IL SEME INQUIETO
di Anthony Burgess
Traduzione di Roldano Romanelli
Prefazione di Anthony Burgess
Con un saggio di Paul Fussell
Titolo originale: The Wanting Seed
© the Estate of Anthony Burgess © 2002 by Fanucci Editore
Il titolo originale del romanzo deriva dal ritornello della canzone popolare 'The Wanton Seed' (Il seme turbolento), raccolta da James Reeves in The Everlasting Circle.
Prefazione
di Anthony Burgess
Questo romanzo apparve nell'autunno del 1962 preceduto, nella primavera dello stesso anno, da Un'arancia a orologeria, altro mio lavoro di narrativa d'anticipazione. Un'arancia a orologeria scaturiva dalla mia sgomenta osservazione del comportamento giovanile in una Inghilterra divenutami inusitata ed estranea. Nel 1954 avevo lasciato una Gran Bretagna afflitta dalle ristrettezze per condurre un'esistenza laboriosa ma moderatamente ben retribuita nella Federazione della Malaysia. Tornato nel 1959 in Gran Bretagna con l'intenzione di rimanervi definitivamente, mi sentii tremendamente straniero in una terra che ora sembrava florida, ossessionata dalla tivù e in preda a un crescente culto della giovinezza. Se l'argomento di Un'arancia a orologeria era la violenza giovanile, associata alla riaffermazione della necessità del male in un mondo ancora animato dal diritto alla scelta morale, il romanzo immediatamente successivo si occupava di un fenomeno del quale mi ero reso ben conto vivendo in Asia Orientale: l'esplosione demografica e la diminuzione delle riserve alimentari mondiali. Il seme inquieto cerca di mostrare che cosa potrebbe accadere all'Inghilterra nel malaugurato caso che fosse gremita di gente come l'India. Di fronte alla prospettiva della sovrappopolazione e dell'inedia potrebbe anche svilupparsi per reazione una cultura che favorisse l'infecondità incoraggiando l'omosessualità e ricompensando l'autocastrazione. Ma, mi suggeriva l'istinto, la natura potrebbe reagire all'infecondità umana con un proprio modello di sterilità, e la soluzione al problema della popolazione potrebbe rivelarsi più logica e spietata.
Se il motto teologico di Un'arancia a orologeria è «Dobbiamo essere liberi per poter compiere scelte morali», quello di Il seme inquieto è «Tutti hanno il diritto di nascere». Entrambe le affermazioni sono tradizionalmente cristiane o, per esser più precisi, cattoliche. La struttura della vicenda presentata nel romanzo è basata sul conflitto fra due forme di fede cristiana: l'agostiniana e la pelagiana. Sant'Agostino insegnò che l'uomo nasce nel peccato originale, mentre il monaco inglese Pelagio negò tale dottrina. Al pessimismo circa la natura umana contrappose un fulgido ottimismo. In termini politici potremmo parlare di conservatorismo opposto a liberalismo o, più tardi, socialismo. La storia di una società è ciclica, come insegna il mio protagonista Tristram Foxe alle sue sovraffollate classi in una scuola del futuro. Il conservatorismo pessimistico, che dall'uomo si aspetta il peggio, non sempre lo ottiene, e si modifica perciò in direzione di un socialismo ottimistico. Ma questa seconda ideologia, che dall'uomo si aspetta il meglio, rimane in genere delusa, e tale delusione si estrinseca in una maggior severità da parte dei governanti, che finisce per degenerare in vera e propria tirannia (molti regimi totalitari si sono autodefiniti socialisti). Però la tirannia sfocia a sua volta in rivoluzione e nel ripristino della filosofia agostiniana: Gosfase, Pelfase, Interfase, un valzer perpetuo, per usare le parole di Tristram Foxe, la ruota non si ferma mai.
Il romanzo si apre all'inizio di un'Interfase, col governo britannico che prende misure draconiane - adottando strumenti come la Polizia Demografica o Poldemo - per controllare le nascite e razionare il cibo. Ma la gente si ribella e risolve il grande problema dandosi al cannibalismo, giustificato tramite un ritorno al cristianesimo sacramentale: tant'è vero che l'antropofagia viene definita «ingestione eucaristica». Con il ristabilimento dell'ordine e il ripristino del sistema conservatore l'innovazione cannibalica viene razionalizzata e incorporata in un sistema bellico accuratamente organizzato: uomini contro donne, e i cadaveri, previo opportuno trattamento, finiscono nei supermercati sotto forma di proteine in scatola. Ma come Tristram Foxe intuisce, la cosa non può durare all'infinito. Tornerà il liberalismo, la vita umana sarà considerata sacra, e la Pelfase ridarà inizio al ciclo.
Vent'anni fa il romanzo venne considerato una commedia leggera seppure a tinte fosche, e nessuno prese sul serio l'ipotesi che il cannibalismo possa rappresentare la soluzione al sovraffollamento e alla fame nel mondo. Mi fu anche detto che la carne umana è comunque tossica. Poi venne il disastro aereo sulle Ande, in occasione del quale i più adatti scamparono alla morte mangiandosi i compagni. Sottoposti a visita medica, i sopravvissuti si rivelarono ben nutriti sebbene terribilmente costipati. Ritengo possibile che un giorno troveremo in vendita nei nostri negozi barattoli con l'etichetta Mench o Munch contenenti carne umana insaporita con nitrito di sodio, e che il corollario della massima «Tutti hanno il diritto di nascere» sarà «Nessuno ha il diritto di vivere». Aforisma giustificato a mio parere dalla circostanza che, una volta nati, non possiamo quantificare la vita in serbo per noi (c'è gente che muore a diciott'anni, altri campano fino a ottanta, e nessuno può gridare all'ingiustizia), e uomini e donne belligeranti in una guerra giusta (una guerra per garantirsi il cibo è indubbiamente giusta) non hanno motivo di lamentarsi per il fatto di morire durante il conflitto: dopotutto, il loro diritto a nascere è stato rispettato. Aborto e limitazione delle nascite sono terribili peccati entrambi; sparare a un nemico fittizio per riempire gli scaffali dei supermercati può verosimilmente esser considerato peccato veniale.
Il romanzo rivela, in svariati particolari minori, dì essere stato scritto oltre vent'anni fa. Il sistema monetario decimale non era ancora in uso (entrò in vigore nel 1971), e ritenevo che mai lo avremmo adottato. Mi dava gusto avere monete come i tosheroon e i sept e persino i tanner. Volendo, si può considerare un tanner come un quarantesimo di quid, denominazione gergale della sterlina. Alcuni degli stati africani cui faccio riferimento hanno cambiato nome, ma nulla vieta che nel lontano futuro possano ripensarci. Più che di futuro, comunque, si tratta di un'ipotetica proiezione, in un tempo impossibile, di certi sviluppi storici che considero sin troppo possibili. Il mondo di Un 'arancia a orologeria era collocato in un futuro concreto (1972 o giù di lì), ed è già divenuto passato. Non mi aspetto che il mondo de Il seme inquieto, nel suo estremo schematismo, possa mai divenire reale, ma credo che certe sue caratteristiche - l'esaltazione dell'omosessualità, per esempio - siano già con noi. Il titolo, come ho indicato in una nota preliminare al testo, deriva da un'antica canzone popolare inglese. Confonde wanting con wanton. Un'ambiguità che si addice al mio romanzo.
Anthony Burgess Monaco, maggio 1982
Parte Prima
1
Era il giorno precedente la notte in cui si abbatterono le pugnalate della delusione ufficiale.
Beatrice-Joanna Foxe manifestò tirando su col naso tutta l'afflizione di una madre in lutto mentre il cadaverino, nel suo feretro di plastica gialla, veniva consegnato ai due uomini del Ministero dell'Agricoltura (Sezione Recupero Fosforo). Erano gaie creature dal viso color carbone e con dentiere sfavillanti, e uno di loro canticchiava un motivetto divenuto ultimamente molto popolare. Gorgogliato spesso in televisione da snelli e flessuosi giovani di sesso incerto, suonava incongruo scaturendo dalla gola virile di quel basso profondo delle Indie occidentali. E anche macabro.
«O mio Fred adorabile
Da capo a piedi amabile
Così squisito sei
Che io ti mangerei.»
Il nome della minuscola salma non era stato Fred bensì Roger. Beatrice-Joanna singhiozzò, ma l'uomo continuò a cantare, inconsapevole della gravità del proprio compito, in preda all'indifferenza derivante dall'abitudine.
«Allora, eccoci qua» dichiarò cordialmente il dottor Acheson, un grasso castrato anglosassone. «Un altro mucchietto di pentossido di fosforo per la cara vecchia Madre Terra. Un mezzo chilo scarso, direi. Eppure, ogni manciatina serve.» Ora il cantante si era messo a fischiettare. Zufolando, annuì, mentre porgeva una ricevuta. «E se vuol fare un salto nel mio ufficio, signora Foxe,» sorrise il dottor Acheson «le darò la sua copia del certificato di morte. La porti al Ministero della Infecondità, e le pagheranno le condoglianze. In contanti.»
«Voglio soltanto» replicò lei tirando su col naso «riavere mio figlio.»
«Le passerà» sentenziò il dottor Acheson allegramente. «È così per tutte.» Osservò benevolmente i due neri che trasportavano la bara lungo il corridoio in direzione dell'ascensore. Ventuno piani più in basso li attendeva il loro furgone. «E pensi» soggiunse. «Pensi alla circostanza in termini nazionali, in termini globali. Una bocca in meno da sfamare. Un altro mezzo chilo di pentossido di fosforo per nutrire la terra. In un certo senso, vede, signora Foxe, lei riavrà suo figlio.» Le fece strada nel suo minuscolo ufficio. «Ah, signorina Herschhorn,» disse alla segretaria «il certificato di morte, per favore.» La signorina Herschhorn, una cino-teutonica, gracidò rapidamente i particolari nel proprio audiografo; da una fessura scaturì un cartellino a stampa; il dottor Acheson vi appose la sua firma scorrevolmente, con tratto femmineo. «Ecco fatto, signora Foxe» proclamò. «E cerchi di vedere la cosa in modo razionale.»
«Quel che vedo» ribatté lei in tono aspro «è che volendo avreste potuto salvarlo. Ma avete pensato che non ne valesse la pena. Un'altra bocca da sfamare, più utile allo Stato come fosforo. Oh, siete tutti così insensibili.» Ricominciò a piangere. La signorina Herschhorn, un'esile ragazza insignificante con due occhi da cane e capelli neri assolutamente lisci e flaccidi, rivolse una smorfia al dottor Acheson. Non v'è dubbio che fossero avvezzi a situazioni del genere.
«Versava in pessime condizioni» obiettò gentilmente il dottor Acheson. «Abbiamo fatto del nostro meglio, Sacripante se l'abbiamo fatto. Ma quel genere d'infiammazione meningea galoppa, creda a me, galoppa proprio. Oltretutto» rincarò in tono di biasimo «non ce lo ha portato con la dovuta sollecitudine.»
«Lo so, lo so. Mea culpa, dottore.» Il suo minuscolo fazzoletto era zuppo. «Eppure credo che avrebbe potuto essere salvato. Anche mio marito la pensa così. Ma non sembra che vi importi più nulla della vita umana. A nessuno di voi. Oh, povero bimbo mio.»
«Ce ne importa eccome della vita umana» rimbeccò severo il dottor Acheson. «Ci preoccupiamo della stabilità. Ci adoperiamo a far sì che la terra non venga invasa. Vigiliamo affinché ciascuno abbia abbastanza da mangiare. Io credo» continuò quindi in tono più indulgente «che lei dovrebbe tornarsene difilato a casa a riposare. Uscendo, presenti quel certificato in Farmacia e chieda loro di darle un paio di tranquillanti. Su, su, coraggio.» Le batté una mano sulla spalla. «Deve sforzarsi di essere ragionevole. Ingegnarsi a essere moderna. Una donna intelligente come lei. Lasci la maternità ai ceti inferiori, secondo natura. Il che oltretutto» sorrise «in ossequio alle vigenti leggi rientra ormai fra i suoi doveri. Ha usufruito della prescritta dose. Niente più maternità per lei. Cerchi di smettere di sentirsi materna.» Le batté di nuovo sulla spalla, e concludendo con una pacca risoluta dichiarò: «Ora, se vuole perdonarmi...»
«Mai» esclamò Beatrice-Joanna. «Non vi perdonerò mai, nessuno di voi.»
«Buon pomeriggio, signora Foxe.» La signorina Herschhorn aveva attivato un minuscolo fonoapparecchio; e quello andava declamando - nel tono maniacale di una voce sintetica - gli appuntamenti pomeridiani del dottor Acheson. Che con brusco dietrofront lasciò Beatrice-Joanna a fronteggiare un paio di pingui natiche. Questione chiusa: suo figlio si avviava a ridursi in pentossido di fosforo, e lei non era altro che una dannata scocciatrice piagnucolante. Uscì a testa alta nel corridoio, incamminandosi verso l'ascensore. Era un'avvenente donna di ventinove anni, avvenente alla vecchia maniera, una maniera non più consentita in una donna della sua classe. L'inelegante abito nero, dritto e senza giro di vita, non riusciva a dissimulare la dinamica opulenza dei suoi fianchi, e la magnifica curva del seno non poteva essere completamente appiattita dal corsetto che l'imprigionava. Portava i capelli color sidro, secondo la moda, lisci e con la frangetta; aveva il viso cosparso di semplice cipria bianca; non usava profumo, essendo il profumo riservato agli uomini. Ciononostante, e malgrado il naturale pallore dovuto all'afflizione, sembrava rifulgere e avvampare di salute e, sintomo oltremodo riprovevole, di una minaccia di fecondità. V'era qualcosa di atavico in Beatrice-Joanna: rabbrividì istintivamente alla vista di due radiologhe in camice bianco che, uscendo dal loro reparto in fondo al corridoio, si avviarono a passo lento verso l'ascensore sorridendosi teneramente, fissandosi negli occhi, tenendosi per mano a dita intrecciate. Inclinazioni del genere, al pari d'ogni altro comportamento che dirottasse il sesso dal proprio fine naturale, erano attualmente incoraggiate, e da un capo all'altro del paese spettacolari manifesti fatti affiggere dal Ministero della Infecondità mostravano, in ironici colori da nido d'infanzia, coppie abbracciate dell'uno o dell'altro sesso con la didascalia È sapiens essere Omo. L'Istituto Omosessuale teneva anche corsi serali.
Entrando in ascensore Beatrice-Joanna guardò con disgusto la coppia avvinghiarsi ridacchiando. Le due donne, entrambe di razza caucasica, erano tipicamente complementari: alla soffice gattina faceva riscontro il ranocchione tarchiato. Trattenendo a stento la nausea, Beatrice-Joanna volse le spalle al bacio. Al quindicesimo piano l'ascensore prese a bordo un vanesio giovanotto steatopigio, tutto azzimato in una giacca di buon taglio senza risvolti, attillati calzoni al polpaccio, camicia a fiori a collo tondo. Il nuovo venuto indirizzò alle due amanti una sferzante occhiata di avversione e mosse le spalle con fare stizzoso, reagendo con una smorfia altrettanto disgustata all'aspetto pienamente femminile di Beatrice-Joanna. Con rapidi tocchi esperti prese a truccarsi il viso, sorridendo leziosamente, mentre le labbra lambivano il rossetto, all'immagine che gli restituiva lo specchio dell'ascensore. Le amanti ridacchiarono di lui, o di Beatrice-Joanna. «Che mondo» pensò lei mentre scendevano. Tuttavia, meditò, rivolgendo di nascosto all'uomo uno sguardo più attento, forse si trattava solo di un'accorta facciata. Forse costui, come suo cognato Derek, il suo amante Derek, in pubblico era perennemente costretto a recitare una parte, poiché doveva la sua posizione, le sue possibilità di avanzamento, a quella sfacciata menzogna. Non poté comunque fare a meno di pensare, avendoci riflettuto spesso, che doveva esservi qualcosa di fondamentalmente malsano in un uomo anche solo capace di comportarsi in quel modo. Lei, ne era certa, non avrebbe mai saputo fingere, non avrebbe mai potuto compiere i sordidi gesti dell'amore invertito, neppure se ne fosse dipesa la sua vita. Il mondo era impazzito; come sarebbe andata a finire? Mentre l'ascensore giungeva a pianoterra Beatrice-Joanna si sistemò la borsetta sottobraccio, risollevò il capo e si preparò a tuffarsi coraggiosamente nel folle mondo esterno. Le porte della cabina rifiutarono chissà perché di aprirsi («Ma guarda un po'» si spazientì il raffinato culattone, scuotendole), e in quell'attimo di istintivo timore di rimanere intrappolata la sua fantasia morbosa trasformò l'abitacolo in una bara gialla piena di potenziale pentossido di fosforo. «Oh,» singhiozzò piano «povero piccino.»
«Ma guarda un po'.» Il giovane damerino, sfavillante di rossetto color ciclamino, ridacchiò alle sue lacrime. Le porte dell'ascensore si sbloccarono e si aprirono. Alla parete dell'atrio un manifesto esibiva una coppia di amici abbracciati. Ama il prossimo tuo, raccomandava la didascalia. Le amiche rivolsero a Beatrice-Joanna una risatina sciocca. «Andate al diavolo» imprecò lei asciugandosi gli occhi. «Andate al diavolo tutti quanti. Siete sconci, ecco cosa siete, sconci.» Il giovanotto si dimenò, sbuffò tutto il suo disprezzo, si allontanò ancheggiando. La lesbica batracica avviluppò l'amica in un abbraccio protettivo inchiodando su Beatrice-Joanna lo sguardo ostile. «Glielo do io lo sconcio» minacciò con voce rauca. «Le stropiccio il muso per terra, ecco cosa faccio.» «Oh, Freda,» miagolò l'altra adorante «quanto sei coraggiosa.»
2
Mentre Beatrice-Joanna scendeva, suo marito Tristram Foxe saliva. Si innalzava canticchiando verso il trentaduesimo piano della Quarta Divisione della Scuola Unitaria (Maschile) di Londra Sud (La Manica). Lo attendeva una Quinta Classe (Decimo Corso) di ben sessanta elementi cui doveva tenere una lezione di Storia Moderna. Sulla parete di fondo dell'ascensore, seminascosta dal corpaccione di Jordan, insegnante di Belle Arti, campeggiava un'aggiornatissima carta della Gran Bretagna in edizione scolastica. Interessante. La Grande Londra, delimitata dal mare a sud e a est, aveva fagocitato altre porzioni della Provincia Settentrionale e di quella Occidentale: il nuovo confine settentrionale era una linea che correva da Lowestoft a Birmingham; a ponente la demarcazione scendeva da Birmingham a Bournemouth. Si diceva che chiunque intendesse emigrare dalle Province alla Grande Londra non aveva alcun bisogno di traslocare; bastava semplicemente attendere. Le Province in quanto tali presentavano ancora le antiche suddivisioni in contee, ma grazie a esodi, immigrazioni e incroci, le antiche denominazioni nazionali di 'Galles' e 'Scozia' non possedevano più alcun significato preciso.
Beck, insegnante di matematica alle medie inferiori, stava dicendo a Jordan: «Dovrebbero eliminare l'uno o l'altro. Il compromesso, ecco qual è sempre stato il nostro guaio, il vizio liberale del compromesso. Sette sept fanno una ghinea, dieci tanner fanno una corona, otto tosheroon fanno una sterlina. Quei poveri disgraziatelli non sanno dove battere il capo. Non sopportiamo di gettar via nulla, questo è il nostro grande peccato nazionale...» Tristram scese, lasciando il vecchio e calvo Beck a proseguire nella sua invettiva. Avanzò risoluto sino all'aula della Quinta Classe, entrò, fece occhiolino ai suoi ragazzi. La luce di maggio splendeva dalla finestra lato mare sulle loro facce scialbe, sulle pareti disadorne. Diede inizio alla lezione.
«... Il progressivo inglobamento delle due principali ideologie politiche antagoniste entro concetti sostanzialmente teologico-mitici.» Tristram non era un buon insegnante. Andava troppo in fretta per i suoi alunni, utilizzava vocaboli che loro trovavano difficili da pronunziare, tendeva a masticare le parole. La scolaresca, obbediente, si affannava a trascrivere i suoi enunciati sui taccuini. «Il pelagianesimo» dichiarò «fu noto un tempo come eresia. Lo definirono addirittura Eresia Britannica. Qualcuno sa dirmi l'altro nome di Pelagio?»
«Morgan» rispose un brufoloso ragazzo di nome Morgan.
«Esatto. Entrambi i nomi significano 'uomo del mare'.» Il ragazzo alle spalle di Morgan fischiettò tra i denti una sorta di motivetto marinaresco, stuzzicando Morgan con manate sulla schiena. «Piantala» disse Morgan.
«Sì,» proseguì Tristram «Pelagio apparteneva alla razza stanziata un tempo nella Provincia Occidentale. Egli era quello che in passato, all'epoca delle religioni, si definiva un monaco. Un monaco.» Tristram si alzò impetuosamente dalla cattedra per vergare in giallo quella parola sul rivestimento in plastica azzurra della lavagna, come temendo che i suoi alunni non fossero in grado di compitarla. Poi tornò a sedere. «Negò la dottrina del peccato originale e sostenne che l'uomo è capace di conseguire da solo la salvezza.» I ragazzi parvero accogliere la rivelazione nella più assoluta indifferenza. «Per il momento lasciate perdere questa cosa qui» concesse Tristram in tono benevolo. «Quel che dovete tenere a mente è che tutto ciò suggerisce il concetto della perfettibilità umana. Ragion per cui nel pelagianesimo si vide il nucleo del liberalismo e dottrine derivate, in particolare socialismo e comunismo. Vado troppo svelto?»
«Sì, signore» eruppero sessanta voci in un coro sfrenato di latrati e squittii.
«Bene.» Tristram possedeva un viso mansueto, inespressivo come quello dei ragazzi, ravvivato da due occhi che luccicavano febbrili dietro le lenti a contatto; capelli riccioluti con qualcosa di negroide; lunule azzurre seminascoste dalle cuticole. Aveva trentacinque anni e faceva l'insegnante da quasi quattordici. Guadagnava poco più di duecento ghinee al mese ma sperava, in seguito alla morte di Newick, di essere promosso alla direzione del Dipartimento Studi Sociali. Ciò avrebbe significato un sostanzioso aumento di stipendio, che a sua volta si sarebbe tradotto in un appartamento più grande e in un miglior trampolino di lancio per il piccolo Roger. Ma Roger, ricordò, era morto. «Bene» ripeté, come un sergente istruttore dei giorni precedenti l'instaurazione della Pace Perpetua. «Agostino, d'altro canto, aveva insistito sull'innata peccaminosità umana e sulla necessità della redenzione tramite la grazia divina. Il che venne considerato alla base del conservatorismo e di altre convinzioni politiche lassiste e antiprogressiste.» Rivolse un gran sorriso alla classe. «Non vi sarà sfuggito che si tratta della tesi diametralmente opposta» disse in tono incoraggiante.
«L'intera questione è piuttosto semplice, davvero.»
«Io non ho capito, signore» tuonò un ragazzone spavaldo di nome Abney-Hastings.
«Be', vedi,» rispose affabilmente Tristram «i vecchi conservatori non si aspettavano nulla di buono dall'uomo. L'essere umano era considerato per sua natura avido, desideroso di sempre maggior possesso personale, una creatura individualista ed egocentrica ben poco interessata al progresso della collettività. Peccato ed egoismo sono in realtà sinonimi, signori. Non dimenticatelo.» Si protese avanti a mani giunte, facendo scivolare gli avambracci sulla gialla polvere di gesso che copriva la cattedra quale sabbia portata dal vento. «Come vi comportereste con una persona egoista?» domandò. «Ditemelo.»
«La strapazzerei un pochino» rispose un gran bel ragazzo di nome Ibrahim ibn Abdullah.
«No.» Tristram scosse il capo. «Nessun agostiniano farebbe una cosa del genere. Se da una persona ti aspetti il peggio, non potrai mai rimanerne deluso. Soltanto chi è deluso fa ricorso alla violenza. Il pessimista, che è un altro modo di definire l'agostiniano, trae una sorta di lugubre piacere dall'osservare a quali bassezze possa precipitare il comportamento umano. Più peccato vede, più trova conferma alla sua credenza nel peccato originale. Piace a tutti avere conferma delle proprie convinzioni più profonde: si tratta di una delle più persistenti soddisfazioni umane.» Tristram parve improvvisamente stufo di quella banale spiegazione. Osservò i suoi sessanta alunni, fila per fila, quasi in cerca del diversivo di una cattiva condotta; ma sedevano tutti tranquilli e attenti, buoni come angioletti, neanche fossero risoluti a confermare la tesi pelagiana. La microradio al polso di Tristram cicalò tre volte. La sollevò all'orecchio. Un ronzio simile alla voce della coscienza snocciolò insinuante: È pregato di presentarsi dal Preside al termine della lezione in corso. Bene. Ecco, ci siamo, si disse, questa è la volta buona. Presto si sarebbe insediato al posto del povero Newick, forse avrebbe persino riscosso gli arretrati. Si erse prontamente in tutta la sua statura artigliando con piglio avvocatesco le mani alla giacca nei punti in cui, ai tempi dei risvolti, ci sarebbero stati i risvolti. E riprese con rinnovato vigore.
«Al giorno d'oggi» dichiarò «non abbiamo partiti politici. L'antica dicotomia, ammettiamolo, esiste in noi stessi e non richiede alcuna ingenua proiezione in sette o fazioni. Noi siamo sia Dio sia Satana, seppur non contemporaneamente. Soltanto il signor Demodio può esserlo, e il signor Demodio, ovviamente, è un mero simbolo narrativo.» Tutti i ragazzi sorrisero. Piacevano a tutti Le avventure del signor Demodio nelle Cosmicomiche. Il signor Demodio era un grosso demiurgo buffo e grassoccio che, sufflaminandus come Shakespeare , disseminava vita indesiderata su tutta la Terra. Sua specialità era la sovrappopolazione. In nessuna delle sue avventure tuttavia, riusciva mai ad averla vinta: il signor Omo, il suo principale umano, lo teneva sempre sotto controllo. «La teologia presente nelle opposte dottrine del pelagianesimo e dell'agostinismo non possiede più alcuna validità. Se utilizziamo tali simboli mitici è perché si rivelano particolarmente adeguati alla nostra epoca, un'epoca sempre più basata sulla conoscenza percettiva, sulla comunicazione pittorica e pittografica. Pettman!» strillò Tristram con gioia improvvisa. «Stai mangiando qualcosa. Mangi in classe. È una cosa che non si fa, vero?»
«Non sto mangiando, signore» replicò Pettman. «Mi creda, signore.» Era un ragazzo di violaceo colorito dravidico con marcati lineamenti da pellerossa. «È questo dente, signore. Devo continuare a succhiarlo, signore, perché non mi faccia male, signore.»
«Un ragazzo della tua età non dovrebbe avere denti» obiettò Tristram. «I denti sono atavici.» Si interruppe. L'aveva detto spesso anche a Beatrice-Joanna, che era dotata di denti naturali particolarmente belli, sopra e sotto. I primi tempi del loro matrimonio si era divertita a mordicchiargli i lobi degli orecchi. «Smettila, tesoro. Ahi, cara, mi fai male.» E poi il piccolo Roger. Povero piccolo Roger. Sospirò, quindi proseguì la sua lezione.
3
Beatrice-Joanna decise che, nonostante i nervi a soqquadro e il martellare alla nuca, non voleva un tranquillante dalla Farmacia. Non voleva nient'altro dal Servizio Sanitario di Stato, grazie mille. Si riempì d'aria i polmoni quasi stesse per tuffarsi, quindi si fece strada tra la ressa di gente che si accalcava nel grande atrio dell'ospedale. Col suo miscuglio di pigmenti, indici cefalici, nasi e labbra, ricordava la colossale sala d'aspetto di un aeroporto internazionale. Si spinse fino alla scalinata e lì sostò un poco, abbeverandosi all'aria pulita della strada. L'epoca del trasporto privato era pressoché tramontata: soltanto furgoni di servizio, berline di rappresentanza e microbus arrancavano per la via stipata di pedoni. Sollevò lo sguardo. Edifici dagli innumerevoli piani si avventavano verso il cielo di maggio, celeste agapanto con un velo madreperlaceo. Variegato e spoglio. Altitudine pulsante d'azzurro e fulgente di bianco. Il corteo delle stagioni era un fenomeno perenne, un'eterna ricorrenza, il cerchio. Ma in questo mondo moderno il cerchio era divenuto emblema di stasi, di angustia planetaria, di prigione. Lassù, a un'altezza di almeno venti piani, sulla facciata dell'Istituto Demografico, dominava un cerchio a bassorilievo con una linea retta a esso tangente. Simboleggiava l'anelito alla soluzione del problema demografico: quella tangente, anziché protrarsi da infinito a infinito, eguagliava in lunghezza la circonferenza del cerchio. Stasi. Equilibrio fra popolazione mondiale e complessive risorse alimentari. La sua mente approvava, ma il suo corpo, il corpo di una madre in lutto, gridava no, no. Tutto ciò significava negare troppe cose; in nome della ragione, si bestemmiava contro la vita. Il respiro del mare le alitò sulla guancia sinistra. S'incamminò verso sud lungo la grande arteria londinese, ove la perentoria dignità di vertiginose strutture in muratura e metallo superbamente svettanti riscattava la volgarità d'insegne e richiami pubblicitari. Aureofulgente Nettaredisole. Stereotele Nazionale. Sinteghiotto. Procedeva controcorrente, fendendo la folla tutta diretta a nord. C'erano, osservò, più uniformi del solito: poliziotti e poliziotte in grigio... impacciati, molti di loro, come fossero reclute. Proseguì il cammino. Alla fine della strada, visione benefica, luccicava il mare. Era Brighton, il centro amministrativo di Londra, ammesso che un litorale potesse definirsi centro. Con tutta la sveltezza concessale dalla marea di folla migrante a nord, verso le fredde acque verdi, Beatrice-Joanna avanzò a grandi passi. La loro vista, da quell'angusta vertiginosa gola, era sempre una promessa di normalità, una prospettiva di libertà, ma giungere effettivamente in riva al mare causava sempre delusione. Ogni centinaio di metri sorgeva, proteso verso la Francia, un massiccio molo gravido di palazzi adibiti a uffici o alveari abitativi. Ciò nonostante il pulito respiro salmastro era lì ad accoglierla, e lei lo inalò avidamente. Covava l'istintiva persuasione che, se un Dio esisteva, dovesse aver dimora in mare. Il mare significava vita, sussurrasse o gridasse diceva sempre fecondità; quella voce non poteva venir mai completamente soffocata. Se almeno, pensò smaniosamente, il corpo del povero Roger avesse potuto esser gettato in quelle acque fameliche, trascinato via per venir rosicchiato dai pesci, invece di finire impassibilmente trasformato in sostanze chimiche e silenziosamente dato in pasto alla terra. Aveva la folle istintiva convinzione che la terra stesse morendo, che il mare sarebbe presto divenuto l'estremo depositario della vita. 'Immenso mare colmo d'ogni frenesia, pelle di pantera e clamide trafitta da mille e mille idoli di sole...' L'aveva letto da qualche parte, tradotto da una delle lingue europee suppletive. Il mare ebbro della sua stessa azzurra carne, un'idra che si mordeva la coda. «Mare» implorò con voce sommessa, essendo il lungomare affollato non meno della via che aveva appena lasciato. «Mare, aiutaci. Siamo ammalati, mare. Riportaci in salute, ridonaci la vita.»
«Prego?» fece un anglosassone anzianotto dritto come un fuso, rubicondo, chiazzato, dai baffi grigi; in un'epoca militarista lo si sarebbe preso all'istante per un soldato a riposo. «Diceva a me?»
«Mi scusi.» Arrossendo sotto la cipria bianco avorio, Beatrice-Joanna si allontanò in fretta, dirigendosi d'istinto a est. I suoi occhi vennero attratti in alto verso la gigantesca statua di bronzo che si ergeva spavalda, un miglio in aria, in cima al Palazzo del Governo: la figura di un uomo barbuto, classicamente abbigliato in toga, lo sguardo fiero rivolto al sole. Di notte veniva illuminato dai riflettori. Un punto di riferimento per le navi, l'uomo del mare, Pelagio. Ma Beatrice-Joanna ricordava che un tempo era stato Agostino. E si diceva che in altre epoche fosse stato il Re, il Primo Ministro, un barbuto chitarrista di gran fama, Eliot (un cantore della sterilità da lungo tempo scomparso), il Ministro della Piscicoltura, il capitano della squadra maschile di Sacro Giuoco dell'Hertfordshire, e - più spesso e in modo più convincente - il grande ignoto, l'affascinante Anonimo.
Accanto al Palazzo del Governo, spudoratamente fronteggiando il fecondo mare, s'innalzava il più tozzo e umile edificio di soli venticinque piani ospitante il Ministero della Infecondità, sopra il cui portico troneggiava l'inevitabile cerchio castamente baciato dalla sua tangente, oltre a un gran bassorilievo raffigurante un nudo personaggio asessuato intento a rompere delle uova. Beatrice-Joanna pensò che avrebbe anche potuto riscuotere le proprie (cinicamente cosiddette) condoglianze. Ciò le avrebbe fornito un motivo per entrare nell'edificio, un pretesto per gironzolare nell'atrio. Non era affatto da escludersi che potesse vederlo, all'uscita dal lavoro. Questa settimana, lo sapeva, lui prestava servizio nel turno A. Prima di attraversare il viale guardò le affaccendate moltitudini con occhi quasi nuovi, gli occhi forse del mare. Quello era il popolo britannico; anzi, a esser più precisi, quella era la gente che abitava le isole britanniche: predominavano eurasiatici, eurafricani, europolinesiani, la luce schietta fulgeva sui color prugna, color oro, persino color pulce; il di lei anglico incarnato di pesca, dissimulato con polvere bianca, diveniva sempre più raro. Le divisioni etniche non avevano più importanza; il mondo era ripartito in gruppi linguistici. Spettava forse a lei, pensò in un istante di quasi profetica perspicacia, e ai pochi indiscutibili anglosassoni come lei, restituire ragionevolezza e dignità a quel mondo imbastardito? La sua razza, le pareva di ricordare, lo aveva già fatto in passato.
4
«Una delle realizzazioni della razza anglosassone» dichiarò Tristram «fu il governo parlamentare, che finì per significare governo dei partiti. Più tardi, quando si scoprì che il lavoro del governo poteva essere condotto più speditamente senza il dibattito e senza l'opposizione che il governo dei partiti comportava, si cominciò a riconoscere la natura del ciclo.» Andò alla lavagna e disegnò col gesso giallo un grosso cerchio sgraziato. «Ecco,» disse, volgendo il capo per scrutare gli alunni, «il ciclo funziona così.» Tracciò tre archi. «Abbiamo una fase pelagiana. Poi abbiamo una fase intermedia.» Ispessì col gesso un arco, poi l'altro. «Questo ci porta a una fase agostiniana.» Ulteriore ispessimento, e il gesso si ritrovò al punto di partenza. «Pelfase, Interfase, Gosfase, Pelfase, Interfase, Gosfase, e così via, all'infinito. Una sorta di valzer perpetuo. Dobbiamo adesso considerare qual è la forza motrice che fa girare la ruota.» Fronteggiò la classe con espressione seria, battendo insieme i palmi per ripulirli dal gesso. «Innanzitutto rinfreschiamoci la memoria sul significato di pelagianesimo. Un governo che si trovi in fase pelagiana si affida alla convinzione che l'uomo è perfettibile, che la perfezione può essere raggiunta coi soli mezzi umani, e che il viaggio verso la perfezione segue una strada rettilinea. L'uomo vuole essere perfetto. Vuole essere buono. I cittadini di una comunità vogliono collaborare coi loro governanti, quindi non esiste alcuna vera esigenza di possedere strumenti di coercizione e sanzioni che li costringano a collaborare. Le leggi sono necessarie, naturalmente, poiché nessun singolo individuo, per quanto buono e disposto a collaborare, può avere dettagliata conoscenza dei complessivi bisogni della comunità. Le leggi indicano la strada verso uno schema emergente di perfezione sociale, fungono da guide. Stante però la tesi fondamentale che il cittadino desidera comportarsi come un buon animale sociale, non come una bestia egoista rintanata nel fitto della foresta, l'osservanza delle leggi viene data per scontata. Ragion per cui lo stato pelagiano non ritiene necessario istituire un complesso apparato punitivo. Se disobbedisci alla legge ti sarà detto di non rifarlo o al massimo verrai multato di un paio di corone. La tua mancanza di obbedienza non scaturisce dal peccato originale, non è parte essenziale della natura umana. È un semplice difetto, qualcosa di cui prima o poi ti spoglierai lungo il cammino verso la meta dell'umana perfezione. È chiaro?» Molti alunni annuirono, indifferenti al fatto di aver capito o meno. «Bene, ecco dunque che nella fase pelagiana, o Pelfase, il grande sogno liberale appare suscettibile di realizzarsi. Il peccaminoso impulso all'accaparramento è assente, gli istinti brutali sono tenuti sotto controllo razionale. Il capitalista privato, per esempio, incarnazione stessa della cupidigia, non trova posto nella società pelagiana. È perciò lo Stato a controllare i mezzi di produzione, lo Stato è l'unico padrone. Ma la volontà dello Stato è la volontà del cittadino, quindi il cittadino lavora per sé. Impossibile concepire una più felice forma di esistenza... Ricordate, tuttavia,» soggiunse Tristram, smorzando la voce in un drammatico monito «ricordate che le aspirazioni sono sempre un po' più avanti della realtà. Cos'è che distrugge il sogno? Che cosa lo distrugge, eh?» D'un tratto si diede a picchiare col pugno sulla cattedra, gridando in crescendo: «Delusione. Delusione. DELUSIONE.» Sorrise raggiante. «I governanti» riprese in tono misurato «si sentono delusi quando scoprono che gli uomini non sono affatto buoni come credevano loro. Cullatisi nel proprio sogno di perfezione, rimangono inorriditi allorché l'incanto si spezza e vedono la gente come è in realtà. Ritengono a quel punto indispensabile cercar di costringere i cittadini a essere buoni. Si ribadiscono le leggi, e un sistema di applicazione di tali leggi viene sommariamente e frettolosamente messo insieme. La delusione fa balenare una prospettiva di caos. Subentra l'irrazionalità, si fa strada il panico. Quando la ragione esce di scena, irrompe la bestia. Brutalità!» esclamò Tristram. Finalmente la classe si mostrava interessata. «Pestaggi. Polizia segreta. Tortura in sotterranei illuminati a giorno. Condanne senza processo. Unghie strappate con le pinze. Il supplizio della ruota. Il trattamento con l'acqua fredda. L'estirpazione degli occhi. Il plotone d'esecuzione nell'alba gelida. Tutto per via della delusione. L'Interfase.» Sorrise alla classe con estrema gentilezza. I suoi alunni erano impazienti di udir nominare altre brutalità. Sguardi luccicanti, occhi strabuzzati, bocche spalancate.
«Signore,» domandò Bellingham «che cos'è il trattamento con l'acqua fredda?»
5
Beatrice-Joanna, lasciandosi alle spalle la fredda distesa d'acqua dispensatrice di vita, entrò nella bocca beante del Ministero, una bocca che olezzava come se fosse stata accuratamente sciacquata col disinfettante. Si fece strada a spintoni sino a un ufficio che ostentava la scritta CONDOGLIANZE. Un gran numero di madri in lutto attendevano al banco, alcune - quelle che parlavano con gli accenti dell'irresponsabilità - vestite a festa come per una scampagnata, i certificati di morte stretti in pugno a mo' di passaporti per il paese dei balocchi. C'era un sentore stagnante di etilico da quattro soldi - il cosiddetto alc - e Beatrice-Joanna vide le pelli sgranate e gli occhi appannati d'inveterate trincatrici. Finiti i tempi che toccava impegnarsi il ferro da stiro; lo Stato perdonava l'infanticidio.
«S'è una specie che sufficato nei coperte. Solo tre settimane allora ciaveva lui ancora.»
«Tutto scottato, lo mio s'è. Tirata proprio in crapa la pignatta bollente.» Così dichiarando la donna sorrise con una sorta d'orgoglio, come se il bimbo avesse fatto qualcosa di geniale.
«Cascato fuori da finestra, m'è. Giocando, stava.»
«Torna comodo il baiocco.»
«Oh, sì, proprio così è.»
Una bella ragazza nigeriana ritirò a Beatrice-Joanna il certificato di morte e si diresse a una cassa centrale. «Dio la benedica, signorina» augurò una megera che all'aspetto pareva aver superato da lunga pezza l'età feconda. Ripiegò le banconote consegnatele dall'impiegata eurafricana. «Dio la benedica, signorina.» Contando maldestramente gli spiccioli, si allontanò tutta contenta con andatura dondolante. L'antiquata locuzione carpì un sorriso all'impiegata; Dio veniva ben poco nominato di quei tempi.
«Ecco qua, signora Foxe.» La bella nigeriana era tornata. «Sei ghinee e tre sept.» Non si prese la briga di chiedere per quali vie tale somma fosse giunta a BeatriceJoanna; che inesplicabilmente avvampando di vergogna, lesta lesta cacciò il denaro in borsa. Il quattrino da tre scellini chiamato sept le rifulse in triplice copia scivolandole nel portamonete... un regale terzetto di Carli Sesti beffardamente sorridenti tutti a mancina. Il Re e la Regina non erano soggetti alle medesime leggi riproduttive della gente comune: tre principesse erano rimaste uccise l'anno prima, tutte nello stesso disastro aereo; la successione andava assicurata.
Non fame più, ammoniva il manifesto. Beatrice-Joanna si sottrasse con rabbiosa determinazione alla mandria delle madri. Sostò nell'atrio, sentendosi disperatamente sola. Dipendenti biancovestiti si precipitarono, affaccendati e vispi come spermatozoi, nella Sezione Ricerche Anticoncezionali. Gli ascensori affrontavano, in salita e in discesa, i molti piani della Sezione Propaganda. Beatrice-Joanna attese. Uomini e mezzi-uomini l'attorniavano, ciangottando e squittendo. Poi vide, come aveva pensato potesse accadere a quell'ora precisa, suo cognato Derek, il suo clandestino amante Derek, che cartella sottobraccio discuteva animatamente in un barbagliar d'anelli con un vanesio collega, scandendo punto dopo punto nel dispiegarsi di dita balenanti.
Osservando quella magistrale imitazione di un tradizionale comportamento omosessuale (nei suoi aspetti secondari o sociali), Beatrice-Joanna non riuscì del tutto a reprimere lo spasmo di disprezzo che le trafisse i lombi. Udiva l'enfasi sbuffante della sua parlata; le movenze di lui fluivano con grazia di danzatore. Nessuno sapeva, nessuno tranne lei, che razza di satiro si acquattasse dietro l'esteriore effeminatezza. Egli era candidato, sostenevano in molti, a salire in alto assai nella gerarchia ministeriale. Se lo sapessero i suoi colleghi, rifletté Beatrice-Joanna cedendo a un istante di malignità, se venissero a saperlo i suoi superiori... Volendo avrebbe potuto rovinarlo. Ma ci sarebbe riuscita sul serio? Ovviamente no. Derek non era tipo da lasciarsi rovinare.
Rimase lì in attesa, mani conserte sul grembo. Derek Foxe disse arrivederci al collega («Proprio un ottimo suggerimento, caro. Te lo prometto, vedrai che domani la spuntiamo di sicuro.») somministrandogli tre lievi pacche sulla natica sinistra a mo' di malizioso commiato. Poi vide Beatrice-Joanna, scrutò all'intorno circospetto, e le si avvicinò. Il suo sguardo non lasciò trapelar nulla. «Ciao» disse, dimenandosi con garbo. «Novità?»
«È morto stamattina. Adesso è...» Indugiò, si fece forza. «... In mano al Ministero dell'Agricoltura.»
«Oh, cara.» Pronunziato in tono amorevole, da uomo a donna. Gettò di nuovo attorno uno sguardo furtivo, poi le sussurrò: «Meglio non farsi vedere assieme. Posso venire a trovarti?» Lei esitò, quindi annuì. «Oggi a che ora rincasa il mio caro fratello?» le domandò.
«Non prima delle sette.»
«Verrò. Bisogna che stia attento.» Sorrise sussiegoso a un collega di passaggio, un uomo con boccoli alla Disraeli. «Succedono cose strane» soggiunse. «Credo che mi sorveglino.»
«Ma tu stai sempre attento, no?» gli domandò, alzando di poco la voce. «Attento che più attento non si può, vero?»
«Su, non ti agitare» le bisbigliò. «Guarda» disse, lievemente inquieto. «Lo vedi quell'uomo là?»
«Quale uomo?» L'atrio ne traboccava.
«Quel piccoletto coi baffi. Lo vedi? È Loosley. Sono certo che mi tiene d'occhio.» Beatrice-Joanna individuò il tipo in questione: un ometto dall'aria tetra col polso all'orecchio come a controllare se gli funzionava l'orologio, ma in realtà all'ascolto della sua microradio, piantato in disparte ai margini della folla. «Corri subito a casa, cara» la esortò Derek Foxe. «Sarò da te fra un'ora.»
«Dillo» ingiunse Beatrice-Joanna. «Dillo, prima che me ne vada.»
«Ti amo» compitò lui col solo movimento delle labbra, come li separasse una finestra. Sconce parole da uomo a donna in quel regno dell'antiamore. Una smorfia gli stralunò la faccia neanche biascicasse allume.
6
«Ma l'Interfase» proseguì Tristram «naturalmente non può durare per sempre.» Contorse la faccia in una maschera stravolta. «Sgomento» disse. «I governanti rimangono sbigottiti dai propri eccessi. Si accorgono di aver pensato in termini eretici... la peccaminosità dell'uomo invece della sua innata bontà. Mitigano pertanto le sanzioni, e come risultato si ha il caos più assoluto. A questo punto, però, la delusione non può farsi ancor più profonda. La delusione non può ulteriormente frastornare lo stato inducendolo all'azione repressiva, e subentra una sorta di pessimismo filosofico. In altre parole, transitiamo nella fase agostiniana, la Gosfase. La prospettiva tradizionale presenta l'uomo come una creatura peccaminosa da cui non ci si può aspettare alcun bene. Una visione diversa, signori, una visione che, di nuovo, trascende la realtà. Si palesa infine che il comportamento sociale umano è sensibilmente migliore di quanto qualsivoglia pessimista agostiniano abbia diritto di attendersi, talché comincia a emergere una sorta di ottimismo. Vediamo quindi reinstaurarsi il pelagianesimo. Eccoci tornati alla Pelfase. La ruota ha eseguito un giro completo. Domande?» «Gli occhi con cosa li estirpano, signore?» pretese di sapere Billy Chan.
Scampanellarono le campanelle, rintronarono i gong, e una voce artificiale strillò dagli altoparlanti: «Cambiare, cambiare, tutti, cambiare tutti. Cinquanta secondi per cambiare. Inizia il conto alla rovescia. Cinquanta, quarantanove, quarantotto...» Tristram proferì un 'buon pomeriggio' reso inaudibile dal baccano e uscì in corridoio. I ragazzi si catapultarono a seguire lezioni di musica concreta, astrofisica, controllo del linguaggio. Il conto alla rovescia proseguiva cadenzato: «Trentanove, trentotto...» Tristram raggiunse un ascensore riservato al personale e pigiò il pulsante. Secondo l'indicatore luminoso la cabina stava già scendendo a razzo dall'ultimo piano (regnavano coi loro immensi finestroni le grandi aule di belle arti, lassù; e l'artistico professor Jordan era scattato dai blocchi di partenza fulmineo come sempre). 43-42-41-40, lampeggiò il contatore. «Diciannove, diciotto, diciassette...» Il ritmo eretico del conto alla rovescia era mutato in giambico. L'ascensore si fermò e Tristram vi entrò. Jordan stava parlando a Mowbray, un collega, di nuovi movimenti pittorici; nomi come Zvegintzoy, Abrahams, F.A. Cheel venivano snocciolati a raffica. «Assonanza plasmatica» declamò Jordan. In certe cose il mondo non era cambiato affatto. «Tre, due, uno, zero.» La voce si era interrotta, ma ciascun piano (18 - 17 - 16 - 15) emergente davanti agli occhi di Tristram mostrava ragazzi tuttora peregrinanti verso la nuova classe, e qualcuno se la pigliava pure comoda. La Pelfase. Nessuno cercava di far rispettare le regole. Il lavoro veniva svolto. Più o meno. 4 - 3 - 2 - 1. Pianoterra. Tristram uscì dall'ascensore.
7
Beatrice-Joanna entrò nell'ascensore dell'Edificio Spurgin in Rossiter Avenue. 1-23-4. Salì al quarantesimo piano ove l'attendeva il loro minuscolo appartamento, orbato di un figlio. Fra mezzora o giù di lì sarebbe sopravvenuto Derek, alla consolazione delle cui braccia disperatamente anelava. Tristram non era dunque in grado d'approvvigionarla di analogo genere di conforto? Non era la stessa cosa, proprio no. La carne possiede una logica particolare, tutta sua. Ricordava quanto fosse stato piacevole, un tempo, entusiasmante, estaticamente eccitante, sentirsi toccare da Tristram. Ma era finita da un pezzo... finita, per la precisione, poco dopo la nascita di Roger, come se l'unica funzione di Tristram fosse consistita nel metterlo al mondo. Amore? Pensava di amarlo ancora, Tristram. Era gentile, onesto, mite, generoso, premuroso, tranquillo, a volte spiritoso. Ma quello che amava lei era il Tristram salottiero, non il Tristram da letto. E Derek, lo amava? Prima di rispondere si concesse qualche istante. 26-27-28. Rifletté ch'era strano che possedessero la stessa carne. Ma quella di Tristram s'era ridotta a una carcassa; quella di suo fratello maggiore era fuoco e ghiaccio, frutto paradisiaco, indescrivibilmente deliziosa ed eccitante. Era innamorata di Derek, concluse, ma non credeva di volergli bene. 30-31-32. Voleva bene a Tristram, concluse, ma non ne era innamorata. Tanto, tanto tempo fa, una donna riusciva a pensare con (com'era in principio) i suoi istinti, (ora) i suoi nervi complicati, (e sempre) i suoi organi interni (nei secoli dei secoli) 39 - 40. (Amen).
Beatrice-Joanna girò impavidamente la chiave dell'appartamentino e varcò la soglia accolta dalla familiare fragranza di Anaphro (un deodorante per ambienti escogitato dai chimici del Ministero in cui lavorava il suo amante, immesso nell'intero casamento da un congegno sito nello scantinato) e dal ronzio del frigorifero. Pur non disponendo di concreti termini di paragone, ogni volta che faceva il suo ingresso rimaneva di bel nuovo sbalordita e sgomenta dall'esiguità dello spazio vitale (tipica della loro categoria di reddito): una garitta per camera da letto, una bara di cucina, un bagno che ti c'infilavi quasi come in un vestito. Bastavano due passi esatti a traversare il soggiorno, passi resi possibili solo dal fatto che tutto il mobilio se ne stava occultato nel soffitto e nelle pareti, pronto a esibirsi se necessario al tocco di un interruttore. Beatrice-Joanna ordinò la comparsa di una sedia, e una sgraziata spigolosa sedunità. sbucò fuori di malavoglia. Era stanca, vi sedette sospirando. Il Daily Newsdisc fulgeva ancora come un piatto sole nero sul mandrino a parete. Ne evocò la voce artificiale, asessuata, inespressiva. «Prosegue lo sciopero agli Stabilimenti Nazionali Sintelat. Sorde a ogni appello le maestranze si ostinano a disertare il posto di lavoro. Da parte dei capi della protesta nessuna disponibilità a scendere a compromessi circa la richiesta di aumento della paga base di una corona e tre tanner al giorno. In segno di solidarietà con gli scioperanti i portuali di Southampton rifiutano di movimentare il sintelat d'importazione.» Beatrice-Joanna spostò la puntina sul Canale Donna. Una stridula voce autenticamente femminile perorava con irresistibile entusiasmo l'ulteriore riduzione del profilo pettorale. Spense. I nervi le palpitavano ancora, la nuca seguitava imperterrita a martellarle. Spogliatasi fece il bagno nel catino definito vasca. Si asperse il corpo di semplice inodore cipria bianca e indossò una vestaglia intessuta con qualche nuova sintepoliammide a catena lunga. Raggiunto quindi il pannello murale prodigo di pulsanti e interruttori indusse un paio di bracci metallici a calare dolcemente un armadietto di plastica da una nicchia nel soffitto. Apertolo scrollò una boccetta marrone estorcendole due pastiglie. Le ingurgitò con l'aiuto di un bicchier d'acqua che cacciò, vuoto, in un foro parietale, da cui il recipiente intraprese un tragitto con destinazione la fornace annidata nel sottosuolo. Poi attese.
Derek tardava. Beatrice-Joanna divenne impaziente. Ancora le trepidavano i nervi come corde di una cetra, la pulsazione occipitale proseguiva ostinata. Cominciò ad avere premonizioni di morte, di rovina; costringendosi quindi al raziocinio com'entro una rigida estranea camicia di forza si disse che tali premonizioni erano in realtà postumi di eventi già trascorsi e irrevocabili. Assunse altre due pillole e condannò un altro bicchiere a una fiammeggiante atomizzazione. Poi, finalmente, qualcuno bussò alla porta.
8
Tristram bussò alla porta della segretaria del Preside, disse di chiamarsi Foxe e dichiarò che il Preside voleva vederlo. Pressione di pulsanti; lampeggiar di luci su architravi; Tristram fu invitato a entrare. «Avanti, Fratello Foxe!» esclamò Joscelyne. Era proprio lui, semmai, a ricordare una volpe , e certo non aveva nulla di francescano. Calvo, affetto da un tic, brillantemente laureato presso l'Università di Pasadena, proveniva da Sutton, West Virginia, e sebbene fosse troppo astutamente modesto per parlarne molto, era strettamente imparentato con l'Alto Commissario ai Territori Nordamericani. L'incarico di Preside, comunque, l'aveva ottenuto per puro merito. Oltreché in virtù di un'esistenza irreprensibilmente asessuata. «Si sieda, Fratello Foxe» lo esortò Joscelyne. «Si metta comodo. Prenda un caff.» Designò con gesto ospitale il piatto di caffeina in compresse poggiato sul registro. Tristram scosse il capo sorridendo. «Datti un sostegno quando più ne hai bisogno» declamò Joscelyne facendosene due. Quindi sedette alla scrivania. Pomeridiano chiarore marino rifulse sul naso lungo, sul grugno immusonito, sulla bocca larga e mobile, sul volto prematuramente scavato. «Ho ascoltato la sua lezione» rivelò accennando prima al quadro comandi sulla parete bianca, poi all'altoparlante che occhieggiava dal soffitto. «Crede che i ragazzi ne capiscano granché di quella roba?»
«Non è previsto che debbano acquisirne completa comprensione» rispose Tristram. «Giusto un'infarinatura sommaria, diciamo. Pur essendo nel programma non se ne fa mai oggetto d'esame.»
«Eh già, lo credo bene.» A Joscelyne la cosa interessava assai poco. Stropicciava un fascicolo foderato in grigio, quello di Tristram: FOXE, vide Tristram a rovescio sulla copertina. «Povero vecchio Newick» sospirò Joscelyne. «Gran brav'uomo. Ora è pentossido di fosforo in qualche angolo della Provincia Occidentale. Credo però che la sua anima sia sempre viva» dichiarò ambiguamente. Affrettandosi poi ad aggiungere: «Qui alla scuola, intendo.»
«Be', certo, si capisce. Qui alla scuola.»
«Dunque, veniamo a noi» incalzò Joscelyne. «Eravate lì tutti pronti a rimpiazzarlo. Oggi ho letto attentamente il suo fascicolo...» Eravate. Tristram inghiottì un groppo di sorpresa. Eravate, aveva detto, eravate. «... Proprio un bel malloppo. Lei qui ha svolto un ottimo lavoro, impossibile negarlo. Ed è il più anziano del Dipartimento. Quel ruolo le spettava senz'altro.» Il Preside si addossò allo schienale, pose i pollici punta contro punta, poi - mignolo, anulare, medio, indice - congiunse in sequenza le altre dita. Ottemperando nel frattempo al suo tic. «Si renderà certo conto» proseguì «che non spetta a me gestire i subentri. E compito del Consiglio. Io non posso far altro che raccomandare. Già, raccomandare. Ora lo so che sembra insensato, ma di questi tempi per garantirsi un posto non basta vantare titoli eccellenti. No. Non è questione di quante lauree uno ha in tasca o di quanto è in gamba a sbrigare le proprie mansioni quali che siano. La chiave è... usando il termine nell'accezione più ampia... il suo quadro familiare. Proprio così.»
«Ma la mia famiglia...» tentò di eccepire Tristram.
Joscelyne inalberò una mano fermatraffico. «Non mi riferisco alla valenza pubblica della sua famiglia» spiegò «bensì alla sua consistenza. Presente e passata.» Il tic gli contrasse la faccia. «E un problema di aritmetica, non di eugenetica o di condizione sociale. Lo so bene quanto lei, Fratello Foxe, che tutto ciò è assurdo. Ma così stanno le cose.» La sua mano destra spiccò il volo all'improvviso, si librò, quindi ricadde sulla scrivania con la pesantezza di un fermacarte. «La documentazione...» dichiarò, caricando il termine d'un nasale sussiego che lo fece suonare 'nocumentazione' «la documentazione in mio possesso rivela... la documentazione rivela... sì, ecco qua: rivela la sua appartenenza a una progenie di ben quattro elementi. Lei ha una sorella in Cina... lavora al Catasto Demografico Mondiale, giusto?... e un fratello, guarda un po', a Springfield, nell'Ohio. Conosco bene Springfield. Poi, naturalmente, c'è il nostro Derek Foxe, omo e in posizione di rilievo. Quanto a lei, Fratello Foxe, è sposato.
E ha un figlio.» Sollevò su Tristram uno sguardo mesto.
«Non più. È morto stamattina in ospedale» precisò Tristram mentre il labbro inferiore gli sporgeva tremulo.
«Morto, eh? Bene.» Condoglianze meramente pecuniarie al giorno d'oggi. «Era piccolo, vero? Molto piccolo. Ben poco P2O5 il suo contributo. Il fatto che sia morto, comunque, non cambia la situazione per quanto la riguarda.» Joscelyne giunse strette le mani come apprestandosi a scongiurare la circostanza della paternità di Tristram. «Una sola nascita per famiglia. Viva o morta. Singola, gemellare, trigemina. Non fa differenza. Intendiamoci, lei non ha infranto alcuna legge. Non ha commesso nulla che in teoria non avrebbe dovuto commettere. Le è consentito sposarsi, se lo desidera, e ha diritto a una nascita in famiglia... anche se, naturalmente, i migliori se ne astengono. Se ne astengono e basta.»
«Diavolo cane d'un mondo infame!» protestò Tristram. «Qualcuno dovrà pur provvedere alla perpetuazione della razza. Che ne sarebbe della stirpe umana se nessuno di noi continuasse a far figli?» Era infuriato. «E poi cosa intende dicendo 'i migliori'?» inquisì. «Si riferisce forse a gente come mio fratello Derek? Quel finocchietto assetato di potere che striscia, sì, letteralmente striscia su per il...»
«Calma, Fratello» ammonì Joscelyne in un bolso italiano. «Calma.» Era appena tornato da una conferenza didattica in quel di Roma, città ormai spapata. «Non si lasci andare a dichiarazioni oltraggiose. 'Finocchio' inoltre è vocabolo assai irriverente. Sono gli omo, non lo dimentichi, a governare di fatto questo paese e, per dirla tutta, l'intera Unione Anglofona.» Declinò le sopracciglia sogguardando Tristram con ipocrita accoramento. «Mio zio, l'Alto Commissario, è un omo. Un tempo lo sono quasi stato anch'io. Mi raccomando, tenga a freno le emozioni. Eviti d'indulgere a comportamenti diciamo pure indecorosi. Vediamo di affrontare la faccenda civilmente, d'accordo?» Sorrise, cercando d'improntare l'espressione a semplicità e schiettezza. «Sa bene quanto me che è meglio lasciare l'incombenza riproduttiva alle classi inferiori. Ricordi che lo stesso termine 'proletariato' deriva dal latino proletarius, a indicare coloro i quali servono lo Stato con la propria figliolanza o proles. Lei e io dovremmo essere superiori a queste cose, nevvero?» Si reclinò sorridente all'indietro, tamburellando con la penna sulla scrivania, chissà perché, una 'O' in codice Morse. «Una sola nascita per famiglia, questa è la regola o raccomandazione che dir si voglia, ma il proletariato l'infrange di continuo. La nostra razza non corre alcun rischio di estinzione. Proprio il contrario, direi. Mi giungono voci dalle alte sfere... ma lasciamo stare, lasciamo stare. Il fatto è che il suo vecchio e la sua vecchia trasgredirono la regola assai gravemente, assai gravemente davvero. Già. Lui era... cosa? Qualcosa al Ministero dell'Agricoltura, vero? Così risulta dall'incartamento. Be', da parte sua fu un tantinello cinico, direi, lavorare con una mano a nutrire la nazione e contribuire intanto ad affamarla sfornando con l'altra quattro marmocchi.» Si accorse di quanto fosse grottesca l'antitesi, ma lasciò correre. «E non son cose che si dimentichino, capirà, Fratello Foxe, che non son cose. Le colpe dei padri, come si diceva un tempo.»
