooh e aaah.
Cazzo, che giornata. Una nuotata nudo. Un cadavere. Una zuffa in un bar, e adesso un picnic con una donna bellissima, e una stella cadente. Che cosa poteva succedere, an¬cora? Un incontro con un UFO?
Il cestino da picnic conteneva pollo allo spiedo, insalata di uova, panini al prosciutto e formaggio, e sottaceti e pepe¬roncini e patatine fritte e insalata di patate lesse.
"Un sacco di roba da mangiare," dissi.
"Ho pensato che un vecchio come te dovesse darsi la ri¬carica, dopo."
"Tesoro, se ti guardo, ti giuro che non ho nessun bisogno di corrente."
Mettemmo il cibo su piatti di carta e mangiammo e be¬vemmo tè da un grosso termos. C'era un altro termos col caffè. Finito di mangiare, feci per aprirlo, ma Florida mi fer¬mò. "Dopo il dessert."
Si alzò e si tolse gli shorts, e non portava mutandine. Mi¬se gli shorts sul tavolino da picnic. Scivolò fuori dalla cami¬cia, e non portava reggiseno.
"Stai risparmiando sulla lavanderia?" chiesi.
Lei ripose la camicia con gli shorts. Sedette sulla panca in pietra e mi venne vicino, e io le baciai il bottoncino della pancia. Lei si scostò e sorrise e raccolse i suoi indumenti e tornò all'automobile. Era molto strana e sexy, adesso che aveva addosso solo gli zatteroni di legno. Spalancò la portie¬ra posteriore e si sistemò sul sedile con le gambe all'infuori, e si tolse gli zoccoli e li mise sul pavimento dell'auto. Acca¬vallò le gambe e mi guardò. "Devo scriverti una lettera?"
"Non c'è nemmeno bisogno di mandare un telegramma." Mi alzai e la raggiunsi.

Più tardi ci rivestimmo e bevemmo il caffè, sdraiati sul cofano dell'auto, con le schiene contro il parabrezza. A quel punto, dovevamo avere visto cinque o sei stelle cadenti.
"È stata una bella sorpresa," dissi. "A me è piaciuto so¬prattutto quando ti sei tolta gli shorts."
"Lieta che ti sia divertito, ma posso dire... senza voler fe¬rire il tuo fragile ego maschile, perché mi è piaciuto molto... che mi sembri leggermente distratto?"
"Ho avuto una giornata piena."
"Hap, io mi sono messa a riflettere, e devo dirti che quel¬lo che ti ho detto l'altra sera..."
"Non c'è problema. Ho esagerato io."
"Quello che vorrei dirti è che in realtà io non ho nessun diritto di giudicarti. Tu sei quello che sei, e mi stai piuttosto bene. Non dovrei cercare di trasformarti in qualcosa d'al¬tro."
"In certe cose ci hai azzeccato in pieno. Io sto andando alla deriva."
"Ma un altro punto importante è che non abbiamo avuto il tempo di conoscerci molto bene. Ti vedo un giorno, e sei un mezzo pezzente, e il giorno dopo sei sul tetto della casa a risucchiarti in dentro lo stomaco..."
"Te ne sei accorta?"
"Sicuro. E poi finiamo a letto, e mi piaci. Mi piaci un sac¬co, e in realtà non so chi sei."
"Cosa vuoi sapere?"
"Nemmeno tu mi conosci. Non sul serio. Voglio dirti qualcosa di me. Qualcosa che serva a schiarire un po' l'at¬mosfera. Ti ho rotto le palle con le mie ambizioni, giusto? Io sono tutta combattività, tu sei flaccido, eccetera. Allora, per¬mettimi di essere onesta. Nemmeno io sono all'altezza delle mie ambizioni."
"Forse nessuno lo è."
"La mia intenzione era diventare una buona penalista. Volevo occuparmi di processi per omicidio. Volevo specializ¬zarmi in casi in cui fossero coinvolte persone di colore, aiu¬tarle ad avere processi giusti in un mondo bianco. La grande crociata. Però mi sono accontentata di cause di divorzio e di correre dietro a qualche ambulanza. Sto in quell'ufficio di merda da tre anni, e metà delle volte i clienti non mi paga¬no, oppure, se mi spetta una percentuale o roba del genere, sono percentuali da poco, e la mia presenza al mondo non ha fatto una grande differenza, e io credevo di poter combi-nare chissà cosa."
"Tutti cominciano da qualche parte, Florida. Al diavolo, sei giovane. Ti creerai una carriera più importante."
"Però devo avere voglia di farlo. Il fatto è che ho scoper¬to che la maggior parte delle persone con le quali avevo a che fare, i miei clienti, bianchi o neri, erano colpevoli. Se non erano colpevoli del crimine del quale venivano accusati, lo erano di altri due, solo che l'avevano passata liscia. Quasi tutti erano colpevoli fino al midollo."
"Potrebbe essere stata solo la tua esperienza fino a oggi. Esisteranno pure delle persone innocenti che hanno bisogno di te."
"Sì, però io cercavo di far scagionare dei colpevoli. Cer¬cavo di trovare scappatoie. E la gente mi ha delusa. Non so¬lo i delinquenti coi quali ho avuto a che fare. La gente in ge¬nere. Non molto tempo fa c'è stato un omicidio da queste parti, a Mud Creek. Un marito ha perso la testa e ha spara¬to alla moglie e ai due figli e persino al cane."
"Ricordo."
"La gente ne ha parlato per un mese o giù di lì. Un mio amico avvocato, una donna, è stato incaricato del caso. Ha dimostrato che l'omicida era pazzo. Mi ha raccontato che tutti le chiedevano in continuazione del caso, e lo sai qual era la domanda più comune su quello che era successo?"
"Non so."
"Di che razza era il cane? Già. Di che razza era il cane? Come se le persone morte non contassero. Ma se il cane era un bel cane, allora sì che era stata una tragedia. Com'è pos¬sibile che qualcuno possa pensare in questo modo?"
"Tu stai vivendo uno scontro fra idealismo e realtà, Flo¬rida. Succede a tutti, prima o poi. Però non credere che le due cose siano incompatibili. Ci sono passato in mezzo an¬ch'io."
"Il punto è che in quest'ultimo anno o giù di lì ho perso tante delle mie ambizioni, e quella stupidissima faccenda del cane ha avuto un grosso peso. Quello che sto dicendo, Hap, è: chi sono io per scagliare la prima pietra? E un'altra cosa. Hai ragione. Mi innervosisce farmi vedere con te perché sei bianco..."
"Non lo hai mai negato."
"Ma non è una scusa. Cambierò."
"Picchio, vuol dire che mi porterai al cinema..."
"Sì, però dovrai metterti i guanti e calarti un sacchetto sulla testa."
"È già un inizio."
"Non mi considero piena di pregiudizi, ma da bambina ho vissuto per un po' a nord. Mia madre era andata a stare là coi suoi parenti. Aveva lasciato temporaneamente mio pa¬dre, e pensava che lì, lontano dal Sud, avrebbe avuto la pos¬sibilità di combinare qualcosa senza che il colore della pelle avesse un peso. Sto parlando del New Jersey. Be', di lavoro non ne girava molto, e i parenti che ci ospitavano vivevano in una parte bianca della città da un paio di mesi, e una mattina ci siamo svegliati con la neve per terra e una croce che bruciava in cortile. Sul cortile, scritta a fuoco con la benzina, c'era la parola negro. Siamo tornate qui, e i miei pa¬renti si sono trasferiti da quel quartiere in una zona nera, e l'intera idea di una zona franca, di un posto dove poter esi¬stere senza pregiudizi, senza odio razziale, è svanita.
"Quel fatto mi è rimasto impresso, Hap. Non voglio dare a tutti i bianchi la colpa per la stupidità della gente che ha messo la croce e inciso a fuoco quella parola nel cortile dei miei parenti, però mi è rimasta una traccia qui..." Florida si toccò il cuore. "Ha a che fare con me e con la pelle bianca. Sono abbastanza furba da capire che a volte si tratta solo di una reazione automatica, e la combatto, però esiste, e quello che mi fa veramente incazzare è che certe notti, nel cuore della notte, mi sveglio amareggiata. Ricordi del genere non spariscono facilmente."
"Quindi adesso non ti fidi dei bianchi, e non vuoi essere vista in loro compagnia... Non per un appuntamento senti¬mentale, comunque?"
"Mi fa sentire sporca. Tante volte mi sento persino infe¬riore. Come se dovessi essere riconoscente di fare quello che sto facendo, di cavarmela bene per essere una ragazza di colore del Texas dell'est. Intellettualmente non sono così scema, ma a livello emotivo ho il sospetto di essere una negra. Roba di seconda scelta. Non faccio che combattere questa sensazione."
"Adesso ti senti sporca?"
"No. Tu non mi ci fai sentire. Qui, in questo posto. Ma se uscissimo assieme in pubblico, le vecchie sensazioni tor¬nerebbero. Non sto dicendo di non essere pronta a combatterle. Voglio solo essere onesta. Ma torneranno. E forse va anche bene, se continuo ad affrontarle. Okay, ti ho fatto ve¬dere i miei panni sporchi. Ti ho detto cose che non ho mai detto a nessuno. Adesso dimmi qualcosa di te. Aiutami a scoprire chi sei."
"Sono uno che spera di poterti dimostrare che negli uo¬mini bianchi c'è qualcosa di più della voglia di infilarsi nelle tue mutandine. Qualcosa di più in questo uomo bianco, per lo meno. Non nego che infilarmi nelle tue mutandine sia una cosa che mi passa per la testa. Ti guardo e la biologia prende il sopravvento, e mi piace l'aspetto sessuale della no¬stra relazione, ma voglio di più. Non farò pressioni, però vo¬glio che tu lo sappia.
"Okay. Stop su questo. Vediamo. Che altro? Non ho fi¬nito l'università. Ho fatto obiezione di coscienza ai tempi della guerra del Vietnam, e ne sono fiero. Mi sono battuto per qualcosa e non me la sono fatta sotto. Non sono scap¬pato in Canada. Non ho finto che fosse per motivi religiosi. Naturalmente, c'è stato un lato negativo. Sono andato in prigione per essermi rifiutato di fare un passo avanti nell'uf¬ficio di reclutamento. Diciotto mesi. Vediamo. Che altro? Sono stato sposato. La signora mi ha ridotto al cretinismo, anche dopo il divorzio. Aveva un fascino irresistibile su di me. Muoveva il culo e io le andavo dietro. Una volta ha quasi fatto uccidere Leonard e me."
"Cosa?"
"Per adesso ti racconterò solo l'essenziale. Magari più avanti avrò altro da dirti. Ma il succo, senza entrare troppo nei particolari, è che le ho permesso di ficcarci in qualcosa dalla quale avrei dovuto stare alla larga. Un modo per fare soldi veloci e facili. Solo che non erano facili. Leonard aveva capito che era un'idea scema e me lo ha detto, ma io ero te¬stardo come un mulo, e lui c'è stato lo stesso perché c'ero di mezzo io. È andata a finire che la mia ex moglie, Trudy, è rimasta uccisa, io ferito, e Leonard si è ritrovato con una gamba conciata male. È stato fortunato a guarire così bene. Per un po' si è pensato che la potesse perdere."
"Dio, Hap... Questo spiega le cicatrici che hai?" mi do¬mandò Florida.
"Alcune. Quindi sono un ex galeotto e ho quasi fatto per¬dere una gamba al mio amico perché non riuscivo a tenere l'uccello nei calzoni."
"Non ci credo."
"Hai ragione. Mi sto concedendo troppo credito. Non era l'uccello a prendermi per il culo. Era la visione idiota del vero amore. Ci credevo. A volte ci credo ancora. Forse è stato proprio questo, il fatto che non esista il vero amore, a dare una botta alle mie ambizioni. Anche se, a essere one¬sto, nemmeno prima che Leonard si facesse male ero esat¬tamente un fulmine di guerra.
"Posso dare un po' di colpa alla prigione e a Trudy, ma secondo me, alla fin fine, uno se la deve sempre prendere con se stesso. Ho lasciato calpestare il mio idealismo, e ho cominciato a pensare che fosse una stronzata perché non mi serviva a niente, perché le cose non cambiavano mai. Però sono sbucato dal tunnel. Non sono ambizioso, ma non sono nemmeno un relitto. Ho ritrovato la mia fede nella specie umana, e di questo devo ringraziare le persone come te.
"C'è un sacco di merda in giro, ma se ti guardi attorno c'è anche del buono. Non sto dicendo che sono pronto a mettermi i fiori nei capelli e dire a tutti di amarsi l'un l'altro, però penso che le cose possano migliorare, e che ognuno di noi, a modo suo, possa avere la sua parte nel miglioramento. Poi mi piacciono il gelato al mirtillo, i coniglietti di peluche, gli animaletti di pezza, soprattutto gli orsacchiotti, e le scar¬pe eleganti, se non stringono troppo."
"Brutto cretino," disse Florida.
"Ah, un'ultima cosa. Qualche ora fa ho trovato un cada¬vere in uno stagno."

23

Rientrammo a casa tardi e ci sistemammo nella camera da letto che Leonard ci aveva lasciato. Lui stava dor¬mendo sul divano. Facemmo l'amore un'altra volta e parlammo ancora un po'. Raccontai a Florida tutto ciò che sapevo di Illium Moon, di come avevamo scoperto il cada¬vere. Secondo lei dovevamo chiamare la polizia. Anche se¬condo me. Ma Leonard si era preso delle pallottole in corpo per colpa mia. Il minimo che potessi fare era concedergli un po' di tempo.
"Tu non hai sentito niente," dissi. "Se salta fuori il discor¬so, a parte con Leonard, tu non sai niente."
"Oh, Hap."
"Niente di niente, Florida."
"Quel pover'uomo... Sott'acqua."
"Lui non lo sa se è sopra o sotto. Un giorno in più non farà differenza."
Alla fine ci accoccolammo vicini e ci addormentammo, e io sognai.
E in quel sogno ero sott'acqua. Giù nel bibliobus con Illium, però questa volta vedevo benissimo. Non c'era buio come nella realtà. C'era anche zio Chester. I due erano gon¬fi e flaccidi, e le loro facce non erano più nere. Avevano il colore della farina d'avena bagnata. Illium sedeva al volante. Aveva un barattolo di buoni omaggio. Al suo fianco, sul se¬dile dei passeggeri, c'era zio Chester. Leggeva un tascabile di Dracula. Io ero dietro, proteso in avanti fra i sedili, a guardarli. Loro non sembravano accorgersi della mia presen¬za. Guardai da sopra la testa di zio Chester. Stava leggendo
la parte del romanzo sulla "Bloofer Lady", la vampira che uccideva bambini. Riuscivo a leggere chiaramente, anche se le parole erano confuse, poco più che geroglifici.
Illium girò il coperchio del barattolo che teneva sulle ginocchia, e il barattolo si riempì d'acqua e i buoni omaggio fluttuarono fuori, sfilarono davanti a lui come minuscoli pesci sottili come ostie. Ne acchiappò uno con le dita e lo rimise nel barattolo. Ne afferrò un altro, e un altro, ma non appena li risistemava nel barattolo quelli uscivano un'altra volta. Zio Chester si girò a guardare Illium. Chiuse il libro e lo strinse in una mano. Con l'altra cominciò a catturare i buoni omag¬gio fluttuanti. Aiutò l'amico a rimetterli nel barattolo, ma i ri¬tagli continuavano a uscire. Il processo era interminabile. Il¬lium e zio Chester prendevano i buoni omaggi, li mettevano nel barattolo, e i buoni omaggio scappavano fuori.
Mi girai a guardare dietro, e sul furgone c'era un baule, e il coperchio era alzato. Il baule di zio Chester. Guardai den¬tro. C'era un bambino nero. Nudo. Con i grandi occhi sgra¬nati. Le sue labbra formarono la parola Aiutami, ma io di¬stolsi lo sguardo.
Sul lato opposto del furgone, sulla parete, c'era il dipinto di Leonard con la vecchia casa fra gli alberi. Il quadro co¬minciò a emettere goccioline d'acqua, poi bolle. Le bolle si riempirono dei colori del dipinto e scesero giù, piangendo lacrime multicolori.
Ero a disagio. Avevo caldo, mi resi conto. Trattenevo il respiro. La portiera posteriore del furgone era chiusa. Ten¬tai di aprirla. Non si muoveva. Mi voltai e cercai di cammi¬nare fino alla cabina di guida, ma adesso nuotavo. Cercai di infilarmi tra zio Chester e Illium, di raggiungere il finestrino dal lato dell'autista, ma era chiuso. Io ero sempre più debo¬le, stordito. Afferrai la manovella del finestrino e tentai di abbassare il vetro, ma la manovella non girava, e adesso Il¬lium e zio Chester mi avevano afferrato e mi spingevano in¬dietro. Mi contorsi, cercai di lottare. Le loro facce erano più gonfie di prima. Gli occhi sporgevano dalle orbite come chicchi d'uva sbucciati. Il bambino nero era uscito dal bau¬le. Nuotò in avanti, si attaccò alla mia camicia. Aveva occhi imploranti. La sua mano mi strattonava. Il braccio si staccò dalla spalla e fluttuò all'insù, ma le dita continuavano a stringermi la camicia. Poi si staccò anche l'altro braccio e salì fin sotto il tettuccio del furgone. Poi le gambe. E alla fi¬ne la testa. Il suo torso scese sul mio petto, e le parti del suo corpo fluttuarono attorno a me, perdendo carne. Rimasero solo le ossa che si aggiravano nell'acqua, la gabbia toracica sul mio petto. Cercai di staccare dalla camicia il braccio e le dita scheletriche, ma mi mancavano le forze. Il braccio sche¬letrico cominciò a tirare. I buoni omaggio mi fluttuavano attorno. Illium e Chester Pine si girarono verso me e sorrise¬ro. L'acqua si intorbidì.
Ebbi la sensazione di svenire.
Poi mi svegliai, accaldato e raggomitolato nelle lenzuola. La luna riempiva la stanza. Florida era rotolata dall'altra parte del letto. Il chiarore lunare cadeva quasi tutto su lei, e io ero in ombra. Notai che l'ombra prodotta dalla mia pelle era scura quanto la sua. Scostai le lenzuola e sedetti sull'orlo del letto e feci qualche inspirazione. Dopo un po' tomai a coricarmi, presi le lenzuola, coprii Florida e me.
Pensai al sogno. Adesso mi pareva abbastanza stupido. C'era una spiegazione logica per ogni particolare, però ave¬vo anche la sensazione che il mio inconscio stesse cercando di dirmi qualcosa che avevo trascurato fin dall'inizio. Non sapevo ancora cosa fosse, ma mi sembrava di averlo afferra¬to per i capelli; e se non avessi perso la presa, forse sarei riu¬scito a portare tutto alla luce.
Restai sveglio finché la luna non scappò via e spuntò il sole, rosa e oro, e già caldo.

Florida dormiva ancora, come Leonard, quando entrai in cucina in punta di piedi a preparare il caffè. Tempo che il caffè bollisse, e Leonard si era svegliato. Entrò con la sua vestaglia grigia e le pantofole a coniglietto. Avete presente? Quelle pantofole cretine con orecchie sul davanti e codini di cotone bianco sul dietro. Personalmente, ne ho sempre de¬siderato un paio.
Leonard sbadigliò e si sedette al tavolo. "Dov'è Florida?" chiese.
"Dorme ancora. Abbiamo fatto tardi."
"A contemplare l'universo, ovviamente. Quello cos'è?"
Stava indicando il suo quadro. Dopo avere messo il caffè sul fuoco, lo avevo portato in cucina e sistemato su una se¬dia. Sul tavolo c'era la copia di Dracula. Assieme a carta e matita. Avevo disegnato sulla carta.
"Ho riflettuto su tutto, Leonard. Credo di avere avuto qualche idea."
"Cioè?"
Gli versai il caffè, riempii una tazza per me, e dissi: "Adesso sto guardando le cose dal tuo punto di vista. Tuo zio non è colpevole. Quando sono riuscito ad assumere que¬sta prospettiva, mi è venuta qualche idea. Niente di più. Idee, pensieri."
"Sentiamo," disse Leonard.
"Tuo zio era un fanatico dei gialli. Voleva diventare poli¬ziotto. Faceva la guardia privata. Sosteneva di avere infor¬mazioni su omicidi di bambini, e voleva indagare con l'assi¬stenza degli sbirri, però senza che fossero loro a prendere il controllo della situazione. Sappiamo da quello che ci ha det¬to Hanson che le scomparse di bambini qui nell'East Side non hanno esattamente ricevuto la priorità massima, e ades¬so, anche se saltasse fuori qualcuno che se ne vuole occupa¬re, uno come Hanson, il caso è talmente vecchio che sareb¬be sempre un'operazione di importanza secondaria. Sappia¬mo anche che con ogni probabilità i pregiudizi razziali han¬no influenzato le conclusioni di precedenti investigatori."
"E, per finire, mio zio non si fidava della polizia, però si considerava un investigatore. Era la sua grande occasione di risolvere un vero mistero."
"Diciamo che Illium, un ex poliziotto, ha conosciuto tuo zio attraverso uno dei suoi programmi di assistenza sociale. Bibliobus, riciclaggio dei rifiuti, quello che vuoi. Sono di¬ventati amici, e hanno cominciato a indagare su questa sto¬ria. Non so perché abbiano iniziato. Qualche piccolo indizio li avrà incuriositi, e si annoiavano, e si sono messi al lavoro. Oppure hanno trovato lo scheletro per caso, e tuo zio lo ha portato qui perché voleva studiarlo, cercare di scoprire cosa fosse successo. Però, se indagava con Illium e se tutti e due facevano sul serio, devono avere preso degli appunti. Ma dove sono?"
"Hai ragione," disse Leonard. "Zio Chester avrebbe pre¬so appunti."
"Fermiamoci qui e facciamo un passo indietro. Tuo zio comincia a perdere le rotelle. L'Alzheimer, poco sangue al cervello, come vuoi tu, comunque comincia ad avere proble¬mi. Butta giù un testamento, lo lascia a Florida, ti fa avere l'eredità. Però il suo cervello è sempre più confuso. Diciamo che non era più in grado di lavorare al caso, e con questo resta solo Illium. Tuo zio voleva risolvere l'enigma, però le cose erano cambiate. Il cervello gli stava andando in polpa. Non riusciva più a ordinare i pensieri. Secondo me, è per questo che qui davanti c'è l'albero bottiglia. Una parte di lui sapeva che c'era qualcosa di marcio nell'aria, ma tuo zio non riusciva più a ricordare cosa."
"Così lo ha tradotto in qualcosa di soprannaturale?"
"Qualcosa di malvagio. Se ha sentito parlare di spiriti cat¬tivi da ragazzo, be', può avere tradotto l'idea in qualcosa di reale, col casino che aveva in testa. Forse credeva davvero di fare una cosa che potesse proteggerlo. E nei momenti di lu¬cidità avrebbe voluto parlartene, o scrivere tutto, ma riusciva a ricordare solo per poco tempo, e così i dati importanti per il caso sono diventati il suo unico fulcro mentale, e quei dati si sono trasformati in simboli, invece che pensieri."
"I buoni omaggio. Il libro. Il quadro."
"In un certo senso ti stava dando un giallo da risolvere, e non apposta, ma perché quegli elementi, quegli indizi, erano tutto ciò che restava della sua capacità di pensiero. Forse non sapeva nemmeno più a cosa si riferissero quegli indizi, però per lui erano importanti, e tu eri importante, e gli re¬stava abbastanza sale in zucca da mettere tutto assieme e chiuderlo in una cassetta di sicurezza."
"È proprio una merda alla Agatha Christie, eh?"
"Vediamo cosa abbiamo in mano. Il libro, Dracula. Non credo significhi qualcosa in particolare. Secondo me tuo zio pensava a Illium. Non direttamente, forse. Però il libro ave¬va a che fare con Illium, e indica semplicemente un rappor¬to. Un collegamento."
"Illium ha, o piuttosto aveva, gli appunti. È questo che stai dicendo?"
"Può darsi. Se li aveva, suppongo che chi gli ha lasciato il regalino delle riviste porno e dei vestiti da bambino li abbia trovati e distrutti. Passiamo ai buoni omaggio. Li avevano sia Illium che tuo zio, e sembrano importanti, ma non trop¬po. L'assassino di Illium non li ha notati. Noi di certo li ab¬biamo trovati senza problemi."
"Il che significa," disse Leonard, "che se sono importanti, l'assassino di Illium non lo sapeva."
"Già. Tuo zio ha lasciato un po' di buoni omaggio a Flo¬rida perché li consegnasse a te, e ne ha lasciati altri in una cassetta di sicurezza. Illium ne aveva un po'. Ma cosa signi¬ficano? Non m'è venuta una sola idea."
"Il quadro?"
"Qui mi devi dire tu, Leonard. Parlamene."
"L'ho dipinto da ragazzo, per mio zio. È la vecchia casa degli Hampstead."
"Una casa vera?"
"Sì. Sta dietro casa nostra, nel bosco. Ogni tanto ci anda¬vo. La casa è stata abbandonata anni fa. Gli Hampstead erano bianchi, e possedevano tutto il bosco. Un paio di cen¬tinaia di acri. La zona nera finiva appena dietro questa casa, dove comincia il bosco. Probabilmente finisce ancora lì, però non so se tutta quella terra sia ancora di proprietà de¬gli Hampstead. Potrebbero averne venduto una parte. In ef¬fetti non ne so più niente. So solo che un tempo quella era una bella casa, che c'è stata una tragedia in famiglia e loro hanno traslocato, però hanno tenuto terra e casa, senza cu-rarle. Io ci sono entrato un paio di volte. Da bambino. Sono passato da una finestra. Un posto che metteva i brividi. Non so nemmeno se la casa ci sia ancora."
"Di bene in meglio. Guarda qui." Presi il taccuino dal ta¬volo e glielo mostrai. Avevo disegnato dei piccoli rettangoli all'interno di una serie di linee.
"Non ci arrivo," disse Leonard.
"Il primo giorno che siamo venuti qui, ho visto un taccui¬no sul tavolo di tuo zio, nella stanza dei giornali. Gli ho dato un'occhiata. C'era sopra un disegno, o una mappa, o quello che è. Una cosa come questa. Non ci ho fatto molto caso. Pensavo fossero solo scarabocchi. Per quanto ne so, non erano niente di più, ma adesso sospetto che quei disegni po¬tessero essere un appunto che non è finito in mano a Illium. Dopo l'arrivo della polizia, è scomparso. Probabilmente lo hanno loro. Forse hanno più appunti di quanto pensiamo, ma non credo."
Leonard studiò il foglio. Io dissi: "Non sono sicuro di ri¬cordarlo alla perfezione, ma quasi. Ti fa venire in mente qualcosa?"
"La pianta del piano di una casa con sei rettangoli."
"La mia stessa idea. E cosa mi dici dei rettangoli?"
"Mobili?"
"Non credo. Ma lasciamo perdere per un momento. Se è la pianta di un piano, non è di questa casa. Troppe stanze. E i rettangoli non corrispondono per niente ai mobili di tuo zio. Adesso capisci a cosa voglio arrivare?"
"Se i buoni omaggio hanno un senso in tutta questa sto¬ria, e il libro ha un senso... deve averlo anche il quadro, o almeno il posto che rappresenta, e quel posto potrebbe coincidere con questa pianta."
"Giusto. È solo che noi non sappiamo in che modo questi elementi collimino fra loro. Cosa c'entrino. Ora, cosa po¬trebbero rappresentare quei rettangoli?"
"Un sacco di cose. Pacchetti di chewing gum. Libri. Mio zio amava i libri. La risposta potrebbe essere quella."
"Le proporzioni lo escludono. I rettangoli sono troppo grossi per essere libri, se questa è la pianta di una casa."
Canticchiai qualche nota della marcia funebre. Leonard sgranò gli occhi.
"Tombe," disse.
"Tatà!"
"Vuoi dire sotto la casa degli Hampstead?"
"È possibile."
"Mi venisse un colpo."
"Quando Florida si sveglierà, andrà a trovare sua madre. Dopo di che, noi due andremo a dare un'occhiata alla casa degli Hampstead."

