mercoledì 15 gennaio 2020


CIME TEMPESTOSE 

E' ora di recuperare un romanzo-freak
Mariarosa Mancuso
15 GENNAIO, 2020

Violento, confuso, pasticciato, per nulla verosimile. Una mostruosità letteraria, meglio tenerla fuori dal salotto buono. Un “freak”, come le creature bizzarre raccontate dal simpatico critico Leslie Fiedler, e al cinema dal regista Tod Browning (da ragazzino scappò con il circo, il cuore rimase impigliato). “Cime tempestose” non è un romanzo, è un fenomeno da baraccone, fate conto la donna barbuta. Lo stabilì l’antipatico critico F. R. Leavis compilando il suo Canone, e negli anni 50 non bisognava neanche aggiungere “Occidentale”: nessuna minoranza sgomitava, l’arte di offendersi non era stata perfezionata.

Emily Brontë pubblicò il suo primo e unico lavoro nel 1847 con lo pseudonimo di Ellis Bell (per gli editori, le donne erano “veleno al botteghino”, quando Louisa May Alcott scriveva di spie e di vendette e si firmava A. M. Barnard). Il cognome della famiglia romanziera – anche le sorelle Charlotte e Anne scrivevano, con un certo successo – viene da Bronte in Sicilia, via ammiraglio Nelson. Troppo lunga per essere ripresa qui, la racconta John Sutherland, nel gustoso dizionarietto “The Brontesaurus”.

Qui dobbiamo occuparci dell’insopportabile individuo, forse addirittura un assassino, diventato sinonimo di “passione & romanticismo”: tutte cose che in “Cime tempestose” fatichiamo a trovare (da Einaudi la traduzione più recente, di Monica Pareschi). Heathcliff, appunto, che serve da nome e da cognome. Sarebbe Earnshaw, come il buon padre di famiglia che lo trova sporco e solo sul molo di Liverpool, lo infagotta e lo porta lassù nella brughiera. Che l’abbia registrato all’anagrafe, non è sicuro.
“Wuthering Heights” – il titolo originale – indica la proprietà, spazzata dai venti gelidi. Il bambino non si presenta bene: “Scuro com’è pare quasi che venga dall’inferno”. Da grande sarà peggio. La governante-narratrice mette Heathcliff davanti allo specchio e gli indica i punti di miglioramento: “Le vedi quelle due sopracciglia folte che si uniscono al centro? E quei due demoni neri infossati laggiù, che non aprono mai davvero le imposte ma sbirciano scintillanti da sotto, come agenti di Satana? Via quella faccia da cagnaccio rabbioso che sa di meritare tutti i calci che prende”.
Heathcliff cresce assieme a Catherine Earnshaw, la figlia del padrone. Hindley, il figlio del padrone, lo guarda subito storto, e da qui discende una delle tante linee di sciagura che percorrono il romanzo-freak fino alla terza generazione. L’intrigo che nessuno ricorda mai, che al cinema viene cancellato perché troppo torvo. E ingarbugliato, Emily Brontë usa sadicamente gli stessi nomi. Avremo un’altra Cathy, partorita dalla quasi moribonda Catherine, già in preda alla follia e malata di consunzione.
Heathcliff e Catherine crescono insieme. Il trovatello viene trattato come un figlio fino alla morte del genitore adottivo. Quando Hindley diventa capofamiglia cominciano le tragedie. Il giovanotto viene separato da Catherine e messo al lavoro con i servi. Si incontrano di nascosto, e per colpa di una fuga notturna – con morso di un cane, questo è un romanzo dove i cani azzannano le signorine, e non solo – la ragazza conosce il futuro marito Edgar Linton, che vive in una proprietà poco lontana.

Oltre alla scaltra ragazza Catherine e all’ingenua cognata Isabelle, anche le proprietà saranno al centro di litigi forsennati, con atrocità sorprendenti per una zitella vittoriana: “Heathcliff ha estratto il coltello a viva forza dalla carne, allargando ancora di più il taglio, e se l’è ficcato in tasca tutto gocciolante”. Peggio è la guerra dei nervi, quando il trovatello prima accolto e poi maltrattato fugge. Dopo tre anni torna ricchissimo e con un pensiero fisso: la vendetta. Chiamatelo, se volete, romanzo d’amore. A leggerlo, comincia con lo spettro di Catherine che alla finestra di un incauto ospite implora: “Fammi entrare”. La governante interrogata spiffera un’inverosimile quantità di disgrazie e sofferenze, si capisce che non vedeva l’ora di sfogarsi.

CIME TEMPESTOSE


           
           
            1801. - Sono appena ritornato da una visita al mio padrone di casa, il solo vicino col quale avrò a che fare. Questa è indubbiamente una bella contrada. Credo che in tutta l'Inghilterra non avrei potuto scegliermi un altro posto più lontano dal frastuono della società. È il paradiso del perfetto misantropo; e il signor Heathcliff ed io siamo fatti apposta per una simile desolazione. Un uomo veramente singolare! Non immaginava certo quale viva simpatia sentissi per lui quando vidi i suoi occhi neri ritrarsi così sospettosamente sotto le ciglia al mio avanzare a cavallo, e le sue mani rifugiarsi ancor più addentro nel panciotto, con gelosa risolutezza, all'annuncio del mio nome.
            «Il signor Heathcliff» dissi.
            Un inchino del capo fu la risposta.
            «Il signor Lockwood, il vostro nuovo affittuario, signore. Mi faccio l'onore di presentarmi a voi il più sollecitamente possibile, subito dopo il mio arrivo, voglio esprimervi la speranza che ho di non esser stato troppo importuno con la mia insistenza nel chiedervi di poter abitare Thrushcross Grange. Proprio ieri ho saputo che voi avevate l'intenzione...»
            «Thrushcross Grange è mia proprietà, signore,» mi interruppe, aggrottando le ciglia. «Non permetterei mai a nessuno di importunarmi, poichè sta solo a me d'impedirlo... Entrate!»
            Quell'«entrate» fu pronunciato a denti stretti ed esprimeva un sentimento ben diverso, a esempio, «Andatevene al diavolo!»; perfino il cancello al quale si era appoggiato non diede il minimo segno di consenso a quella parola, e credo che fu proprio tale circostanza a farmi accettare l'invito: sentii interesse per quell'uomo che sembrava esageratamente riservato, ancora più di quanto lo fossi io.
            Quando vide che il mio cavallo già si spingeva col petto contro la sbarra, allora, finalmente, levò una mano per togliere la catena, e precedendomi piuttosto di malavoglia per il vialetto, entrò nella corte e gridò: «Giuseppe, prendi il cavallo del signor Lockwood e portaci su del vino.»
            «Questa dev'esser tutta la sua servitù, m'immagino,» fu la riflessione suggeritami da quell'ordine. «Nessuna meraviglia se l'erba cresce fra le pietre e il solo bestiame pensa a cimare le siepi.»
            Giuseppe era un uomo in età, anzi, un vecchio; forse molto vecchio, quantunque sano e vigoroso. «Che il Signore ci aiuti!» monologò sottovoce, con mal celato dispetto, mentre prendeva le briglie del mio cavallo, e mi guardava con un viso così arcigno che conclusi, caritatevolmente, che avesse bisogno dell'aiuto divino per digerire il pranzo, e che la sua pia invocazione non dovesse avere quindi alcun riferimento al mio inaspettato arrivo.
            Wuthering Heights è il nome della residenza di Heathcliff; «Wuthering» è un aggettivo molto espressivo, proprio di quella provincia, e descrive il tumulto atmosferico al quale trovasi esposta durante la bufera. Debbono avere aria pura e mossa lassù in ogni momento! Ci si può immaginare la violenza del vento del nord quando soffia al di sopra della siepe, dall'esagerata inclinazione di alcuni miseri abeti che stanno al limitare della casa e da uno sparuto filare di squallidi ceppi di roveti che tendono le braccia da un sol verso come ad impetrare l'elemosina dal sole. Fortunatamente, l'architetto che eresse quella casa, ebbe l'avvertenza di costruire un edificio solido: le strette finestre sono bene incastrate nel muro, e gli angoli sono difesi da larghe pietre sporgenti. Prima di passare la soglia mi soffermai ad ammirare i grotteschi profusi sulla facciata, specialmente come decorazione della porta principale, sopra la quale tra uno scialo di grifoni e di putti nudi, scoprii la data «1500», ed il nome «Hareton Earnshaw». Avrei voluto fare qualche commento, o chiedere la breve storia del luogo allo scontroso proprietario, ma il modo con cui questi si teneva sulla porta, sembrava esigere o un'immediata entrata, o una ancor più rapida partenza, ed io non desideravo accrescere la sua impazienza prima di visitare quei penetrali.
            Con un passo ci trovammo nelle stanze di famiglia (non essendovi anticamere nè corridoi d'ingresso), in questo paese denominate per eccellenza «la casa». Generalmente essa comprende la cucina e il salotto, ma credo che a Wuthering Heights la cucina sia relegata altrove: da una remota distanza infatti mi giunse uno schiamazzar di voci ed il tintinnare di utensili di cucina, e lì sull'enorme camino non mi fu dato di scorgere nulla che somigliasse ad arrosto o a bollito, e neppure mi colpì il luccichìo di casseruole di rame e di schiumarole di stagno sulle pareti. Veramente, da una di queste venivano riflessi di luce da file di enormi piatti di peltro alternati ad anfore e boccali d'argento torreggianti in lunghi ordini sovrapposti su un'ampia credenza di quercia alta fino al soffitto. Sopra il camino eran diversi fucili vecchi e arrugginiti, un paio di pistole e tre canestrini da tè dipinti a colori molto vivi, disposti come ornamento. Il pavimento era di pietre bianche, levigate, le sedie dall'alto schienale, rustiche di forma, eran verniciate di verde e due o tre nere e pesanti stavano nell'ombra. Sotto la tavola s'allungava una enorme pointer, color marrone, circondata da un branco di cuccioli; altri cani occupavano tutti gli angoli.
            La stanza e il mobilio non avrebbero avuto nulla di straordinario se fossero appartenuti a un rozzo proprietario del nord, dalla dura grinta e dalle membra poderose, magari messe in maggior risalto dai calzoni corti fin sopra al ginocchio e dalle ghette. Un personaggio simile, seduto nella sua poltrona, con un boccale di birra spumeggiante davanti a sè, può vederlo chiunque tra queste colline, nella cerchia di cinque o sei miglia, purchè capiti nel momento giusto, dopo pranzo. Ma il signor Heathcliff contrasta singolarmente con la sua dimora e con un simile stile di vita. L'aspetto è quello di uno zingaro, il suo viso è abbronzato, ma l'abito e i modi sono di un gentiluomo; voglio dire un gentiluomo come lo sono molti proprietari di campagna, cioè un po' trascurato; ma a lui tale negligenza non torna di svantaggio, essendo bello di persona, con un portamento eretto e piuttosto altero. Può darsi che alcuni lo taccino di volgare superbia; ma nulla di simile: io sento per istinto che la sua riservatezza nasce da avversione per ogni dimostrazione sentimentale troppo viva e per ogni manifestazione di gentilezza reciproca. Egli amerà o odierà dentro di sè e considererà come un'impertinenza ogni segno di amore o di odio altrui. No, forse corro troppo, e gli attribuisco con eccessiva prodigalità qualità esclusivamente mie proprie. Il signor Heathcliff può disporre di ragioni totalmente diverse per il suo non avere mai una mano libera quando incontra un conoscente quale sarei io. Amo sperare che un tal modo di sentire sia tutto mio particolare. A questo proposito la mia adorata madre soleva dirmi che io non avrei mai avuto una casa mia, e infatti anche la scorsa estate ho dimostrato di esserne veramente indegno.
            Mentre mi godevo un mese di bel tempo al mare, mi trovai in compagnia di una creatura affascinante, una vera dea ai miei occhi... finchè lei non si accorse di me. Non rivelai mai il mio amore verbalmente; però se gli sguardi hanno un linguaggio, anche il più perfetto idiota avrebbe potuto indovinare che io ne ero perdutamente innamorato: alla fine mi comprese e mi ricambiò col più dolce sguardo immaginabile. E che cosa feci io? Lo confesso con vergogna, mi ritrassi scontrosamente in me stesso a guisa di una lumaca; a ogni occhiata mi sentii ricacciare sempre più lontano, e farmi di gelo, così la povera innocente cominciò addirittura a dubitare dei propri sensi, e, presa da confusione per il supposto errore, persuase la madre a partire. Per questa singolarità del mio carattere mi sono acquistata la fama di duro di cuore, ma quanto sia immeritata solo io posso giudicare.
            Sedutomi all'estremità del camino opposta a quella verso cui il padrone di casa si era diretto, occupai un intervallo di silenzio cercando di accarezzare la cagna madre che con fare da lupa mi si era portata dietro le gambe, il labbro arricciato, le bianche zanne schiumose di saliva per la brama di mordere. La mia carezza provocò un lungo ringhio gutturale.
            «Fareste meglio a lasciarla stare!» borbottò il signor Heathcliff nello stesso tono, impedendo con una pedata che quella protesta degenerasse. «Non è abituata alle carezze, e non le diamo vizi.» Poi, andando a lunghi passi verso una porta laterale, gridò di nuovo: «Giuseppe!»
            Si udì Giuseppe mugolare indistintamente nelle profondità della cantina, ma non dette segno di salire; allora il suo padrone scese come un bolide da lui, lasciandomi vis-à-vis con la sua cagnaccia e con un paio di orridi e irsuti bastardi da pastore che subito condivisero con quella una gelosa sorveglianza di ogni mio movimento. Non essendo affatto ansioso di venire a contatto con le loro zanne, rimasi seduto, immobile; ma, pensando che difficilmente avrebbero compreso un tacito insulto, ebbi l'infelice idea di lanciar occhiate e far boccacce a quel trio, e una smorfia della mia fisionomia tanto irritò madama che a un tratto me la trovai sulle ginocchia. Respingendola a terra, senza perdere un istante misi la tavola tra di noi. Questo modo di procedere fece balzar fuori l'intera compagnia; mezza dozzina di indemoniati quadrupedi, di varie dimensioni e di varie età sbucò da nascoste tane slanciandosi nel centro della stanza. Sentii che i miei talloni e i lembi della mia giacca erano speciale oggetto d'assalto, e, difendendomi dai più grossi assalitori come meglio potevo con l'attizzatoio, fui ugualmente costretto a domandare aiuto a gran voce a quelli della casa perchè ristabilissero la pace.
            Il signor Heathcliff e il suo servo risalirono le scale della cantina con una flemma irritante, credo non si siano dati la briga di affrettare menomamente il loro passo, anche se la stanza era tutta una tempesta di abbaiamenti e di squittii. Per mia buona fortuna mostrò maggior sollecitudine un'abitatrice della cucina: una florida donnona, che, con la gonna rialzata, le braccia nude, e le guance infocate, irruppe in mezzo a noi, roteando una larga padella, e adoperò quell'arma e la sua lingua così bene che la burrasca si placò all'istante quasi per magia, e, quando apparve sulla scena il padrone, quella era padrona del terreno, solitaria e ancora ansante come un mare dopo che ha infuriato il vento.
            «Che diavolo mai succede?» disse Heathcliff, guardandomi in una maniera che ritenni poco sopportabile dopo quel trattamento inospitale.
            «Ah, per l'appunto che diavolo mai succede?» mormorai. «Il branco dei porci indemoniati non poteva avere in sè spiriti maligni peggiori di quelli di questi vostri animali. Sarebbe lo stesso lasciare un cristiano in un covo di tigri!»
            «Non se la prendono mai con chi non tocca nulla,» osservò egli, ponendo la bottiglia davanti a me e rimettendo la tavola al suo posto. «È bene che i cani siano vigili! Prendete un bicchiere di vino.»
            «No, grazie!»
            «Non siete stato morsicato?»
            «Se ciò fosse avvenuto, avrei lasciato la mia impronta sul colpevole.»
            Il viso di Heathcliff sembrò spianarsi. «Via, via, disse, «siete eccitato, signor Lockwood! Ecco, prendete un po' di vino. Gli ospiti sono così rari in questa casa che io e i miei cani non li sappiamo ricevere. Alla vostra salute, signore.»
            M'inchinai e contraccambiai l'augurio, poichè cominciai a capire che sarebbe stato sciocco conservare un viso sdegnoso per l'indisciplina di un branco di cagnacci, e per di più non mi sentivo affatto disposto a offrire a quel burbero un'altra occasione di divertirsi a mie spese, dato che il suo umore aveva preso tale piega. Egli, allora, pensando forse prudentemente alla follia di offendere un buon inquilino, abbandonò un poco lo stile laconico e introdusse un argomento che supponeva interessante per me - un discorso cioè sui vantaggi e gli svantaggi di una dimora solitaria. Lo trovai molto intelligente nel discutere alcuni punti, e, prima di ritornare a casa mi sentii tanto incoraggiato da offrirgli un'altra mia visita per l'indomani; ma evidentemente egli non aveva alcun desiderio che tale intrusione si ripetesse. Ciononostante, ritornerò. È sorprendente quanto più socievole mi senta in suo confronto.

           
           