«Daremo tutti una mano al Ministero dell'Agricoltura, prima o poi» puntualizzò Tristram imbronciato. «In quattro faremo proprio un bel mucchietto di pentossido di fosforo.»
«Anche sua moglie» continuò Joscelyne scartabellando i numerosi fogli del fascicolo. «Ha una sorella nella Provincia Settentrionale. Sposata a un funzionario agricolo. Due figli.» Fece un verso che esprimeva tutta la sua disapprovazione. «La circonda una sorta d'alone di prolificità, Fratello Foxe. A ogni modo, per quanto riguarda questo posto di Capo Dipartimento, è alquanto evidente che, a parità di meriti, il Consiglio preferirà designare un candidato provvisto d'una più limpida nocumentazione familiare.» Quella pronunzia distorta divenne per Tristram un epicentro d'irritazione. «Vediamo. Consideriamo gli altri candidati.» Chinatosi in avanti puntando i gomiti sulla scrivania, Joscelyne principiò a enumerarli sulle dita. «Wiltshire è omo. Cruttenden è scapolo. Cowell è sposato e ha un figlio, quindi è da escludersi. CrumEwing è andato fino in fondo, è un castrato, il candidato ideale. Fiddian non conta. Ralph è omo...»
«Ho capito» lo interruppe Tristram. «Accetto la sentenza. Rimarrò al mio posto e vedrò qualcuno più giovane - è destino che debba esser sempre qualcuno più giovane - ottenere la promozione scavalcandomi. E tutto per colpa della mia nocumentazione» concluse con amarezza.
«Già, proprio così» convenne Joscelyne. «Sono lieto che la prenda così a modino. Che si renda conto di come la vedrebbero lorsignori lassù al vertice. Ereditarietà, questo è il punto, ereditarietà. Un quadro familiare d'intenzionale prolificità, ecco il fatto. Già. Come essere un criminale per tare ereditarie. Viviamo tempi difficili. In confidenza, amico mio, stia in guardia. Attento a sua moglie. Non si metta a fare altri figli. Lasci l'irresponsabilità al proletariato. Un passo falso di tal fatta e per lei è finita. Proprio così, finita.» Fece il gesto di tagliarsi la gola. «Stan venendo su un mucchio di giovani promettenti. Uomini con le idee giuste. Mi rincrescerebbe perderla, Fratello Foxe.»
9
«Carissima.»
«Tesoro, tesoro, tesoro.» Si abbracciarono voracemente lasciando la porta aperta. «Hmmm...» Derek si districò e la chiuse con un calcio. «Devo stare attento» disse. «Non mi stupirebbe affatto se Loosley mi seguisse fin qui.»
«Be', non ci vedo nulla di male» obiettò Beatrice-Joanna. «Potrai pure far visita a tuo fratello se ne hai voglia, vero?»
«Non dire sciocchezze. Loosley è un piccolo porco, ma bisogna ammettere che è un tipo scrupoloso. Avrà sicuramente controllato gli orari di lavoro di Tristram.» Derek andò alla finestra. Per ritrarsene immediatamente, sorridendo della propria stoltezza. In alto com'erano, e con tutte quelle indistinguibili formichine brulicanti laggiù sulla strada lontana... «Forse sto diventando un po' troppo nervoso» ammise. «Il fatto è che... be', la situazione si evolve. Stasera devo incontrare il Ministro. Pare che mi affidino un lavoro importante.»
«Un lavoro di che genere?»
«Un lavoro che implica, temo, che potremo vederci poco. Almeno per qualche tempo. Un lavoro in uniforme. È venuto stamattina il sarto a prendermi le misure. Succedono cose grosse.» Sbarazzatosi dell'azzimato sembiante da ermafrodito che ostentava in pubblico, Derek appariva maschio, duro.
«Ah, ecco» interpretò Beatrice-Joanna. «In pratica ti farai assorbire tutto da questo tuo nuovo lavoro e io passerò in secondo piano, vero?» Penetrato l'amante nell'appartamento e avvintala fra le braccia, ella aveva in un folle istante divisato di esortarlo a fuggire insieme, onde per sempre vivere potessero di noci di cocco e amore sotto i fichi del Bengala. Poi però il suo femmineo desiderio per il meglio d'ambo i mondi aveva preso il sopravvento. «Mi chiedo a volte» dubitò «se intendi davvero quel che dici. Sull'amore e compagnia bella.»
«Oh, tesoro, tesoro» replicò lui irrequieto. «Ascolta.» Non era in vena di coccole.
«Accadono cose ben più importanti dell'amore. Questioni di vita o di morte.» Tutti uguali questi uomini. «Sciocchezze» tranciò lei senza esitare.
«Epurazioni... non saprai neppure cosa vuol dire. Mutamenti al governo. I disoccupati arruolati nelle forze di polizia. Oh, cose grosse, cose grosse.»
Beatrice-Joanna cominciò a piagnucolare per apparire fragilissima, inerme, piccola. «Ho vissuto una giornata orrenda» si dolse. «Sono stata così infelice. Sono stata così sola.»
«Carissima. Sono un vero manigoldo.» La riavvolse tra le braccia. «Mi spiace tanto. Non penso che a me stesso.» Soddisfatta, lei seguitò a frignare. La baciò su una gota, sul collo, sulla fronte, immerse le labbra nella chioma color sidro. Lei olezzava di sapone, lui di tutti i profumi d'Arabia. Avvinti, raggiunsero a mo' di goffo quadrupede la camera da letto, come impegnati in qualche cieca danza non disciplinata dalla musica. Già da tempo era stato premuto il pulsante incaricato d'inviare il letto a basculare - in un arco simile alla Pelfase tracciata a gesso da Tristram - verso il pavimento. Derek si spogliò rapidamente mettendo in mostra un corpo snello protuberato e striato di muscoli, poi all'occhio inerte del teleschermo a soffitto fu concesso di ammirare le contorsioni di un corpo maschile - marrone crosta di pane abbinato a ruggine delicato - e di un corpo femminile madreperlaceo, lievemente sfumato di celeste e carminio - nei preliminari di un atto che tecnicamente era adulterino e incestuoso a un tempo.
«Ti sei ricordata di...?» ansimò Derek. Parole che a un eventuale ipotetico osservatore avrebbero ricordato la signora Shandy e strappato un sorriso .
«Sì, sì.» Le pastiglie le aveva prese; non correvano alcun rischio. Fu solo una volta raggiunto il punto di non ritorno che ricordò di aver inghiottito pillole analgesiche e non anticoncezionali. L'abitudine a volte gioca tiri mancini. Poi fu troppo tardi e non le importò più.
10
«Continuate da voi» intimò Tristram sfoderando un cipiglio inconsueto. «Studiate per conto vostro.» Il settimo corso della Quarta accolse la dichiarazione a occhi sgranati e bocche beanti. «Vado a casa» spiegò. «Per oggi ne ho abbastanza. Domani compito in classe sulla materia trattata nel libro di testo da pagina 267 a pagina 274 comprese. La Paura Nucleare Cronica e l'Avvento della Pace Perpetua. Dunlop» interpellò bruscamente. «Dunlop.» Il ragazzo aveva una faccia gommosa, ma in quell'epoca di nazionalizzazione totale il suo nome non era né appropriato né inappropriato. «Scaccolarsi il naso è un vizio indecoroso, Dunlop» accusò. La scolaresca ridacchiò. «Continuate da voi» ripeté Tristram sulla soglia «e buona giornata a tutti. O buona prima sera» si corresse, gettando un'occhiata fuori al roseo cielo marino. Strano che la lingua inglese non avesse mai elaborato una formula di commiato adatta a quell'ora del giorno. Una specie d'Interfase. Giorno pelagiano, notte agostiniana. Tristram uscì baldanzoso dall'aula, percorse il corridoio sino all'ascensore, si affrettò a discendere e quindi a sloggiare dal gigantesco edificio. Nessuno ostacolò la sua partenza. Era inconcepibile che gli insegnanti abbandonassero le classi prima dell'ultima campanella; ergo, Tristram si trovava, metaforicamente parlando, ancora al lavoro.
Si fece vigorosamente strada fra le moltitudini di Earp Road (ondate che fluivano contemporaneamente in ingresso e in uscita), poi svoltò a sinistra in Dallas Street. E là, proprio sul punto d'immettersi in McGibbon Avenue, vide qualcosa che lo raggelò, anche se al momento il motivo di quella sensazione gli rimase sconosciuto. Osservata da una folla che si manteneva a rispettosa distanza, si schierava sulla via in posizione di riposo, bloccando lo scarso traffico, una compagnia di uomini nell'uniforme grigia della polizia, tre plotoni coi rispettivi comandanti. Molti di costoro sorridevano imbarazzati, strascicando i piedi; reclute, intuì Tristram, fresche d'ingaggio ma ciascuna già armata d'una tozza carabina dai riflessi opachi. Indossavano calzoni che si affusolavano in nere fasce elasticizzate ad abbrancare la parte superiore di stivali dalle suole pesanti, e giubbe attillate in vita curiosamente arcaiche con quei baveri guarniti di luccicanti emblemi di ottone cui si abbinavano cravatte nere. Completava l'abbigliamento una coppola grigia; un distintivo della polizia baluginava smorto sopra i lobi frontali.
«Gli trovano lavoro» spiegò un uomo vicino a Tristram: un uomo non rasato in un frusto abito nero, dotato di pappagorgia nonostante la magrezza del corpo. «I disoccupati, sono. Erano» si corresse. «Era ora che il governo faceva qualcosa per loro. Quello là è mio cognato, vede, il secondo dal fondo della prima fila.» Additò, indirettamente fiero. «Gli danno lavoro» ripeté. Era evidentemente un uomo solo, lieto dell'opportunità di parlare con qualcuno.
«Perché?» domandò Tristram. «Cosa succede?» Ma già lo sapeva; la Pelfase era finita: la gente sarebbe stata costretta a esser buona. Avvertì una fitta di panico per la propria situazione. Forse avrebbe fatto meglio a tornare a scuola. Forse nessuno si sarebbe accorto di nulla se rientrava immediatamente. Si stava comportando da idiota, era la prima volta che faceva una cosa del genere. Forse avrebbe dovuto telefonare a Joscelyne e dirgli che era uscito in anticipo perché non si sentiva bene...
«Per tenere a bada certa gente» rispose sollecito il tizio scarno col doppio mento. «Troppi giovani teppisti se ne vanno in giro di notte. Non sono abbastanza severi con loro, questo è. Gli insegnanti non li controllano mica più.»
«Sono proprio alcune di quelle giovani reclute» osservò cauto Tristram «ad avere una cert'aria da teppistelli.»
«Mica vorrà dire che mio cognato è un teppista? Il meglio ganzo che c'è mai stato è, e quasi quattordici mesi sono che sta senza lavoro. Teppista garantito non lo è, caro lei.»
Di fronte allo schieramento andò a piazzarsi un ufficiale. Elegante, calzoni modellati sulle natiche, mostrine argentee luccicanti al sole sulle spalline, pistola al fianco entro lussuosa fondina in similpelle, intimò con voce inaspettatamente virile: «Compníààà...» Reagendo alla sferzata la compagnia s'irrigidì. «Att-ttí!» Il ringhio fu scagliato come un sasso; gli uomini scattarono grossolanamente sull'attenti. «Spaaa-làm! Rooo...» (La sillaba oscillò fra due allofoni) «...plèríg!» Qualcuno girò a sinistra, qualcuno a destra, qualcuno aspettò di vedere cosa facevano gli altri. Risate e applausi beffardi dalla folla. E d'un tratto la strada fu piena di poliziotti imbarazzati che si disperdevano a drappelli.
In preda a un vago malessere, Tristram si diresse verso Palazzo Earnshaw. In una cantina sotto quella nuda torre massiccia covava una bettola chiamata il Montecchi. L'unico alcolico attualmente disponibile era un caustico distillato di ortaggi e bucce di frutta. Si chiamava alc, e soltanto gli stomaci d'infimo ceto lo reggevano liscio. Tristram depose un tosheroon sul banco e gli fu servito un bicchiere di quell'ignobile spirito vischioso ben diluito in aranciata. Non c'era altro da bere: i campi di luppolo e le antiche zone vitivinicole avevano fatto la fine dei pascoli e delle piantagioni di tabacco fiorenti un tempo in Virginia e Turchia; tutti terreni dedicati ora a colture più mangerecce. Un mondo pressoché vegetariano, di non fumatori, astemio a parte l'alc. Un mondo col quale, dopo un primo brindisi solenne e un secondo tosheroon di fuoco aranciato, Tristram si sentì sufficientemente riconciliato. Promozione sfumata, Roger perduto. Al diavolo Joscelyne. Quasi allegramente volse lo sguardo attorno per l'affollata osteriola. Degli omo, alcuni barbuti, facevano crocchio in un cantuccio semibuio cinguettando fra loro; i bevitori al banco erano quasi tutti etero e depressi. Il sudicio barista dal pingue deretano raggiunse ancheggiando un musichiere a parete e infilò un tanner nella fessura; come una bestia liberata dalla gabbia si sprigionò una sorta di stridula musica concreta... cucchiai sbatacchianti dentro bacili di stagno, un discorso del Ministro della Piscicoltura, uno sciacquone che si riempiva, un motore imballato: il tutto riprodotto a rovescio, con opportune modulazioni di volume e accurata miscelazione. «Orrenda porcheria» mormorò l'uomo accanto a Tristram rivolgendosi ai fusti di alc, senza girare il capo e muovendo appena le labbra come se, nonostante l'imprescindibilità del commento, non desiderasse fornirlo a pretesto per lasciarsi trascinare in una conversazione. A questo punto uno degli omo barbuti si mise a declamare:
«Il mio albero morto rivoglio, l'albero mio senza vita.
E tu vattene, pioggia. Lascia per sempre la terra inaridita.
Ricaccia gli dèi nel suo ventre languente
Trivellando a tal fine un bel foro capiente.»
«Abominevole scempiaggine» affermò l'uomo a voce più alta. Poi ruotò il capo con lentezza e cautela da una parte all'altra esaminando attentamente Tristram alla sua destra e il bevitore alla sua sinistra, come se l'uno fosse una scultura dell'altro e ne andasse verificata la somiglianza. «Lo sapete cos'ero?» domandò. Tristram se lo chiese. Un uomo malinconico con occhi sepolti dentro due carbonaie, rubizzo naso adunco, imbronciata bocca stuarda. «Ne voglio ancora» notificò al barista lasciando cadere una sonante moneta. «Me l'immaginavo che non ci riuscivate» esclamò trionfante rivolgendosi a Tristram. «Bene» disse, e buttò giù l'alc puro con uno schiocco e un sospiro. «Ero un prete. Lo sai cos'è un prete?»
«Una specie di monaco» rispose Tristram. «Qualcosa a che fare con la religione.» Fissò l'uomo con soggezione, neanche fosse Pelagio in persona. «Ma di preti» obiettò «non ce n'è più. Di preti non ce n'è più da centinaia d'anni.»
L'uomo protese le mani a dita spalancate come se volesse controllare di non essere preso dal delirium tremens. «Queste» dichiarò «hanno operato il miracolo quotidiano.» E, più plausibilmente: «Un po' ce n'è rimasti» rivelò. «Una o due sacche di resistenza nelle Province. Gente che disapprova tutto 'sto sudiciume liberale. Pelagio» disse «era un eretico. L'uomo ha bisogno della grazia divina.» Tornò a esaminarsi le mani con occhio clinico, come in cerca di qualche macchiolina che proclamasse l'insorgenza del male. «Dammene un altro» ordinò al barista, usando adesso le mani per frugarsi in tasca in cerca di denari. «Sì» confermò a Tristram. «Di preti ce n'è ancora, anche se io non ne faccio più parte. Espulso» sussurrò. «Spretato. Oh Dio, Dio, Dio» implorò istrionico. All'udire il divino appellativo un paio d'omo ridacchiarono. «Mai però potranno togliermi questo potere, giammai, giammai.»
«Cecil, vecchia troia!»
«Oh poveri noi, guarda tu cosa si è messa indosso!»
Anche gli etero si girarono a guardare, seppur con minore entusiasmo. Aveva fatto il suo ingresso, con gran sorrisi, un terzetto di poliziesche reclute. Una di loro si esibì in un breve tip tap concludendo con uno stentato saluto militare. Un'altra fece mostra di sventagliare il locale con la carabina. Remota, fredda, astratta, incalzava la musica concreta. Gli omo scoccodarono, nitrirono, si abbrancicarono.
«Però non è mica per roba così che mi hanno spretato» puntualizzò l'uomo. «È stato per un amore vero, un amore naturale, non questa blasfema parodia.» Accennò tristemente col capo in direzione del giocondo gruppo di civili e poliziotti. «Era parecchio giovine, diciassett'anni appena. Oh Dio, Dio. Comunque» soggiunse vivamente «non possono portarmi via questo divino potere.» Di nuovo si scrutò le mani, stavolta alla Macbeth. «Pane e vino» declamò «nel corpo e nel sangue... ma di vino non ce n'è più. E il Papa» deplorò «è un uomo vecchio, vecchissimo, stravecchio, confinato a Sant'Elena. E io» confessò senza falsa modestia «uno squinternato impiegato al Ministero dei Combustibili e dell'Energia.»
Un poliziomo aveva inserito un tanner nel musichiere. Ne scaturì di botto un motivo danzereccio quasi fosse esploso un sacco pregno di susine mature... una poltiglia di astrusi nastrumori pesantemente ritmata in sottofondo da una lenta percussione scuotibudella. Un poliziotto principiò a ballare in coppia con un barbuto civile. Aggraziato, fu costretto a riconoscere Tristram, leggiadramente intricato. Ma il prete spretato non nascose il suo disgusto. «Esibizione esecranda» sentenziò, e allorché uno degli omo spettatori alzò il volume della musica sbraitò senza preavviso: «Finitela con questo maledetto baccano!»
Gli omo l'osservarono con blando interesse, i ballerini l'occhieggiarono a bocca aperta continuando a cullarsi dolcemente uno nelle braccia dell'altro. «Finiscila tu» replicò il barista. «Non vogliamo guai, qui.»
«Branco di bastardi contro natura» inveì il prete. Tristram ammirò l'eloquio sacerdotale. «Il peccato di Sodoma. Dio dovrebbe fulminarvi tutti.»
«Vecchio guastafeste che non sei altro» gli ringhiò uno di rimando. «Che modi son codesti?» Poi la polizia lo aggredì. Fu cosa rapida, coreografica, comica; non certo la violenza che risultava a Tristram si esercitasse in passato; più che colpirlo parvero solleticarlo. Ma appena il tempo di contare fino a cinque e il prete spretato si ritrovò accasciato sul banco, la bocca tutta insanguinata, a tentar di riprendere fiato dalle profondità del suo essere. «Sei amico suo?» domandò un poliziotto a Tristram, sbalordito nel constatare che il tutore dell'ordine s'era imbellettate le labbra di rossetto nero in tonò con la cravatta.
«No» negò Tristram. «Mai visto prima. Mai visto prima in vita mia. Comunque me ne stavo andando.» Diede fondo all'arancialc e si avviò all'uscita.
«E subito il gallo cantò» bofonchiò il prete spretato. «Questo è il mio sangue» proclamò pulendosi la bocca. Brillo com'era, non doveva aver sentito alcun dolore.
11
Allorquando, magicamente, raggiunta una detumescenza sincronizzata giacquero ansimando in decrescendo, il braccio di lui sotto il corpo rilassato di lei, BeatriceJoanna si domandò se dopotutto non l'avesse forse fatto apposta. A Derek non disse nulla; la cosa non lo riguardava. Si sentiva molto lontana, distaccata dall'amante, come un poeta che conchiuso un sonetto si avverta estraneo alla penna con cui l'ha vergato. Le affiorò dall'inconscio una parola forestiera, Urmutter, e si chiese cosa mai significasse.
Riemerse lui per primo dal nontempo e pigramente domandò, essendo l'uomo un animale attento al tempo: «Che ore saranno?»
Lei non rispose. «Proprio non capisco» disse invece. «Tutta questa ipocrisia, quest'inganno. Perché la gente deve far finta di essere ciò che non è? È tutta un'orrenda farsa.» Parlò bruscamente, ma come indugiasse ancora in una dimensione atemporale. «Tu ami l'amore» continuò. «Non ho mai conosciuto altro uomo che amasse l'amore quanto te. Eppure lo tratti come fosse qualcosa di cui vergognarsi.»
Lui trasse un sospiro profondo. «Dicotomia» disse, lanciandole la parola in tono languido come una palla imbottita di piume d'anatra. «Ricorda l'umana dicotomia.»
«E che sarebbe,» sbadigliò lei «l'umana con quel che segue?»
«Divergenza. Contraddizioni. Gli istinti ci dettano una cosa e la ragione ce ne impone un'altra. Sarebbe una tragedia se non corressimo al riparo. Meglio metterla sul ridere. Abbiamo fatto bene» tagliò corto «a sbarazzarci di Dio sostituendolo col signor Demodio. Dio è un concetto tragico.»
«Non capisco di cosa parli.»
«Non importa.» La colse in un nuovo inevitabile sbadiglio rivelante due chiostre immacolate. «Le contrastanti pretese della linea e del cerchio. Tu sei assolutamente lineare, questo è il tuo limite.»
«Io sono circolare. Sono globulare. Guardami.»
«Fisicamente sì. Mentalmente no. Dopo tanti anni d'indottrinamento a suon di slogan e videopropaganda subliminale continui a essere una creatura istintiva. Non te ne frega un piffero della situazione del mondo, delle condizioni dello Stato. A me sì.»
«Perché dovrebbe fregarmene? Ho la mia vita da vivere.»
«Non avresti alcuna vita da vivere se non fosse per gente come me. Lo Stato è ciascuno dei suoi membri. Supponiamo» continuò facendosi serio «che nessuno si preoccupi del tasso di natalità. Immaginiamo un generale disinteresse per quella linea retta che prosegue senza sosta. Moriremmo letteralmente di fame. Sacripante se non c'è già ora abbastanza poco da mangiare. Grazie alla mia Sezione e ad analoghe Sezioni governative sparse in tutto il mondo siamo riusciti a raggiungere una specie di stasi, ma non durerà ancora molto, non se le cose vanno avanti così.»
«Che vuoi dire?»
«È la solita vecchia storia. Prevale il liberalismo? Subito ne consegue il lassismo. Ci affidiamo all'educazione e alla propaganda e agli anticoncezionali gratuiti, alle cliniche abortive per tutti e alle condoglianze di Stato. Incoraggiamo forme irriproduttive di attività sessuale. Ci piace illuderci che la gente sia abbastanza altruista e coscienziosa da rendersi conto delle proprie responsabilità. Ma che accade? Solo poche settimane fa nella Provincia Occidentale c'è stato il caso di una coppia che ha avuto sei figli. Sei. Dimmi tu. E tutti vivi, anche. Proprio una coppia all'antica... seguaci di Dio. Sostenevano di adempiere la volontà del Signore e consimili baggianate. Un nostro funzionario gli ha parlato cercando di farli ragionare. Figurati... otto corpi in un appartamento più piccolo di questo. Ma non c'è stato niente da fare. A quanto pare avevano una copia della Bibbia... Sacripante dove saranno andati a scovarla. L'hai mai vista?» «No.»
«Be', è un vecchio libro religioso pieno di sconcezze. Il peccato più grande è sprecare il proprio seme, e se Dio ti ama ti ricolma la casa di bambini. Anche il linguaggio è molto antiquato. Fatto sta che insistevano a tirarlo in ballo continuamente, blaterando di fecondità e di piante di fico infruttuose colpite dalla maledizione divina e via dicendo.» Un brivido di autentico orrore percorse Derek. «Una coppia piuttosto giovane, oltretutto.»
«Cosa gli è successo?»
«Cosa poteva succedergli? Gli è stato spiegato che esiste una legge che limita la prole a una sola nascita, viva o morta, ma loro hanno risposto che è una legge malvagia. Se Dio non avesse voluto che l'uomo desse frutti, hanno detto, perché avrebbe dovuto infondergli l'istinto riproduttivo? Gli è stato riferito che Dio è un concetto superato, ma non hanno voluto crederci. Gli è stato contestato che hanno un dovere nei confronti del prossimo, e loro lo hanno ammesso, senza tuttavia comprendere come possa la pianificazione familiare costituire un obbligo. Un caso davvero difficile.»
«Insomma, non gli avete fatto nulla?»
«Ben poco. Gli è stata inflitta una multa. Sono stati diffidati dall'avere altri figli. Hanno ricevuto pillole anticoncezionali e gli è stato ordinato di presentarsi, per essere istruiti, alla locale clinica per il controllo delle nascite. Ma sembravano assolutamente incorreggibili. E di gente come loro ce n'è a bizzeffe in tutto il mondo... in Cina, in India, nel Sudest asiatico. Perciò la situazione è tanto preoccupante. Perciò le cose dovranno cambiare. Le cifre della popolazione mondiale fanno rizzare i capelli. Siamo di parecchi milioni oltre il limite massimo. Tutto grazie alla gente di fede. Aspetta e vedrai se entro un giorno o due non ci riducono le razioni. Che ore saranno?» tornò a chiedere. Non era una domanda urgente; volendo avrebbe potuto estrarre il braccio di sotto il tiepido corpo abbandonato di lei, sporgersi verso l'angolo opposto della minuscola stanza e raccogliere la microradio da polso, corredata a tergo di un quadrante d'orologio. Ma era troppo pigro per muoversi.
«Dovrebbero essere più o meno le cinque e mezza» ipotizzò Beatrice-Joanna. «Puoi controllare con la tele, se vuoi.» Derek non dovette scomodarsi più di tanto per azionare col braccio libero l'interruttore al capezzale. Una tenda leggera scese a velare la finestra escludendo quanto bastava la luce del giorno, e tempo un paio di secondi piovve dolcemente dal soffitto, gorgogliante e lamentosa, una musica sintetica. Musica esente da strumenti a fiato, a corda o a percussione, simile a quella distrattamente ascoltata nel medesimo istante dal Tristram trincatore d'alc. Musica fatta di modulazioni elettroniche, di pullular di rubinetti, di sirene di navi, di brontolar di tuoni, di scalpiccio di piedi, di vocalizzi laringofonici... il tutto storpiato e ribaltato onde creare una succinta sinfonia destinata a soddisfare l'orecchio senza troppo titillare il talamo. Lo schermo sulle loro teste avvampò di bianco, poi eruppe in un'immagine stereoscopica a colori della statua sormontante il Palazzo del Governo. Sopra la barba barocca e il poderoso naso frangivento occhi di pietra guatavano il mondo con aria spavalda; un rimuginio di nubi si assatanava sullo sfondo; un cielo d'inchiostro incombeva imbronciato.
«Eccolo là» disse Derek. «Il nostro santo patrono, chiunque egli sia... San Pelagio,
Sant'Agostino o Sant'Anonimo... chi di loro? Lo sapremo stasera.»
L'immagine del santo si dissolse. Sbocciò al suo posto un imponente interno ecclesiale: veneranda navata grigia, archi a ogiva. Due grassocce figure maschili simili a un paio d'infermieri nelle loro vesti immacolate incedettero giù dall'altare. «Il Sacro Giuoco» annunciò una voce. «Le Dame di Cheltenham contro i Maschi di West Bromwich. Avendo il sorteggio favorito le Dame di Cheltenham spetterà loro battere per prime.» Le paffute figure in bianco avanzarono a ispezionare la porta nella navata. Derek spense. La stereoimmagine smarrì una dimensione, quindi svanì.
«Sono passate da poco le sei, allora» dedusse Derek. «Meglio che vada.» Sfilò il braccio intorpidito di sotto le scapole dell'amante, poi scese agilmente dal letto.
«C'è un sacco di tempo» sbadigliò Beatrice-Joanna.
«Non più.» Derek scivolò a fatica nei calzoni attillati. Prima di affibbiarsi la microradio al polso diede un'occhiata all'orologio. «Le sei e venti» precisò. Poi: «Proprio un Sacro Giuoco. L'ultima liturgia del civilissimo Uomo Occidentale.» Sbuffò. «Ascolta,» raccomandò «sarà meglio non vedersi per una settimana almeno. Fai quel che vuoi ma non venirmi a cercare al Ministero. Mi metterò io in contatto con te, in un modo o nell'altro. In un modo o nell'altro» ripeté con voce soffocata infilando la maglietta. «Vorresti essere così gentile» pregò infine, rimettendosi la maschera da omosessuale insieme alla giacca, «da dare una sbirciatina fuori per controllare se c'è qualcuno in corridoio? Non voglio che mi vedano uscire.»
«Va bene.» Beatrice-Joanna sospirò, si alzò dal letto, indossò la vestaglia e andò alla porta. Guardò a destra e a sinistra, come un bimbo che sì stia esercitando a scendere dal marciapiede, rientrò e disse: «Non c'è nessuno.»
«Demodio sia lodato» esclamò lui petulante calcando sulla penultima sillaba.
«Non c'è bisogno che interpreti questa messinscena da omo con me, Derek.»
«Ogni bravo attore» replicò lui smanceroso «comincia a recitare fra le quinte.» Le scoccò un bacio al volo sulla guancia sinistra. «Arrivederci, carissima.»
«Arrivederci.» Ricacciato a nanna sino alla prossima (chissà quando) occasione il satiro che albergava in lui, Derek ancheggiò lungo il corridoio in direzione dell'ascensore.
12
Ancora alquanto scosso malgrado altri due bicchieri d'alc ingurgitati in una mescita ipogea non lungi da casa, Tristram entrò nell'Edificio Spurgin. Persino lì, nel grande atrio, stazionavano ridanciane uniformi grigie. La cosa non gli piaceva, non gli piaceva neanche un poco. In attesa alle soglie dell'ascensore vide i vicini del quarantesimo piano: Wace, Durtnell e Visser; la signora Hamper e il giovane Jack Phoenix; la signorina Wallis, la signorina Runting, Arthur Spragg; Phipps, Walker-Meredith, Fred Hamp, l'ottuagenario signor Earthrowl. Il segnapiani lampeggiava in giallo: 47-46-45. «Ho visto una cosa davvero tremenda» rivelò Tristram al vecchio signor Earthrowl. «Come?» fece il signor Earthrowl. 38-37-36. «Una particolare disposizione d'emergenza» disse Phipps del Ministero del Lavoro. «Hanno avuto tutti ordine di riprendere l'attività.» Il giovane Jack Phoenix sbadigliò; Tristram gli notò per la prima volta dei peli neri sugli zigomi. 22-21-20-19. «Polizia sui moli» stava dicendo Durtnell. «L'unico modo di trattare quei bastardi. Maniere forti. Si doveva provvedere già anni fa.» Contemplò con aria compiaciuta i poliziotti in grigio, incravattati di nero come portassero il lutto per il pelagianesimo, carabine leggere sottobraccio. 12-11-10. Tristram fantasticò di mollare un cazzotto a un omo o a un castro sul delicato grugno paffuto. 3-2-1-T. Ed ecco lì il muso, né delicato né paffuto, di suo fratello Derek. Si fissarono sbalorditi.
«Sacripante!» esclamò Tristram. «Che caspita ci fai qua?» «Oh, Tristram» bamboleggiò Derek flautando il nome del fratello in un'ipocrita espressione d'affetto. «Eccoti qui.» «Già. Cercavi per caso me o roba del genere?» «Proprio così, mio caro. Per dirti quanto terribilmente addolorato io sia. Povero, povero piccolo.»
L'ascensore si andava colmando rapidamente. «Sono condoglianze ufficiali? Ho sempre creduto che il tuo Ministero si rallegrasse, delle morti.» Si accigliò perplesso.
«Chi hai di fronte è tuo fratello, non un funzionario dell'M dell'I» replicò Derek in tono alquanto sostenuto. «Sono venuto a porgerti il mio...» Stava per dire 'cordoglio', ma si rese conto in tempo che sarebbe suonato cinico. «Una visita fraterna» corresse. «Ho visto tua... moglie» (la lieve pausa prima del termine, l'artificiosa sottolineatura, lo resero piuttosto sconcio) «e mi ha detto che eri ancora al lavoro, ragion per cui... A ogni modo mi spiace, mi spiace moltissimo. Dovremmo» soggiunse accennando un commiato «vederci una sera. A cena o qualcosa del genere. Adesso bisogna proprio che scappi. Ho appuntamento col Ministro.» E si allontanò dimenando il didietro. Tristram s'inzeppò in ascensore pigiandosi, ancora aggrondato, addosso a Spragg e alla signorina Wallis. Cosa bolliva in pentola? La porta si chiuse, l'ascensore cominciò a salire. La signorina Wallis, una cicciottella pallida col naso che luccicava come fosse bagnato, esalò su Tristram un vestigio di disipatate reidratate. Perché mai Derek si era degnato di far visita al loro appartamento? Si detestavano reciprocamente, e non solo in quanto lo Stato, istituzionalmente impegnato a screditare nel suo complesso il concetto di famiglia, tendeva a incoraggiare l'inimicizia fraterna. Fra loro c'erano sempre stati gelosie e rancori per il trattamento di favore riservato a Tristram, beniamino del genitore: un cantuccio caldo nel letto di papà le mattine di festa; il bocconcino migliore del suo uovo a colazione; i balocchi più belli a Capodanno. L'altro fratello e la sorella l'avevano presa con filosofia, ma Derek no. Derek aveva esternato la propria gelosia con calci furtivi, bugie, fango spiaccicato la domenica sulla tuta spaziale di Tristram, atti di vandalismo a danno dei suoi giocattoli. Il solco definitivo si era scavato fra loro durante l'adolescenza: l'inversione sessuale di Derek e la manifesta ripugnanza con cui Tristram l'aveva accolta. Per giunta, sebbene in possesso di un'istruzione meno raffinata, Derek aveva fatto molta più strada di suo fratello... e giù mugugni d'invidia, sberleffi di trionfo. In conclusione, quale maligno intento poteva averlo, oggi, condotto sin lì? Tristram associò istintivamente la visita al nuovo regime, all'inizio dell'Interfase. Forse erano intercorsi fulminei messaggi telefonici fra Joscelyne e il Ministero della Infecondità (frugargli l'appartamento in cerca di appunti per lezioni devianti dall'ortodossia; interrogare la moglie in merito alle di lui opinioni sul Controllo Demografico). Tristram, colto da un lieve attacco di panico, ripercorse nel ricordo alcune sue lezioni: quell'ironico elogio dei Mormoni dello Utah; quell'eloquente digressione sul Ramo d'oro (lettura proibita); un eventuale sarcasmo verso la gerarchia omosessuale dopo un pranzo scolastico particolarmente scadente. Era una vera disdetta, tornò a rimuginare, che fra tanti avesse scelto proprio quel giorno per lasciare l'edificio scolastico senza autorizzazione. Poi l'ascensore approdò al quarantesimo piano e indomito lo spirito gl'insorse nello stomaco. «Al diavolo tutti quanti!» esclamò l'alc.
Tristram si diresse all'appartamento. Sostò un istante fuori dell'uscio a sbarazzarsi dell'istintiva attesa di un fanciullesco grido di saluto. Entrò. Beatrice-Joanna sedeva in vestaglia con le mani in mano. Si alzò di scatto, assai sorpresa nel vedere suo marito rincasare tanto presto. Essendo la porta di camera aperta, Tristram notò un letto in subbuglio, il gualcito giaciglio di una febbricitante.
«Hai avuto visite?» le domandò.
«Visite? Che visite?»
«Giù dabbasso ho incontrato il mio caro fratello. Ha detto di esser venuto qui a cercarmi.»
«Ah, lui.» Beatrice-Joanna lasciò andare un sospirone. «Credevo che intendessi... be', sai... visite.»
Tristram aguzzò il naso nell'onnipermeante sentore di Anaphro come tentasse di fiutare qualcosa di sospetto. «Che voleva?»
«Perché sei tornato così presto?» ribatté Beatrice-Joanna. «Forse non ti sentivi bene?»
«Esatto, non sto bene per niente ed è per via di una brutta novità. Non ho avuto la promozione. A squalificarmi è la vocazione procreativa di mio padre. E anche il fatto che sono eterosessuale.» Mani dietro la schiena, ciondolò in camera.
«Non ho avuto tempo di rimettere in ordine» si giustificò lei entrando a rassettare
le coltri. «Sono stata all'ospedale. Sono rientrata da poco.»
«Abbiamo avuto una nottataccia, a quanto pare» commentò lui uscendo dalla stanza. «Sì,» continuò «il posto andrà a qualche immondo frocetto ruffiano tipo Derek.
Dovevo aspettarmelo, suppongo.»
«Stiamo passando un periodo disastroso, vero?» deplorò lei. Rimase un attimo inerte, con aria derelitta, stringendo l'estremità di un lenzuolo spiegazzato. «Ci va tutto storto.»
«Ancora non m'hai detto cosa voleva Derek.»
«Si è tenuto sul vago. Comunque cercava te.» Per un pelo, pensava BeatriceJoanna; per il rotto della cuffia. «È stata un po' una sorpresa, vederlo» improvvisò.
«Quel bugiardo» biasimò Tristram. «Me l'immaginavo che non poteva essere semplicemente una questione di condoglianze. E poi come poteva sapere di Roger? Come avrà fatto a scoprirlo? Scommetto che gliel'hai detto tu.»
«No, lo sapeva già» inventò lei. «L'avrà visto al Ministero. Le cifre quotidiane delle morti o roba del genere. Ora ti va di cenare? Io non ho fame per niente.» Lasciò stare il letto, entrò in soggiorno, e indusse il minuscolo frigorifero a discendere come una divinità polare dal soffitto.
«Cerca qualcosa» disse Tristram. «Questo è certo. Dovrò stare attento.» Poi, complice l'alc: «Ma chi me lo fa fare? Al diavolo tutti quanti. Gente come Derek che governa il paese.» Fece scaturire una sedia dalla parete. Beatrice-Joanna completò l'operazione facendo sorgere un tavolo dal pavimento. «Mi sento antisociale,» dichiarò Tristram «forsennatamente antisociale. Chi sono costoro per dirci come gestire la nostra vita? E poi non mi piace affatto quel che sta succedendo. C'è in giro una caterva di polizia. Armata.» Omise di raccontarle cos'era accaduto nella bettola al prete spretato. Lei non approvava le sue bevute.
Beatrice-Joanna gli imbandì una disicotoletta vegetale reidratata, fredda. Tristram la sbafò di buon appetito. Poi gli servì una fetta di budino al sintelat. «Vuoi una nutrella?» gli propose quand'ebbe finito. Si trattava di una formella nutritiva, creazione del Ministero del Cibo Sintetico. Si chinò su di lui per raggiungere una credenza a parete, ed egli intravide sotto la vestaglia la prosperosa nudità di lei. «Dio li maledica e strafulmini tutti quanti» inveì Tristram. «E quando dico Dio intendo Dio.» Si alzò e cercò di prenderla fra le braccia.
«No, ti prego, no» lo implorò. Era più forte di lei: non sopportava che la toccasse. Si dibatté. «Non mi sento bene per niente» disse. «Sono tutta scombussolata.» Cominciò a piagnucolare. Lui desisté.
«Oh, bene» disse. «Benissimo.» Si morse l'unghia del mignolo sinistro coi denti di plastica, restandosene impalato e imbarazzato accanto alla finestra. «Scusa se mi son lasciato andare. A volte si agisce senza riflettere.» Lei raccolse dal tavolo i piatti di carta e li scaraventò nel condotto dell'inceneritore. «Ah, maledetti schifosi!» scattò lui con repentina veemenza. «Il sesso normale, il sesso pulito l'han trasformato in un crimine. E tu non vuoi più saperne. Ma tanto ormai che differenza fa?» Sospirò. «Vedo bene che anche solo per conservare il posto mi toccherà unirmi ai volontari castrandi.»
In quell'istante Beatrice-Joanna rivisse acutamente una sensazione che, per un attimo accecante, le aveva sferzato la corteccia cerebrale mentre giaceva sotto Derek su quel talamo scompaginato da una febbrile attività. Una sorta di esperienza eucaristica comportante un acuto strombazzare e uno scoppio di luce tipo quello che pare sia visibile all'atto della recisione del nervo ottico. Oltreché una vocettina singolarmente penetrante che garriva: «Sì sì sì.» Dal momento che tutti invitavano a fare attenzione, forse avrebbe fatto meglio a stare attenta anche lei. Senza esagerare, ovviamente. Solo quanto bastava a non mettere in sospetto Tristram. I sistemi anticoncezionali ogni tanto fan cilecca, si sa. «Perdonami, caro» capitolò. «Son io che ho reagito male.» Gli mise le braccia attorno al collo. «Eccomi, se vuoi.» Magari poterlo fare sotto anestesia... Comunque era questione di poco.
Tristram la baciò avidamente. «Le pastiglie le prendo io» dichiarò «non tu.» Dopo la nascita di Roger - nelle occasioni, obiettivamente e fortunatamente infrequenti, in cui era riuscito a rivendicare i propri diritti coniugali - aveva sempre insistito per adottare di persona le opportune precauzioni. Perché di Roger ne avrebbe fatto volentieri a meno, in fondo. «Ne prenderò tre» disse. «Tanto per andare sul sicuro.» Al che l'intima vocettina chiocciò una risatina appena accennata.
13
Beatrice-Joanna e Tristram, in svariate faccende affaccendati, non videro né udirono il messaggio televisivo del Primo Ministro. Ma in milioni d'altre case - in genere sul soffitto della camera da letto non essendovi sufficiente spazio altrove - l'immagine stereoscopica della faccia cascante, rigonfia, tipicamente da erudito del molto onorevole Robert Starling avvampò e tempestò come una lampada stizzosa. Parlò dei catastrofici pericoli in cui l'Inghilterra, l'Unione Anglofona, il mondo intero sarebbero ben presto incorsi a meno che non venissero adottate, quantunque a malincuore, talune drastiche misure repressive. Una vera guerra. Guerra all'irresponsabilità, guerra a quegli elementi che sabotavano - cosa evidentemente intollerabile - gli ingranaggi dello Stato, guerra senza quartiere a chiunque si facesse beffe delle leggi ragionevoli e liberali, in special modo la legge che, per il bene comune, cercava di limitare l'incremento demografico. In tutto il pianeta, rivelò solennemente il faccione luminoso, i Capi di Stato si sarebbero rivolti stasera o domani, con analoghi accenti di urgenza, ai rispettivi popoli; il mondo intero dichiarava guerra a se stesso. Punizioni severissime per chi perseverasse nell'irresponsabilità (più ingrate a chi le infliggeva che a chi le subiva, beninteso); sopravvivenza planetaria affidata all'equilibrio demografico e a una fornitura alimentare minima scientificamente calcolata; stringere la cinghia; superare ogni difficoltà; combattere il male; far causa comune; lunga vita al Re.
Beatrice-Joanna e Tristram persero anche alcune emozionanti riprese stereoscopiche della sbrigativa liquidazione dello sciopero agli Stabilimenti Nazionali Sintelat... con la polizia, soprannominata i grigiazzi, che infieriva sghignazzando a suon di manganelli e carabine, e l'obiettivo della telecamera inondato da un coreografico spruzzo di materia cerebrale.
Mancarono altresì un successivo annuncio sulla formazione di una milizia denominata Polizia Demografica agli ordini di un neo-Commissario Metropolitano ben noto a entrambi... fratello, fedifrago, amante.
Parte Seconda
1
In tutti i Servizi di Stato vigeva un sistema di turni di otto ore. Tranne scuole e università, che suddividevano invece le giornate (senza eccezioni, essendo le vacanze scaglionate) in quattro turni di sei ore ciascuno. Circa due mesi dopo l'inizio dell'Interfase, Tristram Foxe sedeva intento alla colazione di mezzanotte (il turno cominciava all'una) sotto un'estiva luna piena affacciata in tralice. Si sforzava di alimentarsi d'una specie di membranaceo cereale inumidito con sintelat, e sebbene di questi tempi fosse perennemente affamato essendo state le razioni considerevolmente ridotte, trovava assai difficoltoso ingurgitare quella molliccia porcheria tigliosa: era un po' come doversi rimangiare le proprie parole. Mentre masticava un interminabile boccone, la sintevoce del Daily Newsdisc (edizione delle 23.00) squittì come un topo da cartoni animati a scandire la lenta rotazione del nerolucente notiziario sul mandrino a parete. «... Pesca d'aringhe di scarsità senza precedenti spiegabile solo in termini d'inspiegabile insufficienza riproduttiva, riferisce il Ministero della Piscicoltura...» Tristram tese la mano sinistra e spense. Controllo delle nascite fra i pesci, eh? Fu travolto per un istante da un repentino soprassalto di memoria razziale... un bizzarro pesce rotondo e schiacciato grande quanto il piatto, marroncino e croccante con una salsetta asprigna. Ma tutto il pesce catturato al giorno d'oggi veniva triturato a macchina e trasformato in concime o incorporato nella porzione nutritiva polifunzionale (da servirsi in foggia di zuppa, cotolette, pane o budino) che il Ministero del Cibo Naturale distribuiva come componente fondamentale della razione settimanale.
Sbarazzato il soggiorno dalla maniacale vocetta col suo raccapricciante giornagergo, Tristram fu in grado di udire più chiaramente sua moglie che si sentiva male in bagno. Povera ragazza, ultimamente dava immancabilmente di stomaco non appena alzata. Forse era il cibo. Capace di procurar la nausea a chiunque. Si levò da tavola e andò a darle un'occhiata. Era pallida e con l'aria stanca, stremata, come se vomitare le avesse spremuto fuori ogni energia. «Fossi in te farei un salto all'ospedale» le suggerì gentilmente. «A controllare di che si tratta.»
«Sto bene.»
«A me non sembra proprio che tu stia bene.» Ribaltò la microradio da polso; mezzanotte e mezza passata, rivelò il cronoquadrante sul retro. «Bisogna che scappi.» Le depose un bacio sulla fronte madida. «Riguardati, cara. Vai a farti vedere da qualcuno in ospedale.»
«Non è niente. Solo un disturbo di stomaco.» E in effetti cominciò, come a esclusivo beneficio di lui, a recuperare un aspetto decisamente migliore.
Tristram uscì (solo un disturbo di stomaco) e raggiunse il gruppo in attesa all'ascensore. Il vecchio signor Earthrowl, Phipps, Arthur Spragg, la signorina Runting - impasti razziali come impasti nutritivi: un bel miscuglio d'Europa, Africa e Asia insaporite da un pizzico di Polinesia - in partenza pei rispettivi lavori presso ministeri e fabbriche statali; Allsopp e il barbuto Abazoff, Darking e Hamidun, la signora Gow il cui consorte era stato prelevato tre settimane innanzi... tutti pronti per il turno che sarebbe finito due ore dopo quello di Tristram. «Per come la vedo io non va bene affatto» stava dichiarando il signor Earthrowl con tremula voce senile «avere questi piedipiatti che non ti tolgono un attimo gli occhi di dosso. Quand'ero giovane io mica era così. Se volevi farti una fumata al cesso andavi a fartela e niente domande. Adesso invece col cavolo. Ti stanno continuamente col fiato sul collo, questi sbirri. Mica giusto, secondo me.» Confortato dai cenni di assenso del barbuto Abazoff, continuò a brontolare mentre entravano in ascensore: un vecchio innocuo e non molto sveglio, il cui lavoro consisteva nell'infilzare una grossa vite a tergo dell'apparecchio televisivo che, moltiplicato all'infinito, gli scorreva lentamente dinnanzi sopra un nastro trasportatore.
«Notizie?» domandò sottovoce Tristram alla signora Gow una volta in cabina. Lei sollevò lo sguardo: donna dal viso lungo, sui quaranta e rotti, pelle arida e brunita come quella di una zingara.
«Neanche una parola. Sono convinta che gli hanno sparato. Sparato!» gridò d'un tratto. Gli altri passeggeri finsero di non aver sentito.
«Sciocchezze» replicò Tristram dandole dei buffetti sul braccio sottile. «Non ha commesso alcun vero reato. Vedrà che torna presto.»
«È stata tutta colpa sua» sentenziò la signora Gow. «Troppo alc, beveva. Apriva la bocca e le sparava grosse. Glielo dicevo sempre che un giorno o l'altro avrebbe esagerato.»
«Via, via» la consolò Tristram continuando coi buffetti. In realtà Gow non aveva affatto, a rigore, aperto bocca, bensì semplicemente emesso un breve suono volgare all'indirizzo d'un crocchio di soldati in sosta all'esterno di una bettola fra le più malfamate dalle parti di Guthrie Road. L'avevano scarrozzato via tra scrosci di risate, e nessuno ne aveva saputo più nulla. Meglio lasciar perdere l'alc di questi tempi, meglio lasciarlo ai grigiazzi.
4-3-2-1-T. Tristram arrancò fuori dell'ascensore. Color prugna, sferzata di luna, attendeva all'esterno la notte nella strada gremita. E nell'atrio stazionavano membri della Polizia Demografica dicasi Poldemo: nera uniforme, berretto dalla lucida visiera, distintivo ed emblemi da colletto sfavillanti d'una bomba deflagrante che a osservarla più dappresso s'appalesava un uovo infranto. Disarmati, meno inclini dei grigiazzi alla violenza sommaria, azzimati, educati, facevano perlopiù onore al loro commissario. Aggregandosi alla turba 'ch'i' non averei creduto che morte tanta n'avesse disfatta'' diretta al lavoro, Tristram proferì ad alta voce la parola 'fratello' verso la Manica nottivaga e il suo argenteo cielo. Il vocabolo aveva assunto per lui connotazioni esclusivamente peggiorative, il che non era giusto nei confronti del povero, inoffensivo George, il maggiore dei tre, che lavorava sodo in un centro agricolo presso Springfield, nell'Ohio. George aveva di recente inviato una delle sue rare lettere, in cui tediosamente rendeva conto di esperimenti con nuovi fertilizzanti ed esprimeva sconcerto per una strana ruggine del grano in propagazione verso est attraverso Iowa, Illinois e Indiana. Buon vecchio solido George.
Tristram entrò nel buon vecchio solido grattacielo ospitante la Quarta Divisione della Scuola Unitaria (Maschile) di Londra Sud (La Manica). Ne stava sciamando il Turno Delta, e uno dei tre vice di Joscelyne, un grigio damerino boccaperta di nome Cory, stazionava nel grande atrio in osservazione. Il Turno Alfa balzava negli ascensori, sfrecciava su per le scale, si catapultava lungo i corridoi. Tristram aveva la prima lezione al secondo piano: Geografia Storica Elementare per il ventesimo corso della Prima Classe. «... Diciotto, diciassette...» contava la voce artificiale. Era solo la sua immaginazione o quella creazione dell'Ente Nazionale Sinteglot era davvero più arcigna, più ferrea del solito? «... Tre, due, uno.» Era in ritardo. Prese al volo un ascensore di servizio e giunse in aula col fiatone. Di questi tempi bisognava stare attenti.
Cinquanta e passa ragazzi in un'ampia gamma di combinazioni cromatiche lo accolsero all'unisono con un cortese «Buongiorno.» Giorno, eh? Fuori era notte fonda e una luna ipertrofica, spaventoso simbolo femminile, cavalcava l'oscurità.
«I compiti» disse Tristram. «I compiti sul banco, per favore.» Tintinnio di fibbie metalliche mentre i ragazzi aprivano le cartelle, poi tramestio di quaderni, fruscio di pagine sfogliate sino al punto in cui ciascuno aveva disegnato un suo mappamondo. Tristram girovagò, mani allacciate dietro la schiena, ispezionando frettolosamente. Il vasto globo affollato in Proiezione di Mercatore, i due grandi imperi - Unang (Unione Anglofona) e Unrus (Unione Russofona) - rozzamente copiati da ragazzini con la punta della lingua affacciata fra le labbra, le Isole Annesse per la popolazione in eccedenza in continuo ampliamento sugli Oceani maggiori. Un mondo pacifico che aveva dimenticato le arti dell'autodistruzione, pacifico e angustiato. «Fa' più attenzione» disse Tristram puntando l'indice sul disegno di Cottam. «Hai piazzato l'Australia troppo a sud. E ti sei scordato di mettere l'Irlanda.» «Sissignore» convenne Cottam. Ed ecco un ragazzo, Hynard, che non aveva fatto il compito a casa, un ragazzo dall'aria spaventata e con profonde occhiaie scure. «Come mai?» domandò Tristram.
«Non m'è riuscito, signore» rispose Hynard, il labbro inferiore tremante. «Mi hanno trasferito all'Ostello, signore. Non ho fatto in tempo, signore.»
«Oh. L'Ostello.» Era una novità, un istituto per orfani, temporanei e permanenti.
«Cos'è successo?»
«Li hanno portati via, signore, il mio papà e la mia mamma. Hanno detto che si erano comportati male.»
«Perché, cos'avevano fatto?»
Il ragazzo chinò il capo. Fu la consapevolezza del crimine, non una inibizione, a farlo arrossire e ammutolire.
«Tua madre ha appena avuto un bambino, vero?» domandò Tristram gentilmente.
«Stava per averlo» borbottò il ragazzo. «Li hanno portati via. Han dovuto fare le valigie. E a me mi hanno portato all'Ostello.»
Tristram si sentì invadere da una gran rabbia. Era in realtà (e si vergognò nel rendersene conto) una rabbia artificiosa, una rabbia pedantesca. Si vide nell'ufficio del Preside a sbraitare: «Lo Stato considera importante l'educazione di questi giovani, il che presumibilmente significa annettere importanza ai compiti a casa, ed ecco che lo Stato s'inframmette col suo sudicio grugno ipocrita impedendo a uno dei miei allievi di fare i compiti. Vorrei proprio sapere, Sacripante, a che gioco giochiamo.» La debole stizza di un uomo che difende un principio. Sapeva bene, ovviamente, quale sarebbe stata la risposta: le cose essenziali prima di tutte, e l'essenziale è sopravvivere. Sospirò, diede al ragazzo un buffetto delicato sulla testa, poi riguadagnò la cattedra. «Questa mattina» disse «disegneremo una mappa della Zona di Bonifica del Sahara. Prendete le matite.» Mattina, figurarsi. Fuori di lì la notte, denso mare d'inchiostro, trascorreva impetuosa.
2
Beatrice-Joanna sedette a scrivere una lettera. Scrisse a matita, impacciata per la mancanza d'abitudine, utilizzando per risparmiare carta i logogrammi imparati a scuola. Due mesi che non vedeva Derek e al tempo stesso lo vedeva sin troppo. Aveva fatto scorpacciate della sua immagine pubblica, dell'effigie televisiva: Derek che in nera divisa da Commissario della Polizia Demografica rivolgeva sagge esortazioni. Ma neanche l'ombra del Derek amante, con indosso una più appropriata livrea di nudità e desiderio. Non essendovi censura sulla corrispondenza sentì di potersi esprimere liberamente. Ecco dunque ciò che scrisse: «Tesoro, immagino che dovrei essere orgogliosa della gran fama che ti stai creando, e di certo fai una splendida figura nelle tue nuove vesti. Ma non posso fare a meno di desiderare che le cose tornino a essere com'erano, quando potevamo giacere assieme e amarci senza un pensiero al mondo tranne assicurarci che nessuno scoprisse ciò che accadeva fra noi. Non voglio credere che quei momenti incantevoli siano trascorsi per sempre. Mi manchi tanto. Mi mancano le tue braccia attorno a me e le tue labbra sulle mie e...» Cancellò la congiunzione: certe cose eran troppo preziose per affidarle a freddi logogrammi. «... e le tue labbra sulle mie. Oh, caro, mi sveglio a volte di notte o di pomeriggio o al mattino a seconda di quando andiamo a letto per via dei suoi turni di lavoro, e mi vien voglia di gridare dal gran desiderio che ho di te.» Si calcò il pugno sinistro sulla bocca come a soffocare l'urlo in questione. «O, mio adorato, ti amo, ti amo, ti amo. Ho voglia delle tue braccia attorno a me e delle tue labbra...» Accorgendosi di averlo già detto ci tracciò un frego sopra; ma la cancellatura dava l'impressione che avesse cambiato idea sul fatto di volere le sue braccia, le sue labbra e via desiderando. Fece spallucce e proseguì. «Non potresti metterti in qualche modo in contatto con me? Lo so che scrivermi sarebbe per te troppo rischioso, perché Tristram di sicuro vedrebbe la lettera nel casellario del palazzo, ma non potresti darmi un segno per farmi capire che mi ami ancora? Perché tu mi ami ancora, non è vero, tesoro?» Avrebbe potuto mandarle un pegno. Ai vecchi tempi, al tempo di Shakespeare e della radio a vapore, gli innamorati inviavano fiori alle loro amanti. Adesso, naturalmente, tutti i fiori rimasti erano stati resi commestibili. Avrebbe potuto mandarle un pacchetto di brodo di primule disidratato, ma sarebbe stato costretto a decurtarlo dalle sue magre razioni. Quel che le ci voleva era qualcosa di romantico e audace, un grande gesto provocatorio. Ispirata scrisse: «La prossima volta che sei in tivù, se mi ami ancora, ti prego, pronuncia una parola speciale soltanto per me. Di' la parola 'amore' o la parola 'desiderio'. Così saprò che continui ad amarmi come io continuo ad amare te. Qui nessuna novità, la vita va avanti come al solito, malinconica e noiosa.» In quello non era stata sincera: la novità c'era eccome, pensò, però bisognava che la tenesse per sé. La linea retta che le apparteneva, l'eterna e schietta propensione a dispensare vita, avrebbe voluto esclamare «Rallegrati», ma il cerchio raccomandava prudenza, messo in rotazione dalla brezza delle possibilità lasciava intravedere sfaccettature inquietanti. Nondimeno rifiutò di angustiarsi; sarebbe andato tutto bene. Firmò la lettera: «La tua BeatriceJoanna che in eterno ti adora.» Indirizzò la busta al Commissario D. Foxe, QG Polizia Demografica, Palazzo Infecondità, Brighton, Londra, provando un tremito lieve nello scrivere 'Infecondità', termine che conteneva il proprio contrario. Aggiunse in grossi, marcati logogrammi: RISERVATA E PERSONALE. Intraprese quindi il lungo tragitto verticale verso la cassetta postale nei pressi di Palazzo Earnshaw. Era un'incantevole notte di luglio, alta navigava la luna, stelle a iosa, la giostra dei satelliti artificiali, una notte per amare. Cinque giovani grigiazzi, alla luce di un lampione, sbellicandosi picchiavano a sangue un vecchio dall'aria imbambolata che, acquiescente com'era a sganassoni e manganellate, doveva essere anestetizzato dall'alc. Sembrava persino, novello martire cristiano aggredito da leoni sghignazzanti in un'arena neroniana, che intonasse un canto. «Dovreste vergognarvi» li rampognò grintosa Beatrice-
Joanna. «Assolutamente vergognarvi. Infierire così su un povero vecchio.»
«Fatti i fatti tuoi» ribatté stizzito uno dei poliziotti in grigio. «Donna» aggiunse sprezzante. Alla vittima fu comunque concesso di strisciar via, continuando a cantare. Donna in tutto e per tutto, decisa a farsi i fatti suoi socialmente e biologicamente, Beatrice-Joanna scrollò le spalle e imbucò la lettera.