24

Nella tarda mattinata, mezz'ora dopo la partenza di Florida, ci addentrammo nel bosco. Leonard aveva un badile, io una torcia elettrica appesa alla cintura, e la ricostruzione del disegno di zio Chester infilata in tasca.
All'inizio, procedere non fu difficile. Gli alberi erano per la maggior parte pini ben distanziati fra loro, e c'erano mor¬bidi sentieri di aghi da seguire; ma dopo un po' il terreno cominciò a salire, e apparvero querce, rampicanti e rovi, e i pini erano attaccati l'uno all'altro, e andare avanti era un problema. Faceva anche umido, e l'aroma dei pini e delle resine diventò soffocante, come venire investiti da una sec¬chiata di profumo da poco prezzo.
Andammo in giro qua e là finché non scoprimmo un pic¬colo sentiero scavato dagli animali, e seguimmo quello. Avanzare diventò più facile. Spaventammo degli uccelli e un cervo. Dopo circa un'ora, il sentiero svanì sulla riva del letto asciutto di un ruscello. Non attraversammo. Leonard mi fe¬ce strada lungo la riva, addentrandosi ancora di più nel bo¬sco. Lottammo con rampicanti e rovi, e alla fine, pieni di graffi, stanchi e affamati, sbucammo nella parte di bosco che teneva in ostaggio la casa.
Leonard si appoggiò al badile. "Stavo in questo preciso punto quando ho dipinto il quadro. La casa è conciata peg¬gio di allora. Non ricordo un accidenti dell'interno. Qui c'erano meno alberi."
La casa era grande, e un tempo era stata elegante. Due piani, con una veranda che correva lungo tutti i lati, un ca¬sino di finestre e una balconata al piano superiore, ormai ca¬dente, come una dentiera penzolante dalla bocca di un ubriaco. Attorno c'erano degli edifici secondari crollati e la struttura disfatta di un pozzo in pietra. Attorno al vecchio pozzo, un groviglio di rampicanti e alberelli.
Gli alberi crescevano vicinissimi alla casa, e davano l'im¬pressione di tenerla in piedi. Una quercia era esplosa dalle assi marce della veranda e si arrampicava lungo la facciata; aveva infilato un ramo in una finestra senza vetri, come un bulletto che cacciasse un dito nell'occhio di un cacasotto. Le assi di copertura della casa avevano assunto il grigio della cenere di sigaretta. Su un lato, un noce americano aveva raggiunto l'altezza della casa e continuava a crescere, e un ramo aveva sollevato un angolo del tetto, come per alzare il cappello in segno di saluto.
Salimmo con cautela sulla veranda, attenti a dove mette¬vamo i piedi. I gemiti del legno erano alti. Uno stormo d'uc¬celli uscì sbattendo le ali da una finestra vicina. Io dissi: "Merda."
"Sono solo cardellini," disse Leonard. "Che si sappia, non mangiano carne umana."
La porta d'ingresso era ancora intatta, ma quando affer¬rai la maniglia arrugginita e provai ad abbassarla, si bloccò subito. I cardini erano cementati dalla ruggine.
La finestra dalla quale erano scaturiti gli uccelli pareva l'alternativa migliore. Leonard, a furia di calci, spazzò via le ultime schegge di vetro e mandò in frammenti l'intelaiatura in legno, e strisciammo dentro.
La stanza era grande e decorata da rampicanti e polvere e da una tappezzeria cadente, gonfia di bolle, il cui disegno sbiadito doveva essere stato vivace e all'ultima moda attorno al 1928. C'era un vecchio caminetto, coi residui dei fuochi accesi da qualche cacciatore e/o barbone. Una biscia, grande abbastanza da poter avere un bel ruolo in un film di Tarzan, strisciò veloce sul pavimento e scomparve in una crepa delle assi.
Il soffitto del pianterreno era quasi completamente scom¬parso, e si vedeva chiaramente che il tetto, in alto, era tutto bucherellato, e il gioco di luci e ombre che filtrava dai fori era come una pioggia di briciole di formaggio risputate da una grattugia scassata. Anche il pavimento aveva falle, e in certi punti si era gonfiato; le assi si erano arcuate e poi spez¬zate in due.
Passammo nella stanza accanto senza cadere sotto, e lì il pavimento era in condizioni migliori perché il soffitto era ancora integro, e non era colata troppa acqua. La stanza era più piccola e conteneva un cassettone vecchio stile. Il legno del cassettone si era gonfiato e crepato. In cima c'era un ni¬do, e un diluvio di cacca secca d'uccello sui lati. Lì la tap¬pezzeria era ancora in forma, si poteva riconoscere il dise¬gno: una serie di trifogli verde chiaro.
Nell'altra stanza, la cucina, c'era una stufa a legna, nera, coperta di polvere, con la parte anteriore a piastrelle bian¬che, e un lungo tavolo a ridosso della parete. Il tavolo era corroso dalle intemperie ma solido, con gambe in legno la¬vorato che terminavano a zampa di leone.
Sopra il tavolo, sul muro, la tappezzeria sulla quale era colata l'acqua, di un beige vomito, senza alcun disegno, era decorata da una macchia piuttosto interessante. Una mac¬chia scura che aveva la forma di una faccia, e sulla faccia c'erano chiazze più scure, tipo spruzzi, e la forma della fac¬cia era familiare.
Leonard disse: "La Sacra Tappezzeria di Torino, o meglio di LaBorde, Texas."
"Una volta ho letto di questa ragazza messicana che ha visto la faccia di Gesù su una tortilla," dissi, "ma mi sa che qui l'abbiamo battuta."
"So mica," disse Leonard. "Se la tappezzeria ti stufa, non la puoi mangiare."
Andammo al tavolo per guardare più da vicino. Leonard indietreggiò e abbassò gli occhi. "Guarda il pavimento."
Capii immediatamente cosa intendesse. Una grossa parte del pavimento sotto i nostri piedi era di legno più nuovo del resto. Era scuro, come fosse stato esposto all'acqua, ma in realtà era legno trattato. Delle dimensioni, all'incirca, di un tavolo da ping-pong. A studiarlo bene si vedeva che era un pezzo unico. Se non fossimo stati in cerca di qualcosa di so¬spetto, forse non lo avremmo notato.
Tirai fuori la pianta che avevo disegnato a memoria. "Stando a questa, se non ho commesso errori, e di sicuro la struttura generale corrisponde a quella della casa, in questo punto non ci sono fosse."
"Sì, però io penso, caro amico, che abbiamo trovato la porta dell'inferno."
Ci spostammo da quella zona, e Leonard infilò la punta del badile sotto il quadrato di legno e spinse in su. Il legno si sollevò scricchiolando. Quando fu abbastanza alto, io lo afferrai e diedi una mano a tirarlo su. Non era troppo pe¬sante. Togliemmo il legno e guardammo giù. Il suolo era cir-ca un metro sotto. Si sentiva l'odore della terra umida. Il terriccio era battuto, come se qualcuno ci camminasse sopra spesso.
Mi sdraiai sul pavimento, mi protesi sull'orlo del buco nel pavimento, e guardai giù con la torcia elettrica. C'erano molti puntelli in legno nuovo, per sostenere il pavimento. A un metro alla mia destra c'era un contenitore di metallo grande quanto una cassaforte a muro, spinto contro la zoccolatura di legno marcescente che correva per tutta la lun¬ghezza della casa. Puntai la luce della torcia qua e là, in cer¬ca di serpenti. Non ne vidi.
Saltai giù e raccolsi la scatola di metallo e la passai a Leo¬nard. Era di latta. Pareva un portapane troppo cresciuto. Emise suoni metallici quando la spostai. Come unica chiu¬sura c'era un piccolo chiavistello a scatto.
Risalii e guardai Leonard aprire la scatola. Dentro c'erano un grosso coltello da caccia, una piccola sega per ferro, una dozzina di riviste pornografiche a base di bambini, una to¬vaglia color porpora, due candelieri, e due candele bianche, mai usate.
Notai che da una delle riviste porno sporgeva qualcosa, una pagina più piccola delle altre. La tirai fuori. Era una pa¬gina della Bibbia. I Salmi. Controllai le altre riviste. Ognuna conteneva una pagina dei Salmi.
"Mi venisse un accidente," disse Leonard. "Leggi un po' di Salmi, ti fai una sega su queste riviste, leggi qualche altro salmo. Una bella combinazione."
Aprii la tovaglia color porpora. Al centro era macchiata da un'incrostazione, e alle due estremità c'erano chiazze bian¬che che erano chiaramente cera di candela.
"Rimettiamo il pezzo di legno al suo posto," dissi.
"Non scendiamo a guardare?" chiese Leonard.
"Dammi retta. Mi serve per starci in piedi."
Rimettemmo il legno al suo posto. Ci sistemammo lì so¬pra, e io feci correre un dito nella polvere sul tavolo. "Qui c'è meno polvere che nel resto della casa. Adesso, stai a ve¬dere. Credo."
Presi la tovaglia e la stesi sul tavolo. Era perfetta. Mi tolsi la camicia e la usai per raccogliere i candelieri alla base, per non lasciare impronte. Li sistemai ai due capi del tavolo, do¬ve sulla tovaglia c'erano i residui di cera. Infilai le candele nei candelieri e gettai le riviste porno sul tavolo, così, per fa¬re scena.
"Cominci a farti un'idea?"
Leonard ci ruminò su per un istante. "È una specie di al¬tare. E se la roba incrostata al centro della tovaglia è quello che io penso, è possibile che quello che succede qui siano sacrifici umani dedicati a una macchia d'umidità che somi¬glia a Gesù?"
"Una macchia d'umidità per qualcuno, il volto di Dio per altri," dissi. "Ricordi quegli idioti e la tortilla?"
"Be', non è un rituale che facciamo spesso alla nostra chiesa battista."
"Nemmeno alla mia, anche se magari ho saltato un paio di domeniche."
Mi rimisi la camicia, e Leonard infilò di nuovo il badile sotto il quadrato di legno. Lo sollevammo, e io scesi nel bu¬co a quattro zampe, e feci girare qua e là la luce della torcia elettrica. Vidi parecchi termitai. Tirai fuori la pianta della ca¬sa e la studiai. Ero certo di avere ricordato bene il disegno di zio Chester, se non proprio alla perfezione. Quando mi parve di avere imparato la pianta a memoria, la ripiegai e la misi via. Mi alzai in piedi e dissi: "Passami il badile e stai calmo per un minuto."
Presi il badile e cominciai a strisciare verso quello che ri¬cordavo come un rettangolo del disegno. Lì sotto c'era buio, ma qua e là le strutture in legno alla base della casa erano marcite, e a tratti punte di luce penetravano tra le fessure come raggi laser.
Arrivai più o meno al punto in cui la pianta indicava un rettangolo e mi guardai attorno. Non c'era un tumulo, però c'era una lieve depressione larga una sessantina di centimetri e lunga circa un metro e venti. L'acqua era colata sotto la casa fino a riempirla, e poi era in parte evaporata.
Appoggiai la torcia sul terreno, posizionata in modo che puntasse sulla depressione, e mi misi al lavoro. Avevo tal¬mente poco spazio sopra la testa che era difficile maneggia¬re il badile. Mi sdraiai sullo stomaco e infilai il badile nella depressione, e facendo ruotare l'impugnatura fra le mani cominciai a togliere terriccio e a buttarlo di lato.
Alla quarta palata, dal terreno uscì un odore che mi inva¬se la testa e mi tolse il respiro. Era tanto potente che stri¬sciai via. Probabilmente mi scappò anche un urlo, perché Leonard chiese: "Tutto bene?"
"Vieni qui."
Un attimo dopo Leonard strisciò al mio fianco. "Merda che puzzo. Qualcosa di morto."
"Già."
Ci togliemmo le camicie e le allacciammo sulla faccia. Leonard prese la torcia elettrica, e io tornai alla depressione e mi rimisi all'opera. Un altro paio di palate, e spuntò qual¬cosa. Leonard puntò la luce. La cosa si era attaccata alla punta del badile, e non riuscivo a tirarla fuori.
La voce di Leonard giungeva smorzata dietro la camicia. "Una rete metallica."
Affondai il badile sotto la rete e scavai lungo l'orlo della depressione, tirandone fuori un'altra palata di terriccio. C'era anche un secondo pezzo di rete.
Leonard disse: "Se avessi sepolto qualcosa e non volessi che gli animali scavassero per tirarlo fuori, forse metterei della rete metallica sopra o tutt'attorno... Gesù, Hap, non credo di poter sopportare questo puzzo per molto tempo."
Era fortissimo, camicie o non camicie sulla faccia. Co¬minciavo ad avere giramenti di testa e nausea. Alla palata successiva uscì della stoffa, che si lacerò, e io tirai il badile verso di me e guardai i frammenti. Erano sporchi di fango e di quella che mi parve calce. La calce aveva sbiadito la stof¬fa, e non riuscii a capire di cosa si trattasse.
Alla palata successiva uscì un frammento d'osso. Poteva essere un pezzo di costola. C'era attaccato qualcosa. Sem¬brava un ammasso unico di brandelli di carne e stoffa. L'odore che emanava era talmente intenso che pensai di po¬ter svenire.
"Magari è l'osso di un animale," dissi.
"Sì, e il mio uccello è una biscia d'acqua."
Scavai ancora, e dopo un po' affiorò quello che sapevo avrei trovato. Una palla di fango. Solo che il fango si staccò, e sotto non c'era affatto una palla. C'era la sommità di un piccolo cranio color terra.
"Figlio di puttana," dissi.
Col badile rimisi nel buco tutto quello che avevo trovato, poi lo ricoprii col terriccio.
"Sarà meglio guardare in giro ancora un po'," propose Leonard.
Indietreggiammo di qualche passo, lontano dall'odore; ti¬rai fuori la pianta, e Leonard vi puntò la luce della torcia. Studiammo il disegno, strisciammo fino a trovare i punti giusti, e io affondai il badile.
Una volta portai alla luce una scatola di cartone inzuppa¬ta d'umidità che colava larve. In un altro punto trovai della rete metallica. Sotto il davanti della casa, più o meno all'al¬tezza dei gradini della veranda, trovammo una fossa lunga un metro e venti, larga un'ottantina di centimetri e profonda una sessantina. Era vuota. Spinsi contro i gradini col badile. Si mossero. Non erano attaccati alla veranda. Notai anche che erano di legno relativamente nuovo.
Ci riflettei su. Chi aveva allestito quel cimitero aveva fat¬to in modo di poterlo raggiungere in fretta, o dalla cucina, o spostando i gradini della veranda. Riflettei anche su quella fossa vuota. Poteva darsi che lo scheletro nel baule di zio Chester venisse da lì?
"Se si scavasse abbastanza, se si smuovesse un bel po' di terra," disse Leonard, "ho la sensazione che salterebbero fuori altre cose come la roba che abbiamo trovato nel primo buco. A diversi gradi di disintegrazione."
"Ne ho abbastanza," dissi. "Andiamo a respirare una boc¬cata d'aria."

25

Quel giorno non pranzammo. Arrivati a casa, facem¬mo la doccia a turno. Acqua e sapone non bastava¬no mai a farmi sentire pulito. L'odore del cimitero era ancora con me. Almeno nella mia testa.
Mentre Leonard faceva la doccia, io passeggiai in soggior¬no, nervoso. Mi ero messo calzoni da jogging, T-shirt, scar¬pe da tennis. Con quell'abbigliamento così comodo, feci un po' di flessioni e di mosse di Hapkido in soggiorno. Mi al¬lenai a tirare pugni all'aria. Assestai al divano un calcio late¬rale talmente forte da farlo strisciare sul pavimento.
Dopo un po', Leonard entrò nella stanza. Si era messo calzoni grigi e scarpe da tennis, senza calze. Niente camicia. Ci guardammo ma non aprimmo bocca. Lui prese il divano per un'estremità, io per l'altra, e lo appoggiammo contro una parete. Spostammo qualche sedia. Adesso avevamo un po' di spazio.
Cominciammo a boxare, senza troppa foga, tanto per te¬nerci impegnati. Continuammo fino a essere sudati e stan¬chi. Avremmo avuto bisogno di un'altra doccia, ma non la facemmo. Ci mettemmo al lavoro sul pavimento, ed entro il tardo pomeriggio avevamo finito. Per tutto quel tempo non scambiammo quasi una parola; solo qualche battuta ogni tanto su chiodi e assi e affini.
Finito di lavorare, restammo seduti sul pavimento per un po', sudati, lasciandoci vivere. Fui io a spezzare il silenzio.
"Questa storia è durata anche troppo, Leonard. Io ti vo¬glio bene come un fratello, uomo, lo sai. Ma Illium non è finito in quello stagno accidentalmente. E sotto quella ca¬sa... Impossibile dire quanti cadaveri ci siano. Il disegno di tuo zio probabilmente rappresenta solo quello che ha trova¬to lui. O forse quello che ci ha messo lui."
"Adesso ricominci," disse Leonard, ed era arrabbiato.
"Io non ricomincio niente. Sto dicendo che non sappia¬mo. Non siamo investigatori. È ora di chiamare gli sbirri."
"Gli sbirri si sono occupati di questo caso per anni, Hap. Noi due in pochi giorni abbiamo scoperto più di quanto ab¬biano fatto loro in tutto quel tempo. O meglio, lo hanno scoperto mio zio e Illium, e noi siamo andati avanti. Se ti¬riamo in mezzo Hanson, dovrà sempre lottare col sistema. Io non credo nemmeno più che si tratti di un semplice pro¬blema bianchi-neri. Più di tutto, c'è il rischio che una cosa del genere faccia fare una figura di merda alla polizia. È ra¬ro che il senso della giustizia abbia la meglio sull'imbarazzo.
"Ma, problema bianchi-neri o no, in questa città sono i bianchi a comandare, e saranno molto più contenti se po¬tranno pensare che è stato un negro. Un negro che ha fatto fuori dei piccoli negri. L'idea collima alla perfezione col mo¬do generale di pensare, ed evita rogne. Nessuno di loro, nemmeno i liberai, crede che qualcosa di nero rientri nei problemi più immediati."
"Leonard, con ogni probabilità, tutto considerato, il col¬pevole è davvero un nero. Di certo gli indizi puntano in quella direzione. Un bianco dovrebbe essere molto in gam¬ba per aggirarsi da queste parti senza farsi notare."
"Non sto dicendo che non sia stato un nero. Ti sfugge il punto. Per come stanno le cose adesso, alla polizia possiamo solo offrire la prova sicura che mio zio ha ucciso quei bam¬bini e ha nascosto i cadaveri sotto la casa degli Hampstead, e che c'era di mezzo anche quell'Illium. Merda, ha vestiti da bambino e riviste porno con bambini sul divano. Gli sbirri devono solo metterci sopra gli occhi. Aspetta che vedano quella roba, e non cercheranno oltre, e nemmeno Hanson avrà una possibilità di cercare. Sarà tutto risolto. Sono stati un paio di negri morti, o piuttosto ha cominciato mio zio e poi è sceso in campo anche Illium. Caso chiuso. E io non la bevo. È stato zio Chester a insegnarmi l'orgoglio e l'onore. Mi ha insegnato a fregarmene del colore, in un senso o nell'altro. A non nascondermici dietro, a non usarlo per fare il prepotente con nessuno.
"Da ragazzo, se la televisione parlava di un delitto, o un giornale, tutti erano subito pronti a indicare il colpevole se era nero, ma non se era bianco. Avevo l'impressione che fossero i neri a fare tutto. È stato mio zio a farmi vedere le cose come stanno. A spiegarmi che la gente è gente, e che ci sono buoni e cattivi, e che le cose bisogna guardarle diritte in faccia, non cercare di modificarle come ci pare. E questo è solo un modo inverso per dire che se salta fuori che è sta¬to un nero, è stato un nero. Non me ne fotte niente del co¬lore della pelle. Io voglio solo che il colpevole venga inchiodato. Però non voglio dare alla polizia la scappatoia più fa¬cile. Zio Chester era un brav'uomo, Hap. Aveva il senso del¬l'onore. Lui e io abbiamo avuto i nostri problemi, ma non era un assassino di bambini. Tu non hai ragioni per credere in lui, però io ci credo, e voglio fare in modo che venga trat¬tato in maniera giusta."
"Il fatto, Leonard, è che chi ha ucciso i bambini e Illium è ancora in giro. Gente del genere non si ferma. Lo sai. In¬tanto che noi indaghiamo, quello potrebbe decidere di fare fuori un altro bambino. È questo che gli interessa. I bambi¬ni. Illium è andato al creatore solo perché gli si è messo fra i piedi, e in un modo o nell'altro gli ha lasciato capire di sa¬pere qualcosa."
"Me ne rendo conto."
"La prima fossa che abbiamo scavato... Era fresca. Lo sai. Un cadavere impiega pochissimo a decomporsi. Quello puzzava ancora. L'assassino ucciderà un'altra volta, e io non vo¬glio un peso del genere sulla coscienza."
"E io non voglio vedere distrutta la reputazione di mio zio, e comunque non credo che la polizia scoprirà il colpe¬vole. Te l'ho detto, hanno già i loro sospetti. Zio Chester e Illium. Chiuderanno il caso talmente in fretta da farti girare la testa."
"Non so cosa dire. Non lo so proprio."
"Limitati a non dire niente per un po'. Non raccontarlo a nessuno."
"Leonard, ho già parlato di Illium con Florida."
"Porcaccia, Hap!"
"Non dirà niente. Per un po'."
"Non avresti dovuto farlo. Avevamo un accordo. La ma¬ledetta figa ti ha sempre sconvolto il cervello."
"Vacci piano, Leonard."
Per un momento, restammo a guardarci come fossimo davvero incazzati. Poi Leonard cominciò a sorridere. "Caz¬zo, Hap, io ti voglio bene, amico. Vogliamo picchiarci?"
"Ma no."
"Sarebbe una bella lotta, sai?"
"Con te non ce la farei mai," dissi.
"So mica. Secondo me potresti farcela. Ogni tanto esiti, hai paura di fare del male sul serio a qualcuno. Non hai l'istinto del killer, ma se ti incazzassi sul serio, saresti una brutta rogna."
"Non potrei mai incazzarmi tanto con te, amico."
"Già, noi due siamo legati a doppia corda... Merda, Hap. Se lo hai detto a Florida, non c'è problema. Cazzo, lo so che hai una testa. Florida è a posto. Insomma, sei un po' coglio¬ne, ma quello che è fatto è fatto, e lei è a posto."
"Mi è scappato. Mica è facile tenere dentro una cosa si¬mile."
"Tutto okay, socio. È solo che non so esattamente cosa fare."
"Nemmeno io," dissi.

26

Passò qualche giorno. Il ricordo di quei cadaveri mi bruciava la mente di notte, si insinuava nei miei pen¬sieri di giorno. Era lo stesso per Leonard. Non che ne parlasse molto, ma io lo sapevo. Lo conoscevo da tanto tem¬po da vedere espresse le sue sensazioni nel suo modo di muoversi o sorridere o cercare di ridere.
Per affogare i ricordi ci buttammo nel lavoro sodo. Il la¬voro manuale riesce a far trasudare le impurità. Sia fisiche che emotive.
Completammo gli ultimi ritocchi al pavimento un tardo pomeriggio, portammo fuori il poco legno avanzato e an¬dammo a trovare MeMaw. Buttammo le assi nel suo cortile e facemmo voto di aggiustarle la veranda.
Lei fu contenta e molto riconoscente. Ci spiegò che Gesù ci adorava e ci portò dentro e ci fece vedere la nostra foto. L'aveva appiccicata al muro vicino alla fotografia del suo fi¬glio minore, Hiram, perché diceva che Leonard glielo ricor¬dava. Disse che il suo ragazzo sarebbe tornato a farle visita. Nel dirlo, il suo viso si illuminò, e in quel momento MeMaw non dimostrava più di settantacinque anni. Be', diciamo ot¬tantacinque.
Guardai la foto di suo figlio e quella con me e Leonard. Be', Leonard e Hiram erano entrambi neri. In quello erano simili.
Dovemmo mangiare un po' di pane fatto in casa e mar¬mellata prima che ci fosse permesso di prendere in conside¬razione l'idea di andarcene. Non fu un'impresa difficile. In¬sistemmo che ci permettesse di fare qualche lavoretto per lei, poi lasciammo la cucina e infilammo le assi sotto la veranda e promettemmo di tornare per metterci all'opera en¬tro un giorno o due.
A casa di zio Chester, mentre il sole calava, Leonard mise un po' d'acqua nella padella dello stufato di fagioli del gior¬no prima, buttò dentro un pezzo fresco di carne di maiale, e pepò. Intanto che il maiale cuoceva, io presi il camioncino e imboccai Comanche Street per andare alla Drogheria East Side, a comperare alcune cose per la cena. L'agonia della giornata era splendida, e nell'intervallo di rossi e grigi prima del buio l'East Side assumeva una specie di fatata luminosi¬tà. Un sacco di gente era sparita di strada per andare a man¬giare, e chi lavorava era già rientrato, così le strade erano quasi deserte e invase dal sangue del sole.
La Drogheria East Side non era un semplice centro di commercio. Lì i vecchi si radunavano per giocare a domino e imprecare e raccontare dei bei tempi quando facevano questo e facevano quello. Ce n'era un gruppo seduto sul da¬vanti della drogheria, a destra della porta sul marciapiede di cemento, sotto una tettoia con una lanterna di latta già ac¬cesa e già formicolante di insetti. Sedevano su vecchie sedie da giardino di metallo, a giocare a domino su un tavolino pieghevole. Ridevano e bevevano birra da bicchieri di carta.
Alle loro spalle, appesi alla facciata della drogheria, c'era¬no annunci di grandi musicisti blues neri, come la Bobby Blue Band. Gente di quel calibro si esibiva spesso nell'East Side, e la comunità bianca non lo aveva mai saputo. C'era anche un poster a colori che annunciava il Lunapark Estivo dell'East Side per il 27 agosto, "L'Unico Grande Lunapark del Texas dell'Est Interamente Nero", a credere al poster. Per finire, un sacco di bollettini sulle attività della chiesa e della comunità.
Annuii ai vecchi quando entrai in negozio. Loro risposero con cenni e sorrisi abbastanza cordiali, ma, anche se ultima¬mente ero stato lì spesso, sui loro visi c'era il solito sospetto, le domande mai fatte: chi è questo bianco? Cosa ci fa qui? Perché gira sempre da queste parti?
Il proprietario del negozio era al tavolo del domino. En¬trò di malavoglia dopo di me, si sistemò al banco e aspettò. Io presi pane e uova e farina gialla, una confezione da sei lattine di birra per Leonard, e cercai della birra analcolica per me, ma non la trovai. Così ripiegai su una confezione da sei di Diet Coke.
Portai la roba al banco, presi un paio di pezzi di carne es¬siccata da una scatola, li misi assieme al resto, e guardai una fila di salsicce infilzate su spiedi di metallo ruotare e trasu¬dare grasso e lasciarlo colare in un contenitore di vetro im¬perlato di vapore.
Il droghiere aveva un sacco di pancia e un sacco di capelli grigi e una visiera che metteva in bella mostra un angolino pelato di cranio. Poteva essere sul metro e sessanta. Aveva ancora in bocca tutti i suoi denti, e uno di quelli anteriori era color oro come le trecce di Raperonzolo. Disse: "Basta così?"
"Sì. Come va al domino?"
"Sto perdendo."
Si mise a battere sul registratore di cassa, e io continuai a guardarmi attorno. Esaminai una cornice dietro la cassa: conteneva il primo dollaro incassato dal negozio. Era un dollaro del Monopoli. Sotto, su uno scaffale, vidi qualcosa che mi lasciò a bocca aperta. Vicino a un barattolo di zam-pini di maiale in salamoia ce n'era un altro, più grosso, pie¬no di ritagli di giornale. Pareva uno dei barattoli di Illium.
"Il barattolo coi buoni omaggio... Sono buoni omaggio, giusto?" chiesi.
Lui stava mettendo la mia merce nel sacchetto. Si fermò, diede un'occhiata nella direzione del mio indice puntato. "Sì."
"Ho già visto roba del genere un paio di volte," dissi. "I barattoli. Come mai? Perché raccogliete buoni omaggio?"
"Per la chiesa," disse lui.
"Cioè?"
"Il reverendo Fitzgerald ha un accordo con tutti i negozi della città. Appena vediamo un buono omaggio, lo ritaglia¬mo. La gente ce li porta in regalo. Fitzgerald li mette da par¬te per i suoi programmi per i ragazzi. Porta fuori a cena in città la squadra di football, di baseball. Ha questo accordo praticamente con tutti in città. Anche se i buoni sono scadu¬ti, glieli lasciano usare. Tanto beccano soldi lo stesso, sconto o no. Il reverendo porta fuori dieci, venti ragazzi per volta, e spesso. Quello ha tanti di quei buoni che non sa più cosa farsene. Illium ci ha detto che dopo questi smetterà di rac¬coglierli. Sono pieni fino al collo. Potrebbero portare fuori la squadra di calcio per i prossimi dieci anni e non restare a secco di buoni omaggio. Doveva venire a prendere quel ba¬rattolo lì, ma non si è visto. Mi sa che non sta bene."
Già, pensai. Sta male sul serio.
"È il signor Moon che li raccoglie?" chiesi.
"Lo conosce?"
"Non di persona. So chi è."
"Già. Fa un po' di tutto per la chiesa. Proprio uno che si dà da fare, quell'Illium. Se quel figlio di puttana muore, si siederà a destra di Gesù, e Gesù gli darà un'arpa tutta sua, speciale, per lasciargli suonare qualche spiritual."
Probabilmente, in quello stesso momento Illium stava eseguendo la sua versione di The Old Rugged Cross. Ringra¬ziai il vecchio, pagai, e tornai verso casa pensando a Illium, alla chiesa, al reverendo Fitzgerald, e a tutti quei buoni omaggio: il nesso che avevamo avuto sotto il naso fin dall'inizio.

Il giorno dopo. Sabato. Caldo. Io e Leonard e Florida e Hanson al lago dietro la mia vecchia casa, sulla riva, a lan¬ciare ami in acqua, all'ombra dei salici piangenti.
I pesci non abboccavano, però le zanzare mordevano. Ce n'erano un casino perché in certi punti l'acqua straripava dal fiume e formava pozzanghere immobili sotto i rami dei sali¬ci, l'ambiente di riproduzione ideale per le piccole bastarde.
Florida, in minimi shorts di jeans, una camicia blu a ma¬niche corte stile marinaio, scarpe da tennis e uno di quegli stupidi berretti da pesca con la falda sollevata sul davanti, più che lanciare l'amo continuava a tirarsi manate su tutto il corpo.
"Dovevi mettere i calzoni lunghi," le dissi. "Te l'avevo detto."
"Be', porca miseria, avevi ragione."
Hanson si spiaccicò una zanzara sulla faccia. Guardò il palmo della mano. Al centro c'era una poltiglia sanguinolen¬ta dalla quale sporgevano zampe d'insetto. Si ripulì la mano sui calzoni.
"Ragazzi," disse, "qui c'è da divertirsi da morire, però non mi avete invitato per pescare. Lo capisco da come con¬tinuate a guardarvi, per cui non state a menarmi le palle. Chiedo scusa, Florida."
"Tutto a posto," disse Florida. "Ho già sentito parlare di palle."
"Allora forza," riprese Hanson. "E datemi retta: la prossi¬ma volta, lasciate perdere questa merda della pesca e porta¬temi al cinema."
"Non so come la prenderà," disse Leonard, "perché vede, quello che vorremmo fare è concludere un accordo."
"Non mi piacciono gli accordi," spiegò Hanson. "Va sem¬pre a finire che un povero stronzo di colpevole si prende meno di quello che meriterebbe."
"Noi non siamo colpevoli di niente," disse Leonard.
"A parte l'occultamento di prove," dissi io.
"Sì," riconobbe Leonard. "C'è questo particolare."
"Va bene," disse Hanson, avvolgendo il filo sul mulinello. "Basta con le stronzate. Ci sei in mezzo anche tu, Florida?"
"No," rispose lei. "Io sono solo una povera pescatrice. E il loro avvocato, se ne avranno bisogno."
Tutti quanti, per qualche attimo, tirammo manate a una nuvola di zanzare. Hanson disse: "Andiamo da qualche par¬te dove si possa parlare senza soffrire. Ancora cinque o sei minuti qui e mi ci vorrà una trasfusione."
Tornammo all'automobile di Leonard, che era parcheg¬giata in cima alla collina, al sole. Lì le zanzare non colpivano a nugoli; solo un kamikaze ogni tanto. Smontammo canne e mulinelli e mettemmo tutto nel bagagliaio, assieme all'arma¬mentario per la pesca. Lasciammo liberi i vermi, perché po¬tessero crescere e moltiplicarsi. Li guardai strisciare nella sabbia soffice, scavare i loro tunnel nel terreno.
Florida salì sul cofano, distese le gambe e si grattò le bol¬le rosse lasciate dalle zanzare. Su lei, erano belle persino quelle. Ebbi la vaga impressione che anche Hanson se ne fosse accorto.
Hanson ruppe gli indugi: "Sto aspettando. E non ho mol¬ta pazienza."
"Una volta, tanto tempo fa," iniziò Leonard, "io e Hap abbiamo trovato un tizio morto in uno stagno."
"Già," dissi. "In un bibliobus."
"Ricominciate da capo," disse Hanson.
Gli spiegammo di Illium, senza però svelargli il nome del morto, o dove si trovasse il cadavere. Gli raccontammo solo lo stretto necessario. Alla fine, Leonard disse: "Si metterà male per il vecchio, con quello che troverete sul suo divano. Una scatola con vestiti da bambino e riviste porno con bam¬bini. Ma sono tutte stronzate. Non è colpevole di niente. E nemmeno mio zio. Tutta questa faccenda è collegata a quei bambini scomparsi, però non nel modo che sembrerebbe."
"Un'altra cosa," intervenni io. "Ieri sera Leonard e io ci siamo messi a parlare, a ripensare a quello che avevamo vi¬sto, e c'è venuto in mente qualcosa d'altro. Nella casa di questo tizio..."
"Il tizio annegato?" chiese Hanson.
"Sì," dissi. "Troverà una vasca con il bordo sporco di fie¬no. Secondo noi, il tipo aveva appena finito di mietere. Chissà chi lo ha sorpreso mentre faceva il bagno e lo ha af¬fogato. Poi lo ha messo sul furgone e ha gettato il furgone nello stagno. È probabile che l'autopsia dimostri che l'acqua che ha nei polmoni non è quella dello stagno."
Non aggiungemmo altro. Restammo ad aspettare, appog¬giati all'automobile. Hanson ci guardò per un po'. "Tutto qui? Non mi direte altro?"
"Parleremo," disse Leonard, "però vogliamo qualcosa."
"Nella vostra posizione, non potete volere una bella mer¬da di niente," disse Hanson. "Sarà meglio che pensiate a salvare il culo."
"Noi sappiamo di non avere fatto niente," disse Leonard. "Vogliamo risolvere questo caso quanto lei, però vogliamo l'accordo che non avete concesso a mio zio. Lei ci aiuta a risolvere il caso, ma dirigiamo noi."
"Non posso farlo," replicò Hanson. "Il dipartimento non lo accetterebbe mai. Due dilettanti... Secondo lei, perché non hanno accettato la proposta di suo zio?"
"Perché era svitato?" chiese Leonard.
"Be'," disse Hanson, "quella era solo una parte."
"Abbiamo già raccolto molti più indizi di voi sulla faccen¬da dei bambini scomparsi," dissi. "Scoprire cosa abbiamo in mano potrebbe sorprenderla."
Hanson studiò il lago in distanza. Una lieve brezza calda ce ne portò l'odore. Sapeva vagamente di pesci morti e ac¬que stagnanti. L'ombra di un grosso uccello ci piovve ad¬dosso e si dileguò.
"Se anche volessi farlo, non potrei. Se ne parlo coi miei superiori, se la faranno sotto dal ridere, a sentirmi suggerire di lasciar condurre a voialtri un'indagine. Si butterebbero sulle vostre chiappe come foruncoli sul culo di un bambino. E dopo il trattamento, voi non sapreste di preciso se avere voglia di cagare o perdere la vista. E a me mi sbatterebbero a scrivere multe."
"Noi non vogliamo che lei chieda qualcosa ai suoi supe¬riori," dissi. "Non ancora. Quello che vogliamo è che si met¬ta con noi e bari un po'. Se ci fa vedere quello che avete sul caso, noi le facciamo vedere qualcosa che abbiamo noi. Pensiamo di sapere cosa bolle in pentola, ma vogliamo fare tutto per bene, e più ne sappiamo, meglio è. Se vediamo i fascicoli, forse potremmo trovare qualcosa che collimi con quello che sappiamo già."
"Ho letto quei fascicoli," disse Hanson. "Non è che ser¬vano a molto."
"Qualcosa che balzerà ai nostri occhi," replicò Leonard, "non deve necessariamente balzare ai suoi, perché lei non ha le nostre informazioni."
"A me pare un discorso di merda," disse Hanson.
"In questo modo," spiegai, "quando metteremo tutto nel¬le sue mani e scompariremo come se non fossimo mai esi¬stiti, nessuno saprà che abbiamo fatto qualcosa, a meno che non voglia raccontarlo lei."
"Naturalmente, noi lo sapremo," disse Leonard, "ed è questa l'unica cosa importante."
"Se lei avesse in mano tutte le carte buone," dissi, "po¬trebbe costringere gli altri stronzi della polizia ad aprire gli occhi, e guadagnerebbe il rispetto che si merita."
"Per non parlare del fatto di risolvere un grosso crimine," intervenne Florida.
Hanson si girò a guardarla. "Credevo che tu non ci fossi in mezzo."
"Solo un tantino," disse lei. Restarono a fissarsi negli oc¬chi. Un po' troppo a lungo. Mi innervosirono.
"Siamo mortalmente seri," dissi, riportando su di me l'at¬tenzione di Hanson. "Teniamo per le palle il tizio che ha uc¬ciso tutti quei bambini, e adesso gliele infiliamo nello striz¬zatoio e diamo un paio di torsioni. Se lei non ci aiuta, tro¬veremo qualche altro modo per farlo."
"Potrei sbattervi dentro perché ostacolate il corso della giustizia," disse Hanson. "E dovrei farlo."
"Potrebbe," disse Leonard, "però non vuole."
"Dice di no?"
"Lei vuole quell'assassino quanto noi," dissi, "e noi pos¬siamo far succedere le cose molto più in fretta, se facciamo a modo nostro. Se lei ci aiuta, noi avremo il vantaggio della sua esperienza, e lei farà la figura di Supersbirro. Cazzo, ma non è stanco di essere trascurato? Se risolve questo caso col nostro aiuto potrebbe diventare capo della polizia."
"E, cosa più importante," concluse Leonard, "quei bam¬bini avranno giustizia. Be', una fetta di giustizia."
"Non so," esitò Hanson.
"Cominciamo col cadavere nello stagno," ripresi io. "Le raccontiamo chi è e dove sta. Se non è come diciamo noi, ci mandi pure all'inferno. Se lo è, con quel cadavere lei fa quello che vuole, poi noi le diamo qualche altra informazio¬ne. Le diciamo cosa sappiamo e come lo abbiamo scoperto e cosa significa secondo noi. Poi infiliamo l'uccello dell'as¬sassino nello strizzatoio e mettiamo la sua mano sulla ma¬novella."
Hanson si sistemò a braccia conserte, aggrottò la fronte e guardò in distanza. Passò un minuto che sembrò un'ora di un giorno di ferie.
"Che ne dice?" chiese Leonard.
"Sto pensando," disse Hanson. "Datemi un minuto per respirare, eh? Sto pensando."