           
            Ieri pomeriggio il tempo si era fatto nebbioso e freddo. Avrei quasi preferito starmene nel mio studio, presso il focolare, che avventurarmi per la landa e il fango alla volta di Wuthering Heights. Ma, risalito dopo pranzo con tale proposito (N. B. Io mangio tra le dodici e l'una non essendo mai riuscito a far comprendere alla mia governante, matrona annessa alla casa nè più nè meno di un mobile, il mio desiderio che il pranzo sia servito alle cinque), appena varcata la soglia, scorsi lì dentro una ragazza che, inginocchiata davanti al fuoco e circondata da scope e secchi di carbone, estingueva le fiamme con mucchi di cenere, sollevando un polverone infernale. Tale vista mi fece ritornare immediatamente sui miei passi, e, preso il cappello, uscii. Dopo quattro miglia, arrivai al cancello del giardino di Heathcliff che già cadevano dei fiocchi di neve, appena in tempo per sfuggire alla bufera.
            Alla sommità della collina la terra nericcia era indurita dal gelo, e il freddo mi faceva rabbrividire. Non riuscendo a togliere la catena, spiccai un salto al di là del cancello, e, fatto di corsa il sentiero lastricato, lungo i1 quale crescevano miseri cespugli di uva spina, battei alla porta fino ad averne le dita indolenzite, ma invano: soltanto i cani ulularono in risposta.
            «Miserabili!» dissi adirato; «meritereste per questa vostra zotica inospitalità di essere perpetuamente isolati dai vostri simili! Ma che anche di giorno si debbano tenere le porte barricate! Ebbene, non importa, entrerò ugualmente!» e, così deciso, detti di piglio al catenaccio e lo scossi con tutta la violenza. Da un rotondo finestrino del granaio si sporse il viso arcigno di Giuseppe.
            «Che volete?» gridò quegli. «Il padrone è giù nell'ovile. Se desiderate parlargli fate il giro del podere.»
            «Non c'è nessuno in casa che possa aprirmi?» gli gridai per tutta risposta.
            «Non c'è che la padrona, ma, anche se continuaste il vostro indiavolato baccano fino a notte, state pur sicuro che non vi aprirebbe.»
            «Perchè? Non potete dirle chi sono? eh, Giuseppe?»
            «Io no! Io non voglio entrarci!» ribattè quel viso, e scomparve. La neve cominciava a cadere più fitta; afferrai il catenaccio per fare un altro tentativo, ma in quell'istante vidi venire dal cortile un giovane senza giacca, con una forca sulle spalle. Mi fece cenno di seguirlo e, dopo aver attraversato il lavatoio e un tratto di terreno pavimentato ove era la carbonaia, una pompa ed una colombaia, arrivammo finalmente nello stanzone, allegro e ben riscaldato, ove ero stato ricevuto la prima volta. Risplendeva tutto per la luce di un gran fuoco sul quale erano accatastati carbone, torba e legna, e, presso la tavola preparata per una cena abbondante mi fu dato di vedere la padrona di casa, una persona di cui non avevo mai sognata l'esistenza. M'inchinai, e attesi di essere invitato a sedermi. Ella mi guardò, e, appoggiatasi allo schienale della sedia, rimase immobile e muta.
            «Che tempaccio!» esclamai. «Temo, signora Heathcliff, che la vostra porta abbia subito le conseguenze dell'indolenza della vostra servitù. Mi ci è voluto del tempo per farmi sentire!»
            Ella non aprì bocca; la fissai, mi fissò, o, per meglio dire, tenne appuntato su di me uno sguardo freddo e indifferente, assai imbarazzante e spiacevole.
            «Sedetevi!» disse il giovane in tono aspro. «Lui sarà presto di ritorno.»
            Ubbidii, e chiamai quella maleducata Juno, che a questa seconda intervista si degnò di muovere l'estremità della coda, in segno di riconoscimento.
            «Bella bestia!» ripresi. «Signora, avete forse intenzione di separarvi dai piccoli?»
            «Non sono miei!» disse l'amabile padrona in modo più asciutto di quanto avrebbe potuto fare lo stesso Heathcliff.
            «Ah, i vostri preferiti sono tra quelli?» feci io, volgendomi verso un cuscino sul quale posava qualcosa di oscuro, come un groviglio di gatti.
            «Strana sorta di preferiti!» osservò ella sdegnosamente.
            Per mia sfortuna erano un mucchio di conigli morti. Allora mi feci più vicino al focolare, ripetendo il mio commento sull'inclemenza della sera.
             «Non dovevate uscire,» ella disse, alzandosi per togliere dalla mensola del camino i barattoli colorati del tè.
            Se, prima, nella posizione in cui si trovava, era al riparo della luce, a quella mossa mi offrì una visione netta di tutta se stessa. Era fragile, e doveva aver passata da poco la fanciullezza; forme graziose, e il più bel visetto che io avessi mai avuto il piacere di rimirare; lineamenti piccoli, molto belli; capelli biondi inanellati intorno al collo delicato, e occhi che, se avessero avuto un'espressione benevola, sarebbero stati irresistibili. Fortunatamente per il mio cuore sensibile, il solo sentimento che rivelassero era di disprezzo commisto a una certa disperazione singolarmente inverosimile in lei. Quei barattoli del tè parevano non esser troppo alla portata della sua mano, feci l'atto di aiutarla; si volse di scatto verso di me, come un avaro al quale fosse stato offerto aiuto per contare il suo denaro.
            «Non ho bisogno di voi, li posso prendere da me!» disse seccamente.
            «Scusate!» mi affrettai a risponderle.
            «Siete stato invitato al tè?» mi domandò, annodando un grembiule sopra il suo abitino nero, e arrestandosi col cucchiaio ricolmo di foglie posato sull'orlo della teiera.
            «Ne prenderò una tazza volentieri,» risposi.
            «Siete stato invitato?» ripetè.
            «No,» dissi sorridendo. «Mi dovete invitare voi.»
            Rimise tè, cucchiaio e ogni cosa a posto e sedette di nuovo, corrugando la fronte e spingendo in fuori il labbruccio rosso come un bambino che stesse per piangere.
            Intanto il giovane aveva indossata una palandrana innegabilmente molto logora, e ritto davanti alla viva fiamma, mi guardava biecamente, proprio come se tra noi due esistesse un dissidio mortale da regolare. Cominciai a dubitare che fosse un servo; l'abito ed il linguaggio erano rozzi, e totalmente privi della distinzione che si notava nel signore e nella signora Heathcliff; i capelli bruni, fitti e ricciuti erano ruvidi e incolti, le basette gli ricoprivano quasi interamente le guance, conferendogli un aspetto selvaggio; le mani erano abbronzate come quelle di un qualsiasi contadino: eppure aveva il portamento sciolto, quasi altezzoso, e non mostrava la servilità di chi si tiene agli ordini della padrona di casa. In mancanza di indicazioni sicure sulla sua condizione pensai fosse meglio astenermi dal rilevare la sua strana condotta, e, pochi minuti dopo, all'entrare di Heathcliff mi sentii in parte sollevato da quella situazione penosa. «Vedete signore, sono venuto come avevo promesso,» esclamai, assumendo un tono allegro; «e temo che il cattivo tempo mi obbligherà a trattenermi presso di voi una buona mezz'ora, se vorrete offrirmi ricovero per questo tempo.»
            «Mezz'ora?» disse, scuotendo dagli abiti i candidi fiocchi di neve, «mi stupisco che abbiate pensato di andar in giro proprio in piena bufera. Non sapete che correte il rischio di smarrirvi nella palude? Gente che ha familiarità con questi luoghi, in una sera come questa, sbaglia spesso la strada, e vi posso garantire che non c'è da sperare in un cambiamento.»
            «Forse potrei valermi della guida di un vostro garzone che resterebbe a Grange fino al mattino, se vorrete mettermi qualcuno a disposizione.»
            «No, non posso.»
            «Oh, davvero? Bene, allora non mi resta che affidarmi al mio discernimento.»
            «Hum!»
            «Preparate il tè, sì o no?» domandò il giovane dalla logora palandrana, passando col suo sguardo feroce da me alla giovane signora.
            «E a lui deve essere servito?» chiese ella rivolgendosi a Heathcliff.
            «Preparatelo,» fu la risposta pronunciata tanto sgarbatamente che trasalii. Il tono della voce rivelava un così brutto temperamento che non mi sentii più disposto a qualificare Heathcliff come un uomo non comune. Quando i preparativi furono finiti, egli mi invitò con un: «Ora, signore, avvicinate la sedia.» Tutti, compreso il giovane contadino, ci sedemmo alla tavola, e, mentre mangiavamo, regnò il più austero silenzio.
            Se ero la causa di tanto malumore, pensavo che sarebbe stato mio dovere cercare di dissiparlo. Anche ammettendo il loro pessimo carattere, non era immaginabile che ogni giorno sedessero così rigidi e taciturni, e che quel cipiglio fosse l'espressione loro abituale.
            «È strano,» cominciai dunque a dire, tra una tazza di tè e l'altra, «è strano come l'abitudine possa foggiare le nostre idee e le nostre tendenze. Ben pochi riuscirebbero a immaginare che in una vita così ritirata dal mondo quale è la vostra, signor Heathcliff, vi possa essere felicità; eppure oserei dire che, circondato dalla vostra famiglia, e con la vostra amabile signora, come un genio tutelare che presiede alla vostra casa e illumina il vostro cuore...»
            «La mia amabile signora!» mi interruppe con una risata diabolica, «dove è la mia amabile signora?»
            «La signora Heathcliff, vostra moglie, intendevo dire.»
            «Ah, vedo! volevate dire che il suo spirito fa da angelo tutelare e che veglia sulla fortuna di Wuthering Heights, anche se non esiste più in persona? Non è così?»
            Accortomi di aver commesso un errore, tentai di rimediare. Avrei dovuto capirlo che vi era troppa differenza d'età tra loro perchè fossero marito e moglie: l'uno doveva avere quarant'anni all'incirca, periodo di vigore mentale durante il quale un uomo raramente accarezza l'illusione che una ragazza lo sposi per amore, un sogno simile può essere solo una specie di follia della nostra età più matura; l'altra invece, non ne dimostrava che diciassette.
            Mi venne un'idea: «Il contadino al mio fianco che prende il tè in una ciotola, e mangia il pane con le mani sudicie, ecco suo marito, Heathcliff junior, naturalmente. Ecco le conseguenze dell'essere seppelliti vivi; lei si è data a questo zotico semplicemente perchè ignora che esistono individui migliori. È un vero peccato, debbo stare attento a evitare che lei abbia a rimpiangere la sua scelta.»
            Quest'ultima riflessione potrebbe sembrare presuntuosa; non lo era; il mio vicino mi dava un senso quasi di ripugnanza e io, al contrario sapevo per esperienza di essere piuttosto attraente.
            «La signora Heathcliff è mia nuora,» disse Heathcliff, confermandomi nella mia supposizione; e, mentre parlava le rivolse uno sguardo pieno di odio, a meno che i muscoli del suo viso siano così perversi e dissimili da quelli dell'altra gente, da non essere capaci di tradurre il linguaggio dell'anima.
            «Ah, certamente, ora capisco: siete voi il felice possessore della fata benefica,» ripresi volgendomi al mio vicino.
            Peggio di prima: il giovane arrossì, e si strinse i pugni, come per un meditato assalto. Ma subito sembrò contenersi, e la sua collera si sfogò nella brutalità di una bestemmia che sicuramente mi concerneva, ma che io mi guardai bene dal rilevare.
            «Siete sfortunato nelle vostre congetture, signore,» disse il padrone di casa, «nessuno di noi due ha il privilegio di possedere la vostra buona fata; il suo compagno è morto. Ho detto che è mia nuora, ne segue quindi che deve aver sposato mio figlio.»
            «E questo giovane è...»
            «Mio figlio? no certamente.»
            Heathcliff rise di nuovo, come se l'attribuirgli la paternità di quell'orso fosse uno scherzo troppo audace.
            «Il mio nome è Hareton Earnshaw,» ruggì l'altro, «e vi consiglio di rispettarlo.»
            «Non ho affatto mostrato mancanza di rispetto,» risposi, sorridendo tra me e me dell'alterigia con cui quello aveva fatto la propria presentazione.
            Egli tenne lo sguardo fisso su di me tanto a lungo che evitai di ricambiarlo, per il timore d'essere tentato di schiaffeggiarlo o di lasciar trasparire la mia ilarità. Cominciai a sentirmi veramente molto a disagio in quel piacevole cerchio familiare; le cose circostanti dalle quali proveniva un benessere fisico tanto gradito, furono sopraffatte e come abolite da quella sqallida atmosfera incombente sullo spirito; e quindi formulai il proposito di non avventurarmi una terza volta sotto quel tetto senza la massima cautela.
            Il pasto essendo terminato, poichè nessuno pronunciava una parola di conversazione amichevole, mi avvicinai alla finestra per vedere che tempo facesse; uno spettacolo rattristante mi si presentò alla vista: calava prematuramente l'oscurità della notte e del cielo e le colline erano confuse in un vortice di vento e di neve fittissima.
            «Ora non mi sarà possibile ritornare a casa senza una guida,» esclamai mio malgrado. «Le strade saranno già tutte sepolte, ma anche se non lo fossero ancora, non riuscirei a ogni modo a fare un solo passo.»
            «Hareton, fate rientrare quelle dodici pecore sotto il portico del granaio. Se passano tutta la notte nell'ovile rimarranno seppellite; riparatele con un'asse,» disse Heathcliff.
            «Ed io che debbo fare?» ripresi a dire con crescente irritazione.
            La mia domanda non ebbe risposta; guardandomi attorno, vidi Giuseppe che entrava in quel punto con una secchia di zuppa per i cani e la signora Heathcliff che chinata davanti al fuoco, si trastullava a bruciare dei fiammiferi che erano caduti dalla mensola del camino quando vi aveva riposto il barattolo del tè. Giuseppe, quando ebbe posato a terra il pesante recipiente, volse uno sguardo indagatore per la stanza e mormorò tra i denti:
            «È incomprensibile che possiate starvene lì in ozio quando gli altri sono fuori; ma la vostra testardaggine è infinita ed è inutile parlarvi, non vi emenderete mai dei vostri difettacci e ve ne andrete al diavolo come vostra madre prima di voi!»
            A tutta prima credetti che questo discorso così eloquente fosse rivolto a me, e, non poco infuriato, andai verso quel vecchio furfante coll'intenzione di mandarlo con un calcio fuori dalla porta. Fui trattenuto dalle parole della signora Heathcliff.
            «Svergognato ipocrita!» ribattè. «Non avete paura che il demonio vi porti via, con tutto il vostro corpaccio ogni volta che lo nominate? Vi esorto a desistere dal provocarmi, se no invocherò la vostra dannazione come un favore speciale. Fermatevi! e guardate qui, Giuseppe,» proseguì, prendendo dallo scaffale un libro alto e nero. «Voglio mostrarvi quali progressi ho fatto nell'arte della magia; sarò presto in grado di far piazza pulita; la vacca rossa non è morta per caso e i vostri dolori reumatici potete considerarli come un ammonimento della provvidenza.»
            «Infame!» disse il vecchio senza respiro. «Possa il Signore liberarci dal male.»
            «No, reprobo, vagabondo, che non siete altro! Andatevene, o vi farò del male sul serio! Vi modellerò tutti in cera e argilla e il primo che passerà i limiti da me stabiliti sarà... ebbene non lo voglio dire quel che sarà di lui... ma... vedrete! Andatevene! state attento che vi guardo.»
            La piccola strega aveva un che di scherzosa crudeltà nei suoi begli occhi e Giuseppe, sinceramente inorridito e tutto tremante, fuggì pregando e ripetendo: «Infame! infame!» Pensai che quel modo di fare doveva esser da parte sua una specie di scherzo maligno, e ora che eravamo soli, feci di tutto per interessarla alla mia disgrazia.
            «Signora Heathcliff,» dissi seriamente, «mi dovete perdonare se vi disturbo. Oso sperarlo, perchè con quel vostro viso è impossibile che non abbiate buon cuore. Datemi qualche indicazione perchè trovi la via per ritornare a casa. Non ne ho la minima idea come non l'avreste voi per andare a Londra.»
            «Prendete la strada donde siete venuto,» rispose sprofondandosi in una sedia con un lume in mano e il lungo libro aperto davanti a sè. «È un consiglio breve, ma il più sicuro che possa darvi.»
            «Allora, quando sentirete che mi hanno trovato morto in un pantano o in un fosso tra la neve, la vostra coscienza non vi bisbiglierà che è in parte colpa vostra?»
            «Come potrebbe? Non mi è concesso di accompagnarvi. Non mi permetterebbero di andare in fondo al giardino!»
            «Voi! Non potrei mai chiedervi di varcare la soglia per me, in una notte come questa!» esclamai. «Vogliate soltanto dirmi che via devo prendere, non occorre che me lo mostriate; oppure, persuadete il signor Heathcliff a darmi una guida.»
            «Chi? Se non c'è che lui, Earnshaw, Zillah, Giuseppe ed io. Chi vorreste?»
            «Non ci sono garzoni alla fattoria?»
            «No, ci siamo noi soli.»
            «Allora dovrò per forza rimanere!»
            «In quanto a questo dovete intendervi col padrone di casa. Io non ci ho nulla a che vedere.»
            «Spero sarà una lezione per voi perchè non facciate più escursioni così temerarie su queste colline,» sentenziò dall'ingresso della cucina la voce severa di Heathcliff. «In quanto a rimanere qui, non ho di che favorire i visitatori. Dovreste in tal caso dormire con Hareton o con Giuseppe.»
            «Posso dormire su di una sedia in questa stanza,» risposi.
            «No, no. Un estraneo è sempre un estraneo, sia ricco o povero: non mi accomoda affatto che possa girovagare liberamente per casa mia, mentre non sono di guardia,» disse quel maleducato.
            A tale insulto la mia pazienza ebbe fine. Con un'esclamazione di disgusto, urtandolo nel passargli accanto, uscii in cortile, ove nella fretta andai a sbattere contro Earnshaw. Era così buio, che non distinguevo la via per giungere all'uscita, e mentre andavo di qua e di là all'impazzata, ebbi un altro esempio dei modi civili di quella gente. Dapprima il giovinotto sembrava ben disposto a mio riguardo.
            «Andrò con lui fino al parco,» disse.
            «Andrete con lui all'inferno!» esclamò il suo padrone, o quale altra parentela fosse la sua. «E chi governerà i cavalli?»
            «La vita di un uomo vale qualche cosa di più e può avere conseguenze ben diverse che il trascurare i cavalli per una sera; qualcuno deve andare,» mormorò la signora Heathcliff, più gentilmente di quanto mi sarei aspettato.
            «Non perchè me lo comandate voi!» replicò Hareton. «Se vi sta a cuore, sarà meglio che ve ne rimaniate quieta.»
            «Quand'è così, che il suo spirito vi perseguiti, e che il signor Heathcliff non trovi un altro affittuario finchè Grange sarà in rovina,» rispose.
            «Sentitela, sentitela, come invoca maledizioni su tutti!» brontolò Giuseppe, verso il quale io mi ero diretto.
            Egli si trovava poco discosto, e stava mungendo vacche alla luce di una lanterna. Senza tante cerimonie gliela presi, e, gridando che l'avrei rimandata l'indomani, corsi alla vicina porticciuola.
            «Padrone, padrone, mi ruba la lanterna!» gridò il vecchio, inseguendomi. «Qua, mastino! Su, su, lupo, azzannatelo.» Mentre aprivo la porticciuola due mostri dal lungo pelo si slanciarono su di me buttandomi giù e spegnendo il lume, e due risate all'unisono da Heathcliff e Hareton spinsero al colmo la mia rabbia e 1a mia umiliazione. Fortunatamente le bestie sembravano piu disposte a stendere le zampe, e a sbadigliare, dimenando la coda, che a divorarmi vivo. Comunque non permettevano che mi alzassi e fui costretto a restarmene lì a terra finchè piacque ai loro perversi padroni di liberarmi; indi, senza cappello e tremante d'ira, gridai a quei miscredenti di lasciarmi uscire, chè, se mi trattenevano un altro istante avrebbero dovuto risponderne, e gli gridai altre minacce ancora di rappresaglia, più o meno incoerenti, che, per intensità di sdegno, mi facevano somigliare a un Re Lear.
            L'agitazione violenta mi causò una copiosa perdita di sangue dal naso, ma Heathcliff non smetteva di ridere e io di gridare. Non saprei dire che cosa avrebbe potuto por fine alla scena, se non si fosse trovata lì presso una persona più assennata di me medesimo e più benevola del mio ospite. Era Zillah, la robusta massaia che alla fine apparve per domandare spiegazione di quel baccano. Aveva immaginato che uno di quei tre mi avesse assalito violentemente, ma, non osando affrontare il suo padrone, rivolse un fuoco di artiglieria vocale contro il giovane gaglioffo.
            «Bene, signor Earnshaw,» gridò. «Vorrei sapere che cosa ancora può succedere. Ora si uccidono le persone sulla soglia di casa! Questo posto non fa per me, guardate quel povero ragazzo, è mezzo soffocato! Silenzio, silenzio, smettete! Entrate qua, vi curo io, ecco, state fermo!»
            E in così dire mi versò a un tratto una mezza bottiglia d'acqua gelata giù per il collo, e mi trascinò in cucina. Il signor Heathcliff ci seguì, e il suo solito malumore era già subentrato a quell'allegria casuale. Mi sentii molto sconvolto, e fui preso da capogiri e da deliquio, così mi fu forza accettare alloggio sotto il suo tetto. Disse a Zillah di darmi un bicchiere di cognac, poi si ritirò nella stanza attigua. Zillah si dolse con me per la triste sorte capitatami, eseguì gli ordini ricevuti, confortandomi un poco e convincendomi a coricarmi subito.