3
Una lettera per Tristram nel casellario postale della sala insegnanti, una lettera di sua sorella Emma. Erano le quattro e mezza, ora dell'intervallo di trenta minuti per il pranzo, ma ancora la campanella non aveva squillato. Lontano laggiù, sotto la finestra della sala, sorgeva sul mare deliziosa l'alba. Tastando la busta con lo sgargiante francobollo cinese e la sovrascritta Air Mail in ideogrammi e cirillico, Tristram sorrise a quel nuovo caso di telepatia famigliare. Succedeva quasi sempre così: a una lettera di George da occidente faceva seguito dopo un giorno o due una lettera di Emma da oriente. Nessuno dei due, si badi bene, scriveva mai a Derek. Piantato fra i colleghi, continuando a sorridere, Tristram lesse: «... Il lavoro va avanti. La scorsa settimana ho volato da Chengkiang a Hingjen a Tuyun a Shihtsien a Changsha... estenuante. Qui c'è rimasto quasi solo posto in piedi, ma dopo il recente giro di vite il Governo Centrale sta adottando misure davvero spaventose. Una decina di giorni fa è avvenuta a Chongqing l'esecuzione in massa di trasgressori alle leggi sull'Incremento Familiare. A molti di noi è parso un provvedimento eccessivo...» Tipica di lei, tanta moderazione. Tristram vide con gli occhi della mente un compassato volto di quarantacinquenne su cui due sottili labbra contegnose pronunziavano quella frase. «... Però sembra abbia avuto un effetto salutare su qualcuno che, a dispetto di tutto, ambirebbe ancora, per dare senso all'esistenza, a divenire un onorevole antenato venerato da innumerevole progenie. Individui del genere rischiano di assurgere al rango di antenati prima di quanto si aspettino. Curiosamente, ironicamente, sembra stia verificandosi qualcosa di molto simile a una carestia nella provincia del Fukien, dove per qualche ignoto motivo la raccolta del riso è andata male...» Tristram si aggrondò cogitabondo. George che riferiva di ruggine del grano, le notizie sulla pesca delle aringhe, e adesso questo. Nacque in lui un vago ma preoccupante sospetto di cui non riusciva ancora a definire l'oggetto.
«Come sta, oggi, il nostro caro Tristram?» si sentì chiedere da una giovane voce leziosa e insinuante. Era Geoffrey Wiltshire, il nuovo responsabile del Dipartimento Studi Sociali, glaucopide ruffiano beniamino dei capoccia, talmente biondo da sembrar quasi canuto. «Bene» rispose Tristram, che si sforzava di non odiarlo troppo, abbozzando un sorriso all'acido citrico.
«Mi sono sintonizzato sulla tua lezione in Sesta» rivelò Wiltshire. «So che non me ne vorrai se ti dico una cosa, mio carissimo Tristram.» Recò nei pressi del collega una zaffata di profumo e due paia di ciglia palpitanti. «E cioè che ti ho sentito insegnare qualcosa che non avresti dovuto insegnare.»
«Non rammento» svicolò Tristram cercando di padroneggiare il respiro.
«Io d'altro canto rammento piuttosto bene. Hai sostenuto qualcosa del genere: l'arte, hai dichiarato, non può fiorire in una società come la nostra perché, mi pare tu abbia asserito, l'arte è il prodotto di - ritengo sia questa l'espressione cui hai fatto ricorso - una brama procreatrice. Aspetta,» disse «aspetta» a Tristram che apriva bocca per ribattere. «Hai anche affermato che i materiali usati nelle arti erano, in effetti, simboli di fecondità. Ora, a parte il fatto, mio comunque caro Tristram, a parte il fatto che assolutamente non si comprende a qual titolo esattamente ciò possa rientrare nel programma, tu hai del tutto ingiustificatamente - non puoi negarlo - del tutto ingiustificatamente insegnato qualcosa che è, da qualunque versante lo si consideri, eretico a dir poco.» La campanella del pranzo si degnò di squillare. Mentre tutti s'incamminavano lentamente verso la salamensa riservata al personale docente e amministrativo, Wiltshire pose un braccio attorno alle spalle di Tristram.
«Ma, dannazione» protestò Tristram tenendo a freno la collera «è vero. Tutta l'arte non è che un aspetto della sessualità...»
«Nessuno, mio caro Tristram, nega che ciò sia, entro certi limiti, assolutamente vero.»
«Il discorso però è più complesso. La grande arte, l'arte del passato, è una sorta di esaltazione dell'accrescimento. Voglio dire, prendi la drammaturgia, per esempio. È noto che tragedia e commedia ebbero origine dai riti di fertilità. Il capro sacrificale - tragos in greco - e le villiche feste priapee che si cristallizzarono nel dramma comico. Insomma... voglio dire... e poi...» farfugliò Tristram «prendi l'architettura...»
«Basta così.» Wiltshire si fermò, lasciò ricadere il braccio dalle spalle di Tristram e gli agitò un indice dinanzi agli occhi come a dissipare il fumo che li obnubilava. «È ora di finirla con questa roba, nevvero caro Tristram? Ti prego, ti scongiuro, stai attento. Ti siamo tutti molto affezionati, lo sai.»
«Non vedo proprio che cosa c'entri questo con qualsivoglia...»
«C'entra molto con tutto. Allora su, fa' il bravo ragazzo...» era di almeno sette anni più giovane di Tristram «... e attieniti al programma. In tal modo non potrai tralignare di molto dalla retta via.»
Tristram non replicò, e tenne ben pigiato il coperchio sul suo umore ribollente. Ma entrando fra i vapori della sala-mensa si allontanò deliberatamente da Wiltshire per cercare il tavolo al quale sedevano Visser, Adair, Butcher (chissà che mestiere facevano i suoi antenati) , Freathy e Haskell-Sprott. Uomini innocui che insegnavano innocue materie, schiette competenze tecniche refrattarie a qualunque disputa. «Hai l'aria di non star niente bene» lo accolse l'amigdalopide Adair.
«In effetti mi sento piuttosto male» confermò Tristram. Haskell-Sprott, a capotavola, gli scodellò un rarefatto stufato vegetale dichiarando:
«Questo ti farà star peggio.»
«... Quei piccoli bastardi si comportano meglio da quando possiamo usare la mano pesante» stava dicendo Visser. Mimò una violenta scarica di pugni. «Prendiamo il giovane Mildred, per esempio - strano nome, Mildred, un nome da ragazza, anche se naturalmente è il suo cognome - prendiamo lui. Oggi di nuovo in ritardo, e allora che ho fatto? Gli ho fatto dare una lezioncina dai duri... Brisker, dico, e Couchman, e il resto del branco. L'hanno conciato per le feste. Giusto due minutini, non di più. Alla fine non riusciva nemmeno a rialzarsi.»
«Disciplina ci vuole» convenne Butcher con la bocca piena di stufato.
«Sì, hai proprio una brutta cera» insisté Adair rivolto a Tristram.
«Purché non gli vengano le nausee mattutine» lo sbirciò malizioso quel burlone di Freathy.
Tristram posò il cucchiaio. «Che cosa hai detto?»
«Scherzavo» corse ai ripari Freathy. «Non intendevo offendere.»
«Hai detto qualcosa sulle nausee mattutine.»
«Lascia perdere. Era solo una battuta.»
«Ma è impossibile» gemette Tristram. «Non può essere.»
«Fossi in te» suggerì Adair «andrei a schiacciare un pisolino. Hai proprio un'aria sofferente.»
«Assolutamente impossibile» ribadì Tristram.
«Se lo stufato non ti va,» approfittò Freathy con l'acquolina in bocca «ti sarei infinitamente grato...» E fece scivolar verso di sé il piatto di Tristram.
«Non è giusto» protestò Butcher. «Bisognerebbe spartirlo. La tua è pura e semplice ingordigia.» Si contesero la stoviglia sbrodolando la sbobba.
«Sarà meglio che me ne vada a casa» capitolò Tristram.
«Saggia decisione» approvò Adair. «Se stai male un motivo ci sarà. Ti sarai beccato qualcosa. Qualcosa di contagioso.» Tristram si alzò, allontanandosi barcollando per andare ad avvertire Wiltshire. Butcher aveva conquistato lo stufato e se lo trangugiava trionfante.
«Golosacci» sentenziò Haskell-Sprott in tono indulgente. «Ecco quel che siete.»
4
«Ma come è potuto accadere?» sbraitò Tristram. «Come? Come? Come?» Due passi verso la finestra, due passi di ritorno verso la parete, mani nervosamente avvinghiate alle terga.
«Niente è sicuro al cento per cento» proclamò Beatrice-Joanna olimpicamente assisa. «Potrebbe essersi verificato un sabotaggio all'Antifecondificio.»
«Assurdo! Che sciocchezza! Che frottola malsana! Che indegna corbelleria!» tempestò Tristram voltandosi verso di lei. «In linea col resto del tuo atteggiamento.»
«Sei sicuro» abbozzò Beatrice-Joanna «di aver preso davvero le pillole in quella memorabile occasione?»
«Sicuro che sono sicuro. Mai mi sarei sognato di correre un rischio del genere.»
«No, certo che no.» Dondolò la testa cantilenando: «Pastiglia ingoiata, minaccia sventata.» Gli rivolse un sorriso di sotto in su. «Sarebbe stato uno slogan coi fiocchi, vero? Ma ormai si sa, niente più slogan per farci rigar dritto. Ora è tempo di maniere forti.»
«È assolutamente al di là della mia comprensione» lamentò Tristram. «A meno che...» La sovrastò minaccioso. «Ma tu non lo faresti, vero? Non saresti tanto perfida e scellerata e immorale da perpetrare un simile misfatto.» Parole agostiniane. L'afferrò per un polso. «C'è qualcun altro?» le domandò. «Dimmi la verità. Ti prometto di non arrabbiarmi» le garantì, rabbioso.
«Via, non essere sciocco» replicò lei senza scomporsi. «Ammesso e non concesso che volessi esserti infedele, con chi mai potrei tradirti? Non andiamo da nessuna parte, non conosciamo nessuno. Inoltre» soggiunse infervorandosi «respingo energicamente le tue insinuazioni, i tuoi sospetti. Ti son stata fedele dal primo giorno di matrimonio, e guarda tu che riconoscenza, che apprezzamento debbo vedermi elargire per tanta dedizione.»
«Le pastiglie devo averle prese, per forza» disse Tristram facendo uno sforzo di memoria. «Ricordo benissimo. Fu il giorno che il povero piccolo Roger...»
«Sì, sì, sì.»
«... E avevo appena finito di cenare, e se non ricordo male fosti tu a suggerire...»
«Oh no, Tristram. Io no. Io no di sicuro.»
«... E rammento distintamente di aver fatto scendere dal soffitto l'armadietto medicinale e...»
«Avevi bevuto, Tristram. Puzzavi di alc in maniera tremenda.» Tristram chinò il capo un istante. «Sei sicuro di aver preso le pillole giuste? Io non ho mica controllato. Tu sai sempre quel che fai, vero caro?» Un barbaglio di sarcasmo le scoccò dai denti naturali. «Sia come sia, ormai è andata. Magari è stato un improvviso accesso di brama procreatrice.»
«Dove hai preso questa espressione?» la rimbrottò. «Chi ti ha detto quelle parole?»
«Tu in persona» sospirò lei. «È un'espressione che usi, a volte.» Lui la scrutò incredulo. «Dev'esserci in te» proseguì lei «una forte componente eretica. A livello inconscio, per lo meno. Parli nel sonno, sai? Mi svegli russando e poi, ottenuto un pubblico, ti metti a parlare. A modo tuo non sei meno egoista di me.»
«Bene.» Tristram si guardò attorno incerto, in cerca di qualcosa su cui sedere. Beatrice-Joanna evocò dalla parete un'altra sedia, che scese ronzando. «Grazie» fece lui distrattamente. «Comunque sia accaduto» disse accomodandosi «devi disfartene. Devi prendere qualcosa. Non puoi aspettare di esser costretta a rivolgerti al Centro Abortivo. Sarebbe una vergogna. Grave quasi quanto infrangere la legge. Trascuratezza» borbottò. «Mancanza di autocontrollo.»
«Ecco, non lo so.» Incredibile con quanta freddezza affrontasse l'intera faccenda. «Forse le cose non sono brutte come le dipingi. Insomma, tanta gente ha avuto figli oltre la quota, e non gli è mica successo granché. Io ho diritto a un bambino» affermò con più calore. «Roger l'ha ucciso lo Stato. Lo Stato lo ha lasciato morire.»
«Bah, sciocchezze. Ne abbiamo già discusso. Ciò di cui nella tua stupidità sembri non renderti conto è che le cose sono cambiate. Le cose sono cambiate.» Sottolineò il concetto assestandole a ogni parola un pugno lieve sul ginocchio. «Ascolta» disse. «Il tempo delle richieste è finito. Lo Stato non chiede più. Lo Stato ordina, lo Stato costringe. Ti rendi conto che in Cina la gente è stata addirittura messa a morte per aver disobbedito alle leggi sul controllo delle nascite? Giustiziata. Impiccata o fucilata... non so bene. Me l'ha detto Emma in una lettera.»
«Ma qui non siamo mica in Cina» eccepì Beatrice-Joanna. «Siamo più civili, qui.»
«Ti sbagli di grosso. Sarà lo stesso dappertutto. I genitori di un mio alunno se li è portati via la Polizia Demografica... ti rendi conto? E successo proprio ieri sera. E da quel che ho potuto capire il bambino non l'avevano ancora neanche avuto. È bastato che lei fosse incinta, da quel che ne so. Sacripante, donna, non passerà molto che se ne andranno in giro con una gabbia piena di topi a fare il test di gravidanza sulle urine.»
«Come funziona?» domandò lei incuriosita.
«Sei incorreggibile, ecco cosa sei.» Si alzò. Beatrice-Joanna fece rientrare la sedia nella parete con un cigolio per lasciar spazio al suo andirivieni. «Grazie. Ora ascolta» le disse. «Considera la nostra situazione. Se qualcuno scoprisse che siamo stati negligenti, pur impedendo alla negligenza di avere ulteriori sviluppi, se qualcuno lo scoprisse...»
«Ma com'è possibile che qualcuno lo scopra?»
«Oh, non so. Qualcuno potrebbe sentirti, al mattino... quando ti alzi, cioè» specificò per delicatezza. «C'è la signora Pettitt qui accanto. Le spie sono ovunque, ricorda. Dove c'è Polizia ci sono sempre anche le spie. Li chiamano delatori. Oppure potresti dire qualcosa a qualcuno... non volendo, si capisce. Tanto vale che tu sappia che a scuola le cose stanno prendendo una piega che non mi piace affatto. Quella carognetta di Wiltshire continua a origliarmi le lezioni. Senti,» decise di tagliar corto «ora esco. Vado dal farmacista. Voglio prenderti qualche compressa di chinino. E un po' d'olio di ricino.»
«Li detesto. Hanno un sapore schifoso. Aspettiamo un pochino, va bene? Solo un pochino. Le cose potrebbero aggiustarsi.»
«Ci risiamo. Possibile che non riesca a farti entrare in quella testaccia dura che viviamo in tempi pericolosi? La Polizia Demografica ha un sacco di potere. E nessuno scrupolo. Quella è gente cattiva, spietata.»
«Non credo proprio che mi farebbero del male» obiettò lei con aria di sufficienza.
«E perché no? Perché non dovrebbero?»
«Una sensazione, tutto qui.» Attenta, attenta... «Chiamala un'intuizione, nient'altro.» Poi: «Oh!» esclamò impetuosamente. «Ne ho fin sopra i capelli di questa storia. Se Dio ci ha fatti come siamo, perché dovremmo preoccuparci di quel che lo Stato ci dice di fare? Dio è più forte e più saggio dello Stato, non credi?»
«Non c'è nessun Dio.» Tristram la scrutò incuriosito. «Dove sei andata a pescarle queste idee? Con chi hai parlato?»
«Con nessuno. Non vedo mai nessuno, tranne quando esco a comprare le razioni.
Quando parlo, parlo con me stessa. O al mare. Qualche volta parlo al mare.»
«Che significa? Si può sapere che sta succedendo? Ma ti senti bene?»
«A parte il fatto che ho sempre fame» rispose Beatrice-Joanna «mi sento benissimo. Benissimo da capo a piedi.»
Tristram andò alla finestra e sollevò lo sguardo al fazzoletto di cielo visibile tra le eccelse torri. «Mi chiedo a volte» confessò «se dopotutto non ci sia davvero un Dio. Qualcuno lassù» mormorò meditabondo «che abbia in mano la situazione. Sì, a volte me lo chiedo... Però mi raccomando» si affrettò ad aggiungere voltandosi repentinamente in preda a un lieve attacco di panico «non dirlo a nessuno che te l'ho detto. E poi non ho mica detto che c'è un Dio. Ho detto solo che a volte me lo chiedo, e basta.»
«Non è che di me ti fidi molto, vero?»
«Se è per questo non mi fido di nessuno. Scusa, ma tanto vale che con te sia sincero fino in fondo. Per fidarsi ci vuole coraggio, e io non ce l'ho. E a quanto pare non riesco nemmeno a fidarmi di me stesso, vero?» Dopo di che uscì nel mattino perlaceo per andare a comprar chinino in una Farmacia di Stato e olio di ricino in un'altra. Nel primo negozio vociò di malaria tirando persino in ballo un viaggio didattico compiuto tempo addietro lungo il Rio delle Amazzoni; nel secondo interpretò con maestria il ruolo di un miserando stitico.
5
Se non Dio, dovrebb'esserci almeno un demiurgo modellatore. Così pensò Tristram più tardi quand'ebbe agio di pensare e propensione a farlo. Il giorno dopo (benché soltanto il calendario ammettesse sul serio tale espressione, dal momento che il sistema dei turni trascendeva il tempo naturale come un viaggio aereo senza più scali) il giorno dopo Tristram si accorse d'essere pedinato. Una nitida macchia nera a immutabile distanza in mezzo alla folla alle sue spalle, delineatasi nella sua interezza mentre Tristram svoltava in Rostron Place - con l'aspetto di un signorile ometto baffuto con l'uovo della Poldemo deflagrante al sole sul distintivo del berretto e tre stelle scintillanti per ciascuna spallina. Tristram si sentì cogliere dalle gelatinose sensazioni dell'incubo... membra rammollite, respiro corto, sgomento. Quando però un autocarro con rimorchio carico di attrezzature per il Ministero del Cibo Sintetico prese a immettersi timidamente da Rostron Place in Adkins Street, Tristram raggranellò abbastanza vigore e spirito di sopravvivenza da catapultarsi ad aggirarlo per raggiungerne la fiancata opposta, cosicché molte rosse tonnellate di tubi e caldaie s'interposero a separare la preda dal cacciatore. Non che facesse alcuna differenza, si rese conto, sentendosi disperato e sciocco; se davvero lo volevano, l'avrebbero acchiappato comunque. Imboccò la seconda svolta a sinistra, Hanania Street. A occupare l'intero pianoterra dell'Edificio Reppel si spandeva là il Metropole, ritrovo di alti funzionari, luogo quanto mai inadatto a un umile insegnante con l'impiego a rischio. Facendo scampanellare i pochi sept, tanner e tosheroon che gli sguazzavano nella tasca sinistra dei calzoni, entrò. Tintinnio di bicchieri, ampie schiene e femminee spalle in uniformi grigie e nere, governativo parlar forbito. («L'errebi barra trecentosettantuno è assolutamente chiaro al riguardo.») Tristram sgattaiolò a un tavolo libero e attese un cameriere. («L'assegnazione di materie prime dovrebb'essere elaborata in sede di consultazione interministeriale.») Nero come l'asso dì picche sopraggiunse un cameriere in giacca crema. «Con che cosa, signore?» domandò. «Con aranciata» rispose Tristram, lo sguardo fisso sulla porta oscillante. Fecero il loro ingresso "una coppia di grigiuniformati elegantoni che schiattavano dal ridere; un calvo castrato arcigno e occhialuto col segretario ragazzino; una donna mascolina dall'inutile seno voluminoso. Fu con una specie di sollievo che Tristram vide poi entrare il suo tallonatore. Sberrettatosi rivelando imbrillantinati capelli ruggine corti e lisci, il poliziotto immerse lo sguardo nella ressa dei bevitori; Tristram mancò poco si sbracciasse per segnalare la propria posizione. Ma il poliziotto non tardò a individuarlo e si approssimò sorridente. «Il signor Foxe? Il signor Tristram Foxe?»
«Sì, come lei sa benissimo. Farà meglio ad accomodarsi. A meno che, naturalmen-
te, non intenda portarmi via seduta stante.» Il cameriere nero tornò con la bevanda di Tristram.
«Portarla via?» Il poliziotto rise. «Oh, capisco. Senta,» rivolto al cameriere «ne prendo uno anch'io. Sì,» rivolto a Tristram «lei somiglia molto a suo fratello. Suo fratello Derek, per l'esattezza. Di aspetto. Quanto al resto, ovviamente, proprio non saprei.»
«Mi risparmi i suoi giochetti. Se vuole muovermi un'accusa, lo faccia.» Protese persino i polsi, quasi mimando una posizione da ciclista.
Il poliziotto rise più forte. «Ascolti il mio consiglio, signor Foxe. Se ha commesso qualcosa di perseguibile, aspetti che la scoprano. Abbiamo, mi spiego, già abbastanza da fare senza che la gente si autoaccusi.» Poggiò sul tavolo entrambe le mani a palmi in su, come a mostrare ch'erano monde di sangue, e sorrise garbatamente a Tristram. Sembrava un tipo perbene, più o meno della sua età.
«Bene» disse Tristram. «Potrei sapere...» Il poliziotto compì una panoramica col capo come per accertarsi se qualcuno, in ascolto o meno, fosse in grado di udire. Ma Tristram aveva umilmente scelto un periferico tavolo appartato. Espressa la propria soddisfazione annuendo lievemente, il poliziotto disse: «Non le rivelerò il mio nome. Quanto al grado può constatarlo da sé... capitano. Lavoro, mi spiego, nell'organismo di cui suo fratello è Commissario. Ed è proprio di suo fratello che vorrei parlare. Suppongo che lei non sia troppo entusiasta di suo fratello.»
«Infatti non lo sono» confermò Tristram. «Non vedo però che cos'abbia a che fare con checché o chicchessia.» Il cameriere servì l'alc al capitano, e Tristram ne ordinò un altro. «Pago io» si offrì il capitano. «Ne porti altri due. Doppi.» Tristram inarcò le sopracciglia.
«Casomai avesse intenzione» mise in chiaro «di farmi ubriacare per indurmi a dir cose che non dovrei dire...»
«Che scempiaggine» rise il capitano. «Lei è, mi spiego, un individuo assai sospettoso, direi. Suppongo che lo sappia. Vien naturale pensare che lei non ignori di essere un individuo oltremodo sospettoso.»
«Certo che lo sono» ammise Tristram. «Ci pensano le circostanze a renderci tutti sospettosi.»
«Direi» proseguì il capitano «che suo fratello Derek abbia saputo egregiamente farsi strada, non è d'accordo? Ciò, naturalmente, a dispetto di una quantità di cose. A dispetto dei trascorsi famigliari, per esempio. Ma essere omo, mi spiego, cancella ogni altra colpa, per esempio, mi spiego, le colpe dei padri.»
«Ha indiscutibilmente fatto carriera, sì» riconobbe Tristram. «Adesso Derek è un pezzo molto grosso.»
«Già, ma non direi che la sua posizione sia inattaccabile, non lo direi affatto. E quanto a essere un pezzo grosso... be', la grossezza è un concetto alquanto relativo, non crede? Già,» si diede ragione il capitano «decisamente relativo.» Si sporse verso Tristram e dichiarò, apparentemente cambiando discorso: «Il mio ruolo ministeriale mi dava diritto senz'altro, mi spiego, al grado quanto meno di maggiore, nel nuovo corpo. Lei mi vede, tuttavia, con solo tre stellette di capitano. Un uomo di nome Dann, molto più giovane di me, mi ha soffiato la corona. Si è mai trovato in una situazione del genere, signor Foxe? Ha mai subito, mi spiego, l'umiliante esperienza di vedere un uomo più giovane scavalcarla nella scala gerarchica?»
«Oh, sì» rispose Tristram. «Certo che l'ho subita. L'ho subita eccome.» Comparve il cameriere coi doppialc. «Aranciata esaurita» annunciò. «Ecco qui del ribes nero.
Spero che a lorsignori non dispiaccia.»
«Lo sapevo» annuì il capitano «che avrebbe capito.»
«È per il fatto di non essere omo, ovviamente» osservò Tristram.
«Credo anch'io» convenne il capitano, serbando un tono accuratamente misurato, «che possa entrarci per qualcosa. Suo fratello sarebbe senza dubbio l'ultimo a negare quanto debba, mi spiego, ai propri atteggiamenti sessuali alquanto invertiti. Ma ora mi dica, signor Foxe, lei che lo conosce da una vita, che ne pensa dei suddetti atteggiamenti sessuali alquanto invertiti? Li ritiene autentici?»
«Autentici?» Tristram si aggrondò. «Sin troppo vomitevolmente autentici, direi. Cominciò a comportarsi in quel modo che ancora non aveva sedici anni. Non ha mai mostrato alcun interesse per le ragazze.»
«Mai? Bene. Torniamo ora alla sua ammissione di essere un individuo sospettoso, signor Foxe. Ha mai sospettato di sua moglie?» Sorrise. «E una domanda grave da rivolgere a un marito, ma gliela faccio in assoluta buona fede.»
«Non capisco proprio...» fece Tristram. E poi: «Sacripante, cosa sta insinuando?»
«E invece comincia a capire» annuì il capitano. «In certe cose è davvero un fulmine. Si tratta, mi spiego, di questione estremamente delicata.»
«Sta cercando di dirmi...» scandì Tristram incredulo «sta cercando d'insinuare che mia moglie... che mia moglie e mio fratello Derek...»
«Lo sorveglio da tempo» rivelò il capitano. «E lui sa che lo sorveglio, ma non sembra gliene importi più di tanto. Fingere omosessualità dev'essere, per un uomo sessualmente normale, un grandissimo sforzo, un po' come cercar di sorridere ininterrottamente. Che suo fratello Derek si sia incontrato con sua moglie in varie occasioni posso garantirglielo. Posso fornire le date. Molte volte è salito nel suo appartamento. Il che naturalmente potrebbe anche non volere dir nulla. Magari si è limitato a impartire a sua moglie lezioni di russo.»
«Quella puttana» sbottò Tristram. «Quel bastardo.» Non sapeva con chi prendersela di più. «Lei non me l'ha mai detto. Non ha mai detto una parola sulle visite di Derek. Ma adesso tutto quadra. Sì, comincio a capire. L'ho pescato che usciva. Circa due mesi fa.»
«Ah.» Il capitano tornò ad annuire. «Non è comunque mai emerso, mi spiego, alcun vero riscontro. In tribunale, quando ancora esistevano i tribunali, tutto ciò non avrebbe costituito effettiva prova di adulterio. Suo fratello potrebbe aver bazzicato l'appartamento perché affezionato al nipotino. Evitando naturalmente di far visita in sua presenza in quanto ben consapevole che fra voi due non corre certo buon sangue. E sua moglie si sarebbe guardata dal far cenno a tale frequentazione nel timore, mi spiego, di suscitare la sua collera. E allorché due mesi fa, se ben rammento, vostro figlio è morto, le visite sono cessate. Le visite potrebbero, naturalmente, esser cessate per un motivo completamente diverso, vale a dire la promozione di suo fratello alla carica che attualmente ricopre.»
«Lei sa un sacco di cose, vero?» commentò Tristram con amarezza.
«Guai a me se non le sapessi» replicò il capitano. «Anche se, mi spiego, il sospetto non è certezza. Ora però vengo a qualcosa d'importante che so davvero a proposito di sua moglie e suo fratello. Sua moglie ha scritto a suo fratello. Ha scritto quella che, ai vecchi tempi, si definiva una lettera d'amore. Una soltanto, non di più, ma naturalmente assai compromettente. L'ha scritta ieri. In essa rivela quanto le manchi suo fratello e, inevitabilmente, quanto lo ami. Esplicitando inoltre una certa quantità di particolari erotici... non troppi, ma una certa quantità sì. Sua moglie ha commesso una grossa sciocchezza a scrivere quella lettera, ma ancor più grossa l'ha commessa suo fratello a non distruggerla immediatamente dopo averla Ietta.»
«E così» ringhiò Tristram «lei l'ha vista, vero? Puttana infedele» aggiunse. E poi: «Questo spiega tutto. Lo sapevo che non avevo commesso nessun errore. Lo sapevo. Quei perfidi, infidi, spregevoli...» Difficile dire chi odiasse di più.
«Purtroppo» soggiunse il capitano «sulla questione della lettera lei ha soltanto la mia parola. Sua moglie negherà tutto, immagino. Però aspetterà il prossimo discorsetto televisivo di suo fratello Derek, perché in quel prossimo discorsetto gli ha chiesto di lanciare un messaggio occulto tutto per lei. L'ha implorato d'intercalare in qualche modo la parola 'amore' o la parola 'desiderio'. Vezzosa idea» commentò il capitano. «Ritengo tuttavia che non le parrà necessario attendere un tal genere di conferma. Potrebbe anche non giungere mai, mi spiego. In ogni caso quelle due parole, entrambe o disgiuntamente, non avrebbero alcuna difficoltà a ricorrere in modo del tutto naturale in un discorso televisivo a carattere patriottico... ormai tutti i telediscorsi sono patriottici, vero? Suo fratello potrebbe dir qualcosa sull'amor di patria o sul desiderio di ciascuno, mi spiego, di offrire il proprio piccolo contributo per porre fine all'attuale emergenza, se così può definirsi. Il fatto è, suppongo, che lei vorrà agire pressoché immediatamente.»
«Esatto» confermò Tristram. «Immediatamente. Può anche andarsene. Può sparire. Può togliersi dai piedi. Non voglio vederla più. Che lo faccia pure, il suo bambino. Lo faccia dove le pare. Non glielo impedirò.»
«Intende forse dire» sibilò il capitano stupefatto «che sua moglie è incinta?»
«Non sono stato io» scattò Tristram. «Lo so bene. Giuro che non sono stato io. È stato Derek. Quel porco di Derek.» Mollò un pugno sul tavolo. Il tintinnio canoro dei bicchieri ne scandì la danza. «Cornificato proprio» deplorò come in una ridanciana commedia elisabettiana «da mio fratello.»
Il capitano prese a lisciarsi col mignolo sinistro i baffi rossicci, ora un mustacchio ora l'altro. «Capisco» disse. «Ufficialmente non ne so nulla. Non v'è prova, mi spiego, che il responsabile non sia lei. Esiste pur sempre la possibilità, lei stesso non avrà remora a convenirne, che il bimbo - se mai dovesse nascere, il che ufficialmente, s'intende, non deve accadere - che il bimbo sia suo. In altri termini, com'è possibile appurare ufficialmente che lei non sta mentendo?»
Tristram lo scrutò attentamente. «Lei mi crede?»
«Quel che credo io non conta nulla» rispose il capitano. «Ammetterà però che addossando questa faccenda al Commissario della Polizia Demografica s'incontrerebbe, mi spiego, una certa dose d'incredulità. Altra cosa è la relazione con una donna. Per il suo altolocato fratello sarebbe attestato di depravazione e stoltezza, certo. Ma ingravidare la sua morosa configurerebbe una tale sbalorditiva imbecillaggine, una così vertiginosa coglioneria... troppo idiota per essere vero. Mi spiego? Mi spiego?» Era la prima la volta che adoperava l'intercalare in veste d'autentica domanda.
«Gliela farò pagare» promise Tristram solennemente. «Stia tranquillo che gliela farò pagare, a quel maiale.»
«E allora beviamoci sopra» propose il capitano. Il cameriere nero stazionava nei pressi, intento a battere il vassoio metallico contro un ginocchio leggermente piegato, canticchiando a bocca chiusa un ovattato accompagnamento al sonoro tamburellio. Il capitano schioccò le dita. «Altri due doppi» ordinò.
«Sono egualmente colpevoli» decretò Tristram. «Esiste forse un tradimento peggiore? Tradito dalla moglie, tradito dal fratello. Oh Sacripante Sacripantaccio.» Si schiaffò le mani sugli occhi e sulle guance come a schermirsi da quel mondo traditore, lasciando però la bocca tremante a fronteggiarlo.
«Il vero colpevole è lui» precisò il capitano. «Non ha tradito soltanto un fratello. Ha tradito lo Stato e il proprio eminente ruolo nella compagine governativa. Ha commesso il più scellerato e il più stupido dei crimini, mi spiego. La faccia innanzitutto pagare a lui, la faccia. Sua moglie si è semplicemente comportata da donna, e le donne non hanno certo un gran senso di responsabilità. Lui è l'infame, lui. Gliela faccia pagare.» Giunsero i beveraggi, di un viola funereo.
«E pensare» gemette Tristram «che le ho dato amore, fiducia... tutto ciò che un uomo può dare a una donna.» Sorseggiò il succalc di frutta.
«Melensaggini della malora, mi spiego» liquidò impaziente il capitano. «Lei è l'unico in grado di fargliela pagare. Che posso fare io, eh, nella mia posizione? Anche mi fossi tenuta la lettera, anche me la fossi tenuta, non crede che se ne sarebbe accorto? Non pensa che m avrebbe sguinzagliato addosso i suoi scagnozzi? È un uomo pericoloso.»
«Già, perché, io che posso fare?» controdedusse Tristram piagnucoloso. «Troppo in alto s'è arrampicato.» A forza di smoccicare ne andava colmando il bicchiere. «Trarre vantaggio dalla sua posizione per tradire nientemeno che il proprio fratello, ecco che cos'ha fatto.» Tutta un tremito la bocca e uno stillicidio che colava torno torno le lenti a contatto. Ma subitaneamente, sbatacchiando violento il pugno sul tavolo: «Puttana!» esplose, dando stura alla sua estrazione plebea. «Aspetta che la vedo, aspetta solo che mi capita a tiro.»
«Sì, bravo, così, quest'aspetto può anche attendere, mi spiego. Dia retta a me, la faccia prima pagare a lui. Ha cambiato appartamento, sta al 2095 di Palazzo Winthrop. Vada da lui, lo conci per le feste, gli dia una bella lezione. Vive da solo, mi spiego.»
«Vuol dire farlo fuori?» trasecolò Tristram. «Ucciderlo?»
«Crime passionnel, lo chiamavano. Sua moglie prima o poi si può costringerla a confessare, mi spiego. Gliela faccia scontare, lo tolga di mezzo.»
Balenò in Tristram un tentennante sospetto. «Sino a che punto posso fidarmi di lei?» domandò. «Non voglio farmi usare, non voglio farmi convincere a sporcarmi le mani al posto di qualcun altro, mi spiego.» L'intercalare si stava rivelando contagioso. «Le rivelazioni che mi ha fatto su mia moglie... Sarà stato sincero? Come faccio a crederle? Prove non me ne ha date, dove sono le prove?» Spinse il bicchiere vuoto al centro del tavolo. «Si tenga pure questa porcata, tanto sta solo tentando di farmi ubriacare.» Cominciò, con qualche modica difficoltà, ad alzarsi. «Vado a casa a chiarir la cosa con mia moglie, ecco che faccio. Poi si vedrà. Ma non ci sto mica a sporcarmi le mani per voi. Non mi fido di voialtri, non mi fido e basta. Un complotto, ecco cos'è.»
«Dunque non è ancora convinto» incassò il capitano. Prese a tastare una tasca laterale della giubba.
«Sì, un complotto. Lotte di potere interne al partito... tipiche dell'Interfase. Sono uno storico, per sua norma e regola. E ora sarei a capo del Dipartimento Studi Sociali se quel maiale di un omo non avesse...»
«D'accordo, d'accordo» lo blandì il capitano.
«Tradito» declamò Tristram in tono melodrammatico. «Tradito dagli omo.»
«Se continua così» lo ammonì il capitano «sì farà arrestare.»
«Tutto qui quel che sapete fare voialtri, arrestare la gente. Un classico caso di sviluppo ritardato.» E poi: «Tradito.»
«Benissimo» fece il capitano. «Se vuole una prova, eccola qua.» Trasse una lettera di tasca, brandendola.
«Me la dia» pretese Tristram cercando di abbrancarla. «Me la faccia vedere.»
«No» rifiutò il capitano. «Se non si fida di me, perché io dovrei fidarmi di lei?»
«Dunque è così» si arrese Tristram. «Dunque gli ha scritto. Una schifosa lettera d'amore. Aspetta che mi viene a tiro. Che mi vengono a tiro tutt'e due.» Sbatacchiò sul tavolo senza contarli una manciata di sept e fiorini, e ottenebrato e assai malfermo sulle gambe diede inizio alla manovra di allontanamento.
«Prima lui» gli rammentò il capitano. Ma Tristram si diresse zigzagando all'uscita, ciecamente fermo nel suo proposito. Il capitano fece una smorfia tragicomica e ripose la lettera in tasca. Proveniva da un vecchio amico, un certo Dick Turnbull, in vacanza nella Foresta Nera. Di questi tempi la gente non guardava, non ascoltava, non ricordava. Comunque la lettera incriminata esisteva davvero. Il capitano Loosley l'aveva intercettata senz'ombra di dubbio sulla scrivania del Commissario Metropolitano. E purtroppo il Commissario Metropolitano, prima di sbolognarla assieme ad altra corrispondenza privata, in parte ingiuriosa, nell'inceneriforo parietale, si era accorto che il capitano l'aveva notata.
6
Pulci delle sabbie, ooteche di razza, ctenofori, ossi di seppia, labri, bavose e pescigatti, rondini di mare, sule e gabbiani reali. Beatrice-Joanna aspirò un'ultima boccata marina prima d'incamminarsi verso il Rifornitorio Statale (succursale di Rossiter Avenue) ai piedi di quella montagna ch'era l'Edificio Spurgin. Le razioni erano state di nuovo ridotte senza preavviso né giustificazione da parte dei due ministri competenti. Beatrice-Joanna ricevette e pagò due brunastre porzioni di vegetodisidratato (legumina), un grosso barattolo bianco di sintelat, cialde di cereali superconcentrate, un azzurro flacone di 'nutrelle' o formelle nutritive. A differenza delle altre acquirenti, tuttavia, Beatrice-Joanna non si lasciò andare a rimostranze e minacce (sia pure soffocate: una piccola sommossa clientelare verificatasi tre giorni prima era stata prontamente sedata e oggi l'ingresso era presidiato dai grigiazzi); si sentiva sazia di mare, come appagata da un gigantesco, rotondo vassoio di palpitante verdazzurra carne marezzata. Si domandò vagamente, lasciando il negozio, che sapore avesse la carne. La sua bocca ricordava soltanto il gusto salino della viva pelle umana in un contesto strettamente amatorio: lobi, dita, labbra. «Così squisito sei / Che io ti mangerei» enfatizzava la canzoncina sull'adorabile Fred. Il che, immaginò, era quanto s'intendeva col termine sublimazione.
Fu così che, affaccendata in un'innocente incombenza casalinga, le toccò improvvisamente fronteggiare, in una via gremita, le reboanti accuse di suo marito. «Eccoti qua» la apostrofò pencolando sotto l'effetto dell'alc. Gesticolava scomposto, acceso come un semaforo, coi piedi che parevano incollati al marciapiede davanti all'ingresso degli appartamenti di cui era in gran parte costituito l'Edificio Spurgin. «Colta sul fatto, eh? Calda, appena scesa dal letto.» Molti passanti mostrarono interesse. «Fai finta di uscire per la spesa, eh? So tutto. Inutile fingere.» Ignorò la reticella con le sue striminzite vettovaglie. «Mi han raccontato tutto, da cima a fondo.» Traballò equilibrandosi con le braccia quasi fosse in bilico sul davanzale di un piano elevato. La piccola vita nel grembo di Beatrice-Joanna rabbrividì come sotto una minaccia. «Tristram,» gli disse lei senza farsi intimidire «ti sei di nuovo sbronzato d'alc. Entra immediatamente e sali in ascensore.» «Tradito» gemette Tristram. «Avrà un bambino. Da quell'infame di mio fratello. Sgualdrina, baldracca. Bene, fallo pure. Avanti, togliti di qui e fallo. Tanto lo sanno tutti, tutti.» Qualche passante assunse un'aria scandalizzata. «Tristram» disse Beatrice-Joanna a labbra strette. «Non chiamarmi Tristram» insorse Tristram come non fosse il suo nome. «Puttana traditrice.» «Fila subito dentro» ingiunse Beatrice-Joanna. «È tutto un equivoco, è una questione privata.» «Ah, davvero?» ribatté Tristram. «Altro che privata. Avanti, vattene.» L'intera strada affollata, lo stesso cielo, erano divenuti la sua casa profanata, una dimora di sofferenza. Beatrice-Joanna tentò risolutamente di accedere all'Edificio Spurgin. Tristram cercò d'impedirglielo tessendo l'aria con un moto vibratile delle braccia.
A quel punto si udì provenire un rumore da Froude Square. Era un corteo d'uomini in tuta dall'aspetto grossolano che urlavano confusamente il proprio malcontento. «Guarda» esclamò Tristram trionfante. «Lo sanno tutti.» I manifestanti ostentavano l'emblema e la sigla degli Stabilimenti Nazionali Sintessuti. Alcuni inalberavano striscioni di protesta, scampoli di stoffa sintetica imbullonati su manici di scopa, pezzi di cartone ritagliati alla meglio e fissati a esili assicelle. L'unica vera scritta era il logogramma SCPR; per il resto nient'altro che scheletri umani rozzamente disegnati. «Fra noi è tutto finito» dichiarò Tristram. «Stupido imbecille» replicò Beatrice-Joanna. «Andiamo dentro. Non è il caso di farsi coinvolgere.» Un capopopolo dallo sguardo stralunato si erse sul basamento di un lampione aggrappandosi al pilone col braccio sinistro. «Fratelli!» gridò. «Fratelli! Se vogliono che lavoriamo come si deve devono darci da mangiare a sufficienza!»
«Impicchiamo il vecchio Jackson» propose con voce tremolante un attempato operaio. «Tiriamogli il collo.»
«Mettiamolo in pentola!» strillò un mongolo ridicolmente strabico.
«Non fare l'idiota» insisté Beatrice-Joanna impensierita. «Se vuoi restare, resta, ma io me la squaglio.» Si fece strada spingendolo bruscamente da parte. Le vettovaglie volarono in aria, Tristram barcollò e cadde. Scoppiò a piangere. «Come hai potuto, come hai potuto, proprio con mio fratello?» Lei entrò cupa nell'Edificio Spurgin, lasciandolo alla sua giaculatoria d'accuse. Tristram si rialzò faticosamente da terra afferrando la lattina di sintelat. «Smettila de spigne tu» protestò una donna. «Io nun c'entro. Voglio anda' a casa.»
«Possono pure minacciarci» pontificò il capopopolo «fino a sfiatarsi. Noi abbiamo i nostri diritti e mica ce li possono togliere, e l'astensione dal lavoro è un legittimo diritto in caso di giuste rimostranze, e mica ce lo possono negare.» Grida di consenso. Tristram si ritrovò sommerso, sballottato tra la folla degli operai. Una scolaretta, intrappolata anche lei, si mise a piangere. «Fate bene a protestare» annuì un giovanotto foruncoloso e mal rasato. «Ce fanno morì de fame tutti quanti siamo, questa è la verità.» Il mongolo dagli occhi torti si volse offrendo a Tristram un bel primo piano. Sul naso poroso gli s'era posata una mosca, e i suoi occhi sembravano fatti apposta per rimirarla. La guardò volar via meravigliato come vedesse dileguarsi un simbolo di libertà. «Mi chiamo Joe Blacklock» rivelò a Tristram. Poi, soddisfatto, tornò a girarsi per ascoltare il suo capo. Il quale, incongruamente pingue come un tacchino, dichiarò: «Facciamogli sentire come brontolano le budella vuote dei lavoratori.» Uragano di urla. «Solidarietà!» invocò il solido oratore. Altra tempesta. Tristram si sentì torchiare, spintonare. Poi, armati solo di sfollagente, comparvero due grigiazzi del Rifornitorio Statale (succursale di Rossiter Avenue). Di virile complessione, presero a smanganellare energicamente. Allorché strattonarono per il braccio destro il capopopolo abbrancato al lampione si udì un grand'urlo di dolore e rabbia. Il capopopolo si divincolò e protestò. Un poliziotto cadde e venne calpestato. Uno schizzo di sangue zampillato dal nulla lordò il volto di qualcuno. A riprova che facevano sul serio. «Aaaaargh!» gorgogliò l'uomo accanto a Tristram. «Ammazzate quelle carogne!» La scolaretta strillò. «Lasciatela passare!» perorò Tristram, improvvisamente meno sbronzo. «Sacripante, fate largo!» La folla avanzava travolgente. Il grigiazzo ancora in piedi era ormai stretto d'assedio contro la petrosa muraglia dell'Edificio Spurgin. Ansando a bocca spalancata, percoteva crani e facce. Qualcuno sputò l'arcata superiore d'una dentiera e un sogghigno da Stregatto comparve per un istante in aria. Poi minaccioso lo stridere lacerante dei fischietti. «Altre carogne!» sbraitò gutturale una voce sulla nuca di Tristram. «Tagliamo la corda!» «Solidarietà!» si sgolava il capopopolo affondato nel tafferuglio. Le sirene delle poliziauto s'impennarono e ricaddero in lugubri glissando tritonali. La folla lingueggiò in tutte le direzioni come vampe di fuoco o acqua annerita dal pietrisco. La scolaretta sfrecciò attraverso la strada con sgambettio da ragno dileguandosi in un vicolo. Tristram continuava ad artigliare con fanciullesca ostinazione il bianco barattolo di sintelat. Ora i grigiazzi occupavano la strada, alcuni brutali e ottusi, altri ostentando la dolcezza d'un leggiadro sorriso, tutti con le carabine in posizione di tiro. Un ufficiale dotato di due fulgidi galloni su ciascuna spalla avanzò impettito, fischietto in bocca come un'infantile tettarella, mano alla fondina. A entrambe le estremità della strada turbe in attesa non perdevano un gesto. Ballonzolando malsicuri avanti e indietro sopra le teste, cartelli e striscioni apparivano già irresoluti e negletti. Pazientavano neri furgoni coi portelli laterali spalancati, autocarri con la sponda ribaltabile abbassata. Un sergente berciò qualcosa. Fermento in un punto, avanzata di vessilli. L'azzimato ispettore munito di fischietto estrasse la pistola dalla fondina. Argentino trillò uno squillo, e una carabina fece fuoco in aria. «Dalli ai finocchi!» incitò un operaio in tuta lacera. L'esitante offensiva d'una falange d'uomini male in arnese acquisì rapidamente slancio, e un grigiazzo cadde strillando. Adesso il fischio trafiggeva come un mal di denti. Le carabine entrarono in azione senza remore, e i colpi sferzarono i muri con uno gnaulio quasi infantile. «Mani in alto» ingiunse l'ispettore toltosi il fischietto di bocca. Alcuni operai giacevano a terra, attoniti e sanguinanti nel sole. «Sbatteteli tutti dentro» latrò il sergente. «C'è posto per tutti, belle gioie.» Tristram lasciò cadere il barattolo di sintelat. «Attenti a quello là!» allertò l'ufficiale. «Ha una bomba artigianale.»
«Io non c'entro niente» tentò di spiegare Tristram, le mani intrecciate sul capo. «Stavo solo rientrando a casa. Sono un insegnante. Protesto vivamente. Toglietemi di dosso quelle zampacce.» «Ben detto» convenne affabile un corpulento grigiazzo, cacciandogli dritto in pancia il calcio della carabina. Tristram effuse un delicato zampillo del succo violaceo con cui era stato diluito l'alc. «Avanti.» Rinofaringe che gli bruciava del gusto acre del breve rigurgito, si lasciò sospingere fino a un autocarro nero. «Mio fratello» reclamò. «Commissario della Polpolpol...» Incapace d'interrompere il polleggio, provò a cambiar mano. «Là dentro c'è mia moglie, lasciatemi almeno parlare con mia moglie.» «Su, cammina.» Incespicò per i gradini della sponda oscillante. «Pavia' cou mi' mouglie» gli rifece il verso una voce operaia. «Hoh hoh.» Il cassone era pregno di sudore e ansiti affannosi, come se l'intero suo carico umano fosse stato benevolmente salvato da una massacrante corsa campestre. La sponda venne risollevata e inchiavardata con gaio rintoccar di ceppi; discese un telone incerato. Gli operai accolsero con gioia la completa oscurità, e un paio squittirono con femminei accenti: «Basta là, lo dico a mamma» e «Oh, Arthur, sei un bruto.» Una massa anelante accanto a Tristram sbuffò: «Non la prendono sul serio, ecco il guaio con parecchi. Mollano al primo inciampo, questo fanno.» Una voce cupa dallo sbracato vocalismo settentrionale azzardò una spiritosaggine: «Qualcuno graduisce un puanino con la fruittata?» «Sentite» fece Tristram quasi in pianto rivolto all'oscurità olezzante. «Io ero lì che volevo entrare per discutere con mia moglie, nient'altro. Non c'entro nulla, io. Non è giusto.» «Certo che non è giusto» replicò la voce seria al suo fianco. «Quando mai son stati giusti coi lavoratori.» Un altro, ostile all'accento di Tristram, ringhiò: «Chiudi il becco, va' là. Li conosciamo i tipi come te. D'occhio, ti tengo»; il che era manifestamente impossibile. Nel frattempo, o almeno così pareva, filavano rombando in convoglio lungo strade affollate, come dubitarne, di gioconda gente a piede libero. A Tristram veniva da piangere. «Ci scommetto» opinò una nuova voce «che te non hai mica intenzione di unirti alla nostra lotta, vero, amico? Gl'intellettuali non sono mai stati dalla parte dei lavoratori. A volte han fatto finta di esserlo, ma soltanto allo scopo di tradirci.» «Il tradito sono io!» esclamò Tristram. «Insomma l'hai presa in culo» commentò qualcuno. «Pure tra cani vi mordete» soggiunse una voce annoiata. Un'armonica cominciò a suonare.
Finalmente l'autocarro si arrestò. Conclusivo stridor di freni, poi gli sportelli della cabina di guida aperti e sbatacchiati, fragor di schiavardaggio, sferragliamento di chiavistelli, e la luce del giorno pieno che irrompe come una raffica di vento. «Fuori» intimò armato di carabina un butterato caporale micronesiano. «Sentite» tentò Tristram uscendo. «Desidero elevare la più energica e vibrata protesta contro questo inqualificabile trattamento. Esigo mi sia concesso di telefonare a mio fratello, il Commissario Foxe. Siete incorsi in un madornale errore.» «Dentro» ordinò un agente, e Tristram venne sospinto insieme agli altri attraverso un passaggio. Quaranta piani e rotti affondavano fino in cielo sopra le loro teste. «Voialtri qua dentro» annunciò un sergente. «Trentacinque per cella. Spazio a iosa per tutti, brutt'accozzaglia di pidocchiosi antisociali che non siete altro.» «Protesto» protestò Tristram. «Non intendo entrarci» dichiarò entrando. «E chiudila!» sbottò un operaio. «Con piacere» lo interruppe il sergente. Tre catenacci si sprangarono fragorosamente alle loro spalle, e per buona misura una chiave ruotò cigolando dentro una serratura rugginosa.
7
Essendo tempi non confacenti alla proprietà privata, quel poco che Beatrice-Joanna aveva da portar via le entrò in una sola borsa. Disse addio alla camera da letto, e le si inumidirono gli occhi nel guardare per l'ultima volta il minuscolo lettuccio ribaltabile appartenuto a Roger. Poi, in soggiorno, censì il contante in suo possesso: cinque ghinee in banconote, trenta corone, un pizzico di sept, fiorini e tanner. Quanto bastava. Non c'era il tempo d'avvertire sua sorella, ma Mavis le aveva spesso detto e spesso scritto: «Vieni pure quando vuoi, ma tuo marito lascialo a casa; lo sai che Shonny non lo può soffrire.» Sorrise Beatrice-Joanna al pensiero di Shonny, poi pianse, poi si ricompose. Staccò l'interruttore generale e il ronzio del frigorifero cessò. Adesso era un appartamento inanimato. Colpevole? Perché doveva sentirsi colpevole? Tristram le aveva ordinato d'andarsene, e lei se ne andava. Si chiese ancora chi gliel'avesse detto, in quanti fossero a saperlo. Chissà se l'avrebbe più rivisto, Tristram. «Non pensare, agisci» esortava la minuscola vita dentro di lei. «Muoviti. Quel che conta sono io.» Nella Provincia Settentrionale, pensò, sarebbe stata al sicuro; e così l'esserino che portava in grembo. Unica creatura verso cui si sentisse in obbligo. Quel sovversivo di due centimetri e mezzo, quel sedizioso pesante due grammi, quell'ammutinato della divisione cellulare, quell'indomabile della protesta a raffica... epi... meso... ipo... Minuscola vita in rivolta contro la morte monolitica. Via, via.
Visto che cominciava a piovere indossò l'impermeabile, un velo sottile impalpabile come nebbia. V'era sangue raggrumato sul marciapiede, e aghi di pioggia lo pungolavano riportandolo a scorrere, se non altro giù per la fossetta dello scarico. La pioggia veniva dal mare e significava vita. Beatrice-Joanna s'immise a passo vivace in Froude Square. Illuminato di rosso, l'ingresso alla stazione della metropolitana brulicava di gente di rosso illuminata come una legione di diavoli del vecchio mitico inferno: gente che in silenzio, borbottando, ridacchiando, si affrettava solitaria o in coppia giù per la mugugnante scala mobile. Acquistato il biglietto a un distributore e tuffatasi nelle asettiche bianche catacombe dove il vento soffiava impetuoso fuori dalle gallerie, Beatrice-Joanna salì a bordo di un convoglio per Londra Centrale. Era un servizio rapido che l'avrebbe portata a destinazione in mezzora nemmeno. Accanto a lei una vecchia ruminava incessantemente parlottando fra sé a occhi chiusi e dicendo di tanto in tanto ad alta voce: «Doris era una brava ragazza, una brava figlia, ma quell'altra...» Preston, Patcham, Pangdean. Scesero passeggeri, passeggeri salirono. Pyecombe. La vecchia sbarcò bofonchiando: «Doris.» «La torta era roba da mangiare » disse una pallida madre grassa in cartazucchero. Il suo bimbo piangeva. «Ha fame, ecco il suo guaio.» Intanto le tappe del viaggio si facevano più lunghe. Alboume. Hickstead. Bolney. Warninglid. A Warninglid salì un uomo con l'aria da intellettuale e il collo grinzoso che sedutosi accanto a Beatrice-Joanna si diede a leggere, sbuffando come una tartaruga, L Pr d Wlym Shkspr. Scartò una tavoletta di sintecioc e cominciò a masticare, ansimando. Il bimbo riprese a piangere. Handcross. Pease Pottage. «Anche la zuppa di piselli era una roba da mangiare » disse la madre. Crawley, Horley, Salfords. Località non commestibili. Redhill. A Redhill smontò l'intellettuale e salirono a bordo tre membri della Polizia Demografica, giovani subalterni impeccabili con la ferraglia tirata a lucido e la nera divisa incontaminata da capelli, forfora o sbrodolature. Scrutarono le passeggere con aria arrogante, inflessibili sguardi presumibilmente specializzati nell'individuare gravidanze illegali. Beatrice-Joanna arrossì, augurandosi che il viaggio finisse presto. Merstham, Caterham, Coulsdon. Ormai mancava poco. Si premette le mani sul ventre, come se quel suo clandestino in pieno fervore cellulare ruzzasse già in rivelatori soprassalti di gioia. Purley, Croydon, Thornton Heath, Norwood. I poliziotti scesero. E il treno Tonfando penetrò profondamente nel cuore tenebroso dell'antichissima città. Dulwich, Camberwell, Londra Centrale. E in men che non si dica Beatrice-Joanna si trovò a percorrere la linea locale in direzione del Capolinea Nord-Occidentale.
Rimase sbalordita nel vedere quanti poliziotti in grigio e in nero infestassero la chiassosa stazione. Si mise in fila alla biglietteria. Agenti di entrambi i corpi - vivaci, impertinenti, capelli cortissimi - sedevano a lunghi tavoli che sbarravano l'accesso alla fila degli sportelli.
«Identicarta, prego.» Lei la porse. «Destinazione?»
«Fattoria Statale N0313, fuori Preston.»
«Scopo del viaggio?»
Prese il ritmo facilmente. «Visita di cortesia.»
«Amici?»
«Sorella.»
«Capisco. Sorella.» Brutta parola, parola sporca. «Durata della visita?»
«Non saprei. Ehi, ma perché vuol sapere tutte queste cose?»
«Durata della visita?»
«Oh, forse sei mesi, forse più.» Come era meglio quantificare? «Vede, mi sto separando da mio marito.»
«Hm. Hm. Ti spiace controllare questa passeggera?» Un agente amministrativo trascrisse i dati dell'identicarta su un formale modulo giallino. Nel frattempo un'altra giovane donna era in difficoltà. «Vi dico che non sono incinta» continuava a ripetere. Auree chiome e labbra sottili, una poliziotta in nero prese a sospingerla verso una porta recante la scritta UFFICIALE SANITARIO. «Lo vedremo subito» disse. «Fra un momento sapremo tutto, vero, cara?»
«Ma non lo sono!» esclamò la giovane. «Vi dico di no!»
«Ecco» fece l'esaminatore di Beatrice-Joanna restituendole il libretto vidimato. Aveva una simpatica faccia da capoclasse con sopra una patina di severità posticcia come una maschera da spauracchio. «Troppe incinte illegali cercano di scappare verso le province. Lei non si abbasserebbe mai a un atto del genere, vero? Secondo la sua carta ha avuto un figlio, un maschio. Dov'è ora?»
«Morto.»
«Ah, capisco. Bene, allora è tutto, no? Vada pure.» E Beatrice-Joanna andò a comperare il suo biglietto di sola andata per il nord.
Polizia alle transenne, polizia di pattuglia sul marciapiede. Un affollato treno a propulsione nucleare. Beatrice-Joanna sedette, già esausta, fra un uomo esile talmente rigido e rinsecchito che la sua pelle sembrava un'armatura e una donnina piccola piccola con le gambe penzoloni come quelle di una grossa bambola. Di fronte aveva un uomo in completo a quadri con una triviale faccia da guitto che si succhiava accanitamente un molare finto. Una ragazzina a bocc'aperta come avesse le adenoidi esaminò Beatrice-Joanna da capo a piedi e ritorno, lentamente, accuratamente. Una giovane donna molto grassa troneggiava rubiconda come un braciere, le gambe tanto simili a tronchi d'albero che parevano spuntare dal pavimento della vettura. Beatrice-Joanna chiuse gli occhi. Quasi all'istante un sogno l'aggredì. Una landa grigia sotto un cielo temporalesco, piante cactiformi ondeggianti e gemebonde, gente scheletrita che stramazzava con nere lingue penzoloni, poi lei stessa coinvolta in un accoppiamento con una maschia sagoma tanto voluminosa da eclissare la scena. Scoppiò una risata fragorosa e si ridestò annaspando. Il treno indugiava ancora in stazione. I compagni di viaggio la fissavano con moderata - eccezion fatta per l'adenobimba - curiosità. Poi, quasi il sogno fosse stato un imprescindibile rito propiziatorio, si avviarono lentamente, lasciandosi alle spalle il poliziottame grigionero.
8
«Che ci faranno?» volle sapere Tristram. Avvezzatiglisi gli occhi all'oscurità constatò d'avere accanto il mongolo strabico che secoli prima, nella strada in rivolta, aveva dichiarato di chiamarsi Joe Blacklock. Quanto al resto dei prigionieri, alcuni stavano - non essendovi sedie - accovacciati come minatori, mentre altri s'appoggiavano alle pareti. Travolto da un accesso di trepidazione un vecchio impassibile sino a poco prima s'era aggrappato alle sbarre berciando nel corridoio: «Ho lasciato la stufa accesa. Lasciatemi andare a casa a spegnerla. Torno subito, prometto che torno» e adesso giaceva esausto sul pavimento freddo.
«A noi?» sottilizzò Joe Blacklock. «Non c'è niente di stabilito, a quanto ne so. A quanto ne so, qualcuno lo lasciano andare, altri li tengono dentro. È così, vero Frank?»
«I caporioni se la son voluta» commentò Frank, un tipo alto, emaciato, torvo. «Gliel'avevamo detto tutti a Harry che era tempo sprecato. Non dovevamo farlo.
Guarda come siamo finiti. Guarda che fine farà lui.»
«Lui chi?» domandò Tristram. «Che fine farà?»
«Caposciopero si definisce. Un po' di lavori forzati non glieli toglie nessuno. Ma potrebbe anche andargli peggio, visto l'andazzo balordo.» Foggiò la mano a pistola e la puntò su Tristram. «Potrebbe succedere anche a te» vaticinò. «Bang bang.»
«Ma io non c'entro niente» ribadì Tristram per l'ennesima volta. «Son rimasto intrappolato tra la folla. E tutto un errore, come devo dirvelo.»
«Meglio così. Dillo anche a loro quando ti vengono a prendere.» Dopo di che Frank se ne andò in un angolo a far pipì. Un esuberante afrore d'urina impregnava la cella. Un uomo di mezz'età con sulla zucca una grigia peluria e l'aria esaltata da predicatore si avvicinò a Tristram e dichiarò:
«Ti condannerai da te nel momento stesso in cui aprirai bocca, signor mio. Capiranno che sei un intellettuale non appena ti avranno davanti, benedett'uomo. Ritengo però che indubbio ardimento tu abbia mostrato nel parteggiare comunque pei lavoratori. E di ciò ricompensato sarai quando verranno tempi migliori, tieni a mente le mie parole.»