27

Certe mattine, il bel viso della mia ex moglie, Trudy, è sospeso sopra di me come una luna, ma quando mi sveglio c'è solo la luce del sole filtrata dalle lacrime. Certe mattine la luce stessa ha il colore dei suoi capelli, e il profumo dei fiori dell'estate è il profumo della sua pelle.
Certe mattine mi sveglio e il letto è troppo grande, e io non riesco a ricordare come ho fatto a finire dove sono, non riesco a credere a quello che è successo a Trudy, o immagi¬nare quel suo bellissimo corpo e quel suo viso sepolti sotto¬terra, a marcire, a nutrire insetti e vermi. Non mi permetto di guardare diritto negli occhi il ricordo della violenza che ha ucciso lei e ferito me e Leonard. Trudy ha sbagliato e io le sono andato dietro, trascinando con me il mio miglior amico. Polvere da sparo e sangue versato, zolfo e morte so¬no stati l'ultimo profumo di Trudy. E io e Leonard portiamo ancora le cicatrici.
Il mattino dopo mi svegliai, e avevo sognato della povera, bella Trudy. Mi svegliai vecchio e triste e senza troppa vo¬glia di caffè. Tutte conseguenze del fatto che Florida non era nel mio letto. Non si era autoinvitata a fermarsi e io non avevo avuto il fegato di chiedere.
La sua assenza fra le lenzuola era una parte del motivo del ritorno dei vecchi sogni su Trudy; parte della sensazione, annidata dietro ossa e viscere, che la violenza mi si stesse precipitando incontro, come le luci vivide sul mio lato del¬l'autostrada in una notte buia, umida; la sensazione che sta¬vo per entrare in collisione frontale con una barriera bagna¬ta di pioggia, e che sarei rimasto incastrato in due tonnellate roventi d'acciaio.
Mi vestii e uscii senza svegliare Leonard e sedetti sui gra¬dini della veranda nel fresco del mattino a guardar crescere la luce del sole. Più o meno all'ora che si potrebbe definire "l'oro del mattino", Hanson accostò al marciapiede su un'automobile che non avevo mai visto, una Buick beige con un'ammaccatura sul paraurti posteriore. Scese con qual¬cosa sotto il braccio e mi guardò. Estrasse il sigaro dall'in¬terno della giacca, lo mise in bocca, salì in veranda e sedette sul gradino al mio fianco. Aveva l'aria stanca. Passò la lingua sul sigaro e mise la cosa che aveva sotto il braccio sugli sca¬lini, fra noi due. Era una cartella gonfia.
"Lieto che tu sia alzato," disse. "Ti avrei svegliato."
"Grazie di avere dato un passaggio a Florida, ieri sera," dissi.
"Sì, già," disse lui.
"Maledettamente gentile da parte tua."
"Non c'è problema."
"Mi piace l'idea di un agente di polizia che la riporta a casa sana e salva."
"Fa parte del mestiere."
Restammo in silenzio per un po'. Hanson si mosse sul gradino, si chinò a raccogliere la cartella, la aprì. Guardò quello che conteneva per qualche momento, poi la mise sul¬la veranda. "D'accordo. Affare fatto. Voglio informarti che ieri sera, per colpa tua e di Leonard, ho quasi acceso questo maledetto sigaro. Non fumo da anni, lo succhio solo un po' ogni tanto, però l'ho quasi acceso."
"Grazie per i fascicoli," dissi, e parlavo sul serio. "E co¬munque il mondo ti ringrazia per non aver acceso quel ma¬ledetto sigaro."
"Ho fotocopiato tutta questa merda stanotte, di nascosto, e se si viene a sapere, be', addio al mio lavoro, e magari fi¬nisco a dormire dietro le sbarre. E ci sarete anche tu e Leo¬nard. Su questo puoi scommetterci. Facciamo così. Io ti la¬scio questa roba, tu mi dai il nome del tipo nello stagno, mi dici dov'è lo stagno. Ho già pronte le bugie giuste da rac¬contare. Se lo trovo là, siamo soci. Se non lo trovo, non solo mi restituite quella roba, ma spacco la bocca a tutti e due a forza di pugni e vi faccio tagliare la corda dalla città."
"Prima del tramonto?"
"Appena la scarpa che vi avrò infilato in culo riuscirà a farvi muovere."
Gli diedi il nome di Illium e gli spiegai dove trovarlo. Non dissi niente di più.
"Okay, figliolo. Vediamo come si mette la partita."
Si alzò, lasciando la cartella sulla veranda. Scese i gradini. Quando era a mezza strada dall'automobile, io dissi: "Mar¬vin."
Lui si girò.
"Florida mi piace sul serio," dissi. "Moltissimo."
"Lo so, figliolo, però a volte le cose non vanno come uno vorrebbe. Ricordami di spiegartelo, una volta o l'altra."
Percorse il resto della strada fino all'auto. Ripartì.

Preparai caffè e colazione, svegliai Leonard e gli feci ve¬dere la cartella. Mangiammo, togliemmo i piatti e sistemam¬mo sul tavolo il contenuto della cartella. C'erano un paio di fotocopie delle fotografìe di bambini scomparsi. Solo un paio. Erano tutti e due maschi, e tutti e due, come fanno i ragazzini, fissavano l'obiettivo con l'aria di cerbiatti stupiti.
Uno aveva i capelli tagliati a spazzola, e orecchie talmen¬te grandi che se fosse riuscito a sbatterle avrebbe decollato. Era il primo caso segnalato di scomparsa. Mi venne in men¬te che se fosse vissuto adesso sarebbe stato un giovanotto.
L'altro era un bel bambino. Gli mancavano due denti an¬teriori. Fissai a lungo quelle foto. Volevo che quei bambini fossero veri, non semplici riflessi su carta colorata. Pensai agli altri ragazzini. Non c'erano fotografie disponibili. Quan¬do erano vivi, nessuno si era preoccupato di fotografarli. Era come se la loro esistenza non avesse importanza, come se non fosse necessario testimoniarla.
Studiammo il materiale per un po'. Ce n'era parecchio, ma non diceva molto. C'erano appunti degli agenti e dei de¬tective. Hanson ne aveva aggiunto qualcuno di suo. Il dato ovvio era che, negli ultimi otto anni, ogni anno era scompar¬so un bambino dall'East Side e non se n'era saputo più niente.
"Vedi qualche schema fìsso?" chiesi.
"Tutti maschi," disse Leonard, dopo un po'. "Tutti sui nove o dieci anni. Tutti non certo con la migliore delle si¬tuazioni famigliari, e in alcuni casi la scomparsa è stata se¬gnalata dopo un certo tempo. In parte può essere stata col¬pa dei genitori, e in parte dell'atteggiamento menefreghista delle forze di polizia."
"E l'epoca degli omicidi?"
Leonard studiò la documentazione. Dopo un po' disse: "Mi venisse un accidente. Tutti scomparsi in agosto, tranne uno. Corey Williams sembra sparito nel settembre scorso."
"Prima che ti alzassi, ho fatto qualche conto," dissi. "Cal¬colando il fatto che molte delle segnalazioni sono state fatte in ritardo, è probabile che siano stati tutti rapiti all'inizio dell'ultima settimana di agosto. Personalmente, mi pare che sia una coincidenza quasi eccessiva."
"Adesso siamo in agosto," disse Leonard.
"Già. E tra due settimane saremo all'ultima settimana d'agosto."
"E cos'ha di speciale l'ultima settimana di agosto?"
"Non lo so. Sembrerebbe uno schema fisso, però mi è ve¬nuto anche da pensare all'odore che usciva da quella fossa. Il cadavere era fresco, o così sembrava. Quindi forse tutta questa faccenda di fine agosto è solo una coincidenza e que¬st'anno il nostro uomo si è messo in moto un po' in antici¬po. Però non credo. Il puzzo potrebbe essere dovuto a una putrefazione lenta. Con un terreno del genere, a volte suc¬cede. A volte seppellisci qualcosa e ci mette un sacco a pu¬trefarsi.
"Un'altra cosa che mi balza agli occhi è che erano tutti fi¬gli illegittimi. Niente padre. Le madri erano tutte teenager. Un paio di bambini erano stati dati in affido, si erano cac¬ciati in un guaio o nell'altro quasi prima di smettere i pannolini. Furtarelli. Droga. Cose che non dovrebbero nemme¬no passare per la testa di un bambino. Vedi lo schema ricor¬rente?"
"Non so se è uno schema," disse Leonard. "Non nel sen¬so che intendi tu, comunque. Secondo me indica solo che bambini di quel tipo sono a rischio."
"Be', noi abbiamo già in mente il buon reverendo, per via dei rapporti di Illium con la chiesa, e del riciclaggio dei buo¬ni omaggio... il che spiega tutti i maledetti giornali di zio Chester. E se ricordi, Fitzgerald ce l'aveva su di brutto coi figli illegittimi. Ti è rimasto in testa qualcosa in particolare di quello che ha detto?"
"Mi è rimasto in testa tutto... Sì. Quando parlava delle madri di figli illegittimi, ha detto che le madri avevano pro¬dotto ragazzini. Non ha parlato di bambine, o di figli. Ha detto ragazzini senza padre. Qualcosa del genere."
"Sul momento, non ho trovato significativa la cosa," dissi. "O almeno non troppo, però mi è rimasta impressa. Secon¬do me abbiamo a che fare con un serial killer che ha il pal¬lino della religione. In un modo o nell'altro ha collegato la religiosità alla sessualità e al desiderio di potere. Non so. Può darsi che sia tutto per colpa di qualcosa che gli è suc¬cesso nell'infanzia."
"Merda, Hap, non me ne frega un cazzo di quello che gli è successo nell'infanzia. Cioè, se se l'è scopato il vicino di casa che era un capo degli scout, mi spiace per il bambino che lui era, ma per l'uomo che è oggi non me ne frega nien¬te. Ha fatto la sua scelta."
"Non so se certa gente ha una scelta, dopo che ha subito certe cose."
"Il cancro fa quello che fa perché non ha scelta, ma se io ho il cancro, non mi metto a psicanalizzare il piccolo bastar¬do. Lo faccio tagliare. Quest'uomo è un cancro."
"Comunque sia, se riusciamo a capire che cosa lo guida, avremo più probabilità di inchiodargli il culo. È chiaro che i figli illegittimi non gli vanno a genio. Lo fanno incazzare."
"Okay, Hap, ti vengo dietro. Ha la fissa dei ragazzini di una certa età, quindi doveva avere nove o dieci anni quando è stato stuprato da un uomo. Ho indovinato?"
"Probabilmente da una persona con una certa autorità."
"Un sacerdote come lui? È a questo che vuoi arrivare? Qualcosa che in qualche modo colleghi Dio, religione, sesso e abuso sessuale."
"Se Fitzgerald è figlio illegittimo, chissà se sa chi era suo padre, e che mestiere faceva. Prete anche lui? E pensa in che posizione si trova. È perfetta. Tutti si fidano di lui. Ha accesso ai ragazzini. Ha tutti quei programmi per i giovani. Bambini come questi qui, trascurati, probabilmente non vo¬luti, sarebbero carne da macello per questo lupo. E secondo me quest'uomo è psicotico, non sociopatico. Oppure tutte e due le cose. Si esalta perché ha il potere di controllare i ra¬gazzini, e pensa di fare la volontà di Dio. Fino a un certo punto, li controlla in maniera positiva. Il baseball, il calcio, quello che vuoi, però..."
"Non è abbastanza."
"Per certi figli illegittimi non è abbastanza. Quelli che magari gli ricordano se stesso alla loro età. Se riesce a con¬trollarli, distruggerli, può controllare il suo passato, distrug¬gerlo. Per lo meno una volta all'anno."
"Ma perché una volta all'anno? Stiamo parlando di uno schema fisso assolutamente rigido, immutabile?"
"Non so."
"Okay, Hap. Quando aveva nove o dieci anni è stato stu¬prato da un uomo, magari suo padre, che era un sacerdote. Oppure è stato stuprato da un altro sacerdote. Se non un sacerdote, qualcuno in posizione d'autorità, qualcuno di cui si fidava. La cosa lo ha bacato. Ed è un fanatico religioso. Fin qui ci siamo?"
"Sì."
"Okay. Ha collegato il fanatismo con la sua devianza. Ec¬co perché c'è una pagina dei Salmi in tutte le riviste porno che abbiamo trovato. Per lui le due cose sono legate. O ma¬gari una parte di lui sa che quello che fa è malvagio, e in qualche maniera i Salmi lo assolvono. Diciamo che è psico-tico. Che uccide per Dio. Se anche una sola parte di tutto questo è vera, non ci porta più vicini di un millimetro a in¬chiodare il bastardo. Cerchiamo di mettere assieme prove concrete, e tu potrai giocare a Freud nel tempo libero. Dai, forza. Cosa abbiamo?"
"È questo il problema," dissi. "Non so se siano prove tan¬to solide. Ma ecco quello che abbiamo, e quello che io ipo¬tizzo. Tuo zio Chester e Illium erano amici. Illium lavorava per la chiesa. È per questo che il povero cervello confuso di zio Chester riteneva importanti i buoni omaggio. Stava cercando di puntare l'indice sulla chiesa. Il tuo quadro ci ha portati alla casa degli Hampstead e a quello che c'è sotto. Abbiamo già stabilito cosa stesse a indicare il libro."
"Illium," disse Leonard. "E forse, col titolo del romanzo, zio Chester cercava di indicarci la natura del nostro crimina¬le. Dracula è niente, paragonato a quest'uomo."
"Secondo me, tuo zio e Illium, probabilmente per qualco¬sa che Illium ha visto in chiesa, hanno cominciato a sospet¬tare di Fitzgerald. Forse per il suo modo di trattare i ragazzini, specialmente quelli illegittimi. E chissà come, Chester e Illium lo hanno collegato alla casa degli Hampstead. Metti che il buon reverendo faccia un pellegrinaggio lì per andare ad adorare la macchia d'umidità, o qualcosa del genere. Il¬lium lo segue, lo tiene d'occhio. Fitzgerald torna a casa per imparare a memoria il suo sermone, e zio Chester e Illium scavano e trovano i cadaveri. Per lo meno sei. Scommetto che ci sono anche gli altri due."
"Così mio zio," riprese Leonard, "ha preso uno dei cada¬veri e lo ha nascosto qui, e intanto lui e Illium andavano avanti con le indagini. Probabilmente nel timore che il vec¬chio rimuovesse i corpi."
"È qui che hanno mandato tutto a puttane. Avrebbero dovuto rivolgersi alla polizia."
"Già," disse Leonard. "E siccome non lo hanno fatto e lo scheletro è stato ritrovato qui, hanno regalato una scappa¬toia al reverendo."
"Esatto," dissi. "Tuo zio perde la memoria, muore, così esce di scena. Aggiungi Illium all'equazione, defunto sul fondo dello stagno con riviste porno e abiti da bambino sul divano, e il reverendo non si presta più alla parte dell'assas¬sino come si sarebbe prestato prima. Quindi abbiamo un sacco di prove indiziarie. Bastano?"
"Hai pensato a una cosa?" disse Leonard. "Può anche darsi che siccome a noi non piace quel bastardo, stiamo cer¬cando di far combaciare tutto per incastrarlo. Come si è tro¬vato incastrato in questa storia mio zio. Pare che per il re¬verendo si metta male, ma noi vediamo nebbia o fumo? Tutto quanto ci porta alla chiesa, d'accordo, però non signi¬fica che debba portare a Fitzgerald."
"Sì che ci ho pensato. E ho anche pensato al fatto che sta per arrivare l'ultima settimana di agosto. E ho pensato che se ci mettiamo in moto prima di avere in mano le prove, il bastardo potrebbe spaventarsi. Nel qual caso, non smette¬rebbe di fare quello che fa, ma potrebbe diventare molto più cauto."
"Non è che per adesso abbia commesso tanti errori," dis¬se Leonard. "Questa faccenda va avanti da anni."
"Fino a un certo punto, bambini come quelli, se diventa¬no vittime, sono identici alle prostitute. Vengono considerati sacrificabili. Ragazzini neri, illegittimi, senza speranza e sen¬za futuro e senza qualcuno che si prenda cura di loro. È piuttosto facile ucciderli senza essere presi. E considera che l'assassino ha cominciato a farli fuori in un periodo in cui le alte sfere della polizia non si preoccupavano più di tanto delle comunità etniche, e forse nemmeno oggi se ne fregano poi troppo..."
"Potrebbe andare avanti all'infinito."
"Esatto."
"Ha una mossa da suggerire, signor Sherlock Freud?"
"Aspettiamo che Hanson trovi Illium, poi gli raccontiamo i nostri sospetti. Gli parliamo della casa degli Hampstead e gli mostriamo quello che abbiamo trovato, poi stiamo a ve¬dere cosa dice."
"E nel frattempo?"
"Aggiustiamo la veranda di MeMaw, no?"
Leonard versò un'altra tazza di caffè per tutti e due. Dis¬se: "C'è qualcos'altro che non va, giusto?"
"Perché me lo chiedi?"
"L'ho capito. Florida?"
"Già."
"Ieri sera è tornata a casa con Hanson, eh?"
Lo fissai. "Ti sei accorto di qualcosa anche tu?"
"Be', si guardavano parecchio. E si poteva fiutare. All'incirca. Lui tutto ormoni, lei in calore."
"Grazie per la delicatezza."
"Prego. C'è andata a letto?"
"Credo di sì."
"Mi spiace, uomo."
"Be', stammi a sentire: Florida è adulta e vaccinata. Fa quello che vuole."
"Ma è lei che ci perde. Tu sei una brava persona, Hap. Ci perde lei. Anche se probabilmente Hanson ha un uccello più grosso."
"Grazie, Leonard. Mi hai proprio tirato su il morale."
"Ehi, siamo amici, no?"

28

È duro affrontare consapevolezze del genere. Bambini morti sepolti sotto una casa, un assassino a piede li¬bero, col suo momento preferito per uccidere in rotta di collisione, e poi c'era la questione della mia donna che mi aveva piantato per un uomo più vecchio, e io e Leonard sta¬vamo costruendo una veranda.
Per fortuna, il lavoro mi rilassava. Cominciava a piacermi il legno, la consistenza e l'odore delle assi nella calda aria aperta. Mi piaceva la sensazione di prendere qualcosa di fra¬gile e debole e trasformarlo in qualcosa di solido e bello. Mi piaceva aiutare MeMaw.
MeMaw aveva una brutta aria quel giorno, però ci regalò un sorriso a tutta dentiera e ci invitò per un caffè della tarda mattinata. Lo bevemmo, anche se galleggiavamo già nel no¬stro. Finito il caffè, lei ci chiese di aiutarla a mettersi a letto. Disse che si sentiva più debole del solito e che voleva rimet¬tersi in forma per l'arrivo del suo piccolino. La aiutammo a trasferirsi dal girello al letto e Leonard la coprì con un len¬zuolo e accese un ventilatore per far circolare l'aria calda.
"Non le daranno fastidio i martelli?" le chiesi.
"Stanca come sono, l'unico che possa svegliarmi è il Si¬gnore. E oggi dovrà proprio urlare."
"Si riposi, MeMaw."
Sembrava così antica, sdraiata lì. Non una persona; una mantide religiosa. Tutta ossa e pelle tiratissima. Dormiva prima che noi lasciassimo la stanza.
Lavorammo facendo il meno rumore possibile, e verso mezzogiorno Leonard decise di volere hamburger e patatine fritte, e avrebbe usato uno dei buoni omaggio di zio Chester per averli. Io restai a strisciare sotto casa. Tirai fuori delle vecchie assi da portare alla discarica. Erano cascate giù dalla veranda secoli prima; erano umide e marce, un invito a noz¬ze per le termiti.
Stavo facendo quello quando la veranda sopra di me strillò come un topo col mal di pancia. Pensai fosse Leonard. Strisciai sul davanti della casa, riemersi dal vespaio e mi alzai, pronto per un hamburger. Ma non era Leonard. Era un nero all'inarca della mia stessa corporatura ed età, e io lo riconobbi immediatamente, anche se non ci eravamo mai visti. Indossava un completo blu da pochi soldi e mi guardava come fossi un serpente uscito da sotto la casa.
"Lei chi è?" chiese, e aveva l'espressione di uno pronto a fare a pugni.
"Hap Collins," dissi. "Tu sei Hiram, giusto?"
Lui mi scrutò per un secondo. "Come fai a saperlo?"
"Ho visto la tua fotografia. Sono un amico di MeMaw. Io e il mio socio Leonard le stiamo riparando la veranda."
"E dove ha trovato i soldi?"
"Non ne ha mica bisogno. Paga a torte."
Lui si esibì in un sorriso lento, e quando sorrideva, per la miseria se non aveva la stessa aria sicura di sé di Leonard, quasi fosse immortale e lo sapesse. MeMaw aveva ragione. Si somigliavano proprio.
Tesi la mano. "Lieto di conoscerti."
"Anch'io," disse lui. Ci fu una stretta.
"MeMaw dorme. Ha detto che voleva riposarsi per te. Non avevo capito che tu dovessi arrivare oggi."
"Non lo sapeva di preciso, però l'ho chiamata e le ho det¬to che era probabile. Vengo sempre di questa stagione. È il mio periodo di ferie."
Annuì in direzione del furgone bianco sul sentiero. Sulla portiera era stampata la scritta ARTICOLI SCOLASTICI EASTEX.
"Esatto," dissi. "Tu fai il commesso viaggiatore."
"Sono capace di vendere calzini a un uomo senza gambe, Hap."
Di certo pareva di sì, dal tono. Gli dissi: "Però non vendi calzini alle scuole."
"No."
"Matite? Taccuini?"
"Niente del genere. Quella roba i ragazzini la comprano dal cartolaio. Io ho articoli tipo bandiere degli Stati Uniti e del Texas. Faccio affari sul posto. Prendo ordini per penno¬ni, podi, giubbotti, anelli personalizzati. Cose del genere. Più che altro vado in giro e parlo un sacco e sfoggio la den¬tatura."
Leonard arrivò dall'altro lato della strada. Parcheggiò sul sentiero d'accesso e scese con un sacchetto bianco ben un¬to. Ci raggiunse e annuì a Hiram. Disse: "Il piccolino di MeMaw."
Hiram sorrise. "In persona. Tu sei l'amico di Hap?"
"Cavoli," disse Leonard, "odio essere colto in flagrante."
Hiram rise come se avesse trovato la battuta davvero di¬vertente. Di certo c'era sotto l'arte del venditore, però sem¬brava anche un tipo a posto di suo.
"Possiamo dividere questa roba con te," dissi.
"No, grazie. Immagino che Mama abbia qualcosa di pronto."
"Soltanto roba che pare ambrosia degli dèi," disse Leo¬nard. "Mica capisco perché vuoi mangiare quella invece di dividere i nostri hamburger."
"Ho un carattere forte," spiegò Hiram. "Adesso entro in punta di piedi e vado a dare un'occhiata a Mama. Voi due prendetevela comoda. E grazie per il lavoro che state facen¬do. Non fossi stanco morto, vi darei una mano. Ho guidato come un matto. Sono partito stanotte da El Paso."
"È dall'altra parte del mondo," dissi.
"Già."
"Senti, Hiram," disse Leonard. "Noi lavoriamo ancora un po', poi portiamo via le assi e qualche altra cosa e chiudia¬mo bottega. Dobbiamo andare a comperare dei chiodi, la robetta che ci serve per finire."
"Avete bisogno di soldi?" chiese Hiram.
"Offriamo noi," rispose Leonard.
Hiram ci sorrise e ci ringraziò, quindi entrò in casa senza fare rumore e chiuse la porta.
Per come stava messo il mondo, per le cose che sapevo, era bello vedere che non tutto era andato in vacca. Bello sentirmi ricordare che esistevano ancora figli che amavano la mamma e tornavano a trovarla. Che non tutti avevano bambini morti sotto la casa.

Verso le due di quel pomeriggio, dopo che eravamo an¬dati a comperare chiodi e affini, Hanson parcheggiò sul sen¬tiero d'accesso di zio Chester e scese. Aveva con sé lo sbirro bianco, Charlie. Charlie indossava lo stesso vestito verde sti¬le Kmart dell'ultima volta, però aveva aggiunto un cappello di feltro al suo abbigliamento. Forse per tenere alla larga dalla testa quella mosca pestifera.
Charlie restò vicino all'automobile, e Hanson si avviò ver¬so la casa di MeMaw, dove stavamo lavorando.
"Avete un momento, ragazzi?" chiese.
Mettemmo giù gli arnesi, attraversammo la strada ed en¬trammo in casa nostra con loro. Prima che potessimo seder¬ci al tavolo di cucina, Hanson disse: "C'è dentro anche Charlie, ragazzi. Io devo avere qualcuno che mi aiuti."
Guardai Charlie. Aveva la stessa aria di sempre. Calmo, un po' annoiato, vecchio per la sua età, distaccato, fesso. Secondo me doveva essere distaccato e fesso come la pro¬verbiale volpe. Dopo esserci seduti, dissi: "Okay. Com'è an¬data?"
"Be', quello era sottacqua," disse Hanson.
"Lo avete identificato?" chiese Leonard.
"È Illium Moon. Sembrerebbe un suicidio. Ammesso di accettare il metodo del furgone nello stagno."
"È insolito, però," dissi.
"Ne ho viste di peggio," disse Hanson. "Ho visto uno che ha staccato il filo elettrico da una lampada, ha inserito la spina, poi ha messo il filo scoperto in una tazza piena d'ac¬qua, assieme al suo uccello. Un barbecue."
"Si è cotto l'uccello?" chiese Leonard.
"E anche tutto il resto," disse Hanson.
"Per tornare a Illium..." intervenni. "Avete trovato la roba sul divano?"
"Sì."
"E?"
"Secondo me, è come la pensate voi," disse Hanson. "Una messinscena. Troppo maledettamente comodo."
"Già," disse Charlie. "Alcuni di quei vestiti da bambino erano nuovi. Potrebbero essere di vittime recenti, ma noi pensiamo di no."
"Chi ha fatto fuori Moon," proseguì Hanson, "voleva da¬re l'idea che lui avesse ucciso dei bambini e si fosse tenuto dei souvenir, però il nostro uomo non ha voluto rinunciare ai suoi souvenir, perché io sono certo che li abbia. Un assas¬sino di quel genere se li tiene sempre. È disposto a staccarsi da qualche rivista, ma la roba che le sue vittime portavano... No, troppo speciale per uno stronzo simile."
"Non poteva proprio separarsene," si inserì Charlie, "così il nostro uomo è andato a comperare un po' di roba per bambini al Kmart. Ho controllato io stesso. Faccio sempre la spesa al Kmart."
"Ci si possono fare affari d'oro," dissi. "Già, e si riprendono indietro la loro merda senza proble¬mi, se non è della misura giusta," disse Charlie.
"Conosco uno che ama il Wal-mart per le stesse ragioni," dissi.
"Vero," disse Charlie. "Anche il Wal-mart è okay." "Voialtri ragazzi avete finito lo shopping?" chiese Han¬son.
"Questo qui è tutto lavoro," riprese Charlie. "Mai che ab¬bia voglia di svagarsi un po'."
Hanson lo ignorò. Tirò fuori il sigaro dalla punta smozzi¬cata, lo infilò in bocca e fece il solito numero di passarlo da un angolo all'altro. "Alcuni dei jeans sono stati messi in commercio soltanto quest'anno. Nel mucchio potrebbe an¬che esserci un pezzo autentico, qualcosa che apparteneva a uno dei bambini morti, ma niente di più. E sono pronto a giocarci la carriera."
"A dire il vero, da come sono messe le cose," disse Char¬lie, "ti stai giocando anche la mia carriera."
"Sarebbe terribile, eh?" Hanson si girò verso di noi. "I giornali tratteranno molto male Moon, credo. Non posso farci niente. Possiamo tenere nascosto quello che abbiamo scoperto per un po', ma non troppo. La cosa migliore che possiamo fare è portare a galla la verità, dimostrare che era solo una trappola. Voi due avete guardato i fascicoli?"
"Sicuro," risposi.
"Qualcosa?"
"Forse."
"Non fare il timido," disse Hanson. "Noi tre abbiamo un accordo."
"L'accordo è sempre valido," confermò Leonard. "E pre¬vede che vi informiamo di quello che sappiamo quando lo vogliamo noi."
Hanson tolse il sigaro di bocca e lo mise nel taschino in¬terno della giacca e inspirò molta aria, come se avesse male ai polmoni. Anch'io soffrivo quanto lui. Non ero sicuro che fosse giusto tenergli nascosto qualcosa. Stavo ancora se¬guendo le istruzioni di Leonard, però non sapevo di preciso per quanto sarei riuscito a resistere. Cominciavo ad avere paura.
"State a sentire," disse Hanson. "Io vi sto dando retta perché penso che abbiate in mano qualcosa, e quel qualcosa mi interessa e non voglio dover scalare montagne per otte¬nerlo. Ma se cominciate a pensare che siamo amichetti del cuore, che tutto questo sia soltanto un gioco, io vi spezzo il fottuto osso del collo. Vi scaravento nelle budella delle no¬stre prigioni. Vi faccio un culo così."
"Porcaccia," disse Leonard. "Ho l'impressione che mi si sia accelerato il polso."
Hanson parve gonfiarsi. "Provate a fottermi, brutti stron¬zi malcagati. Provate a fottermi e vedrete dove finite."
"Non ti fotterei con l'uccello di Hap," replicò Leonard. "Ma cazzo, giuro che non ti fotterei nemmeno con l'uccello di Charlie."
Hanson si mosse verso Leonard, e Charlie lo abbrancò, e io passai un braccio sul petto di Leonard. "Ragazzi, vediamo di calmarci," dissi.
Hanson si riempì i polmoni d'aria. Tentò di sorridere, ma la sua faccia era quella di uno che si è appena ritrovato in bocca uno stronzo di cane. "Va bene," disse. "Va bene, tutto OK. Starò al vostro gioco. Però solo per un po'. Per poco, pochissimo tempo."