           
III    (torna all'indice)



            Nell'accompagnarmi su per le scale, Zillah mi raccomandava di tener celato il lume e di non far rumore, perchè il suo padrone aveva idee molto strane riguardo alla stanza in cui lei mi conduceva, anzi non desiderava che vi si alloggiasse nessuno. Chiestogliene il motivo, Zillah mi rispose che non lo sapeva; soltanto da un anno o due si trovava in quella casa e ne aveva viste tante, che proprio le era passata ogni curiosità.
            Troppo stordito per volermi mostrare curioso a mia volta, quando fui entrato in quella camera, ed ebbi richiuso l'uscio, mi guardai attorno in cerca del letto. L'intero mobilio consisteva in appena una sedia, un armadio, e una gran cassa di quercia con due tavole quadrate tagliate nelle pareti a guisa degli sportelli di una carrozza. Avvicinatomi a quel cassone, vi guardai dentro; mi ricordai allora di quei singolarissimi, antichi letti, foggiati ad arte per risparmiare ai componenti di una famiglia di avere una camera ciascuno. Formava infatti come uno stanzino e l'assicella che stava sotto a un finestrino nell'interno serviva da tavolino. Fatti scorrere quei pannelli, entrai portando con me il lume, indi li richiusi, e così mi sentii al sicuro dalla vigilanza di Heathcliff, o di chicchessia.
            Posai il lume sull'assicella su cui, in un angolo, erano ammucchiati vecchi libri molto umidi, e appariva inciso qualcosa. Tale scritto consisteva tuttavia di un sol nome, ripetuto in ogni sorta di caratteri, grandi e piccoli. - Caterina Earnshaw, alternato qua e là con Caterina Heathcliff, oppure con Caterina Linton.
            Svogliatamente, appoggiai il capo al finestrino e continuai a leggere quei nomi - Caterina Earnshaw, - Heathcliff - Linton, finchè mi si chiusero gli occhi; ma non erano trascorsi cinque minuti che ecco staccarsi sullo sfondo nero un bagliore di lettere bianche e vivide come spettri, e nell'aria turbinare il nome di Caterina mille volte ripetuto; risvegliatomi per scacciare quel nome insistente, mi avvidi che il lucignolo della candela si era ripiegato sopra uno di quegli antichi volumi, diffondendo nello stanzino un puzzo di pelle bruciacchiata. Raddrizzai il lucignolo, e, molto a disagio a cagione del freddo e di quell'odore nauseante, mi risollevai, presi il volume e me lo aprii sulle ginocchia. Era una Bibbia dai caratteri minuti, esalava un forte odore di muffa. Su una pagina bianca spiccava la seguente iscrizione: Caterina Earnshaw, il suo libro, e una data di circa un quarto di secolo prima. Chiusi il volume, e ne presi un altro, e poi ancora un altro, finchè li ebbi esaminati tutti. Formavano una scelta biblioteca e il disordine in cui erano ridotti faceva supporre che ne fosse stato fatto buon uso, sebbene forse con uno scopo non del tutto legittimo. Non un capitolo era sfuggito a un commento se pur si trattava di commento; a ogni modo tutti gli spazi lasciati bianchi dallo stampatore erano stati letteralmente riempiti. Vi si leggevano frasi staccate, altre parti, invece, formavano un vero diario, tracciato da un'ancora incerta mano infantile. In una pagina inserita nel volume (probabilmente molto preziosa per chi ve l'aveva messa), scorsi, con mio gran divertimento, un'ottima caricatura del mio amico Giuseppe, abbozzata rozzamente, ma con molta forza. Subito fui preso da un vivo interesse per la sconosciuta Caterina, e allora cominciai a decifrarne i geroglifici sbiaditi.
            «Una domenica terribile!» si leggeva nel paragrafo sottostante. «Come vorrei che fosse ancora vivo mio padre! Hindley è un sostituto detestabile; i suoi modi con Heathcliff sono atroci. H. ed io intendiamo ribellarci; stasera abbiamo già fatto un primo passo...»
            Ha piovuto a dirotto tutto il giorno; le strade si sono trasformate in torrenti; non essendoci quindi stato possibile recarci in chiesa, Giuseppe ha voluto tenerci lui il sermone in granaio; e, mentre Hindley e sua moglie restavano dabbasso, comodamente seduti davanti al focolare, intenti a ben altro che a leggere la Bibbia - ne rispondo io -, Heathcliff, io stessa, e lo sfortunato figlio dei contadini abbiamo ricevuto l'ordine di prendere i nostri libri di preghiere, e di salire in granaio: messi a onta dei nostri lamenti a sedere in fila su di un sacco di grano, intirizziti dal freddo, nutrivamo in cuore la speranza che anche Giuseppe avrebbe provato un ugual tormento e che per pietà di sè medesimo, avrebbe tenuto una predica non troppo lunga. Vana speranza! L'ufficio è durato precisamente tre ore; nonostante questo, mio fratello quando ci ha visto ridiscendere ha avuto la sfacciataggine di esclamare: «Come, di già?» Di consueto, la domenica sera, se non facevamo chiasso, avevamo il permesso di giocare, ora il minimo strillo basta a farci mettere in castigo!
            «Dimenticate che qui c'è un padrone,» grida il tiranno. «Il primo che mi fa andar sulle furie, lo schiaccio. Esigo serietà e silenzio! Eh, ragazzo! che fai? Francesca, cara, passandogli accanto, dagli una tirata di capelli. Ha fatto schioccar le dita!» Francesca ha eseguito l'ordine col massimo piacere, e poi è andata a sedersi sulle ginocchia del marito; e così quei due sono rimasti a baciarsi e a dirsi sciocchezze come bambocci per un'ora intera; cose di cui noi arrossiremmo. Sotto il tavolo di cucina avevamo trovato un rifugio discreto, e io ero appena riuscita a unire i nostri grembiuli e ad appenderli a guisa di tenda, quando ecco entrar di nuovo Giuseppe con un'ambasciata dalla scuderia. Mi strappa la tenda, mi dà uno scapaccione e mugola: «Ah! è proprio il momento di divertirsi! col padrone da poco seppellito, di festa, e la parola del Vangelo ancora nelle orecchie! Cattivi soggetti! Libri buoni da leggere non ne mancano... sedetevi e pensate all'anima!»
            Così dicendo ci ha obbligato a cambiare di posto in modo che dal lontano fuoco potesse giungere un debole raggio a rischiarare il testo che ci aveva imposto di meditare. Una simile occupazione mi è parsa insopportabile. Preso il libro per il dorso, l'ho lanciato nel canile, dichiarando di odiare i buoni libri. Heathcliff con un calcio ha spedito il suo nella stessa direzione. Allora è successo un pandemonio!
            «Padrone, padrone» ha vociato il nostro predicatore. «Accorrete! La signorina Caterina ha strappato il dorso dal Timone di salvezza e Heathcliff ha posto il piede sulla prima parte della Via verso la distruzione. È incredibile che si lascino crescere così i ragazzi! Il vecchio padrone li avrebbe messi lui a posto! Ma se n'è andato!»
            Hindley lasciato il suo paradiso, è accorso, e, afferrandoci l'uno per il collo, l'altra per un braccio, ci ha gettato con uno spintone nel retrocucina, ove Giuseppe ci ha solennemente assicurato che, come era vero che eravamo al mondo, il vecchio Belzebù sarebbe venuto a portarci via. Così confortati, abbiamo cercato una nicchia per uno in attesa di tale evento. Da uno scaffale ho preso questo libro e un calamaio, e, schiusa la porta per avere un po' di luce, ho scritto per una ventina di minuti: ma ora il mio compagno è impaziente e mi propone di impossessarci del mantello della lattaia e così protetti di fare una corsa nella palude. Idea divertente, e, se il burbero vecchio verrà qui, crederà che la sua profezia si sia avverata; fuori nella pioggia saremo esposti all'umidità e al freddo, ma non più di quanto lo siamo ora...
            Immagino che Caterina avrà effettuato il suo piano perchè la frase successiva tratta un altro argomento. La fanciulla è più triste.
            Scriveva: «Non avrei mai immaginato che Hindley mi avrebbe fatta piangere tanto! Mi duole talmente il capo che non lo posso tener sul guanciale; eppure non so frenarmi. Povero Heathcliff! Hindley lo chiama vagabondo, e non vuole che stia con noi, nè che mangi con noi, dice che lui e io non dobbiamo più giocare insieme e minaccia di scacciarlo di casa se oseremo trasgredire i suoi ordini. Ha biasimato nostro padre perchè ha trattato H. troppo generosamente (come ha potuto osare tanto?) e giura che saprà rimetterlo lui al suo posto...»
            Cominciai a sonnecchiare sulla pagina confusa; gli occhi vagavano dal manoscritto alla stampa. Vidi un titolo fregiato di rosso: «Settanta volte sette», pio discorso tenuto dal reverendo Jabes Branderham nella cappella di Gimmerden Sough. E, mentre semincosciente m'arrovellavo per indovinare quale sarebbe stato l'argomento di Jabes Branderham, ricaddi sul letto e m'addormentai. Ahimè! quale può essere l'effetto di un cattivo tè e del cattivo umore! che cos'altro avrebbe potuto farmi passare una notte tanto terribile? Da quando so che cosa sia soffrire non ne ricordo un'altra che regga il paragone con questa. Prima ancora di perdere ogni nozione del luogo ove io ero, cominciai a sognare. Pensavo che fosse mattina e che mi fossi incamminato verso casa, avendo per mia guida Giuseppe. La strada era ricoperta di neve alta più di un metro, e, affondandovi, avanzavamo con molta fatica; ma, con ancor maggiore mia pena, il mio compagno mi rimproverava continuamente perchè non mi ero portato un grosso bastone senza di cui non avrei potuto entrare in casa, e in così dire faceva spavaldamente roteare il suo, robusto e nodoso. Dapprima trovai assurdo che per entrare nella mia propria casa dovessi armarmi in tal modo, ma poi mi si affacciò alla mente un'altra idea. La meta del nostro viaggio non era la mia dimora; noi ci eravamo messi in cammino per andare a sentire il famoso Jabes Branderham che doveva predicare sul capitolo «Settanta volte sette» e o Giuseppe, o il predicatore o io avevamo commesso «il primo dei settantunesimi» e dovevamo essere incolpati e scomunicati pubblicamente.
            Arrivammo alla chiesetta. Nelle mie passeggiate più di una volta vi ero passato davanti; è situata fra due colline in una conca dove è una palude di cui si dice che, per l'umidità prodotta dalla torba risponda a tutti i requisiti necessari all'imbalsamazione dei corpi che vi vengano sepolti. La cappella non è propriamente in rovina: il tetto è ancora saldo, ma un'abitazione di sole due stanze che minacciano di dover presto ridursi a una, un beneficio di sole venti sterline all'anno per il ministro, non bastano a invogliare alcuno ad assumersi l'ufficio di pastore, tanto più che è voce generale che i devoti lo lascerebbero morir di fame piuttosto che accrescergli l'emolumento di un sol centesimo tolto dalle loro tasche. Tuttavia, nel mio sogno, la congregazione di Jabes era numerosa e attenta, e costui predicava - oh, buon Dio, quale sermone! suddiviso in quattrocentonovanta parti, e cioè in quattrocentonovanta prediche non diverse dalle solite, ma in ognuna delle quali si trattava di una data colpa. Dove le andasse a pescare, non saprei dirlo! Aveva un suo modo speciale di interpretare i testi, e sembrava che in ogni occasione immancabilmente si commettessero diversi peccati; erano curiosissimi; strane trasgressioni mai sognate prima. Oh, come ne ero stanco! Come mi contorcevo, come sbadigliavo, e ricadevo nel sonno per trasalire di nuovo! Come mi pizzicavo e mi sfregavo gli occhi, e mi mettevo a sedere, e daccapo mi riadagiavo, dando di gomito a Giuseppe perchè mi dicesse quando mai sarebbe finita. Ero condannato a sentir tutto, dalla prima parola all'ultima. Finalmente Jabes arrivò al «Primo dei settantunesimi». A questo punto ebbi una subitanea ispirazione: mi sentii spinto ad alzarmi per accusare Jabes Branderham quale peccatore della colpa che nessun cristiano è in obbligo di perdonare.
            «Signore!» esclamai, «seduto qui tra queste quattro mura, ho dovuto sopportare, e ho perdonato, le quattrocentonovanta parti del vostro discorso. Settanta volte sette fui sul punto di prendere il mio cappello e di andarmene. Settanta volte sette con un cenno imperioso mi avete imposto di rimettermi a sedere. La quattrocentonovantesima è troppo! Compagni, martiri, acciuffatelo, trascinatelo, calpestatelo, riducetelo in polvere che la terra che lo conosce non lo riconosca più!»
            «Tu sei l'uomo!» gridò Jabes, dopo una solenne pausa, sporgendosi dal pulpito, appoggiato al cuscino. «Settanta volte sette hai tu contorto il viso, restando senza respiro, settanta volte sette ho interrogato la mia coscienza e mi son detto: è debolezza umana; questo pure può essergli assolto! Il primo dei settantunesimi è venuto. Fratelli, fate giustizia di lui come sta scritto! Tutti i santi godono di tale privilegio!»
            A queste parole conclusive, i fedeli là radunati si slanciarono in massa contro di me, agitando i bastoni, e io, non avendo armi da usare in mia difesa, venni alle prese con Giuseppe, il più feroce e il più vicino a me dei miei avversari, e tentai di impadronirmi del suo bastone.
            Nell'addensarsi della moltitudine parecchi bastoni si incrociarono, botte a me dirette caddero invece su altre teste. In un momento tutta la cappella risuonò di colpi e contraccolpi; il braccio di ognuno era levato contro il vicino, e Branderham che non voleva rimanersene fuori, sfogò il suo zelo con un rovescio di colpi applicati al legno del pulpito, producendo un tal baccano, che alla fine con mio gran sollievo, mi risvegliai. Ma che cosa dunque poteva aver dato origine a quel terribile tumulto? Chi mai aveva fatto la parte di Jabes nella zuffa? Null'altro che un ramo di abete che nell'imperversare della bufera sbatteva contro l'impannata della mia finestra, facendo suonare le pigne secche sui vetri! Stetti un istante in ascolto, preso da dubbio, ma, riconosciuto il mio disturbatore, mi girai e mi riassopii, e cominciai di nuovo a sognare, un sogno se possibile peggiore del precedente.
            Questa volta, tuttavia, mi rammentavo di essere nello stanzino di quercia e sentii distintamente le folate del vento e il turbinare della neve; sentii pure il ramo di abete ripetere quell'uggioso rumore e lo attribuii alla vera causa, ma mi dava una tale molestia che decisi di trovare un mezzo per farlo cessare, e credo che mi alzai, e cercai di aprire la finestra, ma non vi riuscii. Il gancio era stato saldato, cosa da me notata quando ero sveglio, ma poi dimenticata. «Eppure bisogna che lo faccia finire,» mormorai, e picchiai le nocche delle dita contro il vetro che si frantumò; stesi il braccio al di fuori per afferrare il ramo importuno, ma la mia mano strinse invece le dita di una piccola mano diaccia. L'intenso orrore dell'incubo m'invase; cercai di ritrarre il braccio, ma la piccola mano vi si aggrappava, e una voce malinconica ripeteva singhiozzando: «Lasciami entrare! Lasciami entrare!» «Chi sei?» chiesi, facendo sforzi per liberarmi da quella stretta. «Caterina Linton,» rispose, tremando. (Perchè pensai a Linton? avevo ben letto Earnshaw venti volte più di Linton.) «Sono ritornata a casa; mi ero smarrita nella palude.» Mentre parlava, scorsi, indistintamente, nel buio, un viso di fanciulla che guardava in direzione della finestra. Il terrore mi rese crudele, e, poichè era vano cercare di respingere quella creatura, trassi il braccio attraverso il vetro rotto, e sfregai il polso innanzi e indietro fino a farne uscire del sangue che sgocciolò sulle coperte del letto; ma la fanciulla non smetteva di gemere: «Lasciami entrare!» e non rallentava la sua stretta tenace, rendendomi quasi pazzo dal terrore. «Come potrei fare?» chiesi alla fine. «Staccati se vuoi che ti lasci entrare.» Le dita cedettero, ritirai immediatamente la mano dall'apertura e ammucchiati dei libri contro di essa, mi turai le orecchie per non sentire quella miserevole preghiera. Sembrandomi di essere rimasto un buon quarto d'ora a orecchie chiuse, mi posi in ascolto, ma riudii subito il doloroso lamento di prima. «Vattene!» gridai. «Non ti lascerò mai entrare nemmeno se mi pregassi per venti anni!» «Ma sono vent'anni!» gemette la voce. «Sì, sono vent'anni. Ho girato per venti anni come una vagabonda!» A queste parole seguì un leggero raschiamento e il mucchio di libri si scostò come se fosse stato spinto dal di fuori. Feci l'atto di saltar giù dal letto, ma non mi fu possibile muovere un sol membro, e in un eccesso di spavento detti un grido. Con mia grande confusione, constatai che il grido non era stato immaginario; passi affrettati s'approssimarono subito alla mia porta, una mano vigorosa l'apri e la luce brillò sopra al mio letto penetrando attraverso le aperture laterali. Rimasto seduto, ancora tutto tremante, mi asciugavo il sudore della fronte; l'intruso sembrava esitare e parlava tra sè. Alla fine, mormorò, non aspettandosi certamente una risposta: «C'è qualcuno qui?» Pensai che fosse meglio svelare la mia presenza; conoscevo il carattere di Heathcliff, e temevo, tacendo, di vederlo fare ulteriori ricerche. Seguendo questo pensiero, mi volsi e feci scorrere i pannelli. Non potrò forse mai più dimenticare l'effetto che questo mio atto produsse.
            Heathcliff era vicino all'entrata, in maniche di camicia; il lume gli gocciolava tra le dita e il suo volto non era meno bianco della parete che gli stava alle spalle. Il primo scricchiolio della cassa di quercia lo aveva fatto sussultare come per una scossa elettrica. Il lume gli scappò fuor dalle dita, andando a cadere a più di un metro di distanza; era talmente agitato che non riusciva a raccattarlo.
            «Sono il vostro ospite, signore,» gli gridai, volendo risparmiargli l'umiliazione di mostrare ancor più apertamente la sua paura. «Ho avuto la sfortuna di gridare in sogno, a cagione di un terribile incubo! Mi dispiace di avervi disturbato!»
            «Che Dio vi maledica, signor Lockwood! Vorrei che ve ne andaste al diavolo!» cominciò a dire il padrone di casa, posando il lume su di una sedia, poichè non sapeva come tenerlo fermo in mano. «E chi mai vi ha messo in questa stanza?» proseguì adirato, cacciandosi le unghie nelle palme e digrignando i denti per il tremito delle mascelle. «Chi è stato? Ho una gran voglia di fargli far fagotto sull'istante chiunque sia!»
            «È stata la vostra domestica, Zillah!» risposi, saltando giù dal letto, e indossando i miei abiti con la maggior prontezza. «Scacciatela pure, signor Heathcliff, quella lo merita di sicuro! Scommetto che avrà voluto avere una altra prova, a mie spese, che questo luogo è stregato. In verità è affollato di spiriti, di fantasmi! Fate bene a tenerlo chiuso, vi assicuro! Chiunque provi a fare un sonnellino in questo covile, non ve ne sarà grato.»
            «Che cosa intendete dire?» chiese Heathcliff. «E che fate ora? Coricatevi fino a terminar la notte, ormai che ci siete! Ma per amor di Dio, non ripetete quell'orribile urlo; nulla può scusarlo, a meno che stessero tagliandovi la gola!»
            «Se quel piccolo demonio fosse entrato dalla finestra probabilmente mi avrebbe strozzato!» gli risposi. «Io non voglio più sottostare alle persecuzioni dei vostri antenati. Il reverendo Jabes Branderham non era vostro parente dal lato materno? E quella sfacciatella di una Caterina Linton, o Earnshaw, o come altro si chiamava, deve essere stata una perfida animuccia! Mi disse che ha vagato su questa terra per venti anni; giusto castigo per le sue colpe mortali, non ne dubito.»
            Non avevo ancor finito di pronunciare tali parole, che mi risovvenni come il nome di Caterina fosse unito a quello di Heathcliff nel libro che avevo letto, cosa sfuggitami totalmente dalla memoria fino al mio risveglio. Arrossii della mia sconsideratezza, ma senza dar altro segno di essere cosciente della mancanza commessa, mi affrettai a soggiungere: «La verità è, signore, che io ho passato la prima metà della notte a...» Qui mi fermai di nuovo, stavo per dire «a sfogliare quei vecchi volumi», questo avrebbe rivelato la mia cognizione di quanto stava scritto o stampato in essi; così riprendendomi, continuai: «...ho passato la prima metà della notte a decifrare il nome inciso sull'assicella della finestra. Occupazione monotona, calcolata per farmi addormentare, come sarebbe l'enumerare...»
            «Cosa significa questo?» urlò Heathcliff con veemenza selvaggia. «Come osate voi, essendo sotto il mio tetto? Dio, bisogna essere pazzi per parlare così!» e si battè la fronte con ira.
            Incerto se risentirmi per tale linguaggio o se proseguire con la mia spiegazione, mi lasciai vincere dalla compassione di vederlo così profondamente scosso, e ripresi a narrare il mio sogno affermando che non avevo mai prima di allora inteso il nome di Caterina Linton, ma che, avendolo letto e riletto più volte quella sera, l'impressione ricevuta si era concretata nella mia immaginazione non appena ne avevo perso la padronanza. A poco a poco, mentre parlavo, Heathcliff si inoltrò verso il letto e infine si nascose dietro esso. Tuttavia dal suo respiro irregolare ed affannoso mi resi conto che lottava con se stesso per vincere un troppo violento eccesso di passione. Non desiderando mostrargli che mi ero accorto dei suoi sforzi, continuai a far toeletta piuttosto rumorosamente; guardai l'orologio e tenni un soliloquio sulla interminabilità della notte. «Non ancora le tre! Avrei giurato che fossero le sei! Il tempo qui non cammina. È vero che bisogna dire che ci siamo coricati alle otto.»
            «Sempre alle nove d'inverno, e la levata alle quattro,» disse il padrone di casa, soffocando un lamento, e asciugandosi una lacrima, o almeno così mi parve dalla rapida mossa dell'ombra del suo braccio. «Signor Lockwood,» soggiunse, «venite in camera mia, sareste solo d'ingombro al pian terreno così presto, e il vostro grido da bambino mi ha mandato il sonno al diavolo.»
            «A me pure!» risposi. «Passeggerò nel cortile fino all'alba, e poi me ne andrò, e non stiate a temere che la mia intrusione si rinnovi. Oramai sono guarito dalla smania di cercare ovunque diletto in società, anche in campagna. A un uomo ragionevole deve bastare la propria compagnia!»
            «Ah sì, bella compagnia!» brontolò Heathcliff. «Prendete il lume e andatevene dove volete. Vi raggiungerò subito. Però non andate in cortile, i cani sono slegati, e la casa... Juno è di guardia, e... potrete girovagare per le scale e per i corridoi. Ma ora via! Vi raggiungerò fra un minuto.» Ubbidii, e cioè lasciai la camera ma non sapendo dove conducessero gli stretti corridoi mi fermai, e senza volerlo fui testimonio della superstizione del mio padrone di casa, superstizione che contrastava stranamente con il suo apparente buon senso. Salì sul letto e, spalancata l'impannata, scoppiò in un irrefrenabile pianto: «Entra, entra!» singhiozzava. «Caterina, vieni, ti prego... vieni, ancora una volta! Oh! mia diletta, ascoltami almeno questa volta! Caterina, vieni, finalmente!» Lo spettro, capriccioso come ogni spettro, non diede più segno di vita; ma la neve e il vento turbinarono impetuosamente, giungendo fin dove ero io e spegnendomi il lume.
            Vi era tale intensità nello scoppio di dolore susseguente a quel vaneggiamento che la pietà mi fece dimenticare come fosse pura follia. Mi allontanai molto irritato contro me stesso per essere rimasto ad ascoltare e per aver narrato il mio ridicolo sogno, che aveva causato tanta pena, anche se il motivo di essa mi restava incomprensibile.
            Cautamente scesi a pianterreno, e mi trovai nel retrocucina, dove un po' di brace rimasta accesa nel focolare, mi permise di riaccendere il mio lume. Nulla si moveva all'intorno, a eccezione di una gatta tigrata, che uscì fuor dalla cenere e mi salutò con un querulo miagolìo.
            Due panche stavano intorno al focolare racchiudendolo quasi completamente: mi sdraiai su una di queste panche, e la gatta saltò sull'altra. Ci eravamo entrambi addormentati, poichè nessuno era venuto ad invadere il nostro rifugio, quando Giuseppe scese da una scala a pioli, che per un'apertura segreta spariva nel soffitto e probabilmente saliva al granaio. Gettato uno sguardo sinistro alla piccola fiamma da me attizzata, scacciò la gatta dal suo sedile elevato, vi si sedette lui, e cominciò a riempire di tabacco una grossa pipa. Evidentemente giudicava la mia presenza nel suo santuario una sfacciataggine troppo vergognosa per esser rilevata. In silenzio si portò la pipa alle labbra, incrociò le braccia e si diede a fumare sul serio. Lo lasciai indisturbato al suo godimento, e, quando fu all'ultima boccata di fumo si alzò con un profondo sospiro, indi si allontanò, solennemente come era venuto.
            Un passo più agile sopravvenne, e questa volta aprii la bocca per pronunciare un «buon giorno», ma la chiusi in fretta, ancor prima di esalare il saluto. Hareton Earnshaw recitava le sue orazioni sotto voce, una serie di bestemmie contro quanto gli capitava fra le mani, mentre rovistava in un angolo in cerca di una vanga o di una pala per servirsene fuori nella neve. Diede un'occhiata torva in direzione della panca, dilatando le nari e non gli passò neppur per la mente di scambiare una cortesia con me, come non si sarebbe mai sognato di scambiarla con la mia compagna di poco prima, la gatta. Dai preparativi che faceva, compresi che l'uscita non mi era più vietata, e, abbandonato il mio duro giaciglio, mi mossi per seguirlo. Egli se ne avvide, e battè con la vanga contro una porta interna, intimandomi con un suono inarticolato di entrar là dentro se proprio volevo cambiar posto.
            Quella porta si apriva nella cosiddetta casa, dove le donne erano già in faccende. Zillah con un enorme soffietto faceva guizzar su per il camino lingue di fiamme, e la signora Heathcliff, seduta presso il focolare, leggeva un libro a quella vivida luce. Con una mano si riparava gli occhi da quel gran calore di fornace e la si sarebbe detta molto assorta nella lettura, non distogliendosene che per ammonire la domestica quando costei la ricopriva di faville e per scostare un cane che le sfregava il muso umido sul viso. Fui sorpreso di trovar lì anche Heathcliff. Si teneva in piedi presso il focolare, voltandomi le spalle, e doveva avere appena avuto un alterco con la povera Zillah che di tanto in tanto deponeva il soffietto, per rialzare un lembo del grembiule e protestare la propria indignazione.
            «E tu? buona a nulla!» stava gridando quando entrai, e si rivolgeva alla nuora con un epiteto innocuo come oca o pecora o qualcuno di quegli altri che in genere si preferiscono completare con qualche puntino. «Eccoti di nuovo ai tuoi inutili passatempi oca della malora! Gli altri si guadagnano il pane, tu vivi della mia carità! Via con quella tua roba, fa' qualcosa. Me la pagherai cara di doverti avere eternamente sotto gli occhi, mi senti, maledetta p...!»
            «Riporrò il libro, poichè, se rifiutassi, voi mi ci forzereste,» rispose la giovane signora, chiudendo il libro e gettandolo su di una sedia, «ma mi occuperò solo di quello che mi pare e piace anche se bestemmierete fino a perderne il fiato.»
            Heathcliff alzò la mano e la signora che senza dubbio ne conosceva il peso, si mise prontamente al sicuro, balzando lontano. Non desiderando affatto di assistere a un combattimento come di cane e gatto, quale minacciava di esser quello, mi inoltrai con passo lesto, quasi fossi ansioso di riscaldarmi io pure a quella bella fiammata, e con l'aria di non essermi accorto della disputa in corso. Tutti e due ebbero abbastanza decoro da sospendere le ostilità; Heathcliff si cacciò i pugni nelle tasche, via dalle tentazioni, e la signora Heathcliff, stringendo le labbra, andò a sedere lontano, e mantenne la parola data, facendo la parte di statua per tutto il tempo che io mi trattenni da loro. Non fu a lungo. Ricusando di restare a colazione, al primo albeggiare colsi l'occasione per uscir fuori all'aria aperta, ora chiara immobile e fredda come ghiaccio impalpabile.
            Non ero ancor giunto in fondo al giardino, quando il padrone di casa mi gridò di fermarmi, e mi offrì di accompagnarmi attraverso la palude. Fu una fortuna che fosse venuto; il dorso della collina appariva come un'immensa successione di bianchi marosi, e le elevazioni e gli avvallamenti non corrispondevano ai rialzi ed abbassamenti del terreno; molte depressioni si erano colmate fino ad essere a livello, e mucchi di sassi, rifiuto delle petraie, erano cancellati dalla carta topografica che la passeggiata del giorno prima mi aveva impresso nella mente. Avevo notato, a esempio, a intervalli di sei o sette braccia, una fila di pietre erette lungo tutta l'estensione di quella landa incolta. Vi erano state collocate appositamente, e imbiancate poi di calce, perchè servissero di guida nell'oscurità o durante una bufera come quella della notte passata, quando i profondi pantani da ambo i lati sparivano confondendosi col sentiero di terra battuta; ma, a eccezione di qualche punto oscuro che si alzava qua e là, ogni altra traccia era scomparsa e il mio compagno doveva avvertirmi di frequente di volgere ora a destra ora a sinistra, proprio quando ritenevo di seguire esattamente i serpeggiamenti della strada. Poche parole furono scambiate tra di noi, e, al cancello del Parco di Thrushcross, egli si fermò, dicendomi che ormai non potevo sbagliarmi più. I nostri saluti si limitarono a un cenno affrettato del capo, indi io mi spinsi avanti, affidandomi alle mie proprie risorse, dato che non ho ancora trovato un custode per il cancello. La distanza dal cancello a Grange è di due miglia, ma credo che per me diventassero quattro, sia perchè mi smarrii tra gli alberi, sia perchè affondavo nella neve fino al collo; inconveniente che soltanto quelli che lo hanno esperimentato sanno ben valutare. A ogni modo, con questo vagare di qua e di là, entrai in casa quando l'orologio suonava le dodici, questo voleva dire che avevo impiegato esattamente un'ora per ogni miglio della strada ordinaria che parte da Wuthering Heights.
            Quella specie di surrogato umano della mia governante e i suoi satelliti mi corsero incontro, dandomi il benvenuto ed esclamando tumultuosamente che non mi aspettavano più; tutti si erano ormai persuasi che fossi rimasto vittima della bufera di neve, e stavano appunto pensando al modo di intraprendere la ricerca delle mie spoglie. Ordinai che si calmassero, poichè mi avevano lì davanti agli occhi, e, intirizzito fino in fondo al cuore, mi trascinai su per le scale; dopo che ebbi indossato abiti più asciutti e dopo che ebbi camminato su e giù per trenta o quaranta minuti, per riattivare in me la circolazione, mi ritirai nel mio studio, debole come un gattino e troppo esausto per poter godere dell'allegro focherello e della fumante tazza di caffè preparata per il mio ristoro.
           