«Ma non è vero» singulto Tristram. «C'ero per caso.»
«Ah» fece una voce nell'angolo. «Rumor di passi, in verità vi dico, mi parve di udire.» Si accese cruda e abbacinante la luce in corridoio, e un martellar di stivali si avvicinò alla cella. «Voglio solo spegnerla. Non starò via tanto» implorò il vecchio da terra. Le sbarre della cella, assolutamente nere contro il bagliore improvviso, sciorinarono sui reclusi il loro ghigno impudente. Due grigiazzi giovani e furfanteschi, armati, guatarono sghignazzando fra le sbarre ghignanti. I catenacci vennero ritratti, la chiave girò cigolando nella toppa, la porta della cella si spalancò fragorosamente. «Allora» esordì un grigiazzo, un appuntato, sventolando un mazzo d'identicarte. «Guardate un po' qua. Ora le distribuisco, e quelli che gliela ridò possono squagliarsela e dopo però basta di fare i ragazzacci. Dunque. Aaron, Aldiss, Barber, Collins, Chung...» «Perché, io che accidenti ho fatto di male?» protestò Joe Blacklock. «... Davenport, Dilke, Mohamed Daud, Dodds, Endore, Evans...» Fattisi avanti a ghermire avidi il documento gli uomini venivano brutalmente sospinti fuori verso la libertà. «... Fairbrother, Franklin, Gill, Hackney, Hamidun...» «Dev'esserci un errore!» gridò Tristram. «Io sono una effe.» «... Jones, Lindsay, Lowrie...» La cella si andava svuotando rapidamente. «... Mackintosh, Mayfield, Morgan, Norwood, O'Connor...» «Appena l'ho spenta» disse il vecchio tremante afferrando la sua carta «torno. Grazie, ragazzi.» «... Paget, Radzinowicz, Smith, Snyder, Taylor, Tucker, Ucuck, Vivian, Wilson, Wilson, Wilson. Basta così. Tu chi sei, amico?» domandò a Tristram il grigiazzo. Tristram glielo disse. «Be', tu devi restar qui, devi.» «Chiedo di vedere il responsabile» implorò Tristram. «Chiedo mi sia concesso di mettermi in contatto con mio fratello. Lasciatemi telefonare a mia moglie. Voglio scrivere al Ministro degli Interni.» «Scriver non nuoce» acconsentì il grigiazzo. «Magari scrivendo ti dai una calmata. Fai pure, amico. Scrivi.»
9
«Evviva!» tuonò Shonny. «Dio sia lodato nell'alto dei cieli, guarda un po' chi si vede. La mia cara cognatina, Dio ci benedica e ci conservi, invecchiata nemmeno d'un giorno dall'ultima volta, e saranno tre anni buoni. Entra, entra, sei la benvenuta.» Poi soggiunse, sbirciando fuori sospettoso: «Non gli auguro alcun male, bada, ma spero proprio che tu non ti sia portata appresso quell'uomo orribile che, lo sai, solo a vederlo mi si rizzano i peli e mi si allegano i denti.» Beatrice-Joanna scosse il capo sorridendo. Shonny era una specie di vestigio del leggendario passato: spontaneo, sincero, onesto, virile, con un'abbronzatissima grossolana spiritosa faccia da luna piena, sgranati occhi verdazzurri, scimmiesco labbro superiore e carnoso labbro inferiore sensualmente protruso, il corpaccione insaccato in un abbigliamento contadinesco. «Mavis,» chiamò «Mavis» e Mavis comparve nel minuscolo ingresso: sei anni più di Beatrice-Joanna, stessi capelli color sidro, occhi castano ticchiolato, forme generose, grembo accogliente.
«Non ho avuto il tempo di avvertirvi» spiegò Beatrice-Joanna baciando sua sorella. «Sono partita piuttosto di corsa.»
«Il posto giusto donde andarsene di corsa,» commentò Shonny raccogliendole il bagaglio «quell'orribile immensa metropoli, che Dio l'affanni e la confonda.»
«Povero piccolo Roger» compianse Mavis cingendo la sorella con un braccio mentre la guidava in soggiorno. «Un vero peccato.» Pur non molto più ampia del corrispondente vano nell'appartamento dei Foxe, la stanza sembrava prodiga di spazio e ossigeno.
«Innanzitutto dobbiamo bere qualcosa» annunziò Shonny, e scoperchiò una botola rivelando una schiera di bottiglie. «Qualcosa che nemmeno a venti corone al bicchiere potresti mai comprare in quell'ottenebrato carcinoma alle cui grinfie ti sei sottratta, Dio lo strafulmini.» Sollevò una bottiglia alla luce elettrica. «Vino di prugne, produzione propria» rivelò. «La vinificazione è teoricamente proibita come un mucchio d'altre cose salutari e timorate di Dio, ma il diavolo si porti tutti quei miserabili legulei stercorari, abbia Cristo pietà di loro.» Versò. «Prendilo nella mano destra e ripeti con me» ordinò. Bevvero. «Un momento» disse Shonny. «A che cosa beviamo?»
«A un sacco di cose» rispose Beatrice-Joanna. «Alla vita. Alla libertà. Al mare. A noi. A qualcosa che vi dirò dopo.»
«Un bicchiere per ciascuna» decise Shonny raggiante. «È bello averti qui con noi» disse.
Shonny era un pancelta, uno dei pochissimi superstiti dell'Unione Celtica che in esodo volontario aveva abbandonato le isole britanniche e ondata dopo ondata si era stabilita quasi un secolo prima in Armorica. In Shonny conviveva un'incoraggiante mistura di Manx, Glamorgan, Shetland, Ayrshire e contea di Cork, ma questo, come Shonny teneva a rimarcare, non poteva considerarsi un miscuglio razziale. Fergus, il Mosè dell'Unione, aveva insegnato che i Celti erano un sol popolo, la loro lingua era una sola lingua, la loro religione fondamentalmente una. Aveva spremuto la dottrina del Secondo Avvento del Messia dal cattolicesimo, dal metodismo calvinista, dal presbiterianesimo; chiesa, cappella e tabernacolo erano un unico gran tempio del Signore venturo. La loro missione, in un mondo in cui pelagianesimo equivaleva di fatto a indifferentismo, era alimentare la fiamma cristiana, come già un tempo di fronte alle orde sassoni.
«Abbiamo continuato a pregare» disse Shonny versando altro vino alle signore «quantunque naturalmente anche ciò sia illegale. Ai vecchi tempi ci lasciavano in pace, ma ora hanno messo all'opera quell'infernale polizia, che spia e arresta proprio come negli antichi coercitivi giorni di veneranda memoria. Qui abbiamo officiato messa un paio di volte. Padre Shackel, Dio benedica e aiuti quel poveruomo, è stato acciuffato l'altro giorno nella sua bottega da una squadraccia di quegli smorfiosi con sputafuoco e rossetto... padre Shackel di mestiere fa il venditore di sementi... e portato chissà dove. Eppure abbiamo celebrato il sacrificio proprio per il bene dello Stato, ma quei poveri imbecilli ottenebrati non lo capiscono o non lo vogliono capire. Moriremo tutti di fame, Dio ci scampi, se non impetriamo perdono per la nostra empia condotta. Pecchiamo contro la luce, rinneghiamo la vita. L'attuale situazione è inflitta a noi tutti qual punizione divina.» Tracannò un nappo di vino di prugne e fece schioccare le grosse labbra carnose.
«Hanno continuato a ridurre le razioni» disse Beatrice-Joanna. «Senza spiegare perché. Ci sono state dimostrazioni per strada. In una è rimasto coinvolto Tristram. In quel momento era ubriaco. Credo che la polizia l'abbia arrestato. Speriamo che non gli accada nulla.»
«Diamine» fece Shonny. «Dio non voglia ch'io gli auguri alcun vero male. Ubriaco, dici? Dopotutto potrebbe anch'esserci qualcosa di buono, in lui.» «E quanto penseresti di trattenerti qui con noi?» domandò Mavis.
«Tanto vale che ve lo dica subito» rispose Beatrice-Joanna. «Sperando che non ci restiate troppo male. Sono incinta.» «Caspita» fece Mavis.
«E contentissima di esserlo. Voglio averlo, questo bambino.»
«Qui s'impone un bel brindisi!» ruggì Shonny. «E al diavolo le conseguenze, dico io. Bel gesto, cognata, pregno davvero di significato, come tener la fiamma accesa, come dir messa in cantina. Brava ragazza.» Versò altro vino.
«E il bambino vuoi averlo qui?» domandò Mavis. «È pericoloso. Non è cosa che si possa tener nascosta a lungo. Coi tempi che corrono, sarà il caso che tu ci rifletta molto bene.»
«È la volontà di Dio!» esclamò Shonny. «Crescete e moltiplicatevi. Quel tuo omiciattolo insomma un poco di nerbo nelle reni ce l'ha ancora.»
«Tristram non lo vuole» puntualizzò Beatrice-Joanna. «Mi ha detto di andarmene.» «Lo sa nessuno che sei venuta qui?» domandò Mavis.
«Ho dovuto dirlo alla polizia a Euston. Gli ho spiegato che era solo una visita. Non credo che indagheranno. Non c'è niente di male a far visita ai parenti.»
«Una visita piuttosto lunga» obiettò Mavis. «E c'è la questione dello spazio. I ragazzi al momento sono via, stanno a Cumnock da Gertie, la zia di Shonny. Ma quando torneranno...»
«Senti, Mavis» disse Beatrice-Joanna. «Se non vuoi che rimanga, dimmelo chiaro e tondo. Non voglio esservi di peso e disturbo.»
«Non sarai né l'uno né l'altro» assicurò Shonny. «Se necessario possiamo sistemarti in qualche capanno? Una madre ben più importante di te partorì in una...»
«Oh, piantala con codesto sentimentalismo» lo rimbrottò Mavis. «È proprio la roba così che a volte mi fa stare la religione sullo stomaco. Se sei decisa,» disse poi alla sorella «veramente decisa, non ci resta che andare avanti e confidare che giungano presto tempi migliori. Lo so come ti senti, non credere che non lo sappia. La nostra famiglia è sempre stata molto propensa alla maternità. Dobbiamo sperare solo che tornino a regnare buon cuore e buonsenso. Che altro?»
«Grazie, Mavis» disse Beatrice-Joanna. «So bene che sorgeranno un mucchio di problemi, registrazione e razioni e così via. Ma c'è tempo abbastanza per pensare a queste cose.»
«Sei giunta nel posto giusto» disse Shonny. «La mia esperienza veterinaria tornerà molto utile, Dio ti benedica. Sapessi quante figliate ho aiutato a venire al mondo...»
«Animali?» stupì Beatrice-Joanna. «Non vorrai dire che tieni animali.»
«Galline in batteria» precisò Shonny accigliato «e la nostra vecchia scrofa Bessie. Jack Beare, su a Blackburn, ha un verro che dà a nolo. Tutta roba teoricamente illegale, la Santissima Trinità li maledica, ma siamo riusciti a integrare la nostra dieta vergognosa con un pochino di carne di maiale. Qui va tutto in malora e nessuno pare capirci niente. Questa ruggine che sembra essersi propagata al mondo intero, e le galline che non depongono più uova, e gli ultimi porcelli di Bessie così malaticci per qualche strana disfunzione interna da vomitar vermi e tutto il resto tanto che m'è toccato por fine alle loro sofferenze. Una maledizione grava su di noi, Dio ci perdoni, per tutto il nostro bestemmiare contro la vita e l'amore.»
«A proposito d'amore,» intervenne Mavis «fra te e Tristram è tutto finito?»
«Non lo so» rispose Beatrice-Joanna. «Ho cercato di preoccuparmi per lui ma per un motivo o per l'altro non ci riesco. A quanto pare ho concentrato tutto il mio amore su qualcosa che non è ancora nato. Ho la sensazione di essere posseduta e usata. Ma ciò non mi rende infelice. Anzi, al contrario.»
«Ho sempre pensato che avevi sposato l'uomo sbagliato» disse Mavis.
10
Sorridendo, Derek Foxe lesse una seconda volta le parole scarabocchiate sui due fogli di carta igienica firmati da suo fratello. «Mi trovo qui illegalmente incarcerato e non mi è consentito vedere nessuno. Mi rivolgo a te in qualità di fratello affinché tu voglia far valere la tua influenza per ottenere la mia liberazione. È una cosa assolutamente vergognosa e ingiusta. Se questo semplice appello fraterno non riuscirà a smuoverti, forse potrà farlo la seguente dichiarazione: per tua norma e regola sono a conoscenza che tu e mia moglie intrattenete da tempo una relazione e che lei adesso è incinta di tuo figlio. Come hai potuto, tu, mio fratello? Tirami fuori di qui immediatamente, è il minimo che puoi fare e me lo devi. Ti garantisco solennemente che se mi dai l'aiuto che ti chiedo la cosa per parte mia non avrà seguito. Sappi però che in caso contrario mi vedrò costretto a rivelare tutto alle competenti autorità. Tirami fuori di qui. Tristram.»
La lettera era costellata di timbri come un passaporto: Visto, Comandante Centro Detenzione Temporanea Franklin Road; Visto, Ufficiale Comandante Distretto Polizia Brighton; Visto, Ufficiale Comandante 121a Circoscrizione Polizia; Aperto, Registro Centrale Poldemo. Sempre sorridendo, Derek Foxe si rilassò contro lo schienale della poltrona in finto cuoio: sorrise all'enorme luna idiota dell'orologio sulla parete di fronte, alla sfilza di telefoni, alle terga del suo biondocrinito segretario maschio. Povero Tristram. Povero scioccherello Tristram. Povero deficiente Tristram che aveva, pel solo fatto di scrivere, già rivelato tutto a ogni possibile autorità, competente e incompetente. Il che ovviamente non aveva alcuna importanza. Calunnie e maldicenze campate in aria sfrecciavano da mane a sera per gli uffici dei pezzi grossi, sorta di svolazzio moscerinesco cui nessuno faceva caso. Tuttavia, Tristram in libertà poteva rivelarsi una seccatura. Tristram furibondo a capo d'una banda di studentelli facinorosi. Tristram in agguato nell'ombra con in pugno un coltello acuminato. Tristram obnubilato dall'alc e armato di pistola. Meglio dunque che Tristram se ne rimanesse un poco in gabbia; sai che rottura dover pensare a stare in guardia anche contro il proprio fratello.
Quanto a lei? Tutto un altro paio di maniche. Pazienza, pazienza... la prossima fase non poteva tardare molto. E quel povero imbecille del capitano Loosley? Per il momento lasciamolo stare, quell'idiota. Derek Foxe telefonò al Quartier Generale della Polizia e ordinò che Tristram Foxe, in quanto gravato di forti sospetti, venisse trattenuto a tempo indeterminato. Proseguì quindi la prima stesura del telediscorso (cinque minuti dopo il notiziario domenicale delle 23.00), prodigo di moniti e appelli alle donne della Grande Londra. «L'amor di patria» scrisse «è una delle più eccelse forme d'amore. Desiderio di prosperità per la nazione è sacro desiderio.» Robe del genere gli venivano di getto.
Parte Terza
1
Un agosto piovoso e un settembre secco, ma il morbo che colpiva in tutto il mondo i cereali sembrava sorvolasse il tempo come un aereo. Era un malanno sino allora ignoto, la cui conformazione non mostrava al microscopio affinità con alcun altro tipo di malattia, e si rivelò refrattario a tutti i veleni escogitati dall'Autorità Agricola Mondiale. E a esserne colpiti non erano soltanto il riso, il mais, l'orzo, l'avena e il frumento: affetti da una sorta di cancrena cadevano i frutti da alberi e arbusti; patate e altri tuberi si riducevano a poltiglia nerobluastra. Analoga sorte pel regno animale: vermi, coccidiosi, scabbia, osteopetrosi, colera dei gallinacei, prolasso dell'ovidotto, infiammazione cloacale, paralisi delle dita, cedimento degli arti... erano solo alcune delle malattie che aggredivano le batterie di polli trasformandole in piumati obitori. Ai primi di ottobre banchi di pesci putrefatti furono spinti a riva sulla costa nordorientale; i fiumi ammorbavano l'aria.
Il molto onorevole Robert Starling, Primo Ministro, giaceva sveglio una notte di ottobre rigirandosi solingo nel gran letto a due piazze dopo averne allontanato il suo efebo. Aveva la testa piena di voci: voci di esperti che dicevano di non sapere, di non capire; voci di gente fantasiosa che dava la colpa a virus intrufolatisi clandestinamente su missili tornati dalla Luna; allarmate voci sdolcinate che all'ultima Conferenza dei Primi Ministri Unang dicevano: «Quest'anno possiamo farcela, quest'anno possiamo quasi farcela, ma vedrete il prossimo...» Mentre un'altra voce assolutamente riservata sussurrava statistiche e mostrava, nel buio della camera da letto, raccapriccianti diapositive. «Vediamo qui la più recente rivolta per fame nel Cooch-Behar domata assai sommariamente, quattromila corpi gettati in una fossa comune, pentossido di fosforo a palate, nevvero? Ecco quindi gli altamente pittoreschi effetti della carestia a Gulbarga, Bangalore e Rajura: guardate bene, ammirate quelle costole salienti. Passiamo ora al Malawi e alla Tanzania: scene di morte per inedia a Livingstonia e Sumbawanga. A Mogadiscio, in Somalia, è stata gran baldoria per gli avvoltoi. Se poi volessimo traversar l'Atlantico...»
«No! No! No!» Il molto onorevole Robert Starling gridò tanto forte da destare il suo amichetto Abdul Wahab, un ragazzo moro che dormiva in branda nello spogliatoio del molto onorevole Robert Starling. Accorse dunque Abdul Wahab annodandosi in vita un sarong e accese la luce.
«Che succede? Cosa ti angustia, Bobby?» I teneri occhi castani grondavano sollecitudine.
«Oh, niente. Niente cui noi si possa porre alcun rimedio. Torna a letto. Mi spiace di averti svegliato.»
Abdul Wahab sedette sul bordo del materasso molleggiato e si diede a carezzar la fronte del Primo Ministro. «Su» disse. «Su, su, su.»
«Sembrano tutti convinti» deplorò il Primo Ministro «che chi abbraccia questa carriera punti solo al tornaconto personale. Credono ch'io ami il potere.» Chiuse gli occhi, grato per le fresche carezze. «E invece non sanno, ignorano il punto fondamentale.»
«Proprio così.»
«E tutto per il loro bene, tutto ciò che facciamo è per il loro bene.»
«Si capisce.»
«Vorrei proprio vederli al posto mio. Vorrei proprio vedere come affronterebbero le responsabilità e le angosce.»
«Non resisterebbero un minuto.» Wahab continuava a blandirlo con la sua fresca mano bruna.
«Sei un bravo ragazzo, Wahab.»
«Oh, mica tanto.» Sorrisetto sdolcinato.
«E invece sì, sei proprio un bravo ragazzo. Cosa faremo, Wahab? Cosa possiamo fare?»
«Andrà tutto bene, Bobby. Vedrai.»
«No, non è vero che andrà tutto bene. Sono un progressista, credo nella capacità umana di controllare il mondo circostante. Noi non lasciamo le cose al caso. L'intero pianeta sta morendo, e tu dici che andrà tutto bene.»
Abdul Wahab cambiò mano; il padrone era sdraiato in posizione assai disagevole. «Non sono molto intelligente» disse. «Non m'intendo di politica. Però ho sempre
pensato che il guaio più grosso è che al mondo c'è troppa gente.»
«Sì, esatto, il nostro problema è proprio questo.»
«Ma non ora, giusto? La popolazione sta calando rapidamente, no? La gente muore perché non ha abbastanza da mangiare, vero?»
«Non dire scempiaggini. Caro il mio ragazzo sciocchino. Non capisci, stupidirlo, che volendo potremmo uccidere tre quarti della popolazione mondiale così...» Fece schioccar le dita. «... Come bere un bicchier d'acqua? Al governo però non interessa uccidere la gente, bensì tenerla in vita. Abbiamo bandito la guerra, l'abbiamo resa un orrendo incubo del passato. Abbiamo imparato a predire i terremoti e domare le inondazioni; abbiamo irrigato i deserti e fatto fiorire come rose le calotte polari. Questo è sviluppo, questa è la realizzazione di parte delle nostre aspirazioni progressiste.
Capisci quel che dico, sciocchino?»
Cercando di sbadigliare a bocca chiusa, Abdul Wahab stirò le labbra in un sorriso.
«Abbiamo eliminato tutti i vecchi impedimenti naturali all'incremento demografico» continuò il Primo Ministro. «Impedimenti naturali... che espressione cinica e minacciosa. La storia dell'uomo è la storia del suo dominio sull'ambiente. Siamo spesso rimasti delusi, è vero. Gran parte degli esseri umani non sono ancora pronti per l'ideale pelagiano, ma presto, chissà, potrebbero esserlo. Forse molto presto. Forse stanno già imparando. Imparando tramite patimenti e privazioni. Ah, che mondo malvagio, che mondo insensato.» Trasse un sospiro profondo. «Ma che possiamo fare? Lo spettro della fame dilaga sul pianeta e ci abbranca tra le sue grinfie.» L'ardita metafora gli scavò una ruga di perplessità, ma lasciò correre. «L'intera nostra conoscenza e abilità scientifica è ridotta a nulla da questa minaccia.»
«Non sono molto intelligente» ribadì Wahab. «E la mia gente non faceva cose molto intelligenti quando temeva che il raccolto potesse andar male o i pesci si rifiutassero di abboccare. Anzi, probabilmente faceva cose molto stupide. Una delle quali era pregare.»
«Pregare?» disse il Primo Ministro. «Pregare significa riconoscersi sconfitti. In una società liberale e progressista non c'è posto per la preghiera. Oltretutto a chi mai dovremmo rivolgerla?»
«La mia gente» fu pronto a replicare il carezzevole Wahab «aveva molti destinatari per le sue preghiere. Anche se più che altro pregava una cosa chiamata Allah.» Pronunziò il nome con rigorosa dizione araba, volitiva e tornita la elle, netta e aspra l'aspirazione finale.
«Uno dei tanti nomi di Dio» commentò il Primo Ministro. «Dio è il nemico. Ma noi l'abbiamo sconfitto e ridotto a buffo personaggio da fumetto per far ridere i bambini. Il signor Demodio. In testa alla gente l'idea di Dio era un concetto pericoloso. Ragion per cui abbiam fatto sì che il mondo civile se ne sbarazzasse. Continua a carezzare, pigrone.»
«Se però la preghiera non otteneva l'effetto desiderato» proseguì Wahab «allora ammazzavano qualcuno. Come offerta alla divinità. La chiamavano madzbuh. Se la grazia richiesta era molto grossa, allora bisognava offrire qualcosa di particolarmente prezioso e significativo. Per esempio un uomo importante, come il Primo Ministro.»
«Se intendeva essere una spiritosaggine ti rendo noto che non la considero affatto divertente» sbuffò impermalito il molto onorevole Robert Starling. «L'arguzia di cui talvolta fai sfoggio non sempre è adeguata alle circostanze.»
«Oppure il Re» soggiunse Wahab. «Ammesso di averne uno a portata di mano.»
Il Primo Ministro ci rifletté. Poi disse: «Ti frullano in testa le idee più scriteriate, sciocchino. Dimentichi per giunta che quand'anche volessimo sacrificare il Re non avremmo nulla cui sacrificarlo.»
«Può anche darsi» suggerì Wahab «che quella cosa abbia una certa capacità d'intendere. Quella cosa, dico, che imperversa sulla terra come uno spettro unghiuto. Non si potrebbe pregare quella?»
«Quella» replicò il Primo Ministro di bel nuovo risentito «era null'altro che un'alquanto assurda personificazione da me adottata nella foga del discorso. L'oratoria politica fa largo uso di figure retoriche stravaganti.»
«Che cosa vuol dire personificazione?» volle sapere Wahab.
«Fingere che qualcosa abbia vita quando in realtà non ce l'ha. Una specie di animismo. Conosci questa parola, ignorantello?»
Wahab sorrise. «Io sono molto stupido» riconobbe «e di parole ne conosco davvero poche. Tanti e tanti anni fa la mia gente rivolgeva preghiere ad alberi e fiumi facendo finta che tali cose potessero udire e capire. Tu che sei un grand'uomo e un Primo Ministro li avresti di certo considerati assai stolti... io però ti ho sentito pregare la pioggia.»
«Sciocchezze.»
«Eppure ti ho sentito dire 'Pioggia, pioggia, vai lontano, non bagnare il mio pastrano'. È successo quando tu e io e Reginald e Gaveston Murphy dovevamo andare in gita nella Provincia Settentrionale.»
«Era solo per scherzo, giusto un pizzico di superstizione. Non voleva dir nulla.»
«Comunque desideravi sul serio che smettesse di piovere. Così come ora ti piacerebbe interrompere questo flagello. Forse dovresti provare con un pizzico di superstizione, come la chiami. O con un pizzico di qualcos'altro, però un tentativo di certo dovresti farlo. Ma non ascoltare me, che sono soltanto un ignorantello, uno sciocchino e uno spiritoso.»
«Anche un caro ragazzo» sorrise il Primo Ministro. «Credo che ora cercherò di prender sonno.»
«Non vuoi che rimanga?»
«No, voglio dormire. Forse sognerò la soluzione a tutti i nostri problemi.»
«Sei bravo parecchio, a sognare» lo adulò sottilmente Abdul Wahab. Si depose un bacio sulla punta delle dita e con esse reclinò le palpebre al suo padrone. Poi, prima di lasciar la camera, spense la luce e tirò fuori la lingua.
Riprese, nell'oscurità, la diapoconferenza. «Qui» disse la voce «abbiamo un bell'esempio di sommossa per fame dritto dritto dal giallo Mozambico. Il deposito di riso di Chalaua è stato saccheggiato, con quali risultati potete ben vedere. Sangue di gente nera, rosso come il vostro. Passiamo quindi all'inedia in Zambia, con uomini a pezzi a Broken Hill e funebri scene a Kabulwebulwe, un nome che è già di per sé un lamento. E finalmente, dulcis in fundo, cannibalismo a... indovinate dove? Non indovinereste mai, quindi ve lo dico io. A Banff, nell'Alberta. Incredibile, vero? Una carcassetta da nulla, come vedete, un infantile corpicino della taglia d'un coniglio. Ne avran cavato comunque qualche buon stufato, e poi ecco un ragazzo che non avrà più fame.»
2
Tristram era molto dimagrito e gli era cresciuta una gran barba ispida. L'avevano da tempo trasferito dal centro di Detenzione Temporanea di Franklin Road al temibile Istituto Metropolitano di Correzione (Maschile) di Pentonville, dove andava facendosi di giorno in giorno più barbuto e più aggressivo: scuoteva spesso a mo' di gorilla le sbarre della cella, astiosamente incideva sulle pareti graffiti osceni, ringhiava ai secondini... non era più lo stesso uomo. Gli sarebbe piaciuto poter mettere le mani su Joscelyne e su quel bamboccio di Wiltshire: gli avrebbe dato il fatto loro senza pensarci due volte. E quanto a Derek... gran parte delle ore di veglia Tristram le trascorreva in un delirio di bulbi oculari estirpati, di castrazioni tramite coltelli da pane e altre amene fantasticherie. Aveva per compagno di cella un sessantenne veterano del crimine - borsaiolo, falsario, scassinatore - un uomo uggiosamente dignitoso che puzzava di muffa. «Se avessi avuto» dichiarò costui a Tristram in quell'alba ottobrina «il vantaggio della sua istruzione, chissà mai quali vette avrei saputo conquistare.» Tristram scosse le sbarre e ringhiò. Il compagno di cella seguitò tranquillamente a ripararsi la dentiera superiore con un po' di mastice che aveva sgraffignato in qualche laboratorio. «Bene,» soggiunse «malgrado il piacere della sua compagnia per un mese e passa non oserei dire che mi rincresca andarmene, visto soprattutto che il tempo pare intenda mantenersi al bello ancora un poco. Quantunque mi sarà dato senza dubbio, in un futuro non troppo lontano, di reiterare il privilegio della sua conoscenza.»
«Senta, signor Nesbit» disse Tristram distogliendosi dalle sbarre. «Per l'ultima volta. La prego. Renderebbe un servigio non solo a me ma all'intera collettività. Lo faccia fuori. Lo ammazzi. Dove abita lo sa.»
«Esprimendomi anch'io per l'ultima volta in merito allo specifico argomento le ribadisco, signor Foxe, che esercito la professione criminale per profitto e non per il gusto di commettere vendette personali e simili. Un omicidio a carattere vendicativo non reca lucro. Per quanto grato possa tornarmi porgere cortesia a un amico, quale ritengo di poterla considerare, un atto del genere contravverrebbe gravemente ai miei principi.»
«Decisione definitiva?»
«Debbo con sommo rammarico, signor Foxe, confermarle l'impossibilità di un ripensamento.»
«Be', allora sa che le dico, signor Nesbit? Che lei è un bastardo senza cuore.»
«Suvvia, signor Foxe, non indulga in espressioni sconvenienti. Lei è giovane e deve ancora farsi strada, ragion per cui non si affligga se un vecchio balordo par mio si permette di offrirle un ultimo piccolo suggerimento. E cioè: mantenga l'autocontrollo.
Senza autocontrollo non perverrà a nulla. Con l'autocontrollo e non consentendo ai sentimenti personali d'interferire nelle sue decisioni e con in più il suo bagaglio culturale, lei potrà andare lontano.» Saggiò col pollice il mastice che collegava i denti al palato di plastica, ed evidentemente soddisfatto s'introdusse la dentiera in bocca. «Ora va meglio» disse. «Dovrebbe funzionare. Serbare sempre un aspetto brillante, questo è il consiglio che do ai giovani aspiranti. Potrebb'essere il suo caso.»
Si udì avvicinarsi uno sferragliar di chiavi. Magro come un chiodo, faccia affilata, impettito nella logora uniforme azzurra, un secondino dal petto carenato aprì la porta della cella. «Allora,» disse al signor Nesbit «fuori, tu.» Il signor Nesbit si alzò sospirando dal tavolaccio.
«Dov'è la maledetta colazione?» ringhiò Tristram. «La colazione è dannatamente in ritardo.»
«La colazione è stata soppressa» rivelò il secondino «a partire da stamattina.»
«È una maledetta ingiustizia!» sbraitò Tristram. «Un mostruoso sopruso! Esigo di vedere quello schifoso del Direttore!»
«Te l'ho già detto» lo redarguì severamente il secondino. «Tieni la lingua a freno oppure le cose si metteranno parecchio male per te, garantito.»
«Bene» fece il signor Nesbit porgendo cerimoniosamente la mano. «Prendo dunque congedo confidando d'aver destro un di rinovellare quest'assai dilettevole conoscenza.»
«Lui sì che parla come si deve» constatò il secondino. «I tipi come te farebbero meglio a prendere esempio da lui invece d'andar sacramentando e sputando veleno tutto il tempo.» Dopo di che condusse fuori il signor Nesbit, richiuse la porta con gran clangore, fece strider la chiave nella toppa con la sferzante risolutezza d'un rimprovero. Tristram agguantò il suo cucchiaio dì ferro e selvaggiamente bulinò sul muro una parolaccia.
Proprio mentre stava portando a termine l'obliquo tratto discendente dell'ultima lettera, ricomparve il secondino dando la stura ad altri clangori e cigolii.
«Ecco qua» annunciò «un nuovo compagno per te. Uno della tua razza, non un gentiluomo come quello che ci ha appena lasciati. Dentro, tu.» Era un uomo tetro con occhi infossati dentro due pozzi tenebrosi, naso adunco vermiglio, corrucciata boccuccia stuarda. L'abito bigio della vergogna, floscio indumento a sacco, ben gli si confaceva, assumendo indosso a lui la parvenza di un saio monacale.
«Ehi» fece Tristram. «Mi sa che noi ci conosciamo.»
«Bello, no?» commentò il secondino. «Una riunione di vecchi compari.» Uscì dalla cella, inchiavardò la porta, ghignò beffardo attraverso le sbarre. Poi se ne andò sferragliando.
«Ci siamo incontrati al Montecchi» precisò Tristram. «La polizia le mollò quattro batoste.»
«Incontrati? Batoste?» compitò l'uomo perplesso. «Quante cose, quanta gente, quanti insulti e quante percosse. Come al mio Maestro, così a me.» Esaminò la cella con sguardo cupo, annuendo. Poi soggiunse, in tono colloquiale: «Se mi dimenticassi di te, Gerusalemme, ch'io perda l'uso della mano destra. Che la lingua mi s'incolli al palato se non ricordassi più te, se non innalzassi Gerusalemme al disopra d'ogni mia gioia.»
«Come ha fatto a finir dentro?» domandò Tristram.
«Mi hanno colto a dir messa» rispose l'uomo. «Sebbene spretato conservo il mio potere. C'è stata richiesta, ultimamente, richiesta crescente. La paura alimenta la fede, non v'è da dubitarne. Di questi tempi non è difficile, mi creda, assembrare un buon numero di fedeli.»
«Dove?»
«È un ritorno alle catacombe» rispose l'uomo compiaciuto. «Gallerie della metropolitana in disuso. Marciapiedi della metropolitana. Persino treni della metropolitana. Messa mobile, la chiamo. Sì, la paura è in aumento. La carestia, questo tremendo cavaliere, scorrazza incontrollata. Per placare la Sua collera, Dio richiede un sacrificio a Lui gradito. Ed essendo il vino proscritto, esso Gli è offerto sotto una sola specie. Ah,» fece poi sbirciando i graffiti di Tristram «epigrafi lapidarie, eh? Qualcosa per passare il tempo.» Era un uomo assai diverso rispetto a quello che Tristram ricordava dal breve e violento episodio al Montecchi. Era tranquillo, misurato nel parlare, ed esaminava le oscenità incise da Tristram come fossero vergate in una lingua ignota. Sinché «Interessante» disse. «Vedo che ha scritto più volte il nome del Creatore. È in atto, tenga a mente le mie parole, un ecumenico ritorno a Dio. Vedrà, tutti vedremo.»
«Ho usato quel termine» replicò Tristram brutalmente «in atto di sfida. E solo una parolaccia come tante altre.»
«Esatto» convenne lo spretato gioendo pacatamente. «Tutte le parolacce sono fondamentalmente religiose. Han tutte a che fare con la fecondità e i meccanismi della fecondità e gli organi della fecondità. Dio, ci è stato insegnato, è amore.»
Come a schernire tale affermazione, i grandi altoparlanti piazzati a mo' di trombe del giudizio agli ipotetici angoli di ciascuna delle gallerie incise a strati nel complesso circolare eruttarono un frastuono che sprofondò nel ventre vuoto della struttura cilindrica. «Attenzione» proclamarono, e il vocabolo («Attenzione-tenzione-enzionezione») rimbalzò come una palla, con l'appello dei diffusori più lontani che si accavallava a quello dei più vicini. «Prestate la massima attenzione. Parla il Direttore.» Voce annoiata, voce raffinata, espressione di un'antica regalità. Ho avuto incarico dal Ministro degli Interni di leggervi quanto segue, che viene comunicato in questo momento anche nelle scuole, negli ospedali, negli uffici e nelle fabbriche del Regno. È una preghiera ideata dal Ministero della Propaganda.»
«Sentito?» esultò reverente il prete spretato ballonzolando. «Dio sia lodato, le cose vanno secondo i nostri desideri. Alleluia.»
«Ecco qua» proseguì la voce annoiata. Tossicchiò, quindi attaccò un'uggiosa cantilena. «È ipotizzabile che le mortali forze che stanno attualmente devastando le risorse alimentari del pianeta siano intelligenti, nel qual caso le imploriamo di allontanarsi. Se abbiamo errato consentendo nella nostra cecità che gli impulsi naturali soverchiassero la ragione ce ne rammarichiamo naturalmente dal profondo dell'animo nostro. Osiamo nel contempo umilmente asserire di aver già sofferto a sufficienza per la suddetta colpa e promettiamo solennemente di non peccare più. Amen.» La voce del Direttore fu travolta da un furibondo accesso di tosse, ma prima che si spegnesse in un ultimo crepitio la si udì borbottare: «... Abominevole mucchio di corbellerie...» Borbottio che trovò eco immediata nelle celle dei vari livelli.
Terreo in volto, «Dio ci perdoni tutti» boccheggiò, profondamente turbato, il coinquilino di Tristram facendosi il segno della croce. «Hanno imboccato la strada opposta. Pregano le forze del male, che Dio ci aiuti.»
Ma Tristram era raggiante. «Non capisce che cosa significa?» esclamò. «Significa che l'Interfase sta per concludersi. La più breve a memoria d'uomo. Lo Stato ha toccato il fondo della disperazione. Peccato, parlano di peccato. Usciremo presto, ormai è questione di giorni.» Si fregò le mani. «Oh, Derek, Derek» ringhiò. «Quanto mi pesa aspettare...»
3
All'autunno succedette l'inverno e quella preghiera, s'intende, non venne esaudita. Nessuno, s'intende, aveva mai pensato sul serio, s'intende, che lo sarebbe stata. Per quanto riguardava il Governo di S.M. si era trattato di una mera concessione all'irrazionale: ora nessuno avrebbe potuto assolutamente sostenere che il Governo di S.M. non le aveva provate tutte.
«Ciò dimostra peraltro» dichiarò Shonny in dicembre «come tutto riconduca all'Onnipotente.» Egli era di gran lunga più ottimista del compagno di cella di Tristram. «Liberalismo significa assoggettamento dell'ambiente e assoggettamento dell'ambiente significa scienza e scienza significa concezione eliocentrica e concezione eliocentrica significa apertura mentale circa l'esistenza di forme d'intelligenza diverse da quella umana e...» Trasse un respiro profondo e tracannò un gran sorso di vino di prugne. «... E be', vedete, accettare questa possibilità significa ammettere la possibilità di un'intelligenza sovrumana, il che ci riporta a Dio.» Sorrise raggiante a sua cognata. Sua moglie, in cucina, s'ingegnava di cavar qualcosa dalle misere razioni.
«Un'intelligenza sovrumana, però, potrebbe anch'essere malvagia» obiettò Beatrice-Joanna. «Non potrebbe quindi essere Dio, vero?»
«Dove c'è il male» replicò Shonny incrollabile «esiste anche il bene.» BeatriceJoanna gli sorrise fiduciosa. Fra due mesi avrebbe dovuto fare molto affidamento su Shonny. Nel suo grembo la vita scalciava; bella gonfia ma in eccellenti condizioni la gestante. Molte inquietudini la impensierivano, eppure era abbastanza contenta. La punzecchiava il senso di colpa verso Tristram; la necessità di serbare tanto a lungo il segreto creava problemi fastidiosi. Quando c'erano visite o capitava qualche bracciante agricolo le toccava battersela al cesso con tutta la rapidità consentitale dalla mole. Per concedersi un po' di moto doveva andare a notte fatta a camminare di nascosto insieme a Mavis fra devastate siepi d'arbusti, lungo inariditi campi di frumento e orzo. Avvezzi da tempo a non parlare a scuola né altrove delle pericolose empietà dei genitori, i ragazzi si comportavano bene; riservati su Dio, altrettanta discrezione adottavano con la gravidanza della zia. Erano bei fanciulli assennati d'aspetto villereccio, un po' più magri del dovuto, Dymphna sette anni e Llewelyn nove. Mancando un paio di giorni a Natale sedevano intenti a ritagliar pezzi di cartone in foggia di foglie d'agrifoglio, visto che l'agrifoglio vero era stato tutto sterminato dalla ruggine. «Anche quest'anno faremo del nostro meglio, per Natale» asserì Shonny. «C'è ancora vino di prugne, e alc a sufficienza. E in ghiacciaia riposano quelle quattro povere galline vecchie. Tempo di meditare sull'imperscrutabile futuro ne avremo a volontà passato Natale.»
Tutta concentrata con la punta della lingua in fuori a manovrare le forbici Dymphna disse: «Papà.»
«Sì, cara?»
«Che cos'è veramente il Natale?» Erano figli dello Stato non meno che dei loro genitori.
«Lo sai benissimo che cos'è. Lo sai bene quanto me. Llewelyn, diglielo tu che cos'è il Natale.»
«Oh» fece Llewelyn sforbiciando «era nato quel tizio, no? Poi l'hanno ammazzato impiccandolo a un albero, e dopo se lo sono mangiato.»
«Tanto per cominciare» puntualizzò Shonny «non era un tizio.»
«Un uomo, allora» si corresse Llewelyn. «Ma un uomo è un tizio.»
«Il Figlio di Dio!» ribatté Shonny con una manata sul tavolo. «E quando Lo uccisero non fu mangiato. Salì dritto in Cielo. In effetti sulla questione del mangiare non hai tutti i torti, Dio ti benedica, ma siamo noi che Lo mangiamo. Quando celebriamo la messa mangiamo il Suo corpo e beviamo il Suo sangue. Però dissimulati - ehi, dico a te, mi ascolti o no? - sotto forma di pane e di vino.»
«Quando tornerà» domandò Llewelyn tagliuzzando «verrà mangiato sul serio?»
«E adesso» fece Shonny interdetto «che vorresti dire con codesto strano discorso?»
«Mangiato» specificò Llewelyn «com'è stato mangiato Jim Whittle.» Cominciò a ritagliare attentamente una nuova foglia. «Sarà una cosa così, papà?»
«Che storia è questa?» scattò Shonny turbato. «Come sarebbe a dire che qualcuno è stato mangiato? Avanti, ragazzo, parla.» Lo scosse per una spalla, ma Llewelyn continuò tranquillamente a ritagliare.
«Non è venuto a scuola» rispose. «Sua madre e suo padre l'hanno fatto a pezzi e se lo sono mangiato.»
«E tu come fai a saperlo? Dove hai raccattato questa storia atroce? Chi ti racconta queste cose da depravati?»
«È vero, papà» intervenne Dymphna. «Va bene così?» domandò, mostrando la sua foglia di cartone.
«Lascia perdere» replicò suo padre impaziente. «Ditemi di questa faccenda, su, avanti. Chi vi ha propinato questo racconto orribile?»
«Non è un racconto orribile» insisté Llewelyn mettendo il broncio. «È la verità. Tornando a casa da scuola siamo passati in parecchi davanti a casa loro ed era vero. Avevano sul fornello una specie di grosso tegame che bolliva a tutto spiano. Noi no, ma qualche ragazzo è entrato e ha visto.» Dymphna ridacchiò.
«Misericordia divina» disse Shonny. «Questa è una cosa spaventosa e orrenda e voi non sapete far altro che mettervi a ridere. Voglio subito sapere» ordinò scrollando entrambi i suoi figli «se avete detto la verità. Perché, Dio mi è testimone, se state scherzando su una cosa mostruosa come questa vi garantisco in nome del nostro Signore Gesù Cristo che vi buscherete l'uno e l'altra tante di quelle botte da ricordarvene finché campate.»
«Ma è vero...» piagnucolò Llewelyn. «Abbiamo visto tutt'e due. Lei aveva un cucchiaione e stava riempiendo due piatti di quella roba fumante e qualche ragazzo ne ha chiesta un po' perché aveva fame ma io e Dymphna avevamo paura perché dice che il padre e la madre di Jim Whittle non ci stanno con la testa e allora siamo corsi subito a casa ma loro ci hanno detto di non dir niente a nessuno,»
«Chi è stato a dirvi di non dir niente?»
«Loro. Qualcuno dei ragazzi grandi. Frank Bamber ha detto che ci picchiava se lo dicevamo.»
«Se dicevate cosa?»
Llewelyn chinò il capo. «Quello che ha fatto Frank Bamber.»
«E cos'ha fatto?»
«Aveva in mano un pezzo grosso così, ma ha detto che aveva fame. Anche noi avevamo fame, però non abbiamo preso niente e siamo tornati a casa di corsa.» Dymphna ridacchiò. A Shonny caddero le braccia.
«Dio Onnipotente» disse.
«Perché l'aveva rubato, capisci, papà?» spiegò Llewelyn. «Frank Bamber l'ha arraffato ed è scappato via mentre quelli gli gridavano dietro.»
Shonny era livido. Beatrice-Joanna aveva la nausea. «Che cosa orribile, orribile» boccheggiò.
«Quel tizio che è Dio però te lo mangi» obiettò Llewelyn risoluto «e allora come fa a essere orribile questa cosa qui? Se non c'è niente di male a mangiare Dio perché dev'essere orribile mangiare Jim Whittle?»
«Perché se mangi Dio» rispose Dymphna imbastendo un suo ragionamento «ne rimane sempre tanto. Dio non lo puoi mangiare tutto perché Dio continua sempre e non finisce mai. Scemo che sei» concluse, per poi riprendere a ritagliar foglie d'agrifoglio.
4
«Hai visite» annunciò il secondino a Tristram. «Ma azzardati a imprecare e a dare in escandescenze com'hai fatto con me e poco ma sicuro ti becchi una strapazzata, scostumato che non sei altro. Da questa parte, signore» disse poi rivolto verso il corridoio. Si fece avanti un uomo in uniforme nera con un deflagrar di uova sui risvolti. «Nessuno dei due le farà alcun male, signore, quindi non c'è motivo d'essere nervoso. Sarò di ritorno fra una decina di minuti, signore.» E il secondino se ne andò.
«Dica un po', ma per caso non ci conosciamo?» fece un Tristram esile, fiacco e ben barbuto.
Il capitano sorrise. Si tolse il berretto rivelando corti capelli rossicci lisci e imbrillantinati, e senza smettere di sorridere si blandì un baffo. «Direi proprio di sì» sorrise. «Abbiamo fatto insieme un'assai piacevole ma, temo, visti i risultati, non molto proficua bevuta, mi spiego, al Metropole, mi spiego, un paio di mesi fa.»
«Ma sì, certo che ci conosciamo» convenne Tristram grintoso. «Non dimentico mai una faccia. In certe cose torna utile essere insegnante. Allora, mi ha portato l'ordine di scarcerazione? Le mie tribolazioni sono finalmente giunte al termine?»
Il prete spretato, che ultimamente aveva insistito per farsi chiamare Beato Ambrose Bayley, alzò uno sguardo confuso e disse: «Avanti, migliaia di penitenti attendono fuori, inginocchiati svelto e rendi la tua confessione.» Un ghigno ebete contrasse le labbra del capitano.
«Sono venuto semplicemente a dirle dove si trova sua moglie.»
«Non ho moglie, io» borbottò Tristram con aria arcigna e ottusa. «L'ho cacciata via.»
«Sciocchezze, mi spiego» replicò il capitano. «Lei ha senza dubbio una moglie, la quale al momento, mi spiego, risiede con la sorella e il cognato nei pressi di Preston. L'indirizzo preciso è Fattoria Statale N0313.»
«Bene» fece Tristram in tono malevolo. «Ecco dov'è andata a imboscarsi quella puttana.»
«Sì,» disse il capitano «sua moglie è là in attesa del suo illegale sebbene, mi spiego, legittimo figlio.»
Il prete spretato, stanco d'aspettare che il capitano s'inginocchiasse e vuotasse il sacco, s'era messo ad ascoltare, con gran mugugni e scotimenti di capo, la confessione di un invisibile e ignoto penitente. «Abominevole peccato» sentenziò «la fornicazione. Quante volte?»
«Così almeno si ritiene» proseguì il capitano. «L'abbiamo lasciata in pace, mi spiego, nessuno dei nostri l'ha disturbata in quell'angolo della Provincia Settentrionale. Il luogo mi è stato comunicato dalla nostra Sezione Controllo Viaggi. Ora lei potrebbe chiedersi, mi spiego, perché mai non le piombiamo addosso. Forse lei se l'è chiesto.»
«Ah, la pianti con codeste idiozie!» ringhiò Tristram. «Cosa vuole che mi chieda se non so nulla, inchiodato qui a crepar di fame, senza notizie dal mondo esterno, nessuno che mi scriva, nessuno che venga a trovarmi.» Era lì lì per tornare il vecchio Tristram piagnucoloso, ma si fece forza e latrò: «Non me ne frega niente, accidenti a voi. Non me ne frega niente di tutti quanti siete, capito?»
«Benissimo» disse il capitano. «C'è poco tempo, mi spiego. Voglio sapere quando, secondo i suoi calcoli, sua moglie avrà il bambino.»
«Quale bambino?» abbaiò Tristram. «Chi ha parlato di bambini?»
«Va' in pace e Dio ti benedica» disse il Beato Ambrose Bayley. E poi: «Perdono ai miei torturatori. Attraverso il bagliore di queste fiamme divoratrici scorgo la sempiterna luce dell'aldilà.»
«Oh, via, non faccia storie, mi spiego» si spazientì il capitano. «Non mi ha detto che sua moglie aspetta un bambino? Per noi sarebbe naturalmente abbastanza facile, mi spiego, controllare se è davvero incinta. Ciò che voglio sapere è quando lo avrà. Secondo lei quand'è avvenuto il concepimento?»
«Non ne ho idea» rispose Tristram, abulico e depresso, scuotendo il capo. «Non ne ho la minima idea.»
Il capitano estrasse da una tasca della giubba qualcosa avvolto in frusciarne carta gialla. «Forse ha fame» disse. «Chissà che un po' di sintecioc non le solletichi la memoria.» Scartocciò la barretta e gliela porse. Il Beato Ambrose Bayley fu più svelto di Tristram. Scattò come un lampo e ghermì sbavando la preda. Tristram gli fu addosso e i due lottarono come belve ringhiando, artigliandosi, azzannandosi. Finché a ciascuno non andò circa mezza tavoletta. Bastarono loro tre secondi a divorare l'appiccicosa ghiottoneria marrone. «Avanti» incalzò brusco il capitano. «Quando è successo?»
«Escio oscia?» barbugliò Tristram impegnato a slinguarsi torno torno il palato e suggersi le dita. «Ah, quello» capitolò infine. «Dev'essere stato a maggio. Lo so io
quand'è stato. È stato all'inizio dell'Interfase. Ne ha ancora di quella roba?»
«Che vuol dire?» domandò paziente il capitano. «Cos'è l'Interfase?»
«Lei ovviamente non è un storico, vero?» ribatté Tristram. «La scienza storiografica le è completamente ignota. Lei non è altro che uno sbirro prezzolato con le tasche imbottite di sintecioc.» Ruttò e prese un'aria disgustata. «Quando voialtri sgherri mercenari avete cominciato a infestare le strade. Dammene ancora, maledetto.» Poi si rivolse come una furia al compagno di cella. «Era roba mia e te la sei mangiata. Era solo per me, ti venisse un colpo.» Malmenò fiaccamente il Beato Ambrose Bayley, che a mani giunte e con lo sguardo estatico rivolto al cielo implorò: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.» Tristram desisté ansimante.
«Bene» disse il capitano. «Dunque adesso sappiamo quando agire. E lei può attendere fiducioso che suo fratello cada in disgrazia e sua moglie riceva la giusta punizione.»
«Che significa? Che diavolo va blaterando? Punizione? Quale punizione? Se è con mia moglie che se la vuol prendere, lasci in pace quella puttana, capito? È mia moglie, mica la sua. Con mia moglie me la vedo io a modo mio.» Si abbandonò senza vergogna al pianto. «Oh, Beattie, Beattie,» frignò «perché non mi tiri fuori di qui?»
«Lei si rende conto, naturalmente,» disse il capitano «che questa detenzione la deve a suo fratello?»
«Meno chiacchiere» disdegnò Tristram «e più sintecioc, ingordo ipocrita. Avanti, dammelo.»
«Cibo, per amor del cielo» esalò il Beato Ambrose Bayley. «Non dimenticare i servi del Signore nei giorni della tua abbondanza.» Crollò in ginocchio e si aggrappò agli stinchi del capitano facendolo quasi cadere.
«Guardia!» chiamò il capitano.
«E poi» rincarò Tristram «lascia in pace mio figlio. È figlio mio, sozzo maniaco infanticida.» Si diede con deboli pugni a martellare il capitano come pestasse una porta. «Figlio mio, brutto maiale. La mia protesta, il mio sputo in faccia al porco mondo, lercio furfante.» Prese con leste lunghe scimmiesche mani a rovistare il capitano in cerca di sintecioc.
«Guardia!» chiamò il capitano respingendolo.
Il Beato Ambrose Bayley mollò la presa e si trascinò prostrato al suo pancaccio. «Cinque Paternostri e cinque Avemmarie» prescrisse frettolosamente «oggi e domani in onore di Santa Teresa del Bambin Gesù. Va' in pace e Dio ti benedica.»
Giunse il secondino e s'informò tutto giocondo: «Mica le han dato alcun fastidio, vero, signore? Meglio così.» Troppo deboli per protrarre la perquisizione, a Tristram le braccia erano ricadute lungo i fianchi. «Guardi lui» indicò il secondino. «Quando è arrivato qui proprio una belva in gabbia era. Non si riusciva a fargli intendere ragione, un criminale da capo a piedi. Molto più mansueto adesso è» concluse il carceriere con una punta d'orgoglio. Tristram si afflosciò nel suo canto borbottando: «Figlio mio, figlio mio, figlio mio.» Con quegli spondei nelle orecchie il capitano, sorridendo nervosamente, se ne andò.
5
Un giorno imprecisato verso la fine di dicembre a Bridgewater nel Somerset, Provincia Occidentale, rientrando a casa dal lavoro poco dopo mezzanotte un uomo di mezz'età di nome Thomas Wharton venne aggredito da un branco di giovani. Costoro lo accoltellarono, lo scorticarono, lo schidionarono, lo oliarono, lo scalcarono, lo servirono... il tutto a viso aperto e senz'alcun ritegno in una piazza cittadina. Una turba affamata reclamò a gran voce tocchi e tranci, tenuta a bada - onde non si turbasse l'ordine pubblico - da grigiazzi sgranocchianti succulenti bocconi. A Thirsk, Yorkshire settentrionale, tre fanciulli - Alfred Pickles, David Ogden e Jackie Priestley - vennero accoppati a martellate in un vicolo buio e trascinati in un'unifamiliare a schiera passando dal cortile di dietro. La strada si sollazzò per due notti in mezzo al fumo delle graticole. A Stoke-on-Trent la carcassa di una donna (identificata più tardi come Maria Bennett, nubile, ventott'anni) sbucò d'un tratto sogghignando di sotto un cumulo di neve accuratamente priva di svariati tagli di prima scelta. A Gillingham, Kent, Grande Londra, aprì i battenti in una viuzza defilata una losca trattoria specializzata in piatti alla griglia imbanditi nottetempo col beneplacito, pare, di membri di entrambi i corpi di polizia. In talune intemperanti zone sulla costa del Suffolk si vociferò di spettacolari pranzi natalizi.
A Glasgow, per san Silvestro, i barbuti seguaci d'una setta professante il culto di Njal celebrarono un plurimo sacrificio umano, offrendo i visceri al combusto patrono divinizzato e riservandosi le polpe. Kirkcaldy, meno raffinata, vide parecchie serate private allietate da tramezzini alla carne. L'anno nuovo ebbe inizio con storie d'incipiente antropofagia provenienti da Maryport, Runcorn, Burslem, West Bromwich e Kidderminster. Poi anche la metropoli sguainò d'un tratto i suoi canini: a un certo Amis venne selvaggiamente amputato un braccio non lungi da Kingsway; S.R. Coke, giornalista, venne bollito in un vecchio paiolo di rame nei pressi di Shepherd's Bush; la signorina Joan Waine, insegnante, fu fatta a fette e fritta.
Così almeno si udiva raccontare. Non v'era praticamente modo di verificare la fondatezza di tali episodi; avrebbe potuto benissimo trattarsi di deliranti fantasticherie provocate dai morsi implacabili della fame. Circolò in particolare un racconto talmente implausibile da revocare in dubbio tutti gli altri. Venne riferito che a Brodick, sull'isola di Arran, a una gigantesca scorpacciata pubblica notturna a base di carne umana aveva fatto seguito un'orgia eterosessuale al chiarore rossastro dei falò sfrigolanti di grasso, e che il mattino seguente s'era vista rampollare dal terreno strapazzato la radice nota come barba di becco. Il che non poteva nella maniera più assoluta, pur sollecitando al massimo l'umana propensione alla credulità, ricondursi entro l'alveo della verosimiglianza.
6
Beatrice-Joanna cominciò ad avere le doglie.
«Povera figliola» disse Shonny. «Povera cara tardona mia.» In quella limpida e frizzante mattinata di febbraio egli sostava insieme a sua moglie e sua cognata accanto al porcile di Bessie, la scrofa ammalata. Il grigio corpo abbandonato come un peso morto, gran massa di carne in rovina, Bessie giaceva accasciata di lato grugnendo debolmente. Il fianco superiore, curiosamente chiazzato, si alzava e abbassava affannosamente come nella concitazione di un sogno opprimente. Gli occhi panceltici di Shonny si colmarono di lacrime. «Vermi di un metro» si accorò. «Orribili vermi vivi. Perché mai un verme dovrebbe vivere e lei no? Povera, povera cara bacuccona mia.»
«Oh, piantala, Shonny» sbuffò Mavis. «Dobbiamo essere meno teneri di cuore. È solo un maiale, dopotutto.»
«Solo un maiale? Solo un maiale?» Shonny era indignato. «E cresciuta coi nostri figli, Dio la benedica, povera cara. È un membro della famiglia. Ci ha sempre generosamente donato i suoi porcellini affinché potessimo nutrirci decentemente. Meriterebbe, Dio le custodisca l'anima, una sepoltura cristiana.»
Beatrice-Joanna comprendeva le sue lacrime; era per molti versi più vicina lei, a Shonny, di quanto non lo fosse Mavis. Ma altre cose aveva ora per la mente. Erano incominciate le doglie. Bilancio in pareggio, oggi: morte di un maiale, nascita di un uomo. Non aveva paura. Nutriva fiducia in Shonny e Mavis, soprattutto in Shonny; la sua gravidanza aveva conosciuto un decorso sano e regolare, soggetto soltanto a talune frustrazioni: una smodata voglia di cetriolini sottaceto era rimasta necessariamente insoddisfatta, e un impellente desiderio di ridisporre il mobilio di casa era stato inesorabilmente rintuzzato da Mavis. Talvolta, nottetempo, un'ardente brama delle rinfrancanti braccia non, stranamente, di Derek bensì di...
Aaaah.
«È la seconda in venti minuti» rilevò Mavis. «Faresti meglio a rientrare.»
«Sono le contrazioni» diagnosticò Shonny gongolante. «Il momento buono verrà stanotte, il Signore sia lodato.»
«Una piccola fitta» precisò Beatrice-Joanna. «Mica tanto forte. Una cosina lieve, nient'altro.»
«Bene» s'infervorò Shonny. «La prima cosa che devi fare è un clistere. Acqua e sapone. Ci pensi tu, vero, Mavis? Sarà bene farle fare anche un bel bagno caldo. Bene. Grazie a Dio di acqua calda ne abbiamo in abbondanza.» Le ricondusse precipitosamente in casa lasciando Bessie a soffrire in solitudine, e si mise ad aprire e chiudere cassetti con gran fracasso. «I legacci!» gridò. «Devo preparare i legacci!»
«C'è un sacco di tempo» osservò Mavis. «È un essere umano, sai, mica un animale.»
«Proprio per questo devo preparare i legacci!» tuonò Shonny. «Buon Dio, donna, vuoi che se lo stacchi a morsi come una gatta?» Trovò del filo di lino, e salmodiando un inno in panceltico lo attorcigliò in cordicelle di venticinque centimetri annodate alle estremità, ideali per legare il cordone ombelicale. Nel frattempo Beatrice-Joanna venne accompagnata di sopra in bagno, e le condutture dell'acqua calda cantarono a piena gola scricchiolando e vibrando come una nave in partenza.
Le doglie divennero più frequenti. Senza mai smettere di cantare, Shonny preparò il letto nel capanno riscaldato, coprendolo al centro con della carta da pacchi su cui spianò un panno morbido. Il raccolto era andato male e una fedele scrofa stava morendo, ma una nuova vita si apprestava a fare uno sberleffo col gesto noto un tempo come 'marameo' - alle forze della sterilità. D'un tratto, spontaneamente, gli balenarono in testa due strani nomi... evocanti chissà perché gente barbuta: Zondek e Aschheim. Chi mai potevano essere? Poi ricordò: gli antichi ideatori di un test di gravidanza. Poche gocce di urina di una donna incinta portavano in men che non si dica un innocente topolino alla maturità sessuale. L'aveva letto studiando la procedura che adesso principiava ad applicare. Un giubilo immenso, per qualche motivo, gl'inebriava l'animo. Forse per via del grande segreto, quello che in ogni vita, nessuna esclusa, si manifestava. Ora però non aveva tempo di pensarci.
Dymphna e Llewelyn tornarono da scuola. «Cosa c'è, papà? Che succede, papà? Che stai facendo, papà?»