29

Una notte di lampi di calore. Un letto gigante. Leonard aveva scoperto, non so perché, che gli pia¬ceva di più il divano, quindi il letto era rimasto mio. Il che andava benissimo finché c'era Florida, ma adesso mi pareva fosse il caso di proporre uno scambio. Decisi che quello sarebbe stato un importante argomento di conversa¬zione, il giorno dopo. Spiegare a Leonard perché io dovevo prendermi il divano-letto e lui il letto. A quell'ora della not¬te, cose del genere sembrano molto significative.
Mi misi a contare le pecore, cercai di ricordare i nomi di tutti i cani che avevo avuto, tentai di svuotare la mente, di fare tutte le cose che si fanno quando si è nervosi, ma il son¬no continuava a non arrivare.
Pensai a Florida. Al suo modo di sorridere e parlare, alle notti che avevamo trascorso assieme. Alla prima serata spe¬ciale in cui avevamo fatto l'amore, alla sera su alla vista pa¬noramica, quando mi ero illuso che la nostra relazione si stesse cementando.
Pensai a Hanson. Avrei voluto essere incazzato con lui, ma non aveva fatto niente. Aveva solo risposto a qualcosa che chiedeva una risposta. E che cazzo, il bastardo mi pia¬ceva. Sul serio. Era a posto. Speravo solo che gli cadesse l'uccello.
Mi alzai e rimasi per un po' alla finestra a guardare i guiz¬zi dei lampi di calore. Quando mi scocciai, mi misi a guar¬dare gli spaccia e i loro clienti. I clienti andavano e venivano alla svelta, come a un drive-in. Tentai di ascoltare le conver¬sazioni, ma sentivo solo mormoni che parevano ronzii di api. Quelli, e ogni tanto esplosioni di risate e la loro musica, che dal mio punto di ascolto era fatta soprattutto di bassi. Più che nelle orecchie, la sentivo nelle ossa.
Arrivato alla noia, infilai i calzoni della tuta e feci qualche mossa di Hapkido, boxai un po' con l'aria, poi accesi la lam¬pada del comodino, mi coricai sul letto e provai a rimetter¬mi a leggere La gang dell'aldilà.
Stavo cominciando a concludere qualcosa quando, verso mezzanotte, sentii un suono, una specie di uggiolio. Poi ci fu un leggero tonfo sotto casa, seguito dal silenzio.
Restai in ascolto un attimo, e il suono non si ripeté. Pro¬babilmente un cane si era infilato nel vespaio, aveva battuto la testa e poi se n'era andato, ma io ero troppo nervoso per non controllare. Negli ultimi tempi, dopo tutto quello che avevamo trovato e con quegli stronzi dei nostri vicini, se un uccello cinguettava o Leonard mollava una scorreggia, io ero sempre pronto a fare un salto.
Spensi la lampada, scesi dal letto, mi misi le scarpe, presi la 38 e andai in soggiorno.
Leonard era in piedi. Si stava infilando le scarpe. Non ero l'unico a sentire cose. Nella stanza c'era abbastanza chiarore lunare da farmi vedere la sua faccia. Leonard an¬nuì. Andò all'armadio, lo aprì e tirò fuori il fucile. "Davanti o dietro?" chiese.
"Davanti."
"Esci e conta lentamente fino a venticinque. Così saremo sincronizzati."
Arrivai alla porta e aprii i vari catenacci, cercando di fare il meno rumore possibile. Avevo contato fino a quindici quando sentii Leonard aprire la porta sul retro e scivolare fuori. Lo stronzo contava troppo in fretta. Spalancai la porta e schizzai sulla veranda, accucciandomi sui talloni.
Fuori c'erano la luce delle stelle e i raggi argentei della lu¬na, e lontani, a est, i lampi di calore. Ci vedevo benissimo, ma non c'era niente da vedere.
Restai fermo lì, in ascolto. Avevo l'impressione di essere un po' scemo. Sentivo solo gli stronzi alla porta accanto. Le loro voci. La loro musica. Guardai da quella parte. La luce della veranda era stata spenta, però riuscivo lo stesso a ve¬dere un paio di persone. Stavano parlando. Non guardavano nella mia direzione. Scesi i gradini e mi fermai di nuovo ad ascoltare. E questa volta sentii qualcosa.
L'uggiolio. Mi ricordò vagamente un cane che avevo da bambino. Il nostro vicino, che non si divertiva molto a ve¬derlo scavare nelle sue aiuole, gli aveva dato da mangiare carne trita farcita di vetro. Il cane morì. Quando mio padre scoprì cosa era successo, si lavorò il vicino a forza di pugni e cercò di fargli mangiare un metro di manico di rastrello. Alla fine, usò la testa del vicino per arare le sue aiuole. A mio padre piacevano gli animali. Delle petunie non gliene fregava niente.
Mi spostai verso il suono, che adesso era continuo e si era trasformato in un gemito. Feci il giro della casa e vidi Leonard a quattro zampe. Aveva mollato il fucile per terra e si stava infilando in un foro della zoccolatura attorno alla casa.
Quando lo raggiunsi, Leonard strisciava fuori, e portava qualcosa con sé. Un ragazzino. Lo teneva per i calzoni, e dopo che lo ebbe tirato fuori, lo riconobbi nel chiarore lu¬nare. Era il ragazzo che si era fatto la pera sulla veranda di zio Chester, quello che adesso aveva il cercapersone.
Era scosso dai brividi, aveva gli occhi rovesciati nelle or¬bite, ed emetteva il suono che mi aveva ricordato il mio ca¬ne. Era conciato male. Non sapeva dove fosse. Era strisciato sotto casa nostra come un animale ferito, in cerca del buio, del contatto fresco del terreno.
Mi parve strano che fosse entrato proprio da lì: il posto che aveva scelto per nascondersi, per cercare di vincere il dolore, era sotto il pezzo di pavimento che Leonard e io avevamo riparato, non lontano dal punto in cui avevamo trovato il baule che conteneva le piccole, patetiche ossa. E mi resi conto che nel mio sogno, quando avevo visualizzato il bambino nel baule, le ossa rivestite di carne, avevo visto la faccia di quel ragazzino.
"Non sembra ferito," disse Leonard. "Non vedo sangue."
"Overdose," dissi io. "Se la sta passando brutta."
"Figli di puttana," esclamò Leonard. "È solo un bambi¬no."
Diedi il revolver a Leonard e raccolsi il ragazzo. "Chiamo un'ambulanza."
Mi incamminai verso la casa di MeMaw. Uno stronzo urlò dallo spaccio di crack: "Ehi, che cazzo hai lì?"
Il suono di quella voce fu come carta vetrata sul mio cer¬vello. Più tardi, ripensandoci, avrei capito che quella voce era stata il punto di rottura, il catalizzatore di ciò che sareb¬be accaduto. Sentii la voce e mi ricordò tutto quello che succedeva alla porta accanto, e pensai: Leonard e io siamo qui a cercare di fermare un demente che tortura e uccide bam¬bini, e in un modo del tutto diverso, alla porta accanto, c'è un branco di cazzoni che vanno contro la legge però non gliene frega niente, e fanno la stessa identica cosa, e noi non li fermiamo, non ci proviamo nemmeno. Quelli torturano a morte bambini portandoli all'assuefazione alla droga, e si riempiono le tasche di soldi e sono amici della gente che anticipa i soldi per le cauzio¬ni, e praticamente tutti quanti li trattano come fossero uomini d'affari.
Salii sulla veranda, tirai un calcio alla porta, strillai: "Me¬Maw. Hiram. Emergenza. Sono io, Hap."
La porta si aprì qualche istante dopo. Era Hiram. Ci j scrutava da dietro la zanzariera. Indossava l'accappatoio, e aveva un'espressione strana. Pareva che io fossi il ragazzo del take-away con la cena da consegnargli.
"Che ca..."
"Svegliati, uomo. C'è un'emergenza."
Sentivo il ragazzino rabbrividire tra le mie braccia. Lo guardai. Gli usciva saliva dall'angolo della bocca, e il suo corpo stava cercando di assumere una posizione fetale.
"Sì, sì," disse Hiram, e aprì la porta.
Scivolai dentro. "Devo chiamare un'ambulanza. Lo ab¬biamo trovato vicino a casa nostra. Overdose, penso."
"Lo prendo io," disse Hiram. "Non c'è bisogno di sve¬gliare Mama. Non sta bene."
Passai il ragazzino a Hiram, e lui lo prese in braccio e lo guardò, poi fece il giro del tavolo e lo portò nell'altra stanza. Io andai al telefono e chiamai un'ambulanza. Avevo appena riappeso quando sentii un colpo di fucile.
Corsi fuori, tenendomi basso. Vidi Leonard nel cortile degli spaccia. Aveva in mano il fucile da caccia. Sparò un altro colpo contro la fiancata della casa. Strillò: "Fuori! Tutti fuori!"
"Leonard," strillai io, e mi misi a correre in strada. Trop¬po tardi. Lui era già salito sulla veranda, e in veranda c'era un tizio, che stava fra Leonard e la porta. Non perché fosse coraggioso; perché era pietrificato.
Leonard lo scagliò via. Il tizio volò giù dalla veranda e ro¬tolò sull'erba, poi si rialzò e si mise a correre.
Leonard cercò di aprire la porta, ma qualcuno l'aveva chiusa a chiave.
Io arrivai sulla veranda più o meno nel momento in cui Leonard urlava: "State indietro, stronzi maledetti," e con un colpo di fucile scavava nella porta un buco grande abbastan¬za da poterci infilare la testa.
Lo presi per le spalle. "Datti una calmata, uomo."
Leonard mi fissò, e io vidi nei suoi occhi quello che avevo provato pochi istanti prima. Rabbia. Impotenza.
"Non puoi ucciderli, Leonard."
"Posso uccidere la casa."
Gli tolsi la mano dalla spalla e indietreggiai, e lui tirò un calcio alla porta dove il fucile aveva scavato il buco, e il bu¬co si ingrandì, e lui tirò un altro calcio, e un intero pannello della porta crollò; e veloce come una nube estiva di tempo¬rale sulla faccia del sole, Leonard assestò un altro colpo alla porta, e la porta crollò, e lui fu dentro.
E io alle sue calcagna.
L'illuminazione era scarsa. Non appena fummo entrati, Mohawk e quello che io chiamavo Carro Allegorico saltaro¬no fuori dal buio. Si gettarono su Leonard, lo abbrancarono uno per lato. Mohawk intrappolò il fucile contro il corpo di Leonard.
Mohawk strillò: "Adesso, baby."
Davanti a Leonard apparve una donna, bianca, magrissima, coi capelli unti, che indossava solo un paio di shorts. Puntò una piccola automatica sulla faccia di Leonard e pre¬mette il grilletto.

Non successe niente. La pistola si era inceppata. L'adre¬nalina mi corse in corpo come un geyser di petrolio da un terreno appena trivellato.
Balzai avanti e centrai Mohawk alla tempia con un de¬stro, e lui allentò la presa su Leonard. Leonard assestò un calcio allo stomaco della donna e la fece volare via.
Io infilai unghie e dita negli occhi di Mohawk, e con una leggera rotazione su me stesso gli assestai un calcio al ginoc¬chio. Un calcio non troppo forte, e il ginocchio restò intatto; però Mohawk si mise a ululare e lasciò andare Leonard e barcollò indietro fino a scomparire dietro una porta aperta.
Leonard stava usando il calcio del fucile per dare una ri¬passata ai denti di Carro Allegorico quando io mi lanciai avanti e acchiappai la donna. Doveva essere fatta marcia, e non sentiva dolore; si era messa in ginocchio e aveva ripreso in mano la pistola. La puntò sul mio inguine, e io abbassai di scatto la mano, lanciai via l'arma col palmo e feci un bal¬zo e afferrai la testa della donna con entrambe le mani; le mollai una ginocchiata in faccia, con tutta la forza che ave¬vo. Probabilmente, dopo un gesto simile, si sarebbe fatto vi¬vo con me il Club Gentiluomini del Sud, ma non me ne fregava un cazzo: se qualcuno prova a farmi del male, io gli rendo pan per focaccia. Quella crollò indietro col naso ap¬piattito, zampillando sangue, e la pistola sparò e dalla parete schizzò via un po' di stucco. Le piantai un'altra ginocchiata in faccia, e la pistola volò in corridoio, e adesso c'era gente che saltava fuori dal nulla, da ogni lato, una mezza dozzina di uomini, e uno di loro mi arrivò alle spalle e mi afferrò da dietro in una presa nelson intera. Io mi abbassai sui talloni e sparai due pugni all'indietro, e la stretta del tizio si allentò. Ruotai sui tacchi e lo colpii a una tempia col gomito, poi con tutto quanto il corpo, e gli passai un braccio attorno alla testa e lo feci crollare sul pavimento e gli tirai un calcio ai testicoli, poi un calcio a un ginocchio e poi all'altro, e il se¬condo ginocchio si ruppe col rumore di una bacchetta da tamburo spezzata in due.
Gli assestai un diretto alla tempia e uno a un rene e stril¬lai e mi girai e colpii un tizio con l'avambraccio, poi vidi un altro uomo volare via dal lato di Leonard, e il calcio del fucile di Leonard centrarne un altro alla testa, dopo di che persi di vista Leonard perché avevo da fare.
Tirai pugni e calci, ma soprattutto pugni e ginocchiate e gomitate, perché lo spazio d'azione era ristretto. I tizi co¬minciarono a correre via da me e Leonard, verso la porta. Sul retro della casa sentii una donna urlare, e un uomo stril¬lare, e la porta sul retro sbatté, e capii che un po' della gente venuta a fare spesa se la stava dando a gambe.
Controllai la donna. Era ancora fuori combattimento.
Mi guardai alle spalle. Carro Allegorico se ne stava col cu¬lo per terra, svenuto. Lo teneva su il muro. Sul petto aveva una colata di denti inzuppati di sangue. Aveva ancora in te¬sta la cuffia da doccia. Un articolo che valeva davvero il suo prezzo.
Un altro tizio, quello al quale avevo rotto il ginocchio, se ne stava sul pavimento a urlare così forte da ridurmi il cer¬vello in polpa. Leonard andò a mollargli un calcio in faccia, di brutto, e io dovetti afferrarlo per impedirgli di rifarlo.
Leonard si staccò da me e andò nella stanza dove era fi¬nito Mohawk, e io gli corsi dietro, entrando subito dopo di lui. E sul letto, in ginocchio, c'era Mohawk con un revolver puntato su Leonard. La pistola vibrava come una corda di chitarra. Mohawk disse: "Non farlo! Non farlo. Ti faccio saltare il fottuto uccello. Stai alla larga da me, pazzo d'un negro."
E Leonard, pazzo sul serio, fuori di testa come se gli avessero infilato un ferro incandescente su per il culo, puntò diritto su Mohawk. Mohawk non sparò perché aveva troppa paura. Che i proiettili rimbalzassero sul petto di Leonard, probabilmente.
Leonard gettò il fucile sul letto, tese le mani e afferrò la canna della pistola di Mohawk e gliela strappò, e con l'altra mano abbrancò Mohawk per la gola. Gettò la pistola e die¬de una frullatina a Mohawk e gli passò l'avambraccio sotto il mento e si esibì in uno strangolamento judo. Uno di quelli che non tolgono il respiro ma fermano solo l'afflusso di san¬gue al cervello, e da quello capii che Leonard aveva ripreso il controllo di sé.
Mohawk si agitò un po', poi si afflosciò.
Misi una mano sulla spalla di Leonard. "Lascialo andare, uomo."
Leonard lo lasciò andare e Mohawk cadde dal letto, sul pavimento. Era svenuto. Con quella mossa, bastano pochi secondi.
Leonard prese Mohawk per i piedi e lo trascinò fuori dal¬la stanza, e dal corridoio guardai Leonard trainare Mohawk sulla veranda, giù per i gradini. La testa di Mohawk batteva sugli scalini come fossero bongos. Leonard lo depositò in cortile e rientrò in casa. Si chinò, acchiappò Carro Allegori¬co per la camicia e lo tirò in piedi, e anche se era un grosso bastardo se lo caricò sulle spalle e si girò a guardarmi.
"Portali fuori," disse.
Andai a raccattare la donna. Pesava pochissimo. Per un attimo fui preso dai sensi di colpa all'idea di averla picchiata in quel modo, poi mi tornò in mente la pistola puntata sui miei coglioni e lei che sparava, e mi venne voglia di picchiar¬la un'altra volta. La trasportai in cortile e la sistemai in mez¬zo a Mohawk e Carro Allegorico. Tornai dentro, recuperai il tizio col ginocchio rotto e lo trascinai in veranda e gli diedi una spinta. Quello urlò per tutti i gradini, ma il vero urlo gli uscì quando impattò col terreno.
In distanza si udiva la sirena dell'ambulanza.
"Dentro," disse Leonard.
Tornammo in casa, nella camera da letto dove prima c'era Mohawk. Leonard tirò giù il materasso dal letto e co¬minciò a trascinarlo oltre la soglia. Lo depositò in corridoio. Io seguii Leonard come un pezzo di carta igienica che gli si fosse attaccato alla scarpa.
Andammo in cucina, e Leonard frugò in giro e trovò una scatola di fiammiferi. Cercò di aprirla, ma era talmente su di giri che gli cadde per terra. Raccolsi la scatola e la aprii, ti¬rai fuori un fiammifero, lo accesi e lo passai a Leonard.
Lui mi sorrise. C'era il demonio dietro quel sorriso. Col fiammifero, con molta cura, diede fuoco alla tendina della finestra della cucina. La tendina cominciò a bruciare di gu¬sto. Io presi un altro fiammifero, andai a un sacco che cola¬va spazzatura, accesi il fiammifero sul banco di cucina e guardai la fiamma. Ci vidi dentro il ragazzino in overdose, i cadaveri sepolti sotto la casa, le ossa nel baule, l'ombra in¬distinta di Illium.
Lasciai cadere il fiammifero su una scatola untuosa di Hamburger Helper. Un secondo dopo, il sacco era in fiam¬me. Lo infilai a calci sotto il tavolo, e le fiamme salirono e acquistarono vigore sulla tovaglia di plastica. Il tavolo era un immondezzaio. Non impiegò molto a prendere fuoco.
Ci spostammo in corridoio, e Leonard tirò fuori il suo coltello da tasca e squartò il materasso. Io diedi fuoco al¬l'imbottitura, e il materasso si incendiò che era un piacere.
Facemmo lo stesso in camera da letto con tende e len¬zuola. Leonard recuperò il fucile, passammo in bagno e tro¬vammo qualche bottiglietta di alcol nelTarmadietto dei me¬dicinali. Lo versammo sul pavimento e gli demmo fuoco. Le fiamme corsero su per le pareti.
Quando uscimmo in veranda, avevamo usato tutti i fiam¬miferi e la casa stava bruciando sul serio. In cortile, gli in¬fermieri arrivati con l'ambulanza stavano guardando Mohawk e gli altri. Un'ambulanza era parcheggiata a lato del marciapiede.
"Non quegli stronzi," disse Leonard, puntando l'indice sul lato opposto della strada. "Là c'è un ragazzo."
Uno degli infermieri ci guardò, posò gli occhi sul fucile stretto fra le braccia di Leonard. "Stai calmo, amico. Noi non c'entriamo."
Guardai la casa di MeMaw. Ero certo che adesso fosse sveglia, stesse male o no. Le luci erano tutte accese. Davanti alla casa c'era un'ambulanza. Gli infermieri stavano carican¬do a bordo una barella. Hiram era in veranda. Guardò me e Leonard. Le luci rosse e blu dell'ambulanza corsero a stro-boscopio sul suo corpo, si fusero con la luce gialla della lan¬terna della veranda. Hiram non ci salutò con la mano.
Mi girai verso lo spaccio di crack. Vedevo fiamme dietro le finestre, come le candele di una zucca di Halloween. Una delle finestre esplose all'improvviso, e un serpente di fumo nero si srotolò nella notte, portando con sé un odore pun¬gente. Forse plastica che bruciava. Oppure solo la malvagità della casa in fiamme.
"Certo che queste vecchie case di legno prendono fuoco alla svelta," disse Leonard.
"Già," dissi. "È il legno stagionato."
Leonard e io tornammo alla casa di zio Chester. Leonard aveva lasciato sulla veranda la mia 38; mi fece vedere do¬v'era, e io la raccolsi.
Entrammo ad aspettare l'inevitabile.

30

Le celle comuni sono molto piccole, e scarseggiano di comodità. E quella lì puzzava come un canile. Io e Leonard eravamo seduti sul pavimento assieme a un'altra decina di tizi, e il pavimento era freddo e duro e non c'era traccia di un solo cuscino. Un ubriaco continuava a cercare di mettermi la testa sulle ginocchia e voleva chia¬marmi Cheryl.
C'era un water, ma se ti sedevi per combinare qualcosa, tutti quanti ti avrebbero guardato. Posso sopportare pratica¬mente tutto, ma al cesso voglio la mia privacy. Per i miei gu¬sti, defecare non è uno sport che preveda spettatori. Non che avessi bisogno del water, ma mi preoccupava la situazione se si fosse presentata la necessità. Ovviamente, le sbarre e la parete sul fondo della cella erano di un blu molto chia¬ro, che dovrebbe essere un colore rilassante per chi vuole usare l'intestino. Se la memoria non mi inganna, però, è me¬glio il verde. Forse potrei suggerirlo alle autorità. Fissare un'udienza col sindaco.
Un altro lato brutto delle celle comuni è che non ci si in¬contra grande gente. Non esattamente.
Parecchi sono criminali.
I tizi coi quali avevamo avuto da dire non c'erano. Proba¬bilmente Carro Allegorico stava facendo una visita dal den¬tista, e gli altri erano in ospedale. Però c'erano lo stesso dei tipi molto carini. Uno del mazzo, un bianco untuoso, col fi¬sico di una cella frigorifera e una svastica tatuata sulla fronte in inchiostro rosso, tirò fuori l'uccello e pisciò tra le sbarre sulla gamba di una guardia. Arrivò un poliziotto, si mise a strillare, e il tizio gli pisciò sui calzoni. Lo sbirro batté il manganello sulle sbarre e bestemmiò, e il tipo grosso rise e si voltò e diede la scrollatina all'uccello.
"Brutti stronzi," borbottò, poi smise di ridere e studiò tutti quanti noi che eravamo in cella con lui. "Siete stronzi anche voi," disse.
Nessuno di noi stronzi si mise a discutere. In quanto a Leonard e me, eravamo stronzi stanchi e depressi. Il tipo grosso, senza rimettere dentro l'uccello, si spostò al lato op¬posto della cella e intimidì un piccolo messicano dall'aria tri¬ste con un'occhiata di quelle che inceneriscono.
E comunque, è noto che se uno ti guarda con l'uccello fuori ti innervosisce.
Hanson arrivò alle sbarre e guardò dentro. Portava ma¬glietta e jeans neri e quelle che parevano ciabatte da casa. Lo stomaco era gonfio sotto la maglietta, però sembrava du¬ro e solido, come una tinozza di metallo. Dal taschino della maglietta spuntava l'estremità umidiccia di un sigaro masticato. Gli feci un piccolo cenno di saluto.
Lui sorrise senza la minima sincerità e allargò le braccia. "Ragazzi! Come state?"
"Siamo un po' stanchi, tenente," disse Leonard.
"Incendio doloso e percosse, violazione di proprietà pri¬vata," elencò Hanson. "È roba che ti butta giù. Guardia, apra."
La guardia aprì. Hanson si fermò sulla soglia della cella e disse: "Ragazzi, qui da me."
Ci alzammo e ci avviammo. Il tipo grosso con l'uccello di fuori tentò di seguirci. "Non tu," disse Hanson, e dopo che noi fummo passati ributtò dentro il tizio.
"Io ti piscio addosso," disse il tizio, e spinse in fuori i fianchi, come se volesse pisciare su Hanson. Hanson allungò la mano molto molto in fretta e acchiappò l'arnese del tizio affibbiandogli un robusto strattone. Il tizio emise un suono tipo un foro improvviso in un pallone a elio e cascò in gi-nocchio.
Hanson disse: "Rimetti via quell'affare o te lo strappo e lo incornicio."
Uscì dalla cella, la guardia chiuse la porta, e Hanson ci sospinse lungo un corridoio.
Arrivammo a una porta, e Hanson si infilò tra noi due e la aprì. "Signori..."
Entrammo. Era un ufficio pieno di fumo. Charlie sedeva all'unica scrivania della stanza, coi piedi sul piano. Le suole delle sue scarpe erano logore. Aveva in mano un numero di una rivista scandalistica e lo stava leggendo. Aveva la giacca del vestito sullo schienale della sedia, una giacca verde da pigiama infilata nei calzoni, e il cappello di feltro gettato all'indietro sulla testa.
Mohawk sedeva su una sedia pieghevole di metallo, sul lato sinistro della stanza. Se ne stava lì a fumare una sigaret¬ta. Sul pavimento di fronte a lui c'era un posacenere, ed era pieno di mozziconi. C'erano sigarette spente fumate a metà tutt'attorno al posacenere.
Charlie non prestava la minima attenzione a Mohawk. Non ci guardò quando entrammo. Era tutto preso dalla sua rivistaccia.
Sulla destra della stanza, avviluppata nel fumo di Mohawk, c'era Florida. Era appoggiata alla parete, vicino a una sedia pieghevole. Portava jeans e una maglietta bianca molto aderente; era uno sballo. Proprio quello che avevo bi¬sogno di vedere in un momento simile. Ma del resto, sapevo che l'avrei trovata lì. Era l'avvocato del sottoscritto e di Leonard, e avevo usato la telefonata che mi spettava per chia¬marla.
"Hap," disse.
"Florida," dissi io. "Grazie."
Leonard le fece un cenno.
Hanson disse: "Tienili d'occhio, Charlie. Devo lavarmi le mani. Ho maneggiato un uccello."
Charlie non alzò la testa dalla rivista. Sollevò soltanto una mano. Hanson uscì e chiuse la porta.
Guardai di sbieco Mohawk, e lui guardò di sbieco me. Aveva visto tempi migliori. La sua cresta di capelli pendeva un po' a sinistra, e non c'era traccia della sua aria da duro. Aveva un bozzo su una tempia, dove l'avevo colpito. Staccò lo sguardo da me e si dedicò a Leonard.
Leonard gli sorrise. Uno di quei sorrisi di Leonard che preferiresti non vedere mai. Il pomo d'Adamo di Mohawk balzò su e tornò giù. Abbassò gli occhi sul pavimento. La si¬garetta che aveva fra le dita era con il filtro. Lui tirò un'ul¬tima boccata e la mollò. Riuscì quasi a centrare il posacene¬re. Disse: "Dove cazzo è quello stronzo del mio avvocato? Se questi hanno il loro, io voglio il mio."
"Prima devi chiamarlo," disse Charlie, e girò una pagina della rivista.
"Non mi avete lasciato chiamare una merda di niente, uomo," esclamò Mohawk. "È mica legale."
"Ehi," disse Charlie, "abbiamo da fare. Ci arriveremo."
"Certo che sembri molto occupato," replicò Mohawk.
"Il lavorio della mente è sottile," disse Charlie.
In tutto questo scambio di battute, Charlie non aveva tol¬to gli occhi dalla rivista un solo secondo. Aveva continuato a leggere. Dopo qualche istante, senza staccare la faccia dalle pagine, disse: "Certo che ne succedono di cose strane, al mondo. Hanno trovato un ritratto di Elvis in una tomba egi-zia." Mise giù la rivista e mi guardò. "Lo sapevi, Hap?"
"Non sono stronzate?" chiesi.
"Non sono stronzate. Dipinto sputato sul fottuto muro. Coi capelli belli gonfi e impomatati. Con una tuta da para¬cadutista e occhiali da aviatore. È tutto qui nell'articolo. C'è anche la fotografia."
"Sul serio?" chiesi.
"Sul serio," rispose Charlie. "Adesso stanno frugando nel¬la tomba. Si aspettano di trovare una mummia con la strut¬tura facciale di Elvis."
"Certo che ti tieni sempre aggiornato," dissi.
"Ti sorprenderebbe scoprire quante cose so," replicò Charlie. "Io mi tengo al corrente. Sempre al corrente. La co¬sa più corrente è che ho dovuto saltare giù dal letto perché ho saputo di un incendio, e mi è stato riferito che siete stati voi due stronzi ad appiccarlo."
"Abbiamo guardato fuori dalla finestra e abbiamo visto un incendio," spiegò Leonard. "Siamo corsi a dare una mano a mettere in salvo le vittime. Siamo due fottuti eroi."
"Lo stronzo racconta palle!" urlò Mohawk.
"Resta seduto, Melton," disse Charlie.
"Non dire altro," ordinò Florida a Leonard. "Tu e Hap tenete la bocca chiusa. Vi converrà."
"Al diavolo," disse Charlie. "A Hap e Leonard piace chiacchierare."
"È vero," confermò Leonard. "Non siamo capaci di star¬cene zitti."
Hanson aprì la porta e rientrò. Andò alla scrivania. "Ti spiace se mi prendo la mia sedia?" chiese a Charlie.
"Naaa," rispose Charlie. "Tutto a posto."
Charlie si alzò e andò da Mohawk. "Alzati, Melton."
Mohawk guardò Charlie. Charlie sorrise. Mohawk si alzò e si appoggiò alla parete. Charlie sedette, e col piede spostò il posacenere e i mozziconi di sigaretta che avevano manca¬to il bersaglio. Tirò avanti la sedia e mise i piedi sul bordo della scrivania, poi spinse indietro la sedia fino ad appog-giarla contro il muro. Aveva una posizione molto precaria.
Hanson sedette alla scrivania e studiò me e Leonard. "La prima volta che vi ho visti, mi siete piaciuti. Adesso non mi piacete più tanto."
"Questo è proprio doloroso," disse Leonard. "Merda, uo¬mo, tu ci piaci."
"Ho mangiato pastiglie per l'ulcera come fossero caramel¬le," riprese Hanson. "Ho quasi riacceso il sigaro. E voi due sapete perché? Perché sono stanco di tutte queste stronzate. L'incendio doloso è un crimine serio."
"Anche lo spaccio di droga," dissi io. "Il ragazzino che è strisciato sotto casa nostra potrebbe persino pensare che drogarsi sia una cattiva idea."
"Non pensa più niente," disse Hanson. "È morto prima di arrivare in ospedale."
Per un attimo regnò il silenzio. Leonard disse: "Secondo me l'intera forza di polizia ha una bella faccia di merda. Se vuoi la mia opinione. Quegli stronzi..." Agitò l'indice in di¬rezione di Melton. "Sono lì a vendere droga da secoli. L'hanno data a quel ragazzino. Il ragazzino è morto, uomo, e io non dovrei avere il diritto di incazzarmi? Lo sai che vendono droga. Lo sanno tutti, però adesso ci puoi incastra¬re per incendio doloso, e mi stai dicendo che ci sbatteranno dentro?"
"Può darsi," disse Hanson. "Io non posso farci un cazzo su come funziona la legge. Devo solo farla rispettare."
"Bella legge, se permette a schifezze come questo qui di fare quello che fa," dissi. "Che fine ha fatto la giustizia?"
"Se ci sono prove sufficienti, li portiamo dentro," rispose Hanson.
"E poi li lasciamo andare," intervenne Charlie.
Hanson lo guardò. "Cos'è: hai dato le dimissioni? Stai con loro?"
"Io faccio il poliziotto perché voglio mettere dentro i cat¬tivi," disse Charlie. "Non mi va di andarli a prendere a casa per portarli qui a usare telefono e cesso. E di certo non vo¬glio arrestare dei bravi cittadini per un equivoco."
"Un equivoco?" disse Hanson.
Charlie tolse i piedi dalla scrivania e lasciò dondolare in avanti la sedia. "Un paio di bravi cittadini vedono un incen¬dio e corrono a salvare della gente. Be', per me non è un crimine."
"Hanno preso una donna a ginocchiate in faccia!" strillò Mohawk. "Hanno fatto saltare i denti al mio braccio de¬stro."
"Quella donna è fatta marcia di crack," disse Charlie. "E per colpa tua. È una prostituta. Tre anni fa ha quasi pugna¬lato a morte una sua amica. Ha una fedina penale più lunga delle gambe di un giocatore di basket. E il tuo braccio de¬stro, e che cazzo: lo hanno rimesso in sesto. Gli mancano un po' di denti? Dovresti ringraziare. Adesso può succhiarti l'uccello ad aspirapolvere."
"La sola idea mi eccita," disse Leonard.
"E vorrei accennare al fatto che la donna che si è presa le ginocchiate in faccia mi aveva puntato una pistola nei co¬glioni," dissi.
"Moderiamo il linguaggio," intervenne Hanson. "C'è una signora."
"Come mai così di colpo?" chiese Charlie. "E poi al mo¬mento non è una signora. È un avvocato."
Florida sorrise. "Marvin, i miei clienti hanno solo visto un incendio e sono andati a dare una mano."
"Dio," disse Hanson. "Non ti ci mettere anche tu."
"Sono certa che il proprietario della casa, il signor Otis..."
"Un viso pallido col portafoglio gonfio, suppongo," inter¬ruppe Leonard.
"Uno dei più gonfi," proseguì Florida. "Il signor Otis, che mi risulta essere cittadino eminente, nonché amico del capo della polizia, sarebbe sconvolto se dovesse scoprire che la casa che ha affittato viene usata per spacciare droga."
"Naaa," disse Charlie. "Una parte dei soldi finisce in ta¬sca al vecchio scorreggione."
"Questo non lo sappiamo," disse Hanson.
"Non possiamo dimostrarlo," corresse Charlie. "Non è la stessa cosa."
"Sono certa che resterebbe sconvolto," insistette Florida. "Però so anche che sarebbe lieto di sapere che esistono uo¬mini coraggiosi come Hap Collins e Leonard Pine, che si so¬no precipitati in soccorso dei suoi inquilini a costo delle pro¬prie vite."
"Vediamo qual è il nostro dovere," disse Leonard, "e lo facciamo. È più forte di noi. Ci hanno cresciuti così."
"Già," disse Hanson. "E mentre svolgevate il vostro do¬vere, avete fatto saltare i denti a uno, avete rotto un ginoc¬chio a un altro e fracassato il naso a una donna."
"Ehi," esclamò Leonard. "Io ho le nocche a pezzi. Sono tutte sbucciate. Fagli vedere la testa, Hap." Io girai il lato destro della testa verso Hanson. Leonard puntò l'indice. "Visto? Ha una contusione."
"Cristo," disse Hanson.
"A volte, nell'impeto del momento," spiegò Florida, "an¬che se stai cercando di fare una buona azione, puoi com¬mettere qualche errore. Sono stati un po' duri, ma hanno salvato delle vite."
"Hanno appiccato il fuoco!" disse Mohawk.
"Ci sono stato, in quella casa," disse Charlie. "Ho buttato giù la porta per venirvi a trovare un sacco di volte. Era una merda, un invito a nozze per il fuoco. Un incendio poteva svilupparsi in un milione di modi."
"E tu ti sei portato il fucile per spegnere il fuoco?" chiese Hanson a Leonard. "Quelli dell'ambulanza hanno detto che avevi un fucile da caccia."
"Lo stavo pulendo. Abbiamo sentito il ragazzino che si era infilato sotto casa nostra, non sapevamo cosa fosse, e avevamo visto il fuoco dalla finestra, così sono corso fuori col fucile in mano. Ero talmente eccitato che mi sono scor¬dato di averlo."
"Chiudete il becco!" urlò Hanson. "Zitti, tutti quanti. Charlie, porta Melton al cesso."
"Non ho bisogno d'andarci," disse Mohawk.
Charlie si alzò e prese Mohawk per il gomito. "Sì che ne hai bisogno. Dai. Ti faccio vedere come si fa a piegare la carta igienica."
Charlie e Mohawk ci passarono davanti. Io dissi: "Grazie, Charlie."
"Noialtri che facciamo shopping al Kmart dobbiamo re¬stare uniti," disse lui, e uscì con Mohawk.
"Okay, basta con le stronzate," riprese Hanson. "La mia proposta è questa: a me non frega niente di quella casa o di Melton e di quegli stronzi dei suoi amici. Voglio inchiodarli quanto voi. Non voglio più ragazzini morti per droga. Però mi sono stufato di giocare al gatto e al topo con la storia dei bambini assassinati. Non voglio più nemmeno vedere bam¬bini uccisi in quel modo. Voi due fetenti mi dite tutto, op¬pure io uso questa faccenda dell'incendio doloso per fottervi, e non illudetevi che non sia pronto a farlo."
"E tu non ti illudere che io non te la faccia passare brutta in aula," ribatté Florida. "Melton non è esattamente il pro¬totipo del testimone accattivante. Come tutto il resto del suo branco."
"Mi faresti una cosa del genere?" chiese Hanson.
"Lavoro," disse Florida, e gli sorrise.
Hanson le restituì il sorriso. "Sì, me lo immagino. Okay, la mettiamo a posto così. Voi due avete visto un incendio, siete corsi a dare una mano. Un paio di persone della casa si sono lasciate prendere dal panico. Non sapevano che li volevate salvare, così hanno reagito violentemente, e anche voi siete stati un po' violenti, però li avete salvati, OK?"
Leonard e io ci dichiarammo d'accordo.
"Adesso faccio tornare qui Melton," disse Hanson. "Gli spiego che, se vuole opporsi a questa versione, può farlo, però sarà tutta merda che cola per lui. Discuterà per due o tre minuti e lascerà perdere. Non vuole rogne in tribunale, questo ve lo posso garantire."
"Avrà visto rogne in tribunale solo dopo che io gli avrò azzannato il culo," disse Florida.
Guardai Florida e le sorrisi. Lei rispose al sorriso. Per un attimo, fu come se fossimo ancora assieme.
"In cambio di tanta generosità da parte mia," proseguì Hanson, "visto che non trascinerò le vostre chiappe in tribu¬nale e non vi butterò a fiume, voi due sarete dolci come lo zucchero con me. Mi racconterete alcune cose che sapete e che io non so. Afferrato?"
Guardai Leonard. Lui annuì. "Mi sa che abbiamo già gio¬cato abbastanza a fare i detective."
Raccontò a Hanson della casa degli Hampstead e di quel¬lo che avevamo trovato. Notai però che si guardò bene dal menzionare il buon reverendo Fitzgerald.