           
            Che vane banderuole noi siamo! Io, che avevo deciso di mantenermi indipendente da qualsiasi rapporto sociale, e che ringraziavo la mia buona stella per esser alla fine capitato in un luogo quasi impraticabile, io, povero miserello, dopo aver lottato contro l'abbattimento e la solitudine fino al calar della sera, fui finalmente costretto a darmi per vinto, e sotto il pretesto di ottenere qualche ragguaglio circa i bisogni della casa, pregai la signora Dean, quando mi portò la cena, di volersi trattenere con me, sperando in cuor mio che desse prova di essere una vera comare e che con le sue chiacchiere riuscisse a rianimarmi o a farmi addormentare.
            «È da molto tempo che siete qui?» principiai. «Credo che mi abbiate detto sedici anni.»
            «Diciotto, signore: quando la padroncina prese marito venni al suo servizio e dopo la sua morte il padrone mi tenne quale governante.»
            «Davvero!»
            Seguì una pausa. Temetti che fosse loquace solo per le cose sue, e queste non potevano interessarmi gran che; tuttavia, dopo essere rimasta pensierosa per un poco, con i pugni sulle ginocchia, e il rosso viso tutto assorto in una grand'aria di meditazione, esclamò:
            «I tempi sono molto cambiati da allora!»
            «Sì!» feci io. «Immagino proprio che ne dobbiate aver visti di cambiamenti!»
            «Sì, e anche molti guai!» replicò.
            «Oh!» pensai, «adesso porterò il discorso sulla famiglia del padrone di casa! Ecco un buon soggetto dal quale incominciare; e quella graziosa vedovella, amerei ben conoscerne la storia. Chissà se è di questi paesi, o se, come è più probabile, è una forestiera che quei rozzi indigeni non vogliono riconoscere come parente!» Con tale intenzione chiesi alla signora Dean perchè il signor Heathcliff affittasse Thrushcross Grange e preferisse vivere in una località e in un'abitazione tanto inferiori. «Non è abbastanza ricco per mantenere questa proprietà in buono stato?» le domandai.
            «Ricco, signore?» replicò. «Denari ne ha, e molti; nessuno sa dir quanti, e ogni anno si accrescono. Sì, sì, sarebbe ricco abbastanza per abitare in una casa anche più bella di questa, ma è quel che si dice un avaro, e, se avesse avuto l'intenzione di trasferirsi a Thrushcross Grange, sarebbe bastata la probabilità di trovare un buon affittuario, perchè nulla al mondo potesse farlo rinunciare all'occasione di intascare qualche centinaio di lire di più. È strano che si possa essere così avidi quando si è soli al mondo!»
            «Pare che avesse un figlio?»
            «Sì, ne aveva uno; ma è morto.»
            E quella giovane signora, la signora Heathcliff, ne è la vedova?»
            «Sì.»
            «Di che paese è?»
            «Ma come, signore? È la figlia del mio ultimo padrone; il suo nome di ragazza è Caterina Linton; l'ho allevata io, poverina! Ho tanto desiderato che il signor Heathcliff venisse a vivere qui, poichè allora avremmo potuto stare ancora insieme.»
            «Come, Caterina Linton?» esclamai, attonito. Ma un momento di riflessione mi persuase che non poteva trattarsi della mia Caterina, di quella apparsami come uno spettro. «Allora,» proseguii, «il nome del mio predecessore era Linton?»
            «Per l'appunto.»
            «E chi è quell'Earnshaw: Hareton Earnshaw, che vive col signor Heathcliff? sono parenti?»
            «No, è il nipote della signora Linton, morta anche lei.»
            «Cugino quindi della giovane signora?»
            «Sì, come lo era anche il marito; uno, per parte della madre, l'altro, del padre. Heathcliff sposò la sorella del signor Linton.»
            «A Wuthering Heights ho visto il nome di "Earnshaw" scritto sopra la porta d'ingresso della casa. È una famiglia antica?»
            «Antichissima, signore; e Hareton ne è l'ultimo discendente, come la nostra signorina Caterina lo è di noi, intendo dire dei Linton. Siete, dunque, stato a Wuthering Heights? Perdonate la domanda, ma amerei sapere come sta lei.»
            «Chi? la signora Heathcliff? Aveva l'aria di star bene, ed è molto bella; tuttavia, non mi pare molto felice.»
            «Oh non me ne meraviglio! E che ne dite del padrone?»
            «Un uomo piuttosto ruvido, signora Dean. Non è questo il suo carattere?»
            «Ruvido come il filo di una sega, e duro più di una pietra. Meno lo avvicinerete, e meglio sarà per voi!»
            «Avrà avuto alti e bassi nella sua vita per esser diventato un simile tanghero! Ne sapete un poco la storia?»
            «È la favola del cuculo, signore; io la conosco tutta, eccettuato dove nacque, chi furono i suoi genitori, e in qual modo fece i suoi denari, in principio. E Hareton non è stato messo da parte come un papero senza piume? Lo sfortunato ragazzo è il solo in tutta la parrocchia che non sappia come sia stato truffato.»
            «Ebbene, signora Dean, farete un'opera caritatevole, se vorrete narrarmi qualcosa dei miei vicini. Sento che non riposerei, se mi coricassi; vogliate dunque esser tanto buona da rimanere a chiacchierare ancora un po'.»
            «Oh, ben volentieri, signore. Andrò a prendere un lavoro e poi resterò quanto vorrete. Ma vi siete preso un'infreddatura, vi ho visto rabbrividire; sarà bene che prendiate una farinata calda per scacciarvela di dosso.»
            La brava donna uscì frettolosamente dalla stanza e io mi rintanai ancor più vicino al fuoco: mi sentivo la fronte bollente e il resto del corpo ghiacciato; avevo inoltre i nervi e il cervello eccitatissimi, mi pareva quasi d'impazzire, e questo mi era causa di paura più che di fastidio, paventando io le serie conseguenze degli incidenti di oggi e di ieri, come le temo tuttora. La signora Dean fu subito di ritorno con un bricco fumante e un cestino da lavoro: posto il primo sul fuoco, mi si accostò con una sedia, evidentemente molto contenta di trovarmi così socievole.
            «Prima di venire a vivere in questa casa,» cominciò a raccontare senza aspettare un mio ulteriore invito, «ero quasi sempre a Wuthering Heights, poichè il signor Hindley Earnshaw, padre di Hareton, era stato allevato da mia madre, e io ero solita giocare con i bambini. Sbrigavo anche commissioni; aiutavo a raccogliere il fieno, e mi tenevo sempre nei dintorni della fattoria, pronta a fare qualsiasi cosa mi venisse ordinata...»
            Un bel mattino d'estate, si era al principio della mietitura, me ne ricordo bene, il vecchio padrone, il signor Earnshaw, scese in abito da viaggio e, dopo aver impartito gli ordini a Giuseppe per la giornata, si diresse verso di noi: eravamo Hindley, Cathy e io; io per l'appunto stavo mangiando la zuppa con loro. Rivoltosi al figlio il signor Earnshaw gli disse: «Sappi, bell'ometto mio, che oggi vado a Liverpool, che cosa vuoi che ti porti? Puoi scegliere quello che vuoi, ma bada che sia una cosa piccola perchè vado e torno a piedi; sessanta miglia l'andare e sessanta nel tornare, non è dir poco!»
            Hindley gli chiese un violino, e poi venne la volta della signorina Cathy: la piccola non aveva ancora sei anni, ma sapeva cavalcare qualsiasi cavallo della scuderia, e si scelse una frusta. Il padrone non si scordò neppure di me poichè aveva buon cuore, sebbene alle volte fosse un po' severo; promise che mi avrebbe portato una tasca piena di mele e di pere; infine baciò i bambini, e con un ultimo saluto partì.
            Quanto ci sembrarono lunghi i tre giorni in cui restò assente; e quante volte la piccola Caterina ebbe a chiedere quando sarebbe tornato suo padre! La terza sera dal giorno della sua partenza, la signora Earnshaw l'attese per la cena, ma questa dovette essere rinviata d'ora in ora, non essendovi alcun indizio d'arrivo; e anche i ragazzi si stancarono di correre giù al cancello a vedere se mai comparisse qualcuno: poi si fece buio e la signora Earnshaw voleva mandare i ragazzi a letto, ma loro chiesero ansiosamente il permesso di rimanere alzati; ed erano già le undici circa, quando fu sollevato silenziosamente il saliscendi e fece il suo ingresso il padrone. Si lasciò cadere su di una sedia ridendo e lagnandosi nel medesimo tempo; volle che tutti si tenessero discosti da lui perchè, diceva, era morto dalla stanchezza; proprio non avrebbe rifatto quella strada per i tre regni!
            «Ed essere per di più sovraccarico in questo modo!» disse, e aprì il cappotto che teneva tutto avvoltolato tra le braccia. «Guarda qui, moglie! In tutta la mia vita non mi sono mai sentito tanto stanco; ma te lo devi ugualmente pigliare come un dono di Dio, benchè sia nero nero come se venisse dal diavolo.»
            Ci stringemmo intorno a lui; e io, spingendo lo sguardo al di sopra della testa di Caterina, potei scorgere un bambino lacero, sudicio, dai capelli neri, e già abbastanza grande da poter camminare e parlare. In realtà, dal viso si sarebbe detto maggiore di Caterina; tuttavia, quando fu messo in piedi, non fece altro che guardare intorno fissamente, ripetendo più e più volte le stesse parole in un dialetto che nessuno riusciva a comprendere. Io ebbi paura, e la signora Earnshaw sembrava volesse gettarlo fuori dall'uscio da un istante all'altro; ella diede quasi in smanie, chiedendo al marito come avesse potuto portare a casa quel figlio di zingari, quando avevano già i loro propri marmocchi da nutrire e da allevare. Che cosa mai intendeva farne? gli aveva dato di volta il cervello! Il padrone cercò di spiegare le cose, ma era realmente esausto dalla fatica, e io, in mezzo agli strilli della moglie, non riuscii a capire altro se non che l'aveva trovato per le vie di Liverpool, affamato, senza tetto, e incapace di parlare, come se fosse stato un muto; l'aveva quindi raccolto, e aveva chiesto in giro per apprendere a chi appartenesse. Ma nessuno lo sapeva, e, avendo mezzi e tempo limitati, egli aveva pensato che meglio era portarselo a casa subito, piuttosto che andare incontro a delle spese laggiù, avendo deciso che non l'avrebbe lasciato dove e come l'aveva trovato. Bene, la conclusione fu che la mia padrona, dopo infinite lamentele, si calmò, e il signor Earnshaw mi disse di lavare il bambino, di fargli indossare cose pulite e di metterlo a dormire con gli altri.
            Hindley e Cathy si erano accontentati di guardare e di stare in ascolto finchè non fu ristabilita la pace, ma poi si diedero entrambi a frugare nelle tasche del padre in cerca dei regali loro promessi. Hindley era un ragazzo di quattordici anni, ma, quando tirò fuori dal soprabito quel che poteva bene esser stato un violino, ma tutto frantumato, si mise a piangere dirottamente, e Caterina, all'udire che il padrone aveva smarrito la sua frusta per occuparsi di quello sconosciuto, mostrò il proprio dispetto facendo boccacce a quel piccolo stupido e sputandogli anche addosso, così che s'ebbe uno scapaccione dal padre, inteso a insegnarle modi più decenti. Ma i ragazzi non vollero l'intruso nel loro letto e neppure in camera loro, e io, che non avevo molto più giudizio di loro, lo abbandonai sul pianerottolo della scala nella speranza che per l'indomani se ne sarebbe andato via. Per caso, o chissà in qual modo, forse attratto dalla voce del signor Earnshaw, quello sgattaiolò fino all'uscio di costui che, per l'appunto, lo trovò all'uscire di camera; furono fatte indagini per sapere come fosse potuto accadere e io dovetti confessare tutta la verità e, in compenso della mia malizia e inumanità, fui licenziata.
            Così avvenne l'ingresso di Heathcliff in famiglia. Ritornata pochi giorni dopo (poichè non ritenevo il mio esilio perpetuo) trovai che l'avevano battezzato «Heathcliff»: era il nome di un figlio morto poco dopo la nascita, e da allora gli è servito sempre, non solo come nome ma anche come cognome. Lui e la signorina Caterina s'intesero subito, ma Hindley lo odiava! e, per dire la verità, io feci altrettanto, e tutt'e due, d'accordo, lo tormentavamo senza tregua e senza vergogna, perchè io ero tanto irragionevole da non avere il senso dell'ingiustizia che commettevo, e la padrona non diceva mai una parola in sua difesa, anche quando gli si facevano dei torti.
            Sembrava un bambino triste e paziente; forse indurito dai cattivi trattamenti, sopportava le percosse di Hindley senza batter ciglio e senza versare una lacrima, e i miei pizzicotti gli facevano soltanto trattenere il respiro e spalancare gli occhi, come se si fosse fatto male per caso, e non ci fosse quindi da incolparne nessuno. Tale modo di pazientare mandò il vecchio Earnshaw su tutte le furie, quando scoprì che il figlio perseguitava il povero orfanello, come lui soleva chiamarlo. Lo aveva preso stranamente a ben volere; credeva a tutto quel che gli diceva (a questo riguardo diceva ben poco e generalmente la verità) e lo viziava molto più di Caterina, troppo dispettosa e cocciuta per esser la preferita.
            Così fin dal principio sentimenti non buoni si generarono in famiglia, e, alla morte della signora Earnshaw che se ne andò, ancor prima che si compissero due anni, il giovane padrone aveva imparato a considerare il padre come un oppressore più che come un amico, e Heathcliff come l'usurpatore dell'affetto paterno e dei propri privilegi; e, meditando continuamente su tali offese, il suo animo si fece sempre più aspro. Io per un poco condivisi i suoi sentimenti, ma, quando accadde che i bambini si ammalarono di morbillo, e non solo dovetti curarli, ma mi trovai a un tratto addossate le incombenze di una donna, mutai proposito. Heathcliff giaceva gravemente ammalato e nelle ore peggiori mi voleva costantemente al suo capezzale; penso che sentisse che io facevo molto per lui, ma fosse troppo ingenuo per capire che ero costretta a occuparmi di lui dal dovere. A ogni modo desidero dir questo in suo favore: era il bambino più quieto che mai nutrice avesse vegliato, e la differenza tra lui e gli altri mi rese mio malgrado meno imparziale. Cathy e suo fratello mi stancavano terribilmente; lui non si lagnava mai ed era docile come un agnellino, benchè fossero piuttosto i cattivi trattamenti e non la gentilezza a far sì che desse poco disturbo. Guarì e il medico dichiarò che lo doveva in gran parte a me, e mi lodò per le mie assidue cure. Lusingata dalle sue parole di lode mi sentii rabbonire verso quell'essere che me le aveva procurate, e così Hindley perdette la sua ultima alleata; non per questo mi lasciai trasportare d'amore per Heathcliff, e mi domandavo spesso che cosa il mio padrone trovasse da ammirare in quel ragazzo scontroso, che, a mio ricordo, non dette mai il minimo segno di gratitudine per l'indulgenza di cui era oggetto. Non era insolente verso il suo benefattore, ma semplicemente insensibile, benchè conoscesse perfettamente quale potere avesse sul suo cuore e fosse anche consapevole che doveva solo aprire bocca perchè tutta la casa si inchinasse ai suoi desideri. Ricordo, a esempio, che una volta il signor Earnshaw acquistò un paio di puledri alla fiera della parrocchia, e ne diede uno a ciascun ragazzo. Heathcliff prese il più bello, ma gli diventò presto zoppo; quando se ne accorse disse a Hindley:
            «Devi scambiare il tuo cavallo col mio. Il mio non mi piace più e, se non vuoi, dirò a tuo padre delle tre scudisciate che mi hai dato questa settimana e gli mostrerò il braccio che è livido fino alla spalla.
            Hindley tirò fuori la lingua e gli diede due schiaffi.
            «È meglio che tu faccia subito il cambio,» persistette l'altro fuggendo sotto il portico (erano nella scuderia), «devi farlo, e, se parlo di questi schiaffi li riavrai tu stesso con in più l'interesse.»
            «Vattene, cane!» gridò Hindley, minacciandolo con un peso di ferro che serviva a misurare le patate.
            «Gettalo,» rispose Heathcliff, immobile; «e io racconterò a tuo padre come ti sei vantato che, appena lui morirà, mi metterai alla porta e allora vedremo se non verrai tu stesso scacciato subito.»
            Hindley lanciò il peso che andò a colpirlo in pieno petto, facendolo stramazzare a terra, ma il ragazzo si rimise subito in piedi, barcollante, senza respiro e pallidissimo, e, se non glielo avessi impedito io, sarebbe corso a denunciare il colpevole sicuro di ottenere ampia vendetta, quel suo stato medesimo avrebbe testimoniato in suo favore.
            «Ebbene, prenditi il mio puledro, zingaro,» disse il giovane Earnshaw, «e possa romperti il collo! Prenditelo, e sii maledetto, miserabile intruso! spoglia mio padre di tutto il suo avere, ma aspetta a fargli vedere quello che sei, figlio di Satana! prenditi anche il mio puledro! e spero che ti spaccherà il cranio con un calcio.»
            Heathcliff era andato a slegare il cavallo per farlo passare nel suo proprio stallo, e gli stava di dietro, quando Hindley a conclusione delle sue parole, con un colpo brutale lo mandò a ruzzolare sotto i piedi dell'animale, e senza fermarsi a vedere se i suoi voti si avverassero, si diede rapidamente alla fuga. Fui sorpresa di vedere coi miei propri occhi con quale freddezza il ragazzo si tirò su, continuando nel suo intento; cambiò le selle e ogni altra cosa, e, prima di rientrare in casa, sedette su un mucchio di fieno per vincere lo stordimento prodottogli da quel terribile colpo.
            Non ebbi difficoltà a persuaderlo a lasciar credere che le sue contusioni fossero dovute al cavallo; a lui poco importava quel che si sarebbe detto, una volta che aveva ottenuto quanto voleva. E per tali baruffe si lagnava così di rado che credetti in buona fede che non fosse vendicativo, ma, come sentirete, mi ero completamente ingannata.