«Vostra zia ha finito il tempo. Ora non disturbatemi. Andate a giocare da qualche parte. Anzi, no, andate a far compagnia alla povera vecchia Bessie. Tenetela per la zampa, povera vecchiarda mia.»
Beatrice-Joanna volle distendersi. Si era precipitosamente rotto il sacco amniotico, provocando la fuoriuscita delle acque. «Sul fianco sinistro, cocca» ordinò Shonny. «Ti fa male? Povera piccola.» Le doglie, in effetti, peggioravano in fretta; BeatriceJoanna cominciò a trattenere il respiro e a spingere energicamente. Shonny annodò un lungo asciugamano al capezzale, esortando: «Tira questo, figliola. Tira forte. Dio ti benedica, non ci vorrà molto.» Beatrice-Joanna tirò, gemendo. «Mavis,» disse Shonny «mi sa che la cosa andrà per le lunghe. Vammi a prendere due bottiglie di vino e un bicchiere.»
«Ce n'è rimaste solo un paio.»
«Portamele lo stesso, da brava. Su, su, bellezza» disse a Beatrice-Joanna. «Continua a tirare, benedetta te.» Controllò che gli antiquati pannolini - lavorati a maglia dalle due sorelle nelle lunghe serate invernali - fossero in caldo sul radiatore. Aveva sterilizzato i legacci; in una pentola bollivano un paio di forbici; sul pavimento luccicava un bacile di stagno; un viluppo di cotone idrofilo attendeva di essere sbioccolato in tamponi; c'era una federa per una fasciatura... in effetti era tutto pronto. «Dio ti benedica, tesoro» disse a sua moglie vedendola ricomparire con le bottiglie. «Questo sarà un gran giorno.»
Di sicuro fu un lungo giorno. Per quasi due ore Beatrice-Joanna fece grandi sforzi muscolari. Urlava di dolore, e Shonny, tracannando vino di prugne e gridando incoraggiamenti, sorvegliava e attendeva, sudando quanto lei. «Se almeno» brontolò «avessimo un anestetico di qualche genere... Prendi, bella» disse baldanzoso. «Bevi un po' di questo.» Ma, mentre porgeva la bottiglia, Mavis gli trasse indietro la mano.
«Guarda!» esclamò. «Eccolo che esce!»
Beatrice-Joanna strillò. La testolina stava venendo alla luce: aveva finalmente concluso il suo impervio tragitto, abbandonando l'ossuto cunicolo della cintura pelvica e arrancando attraverso il canale vaginale per affacciarsi a respirare l'aria di un mondo che, ora indifferente, sarebbe presto divenuto ostile. Dopo una breve pausa il corpo del bimbo si spinse fuori. «Perfetto» esultò Shonny, gli occhi lucidi, pulendo, delicato e amorevole nei movimenti, le palpebre chiuse del piccino con un tampone inumidito. Il neonato berciò per salutare il mondo. «Magnifico» gioì Shonny. Poi, quando la pulsazione del cordone ombelicale cominciò a placarsi, prese due legacci e li annodò abilmente nei punti giusti, stretti, più stretti, strettissimi, creando due frontiere con in mezzo una terra di nessuno. E lì, cautamente maneggiando le forbici sterilizzate, recise. Il nuovo pezzetto di vita, pieno d'aria selvaggiamente trangugiata, adesso era autonomo. «Un maschio» disse Mavis.
«Un maschio? Ebbene sì» confermò Shonny. Separato da sua madre, aveva cessato di essere semplicemente una cosa. Shonny si volse per seguire l'espulsione della placenta, mentre Mavis avvolgeva il bimbo in uno scialle e lo adagiava in una scatola accanto al radiatore; il bagno poteva attendere. «Buon Dio» disse Shonny sgranando gli occhi. Beatrice-Joanna gridò, ma non forte come prima. «Un altro!» esclamò Shonny estasiato e sgomento. «Gemelli, perdio. Bella figliata, per Cristo nostro Signore!»
7
«Fuori, tu» ordinò il secondino.
«Era ora!» vociò Tristram alzandosi dalla cuccetta. «Maledettamente ora, brutta carogna. Dammi qualcosa da mangiare, ti venisse un colpo, prima che me ne vada.»
«Non tu» puntualizzò il secondino con gioia maligna. «Lui» indicò. «Tu rimarrai con noi ancora un bel pezzo, signor sporcaccione. È lui che dev'essere rilasciato.»
II Beato Ambrose Bayley, scosso dal secondino, ammiccando e strabuzzando gli occhi si sottrasse faticosamente all'incessante Presenza Divina cui aveva ceduto dalla fine di gennaio. Era molto debole.
«Traditore» ringhiò Tristram. «Spione. Hai raccontato menzogne su di me, ecco cosa hai fatto. Ti sei comprato un'infame libertà a suon di bugie.» E spalancando sul carceriere uno sguardo esaltato domandò speranzoso: «Sei sicuro di non esserti sbagliato? Sei proprio certo che non tocchi a me?»
«Lui» indicò il secondino. «Non tu. Lui. Tu non sei mica...» Sbirciò il foglio che teneva in mano. «... Non sei mica, no, un ministro del culto, qualunque cosa voglia dire. Devono essere rilasciati tutti. Invece gli scostumati come te han da restare in gabbia, chiaro?»
«È una patente, mostruosa ingiustizia!» sbraitò Tristram. «Ecco cos'è!» Cadde in ginocchio davanti al secondino, giungendo le mani in preghiera e ingobbendo le spalle neanche si fosse appena rotto il collo. «Ti prego, fa' uscire me invece di lui. A lui non gl'importa più. Crede d'essere già morto, bruciato sul rogo. Crede d'essere in avanzata via di canonizzazione. Nemmeno si accorge di quel che succede. Ti prego.»
«Lui» ribadì il carceriere. «C'è il suo nome su 'sto pezzo di carta. Guarda... A.T. Bayley. Te, brutto bestemmiatore, devi restare qui. Te lo troviamo noi un altro compare, sta' tranquillo. Andiamo, vecchio» disse gentilmente al Beato Ambrose. «Devi uscire di qui e presentarti per disposizioni da non so che tizio a Lambeth che ti dirà cosa fare. Su, avanti.» E lo scosse piuttosto rudemente.
«Dammi le sue razioni» supplicò Tristram sempre in ginocchio. «È il minimo che puoi fare, ti schiantasse un occhio. Sto morendo di fame, maledetto te.»
«Stiamo tutti morendo di fame» ringhiò il secondino. «E c'è anche qualcuno che gli tocca lavorare e mica può starsene in panciolle tutto il giorno. Cerchiamo tutti di tirare avanti colle nutrelle e un paio di gocce di sintelat, e dice che mica durano più tanto con l'aria che tira. Su, coraggio» insisté scrollando il Beato Ambrose. Ma il Beato Ambrose giaceva in estasi col volto raggiante e quasi non muoveva paglia.
«Cibo» brontolò Tristram alzandosi a fatica. «Cibo, cibo, cibo...»
«E cibo avrai!» sbottò il secondino intendendo tutt'altro. «Ora ti appioppo uno di quei mangiauomini che hanno pizzicato, ecco cosa faccio. Come nuovo compagno di cella ti becchi uno di quelli. Che ti strapperà il fegato, ci puoi scommettere, poi lo cuoce e se lo mangia.»
«Cotto o crudo» mugolò Tristram «non fa differenza. Dammelo, dammelo.»
«Aaah, sempre il solito!» sghignazzò schifato il carceriere. «Allora, vecchio, muoviti» ordinò al Beato Ambrose con crescente impazienza. «Alzati, via, da bravo. Devi uscire. Fuori, fuori, fuori» insisté concitato.
Il Beato Ambrose si tirò su assai vacillante, appoggiandosi al secondino. «Quia peccavi nimis» esalò con voce senile. Poi si accasciò goffamente. «Mi sembri proprio conciato male, mi sembri» constatò il secondino. Gli si accovacciò accanto, scrutandolo accigliato come fosse uno scarico ingorgato. «Quoniam ad huc» bofonchiò il Beato Ambrose supino sul lastricato.
Tristram, pensando bene di cogliere l'occasione, si abbatté sul carceriere come, almeno immaginò, una torre. I due si rotolarono ansando sul Beato Ambrose. «Ti piacerebbe, eh, brutta carogna?» ringhiò il secondino. Il Beato Ambrose Bayley gemé come dovette, a York nel 1586, gemere, schiacciata da quintali di peso, la Beata Margaret Clitheroe. «Ora sì che ti sei fregato con le tue mani» gorgogliò il secondino inginocchiandosi su Tristram e tempestandolo di pugni. «Te la sei proprio cercata, te la sei, sporco traditore. Non uscirai più vivo di qui, non uscirai.» Lo percosse ferocemente in piena bocca, rompendogli le dentiere. «Tira tira la corda s'è spezzata, s'è.» Tristram giacque immobile, respirando a fatica. E il carceriere prese, ancor trafelato, a trascinare il Beato Ambrose Bayley verso la libertà. «Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa», salmodiò lo spretato battendosi tre volte il petto.
8
«Dio sia lodato!» esultò Shonny. «Mavis, vieni a vedere chi c'è. Llewelyn, Dymphna. Presto, presto, tutti qui!» Perché chi era entrato in casa se non padre Shackel, di mestiere venditore di sementi, che molti mesi prima era stato brutalmente prelevato da una squadraccia di grigiazzi imbellettati? Padre Shackel aveva poco più di quarant'anni, un bel capoccione tondo coi capelli rasati, uno spiccato esoftalmo, e una rinite cronica provocata da una protuberanza monolaterale al setto nasale. La bocca sempre aperta e gli occhi sgranati gli davano un'aria da William Blake in contemplazione delle fate. Sollevò la mano destra in gesto benedicente.
«Com'è dimagrito» osservò Mavis.
«L'hanno torturata?» vollero sapere Llewelyn e Dymphna.
«Quand'è stato rilasciato?» domandò Shonny.
«Quel che gradirei soprattutto» disse padre Shackel «è qualcosa da bere.» Parlava con voce soffocata, dal timbro denasalizzato, come in preda a un perenne raffreddore.
«C'è rimasto un goccetto di vino di prugne» disse Shonny. «Avanzato dal travaglio e dai festeggiamenti per il lieto evento.» Corse a prenderlo.
«Lieto evento? Quale lieto evento?» domandò padre Shackel mettendosi a sedere.
«Mia sorella» rispose Mavis. «Ha avuto due gemelli l'altro giorno. Si prepari a un bel battesimo, padre.»
«Grazie, Shonny.» Padre Shackel prese il bicchiere pieno a metà. «Bene» disse dopo aver bevuto un sorso. «Succedono cose davvero bizzarre, non credete?» «Quando l'hanno rilasciata?» tornò a chiedere Shonny.
«Tre giorni fa. Da allora son stato a Liverpool. Sembra incredibile, ma l'intera gerarchia è libera... arcivescovi, vescovi, tutti quanti. Ora non c'è più bisogno di nascondersi. Volendo possiamo persino indossare l'abito talare.»
«Qui notizie certe non ne arrivano» disse Mavis. «Gli ultimi tempi solo un gran mucchio di chiacchiere... appelli, propaganda... però si son sentite certe voci... vero,
Shonny?»
«Cannibalismo» disse Shonny. «Sacrifici umani. Roba del genere.»
«Davvero buono questo vino» elogiò padre Shackel. «Immagino che un giorno o l'altro vedremo togliere il bando alla viticoltura.»
«Cos'è la viticoltura, papà?» domandò Llewelyn. «Lo stesso che sacrifici umani?» «Voi due» decise Shonny «tornate a tener la zampa alla povera vecchia Bessie.
Prima di andare baciate le mani a padre Shackel.» «Le zampe di padre Shackel» ridacchiò Dymphna.
«Basta così» ammonì Shonny. «Altrimenti volano scapaccioni.»
«Bessie ci mette tanto a morire» brontolò Llewelyn con giovanile insensibilità. «Andiamo, Dymph.» Baciarono le mani a padre Shackel e svicolarono cicalando.
«La situazione non è ancora affatto chiara» disse padre Shackel. «Si sa solo che sta venendo a tutti una gran strizza. Inutile negarlo. Sembra che il Papa sia di nuovo a Roma. Ho visto coi miei occhi l'arcivescovo di Liverpool. Figuratevi che ha lavorato da muratore, poveretto. Comunque abbiam tenuto la fiaccola accesa attraverso i tempi bui. Ecco cosa vuol dire far parte di una Chiesa. C'è da esserne orgogliosi.» «E adesso cos'accadrà?» domandò Mavis.
«Torneremo ai nostri doveri di sacerdoti. Riprenderemo a celebrar messa... apertamente, legalmente.»
«Sia gloria a Dio» disse Shonny.
«Oh, non crediate che allo Stato interessi alcunché della gloria divina» precisò padre Shackel. «Lo Stato è atterrito da forze che non comprende, tutto qui. I governanti sono in preda a un attacco di paura superstiziosa, ecco il punto. Non avendo ottenuto niente con la loro polizia, adesso si rivolgono ai preti. Al momento non esistono chiese, quindi ci tocca andar su e giù per le zone assegnateci chiamando tutti al rispetto di Dio invece che della legge. Oh, un'operazione ingegnosa, non v'è dubbio. Immagino che la parola magica sia sublimazione: non mangiare il prossimo tuo, mangia Dio, invece. Ci sfruttano, ecco la verità. Ma ovviamente anche noi, a modo nostro, approfittiamo della situazione. Abbiamo riacquisito la funzione primaria... l'ufficio sacramentale. Una cosa l'abbiamo imparata, ed è che la Chiesa può ospitare qualunque eresia e qualsivoglia eterodossia - compresa la vostra innocua credenza nel Secondo Avvento - a patto di tenersi ben stretta la funzione primaria.» Ridacchiò. «Ho saputo che un numero sorprendentemente alto di poliziotti è finito in pentola. Le vie del Signore sono infinite. La più prelibata sembra sia la carne di ermafrodito.» «Che cosa orribile» commentò Mavis con una smorfia.
«Oh, sì, orribile davvero» sogghignò padre Shackel. «Sentite, ho poco tempo. Devo essere ad Accrington stasera e c'è caso che mi tocchi farmela tutta a piedi: le corriere non funzionano, pare. Ce le avete le ostie per la comunione?»
«Un po' sì» rispose Shonny. «I ragazzi, Dio li perdoni, hanno trovato il pacchetto e si son messi a mangiarle, quei piccoli pagani blasfemi. Se le sarebbero divorate tutte se non li avessi colti in flagrante.»
«Ci sarebbe quel lavoretto battesimale, prima che vada» gli ricordò Mavis.
«Oh, certo.» Condussero padre Shackel al capanno che ospitava Beatrice-Joanna e i suoi gemelli. Magra ma bella rosea la puerpera, addormentati i pargoli. «Dopo la cerimonia neonatale che ne direbbe di somministrare un'estrema unzione?» propose Shonny.
«Ti presento padre Shackel» si disimpegnò Mavis.
«Non sto mica morendo, vero?» volle sapere Beatrice-Joanna turbata. «Mi sento benissimo, anche se ho tanta fame.»
«E la povera vecchia Bessie ch'è in fin di vita, povera cara bacucca» chiarì Shonny.
«Esigo per lei lo stesso trattamento garantito a ogni anima cristiana.» «I maiali non ce l'hanno l'anima» obiettò Mavis.
«Gemelli, eh?» si compiacque padre Shackel. «Congratulazioni. Maschi tutt'e due, vero? E che nomi ha scelto per loro?»
«Uno Tristram» rispose Beatrice-Joanna senza esitare. «E l'altro Derek.»
«Potrei avere dell'acqua?» domandò padre Shackel a Mavis. «E anche un po' di sale?»
Entrarono ansanti Llewelyn e Dymphna. «Papà!» gridò Llewelyn. «Papà,
Bessie...»
«Andata, infine, eh?» si rassegnò Shonny. «Povera vecchia fedele amica. Senza i conforti religiosi, Dio abbia pietà di lei.»
«Ma non è morta!» esclamò Dymphna. «Sta mangiando.» «Mangiando?» Shonny spalancò tanto d'occhi.
«S'è alzata ed è lì che mangia» confermò Llewelyn. «Abbiamo trovato un po' d'uova nel pollaio e gliele abbiamo date.»
«Uova? Uova? Ma stiamo ammattendo tutti quanti me compreso?»
«E anche quei biscotti» disse Dymphna. «Quelli bianchi tondi nella credenza. Non abbiamo trovato altro.»
Padre Shackel scoppiò a ridere. Sedé in proda al letto di Beatrice-Joanna aspettando che gli passasse. Quel che più suscitava la sua ilarità era il miscuglio di sentimenti in faccia a Shonny. «Non importa» disse infine con un gran sorriso minchione. «Troverò un po' di pane sulla via per Accrington. Deve pur esserci del pane da qualche parte.»
9
Il nuovo coinquilino di Tristram era un imponente nigeriano di nome Charlie Linklater. Un tipo affabile e loquace, con una bocca tanto grande che il fatto che riuscisse a pronunziare con discreta precisione i suoni vocalici inglesi aveva del prodigioso. Tristram tentò più volte di contargli i denti - che erano naturali e balenavano spesso quasi fieri di esserlo - ottenendo immancabilmente un totale che sembrava eccedere la prescritta quantità di trentadue. La cosa lo preoccupava. Charlie Linklater stava scontando una pena indeterminata a fronte d'un crimine indefinito che, per quanto a Tristram era dato comprendere, oltre a una multipla progenitura annoverava in salsa mista l'aver malmenato grigiazzi, arrecato danni nell'atrio del Palazzo del Governo e mangiato carne in stato d'ubriachezza. «Un bel riposino qui dentro» era la sua filosofia «non mi farà alcun male.» Profonda e vibrante aveva la voce, calda come velluto cremisi. Tristram si sentiva più macilento e debole che mai in presenza di cotanta lustra polputa massa nerobrunita. «Parlano di mangiar carne» dichiarò Charlie Linklater in quella sua maniera neghittosa spaparanzato sulla cuccetta «ma non ne sanno un picciolo di ficosecco, ragazzo. Fatto sta che or sono dieci anni e passa amoreggiavo con la donna d'un compaesano di Kaduna. Si chiamava George Daniel e faceva il letturista di contatori. Orbene un giorno eccolo che ti rincasa all'improvviso e ci becca sul più bello. Che potevamo almanaccare tranne affibbiargli un bel colpo d'ascia? L'avresti fatto anche tu, ragazzo mio. Be', eccoci lì col corpo, un'ottantina di chili belli abbondanti. Che fare? Mettemmo la pentola sotto pressione. Una settimana intera ci volle, giorno e notte a mangiare. Seppellimmo le ossa e nessuno si accorse di nulla. Che gran pappata, fratello, un'abbuffata coi fiocchi.» Sospirò, schioccò le enormi labbra, ruttò persino nel godimento del ricordo.
«Devo uscire di qui» disse Tristram. «Di cibo ce n'è nel mondo esterno, vero? Cibo.» Sbavò, scuotendo debolmente le sbarre. «Devo mangiare. Assolutamente.»
«Be', per quanto mi riguarda» disse Charlie Linklater «non ho fretta alcuna di togliere il disturbo. C'è un paio di bischeri che mi cercano brandendo la mannaia, e per starmene fuori dai piedi un posto vale l'altro, quindi mi va bene anche qui, almeno per un po'. Però sarei ben lieto di poterti dare in qualche modo una mano a spiccare il volo. Non ch'io non gradisca la tua compagnia, essendo tu un individuo ben educato e istruito e di buone maniere. Ma se proprio hai tanta voglia di andartene, allora eccomi qua, ragazzo mio, sono a tua disposizione.»
Quando a mezzogiorno venne il secondino a spingere fra le sbarre le nutrelle e l'acqua, Tristram notò con interesse che portava un manganello. «Accenna la minima corbelleria» minacciò il carceriere «e assaggerai la bontà di questo signore» lo brandì «sul tuo brutto ceffo, canaglia. Quindi sta' attento, dai retta a me.»
«Quel suo nero randello tornerà utile assai» disse Charlie Linklater. «Il modo in cui ti si rivolge è ben lungi dalla buona creanza» soggiunse. Quindi elaborò un semplice piano per consentire l'evasione di Tristram. Avrebbe corso qualche rischio d'incorrere in una punizione, ma era un uomo dal cuore grande così. Avendo consumato circa cinquanta chili di letturista in sette giorni era evidentemente anche un individuo risoluto e perseverante. Fu così che nella prima semplice fase del suo semplice piano mise in scena una finta ostilità nei confronti del compagno di cella onde stornare sospetti di complicità allorché fosse giunto il momento di porre in atto la seconda fase. Da quel momento, ogni qual volta il secondino occhieggiava fra le sbarre il nigeriano sbraitava rivolto a Tristram: «Smettila di rompere le scatole, amico. Le tue oscenità tientele per te. Non sono avvezzo a esser trattato così, proprio no.»
«Ci risiamo, eh?» annuiva torvo il carceriere. «Ma gli calmeremo i bollori, aspetta e vedrai. Prima d'aver finito con lui lo faremo strisciare come un verme.»
Tristram, le guance incavate per via delle dentiere rotte, apriva la bocca in una sorta di ringhio da pesce. Il secondino restituiva il ringhio mostrando i denti, poi se ne andava. Charlie Linklater faceva l'occhiolino. La cosa andò avanti tre giorni.
Il quarto giorno Tristram giacque più o meno com'era giaciuto il Beato Ambrose Bayley: esanime, immobile, gli occhi al cielo. Charlie Linklater scosse le sbarre. «Ohè, questo qui sta crepando. Venite, presto. Il ragazzo tira le cuoia. Qualcuno si muova.» Arrivò brontolando il secondino. Vedendo Tristram in quelle condizioni somministrò alla porta della cella i soliti cigolanti giri di chiave.
«Ottimo» approvò Charlie Linklater quindici secondi dopo. «Ora infilati nei suoi stracci, ragazzo. Bel lavoretto, a puntino» disse facendo dondolare il manganello per la cinghia in finto cuoio. «Non dovresti aver problemi a indossare la sua uniforme, siete quasi della stessa taglia.» Lavorando di concerto spogliarono il carceriere privo di sensi. «Accidenti che schiena foruncolosa» commentò Charlie Linklater. Sollevò delicatamente il corpo deponendolo sulla cuccetta di Tristram e l'occultò ben bene sotto la coperta. Nel frattempo, ansimando per l'emozione, Tristram si abbottonò la logora divisa azzurra. «Non dimenticare le chiavi» raccomandò Charlie Linklater. «E soprattutto, ragazzo, non scordarti il manganello. Con quel gioiellino ti farai largo, garantito. Dovrebbe restar fuori combattimento un'altra mezzora, quindi prenditela comoda e comportati con naturalezza. Calcati bene il berretto giù sugli occhi, ragazzo. Peccato per quella barba.»
«Ti sono grato» disse Tristram mentre il cuore gli batteva all'impazzata. «Non so dirti quanto.»
«Ma dai, che vuoi che sia» ribatté Charlie Linklater. «Adesso però rifilami un bussetto dietro la testa col prode mazzapicchio, così la scena sembrerà più naturale. Non c'è bisogno d'inchiavardare la porta della cella, tanto nessuno cercherà di uscire, ma ricordati di far tintinnare le chiavi, perché è così che si fa, disinvoltura innanzitutto. E ora su, coraggio, borda.» Tristram assestò un colpetto leggero, neanche fosse un guscio d'uovo, a quel cranio sterpigno. «Puoi far di meglio» lo incoraggiò Charlie Linklater. Tristram strinse le labbra e gli appioppò una bella sventola. «Colpito e affondato» esalò Charlie Linklater mostrando il bianco degli occhi. Il corpaccione stramazzò a incontrare il lastricato; acciottolarono in risposta le tazze di latta sulla mensola.
Uscito in corridoio Tristram scrutò guardingo a destra e a manca. In fondo alla galleria due secondini si appoggiavano con aria depressa alla ringhiera del pozzo, chiacchierando, gli sguardi affondati nel vuoto come a immergersi nelle vastità marine. Da quest'altra parte via libera, invece: soltanto quattro celle al caposcala. Essere un carceriere barbuto lo angustiava alquanto. Scovato un fazzoletto in tasca ai rigidi pantaloni estranei, a mano tesa se lo sciorinò sul volto. Mal di denti o alla mascella o giù di lì. Decise di contravvenire al suggerimento di Charlie Linklater: avendo un aspetto innaturale, doveva comportarsi in modo innaturale. Tra uno sferragliar di chiavi e uno sbatacchiar di stivali ballonzolò goffamente giù per la scala metallica. Sul pianerottolo incrociò un altro secondino impegnato a salire. «Che t'è successo?» gli chiese quello. «Picchiata musata ferriata» borbottò Tristram. L'altro annuì soddisfatto e proseguì l'ascesa.
Perseverò invece Tristram nella discesa. Con gran baccano. Col fiato sospeso. Con la sensazione che stesse andando troppo liscia. Rampa dopo rampa di ferro schiamazzante, file e file interminabili di cubicoli, a ogni pianerottolo un cartello ingiallito scritto fitto fitto: Carceri di S.M. Regolamento. Poi finalmente il piano terra, e la sensazione delirante di reggere in bilico sul capo tutti quei ranghi innumerevoli di celle. Nello svoltare un angolo a caso entrò in collisione frontale con un secondino dalla faccia bovina, dritto e duro come dentro un'armatura. «Su, su» si sentì fare. «Tutto bene? Novellino, vero?» «Ciommale» cincischiò Tristram. «Evvivebbe un dottoe.» «Se cerchi l'infermeria» indicò l'altro «va' dritto da quella parte. Non puoi sbagliare.» «Ante azie» biascicò Tristram. «Non c'è di che, amico.» Tristram tirò sollecito innanzi. Adesso eran tutti corridoi di servizio, pareti giallo chiaro con zoccoli testa di moro, un forte odore di disinfettante. INFERMERIA AGENTI, proclamava sopra un architrave una scatoletta azzurra con dentro una lampadina. Tristram s'inoltrò animoso in un alveare di stanzette e giovani in camice bianco permeato dall'afrore dell'alcol. Udì provenire dalla porta più vicina lo sciacquio e il gorgoglio d'una vasca piena, il grugnito di un uomo a bagno. Trovato il battente aperto, Tristram entrò. Piastrelle turchine, vapore, il bagnante intento a insaponarsi la testa a occhi spasmodicamente serrati neanche subisse un atroce tormento. «Dimenticato di radermi» gridò Tristram. «Eh?» gridò il bagnante di rimando. Tenendo a freno l'euforia Tristram s'impadronì di un rasoio elettrico agganciato a un supporto a parete, lo accese, e aggredì il fitto cespuglio vangandolo senza pietà. «Ehi» trasecolò il bagnante avendo recuperato la vista. «Che succede? Chi t'ha fatto entrare?» «Mi faccio la barba» spiegò Tristram, sgomento nel vedersi le guance emaciate affiorare allo specchio man mano che il vello cadeva, inorridito nello scorgere la selvaggia diffidenza che gl'incendiava lo sguardo. «Questione d'un minutino» soggiunse. «Di questi tempi non c'è più riservatezza» mugugnò il bagnante. «Nemmeno a farsi il bagno si trova un po' d'intimità.» Rimestò l'acqua stizzito, dicendo: «Potresti se non altro avere la decenza di toglierti il berretto quando irrompi a disturbare un onest'uomo che fa il bagno.» «Ancora due secondi» replicò Tristram, risparmiando i baffi per risparmiar tempo. «Potresti almeno smondezzare il pavimento da tutta quella porcheria» si lagnò il bagnante. «Perché mai dovrei camminare a piedi nudi sui lerci peli d'uno sconosciuto?» E poi: «Ma insomma, che succede? Oltretutto chi caspita sei? Hai la barba, per lo meno l'avevi, e ciò non risponde a conformità. I secondini non portano la barba, no che non la portano in questa prigione.» Cercò di uscire dalla vasca, un ometto mingherlino nerovilloso dallo sterno al pube. Tristram lo ricacciò dentro la broda saponosa e si precipitò alla porta. Constatata con soddisfazione la presenza della chiave nella toppa fu lesto a trasferirla all'esterno. Il bagnante, tutto insaponato, tentò nuovamente di tirarsi fuori. Il ben rasato Tristram gli rivolse un muto addio a fior di labbra, uscì, chiuse la porta a chiave. «Sacripante!» si udì sciabordare il bagnante. In corridoio Tristram si rivolse tranquillamente a un giovanotto in camice bianco: «Sono nuovo di qui e credo proprio d'essermi smarrito. Come faccio a uscire?» Il giovane gli fece strada sorridendo fuori dell'infermeria e gli indicò la strada. «Per di la, caro, poi volta a sinistra, poi sempre dritto, non puoi sbagliare, caro.» «Mille grazie» si accomiatò Tristram dischiudendo in un sorriso la sua nera caverna sguarnita. Erano stati tutti d'una gentilezza davvero squisita.
Nella penombra del grande atrio alto e tetro stazionavano parecchi secondini che avendo evidentemente concluso il turno consegnavano le chiavi a un agente capo tutto azzimato nell'impeccabile azzurro dell'uniforme nuova, magrissimo, più vicino ai due metri e dieci che all'uno e ottanta. «Bene» continuava a ripeter costui con scarso interesse, «Bene» riscontrando su un elenco l'identinumero delle chiavi, «Bene» passandole quindi a un aiutante che le appendeva a un pannello alla parete. «Bene» confermò anche a Tristram. Nel massiccio portone metallico del carcere si apriva sulla sinistra un piccolo portello. Era di lì che uscivano i secondini. Facilissimo. Tristram indugiò un istante sui gradini a respirar la libertà, sollevando lo sguardo, sbigottito che il cielo fosse tanto alto. «Attento, attento, non tradirti» raccomandò al suo cuore in subbuglio. Si allontanò lentamente, provando a fischiettare. Ma aveva la bocca ancora troppo asciutta per riuscirci.
10
Tempo di semina, stillicidio di uova dal pollaio, la scrofa Bessie vispa come una lasca, sani e robusti i gemelli. Beatrice-Joanna e sua sorella sedevano assieme in soggiorno lavorando ai ferri una specie di surrogato di lana per trarne caldi indumenti infantili. In una doppia culla costruita da Shonny a suon di chiodi e martello Tristram e Derek Foxe dormivano in perfetta armonia.
«Lungi da me» disse Mavis «il proporre che tu te ne vada raminga nella notte col tuo doppio fardello; sto solo riflettendo a che cosa sia meglio per te. Tu stessa, naturalmente, non vorrai fermarti qui per sempre, a parte il fatto che davvero non c'è posto. Senza contare il pericolo per noi tutti. Insomma, dovrai pur decidere qualcosa per il futuro, non credi?»
«Oh, sì» convenne Beatrice-Joanna con aria abbacchiata. «Lo so. Siete stati così gentili. Me ne rendo conto.»
«Dunque» domandò Mavis «che intenzioni hai?»
«Che intenzioni vuoi che abbia?» replicò Beatrice-Joanna. «Ho scritto tre lettere a Tristram presso il Ministero degli Interni, e sono state tutte respinte al mittente. Potrebb'essere morto. Potrebbero avergli sparato.» Tirò su col naso due o tre volte. «Il nostro appartamento sarà stato requisito dall'Ufficio Alloggi. Non ho dove andare, nessuno che mi possa ospitare. Non è una situazione molto allegra, vero?» Si soffiò il naso. «E poi non ho il becco di un quattrino. Tutto quel che ho al mondo sono i genielli. Puoi buttarmi fuori, se vuoi, ma non saprei veramente dove andare.»
«Nessuno sta dicendo che ti vuol buttare fuori» replicò Mavis seccamente. «Sei mia sorella, e loro sono miei nipoti, e se proprio devi rimanere, be', immagino che non ci sia altro da fare.»
«Forse potrei trovar lavoro a Preston o da qualche altra parte» disse BeatriceJoanna ben sapendo quanto poco vi fosse da sperarci. «Magari un aiutino non guasterebbe.»
«Lavoro non ce n'è per nessuno» obiettò Mavis. «E i soldi sono il problema minore. Penso al pericolo, piuttosto. Penso a Llewelyn e a Dymphna e a che cosa gli accadrebbe se ci arrestassero. Perché come ben sai è quella la fine che faremmo se si scoprisse che ospitiamo una comesichiama.»
«Si dice multipara. Io sono una multipara. Tu non mi vedi come una sorella, dunque. Mi vedi solo come qualcosa di pericoloso, una multipara.» Mavis, a labbra strette, tornò a chinarsi sul lavoro. «Shonny» continuò Beatrice-Joanna «non la pensa così. Solo tu mi consideri una scocciatura e un pericolo.»
Mavis alzò la testa. «È assai scortese e indegno di una sorella dire una cosa del genere. È un'affermazione assolutamente meschina ed egoista. Dovresti renderti conto che è ormai tempo di metter giudizio. Prima che nascessero i bimbi ne abbiam corsi di rischi, un mucchio di rischi. E adesso mi rimproveri perché penso prima ai figli miei che ai tuoi. Quanto a Shonny... è troppo generoso per campare in un mondo così. Tanto generoso da sconfinare nella stupidità, convinto com'è che ci pensa Dio a proteggerci. Se proprio vuoi saperlo a volte mi vien la nausea a sentirlo nominare Dio. Un giorno o l'altro Shonny ci caccerà tutti nei guai. Ci metterà tutti quanti nei casini, un giorno o l'altro.»
«Shonny è abbastanza assennato e giudizioso.»
«Sarà anche assennato, ma esser sani di mente è uno svantaggio e un inconveniente se vivi in un mondo di pazzi. E giudizioso non lo è di certo. Togliti pure dal capo l'idea che Shonny sia giudizioso. È soltanto fortunato, tutto qui. Parla troppo e dice cose che non dovrebbe dire. Un giorno o l'altro, tienilo bene a mente, la sua fortuna cambierà, e allora che Dio ci aiuti, ma sul serio.»
«Insomma,» domandò Beatrice-Joanna dopo un po' «che cosa vuoi che faccia?»
«Esattamente ciò che credi sia meglio per te. Rimani, se devi, rimani fin quando lo riterrai opportuno. Ma cerca di ricordarti, ogni tanto...»
«Ricordarmi cosa?»
«Be', che c'è gente che si è data pena per te tanto da correr persino gravi rischi. Te lo dico una volta per tutte e non ci tornerò sopra. Vorrei solo però che ogni tanto te ne ricordassi, punto e basta.»
«Non me lo scordo, stai tranquilla» replicò Beatrice-Joanna con voce tesa «e vi sono molto grata. Da quando son qui ve l'ho ripetuto almeno tre volte al giorno tutti i giorni, tranne ovviamente il giorno ch'ero impegnata a partorire. Mi Sarebbe piaciuto farlo anche quel giorno lì, ma devo essermi distratta, sai com'è. Se vuoi posso fare ammenda adesso. Vi sono molto grata, vi sono molto grata, vi sono molto grata.»
«Non c'è bisogno di prenderla così» disse Mavis. «Argomento chiuso, va bene?»
«Certo» assentì Beatrice-Joanna alzandosi. «Argomento chiuso. Tenendo però presente che sei stata tu ad aprirlo.»
«Non hai motivo di parlarmi in questo modo» protestò Mavis.
«Oh, al diavolo» si spazientì Beatrice-Joanna. «È l'ora della poppata.» Tirò su i gemelli. Non ne poteva più di quella storia, ne aveva fin sopra i capelli; non vedeva l'ora che rientrasse Shonny dalla semina. Di donne in casa ne bastava una, non è che non se ne rendesse conto, ma che poteva fare? «Penso che per oggi» annunziò alla sorella «resterò in camera mia. Se camera si può chiamare.» Si sarebbe morsa la lingua, ma ormai era andata. «Scusa. Come non detto.»
«Fa' un po' quel che ti pare» replicò Mavis sferzante. «E vai esattamente dove più ti aggrada. Come d'altronde hai sempre fatto, se ben ricordo.»
«Oh, al diavolo» ribadì Beatrice-Joanna, affrettandosi a uscire coi suoi rosei gemelli.
«Che idiota» pensò più tardi, distesa nel capanno. «Non è il modo di comportarsi.» Doveva rassegnarsi al fatto che quello era l'unico posto in cui poteva tirare a campare, l'unico posto finché non avesse saputo con precisione cos'accadeva fuori di lì e dove fosse andato a cacciarsi Tristram - ammesso che fosse ancora vivo, altrimenti non aveva importanza - e come far entrare Derek nel quadro generale. I gemelli erano svegli; Derek (quello con la D cucita sulla pettorina) gorgogliava e una bolla di latte materno gli palpitava sulle labbra; scalcettavano entrambi, tenerissime creature, che graziose quelle loro calzettine in surrogato di cotone. Molto doveva sopportare per amor loro, sopportare era uno dei suoi doveri. Lasciò sospirando il capanno e tornò in soggiorno. «Scusami» disse a Mavis, domandandosi per che cosa, esattamente, fosse andata a scusarsi.
«Non c'è di che» rispose Mavis. Aveva lasciato perdere il lavoro a maglia e si stava rabbiosamente limando le unghie.
«Che ne diresti» propose Beatrice-Joanna «se preparassi qualcosa da mangiare?» «Fai pure, se vuoi. Io non ho molta fame.»
«E Shonny?»
«Shonny si è portato delle uova sode. Cucinati qualcosa, se ti va.»
«Anch'io non è che abbia poi tanta fame.»
«Allora questione risolta.»
Beatrice-Joanna si mise a sedere, dondolando distrattamente la culla vuota. Era il caso di prendere i gemelli dal loro lettino e riportarli lì? Poveri piccoli intrusi, meglio lasciarli dov'erano. Domandò vivacemente a Mavis; «Ti stai dando un'affilatura agli artigli?» Dopo di che si sarebbe morsa la lingua ecc.
Mavis alzò il capo. «Se sei tornata qui» ribatté aspra «solo per offendere...»
«Scusami, scusami, sono mortificata, davvero. Ma l'ho detto per scherzo, non lo pensavo mica.»
«Già, proprio questo è il problema. Che sei fatta così. Non pensi.»
«Oh, al diavolo» disse Beatrice-Joanna, e poi: «Scusa, scusa, scusa.»
«Non ha senso che continui a chiedere scusa come un disco rotto, senza convinzione.»
«Ma allora» disse Beatrice-Joanna disperata «che cosa vuoi veramente che faccia?»
«Te l'ho già detto. Devi fare esattamente ciò che credi meglio per te e per i tuoi figli.» Parola quest'ultima pronunciata carica di sfumature ambigue a sottintendere che in famiglia gli unici figli autentici appartenevano a Mavis mentre quelli di BeatriceJoanna, in quanto illeciti, erano fasulli.
«Oh,» fece Beatrice-Joanna trattenendo le lacrime «come sono infelice.» E tornò di corsa dai suoi gorgoglianti, niente affatto infelici gemelli. Mavis, a labbra strette, continuò a limarsi gli artigli.
11
Parecchio più tardi in giornata giunse sul suo nero furgone il capitano Loosley della Polizia Demografica. «Eccoci qua» disse all'autista il giovane Oxenford. «Fattoria Statale N0313. Un bel viaggetto, eh?»
«Un viaggio disgustoso» dissentì il sergente Image con le sibilanti esasperatamente alveolari tipiche di quelli della sua risma. Ne avevano viste di cose orribili nei campi arati. «Disgustoso» ribadì. «Avremmo dovuto impallinargli le chiappe.»
«Insufficienza dì munizioni a bordo, sergente» osservò Oxenford, giovanotto di mentalità concreta.
«E poi non è affar nostro» sottolineò il capitano Loosley. «Gli atti osceni in luogo pubblico sono competenza della polizia ordinaria.»
«Quella poca che non è ancora finita arrosto» puntualizzò il sergente Image. «Avanti, Oxenford» comandò stizzoso. «Scendi e apri quel cancello.»
«Non è il caso, sergente. Sto guidando.»
«Ah, certo, come non detto.» E il sergente Image sgrovigliò il lungo corpo serpentino per andare ad aprire. «Bambini» disse. «Bambini che giocano. Bei bambini. Bene,» ordinò a Oxenford «conduci il mezzo in prossimità dell'edificio. Io vado a piedi.» I bambini corsero via.
In casa «Papà!» gridò Llewelyn trafelato. «Arrivano uomini con un furgone nero. Poliziotti, mi sa.»
«Nero, dici?» Shonny si alzò per sbirciare fuori della finestra. «Eh, già» fece. «Li abbiamo aspettati tanto, Dio li perdoni, e non si son visti. E adesso che sonnecchiavamo tranquilli, eccoteli fra capo e collo a ballonzolare nei loro stivaloni. Dov'è tua sorella?» domandò brusco a Mavis. «Nel capanno?» Mavis annuì. «Dille di chiudersi dentro a chiave e di non fiatare.» Mavis assentì, ma invece di andare rimase lì esitante. «Allora, ti vuoi muovere?» la sollecitò Shonny. «Saranno qui a momenti.»
«Veniamo prima noi» disse Mavis. «Ricordalo. Tu e io e i ragazzi.»
«Va bene, va bene, ora vai.» Mavis si diresse al capanno. Il furgone si fermò davanti casa e ne discese stiracchiandosi il capitano Loosley. Il giovane Oxenford diede un'ultima sgassata e spense. Giunse a piedi il sergente Image e si affiancò al suo capo. Il giovane Oxenford si tolse il berretto rivelando in fronte una striscia rossa come il marchio di Caino, si asciugò con un fazzoletto sudicio, quindi riappollaiò il copricapo. Shonny aprì la porta. Non c'era altro da fare.
«Buon pomeriggio» salutò il capitano Loosley. «Questa è la Fattoria Statale N0313, e lei è... temo di non poter pronunziare il suo nome, mi spiego. Ma non ha importanza. Lei dà qui ricetto a una certa signora Foxe, vero? Questi sono i suoi figli?
Deliziosi, mi spiego, davvero deliziosi. Possiamo entrare?»
«Non è mia facoltà scegliere fra un sì e un no» disse Shonny. «Immagino che abbiate un mandato.»
«Oh, sì» confermò il capitano Loosley. «Certo che abbiamo un mandato, mi spiego.»
«Perché dice così, papà?» domandò Llewelyn. «Perché dice sempre 'mi spiego'?»
«È un disturbo nervoso, Dio abbia pietà di lui» spiegò Shonny. «Certa gente fa le smorfie, altri dicono 'mi spiego'. Entri pure, dunque, signor...»
«Capitano» intervenne il sergente Image. «Capitano Loosley.» Entrarono tutti, senza togliersi i berretti.
«Allora,» tergiversò Shonny «cos'è che cercate di preciso?»
«Molto interessante» commentò il sergente Image facendo dondolare con un piede la rozza culla. «Fai la ninna fai la nanna bimbo bello della mamma...»
«Per l'appunto» disse il capitano Loosley. «Abbiamo motivo di credere, mi spiego, che la signora Foxe abbia soggiornato qui durante l'intero periodo della sua illecita gravidanza. In altre parole, ha avuto un bambino.» Nella stanza entrò Mavis. «Questa» disse il capitano Loosley «non è la signora Foxe.» Parlò in tono stizzito, come se stessero cercando d'imbrogliarlo. «Assomiglia alla signora Foxe ma non è la signora Foxe.» S'inchinò a Mavis quasi a congratularsi ironicamente per quella blanda tentata frode. «Voglio la signora Foxe.»
«Quella culla lì» azzardò Shonny «era per i maialini. I più piccoli della figliata necessitano in genere di cure particolari.»
«Devo ordinare al giovane Oxenford» domandò il sergente Image «di spianargli un po' le costole?»
«Che ci si provi» s'inalberò Shonny. Un'ondata di rossore dilagò repentina ad accendergli il volto. «Nessuno mi spiana le costole. Avrei proprio in animo d'invitarvi tutti ad andarvene.»
«Non può farlo» replicò il capitano Loosley. «Siamo qui per adempiere il nostro dovere, mi spiego. Vogliamo la signora Foxe e il suo illegale rampollo.»
«Illegale rampollo, illegale rampollo» lo scimmiottò Llewelyn in solluchero ripetendo a pappagallo quell'espressione dalle sonorità fascinose. «Illegale rampollo.»
«Supponiamo ch'io vi dica che la signora Foxe non si trova qui» tentò Shonny. «Ci ha fatto visita poco prima di Natale e poi ha proseguito. Per dove non so.» «Che roba è natale?» domandò il sergente Image.
«Non ha importanza» tagliò corto il capitano Loosley. «Se la signora Foxe non è qui, immagino che lei non avrà nulla in contrario se provvederemo ad accertarcene personalmente. Dispongo» frugò nella tasca laterale della giubba «d'un particolare mandato onnicomprensivo. Che autorizza perquisizioni, mi spiego, e iniziative d'ogni altra natura.»
«Compreso il ricorso alla violenza» disse Mavis.
«Esatto.»
«Fuori di qui!» sbottò Shonny. «Tutti e tre. Non consentirò a mercenari venduti allo Stato di rovistare in casa mia.»
«Anche lei è un mercenario venduto allo Stato» eccepì senza scomporsi il capitano Loosley. «Siamo tutti servitori dello Stato. Su, la prego, sia ragionevole, mi spiego.
Non ci costringa a usare le maniere forti.» Accennò un sorriso. «In fin dei conti dobbiamo far tutti il nostro dovere.»
«Mi spiego» aggiunse Dymphna con una risatina.
«Vieni qui, ragazzina» la invitò il sergente Image in tono suadente. «Ma che bella marmocchietta che sei.» Si accovacciò molleggiando sulle natiche e le fece miciomicio schioccando le dita.
«Non vi muovete!» ingiunse Mavis traendo a sé tutt'e due i figlioli.
«Aaah!» Il sergente Image ringhiò un attimo a Mavis e poi, rialzandosi, assunse un'espressione di dolcezza melensa. «In casa c'è un bimbette piccolino, giusto?» domandò carezzevole a Dymphna. «Un tenero frugoletto piccino piccino, è vero che indovino?» Dymphna ridacchiò; Llewelyn, invece, gli oppose un «No» risoluto.
«Così stanno le cose» approfittò Shonny. «Il ragazzo ha detto nient'altro che la verità. Volete andarvene, adesso, e smettere di sprecare il vostro tempo e il mio? Ho mille cose da fare.»
«Non è mia intenzione» sospirò il capitano Loosley «denunciare lei né sua moglie. Consegnateci la signora Foxe e il suo rampollo e non avrete più nulla da spartire con questa vicenda. Vi do la mia parola.»
«Devo proprio sbattervi fuori?» gridò Shonny. «Perché, Cristo Signore m'è testimone, ho una gran voglia di darvi a tutti il fatto vostro.»
«Ammollagli una strigliatina, Oxenford» esortò il sergente Image. «Basta con queste scempiaggini.»
«Non ci resta che dare inizio alla perquisizione» concluse il capitano Loosley. «Mi duole dover constatare una sì pertinace mancanza di collaborazione, mi spiego.»
«Mavis, va' di sopra coi ragazzi» disse Shonny. «Qui me la sbrigo da me.» Fece l'atto di spingerla fuori.
«I ragazzi rimangono, invece» disse il sergente Image. «Li faremo strillare un pochino. Quanto mi piace sentir strillare i ragazzi...»
«Scellerato bastardo senza Dio!» eruppe Shonny. Si scagliò contro il sergente Image, ma il giovane Oxenford fu lesto a interporsi. Il giovane Oxenford affibbiò a Shonny un cazzottino edulcorato nell'inguine. Shonny urlò di dolore, poi prese a flagellar l'aria con reazione scomposta.
«Basta così» disse una voce dalla porta di cucina. «Non voglio esser causa di ulteriore scompiglio.» Shonny lasciò ricadere i pugni.
«Questa sì che è la signora Foxe!» esclamò il capitano Loosley. «L'unica vera autentica signora Foxe.» Pur trionfante, seppe contenere la sua gioia.
Beatrice-Joanna era vestita per uscire. «Cosa farete ai miei bambini?» domandò.
«Non avresti dovuto farlo» uggiolò Shonny. «Dovevi restare dov'eri, che tutto si aggiustava, Dio ti perdoni.»
«Le do piena e incondizionata assicurazione» affermò il capitano Loosley «che nessun male verrà recato a lei né ai suoi bambini.» Trasalì di colpo. «Bambini? Bambini? Oh, capisco. Più d'uno. Non avevo considerato la possibilità. Tanto meglio, naturalmente, tanto meglio, mi spiego.»
«M'infligga pure il castigo che riterrà più adeguato» dichiarò Beatrice-Joanna «ma i miei figli non si sono macchiati di alcuna colpa.»
«Certo che no» convenne il capitano Loosley. «Perfettamente innocenti. È solo il padre che ci proponiamo di colpire. Intendo unicamente porre il Commissario Metropolitano di fronte ai frutti del suo crimine. Nulla di più, mi spiego.»
«Che storia è questa?» strepitò Shonny. «Si può sapere che sta succedendo?»
«E una lunga storia» sospirò Beatrice-Joanna. «E non c'è tempo di raccontarla adesso. Be',» disse poi rivolta a sua sorella «evidentemente ci ha pensato il futuro a prendere in mano la situazione. A quanto pare ho trovato un posto dove andare.»
Parte Quarta
1
Tristram era pronto a intraprendere la sua anabasi. Simile all'ago di una bussola anelava al nord, verso sua moglie: la prospettiva di un pentimento e di una riconciliazione lo allettava come il miraggio d'un balsamo celestiale da spalmarsi per lenire i tormenti d'una ferita aperta. Bramava d'essere consolato, agognava le sue braccia, il suo corpo caldo, le loro lacrime mescolate, desiderava trovar requie accanto a lei. Non più frenesia di vendetta smaniava al centro dei suoi pensieri.
La metropoli era nel caos, e quel caos gli parve dapprima rispecchiare la sua nuova libertà. Il caos schiamazzava come una gran baccante sghignazzante, e fu proprio il caos a suggerirgli, non lontano da Pentonville, di manganellare un uomo inerme per spossessarlo degli indumenti. Avvenne in un vicolo, dopo il calar delle tenebre, nelle retrovie di falò gastronomici collettivi e vampe crepitanti di grasso umano. La corrente elettrica, al pari d'altri servizi pubblici, sembrava venuta meno. Regnava la notte, la giungla imperava, un sottobosco di vetri infranti scricchiolava sotto i piedi. Tristram trovava sorprendente che nel carcere donde era fuggito potessero mantenersi ordine e civile convivenza. Quanto ancora sarebbero durati? Mentre indugiava in tale considerazione scorse un uomo evidentemente ubriaco che canticchiava fra sé addossato all'imbocco del vicolo. Tristram sollevò il randello: quasi non aspettasse altro il malcapitato stramazzò all'istante con encomiabile condiscendenza, e i suoi abiti - camicia a collo tondo, cardigan, completo a quadri - cambiarono proprietario in men che non si dica. Trasformatosi dunque in libero cittadino, Tristram ritenne tuttavia opportuno non separarsi dal secondinesco manganello. Vestito per la cena, salpò in cerca di cibo.
Rumori da giungla, selva di neri grattacieli, cielo stellato vertiginosamente alto, rosseggiar di fuochi. In Claremont Square s'imbatté in gente che pasteggiava. Una trentina fra uomini e donne sedevano attorno a una gran graticola. Metalliche gratelle di cavo telegrafico approssimativamente reticolato poggiavano su colonnette di mattoni sovrapposti; sotto avvampavano tizzoni ardenti. Un uomo dal berretto bianco inforcava e rigirava bistecche sfrigolanti. «Non c'è posto, siamo al completo» avvisò con voce flautata una personcina pedante mentre Tristram si approssimava timidamente. «Questo è un circolo gastronomico privato, non un ristorante pubblico.»
«Anch'io» replicò Tristram brandendo il randello «potrei farvi assaggiare qualcosa.» Tutti risero all'arguta, gracile minaccia. «Sono appena uscito di prigione» gemette Tristram piagnucolosamente. «M'han fatto quasi morire di fame.»
«Allora fatti sotto» concesse la personcina pedante. «Anche se il nostro cibo potrà inizialmente risultare oltremisura sostanzioso per il tuo stomaco. Di questi tempi» sentenziò epigrammatico «conforme alla morale è solo il criminale.» Sportosi verso la griglia più vicina raccolse con un paio di molle uno schidione metallico infuocato lungo cui si schieravano trafitti tanti turgidi tocchi di carne. «Un kebab» disse. Poi, scrutando l'ospite al chiaror delle fiamme, «Non hai denti» constatò. «Bisognerà che ti trovi un po' di denti in qualchedove. Aspetta. Disponiamo anche di un ottimo brodo nutriente.» E tutto premuroso si diede dattorno per procurarsi una ciotola e un cucchiaio. «Prova questo» propose, attingendo col mestolo a una pentola metallica. «E benvenuto di cuore.» Tristram, come un animale, filò tremebondo a rincantucciarsi col suo dono in un angolo appartato. Sorbì una cucchiaiata fumante. Sostanzioso, davvero sostanzioso quel liquido oleoso in cui galleggiavano ammantati di vapore teneri bocconcini d'una sostanza gommosa. Carne. La conosceva dalle sue letture. La letteratura antica traboccava di strippate di carne: Omero, Dickens, Priestley, Rabelais, AJ. Cronin... Inghiottita la cucchiaiata fu preso dai conati e rigettò. «Piano, piano» consigliò l'ometto pedante avvicinandoglisi benevolmente. «Non passerà molto e la troverai deliziosa. Considerala non per quel che è ma come uno dei frutti polposi dell'albero della vita. Unica è la vita. Perché ti avevano chiuso in prigione?»
«Immagino» rispose Tristram interrotto dai conati «perché» si riprese «ero contro il Governo.»
«Quale governo? Al momento non sembra esserci alcun governo.»
«Quindi» dedusse Tristram «la Gosfase non è ancora iniziata.»
«Dai l'idea di una persona istruita. In carcere avrai certo avuto modo di riflettere. Dimmi, che ne pensi della situazione attuale?»
«Per formulare analisi occorrono dati» rispose Tristram. Riprovò a bere il brodo; stavolta andò giù molto meglio. «Questa è la carne, dunque.»
«L'uomo è un carnivoro, ed è provvisto di uno spiccato istinto riproduttivo. Caratteristiche affini, ed entrambe lungamente represse. Mettile assieme, e non vedrai più alcun motivo razionale per reprimerle. Quanto all'informazione, ne siamo privi essendo cessate le attività preposte. Possiamo comunque supporre che il Governo Starling sia caduto e che l'Ufficio di Presidenza sia pieno di cani ringhiosi. Non v'è dubbio che avremo presto un nuovo Governo. Nel frattempo ci raggruppiamo per autodifesa in piccoli circoli culinari. Essendo tu appena uscito di prigione e quindi inesperto di questo nuovo mondo, consentimi di metterti in guardia dall'andare in giro da solo. Se lo desideri, posso patrocinare il tuo ingresso nel nostro circolo.»
«Molto gentile da parte tua» rispose Tristram «ma debbo rintracciare mia moglie. Si trova nella Provincia Settentrionale, nei pressi di Preston.»
«Incontrerai certo qualche difficoltà» rilevò l'altro sollecito. «I treni ovviamente han cessato le corse, e il trasporto su strada langue. È una gran bella camminata. Non partire privo di vettovaglie. Gira armato. Non dormire all'aperto. Mi preoccupa» sottolineò nuovamente scrutando le guance incavate di Tristram, «che tu non abbia denti.»
Tratte di tasca le due metà della dentiera, già al secondo cambio di abito, Tristram le rigirò mestamente fra le mani. «Un carceriere brutale» accusò senza scendere in dettagli.
«Credo» fece il meticoloso ometto «che fra i nostri membri vi sia un odontotecnico.» Tornò dal gruppo e Tristram diede fondo al suo brodo. Rinfrancante, senza dubbio. D'improvviso gli ribollì in mente il ricordo di un antico poemetto pelagiano, o più esattamente di una delle note vergate dall'autore. La Regina Mab. Shelley. «L'anatomia comparata c'insegna che l'uomo assomiglia in tutto agli animali frugivori e in nulla ai carnivori; non possiede artigli per ghermire la preda, né acuminate specifiche zanne destinate a lacerar le fibre vive.» E ancora: «L'uomo non assomiglia ad alcun animale carnivoro. Non esiste eccezione, a meno che non si voglia vederla nell'uomo, alla regola che gli animali erbivori possiedono un colon idoneo a gestire le scorie di cellulosa.» Forse, in fin dei conti, si trattava solo di emerite baggianate.
«I tuoi denti possono essere riparati» annunciò di ritorno l'affabilmente scrupoloso ometto «e possiamo prepararti una bisaccia piena di carne fredda per il viaggio. Fossi in te non mi azzarderei a partire prima di giorno. Se vorrai trascorrere la notte da me sarai il benvenuto.»
«Sei davvero di una gentilezza squisita» disse Tristram sinceramente grato. «Ritengo francamente di non aver mai incontrato prima d'ora altrettanta disponibilità.» Gli occhi presero a colmarglisi di lacrime; era stata una giornata massacrante.
«Nulla di più naturale. Quando lo Stato inaridisce, l'umanità fiorisce. Gente perbene di questi tempi non è affatto raro trovarne. Ciò nonostante, tienti stretta la tua arma.»
Tristram quella notte si coricò coi denti a posto. Sdraiato per terra nell'appartamento dell'ometto pignolo, non si stancava di masticare il buio come azzannasse carne incorporea. Il suo ospite, che aveva detto di chiamarsi Sinclair, si era premurato di guidarlo sin lì rischiarando il cammino con un lucignolo galleggiante nel grasso ed esalante un profumo delizioso. Giunti sul luogo, quell'illuminazione alla buona aveva mostrato una stanzetta in disordine zeppa di libri. Sinclair, tuttavia, aveva smentito ogni ambizione a essere ciò che definiva un 'accanito lettore'; prima che venisse a mancare l'energia elettrica era stato un compositronico, specializzato in musica d'atmosfera per documentari televisivi. Inoltre, prima che cessasse l'erogazione e gli ascensori divenissero inutilizzabili, il suo appartamento si trovava un'abbondante trentina di piani più su dell'attuale; di questi tempi, evidentemente, il debole assurgeva e il forte diroccava. Questo suo nuovo appartamento era appartenuto a un vero lettore accanito, un professore di cinese le cui carni si erano rivelate, a dispetto dell'età avanzata, abbastanza gustose. Sinclair dormiva con innocente abbandono su un letto ribaltabile, russando delicatamente, di tanto in tanto parlando nel sonno. Le sue esternazioni erano in gran parte sentenziose, soltanto alcune sconfinavano apertamente nell'assurdo. Tristram non poté fare a meno di ascoltare.
«Tanto va la capra al cardo che ci lascia lo zigrino.» «Mi piaccion le patate. Mi piace la carne suina. Anche l'uomo mi piace.»
«La nostra risposta è l'ingestione eucaristica.» Quell'espressione oscura - ingestione eucaristica - divenne una sorta di lasciapassare per il sonno. Come se in effetti si trattasse d'una risposta, soddisfatto e rasserenato Tristram s'abbandonò all'oblio. Sprofondato fuori del tempo, riemergendovi scorse Sinclair che si vestiva canticchiando e facendogli benevolmente, occhiolino. Sembrava proprio un radioso mattino di primavera. «Bene» disse Sinclair. «Dobbiamo avviarti per la tua strada, sei d'accordo? Prima, però, è indispensabile una buona colazione.» Sinclair si diede una svelta lavata (il civico acquedotto mostrava di funzionare ancora egregiamente), quindi provvide a radersi tramite un antiquato rasoio a mano libera familiarmente detto tagliagola. «Un nome azzeccato» commentò sorridendo, dopo averlo pronunziato, nel porgere l'arnese a Tristram. «Di gole ne ha tagliate mica poche.» Tristram non vide motivo per non credergli.
Era lecito supporre che ai falò delle graticole non venisse mai consentito di spegnersi. Templare, pensò Tristram, olimpico, balenando un timido sorriso ai membri del circolo gastronomico, quattro dei quali avevan sorvegliato e alimentato la combustione nottetempo. «Pancetta?» propose Sinclair, provvedendo poi Tristram d un tintinnante piatto di stagno ben colmo. Mangiarono tutti di buon appetito scambiando bizzeffe d'allegre facezie, e bevvero acqua a garganella. Poi quelle brave persone stiparon di tranci d'arrosto freddo una borsa da postino, e con innumerevoli espressioni di benevolenza affardellarono l'ospite e lo instradarono nella giusta direzione.
«Mai» dichiarò Tristram «ebbi a incontrare tanta generosità.» «Vai con Dio» gli augurò Sinclair satollo e incline all'enfasi. «Possa tu trovarla sana e salva. Possa tu trovarla felice.» Quindi aggrondandosi rettificò: «Felice cioè di rivederti, beninteso.»