31

Hanson ci rilasciò senza addebiti. Florida riportò a ca¬sa me e Leonard. Quando fermò nel viale e noi scendemmo, scese anche lei. L'odore di legno bru¬ciato era forte nell'aria. Florida disse: "Hap, possiamo par¬lare un momento?"
"Sicuro."
Florida guardò Leonard.
"Sono a pezzi," disse Leonard. "Vado solo a dare un'oc¬chiata a quello che resta della casa dei nostri vicini, tanto per tirarmi su il morale, poi mi metto a letto."
Arrivammo all'albero bottiglia e restammo a guardare le macerie annerite e fumanti della casa.
"Mucho mojo," disse Florida.
"Cosa?"
"Molta magia cattiva," tradusse lei. "La casa dei vostri vi¬cini era mucho mojo. Ne parlava sempre mia nonna. Mojo è un termine africano per magia."
"Credevo significasse sesso," dissi.
"Perché ascolti la musica blues," disse lei. "Sì, è il sesso, o gli organi sessuali. Ma in una accezione più larga. Cioè il sesso è una specie di magia. Mojo significa magia. Mia non¬na sapeva un po' di spagnolo, e quando le cose andavano male, diceva mucho mojo. Mucho in spagnolo sta per molto. Mojo in africano per magia. Però lei intendeva dire magia cattiva. Per lei mojo è sempre stato un termine negativo."
"Be', adesso alla porta accanto sono un po' meno cattivi," disse Leonard.
"Già," dissi io. "E noi d'ora in poi ci sentiremo bene a guardare fuori dalle finestre, però quelli si trasferiranno in un'altra strada. Non sono realmente scomparsi. Hanno solo avuto un intoppo."
"Io preferirei continuare a creargli intoppi, piuttosto che lasciarli andare via," disse Leonard. "Merdosi del genere, se hanno intoppi abbastanza spesso, possono anche cominciare a pensare che per una carriera del genere non valga la pena. Dovrebbe essere la brava gente di tutto il mondo a coman¬dare, non gli stronzi. Anche se, nei miei momenti più cupi, a volte ho paura che gli stronzi ci schiaccino con la forza del numero. Tra l'altro, Florida, chi è quell'Otis?"
"Il bianco che è proprietario della casa, e di un sacco di case dell'East Side," spiegò Florida. "Ho sentito che le chia¬ma senza problemi 'le case da affittare ai negri'. Ed è risa¬puto che una fetta della torta della droga finisce nelle sue tasche."
"E fra l'altro è anche buon amico del capo della polizia," disse Leonard.
"Sì," confermò Florida. "E non farà altro che ricostruire la casa. Con materiali da poco prezzo, è ovvio."
"Be', questo è un argomento buono per un'altra discus¬sione," disse Leonard. "Buonanotte, Florida. Hap, non stare in piedi troppo. Non voglio sentirti fare storie quando mi al¬zerò io."
Leonard entrò in casa, e Florida e io ci sedemmo in ve¬randa, sull'altalena. Mi venne in mente che la nostra storia era cominciata proprio su quell'altalena.
"Sarà un bel discorsetto d'addio, eh?" dissi.
"Volevo parlarti. Solo che non ne avevo il coraggio per¬ché non so di preciso cosa dire."
"Penso che 'Ciao ciao, Hap, e non dimenticarti il cappel¬lo' andrebbe bene."
"Non è così."
"E come?"
"Stanotte vado da Marvin."
"Avrei preferito 'Ciao ciao, Hap, e non dimenticarti il cappello'."
"È un brav'uomo, Hap."
"È questo che mi fa incazzare. Mi è difficile andare in be¬stia. Quel grosso bastardo mi piace. Comunque, sentire queste cose continua a non farmi piacere. Non che non le sapessi già."
"Volevo che le sentissi da me. È solo che non ho avuto il coraggio di farlo subito. Avrei dovuto dirti qualcosa appena me ne sono accorta, Hap, però non è che noi due stessimo assieme al cento per cento. Non ho mai detto che la nostra relazione sarebbe stata eterna."
"Fa male lo stesso."
"Ti passerà."
"Sì, però avrei preferito che funzionasse."
"Anch'io. Sul serio. Ci tengo a te. Magari ti amo anche un pochino."
"Per favore."
"È semplicemente successo, Hap. Non so cosa dirti. È successo, ed è successo in fretta. È stato bello fra noi due, e tu mi hai insegnato qualcosa su me stessa, però..."
"Hanson è nero."
"Probabilmente, se voglio essere onesta con me stessa, devo ammettere che questo facilita le cose."
"Non mi hai mai portato al cinema, Florida. E non sono mai nemmeno stato a casa tua. Scommetto che Hanson c'è stato. Giusto?"
"Sì. Ma ho capito che il mio uomo era lui la sera che l'ho visto qui. Non so perché. L'avevo già visto, ma quella sera è stata la prima volta che mi sono trovata tanto vicina a lui da sentire un certo tipo di calore."
"Forse era solo una serata calda."
Lei sorrise. "No. E non era solo sesso. C'era anche quel¬lo, ma Marvin non è la cosa più bella che io abbia visto."
"Nessuno potrebbe considerarlo la cosa più bella che si sia mai vista."
"Però l'ho visto, e in un modo o nell'altro ho capito. E l'altra sera, quando mi ha riportata a casa, non siamo finiti a letto o cose del genere. Volevo che tu lo sapessi. Non ci siamo saltati addosso. Abbiamo parlato, e parlato, e parlato. Fra noi si è stabilito un rapporto più profondo di quello che c'è fra te e me. Molto semplice. Forse il fatto di essere neri ci dà una storia comune, però quello che sento per Marvin non è solo perché lui è nero."
"Naturalmente, adesso voi due non vi limitate a parlare."
"Abbiamo fatto l'amore per la prima volta stanotte. Charlie lo ha chiamato a casa mia, quando ha saputo dell'incen¬dio e di te e Leonard. Dopo che Marvin è uscito, tu hai chiamato e mi hai detto dove eravate. Ma ovviamente, io lo sapevo già. Stavo per partire. Ho pensato che a te e Leo-nard potesse fare comodo un avvocato."
"La chiamata di Charlie ha interrotto qualcosa?"
"Questi sono discorsi da ragazzino, Hap."
"Scusa."
"Eravamo a letto a parlare. Di te."
"Facevate un confronto tra le dimensioni degli uccelli?"
Lei si alzò di scatto e fece per andarsene. La afferrai per un polso, e lei diede uno strattone. "Lasciami andare!"
"Florida," dissi, "mi spiace. Sul serio. Ma per me non è facile."
"Non è facile nemmeno per me, Hap. Non voglio farti del male."
"Però vuoi che restiamo amici, giusto? Non è questo il succo del discorso?"
"So che ti senti ferito, ma non è una cosa che avessi pre¬visto. È successo, porcaccia. È semplicemente successo."
Girai la testa a guardare il cumulo di macerie annerite che erano state lo spaccio di crack. Il fumo saliva verso le stelle. Mi voltai, guardai Florida.
"Io non ho proprio niente da ribattere," dissi.
Lentamente, con cautela, Florida si sedette al mio fianco. Vicina. Sentivo il suo profumo. Lo stesso profumo che sen¬tivo spesso sui miei cuscini. Mi prese la mano.
Io dissi: "Stasera sembravi proprio qualcosa di più di una che corre dietro alle ambulanze."
"Sì, eh?"
"Hanson ha capito che se ci avesse portati in tribunale, sentimenti personali o no, gli avresti fatto vedere l'inferno."
"E avrei anche vinto. Anche se voi due avete appiccato il fuoco alla casa. E intenzionalmente."
"Te la caverai alla grande," dissi. "Forse avevi solo biso¬gno di una pausa di riposo. A me pare che tu abbia ritrovato le tue ambizioni."
"Possiamo restare amici?" chiese lei. "Lo so che suona banale. Però io desidero sul serio, sinceramente, che restia¬mo amici."
Dedicai un minuto a rifletterci su. "Dammi un po' di tempo. Per adesso, se ti guardo non ti vedo in quel modo. So mica come ti vedo."
Lei si chinò a baciarmi sulla guancia. "Sarai un ottimo af¬fare per la persona giusta, Hap. È solo che io non sono la persona giusta."
"È quello che dicono tutte."
Lei si alzò, mi toccò una spalla. "Ti rivedrò? Presto?"
"Appena riesco ad affrontare la cosa," dissi.
Florida partì. Restai a guardare i fanalini posteriori della sua auto finché non scomparvero. Il vento prese forza e di¬ventò freddo e ululò nelle bottiglie dell'albero bottiglia.

32

Quando mi svegliai era prima mattina e io ero sull'al¬talena e mi faceva male la schiena. Ero dolorante anche nei punti dove mi avevano preso a pugni. Il polso ululava per l'impatto del colpo che avevo sferrato alla testa di Mohawk.
Avevo addosso una coperta e un cuscino sotto la testa. Leonard, l'unica costante della mia vita, era uscito a control¬lare. Non mi ero nemmeno accorto che mi muovesse la te¬sta o mi coprisse. Un angelo.
Mi alzai a mosse lente, irrigidito. Nell'aria era intenso l'aroma di bruciato della casa accanto. Il sole era splendido. Faceva ancora freddo. Mi mancava Florida.
Quella notte, prima di lasciare la stazione di polizia, Leo¬nard aveva raccontato a Hanson della casa degli Hampstead e di quello che c'era sotto. In mattinata, Hanson e una squadra di uomini sarebbero usciti. Il tenente avrebbe por¬tato con sé anche un suo amico di Houston, un coroner in pensione.
Nonostante i suoi discorsi, a conti fatti Hanson non era pronto a riferire al capo della polizia quello che sapeva. Vo¬leva accertarsi che tutto quello che gli dicevamo fosse vero, assicurarsi che avessimo interpretato le prove in maniera giusta. Secondo me, sapeva anche che se avesse raccontato al capo della polizia ciò che aveva scoperto, se gli avesse parlato del ruolo di Illium, il capo gli avrebbe tolto il caso con la scusa di non esserne stato informato subito. Ma se Leonard e io avevamo ragione, se Hanson fosse riuscito a ri¬mettere assieme tutti i pezzi del caso e a risolverlo, le cose per lui si sarebbero messe bene, a dispetto di quello che potesse pensare il capo. Non sarebbe stato facile licenziarlo per avere risolto un caso di omicidi multipli di bambini, non con tutta la pubblicità che ci sarebbe stata.
Ed ero piuttosto certo che Hanson sapesse che gli stava¬mo ancora nascondendo qualcosa. Che eravamo in possesso di una tessera importante del mosaico, e che non gliela mo¬stravamo.
Quindi, Hanson si sarebbe procurato un mandato, in fretta e con discrezione, senza nasconderlo al suo capo ma senza annunciarlo ai quattro venti, e lui e i suoi uomini si sarebbero messi in movimento.
Il suo gruppo sarebbe stato composto da Charlie, il coroner di Houston in pensione, me e Leonard, e un paio di al¬tri uomini dei quali riteneva di potersi fidare. Quella non era una mattinata che io aspettassi con piacere.
Mi stiracchiai e guardai le macerie dello spaccio di crack, sentii un'ondata di adrenalina dalla notte prima. Sentii an¬che una vampata di vergogna.
La violenza e l'ira contro un altro essere umano mi danno sempre quella sensazione, a prescindere da tutte le giustifi¬cazioni possibili. Se perdo il controllo, mi sento sempre smi¬nuito. Però mi sarei sentito ancora più sminuito se non aves¬si fatto qualcosa. Il ragazzino che stava morendo sotto casa nostra come un cane con la pancia piena di vetro... È diffi¬cile capire perché debbano succedere certe cose.
Ma si era trattato solo di quello? Avevo fatto ciò che ave¬vo fatto, ero stato al gioco di Leonard perché volevo vendet¬ta per quel ragazzino, per tutti i bambini che infettavano con le loro chiacchiere false e la droga? Oppure la voglia di perdere il controllo, di lasciarmi andare, era anche una parte del mio problema con Florida? Non mi piaceva pensare di avere dentro un serpente simile che strisciava e non vedeva l'ora di mordere.
All'altro lato della porta sentii sbattere una zanzariera, e sul portico di MeMaw apparve Hiram. Aveva in mano una tazza di caffè e indossava calzoni blu da jogging, maglietta blu e scarpe da tennis bianche un po' luride. Andò sull'orlo della veranda, tirò su un grosso grumo di catarro e lo sputò in cortile. Alzò la testa e mi vide.
"Hap," chiamò.
Scesi sul marciapiede e gli parlai da un lato all'altro della strada. "Grazie per stanotte," dissi. "Non sapevo da chi al¬tri andare."
"E cosa avrei potuto fare? Come sta il ragazzo?"
"Morto."
Hiram annuì. "Non mi sorprende. Era messo molto male. Aveva l'aria di chi non è più adatto a questo mondo."
La zanzariera si aprì e MeMaw cominciò a portare fuori il girello. Hiram afferrò la zanzariera e la tenne aperta. "Non c'è bisogno che tu esca," disse.
"Ma io voglio uscire," disse lei. Dopo un intero minuto era al centro della veranda, chiusa nel girello. "Sono felice che lo abbiate fatto. Fossi stata più giovane, lo avrei fatto io. Lenny è alzato?"
"No, signora. Non credo."
"Be', allora vieni tu," disse lei. "Ho la colazione a cuoce¬re."
"Signora," le dissi, "non voglio disturbare."
"Focacce, uova, e bacon." Spostò di un poco il girello, poi di un altro po', finché non fu di fronte alla zanzariera. Hiram gliela aprì. MeMaw rientrò, voltandosi a strillare: "Non lasciarla raffreddare."
Hiram mi sorrise. "Secondo me è meglio che tu venga a fare colazione."

MeMaw pareva estremamente fragile quel mattino, ma era ugualmente raggiante. Felice che lo spaccio di crack fos¬se ridotto in cenere, ancora più felice che il suo piccolino, Hiram, fosse a casa. La colazione fu grande. Il bacon era al¬to così. MeMaw lo aveva avuto da uno dei suoi figli che allevava maiali, e spalmammo sulle focacce il tipo di burro più adatto a intasare le arterie e le intingemmo nell'occhio giallo sole di uova freschissime, avute da un suo amico che alleva¬va pollame.
Dopo colazione, MeMaw intrattenne me e imbarazzò Hi¬ram con storie sull'infanzia del suo piccolino. Raccontò di¬vertenti incidenti, spiegò che Hiram era sempre stato un buon bambino cristiano, e quando Hiram ne ebbe abbastan¬za di quelle storie, chiese: "Ehi, che piani hai per oggi, Hap?"
"Niente di speciale," risposi. Non me la sentivo di spie¬gare che dovevo esumare cadaveri.
"Dovresti fare un po' di allenamento con me."
"Sono piuttosto a terra, dopo stanotte. Che tipo di alle¬namento?"
"Boxe."
"Odio la boxe," disse MeMaw. "Due adulti che si pren¬dono a pugni in testa per divertirsi. Non ti pare che Hiram e il reverendo Fitzgerald siano vecchi abbastanza da avere un po' più di sale in zucca?"
"Il reverendo Fitzgerald?" chiesi.
"Già. Io torno una volta l'anno. Ci vediamo, facciamo un po' di boxe, parliamo dei vecchi tempi. Giochiamo a scac¬chi. Lo faccio soprattutto per accontentare MeMaw. Secon¬do lei, devo tenermi in contatto col braccio destro del Si¬gnore. Non che non siamo stati imbottiti per bene di religio¬ne, quando crescevamo."
"Quando ero ancora in gamba," disse MeMaw, "ho fatto in modo che questa famiglia vivesse nella chiesa."
"Allora conoscete bene il reverendo Fitzgerald?" chiesi.
"Non lo hai visto l'altro giorno?" chiese MeMaw.
"Sì, signora. Un incontro molto breve."
Le feci la versione condensata del colloquio, lasciando perdere tutta la tensione tra il reverendo e Leonard. Comin¬ciavo a diventare piuttosto bravo, come bugiardo.
"Conosco Fitz da anni," disse Hiram. "Frequentavamo la chiesa di suo padre. Lui e io giocavamo assieme. Suo padre ha insegnato a boxare a tutti e due. Fitz è un po' più vec¬chio di me, ma io sono combattivo. Naturalmente, me le suona ancora di brutto. O me le suonava in passato. Spero sempre che la vecchiaia lo metta a terra."
"Per adesso non è ancora successo," dissi. "L'ho visto al¬lenarsi con un punching ball. È in forma. È un po' lento col piede destro quando si muove, però potrebbe essere solo il suo modo di boxare col punching ball."
"Allora tu sai qualcosa di boxe?" chiese Hiram.
"Un po'."
"Un altro che si diverte a prendere botte in testa," disse MeMaw. "Mica riesco a capirlo... Fra l'altro, come sta quel ragazzino?"
Mi occorse un momento per cambiare marcia e capire di chi stesse parlando. Poi afferrai. "È morto, MeMaw. Lo ab¬biamo trovato troppo tardi. La droga lo ha fatto fuori."
"Oh," disse lei. "Quanto mi spiace. Un bambino come quello, in quella tana di lupi, mica se la può cavare. Quello che mi piacerebbe sapere è dove stava sua madre."
Quella notte, da Charlie e Hanson, avevo scoperto qual¬cosa sul ragazzino, e informai MeMaw di quel che sapevo. "Era un ragazzo di strada, MeMaw. Si chiamava Ivan Lee."
"Ho sentito parlare dei Lee," disse MeMaw, "ma non posso dire di saperne qualcosa."
"Ivan viveva con una zia," spiegai, "ma a quanto pare non era una grande famiglia. Era abbandonato a se stesso. Non andava nemmeno a scuola. Passava quasi tutto il tempo per strada. Era stato arrestato per piccoli crimini qua e là. È fi¬nito in malora."
"Da queste parti," disse MeMaw, "un sacco di gente fini¬sce in malora. Qui c'è sempre qualcosa che tira spinte alla gente. Brutte persone e brutte cose da tutti i lati. Un bam¬bino deve avere uno scudo per proteggersi dal mondo. Deve imparare a proteggersi. Sono fortunata ad avere cresciuto tutti i miei figli senza che uno solo restasse rovinato."
"Non agitarti, Mama," disse Hiram. "Quel ragazzino era fregato fin dall'inizio. Giusto, Hap?"
"Non so mica se ci sia qualcuno fregato fin dall'inizio. Basta prenderlo in tempo," risposi. "Però c'è una linea, e se la attraversi finisci diritto sul sentiero di non ritorno. Nel ca¬so del piccolo Ivan, non so se la linea l'ha scavalcata lui o se lo hanno spinto."
"Può darsi," disse Hiram. "Ma chi se la fa con certa gen¬te, be'... 'Diventa come coloro che scendono nel pozzo.'"
"La Bibbia, suppongo," dissi.
"Già. Penso sia un modo per dire che simile cerca simile. O che se dormi in compagnia dei cani, ti svegli con le pulci. Sia come sia... Cosa ne dici, Hap? Ti alleni un po' con me? Non staremo via molto."
Riflettei un attimo. Al di là delle prove indiziarie, nulla ci assicurava che Fitzgerald avesse fatto le cose che pensavamo Leonard e io. C'era sempre la possibilità che Chester Pine e Illium Moon fossero davvero quello che secondo noi qual¬cuno voleva farli apparire. Un'altra occhiata al reverendo poteva essere interessante.
"Sì," dissi. "Ci sto."

33

Prendemmo il furgone di Hiram. Era pieno di roba, e per sedermi dovetti togliere dal sedile una scatola di bandiere del Texas. La misi sopra una scatola di ban¬diere americane, nel retro. Sparsi sul pavimento, davanti e dietro, c'erano opuscoli con le decorazioni per gli anelli de¬gli studenti all'ultimo anno delle superiori e campioni di car¬ta per annuari e bollettini scolastici, e dépliant pubblicitari di fotocopiatrici, macchine per scrivere e affini.
"Sì, lo so," ammise Hiram. "Sono disordinato."
Dopo essere usciti dal viale, per strada, quando la merce smise di muoversi, Hiram disse: "Non volevo dire niente davanti a MeMaw, ma a essere sincero andare a trovare Fitz non è sempre così meraviglioso. È un po' strambo."
"La stessa impressione che ha fatto a me. Cioè, è stato cordiale, ma un tantino fanatico."
"Non che sia così brutta. È un bravo ragazzo. Però spe¬ravo proprio che venissi anche tu. Non sto dicendo che non mi piaccia boxare con lui o fare una partita a scacchi ogni tanto, però a volte è un po' troppo per i miei gusti."
"Capisco."
"Solo che MeMaw va matta per la chiesa e la religione, che Dio benedica il suo buon cuore, e mi spinge sempre ad andarci, che lo voglia o no. Il vecchio di Fitz le sembrava un uomo molto speciale. Uno con la linea diretta con Dio."
"E invece secondo te non lo era?"
"In effetti, il vecchio era capace di presentarsi con una bella facciata, se voleva. Da bambino sono stato spesso con Fitz, ogni tanto ho dormito a casa sua, e mi sono accorto che il vecchio era un rompiballe. Non ha mai lasciato godere l'infanzia a Fitz. Aveva sempre da lamentarsi di qualcosa. E non lo lasciava in pace un minuto. Stava sempre addosso a Fitz perché non era suo figlio."
"Un matrimonio precedente?" chiesi.
Hiram cambiò marcia e scosse la testa. "Non riesco a ca¬pire perché il vecchio abbia sposato la madre di Fitz. Non mi pareva il tipo da prete. Si era divertita parecchio, prima che si conoscessero. Forse al vecchio piaceva l'idea di tra¬sformarla da Jezabel a donna di Dio. Anche se non so se lei sia cambiata poi molto. Giravano storie, e parecchie, e se¬condo me dove c'è fumo c'è anche arrosto."
"Chi era il vero padre di Fitz?"
"Non ne so niente. Nemmeno Fitz. Era uno che ha com¬perato la madre di Fitz e ha fatto i suoi porci comodi e se n'è andato. Probabilmente non sapeva nemmeno di avere fatto un figlio."
Passammo davanti all'East Side Market. Il vecchio pro¬prietario era seduto fuori al tavolo del domino. Scrutava la strada, forse preparando la strategia per l'arrivo degli altri giocatori.
"Allora il reverendo è figlio illegittimo?" chiesi.
"Be', ha preso il cognome del patrigno, naturalmente. Ma strettamente parlando, sì. Forse è per questo che Fitz rom¬pe tanto. Sta cercando di dimostrare qualcosa. Il vecchio non ha mai permesso a Fitz o a sua madre di dimenticare da dove venissero e che grande gesto avesse fatto per loro."
Pensai al profilo del reverendo Fitzgerald che avevo mes¬so assieme. Magari mi conveniva darmi alla carriera di psi¬cologo. Naturalmente, in fatto di profili femminili avrei do¬vuto passare la mano. Capivo la vita segreta del colibrì me¬glio di quanto capissi le donne.
"La madre di Fitz è ancora viva?" chiesi.
"È sparita. Sarà scappata. Il vecchio si è beccato un can¬cro o qualcosa del genere. Una morte lenta. Molta gente ha pensato che Dio gliela stesse facendo pagare per essere sta¬to quel tipo di uomo. In quanto a Fitz, be', ha i suoi lati buoni. Ha inventato cose per tenere i ragazzi lontano dalla strada. Odia sul serio la droga. Ha creato spazi per il foot¬ball e la boxe e il baseball e il lunapark."
"Il lunapark?"
"Già. Piace anche a me. Ci vado tutti gli anni perché mi trovo qui nel periodo giusto. È straordinario vedere dei bambini neri che non possono nemmeno permettersi un sal¬to in città andare a divertirsi sulle giostre. E Fitz ha un au¬tobus per andare a raccogliere i ragazzini che non possono muoversi, o che magari dovrebbero attraversare a piedi brutti quartieri. Li porta al lunapark, e se non hanno soldi, li fa entrare lui. Gli regala un po' di giri."
All'accenno al lunapark, nel mio cervello si era mosso qualcosa. "Ho visto un cartellone pubblicitario. È la settima¬na prossima, giusto?"
"Già."
"Si tiene sempre nell'ultima settimana di agosto?"
"Sì. Per una sola sera. Il massimo che ci possiamo per¬mettere. Fitz ha convinto i commercianti locali a fare da sponsor, offrire donazioni. E raccoglie soldi anche in altre maniere. I proprietari del lunapark vendono i biglietti d'in¬gresso e per le corse, ma costano poco, se li possono per-mettere quasi tutti. È una piccola impresa. Gestita da neri. Va in giro per le comunità nere. Fitz ne ha sentito parlare e ha concluso un accordo, e così il lunapark torna tutti gli an¬ni. Non fosse per Fitz, un sacco di bambini di qui non avrebbero uno straccio di divertimento."
Avvertii un senso di malessere alla bocca dello stomaco. "E da quant'è che il reverendo Fitzgerald ha messo in piedi questa faccenda del lunapark?"
"Vediamo. Nove, dieci anni."
"Estremamente benevolo da parte sua."
"Ha i suoi lati buoni. Ad esempio tutto il disturbo che si prende per proteggere suo fratello, TJ."
"Suo fratello?"
"Fratellastro, a dire il vero. È ritardato, e grosso all'incirca quanto un carro armato."
Ripensai all'omone che Leonard e io avevamo visto al la¬voro con l'irrigatore davanti alla chiesa.
"Corre voce," continuò Hiram, "che nemmeno quello fosse figlio del vecchio, che sua moglie avesse ricominciato a darsi alla bella vita. Non so. Forse il reverendo voleva credere che la moglie lo cornificasse. Per un uomo del genere potrebbe essere stato più facile credere quello che credere che il suo seme fosse contaminato, che potesse produrre qualcosa come TJ. Un gigante col cervello di un barboncino. Però Fitz ha sempre trattato TJ. in modo speciale. Ve¬ramente speciale. Se TJ. non avesse Fitz, non durerebbe molto. Fra quei due c'è un legame intenso."
Arrivati in vicinanza della chiesa e della casa del reveren¬do Fitzgerald, Hiram disse: "Questo potrebbe essere l'ulti¬mo anno che vedo Fitz. Se MeMaw muore, so già che taglierò i ponti. Fitz e io eravamo molto amici da bambini, ma più invecchio, più mi riesce difficile trovarmi in sintonia con lui."
Entrammo nel parcheggio della chiesa, e prima di scende¬re dal furgone io dissi: "Devo farti una confessione. Leonard e io siamo stati qui l'altro giorno, come ho raccontato, ma non è andata così liscia. Siamo venuti a cercare indica¬zioni su un amico dello zio di Leonard che il reverendo Fitzgerald doveva conoscere, e Leonard e Fitz non sono esat¬tamente andati d'amore e d'accordo."
"Fino a che punto si sono scontrati?"
"Difficile dirlo. Fitzgerald era cortese. Non sono venuti alle mani, ma l'atmosfera era tesa."
"Una questione di religione?"
"Quello, e il fatto che Leonard è omosessuale."
Hiram restò muto per un po'. "È frocio?"
"Non è il termine che lui preferisce."
"Be', per me non ha nessun sottinteso particolare... Cre¬do. Tu sei frocio?"
"No. Quando c'è la gente giusta da votare, sono demo¬cratico. Senti, Hiram, Leonard è un bravo ragazzo. Non so quale sia la tua posizione sugli omosessuali, e francamente non mi interessa, però volevo informarti di quello che è suc¬cesso."
"Leonard mi pare a posto."
"Lo è. Di gay ce n'è di tutti i tipi, di tutte le sfumature. Leonard è uno di quelli per bene."
"Sono semplicemente sorpreso."
"Lo so."
"Non assomiglia alla mia idea del frocio. È uguale a noi, hai presente? Insomma... Al diavolo, non so di preciso cosa voglio dire."
"Lascia perdere. Ho accettato la tua offerta di boxare per poter chiedere scusa al reverendo. Ti sto solo spiegando che la situazione potrebbe essere un po' imbarazzante. Ho pen¬sato di dovertelo dire prima. Se dovesse innervosirti, mi puoi riportare a casa."
"No. No. So com'è fatto Fitz. Sopravviveremo."
"Grazie," dissi.
Scendemmo dal furgone e raggiungemmo il retro della casa.
T.J., in calzoni da tuta, maglietta grigia e scarpe da tennis, era di fronte alla porta sul retro, e mi lasciò a bocca aperta. Se ne stava lì, senza muoversi. Aveva le braccia abbandona¬te lungo i fianchi. Sembrava aspettare qualcosa; o forse ri¬fletteva su un segreto sepolto, dimenticato, che si rifiutava di tornargli in mente. Pareva un golem nero. Sollevò leggermente le braccia enormi e le sue mani si chiusero come guanti da ricevitore sulla palla.
Hiram disse: "C'è Fitz, T.J.?"
"Uh uh."
"Ti ricordi di me, TJ.?"
TJ. ci pensò su un attimo e scosse la testa.
"Tutto OK," disse Hiram. "Ti spiace dire a Fitz che sono qui? Digli che c'è Hiram. Mi aspetta."
Il gigante annuì, si girò e aprì la porta, e scomparve den¬tro. Hiram si voltò verso di me. "Tutti gli anni T J. si dimen¬tica chi sono. Riesce a tenere in testa per molto tempo solo pensieri di un certo tipo. Ricordarsi di me non rientra nella categoria."
Un attimo dopo TJ. tornò, e con lui c'era Fitzgerald. TJ. lasciò uscire Fitzgerald, poi si sistemò sulla soglia. La riem¬pì, sostituendo la porta. Fitzgerald indossava maglietta bian¬ca, calzoncini bianchi e scarpe da tennis. Sorrideva, poi mi vide. Guardò me, poi Hiram, poi di nuovo me. Il sorriso gli tornò lentamente sulle labbra.
"Ha deciso che ho ragione io?" chiese il reverendo. "Sul fatto di mettere la sua vita nelle mani di Dio?"
"Non esattamente," dissi. "Ho tirato un bidone a Hiram per farmi portare qui. Volevo scusarmi per l'altro giorno. Mi spiace di come sono andate le cose fra lei e il mio amico."
"Ah, sì. Quello. Be', non è andata poi così male. Ci siamo scusati tutti a vicenda. Incidente chiuso."
"Io non mi sono scusato," dissi, "e volevo farlo. A nome mio e di Leonard. Ci siamo solo lasciati trasportare. Non avevamo intenzione di calpestare le sue convinzioni."
"Non lo avete fatto. Sono troppo solide. E non c'è biso¬gno di scusarsi. Io stavo semplicemente cercando di compie¬re la mia missione. Sottolineare in che modo Dio veda le co¬se. Dopo di che, ho lasciato lei e il suo amico liberi di sce¬gliere il vostro sentiero. Se lei deve scusarsi con qualcuno, è con Dio."
"Magari gli manderò una cartolina," dissi, e mi pentii im¬mediatamente. Stavo facendo le stesse fesserie di Leonard.
Il reverendo, comunque, non aveva perso il sorriso. "Può ridere di tutto ciò che vuole in questa vita, amico mio, ma nell'altra..."
"Hap boxa," disse Hiram. "È un amico. L'ho portato per questo. Per boxare. Perché non facciamo quello, e basta?"
"Va bene," disse Fitzgerald, "si può fare. T.J., spostati. Voi ragazzi venite dentro."