V    (torna all'indice)               Con l'andar del tempo il signor Earnshaw cominciò a declinare. Era sempre stato attivo e sano, nonostante questo le forze lo abbandonarono all'improvviso, e, quando si trovò confinato in un angolo del camino, divenne dolorosamente irascibile. Un nulla lo contrariava e qualsiasi trasgressione alla sua autorità lo precipitava in un parossismo di furore. Questo si verificava specialmente quando qualcuno cercava d'ingannare o di opprimere il suo prediletto; soffriva per il solo timore che fosse oggetto di qualche mala parola, perchè si era messo in mente che proprio per la ragione che lui lo amava gli altri odiassero Heathcliff, e non aspettassero che il momento di potergli giocare un brutto tiro. Era un guaio per il ragazzo, perchè non desiderando nessuno di noi, neanche il meno gentile, far inquietare il padrone, tutti assecondavamo ogni suo capriccio; ma tale sottomissione non faceva che aumentarne l'orgoglio e la cattiva indole. Tuttavia, sotto un certo aspetto, divenne una necessità; più di una volta si dette il caso che, a una manifestazione di sprezzo da parte di Hindley in presenza del padre, il vecchio andasse su tutte le furie e, afferrato il bastone per darglielo sulle spalle, se poi non vi riusciva, rimanesse tutto tremante di rabbia.            Alla fine il nostro curato (avevamo un curato che trovava modo di far bastare il suo beneficio insegnando ai piccoli Linton e agli Earnshaw e coltivando lui stesso il suo piccolo pezzo di terra), questo nostro curato consigliò di mandare il giovane Hindley all'università, e il signor Earnshaw finì per acconsentire, sia pure di mala voglia, perchè soleva dire: «Hindley non val nulla e non riuscirà mai in qualsiasi luogo lo si mandi.»            Speravo con tutto il cuore che così avremmo finalmente avuta la pace; mi faceva male pensare che il padrone dovesse ricavar tanti dispiaceri proprio da una buona azione. Immaginavo che quella sua irascibilità avesse origine dalla discordia in famiglia, come egli stesso affermava, ma in realtà, lo avrete capito, proveniva dal deperimento generale del suo organismo. Tuttavia, avremmo potuto andare avanti in modo tollerabile, se non ci fossero state due persone; la signorina Caterina e Giuseppe, il domestico; immagino che l'avrete visto lassù. Era, ed è tutt'ora, il più noioso e ipocrita fariseo, discolpatore di se stesso, che abbia mai scartabellato una Bibbia alla ricerca di promesse a proprio favore e di maledizioni ai danni del prossimo. Con quella sua facilità di tener sermoni e pii discorsi, era riuscito a fare una grande impressione al signor Earnshaw, e, più debole diventava il padrone, e maggior impero egli acquistava su di lui. Era spietato nel tormentarlo per quanto riguardava l'anima sua e il rigore con cui devono essere allevati i figlioli. Lo spingeva a considerare Hindley un malvagio, e regolarmente, ogni sera, gli spifferava una lunga tiritera di ribalderie commesse da Heathcliff e da Caterina, badando sempre di viziare la debolezza di Earnshaw con il riversare il maggior biasimo su quest'ultima.            Certo ella aveva dei modi come non vidi mai in nessun bambino, e cinquanta volte al giorno, a dir poco, metteva a dura prova tutta la nostra pazienza. Dall'ora in cui scendeva dalla sua stanza il mattino, fino all'ora in cui saliva a coricarsi, non avevamo un minuto di tranquillità, temendo sempre che ne combinasse qualcuna delle sue. Il suo spirito era sempre al più alto grado di ebollizione, la sua lingua andava continuamente, cantava, rideva e tormentava chi ricusasse di assecondarla. Era una piccola selvaggia dispettosa, ma aveva gli occhi tanto belli, il più dolce dei sorrisi, il piedino più leggero di tutto il contado e, dopo tutto, credo non avesse veramente cattive intenzioni, perchè, se le accadeva di farvi piangere per davvero, ben di rado non dava in pianto pure lei, obbligandovi così a calmarvi per poterla consolare. Ma era troppo attaccata a Heathcliff. Il peggior castigo che potessimo inventare per lei era quello di tenerla separata da lui; eppure, per cagion sua, veniva sgridata ancor più degli altri. Giocando, le piaceva moltissimo far la parte della padroncina; era lesta di mano, e comandava ai suoi compagni per dritto e per rovescio, e così voleva fare con me; ma a me questo non andava, e glielo feci capire.            Ebbene, il signor Earnshaw non era fatto per comprendere gli scherzi dei bambini, essendo sempre stato severo e grave con loro; e Caterina, da parte sua, non si rendeva conto che, nel suo stato di salute, il padre fosse più irascibile e intollerante di quando stava bene. I suoi rimproveri parevano eccitare in lei il crudele piacere di provocarlo: non era mai tanto felice come quando la sgridavamo tutti insieme, e lei ci sfidava con il suo sguardo ardito e insolente e con le sue parole vivaci: metteva in ridicolo le maledizioni religiose di Giuseppe, tormentava me e faceva proprio quello che il padre più detestava, con il mostrargli come quella insolenza apparente, che l'uomo riteneva reale, avesse più potere su di Heathcliff che la gentilezza paterna, e come il ragazzo ubbidisse a lei sempre, e a lui soltanto quando gli accomodava. Dopo di essersi comportata tutto il giorno nel peggior modo possibile, verso sera si faceva carezzevole per ottenere di far la pace. «No, Cathy,» le diceva il vecchio, «non posso volerti bene, tu sei peggiore di tuo fratello. Va', di' le tue preghiere, bambina, e chiedi perdono a Dio. Temo che tua madre e io dovremo rammaricarci di averti allevata.» Questo dapprima la faceva piangere, ma poi, nel vedersi continuamente respinta, divenne dura, e, se la esortavo a pentirsi delle sue colpe e a chiederne scusa, si metteva a ridere.            Ma purtroppo venne l'ora che pose fine alle sofferenze del signor Earnshaw su questa terra. Egli morì quietamente una sera d'ottobre, seduto nella sua poltrona accanto al focolare. Un forte vento turbinava intorno alla casa e ruggiva nella gola del camino, con un urlo selvaggio e tempestoso; tuttavia, non faceva freddo; ci trovavamo riuniti, io un poco discosta dal fuoco, ero intenta alla mia calza, e Giuseppe stava leggendo la Bibbia presso la tavola (allora i domestici, dopo il lavoro, erano generalmente ammessi nella «casa»). La signorina Cathy era stata indisposta, ragione per cui era quieta; stava appoggiata alle ginocchia del padre, e Heathcliff era sdraiato in terra con il capo in grembo a lei. Ricordo come il padrone prima di addormentarsi quella sera, le accarezzasse i bei capelli - per lui era un godimento raro vederla così gentile - dicendole: «Perchè non puoi far sempre la brava bambina, Cathy?» Ed ella, volgendo il viso al padre, gli sorrise e disse: «Perchè non puoi tu esser sempre un buon uomo, papà?» Ma, non appena lo vide turbarsi, gli baciò la mano, e gli disse che avrebbe cantato per farlo addormentare. Cominciò a cantare molto sommessamente, finchè le dita di lui abbandonarono le sue, e la testa gli ricadde sul petto. Allora le feci cenno di tacere e di non muoversi, per tema che lo svegliasse. Rimanemmo tutti muti come topi per una buona mezz'ora, e vi saremmo rimasti ancor più a lungo, se Giuseppe, finito di leggere il suo capitolo, non si fosse alzato, dicendo che doveva svegliare il padrone per le preghiere e mandarci a letto. Fece qualche passo verso di lui, lo chiamò per nome, toccandogli la spalla, ma, visto che non dava segno di muoversi, prese il lume e lo guardò più da vicino. Mentre deponeva il lume, pensai che qualcosa di insolito doveva essere accaduto; prese i bambini per un braccio e bisbigliò loro: «Andate di sopra, e fate poco rumore...», e soggiunse che per quella sera potevano pregare da soli... lui aveva da fare.            «Prima voglio dare la buona notte al papà,» disse Caterina, mettendogli le braccia intorno al collo, senza che noi potessimo, a tempo, impedirglielo. La poverina si accorse subito della triste realtà e gridò: «Oh, è morto, Heathcliff! è morto!» Ed entrambi dettero in un pianto che spezzava l'anima. Piansi io pure con loro molto amaramente, finchè Giuseppe ci disse che non dovevamo piangere in quel modo per un santo in cielo! Mi ordinò di mettermi il mantello e di correre a Gimmerton in cerca del medico e del parroco. Non potevo figurarmi di che aiuto potessero essere sia l'uno sia l'altro in un momento simile; comunque andai e tornai con uno di loro, il medico; l'altro, mi disse che sarebbe venuto l'indomani mattina. Lasciato a Giuseppe di spiegare le cose, corsi su nella camera dei bambini, l'uscio era socchiuso, vidi che non si erano ancora coricati, benchè fosse già passata la mezzanotte; ma erano più calmi e non avevano bisogno di essere consolati da me. Le loro piccole anime si confortavano, vicendevolmente, con pensieri migliori di quelli che io avrei potuto suggerir loro. Mai nessun pastore al mondo seppe dipingere il cielo così bello come lo dipingevano quei bambini coi loro ingenui discorsi e, mentre ascoltavo, singhiozzando, non potevo fare a meno di desiderare di essere tutti insieme salvi lassù.           