2
Tristram camminò senza soste fino a Finchley. Sapeva che non avrebbe avuto senso prendere la statale prima d'avere abbondantemente superato, diciamo, Nuneaton. Fu un'impegnativa scarpinata lungo un'arteria cittadina fra isolati di grattacieli residenziali e fabbriche dalle finestre in frantumi. Oltrepassò vivaci o sonnolenti circoli culinari, cadaveri, ossa, ma nessuno osò mai molestarlo. La sconfinata città olezzava di carne arrosto e fogne intasate. Rimase un paio di volte imbarazzato nell'imbattersi in gente che si accoppiava sfacciatamente all'aperto. Mi piaccion le patate. Mi piace la carne suina. Anche la donna mi piace. No, non era esattamente così. Qualcosa del genere, comunque. Non vide neanche un poliziotto; sembrava che la collettività li avesse assorbiti o digeriti tutti. A un angolo di strada nei pressi di Tufnell Park si celebrava messa davanti a un'esigua ma piuttosto devota adunanza. Tristram aveva appreso vita morte e miracoli della messa dal Beato Ambrose Bayley, ragion per cui rimase sorpreso nel vedere l'officiante - un brizzolato damerino dai lineamenti fanciulleschi indossante una cotta rozzamente decorata con la croce e la sigla IHS - somministrare quelle che avevan tutta l'aria di particole carnee. «Hoc est enim Corpus. Hic est enim calix sanguinis.» Poteva darsi che un nuovo Concilio tenutosi chissà dove avesse autorizzato, stante la penuria degl'ingredienti tradizionali, quel genere di ripiego.
Era una radiosa giornata di primavera.
Subito dopo Finchley Tristram sedette a riposare nel vano d'ingresso di un negozio d'una placida via secondaria e trasse del cibo dalla bisaccia. Gli facevano male i piedi. Mangiò lentamente e con cautela, dato che il suo stomaco - come evidenziato da un fastidioso disturbo digestivo dopo colazione - aveva ancora molto da imparare, e finito di mangiare andò in cerca d'acqua. La sete, gli sussurrava la Regina Mab, una gran sete, era inevitabile conseguenza di una dieta a base di carne. In un alloggio nel retro del negozio saccheggiato Tristram trovò un rubinetto funzionante, e posizionataci la bocca sotto bevve tanto a lungo che sembrava non volesse più smettere. L'acqua aveva un sapore lievemente sgradevole, pareva leggermente contaminata; non poté fare a meno di pensare che quello, in futuro, si sarebbe probabilmente rivelato un grave problema. Si fermò ancora un poco a riposare seduto sull'ingresso, manganello in pugno, osservando i passanti. Si mantenevano tutti nel mezzo della via, un'interessante caratteristica dello stadio avanzato dell'Interfase. Già che c'era passò pigramente in rassegna i pensieri che riteneva di dover coltivare, i sentimenti che immaginava di dover nutrire. Il fatto dì provare adesso così poca voglia di spaccare la faccia a suo fratello lo sorprese. Forse era stata solo una turpe menzogna di quell'ambizioso e amareggiato capitano. Le prove ci volevano, prove circostanziate e incontrovertibili. La carne gli rugghiava in pancia; ruttò un'espressione che suonò simile a 'brama procreatrice'.
Chissà se il bambino, ammesso che vi fosse un bambino, era già nato? Aveva perso in certo qual modo la cognizione del tempo. Aveva però la sensazione che in tutto quel caos Beatrice-Joanna sarebbe stata più al sicuro di prima. Doveva ancora trovarsi lassù al Nord (se quell'uomo aveva detto la verità); anche perché non aveva nessun altro posto dove andare. Quanto a lui, stava facendo, ne era certo, l'unica cosa possibile. Anche lui non poteva andare da nessun'altra parte. Quanto lo detestava, comunque, suo cognato: sempre pronto a riempirsi la bocca di bigotte spavalderie, a erompere in devote esclamazioni più adatte a una squadra di tiro alla fune. Ma stavolta gli avrebbe replicato per le rime ricacciandogli in gola il suo Dio; non era più disposto a farsi intimorire da chicchessia.
Seguendo il marciapiede raggiunse Barnet verso metà pomeriggio. Mentre titubava indeciso fra due strade dirette rispettivamente a Hatfield e St. Albans, fu sorpreso di veder lentamente avanzare uno scoppiettante motofurgone, come lui diretto a Nord. Era verniciato in una specie di color terra, e il fantasma della sua origine - Ministero della Infecondità - trapelava timidamente di sotto l'unica mano di pittura. Tristram, esitante fra strade, esitò prima di chiedere un passaggio. Un nervo nel dolorante piede sinistro decise per lui, e scavalcando il cervello inviò fulmineo al pollice il suo messaggio di riflesso.
«Mi fermo ad Aylesbury» disse il conducente. «Forse là potrai trovare un altro mezzo. Ammesso che arriviamo ad Aylesbury, cioè.» Il veicolo manifestò rabbrividendo il proprio consenso. «Ti sei imbarcato in una gitarella mica da poco» soggiunse l'autista scoccando a Tristram un'occhiata incuriosita. «Non è che si viaggi molto di questi tempi.» Tristram fornì qualche delucidazione. Il guidatore era un tipo smilzo paludato con una strana divisa: giubba da grigiazzo e pantaloni da civile tinti del medesimo color terra del furgone, sulle ginocchia una coppola terrigna, nastri bianchi annodati attorno alle spalline. Quando Tristram parlò della fuga dal carcere, l'uomo sbuffò una risatina. «Se aspettavi fino a stamattina» disse «ti accompagnavano fuori con un inchino. A quanto pare non avevano più da sfamarli, quindi hanno spalancato i cancelli e tanti saluti. Così per lo meno mi hanno detto a Ealing.»
Anche Tristram scoppiò in una breve risata. Tutto l'impegno di Charlie Linklater per nulla. «Capirai che isolato per mesi dal mondo esterno ho perso i contatti con la realtà. Non sono al corrente della situazione.»
«Oh» fece l'uomo. «Be', non è che possa dirti granché. Pare che al momento siamo senza governo centrale, ma si sta cercando d'improvvisare un qualche genere di legge e di ordine a livello regionale. Una specie di legge marziale, diciamo. Guardami. Faccio parte anch'io delle nuove forze armate. Sono un soldato.» Emise un'altra risata sbuffante.
«Eserciti» disse Tristram. «Reggimenti. Battaglioni. Plotoni.» Roba che gli era nota dalle sue letture.
«Non Se ne può più di quest'andazzo» commentò l'uomo. «Cannibalismo indiscriminato e fognature allo sbando. Dobbiamo pensare a mogli e figli. Ad Aylesbury abbiamo cominciato a riorganizzarci. C'è persino gente che si è rimessa un poco a lavorare.»
«Cosa mangiate?» domandò Tristram.
Il soldato proruppe in una risata fragorosa. «La denominazione ufficiale è carne di maiale in scatola» disse. E tornando serio: «Qualcosa bisogna pur mangiare. Il risparmio è il miglior guadagno. In nome della legge e dell'ordine s'è dovuto fare un bel po' di tirassegno, rendo l'idea? Carne e acqua. Un po' troppo dieta da tigri, forse, ma inscatolando si sembra più civili. E poi devi sapere che speriamo, si, speriamo davvero che le cose ricomincino a crescere. E, forse non ci crederai, lo scorso fine settimana sono riuscito persino a pescare qualcosa.»
«Bella preda?»
«Un cavedano» rispose il soldato. Rise di nuovo. «Un piccolo misero cavedano.»
«Posso chiederti» disse Tristram «qual era lo scopo del tuo viaggio?»
«Di questo viaggio? Be', ci era giunta notizia di un deposito d'armi della polizia lungo la strada fra Ealing e Finchley. Ma qualche delinquente ci ha battuti sul tempo. Una di quelle bande. M'hanno accoppato il caporale. Non era un gran caporale, però non dovevano ammazzarmelo. A quest'ora se lo staranno mangiando, maledetti cannibali.» Non sembrava particolarmente sconvolto.
«A quanto pare» osservò Tristram «siamo tutti cannibali.»
«Certo, ma porca miseria, noi ad Aylesbury per lo meno siamo cannibali civili. È tutta un'altra cosa se la tiri fuori da una scatoletta.»
3
A ovest di Hinckley Tristram vide i primi campi arati. Nel complesso gli era andata bene: una notte in caserma nella civile Aylesbury; una camminata col tempo sempre al bello lungo la strada per Bicester, con passaggio su un autocarro militare cinque miglia dopo Aylesbury e fino a Blackthorn; pranzo in una Bicester in armi ma bendisposta al punto da concedergli una rasatura e un taglio di capelli; a piedi lungo la linea ferrata per Ardley, e lì giunto una sorpresa... un'antica vaporiera alimentata a legna che copriva la tratta fino a Banbury. Tristram possedeva solo í pochi sept e tanner e tosheroon trovati in tasca all'uomo manganellato, ma i dilettanti che facevan da equipaggio al convoglio di tre carrozze erano archeologi poco al corrente delle tariffe. Tristram trascorse la notte in uno scantinato pieno di ragnatele sulla strada per Warwick, località che, grazie a un passaggio su un autocarro tintinnante di armi leggere, raggiunse il giorno successivo molto in anticipo sull'ora di pranzo. A Warwick, immusonita sotto la cappa della legge marziale, gli fu detto di stare alla larga da Kenilworth, essendo tale città governata a quanto sembrava da una specie di fanatici della Quinta Monarchia che propugnavano una dottrina di rigorosa esofagia; mentre Coventry, gli fu garantito, era abbastanza sicura per gli stranieri. Tristram scarpinò quindi lungo la strada secondaria che traversava Leamington, percorso agevolato da un passaggio sul sellino posteriore della motocicletta di un gaio portaordini. Coventry aveva quasi l'aspetto di una città normale a parte una cert'aria da guarnigione: mense pubbliche, elenchi di presenza fuori delle fabbriche, coprifuoco nelle ore notturne. Alle porte della città furono avidamente chieste a Tristram notizie che ovviamente non aveva. Ricevé tuttavia un'accoglienza benevola e gli fu concessa facoltà di disporre liberamente della mensa dei sottufficiali del genio. Quando all'alba se ne andò gli stiparono in tasca un paio di scatolette di carne, e per la prima volta da tanti anni gli venne davvero voglia di cantare mentre camminava, favorito da quel tempo prodigioso, alla volta di Nuneaton. Era ormai prossimo al confine settentrionale della Grande Londra; s'immaginò d'inalare aria di campagna. A Bedworth ottenne un passaggio su un'auto dello stato maggiore (un colonnello falstaffiano col suo attendente, paonazzo in volto per via dell'alc) che lo scarrozzò oltre Nuneaton fin sulla strada per Shrewsbury. Lì finalmente era campagna sul serio: piatte distese di campi arati, panorama quasi sgombro di edifici, il cielo non più sfidato da grandiosi arroganti monoliti. Si sdraiò dietro un cancello e schiacciò un pisolino fra l'odore della terra. Sian rese grazie a Dio Onnipotente. Quando si svegliò credette di sognare. Gli parve di udire il suono sospiroso di un flauto e un coro intonato da voci ancor più sospirose. Il testo della canzone sembrò definirsi in una dichiarazione tanto esplicita e definitiva da ricordargli la sensazione provata nell'udire la frase 'ingestione eucaristica'. Le parole erano un qualcosa tipo «Le mele son mature, le noci son marroni, alziamo le sottane, caliamo i pantaloni», e il semplice motivetto si ripeteva all'infinito ricominciando instancabilmente daccapo. E vide, vide, vide uomini e donne dentro i solchi - un paio qua un paio là - comporre con cerimoniale scrupolosità un copioso gregge di bestie a due schiene. Sottane alzate e pantaloni calati nel sole di primavera, nei solchi seminati, mele mature e noci marroni, agresti accoppiamenti. Sei uomini, cinque uomini, quattro uomini, tre uomini, due uomini, un uomo col suo... con il loro... Perché la canzone diceva 'cane'? Intenti a seminare, non a falciare, un prato . Ma a tempo debito avrebbero mietuto, avrebbero mietuto di sicuro. Unica è la vita. Quel flagello era stato il rifiuto dell'uomo a procreare.
4
«Allora, volete muovervi» sollecitò il capo impaziente. Aveva l'aspetto di un organizzatore di danze campestri, nerboruto e sbuffante, vermiglio di naso e bluastro di guance. «Ascoltatemi tutti, per favore» cantilenò con voce lamentosa. «Sono state estratte le seguenti coppie.» Lesse dall'elenco che aveva in mano. «Il signor Lipset con la signorina Kemeny. Il signor Minrath con la signora Graham. Il signor Evans con la signora Evans. Il signor Hilliard con la signorina Ethel Duffus.» Continuò a leggere. Tristram, ammiccando nel sole caldo, sedeva fuori della locanda ad Atherstone, benevolmente osservando il formarsi degli appaiamenti. «Il signor Finlay con la signorina Rachel Duffus. Il signor Mayo con la signorina Lowrie.» Proprio come per una danza campestre i convocati si schierarono fino a fronteggiarsi coppia a coppia, ridacchiando, arrossendo, impudenti, vergognosi, ardimentosi, pronti. «Benissimo» approvò il capo in tono stanco. «Orsù, nei campi.» Obbedirono, sgattaiolando mano nella mano. Il capo vide Tristram, e scuotendo la testa con aria rassegnata gli si avvicinò sedendogli accanto sulla panca. «Strani tempi son questi che viviamo» disse. «È solo di passaggio?»
«Sono diretto a Preston» rispose Tristram. «Potrei chiederle, se mi è consentito, il motivo dì codesta messinscena?»
«Oh, la solita storia» rispose il capo. «Avidità, egoismo. Gente che si accaparra tutto il meglio. Quell'Hilliard, per esempio. E la povera Belinda Lowrie lasciata sempre in disparte. Mi chiedo però se in effetti serva a qualcosa» rimuginò con aria cupa. «Mi chiedo se davvero sia qualcosa più dì pura e semplice autogratificazione.»
«È un'affermazione» disse Tristram. «Un modo di manifestare che la ragione non è l'unico strumento per gestire le nostre esistenze. Un ritorno alla magia, ecco cos'è. A me sembra assai salutare.»
«Ci vedo dei rischi» obiettò il capo. «Gelosie, litigi, prepotenze, matrimoni infranti.» Era evidentemente deciso a considerare solo i lati negativi.
«Le cose finiranno per aggiustarsi da sé» lo tranquillizzò Tristram. «Vedrà. Un breve riepilogo d'intere epoche di libero amore, poi torneranno a trionfare i valori cristiani. Non c'è proprio nulla da preoccuparsi.»
Il capo scrutò accigliato il sole, le nubi dolcemente e solennemente sospinte nelle azzurre distese. «Immagino che lei sia un uomo normale» disse infine. «Immagino che sia uno alla maniera di quell'Hilliard. Un vero saccente fatto e rifinito, quel tipo. Lo diceva sempre che le cose non potevano continuare così in eterno. Hanno riso di me quand'ho fatto ciò che ho fatto. E Hilliard ha riso più forte di tutti. Lo ammazzerei, quell'Hilliard» concluse stringendo i pugni col pollice introflesso.
«Ammazzare?» obiettò Tristram. «Ammazzare in questi tempi d'amore?»
«È successo quando lavoravo all'Ufficio Alloggi di Lichfield» borbottò il capo. «C'era un posto vacante e sarei dovuto salir di grado. Ero il più anziano, mi spettava.» Se non proprio all'amore, la temperie si prestava indubbiamente alle confidenze più intime e schiette. «Il direttore, il signor Consett, mi chiama e mi dice che lì si tratta di un ballottaggio fra me e un certo Maugham. Questo Maugham era molto più giovane di me, però era omo. Be', ci ho pensato e ripensato un bel pezzo. Io quella propensione non l'avevo mai avuta, ma qualcosa che potevo fare c'era, ovviamente. Sì, ci ho pensato e ripensato davvero un bel pezzo prima di fare il gran passo, perché dopotutto era una decisione mica da prendersi alla leggera. Comunque, dopo averci pensato e ripensato girandomi e rigirandomi nel letto come un ossesso con quell'assillo che mi rodeva, mi son detto bando agli indugi e sono andato a trovare il dottor Manchip. Un lavoretto da nulla, mi garantì il dottor Manchip, assolutamente esente da rischi, e me lo fece. Non essendo indispensabile l'anestesia generale, ho potuto anche assistere all'operazione.»
«Capisco» disse Tristram. «In effetti la sua voce mi aveva dato da pensare...»
«Proprio così. E mi guardi ora.» Spalancò le braccia. «Ciò ch'è fatto non si può disfare. Come mi c'inserisco in questo nuovo mondo? Dovevano avvertirmi, qualcuno doveva dirmelo. Come facevo a sapere che quel mondo lì mica era destinato a durare per sempre?» Abbassò la voce. «Lo sa ultimamente quell'Hilliard come mi ha chiamato? Mi ha chiamato cappone. E fa pure schioccare le labbra, per scherzo, s'intende, però non è che sia molto di buon gusto.» «Capisco» disse Tristram.
«E a me una cosa così non mi fa punto piacere. Ma proprio nessuno nessuno.»
«Tenga duro e aspetti» consigliò Tristram. «La Storia è una ruota. Neppure questo mondo qui durerà per sempre. Prima o poi siamo destinati a tornare al liberalismo e al pelagianesimo e all'inversione sessuale e... be', a quel che ha fatto lei. Ci toccherà per forza, perché il mondo è quel che è.» Agitò una mano in direzione dei campi arati, donde provenivano smorzati suoni d'intensa concentrazione. «A motivo» delucidò «della finalità biologica di tutto ciò.»
«Nel frattempo, però,» obiettò il capo con aria mesta «mi tocca combattere con gente come Hilliard.» Rabbrividì. «Darmi del cappone, non so se mi spiego.»
5
Essendo ancor giovane e d'aspetto non sgradevole, Tristram fu benevolmente accolto dalle signore di Shenstone. Ma compitamente domandò licenza di congedarsi, adducendo di dover raggiungere Lichfield prima dell'imbrunire. Lo spedirono via a suon di baci.
Lichfield gli esplose addosso come una bomba. Vi era in pieno svolgimento una specie di carnevale (malgrado non si trattasse di un addio alla carne, tutt'altro) e gli occhi di Tristram furon frastornati da una fiaccolata e da stendardi e vessilli ondeggianti alti al vento: Fertilega di Lichfield e Erogruppo del Sud Staffordshire. Tristram si mescolò alla folla sul marciapiede per guardar passare la sfilata. Marciava in testa una banda di strumenti pre-elettronici che rimbombando e stridendo eseguivano qualcosa di molto simile all'esile arietta per flauto udita nei campi fuori Hinckley, solo che adesso il motivo, pompato dagli ottoni, eruttava nerboruto, sanguigno, baldanzoso. La folla acclamava. Venivano quindi due pagliacci sganassanti e capitombolanti alla testa di uno spassoso drappello in stivali, lunghe casacche, ma senza pantaloni. Una donna dietro Tristram strillò: «Iiiih, ecco il nostro Arthur, Ethel!» Le giubbe e i berretti di quell'ammiccante, gesticolante, urlante, barcollante manipolo di guitti a gambe ignude erano stati evidentemente sottratti agli agenti della Poldemo (che fine avevano fatto, sì, che fine?), e un cartone inalberato alto su un bastone proclamava in accurato stampatello POLLUZIA DEMOGRAFICA. Si tartassavano di colpi con finti manganelli di tela imbottita o li dimenavano in aria a ritmi itifallici. «Ethel, che vuol di' quella parola?» berciò la donna dietro Tristram. «Roba da 'nfrena' la lingua.» Un ometto col cappello glielo spiegò con inconfondibile termine alla Lawrence. «Iiiih!» strillò lei.
Seguivano poi trotterellando ragazzini e ragazzine in verde, soavi e leggiadri, alle cui dita ormeggiati si libravano palloncini multicolori. «Ohhh...» esalò accanto a Tristram una ragazza dalle labbra cascanti e dai capelli lisci e flosci. «Ma che beli pischèli...» I palloncini si spintonavano alti nell'aere illuminato dalle fiaccole, una languida eterea battaglia a colpi di cuscino. Appresso ai ragazzi ballonzolavano e caracollavano ancora buffoni, uomini bardati d'antiche gonne rigonfie ed enormi seni asimmetrici, altri in variopinte calzamaglie con panurgiche brachette. Danzando goffamente si esibivano in brevi convulse parodie dell'atto turabuchi. «Iiiih!» schiamazzò la donna dietro Tristram. «Me fanno morì' darride, me fanno.» Poi, in un silenzio colmo d'ammirazione seguito da autentiche ovazioni, ecco pesantemente avanzare un basso carro senza sponde addobbato di bianchi fiori di carta e sovrastato da un trono su cui signoreggiava una prosperosa donzella in azzurre vesti, coronata di fiori, con in mano uno scettro, attorniata da una costellazione di fulgide fate, sorridente e ostentante la propria condizione di nubildonna: era lei, come dubitarne, la regina della festa di Lichfield. «Incantevole perdavvero è» disse un'altra astante. «La figlia di Joe Treadwell.» Il carro era tirato, tramite scricchiolanti funi intrecciate di fiori, da giovanotti in camicie bianche e mollettiere rosse, belli e muscolosi. Seguivano compostamente il carro rappresentanti del clero recanti, ricamato in seta artificiale, il motto Dio è amore. Dietro di loro marciava formidabile l'esercito locale coi suoi stendardi: I Ragazzi del Generale Bonasuerte e Abbiamo Salvato Lichfield. La folla si sgolò in acclamazioni. Dulcis in fundo, graziosamente incedettero giovinette (neppur una sopra i quindici) ciascuna delle quali impugnava un nastro, e ciascun nastro si collegava al culmine di un palo alto e grosso, simbolo fallico che raddoppiò l'esultanza, sorretto fra le braccia di un'avvenente matrona in abito lungo, rosa in pieno rigoglio in quel giardino d'immacolate primule. La parata si diresse verso i sobborghi della cittadina e la strabocchevole turba le tenne impetuosamente dietro lungo la via accalcandosi e spintonandosi. Dall'invisibile testa del corteo l'esuberante melodia a tempo di sei ottavi (cespuglio di more, noci e biancospino, le mele son mature) continuava a tempestare fragorosa, aprendo la strada nell'incipiente notte di primavera. Intrappolato fra la folla, Tristram fu irresistibilmente trascinato, le mele son mature, attraverso la città, patria di un cigno , le noci son marroni, e di un lessicografo11 alziamo le sottane, considerato che in medio inglese Lich vuol dir cadavere, caliamo i pantaloni, che nome fuor di luogo - Lichfield - questa sera. Uomini e donne, giovanotti e ragazze, spingevano, si davano di gomito, ridevano, nella scia del corteo in coda al quale torreggiava ondeggiando il bianco fallo ligneo luccicante, punto focale di vezzosi nastri, vecchi curvi ma animosi, donne di mezz'età risolutamente vogliose, giovanetti gagliardi, fanciulle timide ma pronte, facce da luna piena, affilate come scuri, prognate come ferri da stiro, facce a fiore, a uovo, a mora, tutti i nasi del mondo (italiano altezzoso, orientale schiacciato, camuso, sbilenco, adunco, a patata, crestato, pendulo, spampanato), capelli color grano, capelli color ruggine, lisci da eschimese, crespi, ondulati, rarefatti, inesistenti, chieriche e chiazze sguarnite, accalorate gote color mela matura e guance color noce accese di vampe e d'entusiasmo, fruscio di gonnelle e calzoni sui solchi dei campi seminati.
La semivuota sacca portacibo di Tristram s'era perduta chissà dove; il manganello era scomparso. Libere aveva ormai le braccia per cingere e danzare. La banda s'era sistemata in un prato al limitare della città, e accucciatasi su delle panche vomitava raffiche di suoni tumultuosi, sprazzi di striduli barriti, metallici muggiti, rombanti miagolii. La pertica fallica era stata affondata in una buca già scavata nel centro del prato, e i nastri s'avviticchiavano, sferzandoli, agli uomini intenti a consolidarla rassodando il terreno alla base. Rotte disciplinatamente le righe, l'esercito locale prese ad ammonticchiare le armi. C'erano fiaccole, focherelli e un gran falò, c'eran graticole rubiconde e sfrigolanti. Salsicce di Lichfield, proclamava un cartello. Tristram si unì agli affamati divoratori di salsicce allo spiedo in distribuzione gratuita e masticò la carne salata, ah... 'ome 'ucia, con fauci fumiganti.
Ebbero inizio attorno al fallico pennone le danze di giovanotti e presunte vergini.
Ai margini del prato (eufemistica denominazione d'un brunastro mezzo acro semibrullo) gli anziani piroettavano e ballonzolavano vigorosamente. Una fervorosa trentenne dalle chiome corvine appropinquatasi a Tristram gli chiese: «Ti va di fare un giro, tesoro?» «Volentieri» rispose Tristram. «Mi sembri triste, malinconico e afflitto» lo apostrofò «come se ti struggessi per qualcuno. Sbaglio?» «Ancora un paio di giorni e con un pizzico di fortuna» confidò Tristram «sarò da lei. Nel frattempo...» Si avvoltolaron nella danza. La banda continuava a reiterare instancabilmente il brioso motivetto in sei ottavi. Ben presto Tristram e la sua compagna si avvoltolaron dentro i solchi. Erano in tanti ad avvoltolarsi dentro i solchi. Tiepida notte per quella stagione.
A mezzanotte, coi gaudenti ansanti e discinti a rilassarsi intorno ai fuochi, fu enfaticamente indetta la competizione per proclamare il re della festa. La regina sedeva in disparte sul suo carro, mentre lo scarmigliato e roseo seguito si rassettava ai suoi piedi le gonne fra mille risatine. Più bassi rispetto al carro, passandosi di mano rugosa in mano grinzosa una borraccia d'alc, assisi a una rozza tavola stavano i giudici, gli anziani della città. Una ristretta rosa di cinque contendenti si sarebbero affrontati in una prova di forza fisica e agilità. Desmond Seward piegò - digrignando i denti, sforzando i muscoli allo spasimo - un attizzatoio e percorse quaranta metri zampettando sulle mani. Jolly boy Adams inanellò innumerevoli salti mortali concludendo con lo scavalcamento del falò. Gerald Toynbee trattenne il fiato per cinque minuti e si produsse nella danza della rana. Jimmy Quair camminò supino a quattro zampe con un bambino (poi risultato suo fratello) in posa da Cupido sul suo (di Jimmy Quair) stomaco. Tale esibizione, particolarmente innovativa e di indubbio fascino estetico, riscosse notevole consenso. Ma la corona toccò a Melvin Johnson (cognome illustre), che in equilibrio sulla testa e piedi in aria recitò ad alta voce un'ottava di sua composizione. Era strano vedere quella bocca a rovescio e udirla pronunziar parole dritte e ben dirette:
Bella regina, s'io ti conquistassi,
Del cuor mio sul tuo cuor t'adorneresti. Ricche vivande ognor t'imbandiresti, Bella regina, s'io ti conquistassi.
La tua fiamma con la mia potrei attizzare,
Dorato galeon solcheresti il mio mare, Bella regina. S'io ti conquistassi,
Del cuor mio sul tuo cuor t'adorneresti.
Inutilmente i cavillosi brontolarono che le regole della gara non contemplavano la destrezza versificatoria, e in qual modo poi quel concorrente aveva mostrato forza e agilità? Ne avrebbe dato prova ben presto, preconizzò ridendo taluno. Un uragano di consensi accompagnò la decisione unanime del collegio arbitrale. Melvin Johnson venne incoronato con un turrito diadema di stagnola e sollevato, fra le acclamazioni, su spalle robuste a incontrar la sua regina. Dopo di che la regal coppia, mano nella mano, accompagnata dalle voci di giovinotti e fanciulle intonanti un antico canto nuziale le cui parole Tristram non riuscì a cogliere, si avviò maestosamente verso i campi per la consumazione del reciproco amore. La gente comune ne ripercorse le orme a rispettosa distanza.
Ed eccoli tutti là al chiar di luna, indaffarati a sementar di sopra in giù di sotto in su: Charlie Aaron con Gladys Woodward, Dan Abel con Monica Wilson, Howard Wilson con Clara Hoskyns-Abrahall, Freddie Adler con Diana-Gertrude Williams, Bill Agar con Mary Westcott, Harold Auld con Louisa Wertheimer, Jim Weeks con Pam Asimov, Ford Wolverton Avery con Lucy Vivian, Denis Brodrick con Dorothy Hodge, John Halberstram con Bessie Greenidge, Tristram Foxe con Ann Onymous, Ron Heinlein con Agnes Gelber, Sherman Feyler con Margaret Evans, George Fisher con Lily Ross, Alf Meldrum con Joanie Crump, Elvis Fenwick con Brenda Fenwick, John-James De Ropp con Asmara Jones, Tommy Eliot con Kitty Elphick... e innumerevoli altri. Col tramontar della luna e l'alzarsi del vento cercarono il tepore dei fuochi, dormendo sino ai primi albori in una rossa crepitante bruma di appagamento.
Tristram si destò all'alba col cinguettio degli uccelli; si stropicciò gli occhi al tranquillo distante profondo flautare d'un cuculo. Spuntò un sacerdote con l'altare da campo e un imbronciato sbadigliante chierichetto. «Introibo ad altare Dei.» «A Dio che fa lieta la mia giovinezza.» Fu la consacrazione della carne arrosto (pane e vino sarebbero indubbiamente ricomparsi presto), fu l'offerta di una colazione eucaristica. Furono baci e furono sorrisi di un Tristram che lavato ma non rasato disse addio ai suoi nuovi amici per poi prendere a nordest, sulla strada per Rugeley. Il tempo splendido della mattinata sarebbe forse durato tutto il giorno.
6
Orgiastiche baldorie erano in corso a Sandon, a Meaford, nonché al crocevia nei pressi di Whitmore, mentre Nantwich, più raffinata, si accontentava di una fiera. Tristram osservò con interesse il vivace flusso di spiccioli ai baracconi (tirassegno con carabina, testa di turco, prova la tua forza, pesca miracolosa): la gente doveva aver ripreso a lavorare e guadagnare. Il cibo (notò uccelletti allo spiedo fra kebab e salsicce) era in vendita, non in regalo. Gli imbonitori esortavano libidinosi maschi a pagare un tosheroon per veder Lola e Carmencita nella loro sensazionale specialità, la danza dei sette veli. Sembrava proprio che, almeno in una città, la moda della carne gratis avesse cominciato a saziare.
Nella forma sua più umile, però, un'arte era tornata a nuova vita. Da quanto tempo nessuno più in Inghilterra assisteva a un'azione scenica dal vivo? Per generazioni le persone eran giaciute supine nel buio delle camere da letto con gli occhi fissi allo smorto riquadro azzurrino sul soffitto: storie banali di gente per bene che non faceva figli e di gentaglia che invece li faceva, di omo reciprocamente innamorati, di eroi che alla maniera di Origene si eviravano nell'interesse dell'equilibrio mondiale. Qui a Nantwich gli aspiranti spettatori facevan la coda fuori d'un tendone per assistere a Il padre sventurato: Commedia. Tristram ponderò la sua manciatina di monete e con una spallucciata ne estrasse il prezzo d'ingresso: un sept e mezzo. Aveva i piedi stanchi; tanto valeva riposarsi lì.
La commedia greca delle origini, penso stipato su una panca, doveva essere stata una roba del genere. Sopra un palco scricchiolante, illuminato da due esitanti riflettori, un narratore bardato di un gran fallo finto presentò, e poi man mano volgarmente commentò, una semplice storia licenziosa. Un marito calvo e impotente (con l'impotenza simbolicamente rappresentata da una brachetta floscia) aveva una moglie sventata, ingravidata a scadenze regolari da gagliardi amanti, e di conseguenza una casa piena di marmocchi. Il poveruomo, vituperato e sbeffeggiato e umiliato, in un soprassalto d'ira osava finalmente affrontare per strada un paio di quei cornificatori e per tutto risultato ne veniva percosso duramente sulla zucca. Ma ecco che, miracolo, la violenta botta in capo combinava strane cose al suo sistema nervoso: la brachetta si gonfiava, si rizzava; egli non era più impotente. Fingendo tuttavia astutamente di esser sempre quello di prima, s'introduceva agevolmente nelle dimore di quanti, fra gli amanti di sua moglie, avevano donne in famiglia, incavicchiandosele beatamente mentre l'uomo di casa era al lavoro. Da scompisciarsi. Alla fine faceva far fagotto alla moglie e trasformava il nido domestico in un harem. Una canzone fallica e una danza priapea ponevano termine alla commedia. Bene, pensò Tristram lasciando la tenda all'imbrunire, gli uomini si sarebbero ben presto travestiti da capri e avrebbero presentato la prima neotragedia. Forse tra un anno o due sarebbe toccato alle sacre rappresentazioni.
Accanto a uno dei fumanti chioschi alimentari un ometto vendeva fogli di carta singoli, formato protocollo, facendo buoni affari. «Eco di Nantwich» sbandierava. «Solo un tanner.» Molti s'erano fermati lì a leggere a bocc'aperta. Tristram, trepidante, spese uno degli ultimi spiccioli e se ne andò in un angolo col suo foglio, furtivo come quando, pochi giorni innanzi, aveva affrontato il suo primo pasto di carne. Il giornale era arcaico quasi quanto la commedia. Due facciate di una stampa confusa; sotto la testata EKO D NNTWCH la dicitura 'Pubblicato da Min Inf trasmissione microonde captata 13.25 G. Hawtrey Editore'. Iniziativa privata: avvio della Gosfase. Tristram divorò le notizie d'un fiato. Il signor Ockham invitato da Sua Maestà a formare un Governo: i nomi dei membri della compagine ministeriale sarebbero stati resi noti l'indomani. Stato di emergenza: proclamata legge marziale a livello nazionale, immediata creazione controllo centrale su forze armate (irregolari) regionali, comandanti regionali mettersi prontamente a rapporto per istruzioni coi quartieri generali provinciali sottoelencati. Ripristino regolari servizi di comunicazione e informazione previsto entro quarantott'ore. Ordine di rientrare al lavoro entro ventiquattr'ore pena sanzioni severissime (non specificate) in caso d'inadempienza.
Rientrare al lavoro, eh? Tristram ci rifletté, sollevando lo sguardo dal giornale. Gli uomini e le donne attorno, che compitavano a fior di labbra o scorrevano velocemente, a bocca aperta, sembravano sorpresi e perplessi. Nessuno lanciava il cappello in aria o gridava evviva per festeggiare il preannunziato ristabilimento dell'ordine. Rientrare al lavoro. Lui ufficialmente doveva tuttora essere disoccupato, dal momento che nel pubblico impiego un'incarcerazione privava automaticamente del posto. Avrebbe proseguito per la Fattoria Statale N0313. Innanzitutto venivano moglie e figli, no? (Figli? Uno di loro era morto.) E a ogni modo non aveva ricevuto alcuna comunicazione ufficiale.
Avrebbe cercato di raggiungere Chester in nottata. Procuratosi grazie a un tanner il viatico d'una grossa salsiccia, s'incamminò masticando sulla strada per Chester. Il movimento cadenzato dei piedi in marcia gli stanò dal profondo della memoria il ritmo di una quartina gnomica scritta da chissà qual dimenticato poeta:
Quando nevoso Borea altrove i boschi offende, Van carezzando i zefiri fragranti la mia via. Agostin vota all'esercito amor che niun contende, Pelagio alta proclama sua passion di polizia.
7
Il capitano Loosley divorò i crepitanti brandelli di notizie diffusi dalla radio a microonde sul cruscotto. «Ecco fatto!» esclamò malignamente, gongolando. «Così imparano, mi spiego. Ci sarà un po' più di rispetto per la legge e per l'ordine.» Come Tristram Foxe gli aveva tanto grossolanamente spiattellato quel giorno in carcere, egli nulla sapeva di storiografia, corsi e ricorsi esulavano dal suo orizzonte. Il giovane Oxenford, intento alla guida, annuì senza molta convinzione. Ne aveva fin sopra i capelli di quell'infame trasferta. Le poliziesche razioni erano scarse e il suo stomaco glielo ricordava brontolando. Il motore nucleare del furgone della Poldemo aveva più volte fatto i capricci, e Oxenford non s'intendeva di meccanica nucleare. Uscendo da Chester aveva sbagliato strada e preso allegramente verso ovest (dopotutto era notte, né egli possedeva, parimenti, alcun rudimento di astronavigazione), avvedendosi solo a Dolgelley dell'errore commesso (i segnali stradali erano stati divelti per farne legna da ardere). A Mallwyd, sulla strada per Welshpool, s'eran trovati il transito sbarrato da uomini e donne con voci cantilenanti e volti stregoneschi. Quella gente era rimasta incantata dai gemelli di Beatrice-Joanna («Che carini...»), ma il contegno arrogante e la pistola tremante del sergente Image ne avevano acceso l'ostilità. «Povero birbante d'un finocchione» avevano detto disarmandolo con dita gentili. «Bollito sarà squisito» avevan poi unanimemente convenuto palpandogli le carni morbide mentre lo spogliavano. Avevano sequestrato altresì la divisa al capitano Loosley e al giovane Oxenford dichiarando: «Vengono a puntino per l'esercito, queste. Proprio quel che ci vuole.» Vedendo i due rabbrividire in mutande e canottiera avevan soggiunto: «Che pena, poverini. Nessuno ha della carta da pacchi per involtargli la grancassa?» Nessuno ne aveva. «Vi trattiamo bene, vedete,» avevano concluso «perché c'è lei là dietro. Quel che è giusto è per noi un dovere.» Riavviandoli poi con gran gesti di commiato sulla strada per Welshpool mentre il sergente Image sbraitava al tradimento inanemente divincolandosi nelle grinfie di robusti scannatori.
Spossessandoli delle uniformi la gente di Mallwyd aveva probabilmente consentito loro di salvar la buccia, ma il capitano Loosley era troppo stupido per rendersene conto. Quanto a Beatrice-Joanna, l'unica trepidazione la nutriva pei suoi piccoli. Temeva quelle cittadine e quei villaggi coi loro falò e tutte quelle facce esuberanti da carnivori, facce che si affacciavano a scrutare gli appisolati dioscuri ghignando affabilmente. Sorrisi e apprezzamenti le sembravano equivoci: le moine avrebbero potuto facilmente mutarsi in schioccar di labbra. Qualunque sorte ufficiale l'attendesse nella capitale non si sarebbe certo abbassata alla tecnofagia, vero? In ansia per i suoi cuccioli, Beatrice-Joanna dimenticò di aver fame, ma la malnutrizione si manifestava pesantemente nella qualità e quantità del suo latte. Involontariamente si sentiva di tanto in tanto riempir di voglia fiutando effluvii di arrosto o bollito mentre in fretta traversavano qualche centro abitato; ogni qual volta il furgone veniva arrestato da un sollevarsi di mani pasciute e occhi curiosi esaminavano la coppia in mutande e lei coi gemelli al seno, avvertiva un'ondata di nausea al pensiero di ciò che stava arrostendo e bollendo. Ma perché? Il senso, elementare e primitivo, non provava alcun disgusto; era sempre il pensiero, quel gran traditore, a intromettersi, rovinando tutto.
«La situazione sembra quasi tornata alla normalità, mi spiego» disse il capitano Loosley allorché, finalmente, imboccarono la strada per Brighton. «Troppe finestre infrante, però, e guarda sulla via quegli ammassi di metallo contorto, mi spiego. Veicoli rovesciati. Che barbari, che barbari. Legge marziale ci vuole. Povero sergente Image. Bisognava prendergli i nomi, mi spiego, ai responsabili. Onde poter poi loro infliggere, con procedura sommaria, la giusta punizione.»
«Ma la pianti con queste svenevoli fregnacce» disse il giovane Oxenford. «Questo suo modo di parlare certe volte mi dà proprio il voltastomaco.»
«Oxenford!» esclamò il capitano Loosley sgomento. «Non credo proprio che tu ti renda conto di ciò che dici. Il semplice fatto che non indossiamo l'uniforme, mi spiego, non ti autorizza a dimenticare il rispetto dovuto a... dovuto a...»
«Oh, ma stia zitto. È tutto finito. Possibile non abbia un po' di buonsenso per afferrare che è tutto finito? Come diavolo abbia fatto ad arrivare dov'è arrivato proprio non lo capisco.» Stavano entrando adesso in Haywards Heath. «La prima cosa che faccio quando arriviamo e trovo qualcosa da mettermi addosso è arruolarmi in quel maledetto esercito. Ho finito con questa storia perché tanto questa storia è finita comunque.» Stavano uscendo da Haywards Heath.
«Questa storia non è affatto finita, mi spiego» ribatté il capitano Loosley. «Deve pur esserci un'organizzazione per tenere a freno la popolazione, con la forza, mi spiego, o con la propaganda. Ti perdono, Oxenford» aggiunse generosamente. «La misera sorte del sergente Image deve averti innervosito così come, lo confesso, ha innervosito, mi spiego, un pochino anche me. Bada però che non accada più. Ricorda, ti prego, la differenza di grado esistente fra noi.»
«Oh, ma stia zitto» ribadì Oxenford. «Ho un freddo dell'accidente e ho una fame della malora e ho una voglia matta di fermare il furgone e lasciare che v'arrangiate mentre io vado a far compagnia a quelli là.» Accennò bruscamente col capo a una banda zingaresca placidamente intenta, sul ciglio della strada, a pasteggiare attorno a un fuoco.
«L'esercito li prenderà» disse il capitano Loosley senza scomporsi. «Stai tranquillo che saranno catturati.»
«Aaaa...cciú!» starnutì Oxenford all'improvviso. E di nuovo: «Eeee...ccí! Porca troia imbastardita mi so' beccato un raffreddore, sai che gusto. Ti schiantassi pure te,
Loosley. Eeee... cciù!»
«Il Commissario Metropolitano avrà certo qualcosa da dire in proposito, mi spiego» ammonì il capitano Loosley. «Vera e propria insubordinazione.»
«Credevo» fece Oxenford in tono sarcastico «che lo scopo della manovra fosse dare il benservito al Commissario Metropolitano. Credevo che fosse quella l'idea.»
«Non hai capito niente, Oxenford» reagì sprezzante il capitano Loosley. «Ci sarà
un altro Commissario Metropolitano, mi spiego. E saprà lui come trattare l'insubordinazione.»
«Aaaa...ccí» si sfogò il giovane Oxenford, e poi: «Cciú!», andando quasi a sbattere contro un lampione. «A ogni modo non sarai tu» replicò aspro. «Non sarai tu ad accaparrarti quel dannato incarico, poco ma sicuro. E comunque, domani o dopodomani sarò nell'esercito. Quella sì ch'è una vita da uomini, dannazione. Altro che correr dietro alle povere donne indifese e ai bambini come abbiam fatto noi, ti schiantasse.»
«Ho sentito abbastanza, mi spiego» disse il capitano Loosley. «Sarà più che sufficiente, Oxenford.»
«Aaaa...cciù! Porcaccia...»
Entrarono ben presto a Brighton. Il sole gioiva sul mare, sugli abiti colorati delle donne e dei bambini, sugli scialbi vestiti maschili. Sembrava esserci in giro meno gente; non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Giunsero agli imponenti uffici governativi. «Eccoci qua» disse il capitano Loosley. «Entra dritto laggiù, Oxenford, dove c'è scritto In. Strano. Non ricordo che ci fosse quell'In, mi spiego, quando siamo partiti.»
Oxenford scoppiò in una rauca risata. «Povero grullo rincoglionito» disse. «Non lo vedi da dove è piovuto quell'In? Non lo vedi, pezzo di scimunito?»
Il capitano Loosley fissò la facciata. «Oh» disse. «Sacripante.» E ne aveva ben donde, perché la grande scritta straripante Ministero della Infecondità - era cambiata; l'ultima parola aveva perso il prefisso negativo.
«Ah ah» rise il giovane Oxenford. «Ah ah ah.» E poi: «Eeee... cciù! Porca zozza invelenita.»
8
«E per quanto possibile» disse la faccia televisiva del molto onorevole George Ockham, Primo Ministro «condurre un'esistenza confortevole col minimo d'interferenza da parte dello Stato.» Era una faccia da gran capitano d'industria: guance pingui, labbra risolute ma intemperanti, occhi da negoziatore inflessibile dietro lenti esagonali. Si riusciva a vederla solamente a intermittenza causa deficienze di trasmissione: si avvicendava a leste increspature o si dissolveva in geometriche trasfigurazioni e fantasmagorie; sfarfallava, traballava; si scindeva in autonome smorfie; s'involava fuori dallo schermo qual fiamma pentecostale e inseguiva se stessa in una verticale fuga d'inquadrature. Ma la tenace, misurata, costante voce da uomo d'affari non pativa distorsioni. Parlò a lungo, sebbene - in schietto stile agostiniano - avesse poco da dire. Poteva ben darsi che li attendessero ancora tempi difficili, ma grazie al pragmatico e caparbio spirito compromissorio inglese che tante crisi aveva superato in passato, la nazione avrebbe indubitabilmente saputo trionfare proiettandosi verso giorni più lieti. Fiducia era la chiave; il signor Ockham chiedeva fiducia. Egli nutriva fiducia nel popolo britannico; che il popolo britannico nutrisse dunque fiducia in lui. Con un ultimo cenno d'assenso l'immagine disparve, e lo schermo si abbuiò.
Anche Tristram assentì, intento a stuzzicarsi i denti nel caritatevole centro d'alimentazione allestito sulla sponda settentrionale del Dee dall'Associazione per la Fecondità delle Dame di Chester. Era giusto reduce dal consumare, ascoltando il signor Ockham, un acconcio pasto carneo servito da rosee scanzonate fanciulle del Cheshire in un ambiente piacevole ancorché austero, fra vasetti di giunchiglie zampillanti verso il soffitto. Molti uomini nella sua situazione mangiavano e avevano mangiato lì, sebbene all'apparenza si trattasse in gran parte di gente di provincia: uomini rilasciati di prigione che, disorientati, vagavano adesso in cerca delle famiglie evacuate dalle città durante le sommosse alimentari e le prime atrocità dei circoli gastronomici; uomini senza lavoro che scarpinavano verso fabbriche appena riaperte; uomini (ma avrebbero dovuto esserci anche donne; dov'erano le donne?) sfrattati dai loro appartamenti ai piani bassi da individui più forti e spietati... tutti senza un soldo in tasca.
Senza un soldo. Il denaro era un problema. Tristram quel pomeriggio aveva trovato una banca aperta, una filiale della Statale 3 dov'erano depositate le sue poche ghinee che dopo la lunga interruzione era tornata a un'intensa attività. Un cassiere l'aveva cortesemente informato che per effettuare prelievi avrebbe dovuto rivolgersi alla sua filiale, anche se sarebbero stati viceversa ben lieti, al che Tristram aveva sorriso torvo, di accettare eventuali versamenti in contante. Bella roba, le banche. Forse non era poi tanto scemo chi ne diffidava. Aveva sentito dire che un tizio di Tarporley, avendo cucito dentro il materasso tremila ghinee in banconote, era stato in grado di aprire un grande emporio mentre le banche erano ancora chiuse. I piccoli capitalisti strisciavano fuori delle loro tane, topi nella Pelfase ma leoni agostiniani.
«... Cordialmente invitati» annunciava da un altoparlante una voce di donna «a partecipare. Ore otto. Verrà servita una cena leggera alla griglia. Compagnia» inquietante prospettiva «per tutti.» La voce si dileguò in un clic. Più un ordine che un invito. Un falò danzava in riva al fiume, non nei campi. Speravano forse che i salmoni del Dee avrebbero ripreso presto i loro balzi? Due cose suscitavano l'indolente attenzione di Tristram in quella bella ma rigida sera di primavera: la durezza delle donne; il fatto che qualunque cosa, per quanto piccola, andasse pagata. Si alzò sospirando da tavola; avrebbe fatto una passeggiatina per le vie di Chester. «Mica te lo scordi, vero?» lo apostrofò sulla porta una donna impaziente. «Otto spaccate. Bada che ti aspetto, ghiottone che non sei altro.» Riderellò scioccamente, quella donna grassoccia, più facilmente inquadrabile nel ruolo di zia che di amante. Ghiottone? In qual modo si era mostrato ghiottone? Trattavasi forse d'un appellativo scherzosamente prolettico, in nessun modo correlato al cibo? Combinando un grugnito e un sorrisetto malizioso, Tristram alzò i tacchi.
Chissà se Chester aveva avuto quell'odore anche all'epoca dell'occupazione romana... odor di soldatesca? Esercito Occidentale - Quartier Generale, proclamava un cartello; nobile, squillante, elettrizzante, quasi arturiano. Come ai tempi dei legionari di Cesare la città doveva aver fumigato del respiro dei cavalli sdrucciolanti, così adesso i gas di scarico delle motociclette sgorgavano in pennacchi cerulei mentre portaordini giungevano con messaggi segretissimi labirinticamente imbustati e ripartivano bardati di casco e guanti con dispacci d'analoga impenetrabilità spedalando sulla messa in moto delle loro macchine per divorar rombando una delle strade tentacolari diramantisi dall'accampamento cittadino, dalla città accampata. Un'enigmatica segnaletica indirizzava a Direzione Approvvigionamenti Sussistenza, Direzione Approvvigionamenti Sanitari, Ufficio Generale Commissariato. C'erano autocarri che riversavano il loro cicalante carico di goffi soldati in uniformi raffazzonate; una squadra di lavoro armata di scope invece che fucili veniva sguinzagliata in una traversa; un paio di cappellani imparavano timidamente a salutare. Si scaricava dello scatolame in un deposito vettovaglie sotto stretta sorveglianza.
In base a quale ipocrita direttiva superiore veniva assicurato l'approvvigionamento? Contratti con privati, massima discrezione; la truppa chiamava quell'anonima carne in scatola 'manzo', e un animale del genere non esisteva; il mantenimento della legge e dell'ordine non era incompatibile con la tolleranza verso l'appartata attività del mattatoio. Non c'era alternativa alla legge marziale, pensava Tristram. Un esercito, essendo in primo luogo un'organizzazione votata all'omicidio di massa, non può certo farsi condizionare da scrupoli etici. Deve tenere sgombre le arterie stradali per garantire il traffico, sangue della nazione; tutelare i rifornimenti idrici; mantener bene illuminate le vie principali: strade secondarie e vicoli dovranno arrangiarsi. Nessun dubbio, niente domande. Sacripante, signore, sono un semplice soldato, non uno dei vostri dannati politicanti: che se lo facciano loro il lavoro sporco.
Il Daily Newsdisc aveva ripreso a funzionare. Tristram ne udì la voce metallica tuonare dalla mensa ufficiali della guarnigione (luci soffuse, inservienti in giacca bianca, argentino tintinnio di posate) e si fermò ad ascoltare. In Messico si ridestava il culto di Quetzalcoatl, orge e sacrifici umani segnalati a Chihuahua, Moctezuma, Chilpancingo. Antropofagia e conservazione di carne umana sotto sale da un capo all'altro della smilza bislunga fettuccia del Cile. Inscatolamento a tutto spiano in Uruguay. Libero amore in Utah. Sommosse nella zona del Canale di Panama, gente che dedita a ogni intemperanza erotica e alimentare rifiutava di sottomettersi alla neoplasmata milizia. Nella provincia del Suiyuan, Cina settentrionale, un maggiorente locale affetto da accentuata zoppia era stato immolato con tutti i crismi cerimoniali. Pupazzetti di riso erano stati modellati nelle Indie Orientali e immersi nelle risaie. Buone notizie sui raccolti cerealicoli nel Queensland.
Proseguendo, Tristram vide ilari soldati in libera uscita abbrancicati a ragazze autoctone, udì una banda accordar gli strumenti nei prodromi d'una danza, scorse lanternine colorate baluginare delicatamente sugli arborei germogli in riva al fiume. La digestione della carne cominciava a diffondergli in tutto il corpo un languido formicolio. Così va il mondo, non puoi far altro che accettarlo: gloglottii coitali e abbandono alla promiscuità, masticazione di tessuti corporei e militaresco inquadramento. La vita, insomma. E invece no, Sacripante, no. Si riscosse: il viaggio volgeva al termine, ormai. Con un po' di fortuna e qualche passaggio avrebbe potuto raggiungere Preston entro domattina. Aveva scarpinato abbastanza; adesso doveva accarezzare la prospettiva di un sol diletto paio di conosciute braccia, di un languore consacrato dall'amore, dall'intimità, dal buio, lungi dai fuochi e dalle gozzoviglie. Raggiunto a passo vivace l'imbocco della strada diretta a nord si fermò levando un pollice nervoso ai piedi d'un cartello segnaletico puntato in direzione di Warrington. Non stava forse mostrando la dovuta gratitudine alle zelanti signore dell'Associazione per la Fecondità delle Dame di Chester, ma poco male. La fecondità dovrebb'essere comunque un frutto riservato dallo Spirito Santo alle coppie sposate. Fornicazione ce n'era già anche troppa.
Dopo sei o sette scodinzolii di pollice a vuoto, proprio mentre si apprestava a mettersi in marcia, un autocarro militare gli si fermò accanto con gran stridore. «Wigan» disse il soldato al volante. «Ho un bel carico qua dietro» soggiunse accennando al cassone con un violento scatto del capo. Tristram provò un tuffo al cuore. Venti miglia a nord di Wigan sorgeva Preston. Tre miglia a ovest di Preston, sulla via per Blackpool, si trovava la fattoria Statale N0313. Si arrampicò a bordo profondendosi in ringraziamenti. «Bene» fece l'autista, le mani strette sul grosso volante in posizioni
diametralmente opposte. «Mi sa che ormai non ci vorrà più molto, amico.» «No proprio» convenne Tristram infervorato.
«Allora dimmi, amico» proseguì l'autista, un grassoccio giovanotto biondo dal berretto unto. «Che succederà secondo te?» Si succhiò rumorosamente un premolare naturale.
«Come?» fece Tristram. «Temo di non aver... pensavo ad altro, ho paura.»
«Paura» ripeté l'autista soddisfatto. «È proprio questo il punto, no? La parola giusta. Di qui a poco saranno in tanti ad aver paura, amico, e tu fra loro, oserei dire. Ma è ovvio che ci sarà una guerra. Non perché qualcuno la voglia, naturalmente, ma perché c'è un esercito. Un esercito qua e un esercito là ed eserciti a destra e a manca. Gli eserciti sono fatti per la guerra e la guerra è fatta per gli eserciti. Mica ci vuol tanto a capirlo.»
«La guerra è roba del passato» obiettò Tristram. «La guerra è stata messa al bando. Non ci sono più guerre da un mucchio d'anni.»
«Ragione di più perché debba essercene una» insisté l'autista. «Se è vero che da tanto siamo senza.»
«Ma tu» replicò Tristram concitato «non ti rendi mica conto di cos'era una guerra. Io ho letto libri sulle antiche guerre. Erano terribili, tremende. C'erano gas velenosi che trasformavano il sangue in acqua e batteri che sterminavano intere nazioni e bombe che in un istante radevano al suolo intere città. Tutto ciò è finito. Doveva finire. E non possiamo ricominciare. Ho visto le foto, io» rabbrividì. «E anche i filmati. Quelle antiche guerre erano terrificanti. Stupri, saccheggi, torture, incendi, pestilenze... Inconcepibile. No, no, non deve accadere mai più. Non dirlo nemmeno per scherzo.»
Continuando a inclinar lievemente il volante e facendo andar su e giù le spalle come un mediocre ballerino, l'autista diede un'energica succhiata. «Ma mica intendevo in quel modo lì, amico. Volevo dire... insomma, combattere. Eserciti. Un gruppo che le suona a un altro gruppo, non so se rendo l'idea. Un esercito di fronte all'altro come fossero due squadre. Poi cominciano a spararsi finché qualcuno non suona il fischietto e dice 'Questo gruppo ha vinto e questo gruppo ha perso'. Poi distribuiscono licenze e medaglie e le puttane son tutte in fila che aspettano alla stazione. Io dicevo una guerra così, amico.»
«Ma chi è che dovrebbe andarla a fare, questa guerra?» domandò Tristram.
«Be',» rispose l'autista «bisognerebbe tirare a sorte, no? Ci si dovrebbe mettere d'accordo, no? Ma tieni a mente le mie parole, è così che andrà.» Il carico sul retro reagì con l'allegria di una metallica danza all'attraversamento di un ponte a schiena d'asino. «Morte di un eroe» scandì d'un tratto il soldato: compiaciuto, parve. Qual gigantesco petto onusto di medaglie, il battaglione di carne in scatola tintinnò un'ovazione.
9
Tristram scroccò un passaggio da Wigan a Standish su un furgone della Polizia Militare, poi d'improvviso per strada non transitò più nessuno. Camminò lentamente e con qualche difficoltà nella notte di plenilunio: la scarpa sinistra lo faceva un po' penare per colpa d'una grossa bulletta e d'un bel buco nella suola consunta. Arrancò nondimeno ardimentosamente aggrappandosi alla sobria emozione che gli trotterellava dinnanzi con la lingua fuori, e la notte arrancò insieme a lui verso il mattino. A Leyland i piedi gli suggerirono una sosta, ma il suo cuore non volle saperne. Avanti, avanti, per essere a Preston all'alba: là una pausa per riprender fiato, magari colazione in un centro d'assistenza, poi di nuovo via verso la meta, tre miglia a ovest. Il mattino e la città si avvicinarono alla chetichella.
Che cos'era quello scampanio? Aggrondato, Tristram si cacciò i mignoli negli orecchi sbatacchiando il cerume con frastuono assordante. Annusandosi quindi istintivamente la ceruminosa punta di un dito (unico odore gradevole di quanti ne secerneva il suo corpo), rimase in ascolto. Quel vigoroso suon di squilla proveniva non dall'interno del suo cranio bensì dal mondo esterno: e precisamente dalla città. Campane per dare il benvenuto al pellegrino? Sciocchezze. Oltretutto non si trattava neppure di vere campane: era un'elettronica contraffazione campanaria, palpito lento che scaturendo da vibranti altoparlanti sventagliava in aria un getto metallico di armoniche, uno sconnesso spolverio d'argento. Perplesso, Tristram si avvicinò. Entrò a Preston che era giorno fatto, e inghiottito dalla folla e dall'esultante rintoccare gridò agli sconosciuti che lo circondavano: «Che cos'è? Che succede?» Risero quelli per tutta risposta, sordi, muti, inutilmente spalancando la bocca nel folle vortice di metallo auricolare. Una rintronante cappa di bronzo che pareva miracolosamente lasciare entrar più luce era calata argentea sulla città. La gente andava fluendo verso la fonte di quel demenziale angelico clangore; Tristram seguì la corrente. Era come penetrare nel cuore del rumore, il rumore come realtà ultima.
Un grigio anonimo fabbricato in pietra viva - architettura provinciale, non più di dieci piani - con altoparlanti che gli sbocciavano dal tetto, spioventi. Tristram varcò sospinto la soglia abbandonando la dorata luce solare, e dentro l'edificio rimase a bocc'aperta di fronte all'immensa cavità cubica. In vita sua non aveva mai visto un interno tanto grande. Non si poteva certo definirla una stanza... piuttosto un salone, un luogo di riunione, un luogo d'assemblea; doveva esistere un vocabolo specifico, e lo cercò nella memoria. Era frutto di un rimaneggiamento: i cubicoli (appartamenti o uffici) originariamente contenuti nel palazzo erano stati sgusciati; abbattute le pareti divisorie, come evidenziato da frastagliate escrescenze di mattoni; i pavimenti-soffitti di parecchi piani rimossi, sgombrati, sì che lo sguardo sprofondava sgomento in cotanta altezza. Tristram riconobbe un altare sopra un palco all'opposta estremità; file di rozze panche, gente seduta in attesa, inginocchiata in preghiera. I termini adatti cominciarono a farsi strada faticosamente emergendo dalle sue letture, come plotone e battaglione gli erano tornati alla mente in precedenza in un contesto che, per qualche motivo, gli appariva analogo. Chiesa. Congregazione. «Blocchi il traffico, giovanotto» dichiarò alle sue spalle una voce cordiale. Tristram prese posto su una panca.
Entrò baldanzosamente in scena una folta schiera di preti con candele grandi e grosse accompagnata da un plotone (no, da una squadra) di chierichetti. «Introibo ad altare Dei...» Un coro di voci, un piano più su, in una galleria sul fondo dell'edificio, rispose cantando: «Ad Deum Qui laetificat iuventutem meam.» Era un'occasione davvero molto speciale. Era come giocare a scacchi con cavalli ed elefanti scolpiti in avorio anziché con pezzetti di sapone carcerario approssimativamente modellati. «Alleluia» proseguì stentorea la liturgia. Tristram attese paziente la Consacrazione, la colazione eucaristica, ma la preghiera di ringraziamento prima del pasto era assai prolissa.