34

L'unica luce in palestra era quella del sole che entrava da alte finestre con le persiane, ed era molto bril¬lante fino al centro della palestra, però da lì in poi il sole non arrivava più, e le ombre prendevano il sopravven¬to. La parete sul fondo era quasi immersa nel buio.
Il reverendo si tolse la maglietta, mettendo in mostra un petto solido, e disse: "Hiram, noi due. Partiamo piano. Ci scaldiamo."
Hiram annuì, raccolse un paio di guantoni blu del tipo senza lacci a ridosso di una parete e li indossò.
Il reverendo indossò un paio di guantoni rossi, e lui e Hi¬ram si spostarono al centro della palestra, e la linea di divi¬sione fra luce e ombra li tagliò in due, mettendo un lato dei loro corpi nella luce, l'altro nell'ombra, ma poi cominciaro¬no a muoversi, a fintare e zigzagare, giocare di piedi e dan¬zare, e un attimo erano in piena luce, l'attimo dopo in om¬bra totale.
Avanti e indietro, a destra e a sinistra, nel guizzare dei guantoni; partirono lenti, esitanti, poi finirono direttamente l'uno davanti all'altro e i pugni erano smorzati e pacati e non troppo veloci. TJ. guardava dai bordi della palestra co¬me un cane da difesa, pronto a eseguire un ordine.
Tirarono e fintarono e schivarono e saltellarono, e Hiram era, come aveva detto, un dilettante testardo; non un vero pugile, ma un dilettante testardo. Tirava diretti molto ampi e abbassava troppo le mani, però era veloce e svelto di gam¬be, e grazie a quello riusciva a cavarsela. Fitzgerald era una via di mezzo tra il pugile e l'attaccabrighe professionista. Chiaramente, si stava trattenendo. Avrebbe potuto essere un peso massimo che non praticava più la boxe, qualcuno buono da recuperare per un match serio.
Alla fine, si raggiunsero al centro della palestra, intreccia¬rono le braccia e cominciarono a girare in cerchio, tra luce e ombra, fronte contro fronte, quasi fossero gemelli siamesi uniti dalla carne e dai tessuti cerebrali.
TJ. osservava attento.
Alla fine Fitzgerald spinse via Hiram e gli sorrise. "Sei un po' migliorato, amico mio."
"Mi sono allenato in palestra," disse Hiram, dopo avere ripreso fiato. "Ma personalmente, ne ho abbastanza."
"Ti stanchi troppo in fretta," disse Fitzgerald.
"È la verità," ammise Hiram.
Fitzgerald mi guardò. "Vuole provarci?"
"Sicuro."
Fitzgerald si girò verso TJ. "Stai calmo, TJ. Vogliamo so¬lo divertirci."
TJ. annuì, ma sulla sua faccia nulla stava a indicare che lui trovasse qualcosa di divertente in tutto quello. Non si ri¬lassò di un millimetro. Ruscelletti di sudore gli correvano giù per la faccia, ed era parzialmente accucciato.
"Averlo dietro la schiena smorza un po' il mio entusia¬smo," dissi.
"Non c'è problema," disse Fitzgerald. "È solo iperprotettivo."
Hiram mi passò i guanti e li indossai. L'interno era suda¬to, e caldo. La palestra cominciava a diventare molto calda, perché il condizionatore era spento e l'aria, come la luce, ar¬rivava da fuori.
"Lei dovrebbe andare in chiesa," mi disse Fitzgerald. "Tutti dovrebbero andare in chiesa."
"Come fa a sapere che non ci vado?" chiesi. "Potrei persino predicare da qualche parte. Dio potrebbe avermi man¬dato qui per darle una strigliata sul didietro."
"No," disse lui, con un sorriso. "Non credo proprio. Il suo amico, se frequentasse la chiesa, potrebbe comprendere la perversione della sua omosessualità. Potrebbe cambiare modo di vivere. E il Signore potrebbe perdonarlo."
"Potrebbe?" chiesi.
Assunsi una posizione di guardiadestra e ci muovemmo e tirammo qualche jab, ma non ci furono contatti seri. Fitzgerald disse: "Non esiste vero rifugio nella Casa del Signore per il sodomita, giovanotto."
"Piantala, Fitz," disse Hiram dai bordi della palestra. "Boxate e basta."
Tirai un jab veloce e colpii il reverendo alla fronte, e ci mettemmo a fare gioco di gambe, in cerca di aperture nelle rispettive difese. Dissi: "A sentire lei, l'omosessualità è un vero peccato. La mette nello stesso mazzo con gli omicidi, i molestatori di bambini, i falsi profeti. Perché non include anche le madri non sposate e i figli illegittimi?"
Fitzgerald mi studiò incuriosito. Tirò un jab, un destro, un gancio. Bloccai e gli risposi con una combinazione fiacca di colpi.
Ci dividemmo. Lui disse: "Esistono individui che sono persi alle gioie del paradiso. Vanno messi da parte."
"Da parte?" dissi, e gli tirai un gancio sinistro al fegato, di forza. Lui bloccò e indietreggiò. "Cosa significa 'da parte', reverendo? Pare quasi che lei voglia punire anime, invece di salvarle."
Il suo viso si trasformò in una nera maschera Kabuki, e attaccò con un jab e un doppio gancio. Girai la faccia e lui mi colpì alla guancia, però faceva sempre male. Adesso non era più un semplice allenamento amichevole. Misi a fuoco le idee. Entrai nella situazione. Cercai di non concentrarmi troppo. Cercai di rilassarmi e lasciare via libera ai riflessi au-tomatici. Se mi mettevo a pensare troppo, sarei stato colpito mentre cercavo di escogitare una buona combinazione. Do¬vevo reagire, non pianificare in anticipo, e dovevo ricordar¬mi di non ricorrere ai calci. Stavamo boxando.
Tirai un jab e tentai un gancio, e Fitzgerald schivò il jab e sfuggì al gancio e poi balzò avanti e mi centrò con un de¬stro sopra l'occhio sinistro.
Lavorai di piedi e di gambe e sparai un paio di pugni in¬nocui intanto che mi riprendevo dal colpo, poi ci trovammo faccia a faccia, e i pugni volavano e io udivo vagamente il suono dei guantoni che colpivano la carne sudata, e mi ren¬devo conto di rientrare e uscire di continuo da luce e ombra, e alla fine, quando lui si trovò nell'ombra e io nella lu¬ce, col sole alle mie spalle, decisi di bloccarlo dov'era. Io non mi sarei mosso. Lui non sarebbe rientrato nella luce. Si sarebbe preso quello che avevo da dargli nell'ombra. Lo avrebbe preso e mandato giù.
Qualcosa presi anch'io e mandai giù, ma ormai ero al di là del dolore. Ci sarebbe voluto un pugno maledettamente forte per farmi sentire qualcosa. Non scherzavamo più. Pic¬chiavamo sul serio. Hiram disse: "Ehi, gente, così è troppo," ma non ci fermammo, continuammo a picchiare, e il suono dei guantoni diventò dolce, come il ritmo sincopato di una buona musica, e Fitzgerald tentò di spingermi indietro, di girarmi attorno, di spostarsi alla luce, di invertire le posizioni e portarsi sul mio lato della palestra, ma non glielo lasciai fa¬re. Un suo attacco frontale, e io lo ricacciavo indietro e spa-ravo un jab. Un tentativo di aggirarmi, e io rispondevo con un paio di ganci.
Hiram stava urlando qualcosa, ma io non capivo più, non afferravo il senso delle parole. Avevo in bocca un sapore di rame. E poi ci fu una grande ombra, come una nube che passa davanti al sole, e io capii che TJ. si era portato alle mie spalle, eclissando la luce, e lo sentii vicino a me, pronto ad afferrarmi, e pensai a quei bambini, bambole di stracci nelle sue mani.
Fitzgerald tentò di fintare e colpire, come Smokin' Joe Frazier, ma quando fintò gli assestai un uppercut tanto ro¬busto da buttarlo in ginocchio, e poi un gancio alla mascella, e lo stavo spingendo ancora di più nell'ombra, mi addentra¬vo con lui nell'ombra, e lui era nei guai, però teneva duro, e poi sentii una morsa chiudersi attorno al mio corpo, intrap-polarmi le braccia sui fianchi, e fiutai l'odore ansioso del su¬dore e TJ. mi strinse a sé e la palestra cominciò a ruotare su se stessa. Mi divincolai, pensai di assestargli un calcio alle ginocchia per rompergli una rotula, o di sparargli la nuca sulla faccia, ma la situazione era cordiale, niente di serio: le cose ci erano un po' sfuggite di mano, ma tutto era cordiale, ami¬chevole. TJ. mi avrebbe lasciato andare da un secondo al¬l'altro. Avrebbe capito che suo fratello non correva un vero pericolo. Mi avrebbe mollato. Qualcuno lo avrebbe fermato.
Le pareti della palestra si trasformarono in un liquido bollente e mi colarono addosso, e il soffitto cadde e luce e ombra si mescolarono e c'erano dei bongos nella mia testa e io mi resi conto di avere aspettato troppo, perché TJ. non mi avrebbe messo giù, e ormai ero troppo sfinito per poter fare qualcosa.
Luce e buio che si ripiegavano l'una sull'altro, roteavano e roteavano al ritmo del sangue che mi martellava nel cra¬nio, e io ebbi un lampo del sogno sott'acqua, nel bibliobus con Chester e Illium e il bambino morto con la carne che si staccava dalle ossa...

Quando ripresi conoscenza, ero sul pavimento della pale¬stra. La prima cosa che vidi fu Hiram. Era chino su di me, preoccupato. "Stai bene, Hap?"
"Sì," dissi.
Fitzgerald entrò nel mio campo visivo. "Mi spiace per TJ. Di solito sta al suo posto. Ha avuto l'impressione che faces¬simo sul serio. L'ha fatta svenire."
"Lo so," dissi. "E facevamo sul serio."
Mi rizzai a sedere, piano. La palestra non oscillava più di tanto. Le costole erano leggermente indolenzite. Probabil¬mente quel dolore avrebbe smorzato l'effetto della botta alla testa della notte prima. Di certo avevo avuto due giornate interessanti, e non era nemmeno mezzogiorno.
TJ. stava appoggiato alla parete sul fondo, con le mani sui fianchi e la testa abbassata sul petto. Aveva l'aria passiva di una marionetta. Pensai: Klaatu barada nikto.
"Già," disse Fitzgerald, "facevamo sul serio. Adesso devo scusarmi un'altra volta io. Per TJ. E per avere tanto pestato sul pedale della retorica. Probabilmente nutro un po' di ani¬mosità per l'altro giorno, ed è più forte di me, devo sempre fare il sacerdote. Fra parentesi, lei mi stava chiudendo in an¬golo piuttosto bene. Ma mi sarei ripreso."
"Non lo sapremo mai, eh?"
"Magari riproviamo un'altra volta."
Mi tirai lentamente in piedi con l'assistenza di Hiram. "Potrebbe succedere," dissi.
Sulla via del ritorno, Hiram restò zitto finché non svol¬tammo in Comanche Street. Lì disse: "Uomo, c'è sotto qualcosa di più di quello che c'è fra lui e Leonard. Qual è il problema fra voi due? È questo che vorrei sapere."
"Pessime reazioni chimiche," dissi.

35

Quando arrivammo, mentre scendevo dal furgone e salutavo Hiram, e gli chiedevo scusa per essere an¬dato con lui e avere permesso che le cose degene¬rassero in quel modo, cominciai ad avvertire una strana sen¬sazione.
In parte era dovuta al fatto che davanti al marciapiede era parcheggiata l'auto di Hanson, assieme a un camioncino che non conoscevo, e ovviamente sapevo cosa significasse. Ma c'era qualcosa d'altro, qualcosa che non capii finché non fui sulla veranda di zio Chester, sul punto di aprire la porta. Allora realizzai.
La sensazione era paura. Perché adesso sapevo quello che credevo di sapere da tanto tempo. Fitzgerald era un as¬sassino.
Ero stato con lui e con quel suo fratello gigante, e mi ero trovato svenuto sul pavimento della sua palestra. Avevo pre¬muto certi pulsanti di Fitzgerald e di me stesso, ed era pos¬sibile che avessi mandato tutto a puttane. Avevo lasciato ca¬pire al reverendo di sapere che c'era qualcosa di strano nei suoi rapporti coi bambini.
Forse, Hiram e il sottoscritto ci eravamo salvati solo per¬ché Fitzgerald aveva pensato che qualcuno, MeMaw ad esempio, sapesse dove eravamo diretti. D'altra parte, se ne avesse avuto voglia, avrebbe potuto correre i suoi rischi: mettere Hiram svenuto sul furgone e portarci a fare un gi¬retto che terminava sul fondo di qualche stagno. Un'uscita di scena come quella di Illium. Magari tra le nostre cose si sarebbero ritrovate riviste porno a base di bambini. E il buon reverendo, se interrogato, avrebbe solo dovuto rispondere che non ci aveva mai visti. O che avevamo fatto un salto ed eravamo ripartiti subito.
Però poteva anche darsi che la cosa fosse troppo com¬plessa in pieno giorno; oppure Fitzgerald poteva avermi pre¬so solo per un peccatore bellicoso che non richiedeva misu¬re urgenti.
Ero stato un idiota a tentare di abbattere il lupo nella sua tana, però adesso avevo anche un'altra sensazione. Una cer¬tezza assoluta. Fitzgerald, con l'aiuto del suo povero fratel¬lo, era il nostro assassino. I pezzi combaciavano troppo alla perfezione perché non fosse così.
Quando scoprii che la porta di casa era chiusa a chiave, tremavo. Mi resi conto che Leonard e gli altri erano andati alla casa degli Hampstead.
Presi un badile dal cortile sul retro e mi avviai anch'io, lungo il corso del ruscello, nel bosco.

Quando arrivai alla casa degli Hampstead, c'erano Hanson e i suoi uomini. A sorpresa, il coroner in pensione di Houston aveva portato una sua squadra. Tutti indossavano tute bianche di carta e maschere antigas con filtri al carbonio. I gradini della veranda erano stati spostati, ed erano state tolte parecchie assi. Tute bianche strisciavano sotto, indaffarate come vermi nella merda.
In casa, nell'apertura sotto il pavimento, Leonard e Charlie, in tuta e maschera, stavano tirando fuori secchi di terric¬cio e vermi e lardo zozzo. I vermi erano lunghi e rossi e molto vivaci. Leonard puntò la torcia elettrica sul secchio, e io li guardai contorcersi come ballerine sotto i riflettori. L'odore che usciva dal secchio e dal terreno era più forte di quello di una fogna a cielo aperto.
"Dove sei stato?" chiese Leonard da sotto la maschera. Pareva Darth Vader.
"A trovare un amico."
"Hai scelto un bel momento, stronzo."
"Mi spiace."
"Ciao, Hap," disse Charlie.
"Ciao, Charlie. Vedo che porti le scarpe del Kmart."
"Non esco di casa se non le ho ai piedi."
"Se vedi Mohawk... Melton, digli che Hap gli manda i suoi saluti, eh?"
"Ci puoi contare."
Hanson mi presentò al coroner in pensione, il dottor Warren, un vecchio raggrinzito coi capelli bianchi che sem¬brava scavato di fresco dal terreno. Indossava tuta di carta e guanti. Era seduto sul pavimento della cucina, vicino al bu¬co. Si stava riposando. Era sudato e stanco. Aveva la ma¬schera in grembo. Su un telo di plastica al suo fianco c'era¬no frammenti di ossa. Ossa piccolissime. Warren non si pre¬se il disturbo di alzarsi o stringermi la mano.
"Lei e il suo amico avete trovato un bel casino," disse.
"Mi illustri."
Saltò fuori che avevano rintracciato quattro cadaveri. Uno, quello che puzzava di più, quello che avevo scoperto per primo, era lì da un annetto. Come sospettavo, qualcosa nel terreno, nelle infiltrazioni d'acqua, aveva provocato una putrefazione lenta, nonostante il clima del Texas dell'est. Il lardo nel secchio non era affatto lardo. Un tempo era stato carne. Adesso era conciato così per il processo di putrefazio¬ne. Assieme al lardo c'erano ossa.
Di bambino.
Gli altri cadaveri non erano più corpi, ma ossa, resti sche¬letrici. Warren stimava che le ossa fossero sepolte lì sotto da un po' di tempo. Erano tutte ossa di bambini. Da come sta¬vano le cose, si poteva dedurre che i corpi fossero stati se¬gati e avvolti in stoffa e messi in scatole di cartone e ricoperti con rete metallica, quindi sepolti.
"Penso che troverete ossa a sufficienza per tutti i bambini scomparsi nell'East Side," dissi. "Forse anche di più."
"Credo che lei abbia ragione," disse il dottor Warren.
Leonard fece spuntare la testa dal buco. "Ehi, Hap, fai da supervisore o cosa?"
"Il posto è libero?"
"Ah-ah," disse Leonard, e scomparve di nuovo sotto il pa¬vimento.
"Dovrai mettere una di quelle tute di carta, e una ma¬schera," disse Hanson.
"Bisogna stare attenti alle infezioni," disse Warren, "nel caso ci fossero altri corpi con un po' di carne addosso. Gli streptococchi si divertono a infilarsi nei polmoni e nei tagli. E possono fottere alla grande."
Indossai tuta e maschera e mi misi al lavoro. Non è una giornata che dimenticherò. A volte, anche adesso, mi sveglio da un sogno nel quale sto strisciando sotto quella casa vec¬chia, marcia, e infilo il badile nel terreno, e l'odore di quel bambino, quello ridotto a lardo e ossa, è ancora forte nelle mie narici.
Entro sera avevamo trovato i resti di nove bambini. E uno scheletro molto più grande. Be', quel che ne restava. Warren disse che era una donna. Stimò che fosse lì da mol¬to tempo. Trent'anni o più. Warren concluse che le avevano spaccato il cranio, e che probabilmente il corpo era stato segato come quello dei bambini. Non c'erano tracce di stoffa, però attorno ai suoi resti c'era una matassa di rete metallica.
Più tardi, senza tuta, rientrati a casa di zio Chester, si be¬veva caffè. Gli uomini arrivati con Warren avevano parcheg¬giato sull'altro lato del bosco, e finito il lavoro erano ripartiti da lì. Non li ho mai più rivisti. La squadra di Hanson, un uomo e una donna nera, tutti e due vigili del fuoco, se ne andarono sul camioncino. Nemmeno loro ho mai più rivisto. Col che restavamo io, Leonard, Hanson, il dottor Warren e Charlie.
Bevevamo caffè seduti al tavolo di cucina, e io pensavo a quei grassi vermi rossi, mi domandavo quanto tempo avreb¬bero impiegato a entrare nella mia bara dopo la mia morte, e stavo cercando di raccontarmi che la cosa era priva d'im¬portanza, quando Hanson disse: "Qui c'è qualcosa che non quadra. Se il cadavere di quella donna è tanto vecchio, l'as¬sassino deve avere cominciato la sua carriera da bambino. A meno che non sia un testa di cazzo della terza età."
"Modera i termini," disse Warren.
"Non intendevo offendere," disse Hanson.
"Vabbe'," ribatté Warren, "per ferire i miei sentimenti ba¬sta poco."
"Però è così che stanno le cose, no?" chiese Hanson. "Stesso modus operandi."
"Una tradizione che si è tramandata," disse Warren. "Aspetta un fottuto minuto." Si infilò le dita in bocca e tirò fuori la dentiera e la mise sul tavolo, vicino alla sua tazzina. "Questa figlia di puttana mi va stretta," disse, e le sue lab¬bra tremolarono come bandiere nella brezza.
"Porcaccia," disse Leonard, "si rimetta la dentiera. Sto cercando di bere il mio caffè."
Warren lo ignorò. Parlava in maniera comprensibile, ma pareva che avesse uno straccio in bocca.
"Secondo me la prima vittima, la donna, è stata uccisa da qualcuno che si è fatto aiutare da un bambino. Lo ha por¬tato lassù, gli ha mostrato come si fa. Ha santificato l'omici¬dio nella mente del bambino..."
"E lui lo sta ripetendo," concluse Hanson.
"Già," disse Warren. "Cara vecchia polpa freudiana. Ov¬viamente, niente garantisce che l'assassino fosse un uomo, o che a vederlo ci fosse un maschietto, ma io ci scommetterei su. Direi anche che il nostro uomo è uno svitato religioso, e che nella sua testa la religione e questo rituale, l'omicidio al quale ha assistito da bambino, si sono fusi tra loro. Con quella macchia di umidità che ha l'aspetto che ha, e il fatto di essere stato lì per la prima volta da piccolo, be', l'insieme potrebbe avere avuto un impatto molto forte su di lui."
"Penso di capire," disse Hanson. "Però... Cristo, sono d'accordo con Leonard. Rimettiti la dentiera."
Il dottor Warren lo ignorò e sorseggiò il caffè, producen¬do il rumore di un porco al trogolo, per come gli ballonzo¬lavano le labbra.
"Hap si è beccato trenta e lode in Psicologia 101," disse Charlie, "ma con tutto questo?"
"Be'," proseguì Warren, "un sacco di gente pensa che Freud raccontasse stronzate. Non è che tutti quelli che han¬no visto brutte cose da bambini reagiscano diventando cat¬tivi. Forse tutte le menate psicologiche sono stronzate, e al nostro uomo piace semplicemente farlo. Il che ci porta alla paurosa ipotesi che nel mondo esista vera malvagità. È un'idea che non piace a nessuno. Tutto deve avere causa ed effetto, e forse lo ha. Ma perché certa gente risponde al ma¬le col male, e altra no?"
"Personalmente," disse Leonard, "non me ne fotte un cazzo. Io ho sempre creduto nel male, e non ho bisogno della religione per crederci. Voglio quest'uomo. E voglio che lei si rimetta la fottuta dentiera."
Warren sorseggiò altro caffè.
Hanson guardò Leonard. "Io sono con te. Per la dentiera e per quest'uomo. Dici di volerlo, per cui non è il momento di raccontarci tutto il resto? So che c'è dell'altro. E più di così, non mi lascio prendere per il culo."
"Sì," disse Leonard, "c'è dell'altro."
Intervenni io: "Permettimi, Leonard. Ho da aggiungere qualcosa che tu non sai."
"Ha a che fare col tuo giretto di stamattina?" chiese Leo¬nard.
"Sì. Okay, dottore. Secondo me lei vede giusto. Mi per¬metta di passare in rassegna il suo territorio e riempire qual¬che vuoto. Diciamo che c'è questo sacerdote, un'ottima per¬sona da certi punti di vista, però ha un certo passato alle spalle. Anche suo padre era uno svitato religioso. Diciamo che il padre non era un vero padre, ma un patrigno. Il pa¬trigno ha sposato questa donna che aveva già un figlio, e il figlio di questa donna era un bastardo. Lei era una prostitu¬ta, o come minimo una donna di facili costumi. Il sacerdote, il patrigno, pensa di poterla raddrizzare, di metterla sulla via di Dio. E forse, sotto sotto, una prostituta è proprio quello che sta cercando. Fin qui ci siamo?"
"Ti seguiamo," disse Hanson.
"Quindi lui sposa la donna, ma si ritrova pieno di vergo¬gna. La tratta male. Tratta male il bambino. Non permette mai a lei di dimenticare che è una donnaccia e al bambino che è un bastardo, e che lui sta riservando un trattamento di favore a tutti e due come braccio destro del Signore. La donna resta incinta un'altra volta. Nasce un figlio ritardato. Il sacerdote non riesce ad accettarlo. Non può ammettere che il suo seme possa produrre un figlio simile. Adesso ha due bastardi, e uno dei due ha il cervello di un blocco di ce¬mento. Si ficca in testa che la donna ha ricominciato con le vecchie abitudini, che è stata con un altro uomo. Forse è ve¬ro, forse no. Non importa. Il sacerdote ribolle, e una sera qualcosa lo fa esplodere, e in un momento di rabbia attacca e uccide la donna."
"E il figliastro vede," disse il dottor Warren.
"Sì. E diciamo che il sacerdote sa che il bambino ha visto tutto, ma invece di ucciderlo, visto che il bambino è già tan¬to tarato da pensare che suo padre sia Dio incarnato, lo co¬stringe a stare al gioco. O magari il bambino è disponibile, psicologicamente già pronto, mettetela come volete... Ma diciamo che il bambino accetta di dare una mano al padre a sbarazzarsi del cadavere. Il padre trasforma la cosa in un ri¬tuale religioso. Forse per nascondere al bambino, a se stes¬so, o a tutti e due, il suo senso di colpa, o magari crede dav¬vero di avere fatto la sacrosanta volontà del Signore.
"Per brutalità, o per comodità, il sacerdote sega la donna per farla entrare in una scatola di cartone, avvolge nella stof¬fa i pezzi del corpo e porta la donna in questa casa abban¬donata che conosce. Mette della rete metallica attorno al corpo per tenere lontani gli animali, lo seppellisce sotto la casa. Più tardi, quando lei risulta scomparsa, lui dice che è scappata. La donna ha una reputazione che conferma que¬sta possibilità. Tutto ciò che prima faceva vergognare il sa¬cerdote, adesso lo protegge. Quella era solo una puttana. Ha sfruttato un brav'uomo. È scappata e lo ha lasciato con due figli da crescere, e uno è ritardato. È chiaro a cosa vo¬glio arrivare?"
"Queste sono deduzioni, giusto?" chiese Hanson.
"In parte. E adesso arriviamo al punto dove si è fermato lei, dottor Warren. Il figlio sta continuando a fare quel tipo di lavoro a modo suo. Copia lo schema del padre."
"Allora perché non uccide donne?" chiese Hanson. "Io e il dottore qui, una volta abbiamo avuto a che fare con uno di Houston. Si era dato il nome di Mutilatore di Houston. Ce l'aveva su con le donne, e uccideva soltanto donne, a meno che un uomo non si trovasse in mezzo per caso. Se il bambino ha visto il padre uccidere una donna, perché ucci¬de ragazzini? Non dovrebbe odiare le donne perché le odia¬va il patrigno, anche se si trattava di sua madre?"
"È semplice," disse Warren. "Sta uccidendo se stesso. Uccide il bambino di nove o dieci anni che è stato: senza padre, indesiderato. Lo uccide per la stessa santa causa che ha spinto il patrigno a uccidere sua madre. Non associa il delitto alle donne, lo associa al male di ciò che sua madre ha prodotto. Un bastardo. Se stesso. E forse, dentro di sé, nel profondo, si uccide perché è stata proprio la sua esistenza a mettere il patrigno contro la donna."
"Suona bene," disse Charlie. "A me sembrano tutte stronzate, però suonano bene. Comunque suonerebbero meglio se tu avessi i denti in bocca, Warren."
"E le pagine dei Salmi nelle riviste porno?" chiese War¬ren. "Lei sta suggerendo che non si tratti di crimini a sfondo sessuale, ma di una psicosi religiosa, quindi cosa c'entrano le riviste porno?"
"Questo non lo so," dissi. "Forse il tutto ha preso sfuma¬ture sessuali per lui. Magari si pulisce di tutti i suoi sensi di peccato sbarazzandosi delle riviste e distruggendo il loro po¬tere con una pagina dei Salmi. Tipo la croce nella bara del vampiro. Proprio non so. Ma adesso le do un altro pezzo del puzzle. Il bambino ritardato è cresciuto ed è diventato solo un tantino più piccolo dell'Empire State Building. Fa quello che suo fratello gli dice. Lo aiuta a fare quella certa cosa. E la fanno ogni estate, nell'ultima settimana di agosto. Che è, probabilmente, grosso modo lo stesso periodo in cui si è verificato il primo omicidio, l'assassinio della madre, e per pura coincidenza è anche un momento comodissimo per il nostro uomo. È la settimana in cui il Lunapark East Side arriva in città, una festa che il nostro uomo contribuisce a sponsorizzare."
"Mi venisse un colpo," disse Leonard.
"E adesso la domanda da un milione di dollari," disse Hanson. "Chi diavolo è quest'uomo?"
"Un tipo che sono andato a trovare stamattina," spiegai. "Il tizio che ha ucciso Illium Moon e che avrebbe cercato di uccidere Chester Pine, se Chester non fosse morto da solo. Il figlio di un sacerdote. Il figlio del sacerdote. Sacerdote a sua volta. Il reverendo Fitzgerald della Prima Chiesa Batti¬sta Primitiva."

36

Tute spaziali nella luce del giorno. Vermi rossi nel rag¬gio delle torce elettriche che strisciano e si contorcono in un lardo scuro, odoroso...
Quella sera, sdraiato a letto, ricordai tutto. Certe cose non conciliano il sonno.
Mi alzai e andai in cucina a bere e vidi che Leonard non aveva aperto il divano-letto. Era seduto a guardare la televi¬sione. Sullo schermo, un diluvio di sfarfallii e crepitii di sta¬tiche.
Il film aveva parecchi anni sulle spalle, e la nostra anten¬na interna da due soldi non riceveva molto bene. Riuscivo a vedere quel tanto da distinguere fieri pastori tedeschi che strisciavano sul ventre verso alieni cattivi. Riconobbi il film. Ho sposato un mostro venuto dallo spazio. Da piccolo mi ave¬va spaventato. Dubitavo che un qualunque mostro cinema-tografico potesse ancora farmi paura.
Lasciai perdere l'acqua, andai al divano e sedetti vicino a Leonard. Lui non mi guardò. Nella luce riflessa dello scher¬mo vidi che aveva le lacrime agli occhi.
Concentrai l'attenzione sul televisore. Gli alieni le stava¬no prendendo di brutto, sia dai pastori tedeschi sia dai bravi vecchi cittadini americani che non avrebbero mai permesso a schifosi alieni di combinare scherzi alle loro donne.
"Tutto bene?"
"Sì."
"Zio Chester?"
"Sì."
Restammo a guardare il film fino in fondo, poi ne comin¬ciò un altro. Quello parlava di un tizio che veniva innaffiato da certe radiazioni e diventava incredibilmente grande e do¬veva andare in giro vestito con un perizoma.
"Come va fra te e Florida?"
"Me e Florida?"
"È così brutta?"
"Vuole che restiamo amici. Non so come funzioni tra voi checche, ma se una ragazza vuole rimanere tua amica dopo che te la sei scopata, in genere significa che vuole semplice¬mente scomparire."
"Di solito sono io quello che vuole restare amico. Un tempo desideravo un rapporto fisso, ma ultimamente, con tutta la merda che mi è capitata, il celibato mi sembra accet¬tabile e preferibile, tranne quando mi viene duro. Tu, inve¬ce, non la pensi così. Se mai è esistito uno che nella vita vo¬leva sposarsi e avere due figli e un cane in cortile, quello sei tu."
"Diciamo che sono trasparente."
Il tizio grosso sullo schermo cominciava ad avere rogne serie con l'esercito degli Stati Uniti. Lo stavano bombardan¬do per ridurlo in merda.
"Questo caso d'omicidio," disse Leonard. "Secondo te come ce la siamo cavata?"
"Non è ancora finita, ma mi pare che siamo andati bene. Hanson pensa che se risolve il caso si beccherà una promo¬zione. Anche Charlie."
"Charlie non la vede così. Mi ha detto di aver fatto un po' di domande di assunzione nelle tavole calde. Dice di es¬sere un cuoco fenomenale."
"Charlie dice un sacco di stronzate."
"Hap, e se ci sbagliassimo e non fosse Fitzgerald?"
"È lui. E anche suo fratello, per quanto non sappia fino a che punto TJ. possa essere ritenuto responsabile di quello che fa. È come un fottuto golem. Fa solo quello che gli di¬cono."
"Abbiamo abbastanza prove indiziarie perché Hanson ot¬tenga un mandato per cercare dalle parti della chiesa e della casa di Fitzgerald. Forse sarebbe meglio del piano di pren¬dere il reverendo al lunapark con un bambino fra le mani. Vuoi scommetterci che se Hanson si procura un mandato e fruga per bene troverà la biancheria intima di qualche bam¬bino morto con sopra la sborra del reverendo?"
"Ma se non trova qualcosa, quello stronzo si metterà sul chi vive e ci andrà molto molto cauto. Se Hanson fa a modo suo, forse riuscirà a inchiodarlo. Se Fitzgerald mette le mani su un bambino e lo rapisce, Hanson avrà qualcosa su cui la¬vorare, un ottimo motivo per sbattere dentro il bastardo. Poi, con un pizzico di fortuna, il resto verrà da sé."
"Adesso noi ne siamo fuori, giusto?"
"Ci puoi scommettere."
"Hap, non che io voglia essere meschino o roba del gene¬re, ma te lo avevo detto che non era stato zio Chester."
"Non avrei dovuto dubitare di te."
"Sono un buon giudice di caratteri."
"Io ne sono la prova vivente."
Leonard restò zitto per un attimo. "Be', ogni tanto faccio anch'io la mia stronzata."