VI    (torna all'indice)               Il signor Hindley venne per i funerali e, cosa che ci sorprese e che diede luogo a un mondo di chiacchiere tra il vicinato, portò seco una moglie. Chi fosse, e di dove fosse non ce lo disse; probabilmente non aveva dote e nemmeno un nome che potesse conquistarle simpatie, altrimenti non avrebbe tenuta segreta la sua unione al padre.            La sposa, per conto suo, non era persona da portare scompiglio in casa; anzi, dal momento in cui ebbe passata la soglia, sembrò rallegrarsi di tutto e di tutti; soltanto non poteva sopportare la vista dei preparativi funebri, e nemmeno la presenza dei parenti in lutto. A proposito di questo suo modo di comportarsi, mi feci l'idea che fosse poco intelligente; al momento del funerale corse in camera e insistette perchè andassi con lei, benchè sapesse che dovevo pure vestire i bambini; là si era seduta in preda a una forte agitazione, e, congiunte le mani, chiedeva ripetutamente: «Se ne sono andati? se ne sono andati?» E poi con una eccitazione isterica cominciò a descrivermi l'effetto che le produceva il nero; e, così parlando, sussultava, tremava, e alla fine si mise a piangere; quando le chiesi che cosa avesse, rispose che non lo sapeva; ma che aveva paura di morire. Mi parve lontana da qualsiasi minaccia di morte almeno quanto lo ero io. Era piuttosto esile, ma giovane, aveva un bel colorito fresco, e gli occhi le brillavano come diamanti. Avevo notato, è vero, che, nel salire le scale, il respiro le si faceva rapido, che il minimo rumore la faceva trasalire, e che alle volte tossiva spasmodicamente; ma, non immaginando affatto quel che annunciassero tali testimonianze, non mi sentivo spinta a compassionarla. In genere qui da noi, signor Lockwood, non simpatizziamo troppo con gli estranei, a meno che non siano loro i primi a dimostrarci la propria simpatia.            Durante quei tre anni di assenza il giovane Earnshaw era cambiato notevolmente. Si era alquanto moderato; non aveva più il colorito vivo di prima, parlava e vestiva in altro modo, e il giorno stesso del suo arrivo, disse a Giuseppe e a me che, da allora in poi, dovevamo acquartierarci nel retrocucina e lasciare la «casa» esclusivamente libera per lui. Avrebbe voluto ridurre a salotto, ornandola con tappeti e tappezzerie, una piccola stanza libera, ma sua moglie si mostrò così soddisfatta del pavimento di pietre bianche, e dell'immenso camino risplendente, dei piatti di peltro, e delle maioliche di Delft, e del canile e di tutto quello spazio vuoto che ancora restava ove sedevano d'abitudine, che lui finì con il persuadersi che sarebbe stata cosa superflua, e abbandonò l'idea di quell'innovazione.            La moglie dimostrò di provar molto piacere a considerare, tra le nuove conoscenze, Caterina come una sorella, e da principio chiacchierava con lei, la baciava, la seguiva ovunque, e le faceva una quantità di regali. Ma ben presto tali dimostrazioni d'affetto cessarono; ella si fece capricciosa e Hindley divenne un tiranno. Poche parole di lei che denotavano un'antipatia per Heathcliff, bastarono a far risorgere in lui l'antico odio per il ragazzo. Escludendolo dalla loro compagnia, volle che rimanesse con i domestici; lo privò dell'istruzione del curato, e gli impose di lavorare in campagna, obbligandolo a un duro lavoro come se fosse stato un contadino.            Heathcliff sopportò dapprima tale umiliazione quasi con indifferenza, perchè Cathy gli insegnava tutto quello che lei stessa imparava, e lavorava e giocava con lui nei campi. Purtroppo, promettevano di crescere ambedue come rozzi selvaggi, non occupandosi affatto il giovane padrone dei loro modi e della loro condotta, pur di non averli tra i piedi. Non si sarebbe nemmeno interessato a che andassero in chiesa la domenica, se Giuseppe e il curato, non lo avessero rimproverato di negligenza tutte le volte che quei monelli restavano assenti; il che serviva a rammentargli di dar ordine che Heathcliff fosse frustato, e che Caterina fosse lasciata senza cena o senza pranzo. Ma fuggire al mattino nella landa e rimanervi tutto il giorno, era uno dei loro divertimenti preferiti, e la punizione che li attendeva pareva loro semplicemente irrisoria. Il curato poteva bene assegnare a Caterina tanti capitoli da imparare a mente quanti gliene piacesse, e Giuseppe poteva bene sferzare Heathcliff fino a farsi dolere il braccio, non appena quei due si trovavano di nuovo insieme, tutto era dimenticato, e veniva subito tramato un piano di vendetta. Quante volte non ho pianto nel doverli veder crescere di giorno in giorno così disperati, senza poter osare una sillaba nel timore di perdere anche quel poco ascendente che ancora mi rimaneva su quelle creature abbandonate da tutti. Una domenica sera capitò che fossero scacciati dal salone per aver fatto chiasso e per non so quale altra lieve mancanza, e, quando andai a chiamarli per la cena, non riuscii a trovarli da nessuna parte. Tutta la casa fu rovistata sopra e sotto, e la corte, e le rimesse, ma inutilmente; erano introvabili, e alla fine Hindley, infuriato, ordinò di chiudere la porta a catenaccio, e guai a chi li lasciasse entrare quella notte! Tutti se ne andarono a letto, ma io, troppo inquieta per coricarmi, aprii la mia finestra e rimasi in ascolto, con la testa fuori, benchè piovesse, decisa nonostante quel divieto ad aprir loro, se fossero tornati. Poco dopo sentii risuonar passi sulla strada, e la luce di una lanterna brillò attraverso il cancello. Gettatomi uno scialle in testa, corsi in giardino per impedire che, bussando, avessero a svegliare il signor Earnshaw. Era Heathcliff, ma qual spavento provai nel vederlo solo!            «E la signorina Caterina dov'è?» gli domandai ansiosamente. «Nessuna disgrazia, spero.» «È a Thrushcross Grange,» rispose il ragazzo, «e ci sarei rimasto io pure, ma non hanno avuto abbastanza educazione per invitarmi.» «Ebbene, ora sentirai le tue!» dissi. «Già tu non sarai mai contento finchè non ti avranno mandato fuori dei piedi! Per qual ragione siete andati fino a Thrushcross Grange?» «Lasciami togliere i miei abiti bagnati e poi ti dirò tutto, Nelly,» mi rispose. Lo avvertii che facesse piano per non svegliare il padrone, e mentre si svestiva e io aspettavo di poter spegnere il lume, lui riprese a dire: «Cathy e io siamo fuggiti passando per il lavatoio, per fare una bella corsa, e quando abbiamo scorto i lumi a Grange abbiamo pensato di andare a vedere se i Linton passino anche loro le sere della domenica seduti negli angoli, a tremare di freddo, mentre i loro genitori mangiano e bevono, cantano e ridono, e si bruciano gli occhi davanti al fuoco. Credi che lo facciano? Oppure che leggano sermoni, e ascoltino le prediche del loro servitore e, se non hanno saputo rispondere a dovere, imparino a mente una colonna di nomi della Sacra Scrittura?» «No, probabilmente!» risposi, «ma quelli sono senza dubbio buoni ragazzi e non meritano di essere trattati come voi due per la vostra cattiva condotta.» «Sono buoni! non meritano! sciocchezze, Nelly!» esclamò. «Noi abbiamo fatto una corsa dall'alto delle Heights fin giù al parco, senza fermarci. Caterina è rimasta completamente battuta nella gara, perchè era a piedi scalzi. Domani dovrai cercare le sue scarpe nel pantano. Siamo penetrati da un buco della siepe, e, seguendo carponi il sentiero, ci siamo fermati in un'aiuola di fiori sotto la finestra della sala da pranzo. Veniva una gran luce perchè non avevano ancor chiuse le imposte e le tende erano in parte rialzate. Stando sul basamento della casa e aggrappandoci al davanzale potevamo vedere nell'interno. Ah! quanto era bello! Un luogo splendido! tappeti rossi, e sedie e tavole pure rosse, e il soffitto bianchissimo a fregi dorati; nel centro, appesa a catene d'argento, una pioggia di gocce di cristallo tutte scintillanti nella luce di piccole candele di cera. Il signore e la signora Linton non erano nel salone; così Edgardo e la sorella ne erano i padroni assoluti. Non avrebbero dovuto esser felici? A noi sarebbe sembrato di essere in paradiso! E ora indovina invece che cosa stavano facendo i tuoi buoni ragazzi! Isabella, e credo che abbia undici anni, uno meno di Caterina, era nell'angolo più lontano della sala e strillava come se le streghe la stessero trapassando con aghi roventi; Edgardo era presso il camino e piangeva silenziosamente, e sulla tavola, nel mezzo, un cagnolino tirava una zampetta che ancora gli tremava tutta, e mugolava lamentosamente. Dalle reciproche accuse capimmo che l'avevano quasi fatto in due. Gli idioti! Quello è il loro modo di divertirsi! Litigare per un mucchietto di peli caldi, e poi piangere perchè, dopo di esserselo tanto disputato, non lo vogliono più l'uno nè l'altro! In che risata siamo scoppiati, come ci sembravano da disprezzare quei ragazzi viziati! Quando mai mi troveresti a volere una cosa che Caterina desidera per sè? o, quando siamo insieme, che bel divertirnento sarebbe per noi gridare, piangere, e rotolarci sul pavimento l'uno da una parte e l'altro dall'altra! Per tutto l'oro del mondo non cambierei la mia vita di qui con quella di Edgardo Linton a Thrushcross Grange! nemmeno se potessi avere la soddisfazione di gettare Giuseppe dalla più alta gronda, e di dipingere la facciata della casa con il sangue di Hindley!»            «Silenzio, silenzio!» lo interruppi, «intanto non mi hai ancora detto, Heathcliff, perchè Caterina non è tornata con te.»            «Ti ho ben detto come abbiamo riso!» rispose. «I Linton ci hanno sentito e si sono slanciati tutt'e due come frecce alla porta: vi è stato un attimo di silenzio, poi grida acute: "Oh mamma, mamma! oh papà! oh mamma! accorrete! oh, papà, oh!" e qualche cos'altro di simile. Noi ci siamo messi allora a fare un gran baccano per spaventarli ancora di più, poi ci siamo lasciati cadere dal davanzale, perchè avevamo sentito che stavano togliendo i catenacci e pensavamo che fosse meglio darci alla fuga. Tenevo Caterina per la mano e la incoraggiavo a correre, quando a un tratto lei è caduta a terra. "Fuggi, Heathcliff, fuggi," ha bisbigliato. "C'è il cane e mi ha presa!" Avevano slegato un mastino, e quel demonio, Nelly, le aveva addentato la caviglia, ho sentito il suo ringhio orribile. A Caterina non è sfuggito un grido, certamente avrebbe sdegnato di gridare anche se fosse stata infilzata sulle corna di una vacca impazzita. Ho gridato io, però, anzi ho vomitato tante e tali maledizioni da bastare a disperdere i demoni dell'intera cristianità. Ho preso un sasso e l'ho conficcato tra le mascelle di quella bestiaccia, cercando con tutta forza di cacciarglielo giù in gola. Alla fine un tanghero di servitore è arrivato con una lanterna e si è messo a gridare: "Tieni, tieni, Skulker, non lasciar andare!" Ma ha cambiato tono, tuttavia, non appena ha visto la preda di Skulker. Il cane era mezzo strozzato, la sua grande lingua rossa gli penzolava dalla bocca e le labbra cascanti lasciavano uscire la bava insanguinata. Quel servo ha preso in braccio Cathy che era svenuta, non per paura, ne son certo, ma per il dolore. L'ha portata in casa e io l'ho seguito, mormorando imprecazioni e vendetta. "Che caccia avete fatto, Roberto?" ha gridato Linton dall'entrata. "Skulker ha preso una ragazza, signore," ha risposto quello, "e qui c'è un ragazzo," ha aggiunto, facendo l'atto di acciuffarmi, "che m'ha tutto l'aspetto di un vagabondo! Probabilmente i ladri avevano pensato di farli entrare dalla finestra perchè aprissero le porte all'intera banda, quando fossimo stati a dormire, per poterci uccidere con tutto loro comodo." E voltosi a me: "Smettila con quella tua linguaccia, ladro! Sarà questa la volta che andrai alla forca! Signor Linton, non deponete il fucile!" "No, no, Roberto," ha detto quel vecchio babuino. "Quei manigoldi sapevano che ieri è stato il giorno degli affitti: contavano di giocarmi un tiro in regola! somministrerò loro il trattamento che si meritano. Ecco, Giovanni, assicurate la porta con la catena; e tu, Jenny, dà dell'acqua a Skulker! Prender per la barba un magistrato nella sua propria abitazione! e di domenica! Fino a qual punto arriverà la loro insolenza? Oh, mia cara Maria, guarda! Non aver paura, non è che un ragazzo, eppure questo villano ha l'audacia di mostrare un viso cosi torvo, che penso sarebbe fare un bene al paese impiccarlo subito prima che la sua trista natura si riveli in azioni malvagie, come già mostra da quel suo cipiglio." Mi ha trascinato sotto al candelabro, e la signora Linton si è messa gli occhiali sul naso e ha alzato le braccia inorridita. I due piccoli vigliacchi si sono avvicinati pure loro, e Isabella ha balbettato: "Che cosa orrenda! Mettilo in cantina, papà! è tale e quale il figlio della zingara che mi rubò il mio fagiano addomesticato, vero Edgardo?" Mentre mi esaminavano, Cathy si è avvicinata; aveva udito quest'ultime parole, e si era messa a ridere. Edgardo Linton dopo averla fissata ben bene, ha avuto l'intelligenza di riconoscerla. Ci vedono in chiesa, sai, benchè c'incontriamo solo raramente altrove. "Quella è la signorina Earnshaw," ha bisbigliato alla madre, "e guarda come Skulker l'ha morsicata; come le sanguina il piede!" "La signorina Earnshaw? Macchè!" ha gridato la dama, "la signorina Earnshaw che batte la campagna come una zingara? Eppure, caro, la bambina è in lutto; ma è lei certamente, è lei! E dire che potrebbe rimaner rovinata per tutta la vita!" "Quale colpevole negligenza del fratello!" ha esclamato il signor Linton, distogliendo lo sguardo da me, per rivolgerlo a Caterina. "Ho inteso da Shielders" (questo era il curato, signor Lockwood) "che la lascia crescere nel più assoluto paganesimo. Ma, e questo qui? Dove avrà raccolto un tal compagno? Oh! scommetto che è quel bell'acquisto che il mio vicino, che ora non è più, ebbe a fare nel suo viaggio a Liverpool. Un piccolo Lascar, o un bandito, americano o spagnolo." "A ogni modo un cattivo ragazzo, indegno di una casa rispettabile. Hai notato il suo linguaggio, Linton? Sono molto turbata al pensiero che i miei figliuoli l'abbiano udito." "Ho ricominciato a bestemmiare - non andare in collera, Nelly - e così Roberto ha ricevuto l'ordine di togliermi di là. Ho rifiutato di venir via senza Caterina; lui mi ha trascinato in giardino, e, cacciatami la lanterna in mano, mi ha assicurato che il signor Earnshaw sarebbe stato informato della mia condotta, e mi ha ordinato di andarmene subito, e ha richiuso la porta coi catenacci. Ho visto che le tende delle finestre erano ancora rialzate agli angoli, allora sono riandato a spiare dal posto di prima, perchè, se Caterina avesse desiderato di ritornare, ero deciso a mandare in mille frantumi le loro grandi vetrate e a liberarla a onta di qualsiasi loro parere in contrario. Lei stava seduta quietamente sul divano. La signora Linton le ha tolto il mantello grigio della lattaia, di cui ci eravamo impadroniti per fare la nostra escursione, e, scuotendo il capo, credo la rimproverasse: era pur sempre una signorina, e quindi facevano distinzione tra il modo di trattar lei e me. La cameriera ha portato una bacinella di acqua calda e le ha lavato i piedi, e la signora Linton le ha preparato una bevanda di vino, acqua e zucchero; Isabella le ha rovesciato in grembo un piatto di dolci, ed Edgardo è restato a guardarla a bocca aperta, ad una certa distanza. Dopo le hanno asciugato e ravviato i bei capelli, le hanno messo un paio di pianelle e l'hanno trasportata in poltrona presso il fuoco. L'ho lasciata allegra, come lo è sempre, a condividere il suo dolce fra il cagnolino e Skulker; a quest'ultimo pizzicava il muso, mentre mangiava. Negli occhi azzurri e vuoti dei Linton si era accesa una scintilla, debole riflesso del volto incantevole di Cathy! Erano pieni di stupida ammirazione! Lei è così immensamente superiore a loro e a chiunque sulla terra, non è vero, Nelly?»            «Chissà quali conseguenze avrà questa storia; peggiori, temo, di quel che ti aspetti!» gli risposi, coprendolo e spegnendo il lume. «Tu sei incorreggibile, Heathcliff, e il signor Hindley dovrà ricorrere a mezzi estremi; vedrai se non sarà così!» Purtroppo le mie parole si avverarono più di quanto avrei desiderato. Quell'avventura sfortunata rese Earnshaw furioso. Il signor Linton, per accomodare le cose, l'indomani venne a farci visita, e fece una tale predica al giovane padrone sul modo con cui governava la famiglia che costui si sentì in obbligo di guardarsi attorno sul serio.            Heathcliff non fu battu to, ma fu avvertito che, alla prima parola che avesse rivolta a Caterina, sarebbe stato mandato via, e al suo ritorno la signora Earnshaw ebbe cura di trattare la cognata con severità, ma con buona grazia, perchè aveva capito che con la forza non avrebbe ottenuto un bel nulla.            
VII    (torna all'indice)               Cathy rimase a Thrushcross Grange cinque settimane: fino a Natale. In quel frattempo il piede le era guarito perfettamente, e anche i suoi modi erano migliorati. La padrona si recava spesso a trovarla ed aveva iniziato il suo piano di riforma, cercando di risvegliare la dignità della ragazza, adulandola e abbigliandola elegantemente cose alle quali lei mostrava di essere molto sensibile; così che, invece di vederci piombare in casa una piccola selvaggia, disperata, senza cappello in testa, che tutta trafelata ci si sarebbe buttata addosso per stringerci tutti insieme tra le braccia, ecco smontare da un bel cavallino nero una personcina piena di dignità, con i riccioli bruni sfuggenti dall'ala piumata di un cappello di castoro, e con un lungo mantello di panno che doveva rialzare con ambe le mani per poter fare la sua entrata. Hindley la sollevò da cavallo, esclamando con gioia: «Ma come, Cathy, sei una vera bellezza! Non ti avrei quasi riconosciuta, ora sei proprio una signora! Isabella Linton non può reggere il confronto, non trovi, Francesca?» «Isabella non è favorita dalla natura come lei,» gli rispose la moglie, «ma lei deve badare a non ridiventare la selvaggia di prima! Elena, aiutate la signorina, e tu non muoverti, cara, o metterai fuori di posto i tuoi riccioli: lascia che ti sciolga i nastri del cappello.»            Io le tolsi il mantello, ed eccola tutta risplendente in un ricco costume di seta scozzese, calzoni bianchi e scarpette di vernice, e, mentre le brillavano gli occhi di gioia nel vedere i cani accostarsi a lei a gran salti per farle festa, non osava quasi toccarli nel timore che le si sfregassero contro la splendida veste. Mi baciò con molto garbo, perchè, infarinata com'ero per aver preparato il dolce di Natale, non sarebbe stato il caso di stringermi in un abbraccio; poi si guardò intorno in cerca di Heathcliff. Il signore e la signora Earnshaw assistettero al loro incontro, pieni di ansia, pensando che da quell'indizio sarebbero stati in grado di giudicare, in parte almeno, su quali basi avrebbero potuto fondare le loro speranze di riuscire a separare i due amici.            Dapprima Heathcliff fu introvabile. Se era trascurato e selvatico prima dell'assenza di Caterina, in quel periodo di tempo lo era diventato dieci volte di più. Nessuno, se non io, gli avrebbe usato la finezza di dirgli che era un ragazzo sudicio, e di ordinargli di lavarsi almeno una volta la settimana; si sa che i bambini della sua età non amano molto l'acqua e il sapone. Perciò, senza parlare dei suoi abiti che avevano fatto tre mesi di servizio nel fango e nella polvere, e dei fitti capelli arruffati, la superficie del suo viso e delle mani era luttuosamente velata. Egli aveva, dunque, ben ragione di nascondersi dietro la credenza nel vedere entrare in casa una donzella tanto leggiadra e splendente invece di quella di prima, la propria copia conforme tutta scarmigliata e sudicia, come si aspettava.            «Non c'è Heathcliff?» ella domandò, togliendosi i guanti e mostrando le mani diventate meravigliosamente bianche, a non far nulla, e a star sempre chiusa in casa.            «Heathcliff, puoi venire avanti,» gridò il signor Hindley, godendo di quella sconfitta, e tutto soddisfatto per la certezza dell'orrido ceffo che si sarebbe presentato. «Puoi venire ad augurare il benvenuto alla signorina Caterina, come gli altri servi!»            Cathy, non appena ebbe scorto l'amico nel suo nascondiglio, corse ad abbracciarlo, e in un secondo gli scoccò sette o otto baci sulle guance, ma poi si fermò, si tirò indietro e scoppiò in una gran risata, esclamando: «Ma come sei nero! e come sei imbronciato! e... e... come mi sembri buffo e truce. Sarà perchè sono abituata a Edgardo e Isabella Linton... Ebbene, Heathcliff, mi hai dimenticata?»            Non per nulla lei aveva fatto tale domanda: la vergogna e l'orgoglio stendevano una nube ancor più scura sul volto di lui, e lo facevano restar immobile.            «Dalle la mano, Heathcliff,» disse il signor Earnshaw con condiscendenza, «una volta tanto è permesso.»            «Non gliela do,» rispose il ragazzo, ritrovando finalmente la parola; «non voglio rimanere qui per esser deriso; non lo sopporterò mai!»            Ed egli sarebbe fuggito da quel cerchio, se la signorina Cathy non l'avesse riafferrato.            «Non avevo l'intenzione di ridere di te,» disse; «ma non sono stata capace di trattenermi; Heathcliff, dammi almeno la mano! Perchè sei così imbronciato? Mi sei sembrato strano, ecco tutto! Se ti lavi il viso, e ti spazzoli i capelli, tutto andrà bene: ma sei tanto sudicio!»            