Un prete taurino dalle grosse labbra si volse dall'altare alla congregazione, eretto sul ciglio del palco, benedicendo l'aria. «Fratelli» disse. Un discorso, un'orazione, un'arringa, un sermone. «Oggi è il giorno di Pasqua. Questa mattina noi celebriamo la resurrezione ovvero il ritorno dalla morte di Nostro Signore Gesù Cristo, crocifisso per aver predicato il regno di Dio e la fratellanza fra gli uomini. Il Suo corpo senza vita fu trascinato giù dalla croce e calpestato a terra siccome si calpesta una malerba o la cenere di un fuoco, e nonostante ciò Egli risorse il terzo giorno in splendidissima veste come il sole e la luna e tutti i fuochi del firmamento. Risorse per testimoniare al mondo che la morte non esiste, che la morte non è realtà ma soltanto apparenza, che le fallaci forze della morte null'altro sono che ombre e il loro prevalere nulla più d'un prevalere d'ombre.» Il sacerdote ruttò delicatamente per via d'uno stomaco digiuno. «Risorse per esaltar la vita eterna, non una spettrale vita dalle labbra esangui in qualche tenebrosa noosfera...» («Iii» fece una donna dietro Tristram) «... bensì una totalità o unità di vita nella quale i pianeti danzeranno con le amebe, i grandi macròbi ignoti coi microbi vorticanti dentro i nostri corpi e i corpi degli animali nostri fratelli, perché una è la carne e carne sono anche il grano e l'erba e l'orzo. Egli è l'emblema, il simbolo eterno, il perpetuo ritorno fatto carne; Egli è uomo, animale, frumento, Dio. Parimenti il suo sangue divien sangue nostro tramite l'azione vivificatrice ch'esso esplica sul caldo nostro rosso fluido limaccioso che s'attorce pei suoi canali palpitanti. E il Suo sangue non è solo sangue d'uomo, d'animale, d'uccello, di pesce; esso è anche pioggia, fiume, mare. È il seme dell'uomo pompato nell'estasi e la sgorgante ricchezza del latte delle madri degli uomini. In Lui diveniam tutt'uno con tutte le cose, ed Egli è tutt'uno con tutte le cose e con noi.
«In Inghilterra oggi, oggi da un capo all'altro dell'Unione Anglofona, gioiosamente celebriamo con tromboni e salteri e sonori alleluia la resurrezione del Principe della Vita. Oggi anche in terre lontane che nel passato infecondo rifiutarono la carne e il sangue del Sempiterno Dispensatore di Vita questa Sua resurrezione dalla tomba è salutata con gioia pari alla nostra, benché sotto sembianti e nomi di stravagante significato e paganeggiante suono.» A tale dichiarazione l'uomo alla destra di Tristram si accigliò. «Perché, quantunque noi Lo si chiami Gesù e Cristo vero, Egli è cionondimeno al di là e al di sopra d'ogni nome, cosicché il Cristo risorto si udrà appellare, con gioia e devozione, Thammuz o Adone o Attis o Balder o Hiawatha, e per Lui tutto è uno come tutti i nomi sono un sol nome, come tutte le parole sono una parola sola, come unica e una è la vita.» Il predicatore osservò qualche istante di silenzio; primaverili colpetti di tosse scoppiettarono dalla congregazione. Poi, con tipica incoerenza da allocuzione religiosa, dando voce possente al suo credo egli esclamò: «E per questo vi dico: non abbiate paura. Pur nel mezzo della morte noi restiamo in vita.»
«Aaah, quali mostruose idiozie!» insorse una voce da dietro. «Non puoi riportare in vita i morti, maledetto te, nonostante il tuo raffinato scilinguagnolo!» Riconoscenti si volsero le teste; scoppiò una baruffa; flagellar di braccia; Tristram non riusciva a vedere granché.
«Ritengo» opinò il predicatore imperturbabile «che meglio sarebbe se chi mi ha interrotto abbandonasse l'assemblea. Ove non volesse farlo spontaneamente, sarebbe forse il caso di aiutarlo a lasciarci.»
«Orripilanti corbellerie! Prostituirsi a falsi dèi, Dio perdoni il tuo perfido cuore!» Tristram riuscì finalmente a scorgere di chi si trattava. Conosceva quella faccia da luna piena, che paonazza di nobile collera sbraitò: «Persino i miei bambini sacrificati sull'altare del Baal che tu veneri come vero Dio, Dio ti perdoni!» Il riottoso corpaccione insaccato nei villerecci indumenti veniva sospinto fuori da uomini ansanti, allontanandosi dal sacro cospetto in stretta osservanza della rinculatio, con le braccia dolorosamente immobilizzate in posizione postergale. «Dio vi perdoni tutti, perché io mai lo farò!»
«Scusate» mormorò Tristram districandosi dalla panca. Qualcuno aveva calcato una mano a mo' di bavaglio sull'indietreggiante bocca di suo cognato. «Ufo» rantolò la soffocata invettiva. «Ufo uì ualeuìha huhhi!» Shonny e la sua brutale trafelata scorta stavano già oltrepassando la soglia. Tristram si affrettò lungo la corsia. «Dove eravamo rimasti» ricapitolò il predicatore.
10
«Insomma,» disse Tristram affranto «in quattro e quattr'otto l'han portata via.»
«E allora» fece Shonny con voce spenta «abbiamo aspettato, aspettato, ma non sono tornati a casa. E poi il giorno dopo abbiamo saputo cos'era successo. Oh, Dio, Dio.» Raccolse le mani a guisa di una gran scodella rossa dentro cui lasciò cadere singhiozzando il budino della testa.
«Sì, sì, terribile» disse Tristram. «Hanno detto dove la portavano? Hanno detto che tornavano a Londra?»
«È tutta colpa mia» disse la faccia nascosta di Shonny. «Ho avuto fiducia in Dio. Ma era del Dio sbagliato che mi sono fidato tutti questi anni. Nessun Dio buono avrebbe lasciato accadere una cosa simile, Dio lo perdoni.»
«Tutto inutile» sospirò Tristram. «Un gran viaggio sprecato.» Attorno al bicchiere gli tremava la mano. Erano seduti in un negozietto che vendeva acqua con appena uno spruzzo d'alc.
«Mavis è stata meravigliosa» disse Shonny alzando il volto inondato di lacrime. «Mavis l'ha presa come una santa, come un angelo. Ma io non sarò più lo stesso, mai più. Ho cercato di convincermi che Dio lo sa perché è accaduto, e che esiste per ogni cosa un motivo divino. Stamane sono persino venuto a messa, pronto a fare come Giobbe e a lodare il Signore sia pure in preda al mio strazio. Ma poi ho visto. L'ho visto sulla faccia grassa di quel prete; l'ho udito nella sua grassa voce. Un falso Dio s e impadronito di tutti loro.» Inspirò con difficoltà esalando uno strano suono crocidante, come acciottolio di ghiaia trascinata dal mare. I pochi altri bevitori (uomini con gli abiti di tutti i giorni, che non festeggiavano la Pasqua) sollevarono lo sguardo.
«Puoi avere altri figli» disse Tristram. «Hai ancora tua moglie, la tua casa, il tuo lavoro, la salute non ti manca. Ma io che farò? Dove posso andare, a chi posso rivolgermi?»
Shonny gli puntò addosso un cipiglio feroce. Aveva la schiuma alla bocca e il mento mal rasato. «Non dirlo a me» reagì. «Tu e i tuoi figli che ho protetto per tanti mesi mettendo a repentaglio l'incolumità della mia intera famiglia. Tu e quei furbacchioni dei tuoi gemelli.»
«Gemelli?» trasecolò Tristram. «Hai detto gemelli?»
«Con queste mani» rispose Shonny, e le esibì al mondo, enormi e adunche, «ho fatto nascere i tuoi gemelli. E adesso dico: meglio non l'avessi fatto. Meglio se avessi lasciato che si arrangiassero come bestiole selvatiche. Meglio se li avessi strangolati consegnandoli al tuo falso Dio famelico dalle labbra grondanti sangue, che si stuzzica i denti tutto soddisfatto dopo il suo esecrando pasto d'innocenti. Allora, forse, avrebbe risparmiato i miei. Allora, forse, avrebbe concesso loro di rincasare da scuola incolumi come ogni altro giorno, lasciandoli vivere. Vivere!» gridò. «Vivere, vivere, vivere.»
«Mi spiace» disse Tristram. «Lo sai che mi dispiace.» Poi, dopo una pausa: «Gemelli» ripeté quasi incredulo. Quindi, infervorato: «Dove hanno detto che andavano? Hanno detto che tornavano da mio fratello a Londra?»
«Sì, sì, sì, credo di sì. Mi pare che abbiano detto qualcosa del genere. Comunque non importa. Nulla più importa.» Sorbì dal suo bicchiere senza alcun diletto. «Il mio mondo è andato in pezzi» disse. «Debbo ricostruirlo, cercando un Dio in cui io possa credere.»
«Uff!» esclamò Tristram cedendo d'un tratto all'irritazione. «Smettila di autocommiserarti. È stata gente del tuo stampo a creare il mondo in cui dici di non credere più. Nella vecchia società liberale eravamo tutti abbastanza al sicuro.» Si riferiva a neanche un anno prima. «Affamati, ma al sicuro. Una volta uccisa la società liberale si crea un vuoto nel quale irrompe Dio, dopo di che si scatenano omicidio e fornicazione e cannibalismo. E tu» proseguì Tristram improvvisamente affranto nel rendersi conto che qualunque governo salisse al potere egli l'avrebbe sempre e comunque avversato «ritieni giusto che l'uomo continui in eterno a peccare perché in tal modo giustifichi la tua fede in Gesù Cristo.»
«Sbagli» replicò Shonny con sorprendente lucidità. «Di grosso. Perché, vedi, esistono due Iddii. Sono mescolati, ed è difficile per noi sceverare quello giusto. Come, fai conto, quei due gemelli, Derek e Tristram li ha chiamati. Quand'erano nudi li confondeva. Meglio però così che non averlo affatto, un Dio.»
«Ma allora di che caspita ti lamenti?» ringhiò Tristram. E brava Beatrice: i piedi in due staffe come al solito e due piccioni con una fava, tanto per non smentirsi. Le donne riescono sempre a salvare capra e cavoli.
«No che non mi lamento» rispose Shonny con impressionante umiltà. «Riporrò la mia fede nel vero Dio. Egli vendicherà i miei poveri bambini morti.» Applicò fermamente le due mezze maschere delle mani, mani sudice, sulle lacrime novelle. «Tientelo pure per te quell'altro Dio, quel sozzo abietto di quell'altro Dio.»
«Non credo in nessuno dei due» non poté fare a meno di sottolineare Tristram. «Sono un liberale, io.» Poi, preso da qualche scrupolo di fronte alla disperazione di Shonny, ritenne opportuno tentar di precisare il suo pensiero. «Ciò che in realtà intendevo dire...» principiò.
«Lasciami al mio dolore» lo interruppe Shonny. «Vattene e lasciami in pace.»
«Va bene, me ne vado» mormorò Tristram imbarazzato. «Sarà bene che inizi il viaggio di ritorno. Pare che certi treni abbiano ripreso servizio. Si dice che anche le aviolinee statali sono rientrate in funzione. Dunque li ha chiamati Tristram e Derek, eh? Sacripante, che razza di filona.»
«Tu hai due figli» tirò le somme Shonny togliendosi le mani dagli occhi velati. «E io nemmeno uno. Vai, va' da loro.»
«Il fatto è...» venne al dunque Tristram «il fatto è che non ho il becco d'un quattrino. Nemmeno un miserrimo tanner. Se tu potessi prestarmi, diciamo, cinque ghinee o venti corone o giù di lì...»
«Da me non avrai un soldo.»
«Un prestito, mica altro. Te lo restituisco appena trovo un lavoro. Questione di poco, promesso.»
«Niente» ribadì Shonny inalberando un broncio infantile. «Ho fatto abbastanza per te, non credi? Non ho fatto abbastanza?»
«Be',» fece Tristram preso alla sprovvista «non lo so. Immagino di sì, se lo dici tu. Ti sono grato comunque, davvero grato. Ma capirai di certo che debbo rientrare a Londra e mi sembra sinceramente sia pretendere un po' troppo che me ne torni come son venuto, a piedi e scroccando passaggi. Guarda qua come ho ridotta la scarpa sinistra. Voglio arrivarci in fretta, laggiù.» Batté debolmente i pugni sul tavolo. «Voglio tornare da mia moglie. Non capisci?»
«Per tutta la vita» replicò Shonny amaramente «non ho fatto altro che dare, dare, dare. La gente s'è approfittata di me. La gente ha preso e poi m'ha riso dietro. Ho dato troppo in vita mia. Tempo e lavoro, quattrini e amore. E cos'ho avuto in cambio? Oh, Dio, Dio.» Un groppo l'ammutolì.
«Sii ragionevole. Un piccolo prestito. Due o tre corone, diciamo. Dopotutto sono tuo cognato.»
«Tu non sei niente per me. Sei solo il marito della sorella di mia moglie, tutto qui.
E anche d'una pessima risma ti sei rivelato, Dio ti perdoni.»
«Oh, senti un po', non esageriamo. Non hai motivo di parlarmi così.»
Shonny incrociò le braccia come se gliel'avesse ordinato l'insegnante e strinse le labbra. Poi: «Inutile che insisti» disse. «Vatteli a cercare altrove i tuoi soldi. Te e quelli del tuo stampo non mi siete mai piaciuti. Te e il tuo liberalismo senza Dio. E pure imbroglione, a far figli di soppiatto. Non avrebbe mai dovuto sposarti. Quante
volte gliel'ho detto, e anche Mavis. Avanti, vattene, e non farti più vedere.» «Sei un miserabile bastardo» sentenziò Tristram.
«Sono quel che sono» rettificò Shonny. «Come Dio è ciò che è. Non sperare aiuto da me.»
«Sei un maledetto ipocrita» insisté Tristram, blandito da un sentimento che somigliava alla gioia. «Coi tuoi falsi 'Dio abbia pietà di noi' e 'Gloria a Dio nell'alto dei cieli'. Altisonanti frasi religiose, dannazione, ma in te non c'è un briciolo di vera religione.»
«Via di qui» ingiunse Shonny. «Vattene con le buone.» Il cameriere calvo accanto al banco si mangiava preoccupato le unghie. «Non voglio essere costretto a buttarti fuori.»
«Chiunque penserebbe che sei tu il padrone di questo buco schifoso» commentò Tristram. «Spero che un giorno ti torni in mente. Voglio augurarmi che ricorderai d'avere rifiutato aiuto a chi ne aveva disperato bisogno.»
«Vai, su. Vai a cercare i tuoi gemelli.»
«Certo che me ne vado» disse Tristram. Si alzò, imbellettando la collera con un sogghigno. «Comunque l'alc ti toccherà pagarlo» disse. «Per quello almeno dovrai frugarti in tasca.» Emise un volgare rumore da scolaretto e uscì fumante di rabbia. Ristette un attimo sul marciapiede, esitante, poi, deliberato di voltare a destra e incamminatosi lentamente, gettando un'occhiata attraverso la vetrina sudicia della botteguccia intravide un ultimo barlume del povero Shonny che col faccione da luna piena affondato fra le mani scuoteva desolato la testa.
11
Tristram procedeva affamato chiedendosi che fare, con la rabbia che gli ribolliva ancora dentro, per le pasquali vie dell'assolata Preston. Gli conveniva forse piantarsi nella cunetta ed elemosinar cantando a mano tesa? Era abbastanza lercio e sbrindellato, lo sapeva, per passar da mendicante, macilento, barbuto, i capelli un inestricabile garbuglio. Ormai ridotto a personaggio della storia antica o del mito quel non troppo infelice insegnante di Studi Sociali di nemmeno un anno addietro tutto lindo, azzimato, facondo, rincasante per desinare a budino di sintelat imbandito da un'avvenente mogliettina mentre il lustro notiziario nero ruotava pacificamente sul mandrino a parete. Mica male davvero le cose a quei tempi: cibo a sufficienza, stabilità, denaro quanto basta, televisione stereoscopica sul soffitto di camera... Soffocò un arido singulto.
Non lungi da un capolinea d'autobus - rosse vetture a un solo piano che s'impinguavano di passeggeri per Bamber Bridge e Chorley - le narici di Tristram si dilatarono a un vivace sentore di stufato giunto sulle ali del vento. Era un dozzinale aroma da cucina assistenziale - metallo untuoso e carne grassa ingentilita da erbette - ma gli venne un'acquolina incontenibile, e ringoiando la saliva andò dietro al suo naso. All'imbocco d'una traversa l'odore lo aggredì prepotente, rincuorante come una commedia popolare, e vide uomini e donne in coda fuori di un negozio con due vetrine opacizzate da bianchi ghirigori a calce simili a dilettantesche riproduzioni del ritratto di James Joyce fatto da Brancusi. Un targa metallica sopra la porta dichiarava, bianco su scarlatto, Ministero della Guerra - Distretto Nordovest - Centro Pubblico Assistenza Alimentare. Dio benedica l'esercito. Tristram si accodò alla fila di randagi suoi pari: capelli polverosi, abiti completamente gualciti a forza di dormirci dentro, sguardi freddi e sospettosi per le troppe delusioni. Un miserando nanerottolo continuava a piegarsi in due come se qualcuno lo scazzottasse nello stomaco, levando alti monotoni lai sotto gli spasmi del mal di pancia. Una donna emaciata dai luridi capelli grigi se ne stava dritta e dura con patetica dignità, superiore a quella gente, incapace di questuare se non tenendo la mente altrove. Un uomo abbastanza giovane si ciucciava disperatamente la bocca sdentata. Tristram fu d'un tratto sgomitato da un faceto sacco di stracci di sesso maschile emanante un robusto afrore di cane vecchio. «Come la va?» domandò a Tristram. Per poi soggiungere, accennando verso l'untuoso effluvio di stufato: «Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè.» Nessun altro sorrise. Una giovane donna informe dai capelli come lana scardassata disse a un'orientale ricurva e prostrata: «Toccato molla pischello pe' strada, pure. Gnela facevo portallo più.» Sventurati vagabondi.
Un tizio rossiccio in uniforme ma senza berretto, mani sui fianchi e braccia scomodamente piegate innanzi onde mettere adeguatamente in mostra i suoi tre galloni, fattosi sulla soglia e squadrata la coda con aria compassionevole disse: «La schiuma della terra, la feccia dell'umanità.» E poi: «Bene. Dentro. Con calma, senza spingere. Ce n'è per tutti, anche per i più brutti. Su, avanti.» La coda si fece innanzi a spintoni. All'interno, sulla sinistra, tre uomini in sudicia tenuta bianca da cuoco si schieravano armati di mestoli sopra fumanti calderoni di stufato. Sulla destra un soldato semplice in giubba di gran lunga troppo abbondante distribuiva sbatacchiando gamelle e cucchiai dai riflessi opachi. Durante lo scodellamento delle rispettive razioni i codaioli più famelici si abbaiavano sbavando, per poi schiaffar zampe sudice a protezione della preda mentre puntavano barcollando verso le schiere di tavoli. Tristram aveva mangiato il giorno prima, ma la collera mattutina gli aveva stuzzicato un appetito vorace. Il locale imbiancato a calce, rozzamente funzionale, era pieno di risucchi, di sciacquii, d'un tremulo acciottolio di cucchiai. Assatanato dal fragrante vapore, Tristram divorò lo stufato in pochi secondi. Ora aveva più fame di prima. L'uomo al suo fianco prese a leccare la gamella vuota. Essendosi ingozzato con eccessiva avidità, qualcuno aveva vomitato sul pavimento. «Che spreco» disse qualcun altro. «Che maledetto vergognoso spreco.» Una seconda porzione sembrava da escludersi. Né era possibile sgattaiolare fuori per rimettersi in fila: il sergente con le mani ai fianchi se ne stava piantato sulla soglia, vigile. Di fatto l'uscita appariva totalmente preclusa.
Si aprì una porta diagonalmente opposta all'ingresso e comparve un uomo in divisa nel fiore della mezza età. Indossava il berretto, era tirato a lucido, spazzolato, lisciato, provvisto di fondina e di tre stellette da capitano. Inforcava occhiali montati in acciaio, fornitura militare, benevolmente luccicanti. Alle spalle gli stava un tipo tarchiato bigallonato con portablocco a molla sottobraccio. Stupito e speranzoso, Tristram vide che oltre alle stellette il capitano portava una borsa grigia garbatamente tintinnante al ritmo del suo passo. Denaro? Dio benedica l'esercito. Dio strabenedica l'esercito. Il capitano incedette fra i tavoli osservando, valutando, e il caporale gli trotterellò appresso. Giunto al tavolo di Tristram «Tu» disse il capitano, raffinato nell'inflessione, a un biascicante vecchio dalla chioma incolta. «Forse un tosheroon, diciamo, potrebbe farti comodo.» Frugò nella borsa e con rattenuto disprezzo gettò sul tavolo una moneta lucente. Il vecchio fece l'antico gesto di portar la mano alla fronte. «Tu» disse il capitano a un affamato giovanotto paradossalmente molto grasso. «A te magari servirebbe un prestito. Denaro dello Stato, scevro da interessi, restituibile in sei mesi. Facciamo due ghinee?» Il caporale presentò il portablocco dicendo: «Firma qui.» Il giovane, vergognoso, confessò di non saper scrivere. «Una croce, allora» lo consolò il caporale. «Poi esci da quella porta.» Accennò all'uscio da cui era entrato insieme all'ufficiale. «Ah» fece il capitano a Tristram. «Dimmi tutto di te.» Possedeva un viso straordinariamente privo di rughe, quasi che l'esercito fosse dotato d'un qualche segreto stirafacce; esalava un aroma curiosamente speziato. Tristram obbedì. «Un insegnante, eh? Bene, non dovresti avere alcun motivo di preoccupazione. Quanto facciamo? Quattro ghinee? Forse ti si potrebbe convincere ad accontentarti di tre.» Estrasse dalla borsa le fruscianti banconote. Il caporale protese il portablocco e parve pronto a ficcare una matita copiativa in un occhio a Tristram. «Firma qui» disse. Tristram firmò, tremulo, con la stessa mano che aggranfiava le banconote. «Ora esci da quella porta» accennò il caporale.
Il passaggio non sembrava affatto condurre all'esterno. Immetteva invece in una specie di corridoio lungo e largo, imbiancato a calce e odoroso di colla, in cui un branco di straccioni apostrofavano con fare sdegnato un giovane sergente dall'aria abbacchiata. «Prendersela con me non serve a niente» disse costui con acuta e serrata inflessione nordista. «Non passa giorno che non venga qui gente a sfogarsi con me come se fosse colpa mia, e mi tocca ripetere sempre che io non c'entro un guacchio. Un bel niente» tradusse guardando Tristram. «Nessuno vi ha costretto» argomentò rivolto agli astanti «a fare quello che avete appena fatto, sbaglio? Alcuni - cioè i vecchi - hanno avuto un regalino. Invece voi avete ottenuto un prestito. Che vi sarà decurtato dalla paga un tanto a settimana. Se non li volevate, i soldi dello Stato, bastava non prenderli, bastava non firmare. È stata una scelta del tutto volontaria. Libera come l'aria.» Tristram sentì il cuore precipitargli nelle brache per poi rimbalzar di slancio a fiondarglisi in gola.
«Che significa?» domandò. «Cosa succede?» Vide con gran sorpresa intruppata nel gregge anche la madama grigiosporco, dritta come un fuso con un'alterigia da gran signora. «Questo individuo» gli spiegò lei «ha la sfacciataggine di sostenere che ci siamo arruolati nell'esercito. Mai udita una tale insensatezza. Io nell'esercito. Una donna della mia età e condizione.»
«Scommetto invece che te la caverai benissimo» replicò il sergente. «Di solito le preferiscono un pizzico più giovani, ma probabilmente svolgerai un ottimo lavoro accudendo le ausiliarie. Devi sapere che le donne soldato» spiegò garbatamente a Tristram, come se Tristram fosse il più ignorante del mazzo, «sono chiamate ausiliarie.»
«È vero?» domandò Tristram sforzandosi di serbare la calma. Il sergente, che dava l'idea d'un giovane ammodo, annuì con aria mesta. «Glielo dico sempre» disse «alla gente di non firmare nulla senza prima averlo letto. Quel foglio che ha di là il caporale Newlands porta scritto in cima che ti sei arruolato spontaneamente in ferma volontaria e ti vincola a prestar servizio per un periodo di dodici mesi. È stampato piccino piccino, ma volendo avresti benissimo potuto leggerlo.» «Ci teneva sopra il pollice» disse Tristram.
«Io non so leggere» disse il giovane grasso.
«Be', chi è causa del suo mal pianga se stesso» sentenziò il sergente. «Comunque t'insegneranno a leggere, stai tranquillo.»
«Ma è assurdo» protestò la dama grigia. «Ridicolo. È un vero scandalo, una vergogna. Andrò immediatamente a restituirgli il loro immondo denaro e a dirgli senza mezzi termini che cosa penso di loro.»
«Brava, così si fa!» esclamò il sergente in un empito d'ammirazione. «Già ti vedo nell'ufficio di compagnia a dargli il fatto loro. Farai faville, farai. Sarai quella che chiamano una vera vecchia virago.»
«Un'ignominia, ecco cos'è.» E col piglio di una vera vecchia virago si diresse alla porta.
«Quel che è fatto è fatto» decretò il sergente con filosofia. «E quel che è firmato è firmato. Di riffa o di raffa, vi hanno incastrato. Ma dodici mesi non sono poi tanti, nevvero? A me mi hanno convinto a firmare per sette anni. Che bischero che sono stato. Che coglione» tradusse per Tristram. «Detto in confidenza, però,» confidò a tutti «ci sono molte più possibilità di promozione per chi si arruola volontario. Ohibò, eccola che gliele canta» disse porgendo l'orecchio. Giungevano nitidi, dal refettorio, gli accenti indignati della dama grigia. «Faville, farà.» Poi: «Di qui a poco imporranno la coscrizione obbligatoria, stando al capitano Taylor. E rispetto a quelli un volontario si troverà in posizione completamente diversa. Com'è giusto che sia.»
Tristram scoppiò a ridere. Proprio accanto alla porta c'era una sedia, e vi sedette per ridere meglio. «Soldato semplice Foxe» disse ridendo, senza riuscire a trattener le lacrime.
«Bravo, così si fa!» esclamò il sergente in un empito d'approvazione. «Questo è il vero spirito dell'esercito. Sempre sorridere è il mio motto, meglio ridere che spararsi un colpo alla tempia. Bene» disse, rilassato in posizione di riposo, annuendo mentre facevano il loro ingresso altri vagabondi abbindolati per due soldi. «Adesso appartenete all'esercito. Tanto vale far buon viso.» Tristram continuava a ridere. «Prendete esempio da lui.»
Parte Quinta
1
«Sussi sissi biribissi» dichiarò Derek Foxe prima a uno poi all'altro degli sbavanti ridacchianti gemellini. «Bìbbidi bòbbidi bàbbidi bu» tubò al suo piccolo omonimo per poi, scrupolosamente imparziale, somministrare identico gloglottio al minuscolo Tristram. Scrupolosamente imparziale d'altronde lo era sempre, come potevano testimoniare i suoi subalterni al Ministero della Fecondità; persino Loosley, degradato a un livello infimo della gerarchia, ben difficilmente - malgrado stesse ora cercando di dimostrare che Derek era omosessuale - avrebbe potuto parlare di ingiustizia. «Bingo bango bongo» chiocciolò Derek in duplice esemplare titillando con due dita i gemellini; che nel frattempo, gorgogliando come pesci, al sicuro nel loro recinto, afferrati al parapetto con le manucce grassottelle si producevano in una energica pedalata. Il solo minuscolo Tristram affermò, con upanishadica veemenza: «Da da da.» «Ah!» fece Derek convinto. «Dobbiamo averne altri, molti, molti altri.»
«Per mandarli nell'esercito a farsi ammazzare?» disse Beatrice-Joanna. «Neanche per sogno.»
«Oh, quello...» Allacciate le mani dietro la schiena Derek compì, qual capitano sul cassero della sua nave, un breve periplo del salotto. Poi tracannò il caffè tutto d'un fiato. Era un salotto spazioso; tutte le stanze dell'appartamento con vista sul mare erano spaziose. Di questi tempi c'era spazio in abbondanza per individui al livello di Derek, per le loro mogli o pseudomogli, per i loro figli. «A tutti quanti, uomini e donne, sarà data una possibilità. Per questo dobbiamo averne molti altri.»
«Sciocchezze» ribatté Beatrice-Joanna, che spaparacchiata sulla vellutata morbidezza di un massiccio divano rosso violaceo lungo quasi due metri e mezzo sfogliava l'ultimo numero di Shik, una rivista di moda piena zeppa di foto. I suoi occhi notarono che, secondo i dettami parigini, di giorno andava la crinolina; per la sera erano de rígueur audaci scollature; particolarmente lascivi erano i cheong-sam di Hong Kong con quattro spacchi. Sesso. Guerra e sesso. Pallottole e pupe. «Ai vecchi tempi» rifletté «mi avrebbero detto che ho già superato la mia quota. Adesso invece il tuo Ministero mi dice che non l'ho ancora raggiunta. Roba da matti.»
«Quando saremo sposati,» disse Derek «sposati con tutti i crismi, intendo, forse la penserai diversamente.» Si portò a passi felpati dietro il divano e la baciò sulla nuca, vellichio di lanugine dorata, delicata nel debole sole. Un gemello, forse il minuscolo Tristram, emise in sincronia, come beffarda colonna sonora, un'insolente pernacchietta. «Allora» soggiunse Derek scherzoso «potrò veramente cominciare a parlare di doveri coniugali.»
«Quanto manca?»
«Circa sei mesi. A quel punto saranno trascorsi due anni dall'ultima volta che l'hai visto.» Le baciò di nuovo la nuca deliziosa. «Il periodo fissato dalla legge per dichiarare l'abbandono.»
«Continuo a pensare a lui» disse Beatrice-Joanna. «Non posso evitarlo. Due notti or sono ho fatto un sogno. Ho visto Tristram con assoluta chiarezza, che vagava per le strade e mi chiamava.»
«I sogni non significano nulla.»
«E poi c'è la questione di Shonny, che dice di averlo visto a Preston.»
«Subito prima del ricovero, poveraccio.»
«Povero, povero Shonny.» Beatrice-Joanna riversò sui gemelli uno sguardo di disperata tenerezza. Shonny non aveva retto alla perdita dei suoi bambini e alla slealtà del suo Dio. Gli aveva dato di volta il cervello, e adesso declamava lunghe liturgie di propria invenzione - in una cella dell'ospedale di Winwick, presso Warrington, Lancashire - tentando di masticare lenzuola benedette. «Non posso fare a meno di pensare che abbia peregrinato per tutto il paese alla mia ricerca.»
«Abbiamo agito per il meglio» disse Derek. «Onestamente, credevi forse di poter campare d'aria, tu e i bambini? Ho detto spesso, e lo ripeto ancora, che l'atteggiamento più misericordioso è immaginare Tristram morto e mangiato da un bel pezzo. Tristram è finito, non esiste più. Siamo noi due il futuro.» Chino su di lei sorridente, sicuro di sé, sereno, elegante, pasciuto, pareva l'immagine stessa di un gran bel futuro. «Santi numi» esclamò, senza angustiarsi. «Che ore saranno?» Un orologio sulla parete opposta - stilizzato sole d'oro circonfuso da una chioma di raggi fiammeggianti - glielo rivelò umilmente. «Debbo scappare» dichiarò, senza affrettarsi. E poi, più placido che mai, le sussurrò all'orecchio: «Mica vorresti sul serio che le cose fossero diverse, vero? Insieme a me sei felice, vero? Dimmelo che sei felice.»
«Sì, sono felice.» Ma il sorriso che le fiori sulle labbra era fragile, esangue. «È solo che... mi piacerebbe che fosse davvero tutto a posto, ecco.»
«Certo che è tutto a posto. Appostissimo.» La baciò in piena bocca con un trasporto che non pareva certo preludere a un commiato, tuttavia le disse: «Ora debbo veramente scapicollarmi. Mi aspetta un pomeriggio intenso. Sarò a casa verso le sei.» Non dimenticò i gemelli: li baciò entrambi sulla zucchetta lanuginosa vezzeggiandoli con un'ultima sfilza di moine. Un saluto accennato con la mano, un sorriso, e cartella sottobraccio uscì: l'auto ministeriale lo attendeva dabbasso.
Dopo circa tre minuti Beatrice-Joanna volse in giro per la stanza un'occhiata diciamo pure furtiva per poi appropinquarsi in punta di piedi all'interruttore che azionava il Daily Newsdisc, nerolucente come una frittella di liquirizia sul mandrino a parete. Non riusciva a spiegarsi del tutto quella lieve sensazione di colpa per il fatto di voler nuovamente ascoltare le notizie del giorno: in fondo, il Daily Newsdisc - ormai solo uno dei numerosi organi d'informazione privati, uditivi, audiovisivi e persino (come nel caso del Settimanuale) tattili - era lì appunto a disposizione per eventuali riascolti. Ciò che faceva prudere il tronco cerebrale a Beatrice-Joanna era la sensazione che nelle notizie, ultimamente, ci fosse qualcosa di insincero, qualcosa di scaltro e implausibile di cui Derek e quelli come lui erano (ridendosela sotto i baffi) perfettamente a conoscenza, ma che non volevano rendere noto a quelli come lei. Vediamo un po' se le riusciva di trovare una crepa nell'intonaco troppo levigato che...
«... Secessione della Cina dall'Unrus e dichiarazione dell'intenzione cinese - fatta a Pechino dal Primo Ministro Poh Su Jin - di creare una federazione indipendente di Stati definita Ta Chung-kuo in lingua mandarina e anglicizzata in Uncin. V'è già notizia di indizi di intenzioni aggressive tanto verso l'Unrus quanto verso l'Unang, come testimoniano incursioni su Kultuk e Borzya e ammassamenti di truppe di terra a sud di Canton. Esistono segnali evidenti, riferisce il nostro osservatore sull'atollo di Midway, di una prossima annessione del Giappone. Mettendo a nudo il fianco occidentale dell'Unang...» Beatrice-Joanna fece tacere la maniacale voce sintetica. Che mucchio di stupidaggini. Se il mondo fosse stato davvero sull'orlo di un conflitto si sarebbe parlato di aerei in volo, di convogli di navi da guerra, e non solo di eserciti in marcia con semplici armi leggere; senza dubbio vi sarebbero stati segni premonitori della riesumazione di uno di quegli antichi ma efficaci ordigni nucleari capaci d'incenerire un'intera provincia. E invece nulla di tutto ciò. Quell'Esercito Britannico improvvisato l'anno prima e adesso opportunamente sostituito, nel mantenimento dell'ordine pubblico, da poliziotti in divisa turchina, era semplice fanteria con un ridottissimo appoggio di reparti specializzati; sulle riviste e nei cinegiornali si vedevano i soldati salire a bordo di navi trasporto truppe - in partenza, si diceva, per esercitazioni sulle Isole Annesse o per interventi di polizia in sacche di dissidenza - inalberando i pollici agli obiettivi con ghigni parzialmente dentati, il fior fiore del britannico ardimento.
Beatrice-Joanna si era quasi convinta di essere convinta di aver visto una sera alla stereotivú proprio in quell'appartamento, in penombra sullo sfondo del primo piano di un giocondo milite pollice recto, un volto a lei ben noto. «Assurdo» aveva naturalmente commentato Derek, disteso in vestaglia magenta. «Se Tristram fosse nell'esercito ci sarebbe il suo nome nell'Archivio Militare. Dimentichi a volte che sono suo fratello e ho certi doveri. Ho consultato l'Archivio Militare e non ne sanno nulla. Ti ho già detto, e ti ripeto, che l'atteggiamento più misericordioso è immaginare Tristram morto e mangiato da un bel pezzo.» Eppure...
Premette un cicalino elettrico su un pannello irto d'interruttori e pulsanti; comparve quasi all'istante, inchinandosi convulsamente, una gaia (gaia come un soldato) ragazza bruna in nera tenuta da domestica di fintaseta. Era una graziosa orchestrina di razze e si chiamava Jane. «Jane,» disse Beatrice-Joanna «prepara per favore i gemelli per la passeggiatina.» «Sì, certo, signora» rispose Jane, e spinse il recinto a rotelle attraverso il folto tappeto verdemare, chiocciando e facendo smorfie ai due marmocchi sgambettanti.
Beatrice-Joanna andò in camera per apprestarsi anche lei alla camminata pomeridiana. La sua toletta sciorinava in bell'ordine un'intera farmacia di creme e unguenti; i suoi armadi a muro traboccavano di abiti interi e a due pezzi. Aveva donne di servizio, due incantevoli figli, un avvenente pseudomarito sulla cresta dell'onda (sottosegretario di coordinamento al Ministero della Fecondità e tra non molto, si vociferava, Ministro), tutto quel che l'amore poteva dare e il denaro comprare... Malgrado ciò non pensava di essere davvero felice. Nel profondo della sua mente si proiettava uno sbiadito film che le mostrava di tanto in tanto vacillanti sequenze di cose passate. Chiamata spesso fiorellino da Derek (e ancor prima da Tristram), fosse stata davvero un fiore sarebbe appartenuta alla classe Diandria. Nella sua vita aveva bisogno di due uomini, le sue giornate dovevano essere condite d'infedeltà.
Aperto un intagliato cofanetto in legno di canforo ne trasse una lettera scritta il giorno innanzi; esalava un profumo delizioso, misto di cinnamomo e sandalo. Prima di decidersi a spedirla la rilesse da cima a fondo per la settima o ottava volta. Diceva:
«Mio caro, carissimo Tristram, ci sono stati tali cambiamenti in questo pazzo mondo, tante di quelle strane cose sono accadute dal momento della nostra infelice separazione, che nulla di quanto potrei dire qui avrebbe molto senso per entrambi tranne il fatto che mi manchi e ti amo e muoio dalla voglia di rivederti. Adesso vivo con Derek, ma non pensare male di me per questo: dovevo pur dare una casa ai tuoi due figli (sì, credo sinceramente che siano proprio figli tuoi). Forse hai già cercato di scrivermi, forse - anzi, ne sono convinta - hai cercato di metterti in contatto con me, ma so bene quanto è stata difficile la vita. Tuo fratello è stato con me di una gentilezza squisita e penso che mi ami davvero, ma qualunque lettera tu possa scrivermi presso di lui temo che non mi giungerebbe mai. Lui deve pensare alla sua preziosa carriera, e un uomo con figli ha molte più probabilità di essere nominato Ministro della Fecondità rispetto a un uomo senza, così almeno dice lui. Ricorderai che quando stavamo insieme andavo ogni giorno a fare una passeggiata sul lungomare, non lontano dal Palazzo del Governo. Be', lo faccio ancora tutti i pomeriggi, portando a spasso i miei due figli in carrozzina, dalle tre alle quattro. Guardo il mare e prego ogni giorno che il mare ti riporti a me. Adesso è questa la mia speranza. Ti amo, e mi spiace di averti ferito. Torna dalla tua Beattie che sempre ti ama.»
Ripiegato il foglio l'infilò in una busta di ottima qualità delicatamente profumata. Impugnò poi un'elegante matita copiativa e indirizzò la busta, con la sua marcata grafia mascolina, a Egregio Signor Professor Tristram Foxe, Esercito Britannico. Nell'eventualità remota che... Comunque non c'era altro modo. Quanto all'Archivio Militare... Derek doveva essere estremamente influente oppure un gran bugiardo; lei stessa un pomeriggio, dopo aver visto quel cinegiornale in tivù, aveva telefonato di nascosto al Ministero della Guerra (l'apparecchio di casa era un'estensione del centralino ministeriale), e dopo un interminabile rimpallo da una sezione all'altra era entrata finalmente in comunicazione con una vocetta scozzese che aveva ammesso di essere l'Archivio Militare precisando tuttavia freddamente che per motivi di sicurezza nessun privato cittadino poteva essere portato a conoscenza della dislocazione delle truppe. Beatrice-Joanna aveva specificato che non le interessava affatto, in primo luogo, una cosa complicata come la dislocazione; la sua era una richiesta più basilare, più ontologica. La vocetta aveva inflessibilmente riattaccato.
Derek era rincasato sorridente alle sei e sorridendo aveva voluto sapere come mai lei avesse telefonato all'Archivio Militare. Non credeva dunque al suo pseudomarito? Non si fidava di lui? Proprio questo era il punto: non si fidava. Menzogna e slealtà si può perdonarle a un amante, ma difficilmente a un marito, sia pure pseudo. Questo comunque non glielo disse. L'amore di lui le sembrava ancora appassionato e senza remore, e ciò la lusingava, ma quel genere d'amore lo preferiva in un amante.
Insieme ai gemelli in carrozzina uscì quindi nel marino sole invernale, la piccola bambinaia nerovestita al seguito chiocciante e tutta occhioni e sorrisoni ai gorgoglianti ometti nei loro caldi indumenti in lana, e imbucò la lettera in una cassetta cilindrica col cocuzzolo imbiancato dagli escrementi dei gabbiani. Era come affidare un messaggio in bottiglia al mare, quel gran postino ritardatario.
2
«Sgnor!» ringhiò il sergente maggiore di reggimento Backhouse con una terrificante contorsione della mascella. «7388026 sergente Foxe T. Sgnor!» Tristram entrò risoluto con una sorta di balzo e salutò goffamente. Il tenente colonnello Williams sollevò dalla scrivania uno sguardo mesto; il suo brunastro aiutante, in piedi dietro di lui, fece una smorfia di dolore.
«Sergente Foxe, eh?» disse il tenente colonnello Williams. Era un bell'uomo stanco e ingrigito che portava al momento sgraziati occhiali da lettura. Dava l'idea di essere in servizio da tempo, ma si trattava ovviamente di un'impressione illusoria: tutti i soldati di tutti i nuovi eserciti erano novellini. Il tenente colonnello Williams, comunque, al pari di tutti gli ufficiali anziani, proveniva da quella vecchia forza di polizia liberale quasi completamente soppiantata dai grigiazzi; era stato un colto Sovrintendente alla Sezione Speciale. «Foxe con la 'e', vedo» soggiunse. «Come l'autore del Libro dei martiri.»
«Sissignore» confermò Tristram.
«Bene,» disse il tenente colonnello Williams «c'è questa faccenda dei limiti delle sue competenze in qualità di sergente istruttore.»
«Sissignore.»
«I suoi compiti sono, ritengo, abbastanza chiari. Lei li ha, secondo quanto riferito dall'aiutocommissario Bartlett, adeguatamente espletati. Lei ha svolto un buon lavoro nella classe degli analfabeti, per esempio. Lei ha, inoltre, insegnato aritmetica elementare, redazione relazioni, uso del telefono, geografia militare e questioni generali.»
«Sissignore.»
«Il problema nasce appunto da tali questioni generali. Giusto, Willoughby?» Sollevò lo sguardo verso l'aiutante che, intento a scaccolarsi, smise di scaccolarsi e annuì vivacemente. «Ordunque, vediamo. Pare che lei abbia intrattenuto con gli uomini conversazioni d'un certo genere. Qualcosa tipo 'Chi è il Nemico?' e 'Perché combattiamo?' Suppongo che vorrà ammetterlo.»
«Sì, signore. A mio parere, gli uomini hanno tutto il diritto di interrogarsi sul perché prestino servizio nell'esercito e che cosa...»
«Un soldato» lo interruppe stancamente il tenente colonnello Williams «non ha diritto di avere opinioni. A ragione o a torto, così è stabilito. A ragione, immagino, dal momento che è stabilito.»
«Ma, signore,» disse Tristram «non v'è dubbio che noi si debba sapere in che cosa siamo coinvolti. Ci viene detto che è in corso una guerra. Alcuni uomini, signore, rifiutano di crederlo. E sono personalmente propenso a trovarmi d'accordo con loro, signore.»
«Davvero?» disse freddamente il tenente colonnello Williams. «Bene, consenta allora che io la illumini, Foxe. Si combatte, quindi dev'essere in corso una guerra. Non sarà forse una guerra nell'antica accezione del termine, ma sarei portato a ritenere che guerra e combattimento siano, dal punto di vista organizzativo, in quanto coinvolgono eserciti, praticamente sinonimi.»
«Ma, signore...»
«Al tempo, Foxe, non ho finito. Per quanto riguarda le due questioni del chi e del perché, lei dovrà necessariamente accettare come inconfutabile la mia asserzione circa il non trattarsi di materie che riguardino i soldati. Il nemico è il nemico. Il nemico è il popolo contro il quale combattiamo. Quale sia nello specifico tale popolo è decisione che dobbiamo lasciare ai nostri governanti. Essa non compete a lei né a me né al soldato Marmittoni né al caporale Pincopallino. Tutto perfettamente chiaro sin qui?»
«Ma, signore...»
«Perché combattiamo? Combattiamo perché siamo soldati. Piuttosto semplice, no? Per quale causa combattiamo? Altrettanto semplice. Combattiamo per proteggere il nostro paese e, in senso più ampio, l'intera Unione Anglofona. Da chi? Non è affar nostro. Dove? Ovunque ci mandino. Confido, Foxe, che adesso le sia tutto perfettamente chiaro.»
«Be', signore, quel che...»
«Lei sbaglia di grosso, Foxe, a seminare turbamento fra gli uomini istigandoli a pensare e inducendoli a far domande.»
Esaminò mugolando il foglio che aveva davanti. «Suppongo che tutto quanto concerne il nemico, il combattimento e così via desti in lei, Foxe, notevole interesse, sbaglio?»
«Be', signore, secondo me...»
«Le daremo dunque l'opportunità di un contatto ravvicinato. Buona idea, vero, Willoughby? Lei approva, sergente maggiore? La sollevo dai suoi compiti educativi, Foxe, con effetto dalle dodici di oggi. Sarà trasferito dalla Compagnia del Quartier Generale a una compagnia fucilieri. È la Compagnia B, giusto, Willoughby?, a necessitare di un sergente di plotone. Bene, Foxe. Ne trarrà gran giovamento, giovanotto.»
«Ma, signore...»
«Saluto!» berciò il sergente maggiore di reggimento Backhouse, già sergente di polizia. «Dietro... front! Avanti... marsch!» Tristram uscì - sinist-dest-sinist-dest - furibondo e preoccupato. «Meglio che ti presenti subito» gli consigliò il sergente maggiore di reggimento in un più fraterno, cameratesco tono.
«Che intendeva» domandò Tristram «parlando di contatto ravvicinato? A cosa alludeva?»
«Mi sa che intendeva esattamente quel che ha detto» rispose il sergente maggiore di reggimento. «Mi sa che qualcuno fra poco alzerà i tacchi. Non ci sarà tempo d'insegnargli l'abbicci e le tabelline, proprio no. Bene, sergente, vai pure.»
Un Tristram dall'incedere tutt'altro che militaresco deambulò sino all'ufficio di compagnia della B traendo dal pavimento di metallo faville e suon di squille cogli stivali. L'Isola Annessa B6 era un manufatto di limitata superficie all'ancora nell'Atlantico Orientale che, originariamente destinato ad accogliere eccedenze di popolazione, dava attualmente ricetto, senza sprechi di spazio, a una brigata. Uniche visibili presenze naturali un malevolo cielo invernale e tutt'intorno, di là dal parapetto, l'acido mare grigio. Onnipresente sconfinato dualismo ambientale che rendeva grato all'individuo il volgersi all'interno, verso la vacua disciplina, il puerile addestramento, il tiepido odore stantio delle camerate e degli uffici. Tristram penetrò nell'area della Compagnia B, si presentò al sergente maggiore di compagnia uno stupido gigante nordico dalla bocca molle - e fu quindi ammesso alla presenza del capitano Behrens, comandante della compagnia in questione. «Bene» disse il capitano Behrens, un leucodermico grassone con capelli e baffi nerissimi. «Ora la compagnia è quasi al completo. Farà bene a presentarsi senza indugio al signor Dollimore, il suo nuovo comandante dì plotone.» Tristram salutò, per poco non cadde nell'eseguire il dietrofront, e proseguì. Trovò il tenente Dollimore, un garbato giovanotto con occhiali da minorato e una blanda acne rosacea, impegnato a impartire al suo plotone una lezione di terminologia fucilistica. Dei fucili, come Tristram ben sapeva, si era fatto ampio uso nelle antiche guerre preatomiche; organizzazione, vocabolario, procedure, armamento di questo nuovo Esercito Britannico sembravano tutti usciti da vecchi libri e vecchi film. Fucili compresi. «Ecco il cane» indicò il signor Dollimore. «No, chiedo venia, questo è il percussore. Otturatore... Questo come si chiama, caporale?»
«Dente di arresto del cane, signore.» Un tracagnotto bigallonato di mezz'età seguiva la scena sull'attenti fungendo, come ora, da suggeritore e aiutante.
«Sergente Foxe a rapporto, signore.»
Il signor Dollimore osservò con scarso interesse l'eccentrico saluto di Tristram e lo ricambiò con un bizzarro allomorfo di sua creazione: un rapido svolazzar di dita in fronte a mo' di pendaglio giullaresco. «Bene,» disse «bene, bene.» Un fiotto di ebete sollievo gli animò il volto. «Terminologia» disse. «Continui lei.»
Tristram scrutò perplesso il plotone. Trenta uomini - trenta espressioni vacue o ridanciane - se ne stavano accovacciati al riparo di una baracca-dormitorio. Li conosceva quasi tutti: molti gli erano stati affidati perché impartisse loro qualche elementare rudimento educativo; in gran parte erano ancora analfabeti. Nell'intera brigata dell'Atlantico Orientale la bassa forza consisteva in delinquenti rimasti a secco, ragazzi di strada, degenerati sessuali, farfuglianti derelitti, mentecatti. Tuttavia, per quanto riguardava la nomenclatura delle componenti del fucile, lui e loro occupavano più o meno il medesimo livello conoscitivo. «Benissimo, signore» disse Tristram; poi, astuto: «Caporale.»
«Sergente?»
«Continua tu.» Tristram si mise al passo col signor Dollimore, avviatosi in direzione della mensa ufficiali. «Francamente, cosa pensa di cavarne da quella gente, signore?»
«Da quella gente? Be', non è che si possa cavarne granché, vero?» Il signor Dollimore rivolse a Tristram un'occhiata sospettosa. «In pratica è previsto solo che imparino a sparare col fucile in dotazione. E... a curare l'igiene personale, ovviamente, per quanto possibile.»
«Che cosa succede, signore?» domandò Tristram piuttosto bruscamente.
«Che significa 'che cosa succede'? Succede semplicemente quel che ho detto.» Marciarono sollevando clangori metallici e facendo sprizzar scintille sul ponte - esposto ai rigori dell'inverno atlantico - della desolata isola costruita dall'uomo.
«Volevo sapere» insisté Tristram tenendo a freno l'impazienza «se ha sentito dir nulla circa la nostra entrata in azione.»
«Azione? Azione contro chi?» Il signor Dollimore arrestò la marcia per meglio squadrare Tristram.
«Contro il nemico.»
«Ah, capisco.» Il tono usato dal signor Dollimore sembrava insinuare che esistessero avversari diversi dal nemico contro i quali si poteva entrare in azione. Tristram si sentì accapponare la pelle alla spaventosa sensazione che il signor Dollimore fosse ritenuto sacrificabile; se era sacrificabile lui, figuriamoci il suo sergente di plotone. In quel momento, essendo mezzogiorno in punto, una gracchiante registrazione scaturì sibilando dagli altoparlanti, una tromba sintetica strombazzò il suo angelus, e il signor Dollimore disse: «Non ci avevo proprio pensato. Credevo che la nostra azione consistesse in questo, sul serio. Pensavo che fossimo dislocati qui con funzione protettiva.»
«Sarà meglio andare a leggere gli Ordini di Battaglione» disse Tristram. Un attendente di fureria li stava appunto affiggendo - desolate bandiere bianche che garrivano al vento dell'Atlantico - mentre loro si avvicinavano alle baracche prefabbricate (risuonanti dei campanelli delle macchine per scrivere) del Quartier Generale di Battaglione. Tristram annuì torvo, leggendo più in fretta dell'ufficiale. «Dunque ci tocca» disse. «Ah, ecco, ma guarda» si stupì il signor Dollimore scorrendo le consegne a bocc'aperta. «Che c'è scritto lì? Ah, sì, certo.» Era tutto là, vivace e fresco come lattuga anche se meno digeribile. Un ordine di trasferimento proveniente dalla Brigata: un contingente di seicento fra ufficiali e soldati - duecento per ciascun battaglione - doveva adunarsi per l'imbarco alle 6.30 del mattino seguente. «Sì, sì» confermò il signor Dollimore infervorato. «Ci siamo anche noi, vede?» Indicò tutto giulivo neanche fosse salito agli onori della cronaca. «Ecco... Secondo Battaglione, Compagnia B.» Poi, a sorpresa, si mise goffamente sull'attenti e disse: «Sia ringraziato Iddio che ci ha chiamati all'estremo cimento.» «Prego?» fece Tristram.
«Se dovessi morire, solo questo pensate di me» disse il signor Dollimore. Era come se parte delle sue letture scolastiche fosse consistita in una raccolta dei versi iniziali di famose poesie. «Avete rubato, disse loro,» disse «avete scannato e ucciso .»
«Così siamo più in tema» disse Tristram nonostante una lieve vertigine. «Siamo molto più in tema.»
3
Udirono il trasporto giunger per mare ululando a mezzanotte. Gli uomini erano stati spediti a nanna alle dieci rimpinzati di cacao e manzo in scatola: non prima di averli assoggettati a un'ispezione a fucili e piedi, averne sanato le carenze di vestiario ed equipaggiamento, averli riforniti di una considerevole quantità di munizioni. A seguito della morte accidentale di tre soldati per colpi d'arma da fuoco e il ferimento superficiale in regione glutea del sergente maggiore di compagnia della Compagnia QG, tale fornitura venne revocata in quanto prematura: la truppa avrebbe ricevuto i proiettili - rigorosamente riservati al nemico - al campo base del porto di sbarco.
«Ma chi è questo dannato nemico?» domandò il sergente Lightbody per l'ennesima volta. Stava disteso supino nella cuccetta sopra quella di Tristram, la testa adagiata sulle mani intrecciate, un bel giovane beffardo con mascella alla Dracula. Seduto, le ginocchia sotto le coltri, Tristram scriveva una lettera a sua moglie. Era certo che non l'avrebbe ricevuta, com'era certo che non avesse ricevuto l'altra trentina e passa che le aveva inviato, ma scriverle era come innalzare una preghiera, una preghiera per giorni migliori, per una vita normale, per le oneste comuni consolazioni della casa e dell'amore. «... Partiamo domani per trasferirci in zona operativa. Dove, lo sa Dio. Sarai, stanne certa, come sempre nei miei pensieri. Presto saremo di nuovo insieme, forse prima di quanto pensiamo. Con tutto il mio amore. Tristram.» Scrisse il nome di lei su una modesta busta presa allo spaccio e vi rinchiuse la lettera. Scribacchiò poi sull'involucro l'immancabile nota d'accompagnamento: «Carogna che ti definisci mio fratello, dalla a mia moglie, ipocrita bastardo scellerato. Con tutto il mio inestinguibile odio. T.F.» Indirizzò una seconda busta esterna a D. Foxe, Palazzo del Governo, Brighton, Grande Londra, abbastanza sicuro che Derek, da opportunista voltagabbana qual era, si sarebbe mantenuto ben saldo in sella chiunque fosse al potere. Dietro questa guerra, se di guerra si trattava, con ogni probabilità c'era Derek. La definizione di 'nemico' fornita dal comandante era sbagliata. «Lo sai cosa penso?» disse il sergente Lightbody dopo che Tristram si fu dato una soddisfacente risposta alla prima domanda pur evitando di renderla esplicita a parole. «Penso che non ci sia nessun nemico. Penso che appena saremo a bordo della nave trasporto quelli l'affonderanno. Penso che gli sganceranno addosso un po' di bombe e ci ridurranno tutti in briciole. Ecco cosa penso.»
«Non c'è nessun aereo da bombardamento» replicò Tristram. «Gli aerei da bombardamento non esistono più. Sono spariti tutti da un sacco di tempo.» «Li ho visti nei film» eccepì il sergente Lightbody.
«Film vecchissimi. Film sulle guerre del ventesimo secolo. Quelle antiche guerre erano molto complesse e macchinose.»
«Ci sventreranno coi siluri.»
«Altra tecnica obsoleta» ribatté Tristram. «Anche le navi da guerra non esistono più.»
«D'accordo» disse il sergente Lightbody. «Gas velenosi, allora. In un modo o nell'altro, quelli ci distruggeranno. Non faremo a tempo a sparare nemmeno un colpo.»
«È possibile» ammise Tristram. «Quelli non vorranno certo danneggiare le nostre uniformi o l'equipaggiamento o addirittura la nave.» Poi si riscosse e domandò: «Ma chi diavolo intendiamo quando diciamo 'quelli'?»
«Ovvio, avrei dovuto pensarci» disse il sergente Lightbody. «Con 'quelli' intendiamo la gente che s'ingrassa fabbricando navi e divise e fucili. Facendoli e distruggendoli e rifacendoli. Vanno avanti così all'infinito. È quella gente lì che fa le guerre. Patriottismo, onore, gloria, difesa della libertà... un mucchio di balle, ecco cosa sono. Il fine della guerra sono i mezzi impiegati in guerra. E il nemico siamo noi.»
«Nemico di chi?»
«Di noi stessi. Tieni a mente le mie parole. Non vivremo abbastanza da vederla, ma dobbiamo aspettarci un'epoca di guerra senza fine... senza fine perché la popolazione civile non sarà coinvolta, perché la guerra si svolgerà adeguatamente lontano dal mondo civile. Ai civili la guerra piace.»
«Soltanto finché possono continuare a fare i civili, immagino» osservò Tristram.
«Alcuni di loro ci riusciranno... quelli che governano e quelli che traggono profitto dalla guerra. E le loro donne, ovviamente. Non certo le povere stronze che combatteranno al nostro fianco... ammesso, s'intende, che quelli siano tanto gentili da lasciarci vivi finché non sbarchiamo.»
«Da quando mi sono arruolato» disse Tristram «di ausiliarie non ne ho vista neanche l'ombra.»
«Ausiliarie? Tutte balle anche lì. Battaglioni di donne, questo ne hanno fatto, interi reggimenti, maledetti loro. Lo so perché ho una sorella arruolata, e ogni tanto mi scrive.»
«Non lo sapevo» disse Tristram.
«A sentir lei sembra che facciano quasi le stesse cose che facciamo noi. Tutta la dannata trafila, insomma, tranne esercitarsi a sparare. Stanno lì a segnare il passo finché non gli molleranno una bomba in testa, a quelle povere stronze.»
«Ti preoccupa molto» domandò Tristram «l'eventualità di essere ucciso?»
«Non più di tanto. Meglio esser colti di sorpresa. Non mi piacerebbe starmene a letto in attesa della morte. A pensarci bene» disse il sergente Lightbody rannicchiandosi come in una bara «questa storia del 'Lasciatemi morir come un soldato' ha parecchio a suo favore. Vivere serve solo a scegliere quando morire. Essendo la scelta così difficile, la vita è tutta un lungo rimandare. È un sollievo immenso non dover scegliere.» Muggì in lontananza la nave trasporto, come a deridere quei triti aforismi.
«Io voglio vivere» disse Tristram. «Ho tante cose per cui vivere.» La nave trasporto muggì di nuovo. Non svegliò gli altri quattro sergenti che condividevano l'alloggio; uomini rudi, inclini a sfottere Tristram per il suo accento e la sua garbata mostra d'erudizione, Tonfavano adesso dopo una bella bisboccia a base di alc. Il sergente Lightbody non disse altro e cadde ben presto in un sonno lieve, tranquillo, come si fosse assicurata una deliziosa porzione d'oblio. Ma Tristram si trovava in un letto estraneo dentro una baracca estranea, il letto del sergente Day (congedato per decesso da botulismo) cui egli era subentrato. Per tutta la notte la nave trasporto continuò a mugghiare come se, affamata del suo carico di sacrificabili, riluttasse ad attendere l'ora di colazione, e Tristram, rigirandosi fra le lenzuola sudice, non poté far altro che ascoltarla. Guerra senza fine. Il concetto lo lasciava perplesso. Non lo credeva possibile, non se la legge dei cicli storici aveva una qualche validità. Forse, in tutti quegli anni, gli storiografi non erano stati disposti ad ammettere la natura spiraliforme della storia perché una spirale è alquanto difficile da descrivere. Più facile invece fotografare la spirale dall'alto, più facile appiattire la molla in una serpentina. Era dunque la guerra, dopotutto, la grande soluzione? Avevano visto giusto quei primi rozzi teorici? La guerra come grande afrodisiaco, copiosa fonte di adrenalina per il mondo intero, soluzione al tedio, all'Angst, alla malinconia, all'accidia, allo spleen! La guerra come immenso atto sessuale culminante in una detumescenza che non era una morte soltanto metaforica? La guerra, infine, come suprema regolatrice, ordinatrice, eliminatrice, giustificatrice della fecondità?