Il lunapark nero arrivò nell'East Side una mattina calda che prometteva pioggia. Il temporale era acquattato a ovest, scuro come uno stivale militare, e il cielo era scosso da tuoni avvelenati.
Il nostro timore era che, se fosse scoppiato il temporale, la serata al lunapark potesse venire annullata, nel qual caso il piano di Hanson sarebbe volato via col vento, e il reveren¬do avrebbe dovuto aspettare un'altra sera. Colpire in un po¬sto imprevedibile.
Io e Leonard eravamo fuori gioco, ma quel mattino non riuscimmo a resistere alla tentazione di fare un salto sul po¬sto a guardare l'arrivo dei camion del lunapark, che si siste¬marono dietro il recinto a rete. Studiammo l'allestimento delle macchine del divertimento: il calcinculo, le montagne russe, le cabine volanti, e altre attrazioni delle quali non co¬noscevo il nome.
Continuavo a chiedermi come facesse Fitzgerald a rapire i bambini e portarli via da lì per ucciderli. Era un uomo no¬tissimo. La gente dell'East Side lo conosceva bene, e se lo avessero visto allontanarsi con un bambino non l'avrebbero dimenticato, ma in un modo o nell'altro, tutti gli anni, lui prendeva un bambino e lo portava alla casa della morte.
Come sceglieva la vittima? Il bambino era qualcuno che Fitzgerald aveva osservato, qualcuno che partecipava alle at¬tività della chiesa? Qualcuno che Fitzgerald sapeva sarebbe andato al lunapark? Qualcuno con una vita famigliare disastrosa, o magari senza alcuna vita famigliare? Qualcuno con un passato tale da far sospettare che potesse essergli succes-so di tutto? Qualcuno come il bambino sotto il pavimento di zio Chester?
Cercai di dirmi che il problema non era più mio. Era di Hanson. Tornammo a casa.
Verso le due del pomeriggio, Leonard e io andammo da MeMaw, e Hiram ci aiutò a finire la veranda. Non restava molto da fare. Un'oretta di lavoro. Faceva un caldo inferna¬le. Il cielo era chiaro e azzurro tranne che a ovest, e da quel¬le nubi scure filtrava un'umidità soffocante, e io non riusci-vo a staccare la mente dalla sera e dal lunapark e da quello che poteva succedere. Mi colpii il pollice col martello tre o quattro volte, lasciai cadere assi e chiodi, e imprecai tanto che Hiram fu costretto a chiedermi di smetterla.
"Non per offendere, Hap," disse, "ma io non parlo in quel modo, e non voglio che qualcuno dica certe cose con Mama in giro. Potrebbe sentirti."
Mi scusai, imbarazzato sul serio per avere messo a disagio Hiram. Sperai che MeMaw non mi avesse sentito.
Dopo avere piantato l'ultimo chiodo, Hiram disse: "Veni¬te dentro. Mama vorrà offrirvi del tè ghiacciato."
"Ne ho bisogno," gli dissi.
Hiram entrò, e Leonard e io promettemmo di seguirlo, dopo avere raccolto un po' di assi e chiodi. Quando Hiram non fu più a portata d'orecchio, Leonard disse: "Mi vergo¬gno fottutamente di te. Tutte quelle parolacce."
"Be', puoi andare a mangiarti la merda."
Poi sentimmo Hiram strillare da dentro casa.
"Hap! Leonard! Mio Dio! Correte!"
Entrammo di corsa. MeMaw era riversa su una sedia del¬la cucina; stava quasi per cascare giù. Sul sedile c'era una pozzanghera di orina che gocciolava sul pavimento. Il girello era rovesciato, come se lei vi si fosse appoggiata per cercare di alzarsi e avesse perso la presa.
Il collasso era stato veloce e silenzioso, letale come un co¬bra nero. MeMaw era viva, ma in coma. La coricammo sul pavimento e le mettemmo un cuscino sotto la testa e chia¬mammo l'ambulanza. Arrivarono in fretta, e la portarono al Memorial Hospital. Hiram li seguì col suo furgone, Leonard e io col mio camioncino.
All'ospedale, restammo in sala d'attesa con Hiram intanto che i medici facevano il loro lavoro. Che non fu molto. L'es¬senza della situazione era che MeMaw era vecchia e conciata male. Tutto ciò che loro e noi potessimo fare era aspettare.
Ricevute le notizie, Leonard e io entrammo nel centro di rianimazione con Hiram e guardammo MeMaw. Era colle¬gata a più cavi di un astronauta e sembrava più piccola e fragile di quanto sia umanamente possibile. A me tornarono in mente le fotografie delle mummie messicane, le mummie che sono state disinterrate e lasciate all'aria aperta perché i parenti non possono permettersi l'affitto del tumulo. Notai le macchie di fegato sulle sue mani. Perché non me n'ero mai accorto prima? Sembravano vecchie monetine viste sot¬to un bicchiere di caffè slavato.
Restammo lì un po', poi Leonard disse: "Hiram, tornere¬mo a trovarla. Se ti serve qualcosa, basta chiedere."
"Sì," disse Hiram. "Grazie. Uomo, non posso crederci. Non posso proprio. È vecchia e tutto quanto, ma non riesco a credere nemmeno a quello."
"Lo so," disse Leonard.
"Vuoi che avvertiamo qualche parente?" chiesi.
"No," rispose Hiram. "Tra qualche minuto faccio io."
Lasciammo Hiram seduto al capezzale di MeMaw. Le stringeva la mano.

37

Nel pomeriggio, il temporale a ovest cominciò a ribol¬lire sul serio. Diventò più scuro e partì nella nostra direzione. Eravamo seduti sull'altalena della veranda a guardarlo quando arrivò Hanson.
Salì in veranda col sigaro in bocca. Era spento, ma si ve¬deva che poco tempo prima era acceso. Hanson aveva cene¬re sparsa su tutta la giacca sportiva stile supermarket.
"Credevo avessi smesso di fumare," dissi.
"Ho smesso, e l'ho appena fatto un'altra volta. State a sentire, volevo dirvi che è tutto pronto. Era doveroso infor¬marvi. Appena è finita, vi racconto com'è andata."
"Ne saremmo lieti," disse Leonard.
Hanson annuì, si voltò, e guardò verso le nubi da tempo¬rale. "Cacchio."
"Si muove a passi lenti," disse Leonard. "Potrebbe ancora andare tutto bene, se quello si spiccia a fare la sua mossa."
"Già," ribatté Hanson. "Ci vediamo."
Salì in automobile, e io lo guardai accendere il sigaro e ri¬cominciare a fumare prima di ripartire.
"Brav'uomo," disse Leonard.
"Sì," replicai. "Le cose che mi piacciono di più di lui sono che mi ha fregato la donna e fuma un vecchio sigaro puzzo¬lente. Stronzo."
Guardammo ancora un po' il temporale, poi prendemmo l'auto di Leonard e andammo alla Prima Chiesa Battista Primitiva, continuando a raccontarci per tutto il viaggio che avremmo solo dato un'occhiata.
Non ci fermammo davanti alla chiesa. Parcheggiammo un isolato più in giù. Da lì non c'era molto da vedere, ma prima di fermarci facemmo un giro di ricognizione: il bus e la Che¬vrolet erano ancora in cortile. Notai anche che un isolato più in su della chiesa, ferma sul lato opposto della strada e girata nella direzione sbagliata, c'era quella che sembrava un'auto civetta della polizia. Non riconobbi il tipo mezzo calvo al volante, però sembrava uno sbirro e teneva gli occhi sulla chiesa. Era una fortuna che Fitzgerald non sospettasse niente. Quel tizio poteva passare inosservato quanto un maialino roseo in tuta da lavoro.
Proseguimmo, facemmo il giro dell'isolato, scendemmo la via e parcheggiammo. Da lì potevamo vedere la casa e l'auto della polizia. Poco per volta, cominciammo a vedere sempre meno di entrambe le cose.
Scese il buio, che le nubi provenienti da ovest infittirono ancora di più.
Dopo un po', si accesero luci all'interno della chiesa, poi all'esterno. Il sentiero d'accesso venne illuminato. Passò un'ora, e varie automobili accostarono al marciapiede. Una, una Volkswagen marrone, si infilò sul sentiero. Uomini e donne e bambini scesero dalle auto, raggiunsero la chiesa, le girarono attorno, scomparvero.
Trascorse un altro quarto d'ora, e uomini e donne riemer¬sero dalla chiesa senza i bambini, salirono in auto, ripartiro¬no. Ci pensai su. Genitori che portavano i figli in un posto sicuro, una chiesa. Li lasciavano con una persona fidata, il reverendo, certi in cuor loro che i bambini si sarebbero di¬vertiti.
E probabilmente si sarebbero divertiti sul serio. Il reve¬rendo non voleva i figli amati dai genitori. Allora quali erano esattamente le sue prede? Provai una fitta al cuore al pen¬siero di quello che gli piaceva fare.
Un minuto o due più tardi, il piccolo bus uscì dal cortile a fari accesi. Vidi il reverendo al volante, intravvidi dietro i finestrini le forme in penombra dei bambini. Il bus svoltò a sinistra, superò l'auto della polizia e proseguì.
Lo sbirro accese il motore e fece inversione di marcia al centro della strada e seguì il bus. Mister Invisibile. Tanto va¬leva che si mettesse in piedi su un secchio, a cantare una canzone oscena con l'uccello fuori.
Leonard mise in moto e ci accodammo. A dire il vero, né noi né lo sbirro dovemmo ricorrere a trucchi particolari. Il bus fece quello che ci aspettavamo. Puntò diritto sul lunapark, si fermò all'ingresso ed entrò. Per il momento, le cose andavano come previsto.
Noi non avevamo un pass speciale. Come il poliziotto, parcheggiammo davanti al recinto e raggiungemmo l'ingresso. Arrivati lì, ci trovammo alle spalle dello sbirro. Il tipo al¬l'ingresso, un nero con un fisico da star del sumo e occhiali neri tenuti assieme col nastro isolante bianco, non voleva la¬sciare entrare lo sbirro perché quello non aveva un dollaro. Lo sbirro, un uomo duro, era vestito sportivo: il tipo d'ab¬bigliamento che è andato fuori moda e fuori produzione non molto dopo la morte dei tascabili da settantacinque centesimi. Lo sbirro voleva tirare fuori il suo distintivo e farla finita lì.
"Ma io non voglio un distintivo," spiegò il grassone all'in¬gresso. "Voglio un dollaro."
"Senti, questa è un'operazione di polizia," disse lo sbirro.
"Non sparare stronzate," ribatté il nero. "Il lunapark è un'operazione di polizia?"
"Tieni," dissi io, passando un dollaro al nero. "Fallo en¬trare, per amor del cielo. Si è bloccata la fila."
Il nero prese il dollaro. Lo sbirro ci sbirciò come ti sbir¬ciano gli sbirri, ci ringraziò senza la minima sincerità, ed en¬trò. Il nero mi disse: "Uomo, ma guarda un po', due bian¬chi culo contro culo. Non sarà un buon segno o qualcosa del genere?"
"Due bianchi, e uno con quell'orribile vestito sportivo, per me vogliono dire che sta per piovere," dissi.
"Non posso crederci," replicò il nero. "Quello sbirro per me sta mica lavorando. Per me è solo abituato a mangiare a sbafo e merda simile. I suoi trucchi possono funzionare in centro, ma non qui. E dove ha comperato quel vestito? Ma che cazzo di colore era?"
"Arancio o ruggine o forse oro sporco," disse Leonard. "Vedi tu."
Pagammo ed entrammo. Il poliziotto stava marciando verso il parcheggio dei veicoli autorizzati. Aggirò il parcheggio, raggiunse la zona col fondo in ghiaia e andò ad appog¬giarsi alla rete di recinzione, dove le luci del lunapark erano più fioche. Tirò fuori una sigaretta, la accese e cercò di fare finta di non fissare il bus. Mica gli riusciva troppo bene.
La portiera del bus si spalancò e scese Fitzgerald, e dopo di lui una fila di ragazzini chiassosi, eccitati, seguiti da una bella nera di mezza età. Doveva essere una delle madri dei bambini che era rimasta a dare una mano al reverendo.
I bambini, per la maggior parte fra i sei e i dieci anni, di¬visi a metà tra maschi e femmine, saltavano in punta di pie¬di. Formavano una linea che si contorceva come un serpen¬te su una pietra calda. La donna e il reverendo chiacchiera¬vano cordialmente. Lui sorrise. Lei sorrise. Il reverendo tornò al bus e infilò la testa dentro. Probabilmente stava parlando con qualcuno a bordo. Forse TJ. Dal nostro punto d'osservazione, non si vedeva nessuno, ma il compensato che sostituiva i finestrini sul retro e su un lato poteva na-scondere chissà chi.
Il reverendo tornò fuori e sorrise di nuovo alla donna. I due si parlarono. Metà dei bambini andarono con la donna, l'altra metà col reverendo. Mister Vestito Sportivo seguì Fi¬tzgerald e la sua prole. TJ., l'eclisse ambulante, non si fece vivo.
Io e Leonard stavamo cercando di decidere cosa fare quando Hanson ci arrivò alle spalle. Ci colse di sorpresa. "Stronzi," disse. Ci girammo a guardarlo. Il solito simpatico¬ne di sempre, però non aveva più il sigaro. Doveva averlo in tasca. Sperai che si ricordasse di estrarlo prima di accender¬lo. "Non sono venuto a trovarvi qualche ora fa, coglioni? Vi ho detto che vi avrei tenuti informati."
"Una cosa bisogna ammetterla," disse Leonard. "Hai il passo leggero, per essere così grosso."
"È il mio fottuto sangue indiano. Cosa ci fate qui voi due? Ormai siete fuori. Avete già fatto più di quello che avreste dovuto."
"E molto bene, devo aggiungere," disse Leonard.
"Non fatevelo venire troppo duro," ribatté Hanson. "Ve la siete cavata mica male, ma siete anche stati fortunati."
"Anche tu," dissi io. "Visto che siamo arrivati noi."
"Tu non eri nemmeno sicuro di avere un caso fra le mani prima che saltassimo fuori noi," aggiunse Leonard.
"Non sono ancora sicuro di avere qualcosa in mano," dis¬se Hanson.
"Stronzate," tagliai corto.
"Va bene, siete due fottuti maghi dell'indagine. Adesso tornate a casa o godetevi il lunapark. Vi voglio fuori dai pie¬di. E subito. Ho degli uomini al lavoro, e quelli sanno cosa fare. Be', come minimo hanno un'idea."
Lasciammo Hanson e andammo a zonzo per il lunapark. Vibrava di luci e voci e cigolii di macchinari ed esplosioni di musica, presumibilmente partorita da orecchie di latta e suonata su strumenti dello stesso materiale. C'erano l'odore del sudore di bambini eccitati e adulti esausti, l'aroma burroso del popcorn e la dolcezza nauseabonda dello zucchero filato, il puzzo acre della merda fresca d'animale che veniva dal piccolo zoo.
Eravamo proprio allo zoo quando ci imbattemmo in Hiram. Se ne stava lì con le mani in tasca, con l'aria depressa di uno che ha appena avuto un'eiaculazione precoce. Guar¬dava una capra col pelo a chiazze.
Gli arrivammo a fianco. "Hiram."
Lui si girò, ma gli occorse un momento per realizzare che ero io.
"Oh, ciao," disse.
"È una sorpresa vederti qui," disse Leonard.
"Mama è con mia sorella, che è appena arrivata."
"Come sta MeMaw?" chiesi.
Lui scosse la testa. "Stessa situazione. Il dottore dice che potrebbe restare in coma per un po'. Un giorno, sei mesi."
"Mi spiace," dissi.
"Anche a me," disse Leonard.
"Dovevo uscire, mi capite?" chiese Hiram.
"Sicuro," lo rassicurai. "Niente di male. Non puoi farci molto."
"Avevo solo bisogno di fare uno stacco. Anche se mi toc¬ca finire a guardare una capra."
Hiram si girò di nuovo verso la capra. Arrivò un bambino e si mise a carezzare la bestia.
Restammo lì in silenzio, imbarazzati, per un po', poi salu¬tammo e alzammo i tacchi.
"Che peccato," disse Leonard, mentre comperavamo lo zucchero filato. "MeMaw e Hiram mi piacciono."
"Sì, però lei ha avuto una vita piena. Prima o poi, dob¬biamo tutti levare le tende."
"Non è l'idea della morte di MeMaw che odio," disse Leonard. "È questa sospensione tra vita e morte. Credo che abbiamo messo in imbarazzo Hiram."
"Già. Si sente in colpa. Pensa di dover stare con lei, ma più di tanto non si può rimanere a guardare uno che sta mo¬rendo."
"Sai una cosa?"
"Cosa?"
"Lo zucchero filato mi dà la nausea."
Dobbiamo essere andati in giro nel lunapark per un paio d'ore. Vedemmo qualche volta il reverendo e i suoi bambini e la sua ombra vestita sportiva, ma il reverendo non vide noi. Vedemmo Melton, alias Mohawk, passeggiare con una giovane ragazza nera che doveva avere smesso da poco di giocare con le bambole e i reggiseni imbottiti. Girarono die¬tro un chiosco di hot dog e li perdemmo di vista.
Vedemmo un po' di volte Hanson. Ci fissò con un'aria cupa, come se il solo fatto di averci sotto gli occhi gli facesse raggrinzire le palle.
Moltissimi neri mi guardavano come se fossi un animale esotico, magari scappato dallo zoo. E in un certo senso, pro¬babilmente ero esotico, per lo meno lì, quella sera. Al luna¬park c'era solo una manciata di bianchi, e alcuni di loro era¬no sbirri.
Passò un'altra ora, e nel vento caldo si fiutava odore di temporale. Si mischiò agli altri aromi, creando un cocktail da dare alla testa. Si poteva sentire l'elettricità nell'aria. Le macchine che giravano e giravano e portavano i bambini su in cielo e poi di nuovo giù, che cigolavano e gemevano e ruggivano e strillavano e sbatacchiavano chiodi e viti di qua e di là, mi innervosivano. In distanza, in mezzo a quelle te¬nebre ribollenti, di tanto in tanto esplodeva un lampo, un diapason liquido scagliato contro il cielo.
Quando i lampi cominciarono a prendere una certa inten¬sità, le giostre vennero fermate. Niente più giri. Restarono solo lo zoo e i chioschi dove potevi perdere un sacco di soldi cercando di lanciare palle da tennis in una sfilza di cesti o palle da baseball in cerchi di metallo.
Mezz'ora dopo chiusero tutto. La gente, ingrugnita, si av¬viò all'uscita. Prima che noi la raggiungessimo, attaccò a piovere, con un'intensità, una violenza che nessuno si aspet¬tava. Dietro la cortina di pioggia color alluminio, le luci del lunapark erano monete d'oro sul fondo di una fontana, e adesso l'unico odore che si potesse fiutare era quello dell'acqua, che era gelida, e nel giro di pochi secondi Leonard e io eravamo inzuppati fradici.
Fendendo la folla, arrivammo all'automobile. Seduti a bordo, restammo a guardare la gente che scappava e le auto che ripartivano. A un certo punto, uscì anche il piccolo bus della chiesa. Ci accodammo.
Il diluvio era notevole. Il bus procedeva lento, come noi, come Vestito Sportivo. Lo sbirro ci stava dietro. Dopo un po', decidemmo di precedere il bus alla chiesa e sistemarci lì. Quando lo superammo, Leonard disse: "Hap, al volante non c'è il reverendo. C'è quella donna. Fitzgerald proprio non lo vedo."
Io tirai diritto, tra gli spruzzi d'acqua. "Questo non vuol dire che non ci sia. Io mica ho visto la donna quando sono partiti dalla chiesa. Fitzgerald potrebbe essere sui sedili po¬steriori."
"Sì, però... Non so. C'è qualcosa che mi fa accapponare le palle."
Arrivammo prima del bus, parcheggiammo, spegnemmo i fari, e restammo a mangiarci una scatola di M&M che Leo¬nard aveva nello scomparto del cruscotto. Le pasticche al cioccolato si erano fuse in una massa multicolore, ma le mangiammo lo stesso. Ci stavamo leccando le dita quando il bus arrivò e si fermò all'inizio del sentiero d'accesso, davanti alla chiesa.
"Si saranno messi vicino al marciapiede per non far in¬zuppare troppo i genitori," disse Leonard. "I bambini sono già bagnati fradici."
Vestito Sportivo spuntò al marciapiede di fronte alla chie¬sa e parcheggiò nella direzione sbagliata.
"Lo sbirro è meno sveglio di prima," disse Leonard. "Se¬condo me non ci ha nemmeno individuati. Non si è accorto che lo abbiamo seguito e gli abbiamo pagato l'ingresso al lunapark. Mister Invisibile non vede alcun rapporto fra noi e lui e il bus."
"Viene sera," dissi io, "e il cervello di uno sbirro si depo¬sita nella scatola cranica. Tipo sedimentazione."
"E lui non è alimentato dalla magia degli M&M'S fusi."
"C'è anche questo."
"Gli M&M'S verdi non dovrebbero avere brutti effetti?" chiese Leonard. "Ti ho sempre sentito dire che a quelli verdi bisogna stare attenti."
"Ho sentito dire che in ditta c'è un tizio che si fa le seghe nel ripieno degli M&M'S verdi."
"No," disse Leonard. "Quella è la maionese di McDo¬nald's, o del Burger King, o di uno di quei posti lì. E il col¬pevole dovrebbe essere un nero. I musi bianchi si cagano sotto perché i clienti neri sanno tutto. È una roba tipo co¬spirazione. I neri, mica la pigliano la maionese. I musi bian¬chi, invece, non sono informati tutti quanti, e così qualcuno se la mangia. Ah, e quel nero ha I'AIDS."
"Non mi racconti stronzate?"
"Niente stronzate. Non è mostruoso? Un negro con I'AIDS che sborra nella maionese dei poveri bianchi?"
"Un negro frocio, ovviamente?"
"E come no. Ed è pure brutto."

38

Restammo lì finché le nostre chiappe non diventarono tutt'uno coi sedili, poi le automobili cominciarono ad arrivare e parcheggiare accanto al marciapiede, coi tergicristalli che sventolavano nella pioggia.
Con tutta quell'acqua, era difficile distinguere, ma ve¬demmo bambini che scendevano dal bus e correvano sulle auto, e le auto ripartivano, poi ne arrivavano altre, e dal bus scendeva una nuova ondata di bambini, e dopo un po' era¬no sparite tutte le automobili, e non ne spuntarono altre. L'autista del bus mise in moto, accese i fari e spostò il vei¬colo sul retro della chiesa.
"E adesso?" chiese Leonard.
Prima che potessi rispondere, la Volkswagen marrone, della quale mi ero dimenticato, uscì dal sentiero della chiesa e svoltò a sinistra. La luce dei lampioni fu sufficiente per la¬sciarmi vedere che al volante c'era la donna che guidava il bus. Aveva con sé una bambina. La mamma, finito il suo dovere, rientrava a casa con la figlia.
"Hai ragione," dissi. "Non credo che il reverendo sia tor¬nato col bus. Potrebbe esserci sgusciato alle spalle cinque minuti fa, ma non penso proprio. Deve essere rimasto al lunapark."
"Ci ha fregati, e senza nemmeno farlo apposta," disse Leonard. "Non riesco a capire esattamente come ci sia riu¬scito, ma si è messo d'accordo con la donna. Non voglio di¬re che ci sia di mezzo anche lei..."
"Ricevuto. Le ha fatto riportare indietro i bambini, ma a Fitzgerald evidentemente interessava un bambino che non era sul bus."
"Qualcuno che scomparirà senza creare problemi. Un bambino che ha fatto entrare gratis al lunapark. E Fitzgerald aveva un altro mezzo per andarsene, oltre al bus."
"Se abbiamo visto giusto," dissi, "in che merda siamo?"
"Nella merda del tempo che corre," disse Leonard.
Restammo zitti per un attimo, poi esclamammo, quasi al¬l'unisono: "La casa degli Hampstead."
Passammo davanti allo sbirro col vestito sportivo. Stava ancora guardando la chiesa. Non batté ciglio quando vide la nostra automobile.

Raggiungemmo la casa degli Hampstead da casa di zio Chester. A piedi. La pioggia non era diminuita, e cammina¬re era difficile. Il vento aveva preso forza, era diventato sor¬prendentemente freddo; sparava pioggia come fosse ghiaia. I rami degli alberi ci frustavano e tagliavano, e la nostra tor¬cia elettrica riusciva a fare ben poco per scavare un foro nel buio. Non avevamo perso tempo a raccattare gli impermea¬bili, così eravamo inzuppati fino al midollo. Sarebbe stato meglio armarci, ma avevamo portato solo noi stessi e la tor¬cia elettrica che Leonard teneva in auto.
Arrivati alla casa degli Hampstead, eravamo esausti. Non volevamo che Fitzgerald e suo fratello ci vedessero, così spensi la torcia appena prima di uscire dal bosco e sbucare nella piccola radura.
Senza torcia elettrica, in un buio pesto senza luna o stel¬le, con la pioggia che ci martellava addosso, avevamo solo l'istinto a guidarci. Mica facile. Sentivamo scricchiolare le assi della vecchia casa, implorare il vento di lasciarle in pace, e ci prendemmo a braccetto e ci facemmo guidare da quei suoni. Mi sbucciai uno stinco su un gradino della veranda, e Leonard mi imitò immediatamente. Salimmo sulla veranda cercando di fare il meno rumore possibile, una cosa piuttosto difficile quando hai l'impressione di avere una gamba rotta. Tastando la parete, arrivammo alla finestra che aveva¬mo usato la prima volta e strisciammo dentro.
La pioggia entrava a cascata dal foro nel soffitto, e dal fo¬ro nel tetto del primo piano. Dentro c'era talmente buio che non riuscivamo a vedere la pioggia, però la sentivamo benis¬simo. Restammo in ascolto, in attesa di altri suoni, di movi¬menti, ma c'erano solo il vento e i prevedibili scricchiolii del legno.
Fummo costretti ad accendere la torcia elettrica. La usammo per aggirare i buchi del pavimento, però le assi scricchiolavano lo stesso. Passammo nella stanza col casset¬tone e poi in cucina, e lì c'era asciutto, e di colpo mi resi conto che i miei nervi cominciavano a calmarsi. Il martellare della pioggia mi aveva fatto lo stesso effetto della tortura ci¬nese della goccia d'acqua.
Ma appena entrammo in cucina, senza aspettarci di tro¬vare qualcuno perché non si erano sentiti rumori o viste lu¬ci, la torcia elettrica intercettò un'ombra sulla mia sinistra, e io puntai il raggio da quella parte, e l'ombra mi saltò addos¬so. Assestai un colpo alla cieca con la torcia elettrica. Ci fu un grugnito, il suono del vetro che si rompeva, e la torcia si spense. Poi mi sentii delle mani addosso. Diedi una scrollata al corpo e tirai una gomitata all'indietro, e sulla mia destra si accese una luce. Vidi Leonard con la coda dell'occhio: stava assestando un calcio al ventre di un uomo, e nello stesso istante le mie mani si chiusero sul corpo del mio avversario, e lo scaraventarono sul pavimento.
Poi qualcuno mi sparò negli occhi un raggio di luce da terra, e dietro la luce la forma in ombra disse: "Ma vai a cagare, Hap."
Era Charlie.