Ella guardò attentamente quelle dita nere che teneva tra le sue, e anche il suo abito, dubitando che avesse potuto guadagnare qualcosa dal contatto con quello di lui.            «Non dovevi toccarmi!» egli replicò, seguendo quello sguardo e liberando la mano con uno strattone. «Io starò sudicio quanto mi pare e piace; e amo esserlo, e voglio esserlo.»            Detto questo si precipitò fuori dalla stanza, con gran divertimento del padrone e della padrona, ma con non lieve pena di Caterina che non poteva capire come le sue osservazioni avessero potuto provocare un simile scatto di cattivo umore.            Dopo aver fatto da cameriera alla nuova venuta, e aver messo i dolci nel forno e aver rallegrato la casa e la cucina con una bella fiammata, quale si addice alla vigilia di Natale, mi disposi a sedermi per divertirmi da sola a cantare degli inni, indifferente alle osservazioni di Giuseppe che considerava quei miei canti di letizia nient'altro che canzonette. Il noioso si era ritirato nella sua camera a pregare in disparte, mentre il signore e la signora Earnshaw cercavano di accattivarsi l'attenzione della signorina, mostrandole una quantità di bei ninnoli colorati che avevano comperato perchè lei ne facesse dono ai piccoli Linton, in segno di gratitudine per le gentilezze ricevute. Li avevano invitati a passare l'indomani a Wuthering Heights, e l'invito era stato accettato, ma a una condizione: la signora Linton pregava che i suoi diletti figlioli fossero tenuti lontani da quel «cattivo ragazzo che bestemmiava».            Intanto io ero rimasta sola. Mi deliziavo al ricco profumo delle spezie nel forno, e ammiravo gli utensili di cucina che splendevano, e l'orologio a pendolo, lustrato e decorato con l'agrifoglio, i boccali d'argento disposti su un vassoio, pronti per essere riempiti di birra drogata e calda per la cena, e soprattutto l'immacolata pulizia di quanto era particolarmente oggetto delle mie cure: il pavimento, ben sfregato e scopato. Rivolsi dentro di me un meritato applauso a ogni oggetto, e poi mi tornò in mente che il vecchio Earnshaw soleva venire quando tutto era in ordine, e mi chiamava ragazza d'oro e mi faceva scivolare uno scellino nella mano come strenna natalizia; e da queste cose mi trovai a pensare all'affetto che lui aveva per Heathcliff, e al suo timore che, quando la morte lo avrebbe preso, il ragazzo potesse venir trascurato; e naturalmente mi posi a considerare la condizione del poveraccio, e la mia voglia di cantare si mutò in pianto. Ebbi subito l'idea, però, che ci sarebbe stato maggior senso nel cercare di rimediare a qualcuna delle sue disgrazie, che nel versare inutilmente fiumi di lacrime. Mi alzai e andai a cercarlo nella corte. Non era lontano; lo trovai nella stalla, occupato a lisciare il lucido mantello del suo nuovo cavallino e a governare gli altri animali, come era solito fare.            «Su, lesto, Heathcliff!» gli dissi, «la cucina è così gaia, e Giuseppe non è dabbasso; spicciati e lascia che ti vesta per bene prima che la signorina Caterina venga, e allora potrete stare insieme, seduti al fuoco, che sarà tutto a vostra disposizione, e potrete fare una lunga chiacchierata fino all'ora di coricarvi.»            Egli non abbandonò la sua occupazione, non volse nemmeno il capo verso di me.            «Ma non vieni dunque?» gli dissi ancora. «Deve essere quasi pronto un dolcetto per ciascuno, e ci vorrà una buona mezz'ora per vestirti!»            Aspettai cinque minuti, ma, non ottenendo risposta, lo lasciai. Caterina cenò con il fratello e la cognata; Giuseppe e io ci riunimmo per un pasto poco amichevole, condito di rimproveri da una parte, d'indifferenza dall'altra. Il vecchio lasciò tutta la notte il suo dolce e il suo formaggio sulla tavola per i folletti. Egli trovò modo di continuare a lavorare fino alle nove e poi si ritirò muto e solenne in camera sua. Cathy rimase alzata fin tardi, avendo un mondo di cose da ordinare per il ricevimento dei suoi nuovi amici; una volta venne in cucina per parlare al suo compagno di giochi d'un tempo, ma lui non c'era, così restò soltanto per domandare che cosa avesse, poi se ne tornò via. Il mattino seguente Heathcliff si alzò presto, ed essendo giorno di festa, uscì nella landa, portando con sè il malumore, e non riapparve fin che la famiglia non si fu assentata per recarsi alla chiesa. Il digiuno e la riflessione parvero averlo condotto a migliori propositi; per un poco egli mi stette d'attorno, poi, quand'ebbe raccolto tutto il suo coraggio, esclamò ad un tratto:            «Nelly, rendimi presentabile, voglio diventar buono.»            «È più che tempo, Heathcliff!» dissi. «Hai dato un gran dolore a Caterina. Scommetto che le dispiace di essere ritornata a casa. Si direbbe che tu abbia invidia perchè è più accarezzata di te.»            L'idea che si potesse provare invidia per Caterina non gli entrava in testa, ma quella di averle dato un dolore gli riuscì invece molto chiara.            «L'ha detto lei che era addolorata?» domandò con aria molto seria.            «Ha pianto, quando le ho detto che te ne eri andato via anche stamani.»            «Ebbene, io ho pianto ieri sera,» egli replicò, «e avevo più ragione di piangere di lei.»            «Sì; tu avevi ragione di andare a letto con il cuore pieno d'orgoglio e con lo stomaco vuoto,» dissi. «La gente orgogliosa crea a se stessa tristi affanni; ma, se ti vergogni della tua irascibilità, le devi chiedere scusa, bada, quando rientrerà. Devi andare da lei e chiederle di baciarla, e dire... lo sai meglio di me, quel che dovrai dirle; ma fallo col cuore e non come se tu pensassi che il suo bell'abito l'ha convertita in una estranea per te. E ora, benchè io abbia il pranzo da preparare, ruberò un po' di tempo per metterti così bene in ordine, che Edgardo Linton vicino a te sembrerà solo un bamboccio come, del resto, è. Tu sei più giovane, eppure scommetto che sei più alto di lui e hai le spalle il doppio più larghe; potresti buttarlo a terra in un batter d'occhio; non ti senti capace di farlo?»            «Ma Nelly, se lo buttassi a terra venti volte non sarebbe meno bello, e non sarei più bello io. Vorrei avere i capelli biondi e la carnagione bianca e vestire e comportarmi bene come lui, e avere la probabilità di diventare ricco come lo sarà lui un giorno.»            «E chiamare la mamma per ogni minima cosa,» soggiunsi io, «e tremare come una foglia se un contadinello alza il pugno contro di te, e startene in casa tutto un giorno per un po' di pioggia. Oh, Heathcliff! che poco spirito dimostri di avere! Vieni davanti allo specchio e ti farò veder io quello che dovresti desiderare. Vedi quelle rughe tra gli occhi e quelle folte sopracciglia che invece di alzarsi ad arco si abbassano nel centro, e quel paio di demoni neri così profondamente nascosti che non ardiscono spalancare le finestre ma stanno in agguato dietro ad esse, mandando lampi come due spie di Satana? Cerca di imparare a spianare quelle rughe ostinate, e ad alzare le ciglia con franchezza; e cerca di cambiare quei demoni in due angeli fiduciosi e innocenti che non sospettino nè dubitino di nulla e che vedano sempre amici ovunque non siano sicuri di trovare nemici. Non avere l'espressione d'un cagnaccio maligno che sa di meritarsi le pedate che riceve, ma che pure odia il mondo intero, compreso chi gli tira i calci.»            «In altre parole devo augurarmi di avere i grandi occhi azzurri di Edgardo Linton e la sua fronte liscia,» mi rispose. «Me lo auguro, ma non mi serve ad averli.»            «Un cuore buono ti darà un bel volto, caro ragazzo, anche se tu fossi realmente brutto, ed un cuore cattivo può rendere peggio che brutto anche il volto più bello. E ora che abbiamo finito di lavarci e di pettinarci, e di rammaricarci, dimmi se non ti credi piuttosto bello. Te lo dirò io! Potresti benissimo essere un principe travestito, e chissà mai che tuo padre non sia stato imperatore della Cina, e tua madre una regina indiana, capaci di comperare con la rendita di una settimana Wuthering Heights e Thrushcross Grange tutt'in una volta? E tu sei stato rapito da marinai cattivi e da loro portato in Inghilterra. Fossi io al tuo posto, mi farei idee grandiose della mia nascita, e il pensiero del mio passato mi darebbe coraggio e dignità per sopportare le angherie di un piccolo proprietario di campagna.»            Così continuai a chiacchierare per un pezzo ed il viso di Heathcliff andava man mano perdendo quello scuro cipiglio, e, rasserenandosi, diventava piacevole; ma a un tratto la nostra conversazione fu interrotta da un rumore di ruote risuonanti sulla strada e poi nel cortile. Heathcliff corse alla finestra e io alla porta proprio in tempo per vedere i due Linton scendere dalla carrozza di famiglia, soffocati da mantelli e pellicce, e gli Earnshaw smontare da cavallo, poichè spesso andavano alla chiesa a cavallo. Caterina prese per mano i ragazzi e li fece entrare in casa, ove sedettero presso il fuoco, che subito ravvivò i loro pallidi visi.            Io insistetti presso il mio compagno perchè s'affrettasse a scendere, e si mostrasse allegro e disinvolto, e lui mi ubbidì di buona voglia; ma sfortuna volle che, mentre stava per aprire la porta della cucina, Hindley l'aprisse pure dal di dentro: s'incontrarono, e il padrone, irritato nel vederlo tutto in ordine e allegro, o forse smanioso di mantenere la sua promessa fatta alla signora Linton, lo respinse immediatamente, e ordinò a Giuseppe con tono aspro «che badasse a non lasciarlo entrare, e lo chiudesse in solaio fin dopo il pranzo. Quello lì,» aggiunse poi, «caccerebbe le dita nelle torte e ruberebbe la frutta se lo si lasciasse un minuto cogli altri!»            «Nossignore, vi sbagliate!» non potei fare a meno di replicare, «lui non toccherebbe niente! e penso che abbia diritto alla sua parte di leccornie quanto noi!»            «Riceverà la sua parte dalla mia mano se lo colgo dabbasso prima di sera!» gridò Hindley. «Vattene, vagabondo! Che? ti metti a fare il damerino? Aspetta che ti prenda per quei tuoi eleganti riccioli e vedrai se non te li farò diventare più lunghi!»            «Sono già abbastanza lunghi,» disse il signorino Linton, facendo capolino dalla porta; «mi meraviglio che non gli diano il mal di capo. Pare la criniera di un puledro che gli cada sugli occhi.»            Si arrischiò a fare tale osservazione senza alcuna intenzione di offendere; ma la natura violenta di Heathcliff non lo disponeva a sopportare quel che poteva sembrare un'impertinenza e tanto meno da chi sembrava già odiare come un rivale. Afferrata una salsiera che conteneva un giulebbe di mele calde (la prima cosa che gli capitò tra le mani), la scaraventò in faccia a quell'intruso, che subito prese a strillare facendo accorrere Caterina e Isabella. Il signor Earnshaw acciuffò immediatamente il colpevole, e lo portò dritto in camera sua ove, senza dubbio, gli somministrò una ben ruvida medicina per calmargli quell'accesso di passione; quando riapparve era rosso in viso e senza respiro. Io, intanto, con un tovagliolo e con un certo disprezzo avevo fregato il muso ad Edgardo, dichiarandogli che la lezione gli stava bene, così avrebbe imparato a immischiarsi nei fatti altrui. Sua sorella cominciò a piangere e voleva andar a casa, e Caterina se ne stava tutta confusa, vergognandosi di tutti.            «Non dovevi parlargli!» disse con accento di rimprovero al signorino Linton. «Era di cattivo umore; e ora ecco che hai guastata la visita; lui sarà picchiato e ciò mi è insopportabile. Non potrò mangiare a pranzo. Oh, perchè gli hai parlato, Edgardo?»            «Io non gli ho parlato,» disse il ragazzo tra i singhiozzi, sfuggendomi dalle mani, e terminando di pulirsi con il suo fazzoletto di cambrì. «Ho promesso alla mamma che non gli avrei detto una parola, e non gliel'ho detta.»            «Bene, non piangere,» gli rispose Caterina sdegnosamente, «non ti hanno ammazzato! Non farne un male peggiore; viene mio fratello, sta' quieto; e tu sta' zitta Isabella! Qualcuno ha forse fatto male a te?»            «Eccomi, eccomi, ragazzi! ai vostri posti!» gridò Hindley, entrando rumorosamente. «Quel bruto di un ragazzo mi ha fatto riscaldare. La prossima volta, mio caro signor Edgardo, fatti giustizia con le tue mani, vedrai che ti farà venire appetito!»            La piccola compagnia riacquistò la serenità alla vista della tavola splendente. I ragazzi dopo la loro passeggiata in carrozza avevano fame, e si consolarono facilmente, poichè infine non gli era accaduto nulla di grave. Il signor Earnshaw distribuiva porzioni generose, e la padrona teneva tutti allegri con la sua vivace conversazione. Io stavo dietro la sua sedia, ed ero addolorata di vedere che Caterina, con gli occhi asciutti e con un'aria indifferente, cominciava a tagliare l'ala di un'oca che aveva davanti a sè. «Una ragazza senza sentimento,» pensai tra me; «con che leggerezza mette da parte i dispiaceri del suo vecchio compagno di gioco! Non mi sarei mai immaginata che fosse così egoista!» Ella si portò un boccone alla bocca e poi lo rimise sul piatto: il viso le si fece rosso, e lacrime e lacrime le sgorgarono dagli occhi rigandole le guance. Lasciò scivolare la forchetta sul pavimento e, rapida, si chinò sotto la tovaglia, per nascondere la propria emozione. Non la chiamai più insensibile, perchè m'accorsi in che purgatorio avesse vissuto tutto quel giorno, ansiosa di trovarsi sola, o di poter andare da Heathcliff che era stato rinchiuso in solaio dal padrone, come scoprii, quando volli fargli avere di nascosto una porzione del pranzo.            La sera si ballò. Cathy pregò perchè Heathcliff fosse lasciato libero, poichè Isabella Linton non aveva un cavaliere; le sue suppliche furono vane, e io fui incaricata di sostituire il ballerino mancante. Ogni tristezza passò nell'eccitamento della danza, e il nostro divertimento crebbe con l'arrivo della banda di Gimmerton, composta di quindici suonatori: una tromba, un trombone, clarinetti, bassi, corni francesi, e un violone, senza contare i cantanti. Essi fanno ogni Natale il giro delle famiglie più rispettabili e ricevono un contributo, e noi stimavamo una fortuna di primo ordine il poterli avere. Dopo che ebbero cantato i soliti inni, chiedemmo romanze e balli; la signora Earnshaw amava la musica e fu accontentata.            Caterina l'amava molto pure lei, ma disse che le sembrava più dolce udita dall'alto della scala, e salì al buio; io la seguii. La porta di sotto era stata chiusa, e la nostra assenza non fu notata essendoci molta gente. La ragazza non s'arrestò in cima alla scala, ma salì oltre, sino al granaio ove Heathcliff era stato rinchiuso, e lo chiamò. Per un poco quello rifiutò ostinatamente di rispondere; ma ella insistette, e finalmente lo persuase a comunicare con lei attraverso l'assito. Lasciai che quei poverini conversassero indisturbati, finchè non pensai che le canzoni stessero per finire, e che i cantanti avrebbero preso dei rinfreschi: allora soltanto salii anch'io per la scala del solaio, per avvertirli. Invece di trovar Cathy di fuori, ne udii la voce dall'interno del granaio. Come una piccola scimmia era passata dall'abbaino di un solaio all'abbaino dell'altro, strisciando lungo il tetto, e fu solo con la massima difficoltà che la persuasi a uscire. Heathcliff uscì con lei e lei che insistette perchè lo conducessi con me in cucina, dato il mio compagno di servizio si era recato da un vicino per essere lontano dal suono della nostra «salmodia del diavolo» come gli era piaciuto di chiamarla. Dissi che non amavo affatto aiutarli nei loro intrighi, ma che, poichè il prigioniero non aveva ancora rotto il digiuno dal pranzo del giorno prima, per quella volta avrei chiuso un occhio, se fosse riuscito a farla al signor Hindley. Egli scese, e io gli misi uno sgabello vicino al fuoco e gli offrii una quantità di buone cose, ma non si sentiva bene, e non potè mangiar molto, e tutti i miei tentativi per distrarlo riuscirono inutili. Appoggiati i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle mani, egli se ne stava raccolto in muta meditazione. Quando gli chiesi quale fosse il soggetto dei suoi pensieri, mi rispose con molta serietà:            «Sto cercando di stabilire in che modo potrò ripagare Hindley. Non m'importa quanto dovrò aspettare, purchè ci riesca alla fine; spero che non morirà prima che ci sia riuscito.»            «Che vergogna, Heathcliff!» gli dissi. «È Dio che deve punire i cattivi; noi dobbiamo imparare a perdonare.»            «No, Dio non avrebbe la soddisfazione che avrò io,» replicò, «vorrei soltanto trovare il modo migliore. Lasciami solo, e farò il mio piano; sinchè penso a questo, non sento la mia pena.»            «Ma, signor Lockwood, dimenticavo che queste storie non vi possono divertire, non so come abbia potuto sognarmi di continuare a chiacchierare in tal modo, lasciando che la vostra farinata si raffreddasse, e facendovi cascar dal sonno! Avrei potuto narrarvi la storia di Heathcliff, e tutto quello che vi può interessare con una mezza dozzina di parole al più.»            Così interrompendosi, la governante si alzò da sedere, e mise da parte il suo lavoro; ma io non mi sentivo nessuna voglia di muovermi dal focolare e non avevo affatto sonno.            «Sedetevi, signora Dean,» le dissi, «restate un'altra mezz'ora; avete fatto benissimo a narrarmi la storia con tutti i suoi particolari; è proprio il modo che piace a me, e dovreste terminarla nello stesso stile. I personaggi che avete nominato mi interessano quasi tutti moltissimo.»            «Stanno per battere le undici all'orologio, signore.»            «Non importa, non sono abituato a coricarmi prima delle ore piccole; alla una o alle due basta per chi non si alza prima delle dieci.»            «Non dovreste stare a letto fino alle dieci. Le ore migliori sono già bell'e passate! Una persona che per le dieci del mattino non ha fatto metà del lavoro della giornata, corre il rischio di non fare l'altra metà.»            «Sia pure, signora Dean, ma tornate a sedervi; perchè ho intenzione di prolungare la mia notte fino al pomeriggio di domani. Per lo meno prevedo un ostinato raffreddore.»            «Spero di no, signore. Bene, permettetemi di saltare tre anni; in tale periodo la signora Hearnshaw...»            «No, no, non permetto nulla di simile! Voi non sapete dunque quello che si prova quando si è soli e davanti a voi sulla stuoia c'è la gatta, occupata a leccare i suoi piccoli, e voi l'osservate così minuziosamente che, se le accade di trascurare un'orecchia, vi sentite andare su tutte le furie?»            «Mi pare sia uno stato di terribile pigrizia.»            «Al contrario, è uno stato di fastidiosissima attività, ed è quello in cui mi trovo io in questo momento; perciò vogliate continuare la storia non saltando nulla. M'accorgo che la gente di queste parti acquista valore in confronto della gente di città, come il ragno di prigione in contronto del ragno di casa, eppure questa maggior attrazione non è dovuta interamente alla condizione dello spettatore. Le persone di qui prendono la vita più sul serio, e cioè vivono più di se stesse, e meno delle cose esteriori, frivole, mutevoli, superficiali.»            «Oh, ma anche qui siamo come in qualsiasi altro luogo, una volta che ci abbiate conosciuti,» osservò la signora Dean un po' confusa dal mio discorso.            «Scusatemi,» risposi, «ma voi, mia buona amica, siete una prova evidente dell'errore della vostra asserzione. Fatta eccezione di qualche provincialismo di lieve importanza, voi non avete nessuno dei modi che io sono abituato a considerare come particolari alla vostra classe. Sono sicuro che avete pensato molto più di quanto faccia la generalità dei domestici. Voi siete stata obbligata a coltivare le vostre facoltà riflessive, per mancanza di occasioni di dissipare la vostra vita in piccole futilità.»            La signora Dean rise.            «Non v'è dubbio che io mi considero persona posata e ragionevole,» ella rispose, «non precisamente perchè vivo tra queste colline, e vedo sempre le stesse facce e gli stessi avvenimenti da un principio d'anno a un altro, ma perchè ho dovuto sottostare ad una disciplina severa, che mi ha insegnato la saggezza: e poi ho anche letto più di quello che vi immaginiate, signor Lockwood. Voi non potreste aprire nessun libro di questa biblioteca, che io non abbia fatto passare e dal quale io non abbia cavato qualche cosa, eccettuate quelle file di libri greci, latini e francesi; quelli so solo distinguerli gli uni dagli altri; non potreste aspettarvi di più dalla figlia di un pover'uomo. Tuttavia, se devo continuare la mia storia in modo particolareggiato, sarà meglio che tiri avanti, e, invece di saltare tre anni, mi accontenterò di passare all'estate successiva, l'estate del 1778, che è quanto dire circa ventitrè anni or sono.»             VIII    (torna all'indice)               Il mattino di una bella giornata di giugno nacque il bel bambino che fu il mio primo baliatico, l'ultimo dell'antico ceppo degli Earnshaw. Eravamo occupati a fare il fieno in un campo lontano, quando la ragazzina che generalmente ci portava la colazione, giunse un'ora prima del solito, correndo attraverso il prato, su per il sentiero, e chiamandomi per nome.            «Oh, che bambino!» gridava, ansante. «È il più bel bambino che sia mai venuto al mondo! Ma il dottore dice che la signora deve morire, che già da mesi era ammalata di consunzione. Lo ha detto al signor Hindley; non c'è più nulla che possa salvarla, e morirà prima che sia giunto l'inverno! Nelly, dovete venire subito a casa. Toccherà a voi allevarlo e nutrirlo con zucchero e latte e averne cura giorno e notte. Come vorrei essere al vostro posto, perchè, quando non ci sarà più la padrona, il bambino sarà tutto vostro.»            «Ma la signora sta dunque molto male?» domandai buttando il rastrello da una parte, e legandomi il cappello.            «Credo di sì; eppure dimostra coraggio e parla del bambino come se pensasse di vivere sempre e di poterlo vedere diventar grande. È fuori di sè dalla gioia, è una tal bellezza! Se fossi lei, non morrei di sicuro; guarirei soltanto al vederlo, a onta di quel che dice Kenneth! Non so che cosa gli avrei fatto! La signora Archer ha portato giù il cherubino al padrone e il viso di lui cominciava a illuminarsi di gioia, quando ecco quel vecchio brontolone farsi avanti e dire: «Earnshaw, è una benedizione che vostra moglie sia stata risparmiata perchè vi desse questo figlio! Quando è arrivata tra noi ho subito avuto la convinzione che non avremmo potuto conservarla a lungo, e ora, vi devo dire, che l'inverno metterà fine alla sua esistenza. Non preoccupatevene oltre misura, e non state a dolervene troppo. È inevitabile. Avreste potuto pensarci di più prima di scegliervi una ragazza così delicata!»            «E il padrone, che cosa ha risposto?» le domandai.            «Credo che abbia bestemmiato: ma io non gli ho badato punto; volevo riuscire a vedere il piccolo!» e riprese a descriverlo con rapimento. Io, non meno impaziente di lei, corsi a casa, per estasiarmene a mia volta, benchè fossi molto triste per Hindley. Egli aveva posto nel suo cuore solo per due idoli: la moglie e se stesso. Amava ambedue in sommo grado; ma per la moglie aveva un'autentica adorazione e non riuscivo a figurarmi come avrebbe potuto sopportarne la perdita.            Quando giungemmo a Wuthering Heights, egli se ne stava sulla porta e, nel passargli accanto per entrare, gli chiesi: «Come sta il bambino?»            «Sa già quasi correre, Nelly!» rispose, assumendo un'aria allegra.            «E la padrona?» mi arrischiai a domandare. «Il dottore dice che...»            «Al diavolo il dottore!» interruppe arrossendo. «Francesca va benissimo; fra una settimana starà perfettamente bene. Andate di sopra? Allora ditele che, se promette di non parlare, salirò subito da lei. L'ho lasciata perchè non voleva saperne di star zitta; invece deve star zitta; ditele che il signor Kenneth ha raccomandato che se ne rimanga tranquilla.»            Comunicai tale messaggio alla signora Earnshaw; ella sembrava allegra e mi rispose ridendo:            «Io non gli ho detto neppure una parola, e lui è uscito due volte piangendo. Bene, ditegli che prometto di non parlare, ma questo non m'impedisce di ridere di lui.»            Povera anima! Fino a una settimana dalla sua morte, quella sua spensieratezza non le venne mai meno, e suo marito persistette ostinatamente, anzi con ira, ad affermare che andava migliorando ogni giorno. Quando Kenneth l'avvertì che al punto in cui era giunta la malattia i rimedi erano inutili e che non occorreva che lui continuasse ad addossarsi spese per le visite, Hindley rispose:            «So che non occorre più che vi disturbiate, dottore, ora sta bene, e può fare senza le vostre cure. Non è mai stata ammalata di petto; si trattava di una febbre, ed è passata. Ha il polso calmo quanto il mio, e le guance fresche.»            Disse le stesse parole anche alla moglie che sembrò credergli: ma una notte, mentre gli si appoggiava alla spalla, nell'atto di dirgli che sperava di potersi alzare l'indomani, fu assalita da un accesso di tosse, non molto forte; lui la sollevò nelle sue braccia; lei gli mise le sue intorno al collo, il suo viso mutò tutto: era spirata.            Come aveva preannunciato quella ragazzina, il piccolo Hareton mi fu affidato interamente. Il signor Earnshaw, purchè lo vedesse sano e non lo sentisse mai piangere, era soddisfatto. Ma per quanto lo riguardava personalmente diventò un disperato: il suo dolore era di quelli senza lamento. Non pianse nè pregò: maledì e sfidò, esecrando Dio e gli uomini, abbandonandosi alla dissipazione più assoluta. I domestici non vollero sopportare più a lungo la sua tirannia e la sua malvagità, e soltanto Giuseppe e io rimanemmo. Non avevo il coraggio di abbandonare il bambino e inoltre essendo, come già sapete, sorella di latte di Hindley, ero pronta a scusare la sua condotta più di quanto avrebbe fatto un estraneo. Giuseppe rimase per maltrattare tutti, fittavoli e contadini, perchè era sua vocazione vivere dove ci fosse da condannare il male.            «La cattiva condotta e la cattiva compagnia del padrone non erano certo un buon esempio per Caterina e per Heathcliff, e il modo in cui veniva trattato il ragazzo sarebbe bastato a fare di un santo un demonio. E, in verità, in quel tempo pareva che egli fosse invaso da qualcosa di diabolico. Godeva di essere testimonio della degradazione di Hindley ormai al di là di ogni redenzione; e la sua caparbia e la sua ferocia diventavano ogni giorno più evidenti. Non mi è quasi possibile dirvi che casa infernale fosse la nostra. Il curato troncò le sue visite, e infine nessuna persona appena rispettabile venne più da noi; forse la sola eccezione erano le visite di Edgardo Linton alla signorina Cathy. A quindici anni ella era la regina dei dintorni, e non aveva la sua pari: si era fatta una creatura superba e prepotente. Confesso che, da quando non era più una bambina, non riscuoteva più la mia simpatia, e spesso eccitavo la sua collera, cercando di umiliarla per tutta quella sua arroganza. Però ella non mi manifestò mai una vera avversione; era meravigliosamente tenace nei suoi antichi affetti; perfino Heathcliff riuscì a mantenere inalterato il suo predominio sul cuore di lei, e il giovane Linton, con tutta la sua superiorità, non trovò facile produrle una impressione altrettanto profonda. Egli fu l'ultimo mio padrone, quel ritratto che sta sopra il camino è il suo. Anche il ritratto di sua moglie era appeso alla stessa parete, ma è stato tolto, altrimenti avreste potuto farvi un'idea della ragazza. Distinguete qualche cosa in questo di Linton?»            La signora Dean alzò il lume, e io scorsi un volto dai lineamenti dolci, assai somigliante alla giovane signora veduta alle Heights, ma più pensoso, e dall'espressione più amabile. Era veramente un bel ritratto! I capelli lunghi e chiari erano leggermente ricciuti sulle tempie; gli occhi erano grandi e severi, la persona quasi troppo aggraziata: non mi stupii che Caterina Earnshaw avesse potuto dimenticare il suo primo amico per un tale personaggio. Invece mi stupì molto che una mente di certo non inferiore a quell'aspetto, si fosse lasciata sedurre da una Caterina Earnshaw quale me la figuravo io.            «Proprio un bel ritratto,» dissi alla governante. «Gli assomigliava?»            «Sì,» ella rispose; «ma, quando si animava, era più bello; questa era la sua espressione solita; abitualmente gli mancava un po' di vivacità di spirito.»            Caterina, dopo le cinque settimane trascorse dai Linton, aveva sempre mantenuta viva la relazione con loro, e, non essendo provocata a mostrare il lato rozzo del suo temperamento, perchè si sarebbe vergognata di apparire sgarbata con chi le usava tante cortesie, si era conquistata l'ammirazione di Isabella e il cuore e l'anima del fratello di costei; cose che l'insuperbirono fin dal principio perchè molto ambiziosa, e che la spinsero ad assumere un carattere ambiguo, senza che veramente avesse l'intenzione di ingannare nessuno. Quando udiva chiamare Heathcliff «volgare villano», e «peggiore di un bruto», badava bene di non comportarsi come lui, ma a casa non si sentiva affatto inclinata a usare modi gentili, che sarebbero stati senza dubbio derisi, nè a frenare la sua natura violenta, dal momento che non ne avrebbe ottenuto credito, nè lode.            Il signor Edgardo raramente si faceva abbastanza coraggio da visitare Wuthering Heights liberamente. Aveva terrore della reputazione di Earnshaw, ed evitava di incontrarlo; nonostante questo era sempre ricevuto con tutta la cortesia di cui eravamo capaci; il padrone stesso evitava di offenderlo, sapendo perchè veniva, e, se non si sentiva di poter mostrarsi affabile, si teneva lontano. Credo piuttosto che la sua presenza non fosse desiderata proprio da Caterina; ella non era affettata e non faceva mai la coquette, ma era evidentemente contrariata che i suoi due amici si trovassero insieme. Poichè accadeva che, quando Heathcliff in presenza di Linton mostrava di disprezzarlo, Caterina non poteva essere della stessa opinione, come lo era, invece, quando Edgardo era assente; e così, quando Linton mostrava disgusto e avversione per Heathcliff ella non osava prendere tali sentimenti con indifferenza, come se un affronto al suo compagno di giochi fosse di nessuna importanza per lei. Quante volte risi delle incertezze e dei dispiaceri che lei cercava invano di nascondere al mio scherno. Ciò può sembrare una cattiveria da parte mia, ma, davanti al suo orgoglio, era impossibile compassionarla nelle sue disgrazie, finchè un qualche castigo non l'avesse resa più umile. Finalmente, ella si decise a farmi la sua confessione, e ad aver fiducia in me; non vi era altra persona di cui si fosse potuta fare una consigliera.            Un pomeriggio il signor Hindley si assentò ed Heathcliff pensò di valersi di tale occasione per concedersi una vacanza. Aveva allora sedici anni, credo, e senza essere brutto di lineamenti nè deficiente d'intelletto, suscitava tuttavia una certa repulsione, cosa di cui non v'è traccia nel suo aspetto attuale. Innanzi tutto non aveva ricavato alcun beneficio dall'educazione ricevuta nei primi anni della sua fanciullezza, e il lavoro continuo e faticoso al quale era stato tanto presto sottoposto, aveva distrutto quella curiosità, naturale in lui, che lo spingeva alla ricerca di cognizioni, e ogni amore per i libri e per il sapere. Quel senso di superiorità instillatogli nell'animo dalla predilezione del vecchio Earnshaw si era andato spegnendo. Cercò a lungo di mantenersi alla pari con Caterina negli studi, ma alla fine dovette rinunciare a quell'ambizione con doloroso, sebbene segreto rimpianto. Vi rinunciò anzi completamente, e non fu più possibile ottenere da lui che facesse qualche sforzo per rialzarsi, quando capì che era inevitabilmente condannato a piombare al disotto del grado che prima aveva tenuto. Allora il suo aspetto si mise presto d'accordo con l'abbrutimento intellettuale; ostentò un portamento dimesso, e un contegno volgare; la sua naturale disposizione alla riservatezza si mutò in un'esasperata insocievolezza, quasi da idiota, e, apparentemente, sembrò trovare un piacere maligno a suscitare avversione piuttosto che stima nei suoi pochi conoscenti.            Egli e Caterina erano ancora assidui compagni durante le ore di riposo, ma lui aveva smesso di esprimerle con parole il suo amore, e sfuggiva con rabbioso sospetto le carezze di lei, come se fosse stato consapevole che tutte quelle dimostrazioni d'affetto non davano alcun intimo piacere a chi gliele prodigava. Quella volta di cui vi parlavo, egli entrò in casa per annunciare la sua intenzione di rimanersene in ozio. Io stavo aiutando la signorina Cathy ad accomodarsi l'abito. Lungi dall'immaginare che Heathcliff sarebbe stato preso da una simile fantasia, ella era riuscita, non so con quale mezzo, a informare Edgardo dell'assenza di Hindley, e stava preparandosi per riceverlo.            «Cathy, sei occupata questo pomeriggio?» le domandò Heathcliff. «Vai da qualcuno?»            «No, piove,» rispose lei.            «Allora perchè ti sei messa quell'abito di seta? Non viene nessuno, spero.»            «Nessuno che io sappia,» balbettò la signorina. «Ma tu ora dovresti essere nei campi, Heathcliff; è gia passata un'ora dal pranzo e credevo che fossi già andato via.»            «Succede troppo di rado che Hindley ci liberi della sua maledetta presenza!» riprese il ragazzo, «per oggi non lavoro più, voglio restare con te.»            «Oh ma Giuseppe lo dirà,» ribattè lei. «Faresti meglio ad andartene.»            «Giuseppe sta caricando calce in fondo alla Rupe di Penniston; non tornerà prima di sera e non saprà nulla.»            Così dicendo si diresse pigramente verso il focolare ove sedette. Caterina riflettè per un istante, con le ciglia corrugate - occorreva preparare il terreno a quell'arrivo. - «Isabella e Edgardo Linton hanno parlato di farci visita questo pomeriggio,» ella disse dopo un minuto di silenzio. «Siccome piove, non li aspetto quasi; ma potrebbero venire, e, se vengono, tu corri il rischio di essere poi sgridato per nulla.»            «Fa' dire da Elena che sei occupata, Cathy,» egli insistette; «scacciarmi per quei miserabili sciocchi amici tuoi! Alle volte sono quasi sul punto di lagnarmi, perchè loro... ma, non voglio...»            «Perchè loro... che cosa?» gridò Caterina guardandolo tutta turbata. «Oh Nelly!» esclamò capricciosamente, togliendosi con una mossa brusca dalle mie mani, «mi hai disfatto i ricci! Così basta, ora lasciami. Di che cosa, di', saresti sul punto di lagnarti, Heathcliff?»            «Di nulla, ma guarda quel calendario appeso a quella parete,» disse indicando un foglio chiuso in una cornice presso la finestra; «le croci sono per le sere che hai passato coi Linton, i punti per quelle passate con me. Vedi, ho marcato ogni giorno.»            «Sì, molto scioccamente; come se ciò dovesse importarmi,» rispose Caterina con arroganza. «E a che scopo hai fatto questo?»            «Per mostrarti che a me, invece, importa moltissimo,» disse Heathcliff.            «Pretenderesti che io rimanga sempre con te?» domandò, allora, Caterina, e s'irritava sempre più. «Che vantaggio ne ho? Di che cosa discorri? Potresti essere muto o un bebè, per quello che mi racconti per interessarmi, o per quello che fai per divertirmi!»            «Non mi hai mai detto prima d'ora che parlo troppo poco, e che la mia compagnia ti dispiace, Cathy!» esclamò lui con grande agitazione.            «Non è affatto una compagnia, quando non si sa nulla e non si dice nulla,» mormorò lei a mezza voce.            Il suo compagno si alzò ma non ebbe tempo di esprimere i propri sentimenti più oltre, perchè in quell'istante si sentirono risuonare sul selciato gli zoccoli di un cavallo, e il giovane Linton, dopo aver battuto leggermente alla porta, entrò quasi subito, con il viso raggiante di piacere per quella chiamata inaspettata. Senza dubbio Caterina notò la differenza tra i suoi amici, mentre l'uno entrava e l'altro usciva. Il contrasto era simile a quello che ci colpisce passando da una campagna carbonifera, montagnosa a una bella fertile valle; e la voce e il saluto del nuovo arrivato contrastavano non meno dell'aspetto. Linton aveva un modo di parlare dolce e piano, e pronunciava le parole come voi, e cioè in modo meno aspro di quello che usiamo nel nostro linguaggio, con una cadenza armoniosa.            «Non sono venuto troppo presto, vero?» disse, rivolgendo uno sguardo a me. Io mi ero messa ad asciugare un vassoio, e a riordinare i cassetti della credenza.            «No,» rispose Caterina. «Che stai facendo Nelly?»            «Il mio lavoro, signorina,» risposi. (Il signor Hindley mi aveva dato ordine di fare la parte di terzo incomodo durante qualsiasi visita particolare di Linton.)            Ella mi si avvicinò e bisbigliò con dispetto: «Togliti di qui, tu e i tuoi cenci; quando ci sono visite in casa, i servi non si danno a fregare, e a ripulire la stanza ove si riceve.»            «È una buona occasione, poichè il padrone è via,» risposi a voce alta. «Lui non può sopportare di sentirmi muovere per le mie faccende in sua presenza. Sono certa che il signor Edgardo mi scuserà.»            «Anch'io non posso soffrire che tu ti metta a strofinare in presenza mia!» esclamò la ragazza imperiosamente, non lasciando al suo ospite il tempo di parlare: non era ancora riuscita a riacquistare la calma dopo il piccolo scontro con Heathcliff.            «Ne sono spiacente, signorina Caterina,» fu la mia risposta, e continuai imperterrita nelle mie occupazioni.            Ella, credendo che Edgardo non potesse vedere, mi strappò dispettosamente il cencio dalle mani, e mi diede un pizzicotto rabbioso e prolungato al braccio.            Vi ho detto che non l'amavo, e che di tanto in tanto mi prendevo il gusto di mortificarla per la sua vanità; oltre a ciò, quella volta mi aveva fatto veramente molto male, così scattai in piedi e gridai: «Oh, signorina, che brutto scherzo è questo! Non avete diritto di pizzicarmi e non intendo sopportare una cosa simile.»            «Non ti ho toccata, bugiarda che sei!» gridò Caterina con le dita che certo le bruciavano dalla voglia di ripetere quell'atto, e con le orecchie rosse dalla collera. Non aveva abbastanza forza per nascondere la rabbia che le faceva salire le fiamme al viso.            «Che cosa è questo allora?» replicai io mostrando il livido per confonderla.            Ella pestò i piedi; rimase un attimo indecisa e poi spinta irresistibilmente dal suo carattere furioso, mi dette uno schiaffo: fu un colpo così secco, che mi fece lacrimare ambo gli occhi.            «Caterina! Amore! Caterina!» esclamò Linton, intervenendo, molto turbato dalla doppia colpa del suo idolo: una menzogna, e un atto di violenza.            «Vattene, Elena,» ripetè lei tutta tremante.            Il piccolo Hareton che mi seguiva ovunque, vedendomi, cominciò a piangere pure lui e tra i singhiozzi gridava contro «quella cattiva zia Caterina», attirando in tal modo l'ira di costei sul suo povero capo. Caterina infatti lo afferrò per le spalle e si diede a scuoterlo finchè il povero piccino si fece livido, e Edgardo istintivamente per liberare il bambino le prese con forza le mani. In un attimo Caterina ne svincolò una, e l'attonito giovanotto se la sentì applicare sulle sue guance e in modo tale da non poterlo prendere per uno scherzo. Si ritrasse costernato. Io presi Hareton tra le braccia e mi avviai con lui verso la cucina, lasciando la porta di comunicazione aperta, troppo curiosa di vedere come avrebbero aggiustate le cose tra loro. L'ospite insultato si diresse al posto ove aveva messo il cappello, pallido e con le labbra tremanti.            «Bene,» dissi tra me. «Sei avvertito, ed ora vattene! E chiamati fortunato che ti si sia dato modo di farti un'idea del suo bel caratterino.»            «Dove vai?», domandò Caterina, dirigendosi verso la porta.            Egli con una mossa rapida si portò di fianco e cercò di passare.            «Non devi andare!» esclamò lei energicamente.            «Devo andarmene, e rne ne andrò,» rispose Linton con accento contenuto.            «No, ribattè lei, afferrando la maniglia dell'uscio; «non ancora, Edgardo Linton: siedi; non mi lascerai in questo stato. Sarei infelice tutta la notte, e non voglio esserlo per te!»            «Posso, forse, rimanere dopo che mi hai dato uno schiaffo?» chiese Linton. Caterina rimase muta. «Ho avuto paura e vergogna di te,» proseguì lui; «qui non metterò più piede.»            Gli occhi di Caterina cominciarono a luccicare, le palpebre le sbattevano rapide.            «E hai detto deliberatamente una bugia,» egli disse.            «Non l'ho detta!» gridò lei, riprendendo la parola. «Non ho fatto nulla deliberatamente. Bene, va', usami il piacere di andartene! Così potrò piangere, e piangerò finchè starò male.»            Ella si lasciò cadere su una sedia e si mise a piangere sul serio. Edgardo perseverò nella risoluzione presa finchè non giunse alla corte, lì si fermò indeciso, così pensai di incoraggiarlo io.            «La signorina è terribilmente prepotente, signore,» gridai dalla finestra. «È cattiva come tutti i ragazzi viziati; meglio per voi ritornarvene a casa, o quella sarà capace di star male soltanto per il gusto di metterci tutti sossopra.»            Quel ragazzo dal cuore tenero lanciò un'occhiata alla finestra; ma aveva la forza di partirsene, come un gatto ha la forza di lasciare un topo mezzo ucciso o un uccello mezzo divorato. Ahimè, pensai, non c'è modo di salvarlo; è predestinato, e s'affretta verso il suo destino. E così fu: a un tratto si girò e corse di nuovo in casa, chiudendosi la porta alle spalle; e, quando poco dopo entrai per avvertirli che Earnshaw era rientrato ubriaco pazzo, pronto a mettere a soqquadro tutta la casa, noi compresi (cosa a lui abituale quand'era in quello stato), vidi che la lite li aveva portati ad una più grande intimità, aveva rotto gli argini della timidezza giovanile, e li aveva resi capaci di abbandonare i modi dell'amicizia, per dichiararsi innamorati.            La notizia dell'arrivo del signor Hindley fece ritornare speditamente Linton presso il suo cavallo e Caterina in camera sua. Io andai a nascondere il piccolo Hareton, e a togliere le cartucce dal fucile del padrone, perchè costui nel suo eccitamento insano si divertiva a sparare mettendo in pericolo l'esistenza di chiunque lo provocasse o solo attirasse eccessivamente la sua attenzione, e io prendevo appunto la buona precauzione di scaricargli l'arme, perchè, se fosse arrivato a tali estremi, il male riuscisse minore.             IX    (torna all'indice