Lo sbirro che Leonard aveva preso a calci si chiamava Gleason. Lo avevo visto il giorno che avevano cominciato a fare a pezzi il pavimento di zio Chester. Era l'agente col parrucchino schifoso che aveva scambiato saluti con Mohawk. Non era molto dimagrito, e adesso il parrucchino era pure bagnato. Alla luce della sua torcia elettrica e di quella di Charlie, sembrava uno strano copricapo tribale.
Leonard aveva colpito duro. Gleason impiegò un bel po' per ricominciare a respirare senza problemi, ma aveva molto grasso addosso e non si era rotto niente. Nemmeno Charlie si sentiva troppo bene. Aveva un bozzo sulla tempia, dove lo avevo centrato con la torcia elettrica.
"Uomo, mi hai fatto vedere le stelle," disse Charlie.
"Scusa."
"Porcaccia, voi due stronzi siete veloci."
"Come va la testa?" chiesi.
"Fa male, cosa credevi?" Charlie si massaggiò il bozzo sulla tempia. "Porcaccia."
"Ti chiedo scusa, Charlie. Se ti può essere di consolazio¬ne, credo che tu abbia rotto la torcia elettrica di Leonard."
"Be', se ne comprerà un'altra. Io di testa ne ho una sola. Che cazzo ci fate qui voi due?"
Gli spiegammo.
"E secondo voi Hanson non aveva messo gente qui?" dis¬se Charlie. "Gesù, magari non saremo detective incredibil¬mente scafati come voi, ma a una cosuccia o due riusciamo ad arrivarci. Ci siamo persino portati da mangiare."
"Però Charlie s'è scordato le patatine," disse Gleason. "Gliel'ho ricordato due volte, e lui si è dimenticato lo stesso. Un sandwich senza patatine fritte vale una cicca."
"Vuoi lasciare perdere le patatine, ora, Gleason?" disse Charlie.
"Stavo solo dicendo che te le sei dimenticate, tutto qui," ribadì Gleason.
"Il punto non è che io abbia dimenticato le patatine," si¬bilò Charlie. "Il punto è che voi due idioti state mandando tutto in merda."
"Te l'ho detto che ci dispiace," dissi. "Gesù, cosa vuoi che facciamo? Dobbiamo spararci?"
"Potevate mandare a farsi fottere un'indagine di polizia."
"Visto che Fitzgerald non si è ancora fatto vivo," disse Leonard, "secondo me è già andato tutto quanto a farsi fot¬tere."
"Cristo," esclamò Gleason, "questo qui mi deve avere rotto qualcosa dentro."
Charlie gli puntò addosso la torcia elettrica. "E come no. Perdi qualche chilo. E togliti quello stupido parrucchino."
"Secondo me dovrebbe tenerselo," disse Leonard. "Se ar¬rivano i cattivi, li spaventa con quello."
"Okay, okay, ridete pure," disse Gleason. "Me lo hanno studiato su misura."
"Su misura per cosa?" chiese Leonard. "Per uno spaven¬tapasseri? Tu hai più cranio che capelli. Prova con qualche altro straccio per pavimenti, amico."
"Ha parlato Mister Ciuffo D'Oro," ribatté Gleason.
E fu in quel momento che sentimmo arrivare qualcuno dal bosco, sul retro della casa.
"Le luci," disse Charlie, e spense la sua torcia, e Gleason fece lo stesso. Restammo ad ascoltare i passi che si avvicina¬vano.
Charlie sussurrò: "Dividiamoci. Voi due conoscete quella merda del karaté, no? Be', è l'occasione buona per usarla su qualcuno che se la merita."
Ci dividemmo. Io mi sistemai dietro la porta della cucina. Sapevo che Charlie era sulla mia sinistra, e Leonard e Glea¬son dall'altra parte.
Aspettammo. I passi si avvicinarono e arrivarono sulla ve¬randa, poi sentimmo scricchiolare le assi della veranda, e poco dopo le assi della prima stanza della casa scricchiolaro¬no ancora più rumorosamente. Lo scricchiolio veniva nella nostra direzione. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca, e mi si rimpicciolì l'uccello, e mi venne voglia di farmela sotto. Dal¬la stanza col cassettone arrivò una luce, e la luce ballonzolò in cucina, e dietro c'era qualcuno. Poi la luce virò a destra e si posò diritta su Gleason, che se ne stava lì come un orso impagliato, col parrucchino che gli pendeva dal cranio come una lontra aggrappata a una roccia.
"Ehi," disse l'uomo stupefatto con la torcia elettrica, ed era la voce di Fitzgerald, e per un momento il tempo si fer¬mò. Poi riprese a scorrere, e alle spalle di Fitzgerald un'om¬bra mostruosa caricò nella stanza, e io mi mossi, e tutti gli altri si mossero, e mi resi conto che qualcuno stava scappan¬do via dalla stanza del cassettone, qualcuno che era con Fi¬tzgerald e suo fratello e che a quel punto si era lasciato prendere dal panico.
Mi lanciai all'inseguimento, ma il reverendo mi bloccava la strada, così mi fermai a tirargli un destro alla mascella e lui lasciò cadere la torcia elettrica e barcollò indietro, e Gleason lo acchiappò. La torcia si mise a roteare sul pavi¬mento, illuminando Gleason e il reverendo, poi ombra, poi luce; poi il raggio si immobilizzò e li tenne inquadrati.
L'ombra grossa, ovviamente, era T.J., e quando Gleason afferrò Fitzgerald, TJ. afferrò Gleason, tenendolo per la te¬sta con le sue due mani enormi, come fosse una palla da lanciare a canestro.
Sentii l'uomo che era scappato inciampare in qualche as¬se del pavimento, lo sentii grugnire e arrancare, poi Gleason lasciò andare Fitzgerald, e Fitzgerald ruotò su se stesso e centrò Gleason allo stomaco con un gancio, e anche se io mi ero già messo in movimento, come tutti gli altri, le cose suc¬cessero troppo in fretta. TJ. teneva Gleason in una morsa ferrea. Gli girò la testa come se dovesse svitare il coperchio incastrato di un barattolo. Il triste parrucchino di Gleason volò via, fluttuando sopra il raggio della torcia elettrica, poi scese come un UFO peloso e si posò sul pavimento. E intan¬to, si sentiva il collo di Gleason scricchiolare come un ba¬stoncino per mescolare cocktail.
"Fermali!" strillò Fitzgerald a T.J., e Charlie saltò addos¬so a Fitzgerald, e Leonard balzò avanti e tirò un calcio alle palle di TJ. e lo centrò con un diretto al mento, e il gigante grugnì e cercò di abbrancare Leonard, e Leonard guizzò via nell'ombra.
Charlie mi precipitò addosso svenuto. Fitzgerald l'aveva colpito con un gancio sinistro. Lo depositai per terra, e Fi¬tzgerald e io cominciammo a picchiarci.
Il ritmo dei nostri pugni e dei continui calci di Leonard sul corpo di TJ. riempiva la stanza. Assestai un jab a Fitz¬gerald e lui mi centrò con un gancio e io sentii incrinarsi una costola, ma non era una novità. Era un dolore che potevo sopportare, isolare. Fintai e tirai un altro jab, poi un destro, ma Fitzgerald era uscito dalla falce di luce della torcia elet¬trica, e io mi trovai a tirare pugni alle ombre, più che a qual¬cosa di concreto. Lui guizzò avanti e mi assestò un altro di¬retto alle costole, nello stesso punto di prima: una specie di pugnalata.
Però io avevo qualcosa che Fitzgerald non aveva: una tra¬zione integrale. Gli tirai un calcio alla gamba, appena sopra il ginocchio, e lui rientrò ballonzolando nel cerchio di luce. Ora lo vedevo benissimo, e lo colpii con un diretto alla fac¬cia e con un calcio di sinistro alle costole. Il reverendo ri-piombò nel buio e si mise a correre.
Mi girai a guardare Leonard. Con un paio di calci, stava spappolando un ginocchio di TJ. TJ. crollò con un urlo sul¬le assi, si mise a rotolare e strillare, tentò di alzarsi, ma il gi¬nocchio non lo reggeva più.
Sentii Fitzgerald fracassare vetri e legno di una finestra, poi atterrare sul terreno fuori. Raccolsi la torcia e gli corsi dietro. Mi pulsavano le costole. Quando arrivai alla finestra e feci per lanciarmi fuori, sentii Fitzgerald urlare come uno con un palo infilato nell'occhio. Poi l'urlo si mutò in un'eco, e poi in un gemito monocorde, da spezzare l'anima.
Balzai a terra e sventagliai il fascio di luce. La pioggia martellava ancora, e anche con la torcia elettrica era difficile vedere. Però lo sentivo: "Sì, anche se camminerò nella valle dell'ombra della morte... Gesù, non così."
Mi spostai verso la voce. Veniva dal vecchio pozzo. Fitz¬gerald, nel buio, c'era precipitato dentro.
Mi avvicinai cautamente alla pila di detriti che un tempo erano la parte esterna del pozzo, chinai la testa e puntai la luce in basso.
Fitzgerald non parlava più, non emetteva alcun suono, ma era vivo. Lo vedevo sbattere le palpebre nella pioggia. Il poz¬zo non era grande, e lui era precipitato di slancio, e lì sotto c'erano detriti di tutti i tipi: pietre del pozzo, rami d'albero e cespugli, acqua stagnante. Fitzgerald aveva colpito il fondo con un'inclinazione tale che il suo petto era ruotato di sbieco rispetto ai fianchi, e le gambe erano piegate a un angolo che solo gli scovolini da pipa dovrebbero assumere.
"Ti tiro fuori," gli dissi.
Ma lui non ascoltava. Chinò la testa sul petto, e il suo corpo dilaniato scivolò e il mento cadde sulle ginocchia, troppo alte per qualcuno che non fosse un acrobata, e poi Fitzgerald restò immobile. Scivolò lentamente nell'acqua, poi si fermò su un qualche detrito.
Non avevo bisogno del medico per capire che il reveren¬do Fitzgerald era passato a miglior vita. Gli tenni la luce puntata addosso per un po', guardai la pioggia percuoterlo; mi resi conto che adesso, in quella posizione, sembrava solo un tranquillo embrione in attesa di nascere.
Rientrai in casa dalla finestra della veranda. Non vidi nes¬suno acquattato in giro. Trovai il punto in cui l'uomo che era scappato era inciampato su un foro nelle assi, e lì sotto trovai anche qualcosa d'altro. Coricato di fianco sul terreno, con un sacchetto nero sulla testa, le mani legate dietro la schiena e le caviglie legate, c'era un bambino.
Lo tirai fuori e gli tolsi il sacchetto dalla testa. Aveva uno straccio attorno alla bocca, e sotto lo straccio qualcosa infi¬lato in bocca, e faceva una fatica enorme a respirare. Gli ti¬rai fuori la cosa di bocca e vidi che era un calzino. Lo misi a sedere sul pavimento, sul bordo del punto in cui le assi avevano ceduto. Le gambe gli penzolavano nel vuoto. Mi guardò. Era scosso dai brividi.
"Ti prego."
"Tutto a posto, figliolo. Non sono uno di loro."
"Ti prego."
Vidi che nel buco c'era qualcos'altro, e scesi a recuperar¬lo. Era un grosso pezzo di stoffa, e sotto c'era il libro dei Salmi. Avvolsi il libro nella stoffa, che non era per niente una stoffa qualunque, presi su il bambino, girai attorno al buco e andai in cucina.
Il bambino era rigido, terrorizzato. Lo depositai sul pavi¬mento con la schiena contro la parete. Vide TJ. contorcersi sul pavimento, tentò di scappare, ma con mani e piedi legati era incapace di veri movimenti. Abbassò la testa sul petto e restò immobile.
"Stai calmo," dissi. "Adesso sei al sicuro."
Diedi un'occhiata di lato. Leonard aveva preso le manet¬te di Charlie e le stava mettendo a TJ. TJ. continuava a strillare: "Fratellino, fratellino."
Dopo avere ammanettato TJ. dietro la schiena, Leonard zoppicò da me e dal ragazzo.
"Il saccheggiatore ha perso il bottino," dissi, e misi sul pa¬vimento la stoffa e il libro dei Salmi.
Leonard tirò fuori il coltello da tasca, e il bambino sus¬sultò ed emise un suono che pareva un gemito d'agonia.
"Tutto a posto," disse Leonard, dopodiché passò a taglia¬re le corde alle mani e ai piedi del bambino. "Li abbiamo presi noi per te, ragazzo."
Libero, il bambino si coricò sul pavimento con le ginocchia ripiegate sul petto. "Ti hanno fatto del male?" gli chiese Leonard.
Il bambino non rispose. Fissò Leonard. Leonard gli ca¬rezzò la testa. "Andrà tutto bene."
Controllai Gleason. Non mi occorse un esame approfon¬dito per capire che non era più del mondo dei vivi. Aveva la testa piegata a un angolo tale da darmi il vomito. Trovai il parrucchino e glielo sistemai in testa come meglio potevo.
Andai a dare un'occhiata a Charlie. Era riverso sulla schiena, cosciente ma conciato male. "Dove ti ha colpito?" chiesi,
"Alla testa," disse Charlie. "Gesù che botta. Il mondo mi balla attorno. Avrei preferito che mi colpissi un'altra volta tu con la torcia."
"Gancio sinistro," dissi. "Aveva un buon gancio. Adesso non lo ha più."
"Lo hai ucciso?"
"Ci ha pensato il vecchio pozzo." Sfilai la giacca a Char¬lie, la piegai e gliela misi sotto la testa. "Uomo, dovrai anda¬re a fare shopping. Questa giacca è rovinata. Una tasca è strappata via di brutto."
"Gli si è impigliata una mano," disse Charlie. "Secondo te il Kmart se la riprenderà?"
"Da una parte o dall'altra devono pur tracciare una linea anche loro."
"Gleason?"
"Temo che non ce l'abbia fatta. Adesso stai calmo. Potre¬sti avere una commozione cerebrale. Vado a cercare aiuto."
"Se Hanson non ha nostre notizie fra un po', verrà qui."
"Non aspetterò così tanto, Charlie."
Tornai da Leonard, che mi disse: "Ho la caviglia conciata male. Mi sono seduto e non riesco più ad alzarmi. Si è gon¬fiata quando ho tirato il calcio a quell'armadio umano. Devo averlo colpito male. Penso che dovrò tagliare la scarpa."
"Leonard, non è ancora finita."
"Lo so. Lo prenderai tu, eh? Per me e per te, e per zio Chester."
"Sai già che lo farò."
"Anche per l'amico Hanson, a dire il vero. Ragazzi se si incazzerà."
"È così che mi piace, Hanson: incazzato. Tu riesci a ca¬vartela?"
"Prendilo, Hap. Subito."
Presi il pezzo di stoffa col libro dei Salmi e uscii.

Mi occorse un po' per ridiscendere dalla casa degli Hampstead a quella di zio Chester, ma non quanto avevamo im¬piegato ad arrivarci. Non dovevo stare attento a non farmi vedere, e la pioggia si era calmata. Continuai a pensare per tutto il percorso. Pensai a quanto ero stato stupido. Ero tal¬mente incazzato che non mi facevano nemmeno male le costole.
Arrivato a casa di zio Chester, attraversai la strada fino a casa di MeMaw. La lampada della veranda era accesa, e sul sentiero intasato di fango c'era il furgone di Hiram. La tet¬toia della veranda grondava acqua a ettolitri. Salii sulla ve¬randa e bussai. Passò un minuto intero prima che Hiram aprisse. Era vestito in modo diverso da come lo avevo visto al lunapark. Aveva i capelli bagnati, il volto paonazzo e su¬dato. Era leggermente senza fiato. Aveva in mano le chiavi del furgone.
"Come sta MeMaw?" gli chiesi.
"Al solito," disse lui. "Sto andando a trovarla."
"Posso entrare?"
"Non vorrei essere scortese, ma devo correre. Stavo uscendo."
"Mi basta un minuto," dissi, ed entrai, e lui chiuse la por¬ta. La casa serbava un vago e gradevole odore di cibo. Guardai le fotografie sulla parete, il dipinto di Cristo dietro la stufa. Le tende da poco prezzo, ingiallite. Il posto sem¬brava molto meno pulito dell'ultima volta che lo avevo visto, e più piccolo, e più buio.
Hiram disse: "Ma sei stravolto."
"Ho avuto da fare. Scommetto che ti stavi preparando ad andartene, eh?"
"Te l'ho detto. Devo tornare in ospedale. Subito, per da¬re il cambio a mia sorella."
"Secondo me tu pensi che il reverendo racconterà qualcosina. Non credo che tu vada in ospedale. Secondo me scapperai come un fottuto cervo."
Lui mi guardò, cercando di farsi venire in mente qualcosa da dire. "Il reverendo?" chiese.
"Lo sai che noi due non ci siamo incontrati per un pelo, poco fa?"
"Cioè?"
"Ho qui qualcosa che ti spiegherà."
Andai al tavolo di cucina, tolsi la stoffa da sotto il brac¬cio, e scrollai fuori il libro dei Salmi. Presi la bandiera ame¬ricana, la aprii per bene, la lasciai atterrare su tavolo e libro.
"Secondo me ti è caduta questa," dissi. "Se non altro non è la bandiera del Texas... Ci avresti avvolto dentro il cada¬vere di un bambino, giusto, Hiram? Avresti infilato una pa¬gina dei Salmi in una delle riviste nascoste lassù. Il giorno che ci siamo visti qui, tu hai citato parte di un versetto della Bibbia. Era dei Salmi, giusto? MeMaw ti ha dato una buona educazione religiosa."
"Hap..."
"Tu non sapevi che ero su alla casa, Hiram. Hai pensato che il reverendo sarebbe stato arrestato e avrebbe parlato, e stavi per tagliare la corda. Sai una cosa? Fitzgerald è morto. E T.J., figurati, fra un'ora non si ricorderà più di te. Non tanto da procurarti guai, comunque. Però ti sei lasciato prendere dal panico, e sarà questo a inchiodarti."
"Hap..."
"Oh, sì, invece c'è qualcuno che si ricorderà di te. Ti è ca¬duto anche il bambino. Quello che guardavi allo zoo. Ci scommetto che ti sei lasciato guardare per bene, perché tan¬to non avrebbe avuto importanza, se le cose fossero andate secondo i vostri piani. Un piano semplice, eh? Fitzgerald ha fatto risalire i bambini sul bus, ha detto che doveva fermarsi per qualche motivo, che si sarebbe fatto dare un passaggio, poi ti ha aiutato a rapire il bambino. O meglio, tu lo hai aiutato a ingannarlo. Fitzgerald lo conosceva perché lo vedeva in chiesa. Lo ha fatto entrare gratis, si è sempre comportato come un padre con lui. Era uno dei bambini persi. E TJ. era sul bus, ma è sceso anche lui a dare una mano. Avrebbe fatto qualunque cosa per suo fratello."
"Tu devi capire, Hap. Non sono stato io a cominciare."
"Non ho bisogno di capire proprio niente. L'unica cosa che capisco è che tu e Fitz e TJ., ogni anno, avete ucciso un bambino, lo avete segato e sepolto sotto quella casa. Non mi occorre capire altro. Il perché non significa un accidente per me."
"Avrei smesso. Sul serio."
"No. Non credo. E comunque non importa."
Hiram parve rifletterci su un attimo, poi ruotò su se stes¬so, afferrò una sedia e mi balzò addosso. La rovesciò di lato e mi colpì su un fianco, e nelle mie costole disastrate esplose il dolore, ma io gli corsi incontro mentre vibrava il colpo, e ne attutii la forza. Gli afferrai la faccia con entrambe le mani e scaraventai avanti la fronte, sul suo naso, e lui schizzò indietro, spruzzando sangue. Lasciò andare la sedia e cadde contro la stufa. L'impatto scosse la parete, e il ritratto di Gesù ondeggiò sul chiodo e si staccò, precipitò sulla stufa e il vetro andò in frantumi.
Lui si lanciò di nuovo su di me, ma io attaccai con un de¬stro allo stomaco, un gancio sinistro alla testa. Un gancio da strapazzo. Mi facevano troppo male le costole per potergli dare una forza esplosiva. Lui mi colpì sopra l'orecchio, fiac¬camente, ma tutti i pugni che avevo incassato da Fitzgerald si facevano sentire. Le gambe mi si stavano sciogliendo. Mi coprii la faccia con braccia e pugni e per un po' lasciai fare a Hiram. Non era un pugile migliore di quanto fosse mai stato, solo un dilettante, e nemmeno il suo fiato era miglio¬rato. I colpi facevano un po' male, ma Leonard me ne face¬va passare di peggio quando ci allenavamo.
Dopo pochi pugni, Hiram cominciò a respirare pesante¬mente con la bocca, ingoiando aria come una balena ingoia plancton. Smisi di stare in guardia e imbastii un solido gan¬cio di destro, togliendogli il poco fiato che gli restava, poi lo stesi con una gomitata. Quell'ultima mossa fece muovere una delle mie costole in un modo per niente normale, e sen¬tii una pugnalata al fianco. La maledetta costola era già in¬crinata, e adesso si era spezzata. Fui costretto ad appoggiar¬mi alla stufa, tra conati di vomito, e quando mi girai a guar¬dare Hiram, si era rialzato. Aveva preso da un armadietto un coltello da carne e mi si stava lanciando addosso con quello. Ma non sapeva maneggiare coltelli meglio di quanto sapesse boxare.
Parai l'attacco col braccio, gli afferrai il polso e gli feci perdere l'equilibrio, scaraventandolo contro il piano del la¬vandino, quindi col braccio libero lo colpii dietro la testa, fa¬cendola precipitare sulla porcellana del lavandino. La sua te¬sta emise un suono simile a quello di un vaso di coccio che si rompe, e Hiram svenne. Sarebbe crollato sul pavimento se il mento non si fosse impigliato sull'orlo del lavandino. Gli tirai un calcio ai piedi e lui cadde riverso sul pavimento, col sangue che gli usciva dalla bocca. La sua mano si apri lentamente, come un bocciolo, e il coltello rimase nel palmo aperto. Lo gettai via con un calcio. Restai chino su Hiram per un attimo. Provavo una sensazione per la quale non ave¬vo un nome.
Alla fine, andai ad appoggiarmi al lavandino e tentai di ri¬prendere fiato. Stavo per svenire. La cucina di MeMaw mi girava attorno come una giostra di Disneyland. Aprii il rubi¬netto e lasciai scendere un po' di acqua fredda sulle mani e me la spruzzai in faccia e la passai nei capelli. Non servì a molto. Chinai la testa sul lavandino, sotto il rubinetto, e feci scendere l'acqua su nuca e collo. Qualche minuto dopo la cucina smise di roteare, e il dolore alle costole cominciò sul serio.
Strisciai fino al telefono e chiamai la polizia, chiesi di mettermi in collegamento col tenente Hanson, e di riferirgli che c'era in linea il suo buon amico Hap Collins con un as¬sassino già impacchettato.

39

Quattro sere dopo la mia scazzottata con Hiram, MeMaw morì, e due mesi più tardi io pensavo ancora a lei. Ero felice che non si fosse mai svegliata. Che non vesse mai saputo. Hiram aveva mentito: con MeMaw non c'era una figlia. Hiram non aveva mai chiamato qualcu¬no. Il bisogno di uccidere era così forte in lui da spingerlo a lasciare il capezzale della madre morente per andare a fare quello che sentiva di dover fare. Tutta quella storia mi per¬seguitava come uno spettro.
Ci pensavo in un pomeriggio caldo ma gradevole. Leonard e io eravamo usciti a pesca, e naturalmente non pren¬devamo niente, andavamo solo alla deriva in barca, districa¬vamo il filo dal muschio e guardavamo passare gli uccelli.
Se non altro, la maggior parte delle zanzare era andata in ferie. Faceva ancora tanto caldo da spingerne qualcuna a uscire in missione di ricognizione, in cerca di un posto dove atterrare e fare rifornimento di carburante, posto che in ge¬nere si trovava in un punto o nell'altro del mio collo, ma ba¬stava uno schiaffo ogni tanto.
"Smettila di pensarci," disse Leonard.
"Cosa?"
"Hai appena tolto l'esca dall'amo e lanciato in acqua l'amo nudo. Direi che stai pensando a Florida o a Hiram."
Un po' di tempo prima stavo pensando a Florida. E Hanson. Stavano per sposarsi. Florida mi aveva invitato al ma¬trimonio. Per posta. Diceva di sperare nella mia presenza. Stando a Charlie, che si serviva sempre al Kmart, Hanson sperava che io restassi a casa. Continuavo a pensare che avrei dovuto augurare ogni bene a Florida e Hanson ed essere contento per loro. Sarebbe stata la cosa giusta da fare, invece ero lì a sperare che lei avesse sbagliato i calcoli e si ritrovasse con le mestruazioni la notte di nozze. Era il mini¬mo che il fato potesse fare per me.
"Pensavo a Hiram," dissi. "All'intero casino."
Riavvolsi il filo sul mulinello, con cautela. Le mie costole andavano molto meglio, ma trovavo ancora dolorose le cose più semplici. Il medico avrebbe voluto mettermi l'ingessatu¬ra, ma io avevo già avuto delle costole rotte. Dopo che me le ebbe rimesse a posto, chiesi una fasciatura, ben stretta. A occhio e croce, nel giro di un mese sarei riuscito a mettere sul piatto un disco di Chubby Checker e farmi un twist. Leonard si era ripreso benissimo; la caviglia si era sgonfiata in una settimana.
"Sai," dissi, "Hiram mi piaceva abbastanza. Aveva il suo lato buono."
"Ti piacevano le sue stronzate. Non si può mica avere un lato buono quando l'altro è così cattivo. Cazzo, tu non lo sai sul serio che avesse un lato buono. Aveva una buona faccia¬ta, uomo. Quello portava più maschere di una banda di bambini la sera di Halloween. Pensa a come ha lasciato sola sua madre per poter andare a uccidere un bambino."
"Probabile. Secondo te gli daranno l'ergastolo o un ago pieno di merda?"
"Io prego per l'ago. Mi piacerebbe poter spingere lo stan¬tuffo con le mie mani, oppure lasciare perdere il veleno e pungerlo a morte con l'ago."
"La cosa che mi preoccupa di te, Leonard, è che ti è mol¬to difficile entrare in contatto coi tuoi veri sentimenti."
"Già. Mi prenderò un analista che mi aiuti a venirne fuo¬ri. Così mi spiegherà anche perché sono frocio. Vanno matti per polpe del genere. Vorrà sapere se sogno l'uccello di mio padre. Cazzo, se sono fortunato, magari l'analista sarà uno stallone biondo frocio come me."
"La speranza non muore mai."
"Senti, uomo, tu ti preoccupi troppo per la psicologia del¬le cose. È solo vudù mentale. Non significa niente. Puoi prenderti tutte le lauree in psichiatria e psicologia di questo mondo, ma se poi confronti il peso di quella cartaccia col peso della verità, non te ne resterebbe abbastanza per pulire il culo a un neonato."
"Può darsi. Però arrivo a capire Fitzgerald, se le cose che ha raccontato Hiram sono vere, e credo di sì, ma con Hiram proprio non so."
"Tu vuoi che tutto si sistemi al suo posto, Hap. Stronza¬te. Quello che Hiram ha detto di Fitzgerald è probabilmen¬te vero, quello che ha detto di se stesso probabilmente è so¬lo un mucchio di stronzate. In realtà tu ti stai solo rimpro¬verando per non avere individuato Hiram prima."
"Avrei dovuto capirlo. Merda, avevo tutto sotto il naso. Scatole di bandiere sul furgone di Hiram, e ogni cadavere era avvolto nella stoffa, e lui mi aveva citato quel versetto dei Salmi. Aggiungi il fatto che veniva qui tutti gli anni nel periodo degli omicidi, conosceva il reverendo e aveva un passato in comune con lui. Buttaci dentro il minestrone re¬ligioso, e il modo in cui si è comportato la notte che gli ho messo fra le braccia Ivan, drogato e moribondo. Lo ha guar¬dato come gli avessi fatto un regalo inviato direttamente da Dio. Giuro che la sola idea, sapendo quello che so adesso, mi dà i brividi."
"Malinconie da lunedì mattina. Ho già sentito tutto, Hap, e francamente sono stufo. Senti, amigo, io non mi rimprove¬ro. Tu non dovresti rimproverarti. Hiram sembrava a posto, e Fitzgerald, cazzo, era maturo per la parte, e pure colpevo¬le. Avevamo puntato gli occhi su di lui e non riuscivamo a vedere tutto l'insieme. Quella cazzo di bandiera: ma chi po-teva pensarci? L'unico modo per arrivarci è stato quello che è successo. Hai trovato la bandiera e il bambino. Ma il pun¬to è che un altro bambino non è morto. Li abbiamo presi tutti. Se devo sentirmi triste per qualcuno, sarà per TJ. Dovrà marcire in qualche istituto statale. Non che voglia veder rimettere in circolazione il bastardo, ma nel suo caso ho da versare una lacrima o due."
"Non ne vedo."
"Piango dentro. E ogni giorno spero che quel povero cri¬sto muoia nel sonno. Non è fatto per questo mondo. Mer¬da, se Fitzgerald avesse detto a T.J. che il suo uccello era un serpente, quello ci avrebbe creduto. Se lo sarebbe tagliato e annodato, se Fitzgerald avesse voluto."
"Su questo non c'è dubbio."
"A dire il vero, la cosa che mi rallegra le notti è pensare a quello stronzo malcagato che cade nel pozzo. Mi sarebbe piaciuto essere abbastanza vicino da poter sentire spezzarsi le ossa."
"La tua umanità mi lascia senza parole, Leonard."
"Adesso scordati Hiram e tutto il resto. Metti l'esca. Per¬sonalmente, quando metterò la prossima esca sull'amo, im¬maginerò di infilare l'ago nell'occhio di Hiram... E dai, uo¬mo, vediamo di prendere almeno qualche persico. Mi piace¬rebbe cenare a pesce."
"Lo sai cos'è, Leonard?"
"No, ma lo scoprirò."
"È il fatto che erano identici, eppure diversi."
"Hiram e Fitzgerald?"
"Sì. Cioè, Hiram dice che erano identici, ma tu cosa ne pensi?"
"La stessa cosa che pensavo ieri. Sarebbe meglio che fos¬sero morti tutti e due, e quando Hiram smetterà di respirare e si unirà al duo, mi comprerò un cappellino da party e una trombetta. Ma visto che tu proprio devi parlarne, voglio dar¬ti la mia ultima parola, fratello. Fitzgerald, se Hiram è attendibile, e come te anch'io credo a questa parte, è partito di testa da piccolo, giusto? Come lo hai definito?"
"Psicotico."
"Esatto. E Hiram era uno psicopatico. Per quante storie racconti su come lui e Fitzgerald sono stati trasformati in quello che sono, io non le bevo. Almeno non nel caso di Hi¬ram."
Ricordavo la storia raccontata da Hiram, o per lo meno la versione che me ne aveva fatto Hanson. Hiram aveva detto alla polizia e agli psichiatri di non poterci fare niente; era stato ridotto così. Aveva detto che da bambino passava del tempo con Fitz, e il padre di Fitz aveva stuprato non solo il figliastro, ma anche lui. Era per questo che il vecchio aveva ucciso la moglie. Non perché pensasse che potesse andare a letto con altri uomini. Quella era solo una stronzata che Hiram mi aveva smollato per prendere le distanze da Fitzgerald. La moglie aveva sorpreso il vecchio in flagrante con lui e con Fitz. Hiram aveva detto che lo avevano visto ucciderla e av-volgerla in una bandiera presa in chiesa. Poi li aveva costretti ad aiutarlo a caricare il corpo in macchina, andare alla casa degli Hampstead con lui, guardarlo segarla alla luce delle candele, mentre continuava a spiegare che era la volontà di Dio. Parole confermate dall'immagine sulla parete, la mac¬chia di umidità con la faccia di Cristo.
Hiram aveva detto che il vecchio lo aveva minacciato: se avesse detto una sola parola, lui avrebbe fatto la stessa cosa a MeMaw, per cui Hiram era stato zitto per tutti quegli an¬ni. Ma il ricordo non se ne andava, e lui si svegliava di notte e vedeva il sangue e lo rivedeva colare dalla bandiera. La memoria gli presentava la macchia d'umidità sulla parete, e lui poteva fiutare il terriccio sotto la casa, e provava rabbia. Gli venne il bisogno di accendere fuochi e far soffrire piccoli animali. Lo faceva di nascosto.
Da adulto, gli animali non bastavano più. E lui e Fitzge¬rald, contaminati dallo stesso delitto nello stesso momento, trovarono un legame in comune. Gli omicidi iniziarono. Pensavano di fare la volontà di Dio nello sbarazzarsi di casi tanto tristi, di quelle che consideravano ammonizioni divine. O così diceva Hiram.
"Vedi, uomo," disse Leonard, "Hiram mentiva. Capiva troppo bene perché Fitzgerald fosse quello che era per agire con le stesse motivazioni. Era Fitzgerald a credere in quello che faceva; era lui ad avere l'illusione psicotica di eseguire la volontà di Dio come gli era stata trasmessa da suo padre. Però non si può scagionare nemmeno Fitzgerald. Ha fatto una scelta. E c'è anche qualcosa d'altro, uomo. Fitzgerald aveva le riviste porno come Hiram, e per il fatto del sesso coi bambini possono anche dire che faceva parte dello sche¬ma, ma a me pare solo una smania di potere, pura e sempli¬ce. Ma concediamo un po' di spazio a Fitzgerald e diciamo che non è tutta colpa sua. Non troppo spazio, solo tanto da potercisi rigirare, e passiamo a Hiram.
"Anche Hiram l'ha passata brutta da bambino, ma porcaccia, quello non era il suo ambiente. Col tempo avrebbe potuto superare la cosa, affrontarla, parlarne prima o poi, se avesse voluto. Però uccidere gli piaceva fin dall'inizio. È na¬to con un filo staccato e un pistone rotto. Ci scommetto che torturava gli animali prima ancora di essere inculato e di ve¬dere quell'omicidio. Con Hiram è stato come gettare il vec¬chio Fratel Coniglietto nel roveto. Era nato e cresciuto per quello, esattamente come certi cani saltano fuori cattivi e al¬tri buoni, e sono della stessa cucciolata. MeMaw era una brava persona, ma questo non significa che i geni di Hiram non siano stati distorti. C'è stata la combinazione sbagliata."
"Allora, in un certo senso," dissi, "questo significa che era più forte di lui."
"I cani cattivi sanno solo mordersi fra loro. Li ho visti na¬scere cattivi e peggiorare crescendo, per quanto bene uno li potesse trattare. Non possono farci niente, però nemmeno io ho potuto farci niente e gli ho dovuto infilare un proiet¬tile in testa. Se non mi mordi, se non cerchi di mordermi una sola volta... Merda, Hap, certe cose sono quello che so¬no e stop. Hiram era un predatore dalla nascita, e gli piace¬va nutrire la frenesia religiosa di Fitzgerald, così a sua volta poteva nutrire i propri bisogni. Pensa a quello che hanno trovato a Tyler."
Controllando la casa di Hiram, la polizia di Tyler aveva trovato dei souvenir, più di quanti ne potessero venire dai cadaveri sotto la casa degli Hampstead.
A quanto pareva, una volta l'anno a LaBorde non era ab¬bastanza per Hiram. Col tempo, se lui avesse parlato, la po¬lizia di Tyler era certa di poter risolvere molti casi locali di bambini scomparsi.
"Chissà quanti bambini ha fatto fuori Hiram," disse Leonard. "Qui, a Tyler, nei suoi viaggi. Aveva il lavoro ideale per il suo piccolo hobby. E avrebbe continuato a farlo fin¬ché non lo avessero fermato, o fosse finito nella fossa."
"Lo so," dissi. "Probabilmente una parte di me pensa che in un punto o nell'altro tutti quanti potessero essere salvati. Forse non diventare persone perfette, ma nemmeno dei mostri."
"Hap, amico mio, nel mondo c'è il male. Il vero male. Non si liscia i baffi e non è vestito di nero e non striscia furtivamente e non ha un solo colore o sesso. A volte il male viene da posti buoni, come la casa di MeMaw, e a volte può indossare ogni tipo possibile di facciata buona e parlare co¬me si deve, ma sono soltanto facciate e chiacchiere. Il male è reale, uomo. Come il bene."
"E T.J.? Come rientra nella tua teoria?"
"Non mi importa niente se ci rientra o no, Hap. Adesso zitto e pesca."
Misi l'esca e ricominciai a pescare, ma non riuscii a cal¬mare il cervello. Continuai a pensare a tutto quello, a chie¬dermi se adesso il bambino che avevamo salvato avrebbe avuto una possibilità, o sarebbe tornato diritto in strada. Mi domandai se in quello stesso momento non si stesse sparan¬do una dose nel braccio.
Non prendemmo pesci. Leonard ci restò di merda. Il suo palato voleva qualcosa di pinnuto. Lungo strada ci fermam¬mo da Kroger's a comperare un pesce da friggere. Il pesce fresco era finito. Prendemmo dei bastoncini di pesce, li por¬tammo a casa e li mettemmo in forno.

Quello stesso mese, più tardi, in una serata fredda col cielo nero e le stelle scintillanti, lasciai la casa di zio Chester. Il lavoro era completo, a parte la dipintura, e Leonard deci¬se di vivere lì come minimo fino a primavera. A quel punto, io sarei tornato per dargli una mano a dipingere, poi lui avrebbe messo la casa in vendita.
Ma quanto a me, per il momento, volevo stare lontano da lì e dai resti dello spaccio di droga alla porta accanto, dalla casa di MeMaw, dal bosco retrostante e dalla casa degli Hampstead. Di notte, mi sentivo accerchiato, come se le ca¬se e le macerie dello spaccio di droga fossero cose vive, ca-paci di tendere le mani e toccarmi.
Suppongo, visto che una parte primitiva della mia mente la pensava così, che avrei dovuto credere che l'albero botti¬glia di zio Chester mi potesse proteggere, ma ormai mi era più facile credere nel male che nel bene.
Io e Leonard quella sera facemmo una grande cena, e do¬po cena gli strinsi la mano, misi la mia roba sul retro del camioncino, e restammo lì ad ascoltare il vento nelle bottiglie dell'albero bottiglia. Un vento fresco. Una sera gradevole.
"Non tirarmi bidoni, Hap."
"Non sorprenderti se non avrai mie notizie per una setti¬mana," dissi.
"Va bene."
"Non sorprenderti se avrai mie notizie domani."
Lui mi sorrise. "Attento alla guida, uomo."
Lo abbracciai e partii, diretto a casa, ma non ci arrivai. Imboccai l'autostrada 7. Raggiunsi la vista panoramica e parcheggiai. Scesi e mi sdraiai sul cofano del camioncino, con la schiena sul parabrezza, e guardai il cielo. Era una bel¬la sera, e le stelle erano chiare e luminose come gli occhi di una ragazza. Bella come la volta che Florida e io eravamo andati lì. Mi era difficile ricordare chi fossi esattamente allora. Mi sentivo più vecchio e il mondo mi sembrava più tri¬ste, ed era come se tutto ciò che avevo mai imparato fosse, in definitiva, inutile. Quella sera, quando mi ero trovato lì con Florida al mio fianco, non molto tempo prima (ma, da un altro punto di vista, un milione di anni prima), lei mi aveva detto che si poteva vedere l'eternità. Ed era vero. Ma allora, l'eternità era un luogo meraviglioso, pieno di mistero e speranza e tempo incalcolabile.
Adesso, vedevo ancora l'eternità, ma l'eternità era ormai vuota.

FINE