«Guè», ululò la nave trasporto truppe nella baia di metallo. E, rivoltandosi nel sonno profondo, «Guè», implose il Tonfante sergente Bellamy. In tutto il mondo, in quel preciso momento, milioni di neonati inneggiarono al loro primo travagliato incontro con l'aria esterna berciando «Guè». Tristram sbadigliò, e il suo sbadiglio fu «Guè». Pur essendo spaventosamente stanco non riusciva a prender sonno, a dispetto della ninnananna («Guè», su tanti strumenti diversi) che lo attorniava. La notte, comunque, non durò molto a lungo; divenne arbitrariamente mattina alle quattro antimeridiane, e Tristram fu ben lieto di non dover patire il tormento dei colleghi sergenti che rientravano gementi nel mondo maledicendo di non poter tornare all'incoscienza mentre la tromba sintetica si scatenava per tutto il campo annunziando la sveglia.
4
Scintille nella tenebra mattutina sulla strada fuori della camerata mentre il primo plotone vi si riversava, colpi di tosse, scatarrii, bestemmie centocinquanta centimetri sopra le scintille. Il caporale Haskell schizzò il bagliore di una minuscola torcia sull'elenco nominativo impugnato dal suo sergente. Tristram, in elmetto d'acciaio e pesante pastrano raglan di taglio antiquato, chiamò i nomi nel vento:
«Christie.»
«Ècchime.»
«Crump.»
«Squagliato.»
«Gashen. Howell. Mackay. Muir. Talbot.» Diversi uomini risposero, alcuni in modo osceno. «Meglio contarli» decise Tristram. Il caporale Haskell sollevò il raggio sottile della torcia su ciascun trio di facce rivelando una serie di ceffi decapitati, orripilanti apparizioni nella tenebra atlantica. «Ventinove, sergente» relazionò il caporale
Haskell. «O'Shaughnessy s'è sparato l'altra notte.»
«Plotone 'ttenti» propose Tristram. «Muovere a destra a gruppi di tre. Per fila sinistra avanti marsch.» L'ordine venne interamente seppur caoticamente eseguito. Il plotone si mosse sollevando scintille, convergendo a sinistra, convergendo a destra, fermandosi alla meno peggio sulla linea riservata alla compagnia. Gli altri plotoni giunsero maldestramente alla spicciolata col fuoco alle calcagna fra uno sbraitar di ordini, e sbucarono per prender posto i comandanti di plotone. Comparve infine il capitano Behrens, lattiginoso spettro in impermeabile ufficializio, per guidare la compagnia sino alla piazza d'armi del battaglione. Ove, in uno sfavillio di lampade ad arco neanche si trattasse di una sfarzosa parata notturna, fu celebrata messa dal cappellano del battaglione, sbadigliante e rabbrividente nel compiere le sue riverenze dinanzi all'altare a baldacchino. C'era pane per la transustanziazione (abbondante raccolto, l'anno prima) ma non ancora vino: il calice accolse, in sua vece, dell'alc aromatizzato al ribes nero. Il cappellano, uno spilungone dall'aria afflitta, benedisse i soldati e la causa di cui si facevano paladini; qualche soldato ricambiò ironicamente la benedizione.
Colazione, e soverchiando sgranocchiamenti e succhiamenti il comandante affidò agli altoparlanti il suo discorso di commiato. «Dovrete combattere un nemico malvagio e senza scrupoli in difesa di una nobile causa. So che vi coprirete di glo di glo di glo di glo craaaaaark tornare vivi e perciò vi auguro buon viaggio e che tutta la fortuna del mondo sia con voi.» Peccato, pensò Tristram sorbendo surrogatè nella mensa sottufficiali, peccato che un disco incrinato dovesse incrinar l'immagine di quell'uomo forse sincero facendolo sembrare tanto cinico. Un sergente di Swansea, Provincia Occidentale, si levò da tavola e con pregevole voce tenorile cantò: «Copritevi di ria... di riaa... di riaaa!»
Alle 6 antimeridiane la quota di contingente fornita dal battaglione, ritirato quanto restava della razione quotidiana, marciò - con zaino, bardature, borraccia, elmetto, fucile, tutte le giberne (eccetto quelle di ufficiali e sottufficiali) vuote a scanso d'incidenti - sino al molo. La nave trasporto truppe attendeva, scarsamente illuminata ma col nome inondato di luce: NTT3(ATL) W.G. Robinson Londra. Odor di mare, di nafta, di cambuse sudice, marinai mercantili in maglione a collo alto che sputavano dal ponte superiore; l'improvvisa comparsa di uno sguattero sbraitante che gettò rifiuti fuori bordo; l'insensato lamentoso ululio della sirena. Tristram osservò la scena mentre rotte le righe ciondolavano in attesa: coreografia di ombre violente, imballaggi, incastellature, gli uomini delle comunicazioni affrettantisi in postazione, i soldati che in piedi o accoccolati già scartocciavano le loro razioni (manzo tra spesse fette di pane). Il signor Dollimore, discosto dagli altri ufficiali subalterni, levava di tanto in tanto il guardo al cielo buio quasi la gloria estrema dovesse giungergli di lassù. Il tripartito contingente giunse a completamento: altra truppa in marcia fra pernacchie, acclamazioni e dita ambiguamente divaricate in vittoriosi andate-a-pigliarvelo. Comparve il comandante di brigata, un maggiore agghindato come per una lezione di equitazione, salutato e salutante. Nuvole di vapore da bocche blateranti come in un dialogo a fumetti. Incessante rifornimento di nafta pompata via tubazione col boccaglio attaccato a guisa d'aspide al petto della nave. Un sergente maggiore di un altro battaglione si tolse l'elmetto per grattarsi una crapa oscenamente pelata. Due soldati si scazzottavano per gioco uggiolando giulivi. Un capitano d'imponente statura si grattava accanitamente l'inforcatura. La sirena della nave fischiurlava. A un caporale sanguinava il naso. Si accese improvvisamente di gaie luminarie come un albero di Natale la passerella coperta. Da alcuni militi si levò un gemito. «Attezziode» gracidò soffocata e denasalizzata una voce dall'altoparlante. «Attezziode. Haddo idizio le operaziodi d'ibbarco. Ibbarcatevi id ordide duberico di battagliode.» Prendendo posto sullo sfondo della nave rollante gli ufficiali strillarono ordini e invocazioni. Tristram fece cenno al caporale Haskell. Tra tutti e due riuscirono a schierare il plotone, fra moccoli e cachinni, perpendicolarmente alla murata. Il signor Dollimore, strappato a fantasticherie d''Inghilterra lontana' e 'onore un nome', fece la conta con le labbra e con le dita. I primi a salire a bordo furono i sei plotoni del primo battaglione; a un uomo sfuggì il fucile che cadde in mare fra esternazioni di giubilo; un maldestro semideficiente incespicò innescando una reazione a catena che per poco non mandò a gambe all'aria tutti quelli che lo precedevano. Nel complesso, però, l'imbarco filò liscio. Venne la volta del secondo battaglione, primo plotone in testa. Tristram accompagnò i suoi uomini a un ponte alloggio truppa provvisto di ganci per amache (amache da rimuoversi per far luogo a tavoli mensa); malgrado la bisbigliante immissione d'aria fredda stagnava sulle paratie un velo umidiccio. «Io in quelle trappole non ci dormo» dichiarò Talbot reso edotto circa le amache. «Piuttosto mi sdraio per terra, garantito.» Tristram uscì in cerca del suo alloggio.
«Scommetto una cosa» disse il sergente Lightbody sgravandosi dello zaino. «E cioè che chiuderanno i boccaporti o come diavolo li chiamano in marina. Vedrete. Non ci lasceranno salire in coperta. Topi in trappola, porco Demodio.» Si distese con aria piuttosto soddisfatta sul basso ripiano di una cuccetta inferiore. Dalla tasca crurale dell'antiquata uniforme da campo estrasse un libro stazzonato. «Rabelais» disse a Tristram. «Conosci questo antico scrittore? 'Jem'en vais chercher un grand peut-ètre.' Lo disse sul letto di morte. 'Vado a cercare un grande forse.' Anch'io. Tutti quanti. 'Calate il sipario, la farsa è finita.' Anche questo disse.»
«È francese, vero?»
«Francese, sì. Gruppo lingue morte.»
Sospirando, Tristram s'inerpicò sulla cuccetta superiore. Altri sergenti - gente più sterpigna, forse più stupida - cominciavano già a giocare a carte; in un gruppo litigavano persino per un presunto errore nella distribuzione. «Vogue la galère!» esclamò la voce del sergente Lightbody. La nave non obbedì immediatamente, ma tempo circa mezzora si udì un rumore metallico segnalante che venivano mollati gli ormeggi, e poco dopo la pulsazione costante del motore, simile a un registro d'organo da venti metri. Come preconizzato dal sergente Lightbody, a nessuno fu concesso di salire in coperta.
5
«Ma il rancio quando arriva, sergente?»
«Niente rancio, oggi» rispose Tristram paziente. «Avete avuto le vostre razioni, ricorda. Però potete mandare qualcuno in cambusa a prendere del cacao.»
«Le ho mangiate» disse Howell. «Ho spazzolato tutto quand'aspettavamo di salire a bordo. È un sopruso vergognoso, glielo dico io. Ci hanno fatto mezzi morir di fame, maledizione, e ci hanno presi per i fondelli, dannazione, e ci hanno mandati a farci ammazzare, porco mondo.»
«Ci hanno mandati a combattere il nemico» rettificò Tristram. «Avremo anche noi l'occasione di sparare, stai tranquillo.» Aveva dedicato gran parte della mattinata forzatamente sottocoperta a pulir la sua pistola, un'arma di ottima fattura che, pensando di trascorrere la ferma in qualità di pacifico istruttore, non si sarebbe mai aspettato di dover utilizzare. Cercò d'immaginare l'espressione sorpresa di qualcuno che stramazzava colpito a morte da quella pistola; immaginò una faccia esplodere in una tumultuosa marmellata di prugne, lineamenti ridotti in poltiglia da cui si cancellava la sorpresa e qualunque altra emozione; immaginò se stesso, dentiere e lenti a contatto e tutto il baccellaio, divenuto all'improvviso un uomo che compiva l'azione da uomo di uccidere un altro uomo. Chiuse gli occhi e sentì il dito premere delicatamente il grilletto della pistola che aveva in mente; la faccia sorpresa che gli stava innanzi era quella di Derek; la faccia di Derek che in un sol colpo, con un colpo solo, diventava un budino alla marmellata appollaiato in cima a una giacca alla moda. Dischiudendo lentamente le palpebre, Tristram si rese conto immediatamente di come doveva apparire ai suoi soldati: volto contratto in un'espressione feroce in cui spiccavano gli occhi ridotti a due fessure e il ghigno da assassino... un esempio per tutti loro.
Ma gli uomini erano irrequieti, scontrosi, annoiati, inclini a fantasticare, tutt'altro che in vena di cruente brame. Sedevano in giro col mento fra le mani, i gomiti sulle ginocchia, lo sguardo assente, la testa fra le nuvole. Si scambiavano fotografie mentre qualcuno suonava il più malinconico degli strumenti, un'armonica a bocca. E c'era chi cantava:
Torneremo a casa
Ritorneremo sì
Presto verrà il giorno
Che noi saremo lì D'inverno o primavera All'alba o verso sera...
Riguadagnata la cuccetta, meditabondo, all'udire quella canzoncina malinconica Tristram si sentì scuotere da un brivido. Gli parve di esser stato trasportato d'improvviso in un tempo e un luogo mai prima visitati, un mondo scaturito da libri e film, indescrivibilmente antico. Kitchener, napoo, Bottomley, artiglieria pesante, contraerea, zeppelin, Bing Boys... le parole, fragranti e dolorosamente evocative, si sovrapponevano alla canzone come un discanto.
... Fermati dunque e aspetta
Al cancello del giardino
Sinché la mia nave in fretta
Colmando il suo cammino
Da te mi porterà: per sempre accanto Vivrem né più vagar dovrà il mio canto...
Giacque pietrificato, respirando a fatica. Non si era verificata quella che gli antichi scrittori di fantascienza definivano 'distorsione temporale': questo era davvero un film, questa era davvero una commedia, e loro vi erano dal primo all'ultimo coinvolti. Era tutta una finzione, qualcuno li stava usando come personaggi di un proprio sogno.
... Lui farà ritorno, Noi farem ritorno, A casa tornerò.
Con un volteggio saltò giù dalla cuccetta. Scosse il sergente Lightbody. «Dobbiamo andarcene» ansimò. «C'è qualcosa di sbagliato, qualcosa di malvagio.»
«È tanto che cerco di dirtelo» replicò senza scomporsi il sergente Lightbody. «Ma non possiamo farci niente.»
«Ohè, silenzio, perdio» protestò un sergente che cercava - in mare il tempo non passa mai - di dormire.
«Non capisci» lo incalzò Tristram continuando a scuoterlo. «È malvagio perché inutile. Se vogliono ammazzarci perché non lo fanno e basta? Cos'aspettano? Perché non ci hanno eliminati sulla B6? Ma non è questo che vogliono. Vogliono che continuiamo a illuderci...»
«A illuderci di poter scegliere» disse il sergente Lightbody. «Sono propenso a darti ragione, ora. Credo che questa illusione si protrarrà alquanto. Non troppo, mi auguro.»
«Ma perché, perché?»
«Forse perché abbiamo un governo convinto della necessità che c'illudiamo tutti di possedere il libero arbitrio.»
«Pensi che la nave sia davvero in movimento?» Tristram si mise in ascolto. I motori continuavano a imitare un registro d'organo, dando sollievo al ventre come un cataplasma caldo, ma era impossibile dire se... «Non lo so. E non m'importa.»
Fece il suo ingresso il sergente di giornata, un giovanotto foruncoloso con dentatura cavallina e un collo che pareva un groviglio di cavi. Portava un berretto e una fascia al braccio che indicava il suo ruolo. «Che succede lassù?» domandò Tristram.
«E come faccio a saperlo? Ne ho bestialmente piene le tasche di questa solfa.» Si frugò in tasca. «Non sono mica un postino.» Esibì con malgarbo una manciata di lettere. Lettere? «Come 'nnavessi abbastanza, di rotture. Il comandante è un vero bastardo. Ecco qua» disse, gettando il fastello nel bel mezzo di una partita a carte. «Un bel morir tutta la vita onora.»
«Dove le hai trovate?» si accigliò perplesso il sergente Lightbody.
«In fureria. Dice che le ha sganciate un elicottero.» Ci fu un piglia piglia. «Proprio ora che m'era capitata una mano decente...» uggiolò un giocatore.
Una per lui, una per Tristram. La prima, primissima, letteralmente la prima lettera in assoluto da quando s'era arruolato. Era di cattivo auspicio? Faceva parte del film? Riconobbe la grafia; gli nacque una danza in cuore. Si sdraiò sulla cuccetta, debolissimo e tremante, per aprirla, sudando, con un dito frenetico. Sì, sì, sì, sì. Era proprio sua, di lei, della sua amata... fragranza di sandalo, aroma di cinnamomo. Mio caro carissimo Tristram, cambiamenti nel pazzo mondo, accadute strane cose, infelice separazione, nulla posso dirti tranne mi manchi, ti amo, voglia di rivederti... La lesse quattro volte, poi gli parve di smarrire i sensi. Tornato in sé si accorse che continuava a stringerla... Prego ogni giorno il mare ti riporti a me. Ti amo e mi spiace averti ferito. Torna dalla tua... Sì, sì, sì, sì. Voleva vivere. Doveva vivere. Alla facciaccia loro. Scese tremando dalla cuccetta, poggiò i piedi sul ponte, aggrappato alla sua lettera come alla paga settimanale. Poi senz'alcuna vergogna s'inginocchiò, chiuse gli occhi, giunse le mani. Il sergente Lightbody lo fissò a bocc'aperta. Uno dei giocatori disse: «Quel povero coglione fa due chiacchiere col comandante.» Poi svelto e abile distribuì le carte.
6
Altri tre giorni nel ventre della nave, luce elettrica incessante, palpitar di motori, paratie grondanti umidità, ronzio di ventilatori. Uova sode a colazione, fette di pane e manzo a pranzo, torta all'ora del tè, formaggio e cacao per cena, stitichezza (novella angustia quotidiana) alle latrine della truppa. Finché, un sonnacchioso pomeriggio, sirena da sopra e controsirena da molto lontano, quindi il pesante stridente sdipanarsi di un miglio di catena d'ancora, infine la voce del sergente maggiore di bordo sprigionata dall'impianto di fonodiffusione: «Sbarco ore 17, refezione con tè ore 16, adunata sui ponti alloggio truppa in pieno assetto operativo ore 16.30.»
«Lo sentite quel rumore?» domandò il sergente Lightbody tutto aggrondato porgendo l'orecchio verso sinistra.
«Cannoni?»
«Sembrerebbe.»
«Già.» Esalando da chissà quale obliata scaturigine, frammenti di una vecchia canzone spiraleggiarono attraverso il cervello di Tristram: «Mentre a Loos facevam la nostra parte, te la spassavi fra donnine e bere: niente sbronze per noi, solo il dovere.» (Dov'era Loos e cosa ci facevano?) «Riportami alla cara vecchia Blighty, mettimi sul treno per...» (Blighty era una ferita che consentiva il rimpatrio, no? Una ferita desiderabile, dunque, non meno dell'Inghilterra; Inghilterra e ferita diventavano tutt'uno. Tragico destino umano). Propensi alla mestizia, membri del suo plotone canticchiavano il sentimentale ritornello:
... Da te mi porterà: per sempre accanto Vivrem né più vagar dovrà il mio canto...
Tristram continuava a masticare e rimasticare l'asciutta torta ai semi aromatici distribuita insieme al tè; gli toccò quasi cacciar giù il bolo con un dito. Esaurito il tè indossò il pastrano, che con quella fila di bottoni metallici schierati da cima a fondo sul davanti gli dava l'aspetto di un uomo disegnato da un bambino, e il basso elmetto d'acciaio, simile a una vaschetta per uccelli capovolta. Sollevò e indossò lo zaino, mise il tascapane a tracolla; agganciò le giberne e suscitò dalla pistola il freddo schiocco di un colpo a vuoto. In men che non si dica, soldato da capo a piedi, fu pronto per il plotone e il signor Dollimore. Raggiunto il dormitorio in quel momento adibito a mensa vi trovò già il signor Dollimore che diceva: «Questa vecchia nazione che tanto amiamo. Farem per essa del nostro meglio, vero ragazzi?» Di là dalle lenti i suoi occhi eran tutti un brillio, madida la fronte al pari delle paratie. Gli uomini del plotone distolsero imbarazzati gli sguardi. Improvvisamente Tristram provò per loro un grande affetto.
All'apertura dei portelli l'aria marina si riversò gelida all'interno. Tramite l'impianto di fonodiffusione il sergente maggiore di bordo prese a snocciolare in tono apatico l'ordine di sbarco. Tristram ebbe tempo di far due passi sul ponte. Oscurità, rare lampade, funi, gomene, scaracchianti marinai in maglione, freddo pungente, tonfi sordi e fragori da terra, lampi d'esplosioni. «Dove siamo?» domandò Tristram a un marinaio dalla faccia piatta. L'interpellato scosse il capo e disse di non parlare inglese: «Ying kuo hua, wopu tung.» Cinese. Il mare sibilava, muggiva, bramiva, parlava anche lui la lingua di un mare straniero. Straniero? Chissà.
Un plotone dopo l'altro le truppe trotterellaron giù per l'erta passerella in un trapestio di massicci scarponi. Molo buio puzzolente di nafta. Poche lampade, come vigesse una limitata disposizione d'oscuramento. Gli uomini delle comunicazioni gironzolavano provvisti di portablocchi. I poliziotti militari bighellonavano a coppie. Un maggiore con mostrine rosse e posticcio accento aristocratico sghignazzava tamburellandosi sul fianco uno sfollagente rivestito in cuoio. Il signor Dollimore venne convocato, assieme ad altri ufficiali subalterni, a una breve riunione presso alcune baracche. Dall'entroterra rombo d'artiglierie pesanti, sibilo di proiettili, diffuso balenio, tipica messinscena da film di guerra. Un ignoto capitano dai baffoni falcati arringava con enfatici gesticolii un signor Dollimore a boccaperta e i suoi colleghi. Che fine avevan fatto i capitani della brigata? Tristram, inquieto, si rese conto che fra le loro file non c'era più nessuno di grado superiore a tenente. Proprio così. Il capitano Behrens si era limitato a guidare la compagnia alla nave. Solo tenenti e gradi inferiori, dunque, erano ritenuti sacrificabili. Di ritorno, il signor Dollimore annunciò con un certo affanno che dovevano mettersi in marcia per il campo base, un miglio all'interno.
Così fecero, guidati dall'ignoto capitano, un plotone dopo l'altro. Si levò nella tenebra, sommesso, il canto dei soldati.
Torneremo a casa
Ritorneremo sì
Presto verrà il giorno
Che noi saremo lì D'inverno o primavera All'alba o verso sera...
Illune la sera precoce. I lampeggianti bagliori svelavano alberi sfrondati come sagome sceniche su entrambi i bordi della strada massicciata. Un territorio privo di case e spoglio di siepi. Ma il caporale Haskell disse: «Questo posto lo conosco. Ci giurerei. C'è qualcosa nell'aria. Di dolce. Kerry o Clare o Galway. In tempo di pace la costa occidentale me la sono fatta tutta» spiegò, quasi in tono di scusa. «Viaggiatore di commercio, sai com'è. Questo pezzo d'Irlanda lo conosco come le mie tasche. Piovoso ma tanto dolce, non so se rendo l'idea. Quindi è coi pirlandesi che ci tocca combattere. Bene. Sempre pronti a litigare. Però non è che ti portino rancore. Prima ti spaccano la testa, poi t'incerottano.»
In prossimità del campo base presero a marciare al passo. Recinzione in filo spinato, pilastri in cemento, cancello malfermo e cigolante aperto da una sentinella. Baracche illuminate. Scarsa attività. Passa un uomo cantando, reca tazze di tè sormontate da fette di torta in bilico. Malinconico sordo acciottolio di desco che s'apparecchia in una casupola con la scritta MENSA SOTTUFFICIALI, odore di frittura in grasso non abbastanza caldo. Fu impartito l'alt alla colonna; un plotone dopo l'altro venne ordinato agli uomini di seguire i caporali in scarpette da ginnastica (boriosi come lo è in genere il personale degli acquartieramenti) sino alle camerate loro assegnate; i sergenti furono condotti ad alloggi sommamente inospitali: al soffitto un'unica nuda fioca lampadina da accampamento di transito, per il decubito polverosi pagliericci privi d'intelaiatura essudanti ciuffi di capòc e senza coperte supplementari, una sudicia stufa spenta. Faceva loro da guida un allampanato sergente maggiore d'ordinanza. «Dove siamo?» domandò Tristram. «Campo Base 222.» «Sì, lo sappiamo, ma dove?» L'altro per tutta risposta succhiò fra i denti e se ne andò.
«Ascolta» disse il sergente Lightbody, fermo sulla porta insieme a Tristram dopo che si furono sbarazzati dell'equipaggiamento. «Noti niente di strano nel rumore di quelle detonazioni?»
«Ce n'è così tanti di rumori.»
«Lo so, ma ascolta bene. Viene di laggiù. Dada ramp, dada ramp, dada ramp. Lo senti?»
«Mi sembra di sì.»
«Dada ramp, dada ramp. Cosa ti ricorda?»
«È un ritmo molto regolare, vero? Capisco quel che vuoi dire: troppo regolare.»
«Esatto. Non ti ricorda un po' il discorso di commiato del comandante?»
«Santo cielo» disse Tristram sbigottito. «Un disco incrinato. È mai possibile?»
«Possibilissimo. Potenti amplificatori. Lampi al magnesio. Guerra elettronica, guerra da cabina di regia. E i nemici, poveri diavoli, sentono e vedono le stesse cose.» «Dobbiamo scappare» disse Tristram tremante.
«Impossibile. Sei in trappola qui come lo eri sulla nave. Recinzione elettrificata, sentinelle con l'ordine di sparare senza far domande. Ci toccherà andare fino in fondo.»
Raggiunsero comunque insieme la rete metallica alta più di tre metri e mezzo. Un lavoro a maglia quanto mai robusto. Tristram rischiarò il terreno umido con la torcia in dotazione al plotone. «Guarda» disse. Nel gracile fascio luminoso giaceva il corpicino di un passero, carbonizzato come su una graticola. Sopraggiunse immediatamente un caporale mingherlino senza berretto, col bavero della giubba sbottonato, dondolando una tazza da tè vuota. «Via di là, ragazzi» intimò con arroganza da personale di campo. «Elettrico è. Un fottio di volt. T'abbrustolisce che neanche col cucchiaino.» «Dove siamo, esattamente?» domandò il sergente Lightbody.
«Campo Base 222.»
«Oh, per l'amor di Dio!» sbottò Tristram. «Dove?»
«La cosa non ti riguarda» rispose il caporale con accortezza degna del suo grado. «Dove non significa niente. È solo un pezzo di terra, tutto qui.» Dalla strada fuori del campo si udì provenire un rumor di motori in crescendo. Un autocarro da tre tonnellate sfrecciò via a luci spiegate in direzione della costa, poi un alto, e un altro, un convoglio di dieci. Il caporale restò impalato sull'attenti sinché non furon transitati gli ultimi fanali di coda. «I morti» disse, con placida soddisfazione. «Vagonate di cadaveri. E pensare che soltanto due sere fa qualcuno di loro era qui a far due passi prima di cena come voi e due chiacchiere con me proprio come voi.» Scosse il capo in un simulacro d'afflizione. Il disco lontano ripeteva dada ramp, dada ramp, dada ramp...
7
Il mattino seguente, poco dopo la funzione religiosa, furono informati che sarebbero andati al fronte la sera stessa, essendo imminente un non meglio precisato «spettacolo». Prospettiva che mandò in brodo di giuggiole il signor Dollimore. «Fiato alle trombe sul ricco morto!» citò , con poco riguardo per il plotone.
«Sembra proprio che lei abbia una gran voglia di morire» osservò Tristram intento a pulire la pistola.
«Eh? Come?» Il signor Dollimore si riscosse dal suo repertorio di primi versi.
«Sopravviveremo» disse. «Il crucco avrà quel che merita.»
«Il crucco?»
«Il nemico. Altro nome del nemico. Alla scuola ufficiali» spiegò il signor Dollimore «vedevamo film tutte le sere. E il nemico era sempre il crucco. No, non è esatto. A volte si chiamava Fritz. E a volte Jerry.»
«Capisco. E studiavate anche poesia di guerra?»
«Il sabato mattina. Dopo l'intervallo. Per tener su il morale, diceva il capitano Auden-Isherwood. Era una delle mie lezioni preferite.»
«Capisco.»
Giornata fredda e asciutta con vento polveroso. Filo spinato ad alto voltaggio, cartelli del Ministero della Guerra, paesaggio martoriato al di là della recinzione, non meno deprimente del bilioso Atlantico tutt'intorno alla B6. Ancora schianti e botti in lontananza - spettacolo ventiquattr'ore su ventiquattro, probabilmente con tre turni di caporali al giradischi - ma niente bagliori in cielo. A mezzogiorno un antidiluviano aereo (cavi, montanti, carlinga aperta e smanacciarne aeronauta con gli occhialoni) sorvolò pencolando il campo e via di nuovo. «Uno dei nostri» disse il signor Dollimore al plotone. «La valorosa Aeronautica Règia.» Desinare a base di manzo e disiverdura reidratata; un paio d'ore sul pagliericcio; all'ora del tè pasta di pesce e monotortine alla frutta di Arbuckle. Poi, mentre il sole naufragava in mare - celeste padellata di uova strapazzate - avvenne la consegna delle munizioni prelevate nel magazzino di fureria, assieme a una scatoletta di manzo e a un grigio tozzo di pane di mais pro capite. La lattina recava un'etichetta in cinese le cui parole chiave erano:
Vedendole Tristram sogghignò; qualunque allocco era in grado d'interpretare il secondo, biforcuto ideogramma (per i cinesi l'essenza dell'uomo era dunque la biforcazione?) se aveva una sorella che lavorava in Cina. A proposito, che ne era stato di lei? E di suo fratello in America? In undici mesi aveva ricevuto una sola lettera, una soltanto, da una persona cara, ma quella persona era la più cara di tutte. Picchiettò il taschino nel quale il pegno d'amore riposava al sicuro. Shou Jên, eh? La traslitterazione in caratteri latini era chiaramente riportata in fondo all'etichetta. Polposa, tenera, ben cotta carne d'uomo.
Al crepuscolo si schierarono in assetto di marcia: borracce colme, baionette inastate, elmetti d'acciaio mascherati con fodere per elmetti d'acciaio. Ad assumere il comando della formazione comparve, provenendo da un altro battaglione, il signor Salter, di fresca promozione a capitano pro tempore e un tantino imbranato nella nuova veste. A quanto pare gli avevano scritto le disposizioni del caso su un pezzetto di carta. Nessuna guida a far loro da battistrada. Diede dunque ordine, con voce un po' stridula, che muovessero a destra per tre, e Tristram, muovendosi, rilevò sorpreso, per la prima volta, quell'anacronismo. Nella guerra delle origini non avevano, forse, marciato per quattro? Ma essenza della guerra moderna sembrava essere un'eclettica semplicità: bando alla pignoleria eccessiva. Lasciarono il campo marciando al passo. Non si ebbero beneauguranti sventolii di mano da nessuno tranne la sentinella, che a rigore avrebbe comunque dovuto salutarli col fucile. Eseguirono una conversione a mancina e, dopo un quarto di miglio, ruppero il passo. Nessuno cantava, stavolta, però. La selva di baionette inastate pareva un aculeato bosco di Bimani. Frammezzo a scoppi, scariche, schianti - più ampiamente intervallati di prima, stante l'indiscutibile sostituzione del disco fesso - si poteva udire lo sciabordio dell'acque sciaguattanti in borraccia. Lampi violenti imbragiavano la volta celeste. Su ambo i versanti della direttrice di marcia nere sagome d'arborei cadaveri si stagliavano tetre nelle fiammate repentine.
Marciarono attraverso una borgata, un terrificante artificioso guazzabuglio di macabre rovine, e uscitine da poche centinaia di metri ricevettero l'alt. «Adesso dovete mingere» ordinò il capitano Salter. «Rompete le righe.» Ruppero le righe; anche i più tordi compresero in fretta cosa volesse dire quella parola inusitata: una complice atmosfera di calda intimità avvolse la strada affratellata dal torrentizio pispillio. Rientrarono nei ranghi. «Molto vicini ormai siamo alla prima linea» avvertì il capitano Salter «e vulnerabili al cannoneggiamento nemico.» («Fregnacce» pensò Tristram.) «Procederemo in fila, costeggiando il lato sinistro della strada.» Da tre corde a una corda, come un pianoforte con la sordina. Il contingente si assottigliò in un'unica lunga sfilza, e la marcia riprese. In capo a un altro miglio giunsero, sulla sinistra, a quella che sembrava una villa diroccata. Il capitano Salter compulsò il suo cartaceo lacerto all'incerto chiarore di un lampo, come a verificare che fosse il civico giusto. Evidentemente soddisfatto entrò baldanzoso dall'ingresso principale. Il lungo rigagnolo gli tenne dietro. Destò interesse in Tristram lo scoprire che avevano imboccato una trincea. «Che strana casa è questa» brontolò un uomo, quasi avesse affé sua creduto che li avessero invitati lì a cena. Era null'altro che un guscio vuoto, tipo un elemento scenico per uso cinematografico. Tristram accese la torcia plotonica puntandola al suolo - buche, un groviglio di cavi, l'improvviso sgattaiolar di una bestiola dalla lunga coda - e immediatamente udì: «Smorza quella maledetta luce.» Voce autoritaria che lo indusse all'obbedienza. Lungo l'interminabile teoria fioccavano fitti gli avvertimenti - «Buca... Cavo...» - in un ampio assortimento di albionici accenti. Tristram avanzò incespicando alla testa della prima sezione del suo plotone, prendendo lucida nozione della montatura ogni qual volta sbocciavano in cielo i fuochi d'artificio (perché quello erano, non poteva trattarsi d'altro). Non avrebbero dovuto esserci una linea di riserva, una linea di rincalzo, sentinelle alle banchine di tiro, fumo e fetore scaturenti dai ricoveri scavati sui fianchi della trincea? L'intero labirinto pareva invece completamente deserto, nessuno a far gli onori di casa. D'improvviso voltarono a dritta. Si udirono in testa gli uomini inciampare e imprecare sottovoce mentre andavano stipandosi entro i ripari.
«Il nemico» sussurrò timoroso il signor Dollimore «è a un centinaio di metri appena. Laggiù.» Indicò, magnificamente illuminato da una gran fiammata, in direzione della terra di nessuno o comunque si chiamasse. «Dobbiamo appostare delle sentinelle. Una ogni quaranta o cinquanta metri.»
«Senta, tenente» disse Tristram. «Chi comanda qui? Noi cosa siamo? Da che parte stiamo?»
«Povero me, quante domande.» Al chiarore di un nuovo fuoco d'artificio, il signor Dollimore volse su Tristram uno sguardo mite.
«In altre parole,» insisté Tristram «siamo rinforzi per truppe già presenti in prima linea oppure... Insomma, che cosa siamo? Da dove ci arrivano gli ordini? Che ordini abbiamo?»
«Ascolti, sergente» rispose il signor Dollimore in tono paterno. «Non stia ad angustiarsi per tutti questi gran problemi. Se ne occuperà chi di dovere, non tema. Si assicuri soltanto che gli uomini siano sistemati a modo. Poi disponga le sentinelle, d'accordo?» Continuava nel frattempo l'innocuo fracasso: i giradischi eruttavano senza tregua i loro simulacri di accanimento bellico: gli altoparlanti dovevano essere assai vicini. Luminarie di rara bellezza e intensità zampillavano da terra come fantastiche fontane di petrolio. «Ganzissimo» ammirò un uomo della Provincia Settentrionale sbirciando fuori del suo rifugio.
«Ma a che serve» obiettò Tristram ostinato «collocare sentinelle? Laggiù non c'è alcun nemico. È tutta una messinscena. Fra poco questa trincea salterà in aria e l'esplosione sarà comandata a distanza da qualche vigliacco buzzone di pederasta insediato alla base. Non capisce? È il nuovo sistema, il sistema moderno, per smaltire l'eccesso di popolazione. I rumori sono finti. Le fiammate sono fasulle. Dov'è la nostra artiglieria? Vede nessuna artiglieria dietro le linee? Certo che no. Ha forse visto granate o frammenti di proiettili? Cosa pensa che debba succedere a sbucar con la testa oltre quel parapetto?» Tristram si arrampicò su alcuni sacchetti pieni di terra accuratamente allineati e impilati, evidentemente opera di muratori, e guardò fuori. Vide, momentaneamente illuminata da un fuoco d'artificio, una piatta distesa di terreno con un panorama d'alberi in lontananza e colline ancor più oltre. «Ecco qua» disse, scendendo.
«Avrei una gran voglia» disse tremante il signor Dollimore «di metterla agli arresti. Avrei una gran voglia di degradarla su due piedi. Avrei una gran voglia...»
«Non può farlo.» Tristram scosse il capo. «Lei è solo un tenente. E non può farlo neppure il suo temporaneo capitano Salter. A proposito, mi dica un'altra cosa... dove sono gli ufficiali superiori? Non si trova un ufficiale di stato maggiore neanche a cercarlo col lumicino. Dov'è il comando di battaglione, per esempio? Torno alla domanda precedente: chi è che dà gli ordini?»
«Questa è insubordinazione» dichiarò sconvolto il signor Dollimore. «E anche tradimento.»
«Oh, via, non dica sciocchezze» ribatté Tristram. «Ascolti, piuttosto: è suo dovere rivelare a questi uomini cosa sta accadendo. È suo dovere ricondurli al campo base per impedire che vengano ufficialmente massacrati. È suo dovere cominciare a porre qualche domanda.»
«Non venga a dire a me qual è il mio dovere.» Il signor Dollimore, a sorpresa, sfoderò la pistola. «Mi piacerebbe tanto piazzarle una palla in corpo» minacciò. «Ne avrei tutto il diritto. Lei si è macchiato di allarmismo e disfattismo.» Da come gli tremava la pistola sembrava in preda a un violento attacco di febbre rompi-ossa.
«Non ha nemmeno tolto la sicura» disse Tristram. «Non ne avrebbe il fegato. È capace solo a sparare idiozie. Me ne vado.» Fece dietrofront.
«Oh, no, col cavolo che te ne vai.» E con gran stupore di Tristram il signor Dollimore, tolta evidentemente la sicura, sparò. Detonazione, e il proiettile miagolò ben lungi dal bersaglio andando a conficcarsi senza far danno in un sacchetto di terra. Qualche soldato fece capolino masticando o, interrotta la masticazione, a bocc'aperta per il rumore di un'arma vera.
«Benissimo» sospirò Tristram. «Aspetti e vedrà. Vedrà se ho ragione o no, pezzo d'imbecille.»
8
Ma Tristram aveva ragione solo in parte. Il buonsenso avrebbe dovuto suggerirgli che la sua luttuosa congettura presentava una grave lacuna. Avendo il facente funzione capitano Salter probabilmente raffazzonato una penosa parvenza di comando logistico, fu in quella direzione che mosse tremando il signor Dollimore. Tristram rivolse l'attenzione agli uomini del suo plotone. «Lo sa cos'ho trovato, sergente?» lo interpellò il caporale Haskell. «Un po' di trifoglio d'Irlanda. Il che dimostra senz'ombra di dubbio dove ci troviamo, no?»
«Riesci a immaginare perché mai dovremmo esser qui?» domandò Tristram.
Il caporale Haskell fece una faccia da ranocchio e rispose: «Per combattere contro i pirlandesi, come ho detto. Anche se Dio solo sa perché mai noi si debba combatterli. C'è da sottolineare però che di quanto succede ne sappiam nemmeno la metà, vero? Stando ai notiziari di un paio di settimane fa mi sarei figurato dovesse trattarsi dei cinesi. Forse irlandesi e cinesi hanno fatto comunella.»
Tristram si domandò se fosse il caso di chiarir le idee al caporale Haskell, un brav'uomo tutto casa e famiglia stando alle apparenze. Non mi crederebbero mai. A intonare quel canto era una voce da imberbe ufficialetto qualche metro più in là nella trincea. Alla scuola ufficiali impartivano dunque anche lezioni sulle antiche canzoni di guerra? Tristram si domandò se non gli convenisse subito, bando agli indugi, correre il rischio di svignarsela alla chetichella. Ma nell'ipotesi che l'intera faccenda fosse davvero una micidiale trappola ben congegnata era evidente che non poteva darsi via di scampo dietro le linee. Se mai scampo esisteva, doveva trovarsi dritto innanzi: un balzo ardito oltre il ciglio del fosso e che la sorte ci assista. «Sei proprio sicuro» domandò quindi al caporale Haskell «che questa sia la costa occidentale d'Irlanda?»
«Potrei giurarci.»
«Ma non sapresti precisare esattamente dove.»
«No,» ammise il caporale Haskell «però direi che siam di sicuro a meridione del Connaught. Il che significa che dovrebbe trattarsi della contea di Galway o di Clare oppur di Kerry.»
«Capisco. E come si fa per arrivare all'altra costa?»
«Ferroviando, no? Qui in Irlanda tengono ancora quelle vecchie vaporiere, o per lo meno le tenevano all'epoca che saltabeccavo avantindietro macinando miglia. Vediamo. Se questa è la Kerry allora si può viaggiare da Killarney a Dungarvan. Oppure un poco più a nord si potrebbe ferroviare da Listowel a Wexford passando per Limerick e Tipperary e Kilkenny. Metti invece che stiamo nella Clare...» «Grazie, caporale.»
«Solo che ovviamente non si può, non se siamo in baruffa coi pirlanda. Le taglierebbero la gola appena scuce bocca.»
«Capisco. Grazie comunque.»
«Mica stava pensando di tagliar la corda, vero, sergente?»
«No, no, ci mancherebbe altro.» Tristram svicolò dall'angusto ricovero puteolente ingombro d'uomini ciondolanti e se n'andò a far due chiacchiere con la sentinella più vicina. La sentinella, un giovanotto foruncoloso di nome Burden, disse:
«Mossa laggiù s'è gente, sergente.»
«Dove? Chi?»
«Laggiù.» Accenno d'elmetto d'acciaio verso gli opposti trinceramenti. Tristram stette in ascolto. Cinesi? Si udiva un mormorio di voci piuttosto acute. Il guerresco frastuono su disco s'era alquanto rarefatto. Diamine. Sentì la sua determinazione vacillare. Aveva tappato, toppato di brutto, dunque. C'era davvero un nemico. Ascoltò con maggiore attenzione. «Ratti ratti son venuti avanti e non si muoveva foglia. Addestrati coi controfiocchi proprio sembrano.»
«C'è caso allora che manchi poco» dedusse Tristram.
Come a conferma dell'asserzione giunse per la trincea incespicando il signor Dollimore. Vide Tristram e disse: «Per l'appunto lei. Dice il capitano Salter che la si dovrebbe mettere agli arresti di rigore. Ma dice anche ch'è troppo tardi ormai. Attacchiamo alle 22. Sincronizziamo gli orologi.»
«Attacchiamo? Come sarebbe attacchiamo?»
«Rieccola con le sue domande scimunite. Usciamo all'assalto alle 22 in punto. Ora sono...» controllò «... esattamente le 21.34. Baionette in canna. Abbiamo ordine di conquistare la trincea nemica.» Spiccio, vivace, febbrile.
«Ordine impartito da chi?»
«Ciò non la riguarda. Metta in allerta il plotone. Fucili carichi. Ogni eccezion rimossa, tutti insieme appassionatamente» si pavoneggiò il signor Dollimore con aria di gran sussiego. «Inghilterra» declamò d'un tratto, e nella strozza gli palpitava il pianto. Tristram, null'altro avendo da argomentare date le circostanze, salutò.
Alle 21.40 cadde improvviso il silenzio come uno schiaffo in faccia. «Azz» fecero gli uomini spossessati della familiare colonna sonora. Anche le luci smisero di svampeggiare. Nell'inconsueta oscurità azzittita si poteva udir meglio il nemico tossicchiare, bisbigliare, nei toni lievi d'osteopàrvuli orientali. Alle 21.45 gli uomini si ersero col fiato corto lungo tutta la trincea. Il signor Dollimore, pistola tremolante in pugno, occhi incollati all'orologio da polso, era pronto a guidar la sua trentina (in quell'anonimo cantuccio d'una terra forestiera) all'assalto ardimentoso, dovendo a Dio una morte (che per sempre è Inghilterra). 21.50 e si poteva quasi udir galoppare i cuori, tutti. Tristram non ignorava qual fosse il suo ruolo in quel suicidio incombente: se compito del signor Dollimore era trascinare gli uomini, a lui toccava spingerli: «Muovete le chiappe, furfanti, fuori di qui, canaglie, faccio secco ogni vigliacco.» 21.55: «O Dio degli eserciti» sussurrò il signor Dollimore «da' la tempra dell'acciaio al cuor dei miei soldati.»22 21.56: «Voglio mamma» sbeffrignò un mattacchione londinese. 21.57: «Se invece» ritenne di dover completare il caporale Haskell «fossimo abbastanza a sud potrebbe traversare da Bantry a Cork.» 21.58: Tremolio di baionette. A qualcuno venne il singhiozzo e non la finiva di ripetere: «Pardon.» 21.59: «Ah» dichiarò il signor Dollimore scrutando la lancetta dei secondi come ammirasse un numero del circo delle pulci. «Ci siamo quasi, ci siamo quasi...»
22.00. Argentino stridulio di fatali fischietti trafisse i cuori lungo l'intera linea, e istantaneamente tornò a erompere all'impazzata il bombardamento fonografico. In spasmodici lampi grotteschi si vide il signor Dollimore inerpicarsi allo scoperto agitando la pistola, le fauci divaricate in chissà quale inaudibile grido di battaglia appreso alla scuola ufficiali. «Fuori tutti, pelandroni!» berciò Tristram pungolando i suoi con la pistola, spronandoli a suon di spinte, minacce, pedate. E i soldati si arrampicarono, qualcuno persino con sorprendente agilità. «No, no» scongiurò un ometto nodoso in preda al panico. «Per l'amor di Dio, tesoro mio, non mi ci mandare...» «Fuori anche tu, schifoso!» infierirono le dentiere di Tristram. «Gesù, ci vengono addosso!» strillò da sopra il caporale Haskell. Rabbiosi crepitarono i fucili e sputarono piombo riempiendo l'aria pungente con l'ancor più pungente afrore di pancetta affumicata d'un migliaio d'appicciati zolfanelli. Orribilmente sibilarono i proiettili. Urla agghiaccianti, raccapriccianti bestemmie. Sollevato il capo oltre il parapetto Tristram vide delinearsi sagome nere di corpi stagliati ad affrontarsi in singolar tenzone, movenze ineleganti di gente che belluinamente caricava, stramazzava, sparava, infilzava, proprio come in uno di quei vecchi film di guerra. Osservò distintamente il signor Dollimore indietreggiare (assurdo come al solito: parve che, impegnato in una cadenza ballerina, tentasse a tutti i costi di mantenersi in piedi per continuare a danzare) e poi accasciarsi con la bocca spalancata. Il caporale Haskell fu crudelmente colpito a una gamba; cadde sparando e dischiuse le labbra riuscendo a farsi somministrare non una particola bensì una pallottola che gli disintegrò la faccia. Tristram, un ginocchio sul sacchetto di terra capopila, scaricò selvaggiamente la pistola contro la vacillante avanzata. Era un macello, un reciproco massacro, impossibile mancare un colpo. Tristram ricaricò, adesso infettato lui pure seppur tardivamente dalla febbre del povero trapassato Dollimore, e rinculò carponi in trincea puntellandosi con gli stivali agli interstizi dei sacchetti di terra sino a lasciar fuori del parapetto soltanto l'elmetto, gli occhi, e la mano dispensatrice di morte. Eccolo là, il nemico, finalmente poteva vederlo bene. Razza strana, piccinotta, voluminosa al petto e ai fianchi, grida acute come donne. Cadevano tutti, l'aria era satura d'un fumo appetitoso, del soffio ringhioso delle pallottole. Avvalendosi dell'osservazione consenti a un freddo appartato angolino del suo cervello di comporre un quadro completo, un mosaico ben prefigurato dal Sacro Gioco dell'era pelagiana: fu colto allora dai conati, e il suo ventre respinse al mittente un acido rigurgito di carnea poltiglia. Uno dei suoi uomini lasciato cadere il fucile si girò verso la trincea e artigliò l'aria imprecando con voce strozzata «Oh santissimo diocristo» per poi sprigionar dal petto un disperato gemito nell'istante che gli crivellavano la schiena. Capitombolò come un acrobata a capofitto travolgendo Tristram in un infrenio di braccia e gambe, essenza d'uomo, biforcazione. Tristram urtò duramente contro le passerelle malferme, lottò per liberarsi di quel repellente peso quasi morto impegnato a esalare gli ultimi respiri, poi udì d'ambo i lati, come dalle quinte di un palcoscenico, il secco martellar delle mitragliatrici, rumore palesemente genuino rispetto alla cacofonia fasulla del bombardamento. «Li stanno finendo,» pensò «li stanno finendo.»
Come Dio volle tutto quel gran frastuono terminò, e di suoni caratteristicamente umani non restò nulla, solo i rantoli animaleschi di chi non si decideva a morire. Un ultimo lampo gli mostrò l'orologio: 22.03. Tre minuti dall'inizio alla fine. Con gran difficoltà si sollevò il cadavere dallo stomaco rovesciandolo sul suolo della trincea; dal corpo inerte venne ancora un gemito. Terrorizzato, strisciò via penosamente per andare a piangere da solo, mentre l'odore della mostruosa colazione a base di pancetta affumicata continuava a vorticare in aria. Cominciò a singhiozzare irrefrenabilmente; presto si trovò a ululare di orrore e disperazione, e come se l'oscurità fosse uno specchio vide la sua stessa faccia miserabile e contorta, con la lingua servile a leccar lacrime, il labbro inferiore proteso a tremar di rabbia e disperazione.
Quando il tremendo accesso si fu placato gli parve di udir sopra di sé rinfocolarsi la battaglia. Ma erano soltanto isolati colpi di rivoltella a intervalli irregolari. Sollevando sgomento lo sguardo vide raggi di torce elettriche balenare sul teatro della carneficina come in busca di qualcosa nella baraonda di corpi massacrati. S'irrigidì atterrito. «Bella invenzione il colpo di grazia» disse una voce aspra. «Ce n'è pure per te, troietta mia.» Poi due detonazioni perentorie. Cercando, cercando, il raggio di una torcia scavalcò il ciglio della trincea. Cercava lui. Giacque immobile col viso ricomposto, come uno che fosse morto di morte violenta. «Povero fetentone» commiserò la voce aspra, e un proiettile altrettanto misericordioso parve cantar di gioia nell'incontrare un osso. «Qui c'è un sergente» disse un'altra voce. «Ha avuto la sua.» «Meglio esser certi» suggerì il primo. «Oh, al diavolo» replicò l'altro. «Ne ho gonfi i corbelli di questo lavoro. Sono stufo marcio. È uno schifo, un'indecenza.» Tristram avvertì il raggio della torcia indugiargli sugli occhi chiusi, quindi passare oltre. «Be', ma allora perché non fai fagotto...» disse il primo «... se te lo lasciano fare. Ehi, tu» rivolto a qualcuno più discosto. «Lascia in pace quelle tasche. Niente sciacallaggio. Abbi un po' di rispetto per i defunti, accidenti a te.» Gli stivali seguitarono a scricchiolare sul terreno. Altri colpi sparsi. Tristram serbò la posizione inerte e restò rigido, senza batter ciglio neppure quando un animaletto gli corse sopra affaccendato, annusandogli il viso e solleticandolo coi baffi. Le voci si allontanarono, tornò a regnare un silenzio vuoto d'ogni presenza umana, ma egli rimase tanto, tanto tempo ancora assolutissimamente immobile.
9
Finalmente, in quella cadaverica ma innocua bonaccia, Tristram raggiunse aiutandosi con la torcia il ricovero dove il caporale Haskell gli aveva tenuto lezione di geografia irlandese, dove la prima sezione del suo plotone aveva atteso, cantando, pisolando, trastullandosi nervosamente, il momento dell'azione. Chiuso da una coperta appesa sulla soglia puzzava ancora, odorava di vita. Zaini e borracce sparpagliati dappertutto, forse c'erano anche i suoi, essendosi sgravato di quei fardelli, insieme agli uomini di una delle sezioni, all'ingresso nella trincea. La lampada a batteria in dotazione al rifugio era stata smorzata prima dell'assalto e non la riaccese. Alla luce della torcia vide sul tavolo una montagnola di quattrini: ghinee, sept, tosheroon, corone, tanner, quid, fiorini; il denaro del plotone lì raccolto, in ossequio a un'antica tradizione, qual guiderdone ai sopravvissuti non avendo più alcuna utilità per i defunti. Tristram, unico sopravvissuto, chinò il capo reverente e spazzolò il valsente trasferendolo nello scrigno delle proprie tasche. Riempì poi di carne in scatola uno zaino a caso, si agganciò al cinturone una borraccia colma d'acqua, e caricò la pistola. La prospettiva d'una nuova anabasi gli strappò un sospiro.
Abbandonata a tentoni la trincea affrontò la minuscola terra di nessuno inciampando nei cadaveri, timoroso ancora di accendere la torcia all'aperto. Raggiunto l'opposto e assai poco profondo fossato vi penetrò, ne sortì, s'impose di marciare, trasalendo di dolore per l'ormai lontana caduta dal parapetto sulle passerelle, trepidante per l'eventuale presenza di cecchini in agguato. Al fievole chiarore delle stelle nudo si stendeva il terreno. Dopo una camminata di circa un miglio si vide dinnanzi, all'orizzonte, fioche luci parecchio distanziate. Pistola in pugno, con ogni cautela, continuò ad arrancare. Le luci si fecero più grandi, man mano da semi divennero frutti. Ben presto vide, attanagliato dalla paura, un'alta rete metallica allungarsi indefinitamente d'ambo i lati, fitto intreccio d'acciaio in cui luce e ombra disegualmente s'annidavano. Probabilmente elettrificata, come il reticolato del Campo Base. Non poteva far altro che procedere parallelamente a essa (niente copertura d'alberi o cespugli) e cercar, pronto a servirsi dell'inganno, della minaccia, della forza, un modo lecito, se esisteva, di attraversarla.
Cammina cammina finalmente vide, e prudentemente vi si avvicinò, una specie di cancello ricavato nell'interminabile recinzione, una robusta intelaiatura metallica guarnita di filo spinato. All'interno sorgeva una baracca di legno con un'unica finestra debolmente illuminata, e sulla porta della baracca se ne stava impalata, più o meno addormentata, una sentinella in pastrano ed elmetto. Baracca, cancello, reticolato, buio, sentinella... nient'altro. Vedendo Tristram la sentinella si riebbe con un sobbalzo allarmato e puntò il fucile. «Apri» ordinò Tristram.
«Da dove sbuchi?» Sulla faccia alquanto ottusa comparve un'espressione inquieta.
«Ho un grado, non vedi?» latrò Tristram. «Fammi entrare. Portami dal sottufficiale di servizio.»
«Chiedo scusa, sergente. Ci sono rimasto male. È la prima volta che vedo qualcuno arrivare da quella parte.» Sarebbe stato facile. La sentinella aprì il cancello, che ruotò frusciando al suolo su rotelle, e disse: «Da questa parte, sergente.» Non che ci fosse molta scelta. Condusse Tristram alla baracca del corpo di guardia, aprì la porta, lo fece entrare. Rossa come un'arancia pendeva dal soffitto una lampadina a bassa potenza. Incorniciati alla parete gli ordini di servizio e una carta geografica. Il caporale Haskell aveva decisamente colto nel segno: era una carta d'Irlanda. Seduto a un tavolo, coi piedi s'una sedia, intento a pulirsi le unghie, stava un caporale che quanto a capelli e fisionomia ricordava notevolmente Charles Baudelaire. «In piedi, caporale!» abbaiò Tristram. Nella fretta il caporale fece cader la sedia, reagendo più che ai galloni di Tristram al suo tono ufficialesco. «Bene» disse Tristram. «Adesso siediti. Chi è che comanda qui?»
«Il sergente Forester dorme, sergente. Sarà meglio che lo svegli.»
«Non è il caso.» Decise di giocare il tutto per tutto. «Cerco un mezzo di trasporto.
Dove posso trovarlo?»
Il caporale lo guardò fisso con l'intensità di Charles Baudelaire dal suo dagherrotipo. «L'autoparco più vicino si trova a Dingle. Dipende da dove vuole andare.»
«Devo fare rapporto su quest'ultimo spettacolo» disse Tristram. «Posso vedere la carta?» Si avvicinò alla grassottella bestia multicolore chiamata Irlanda. Dingle si trovava ovviamente nella baia di Dingle; la baia di Dingle e la baia di Tralee avevano intagliato la contea di Kerry ricavandone una penisola. Gli bastò un'occhiata per afferrare la situazione: varie isole e promontori della costa occidentale inalberanti bandierine del Ministero della Guerra inglese erano stati probabilmente affittati dal Governo irlandese al suddetto Ministero per presunti scopi addestrativi. «Vedo, vedo...» disse Tristram.
«Dov'è che vorrebbe andare?» domandò il caporale.
«Dovresti sapere che non si fanno domande del genere» lo redarguì Tristram. «Esiste, per tua norma e regola, una cosa chiamata sicurezza.»
«Chiedo scusa, sergente. Sergente,» fece il caporale timidamente «che cos'è che succede veramente laggiù, sergente?» Indicò in direzione dell'immenso campo di battaglia recintato.
«Vorresti dire che non lo sai?»
«L'accesso è rigorosamente vietato, sergente. Nessuno c'è mai entrato. Sentiamo i rumori e basta. Dev'essere un addestramento proprio realistico, a giudicare dai rumori. Ma nessuno è mai potuto entrare per andare a vedere, sergente. Gli ordini di servizio parlano chiaro.»
«E della gente in uscita cosa dicono?»
«Be', non dicono niente, sergente. Forse perché di lì non esce mai nessuno, immagino. Ormai sto qui da nove mesi, e il primo che vedo è lei. Non varrebbe neanche la pena di averci un cancello, qui, vero?»
«Be', non si può mai dire» gli fece notare Tristram. «Stanotte è servito allo scopo, no?»
«È vero» riconobbe il caporale, colto da reverente timore di fronte alla dimostrazione lampante che le vie del Signore sono davvero infinite e non bisogna mai porre limiti alla Provvidenza. «Verissimo.» Poi, servizievole: «Naturalmente ovunque desideri andare può sempre prendere il treno, no, sergente?»
«La stazione?»
«Oh, appena un paio di miglia più in giù lungo la via. Diramazione per Tralee. C'è un treno che porta un turno di operai a Killarney verso le due di mattina. Se le va bene è facile che riesca a prenderlo.»
Quasi incredibile, a pensarci: era ancora la stessa notte eppure sembrava trascorsa un'eternità da quando quei fischietti avevano proclamato la loro inappellabile sentenza. Gli tornò in mente d'improvviso che il sergente Lightbody aveva parlato di andare in cerca di un grande forse: strano pensare che a quest'ora l'aveva trovato da un bel pezzo. E per lui non era più un forse, ovviamente. Tristram rabbrividì.
«Ha l'aria un po' sbattuta, sergente. È sicuro di farcela?»
«Ce la farò» rispose Tristram. «Devo farcela.»
Epilogo
1
Da Tralee a Killarney, da Killarney a Mallow. Abbandonato s'un sedile d'angolo col bavero del pastrano rialzato, Tristram dovette sorbirsi brutti sogni per gran parte del viaggio. Una vocetta acuta faceva i conti sovrapponendosi al rumore sbuffante della vaporiera: «Diciamo un milleduecento spediti stanotte, poniamo un sessantré chili e mezzo in media essendo le donne più leggere degli uomini, mettiamo un settantasei tonnellate di peso morto. Moltiplica per mille e abbiamo settantaseimila tonnellate di resa complessiva per una sola notte di lavoro.» Il suo plotone sfilava, additandolo mestamente perché lui era ancora vivo. Arrivando a Mallow balzò in piedi per gettarsi in battaglia. Un operaio irlandese lo trattenne, lo calmò, gli disse: «Buono, amico, va tutto bene.» Viaggiò di giorno da Mallow a Rosslare. Trascorse la notte in un albergo di Rosslare e al mattino, avendo visto la Polizia Militare aggirarsi in cerca di preda, acquistò un abito pronto, un impermeabile, una camicia, un paio di scarpe. Inzeppò gli indumenti militari nello zaino dopo aver regalato la carne in scatola a una povera vecchia piagnucolosa che lo ringraziò dicendo: «Gesù, Giuseppe e Maria ti benedicano l'anima pia, tesoro caro.» Pistola in tasca, salì da civile sul postale per Fishguard.
Fu una burrascosa traversata da mese di febbraio, col canale di san Giorgio che sgroppava e sbuffava come un drago. A Fishguard si sentì male e trascorse la notte lì. Il giorno dopo, tempo bello e gelido come vino bianco, viaggiò verso sudest in direzione di Brighton. Questo almeno prometteva il biglietto che aveva comperato. Dopo Salisbury cedette alla voglia irrefrenabile di contare e ricontare i suoi soldi, i soldi del plotone: operazione che portò immancabilmente a un ammontare di trentanove ghinee, tre sept, un tanner. Tremava in continuazione, attirandosi gli sguardi incuriositi dei compagni di viaggio. Mentre si avvicinavano a Southampton decise di essere ammalato sul serio ma di aver probabilmente ancora abbastanza forza per scendere in città e trovarvi una sistemazione in attesa di ristabilirsi. Barcollante, soggetto a svenimenti, evidentemente bisognoso d'aiuto, non più padrone della situazione... c'erano un mucchio di buone ragioni per ritenere improbabile che riuscisse a trascinarsi fino a Brighton.
Scovò nei paraggi della Stazione Centrale di Southampton un ostello per militari... i cinque piani inferiori di un grattacielo. Entrò, esibì il foglio assegni, pagò una permanenza di cinque notti. Un vecchio in stinta giacca blu da cameriere lo accompagnò a una stanzuccia fredda, monastica, ma con un bel mucchio di coperte sul letto. «Tutto bene?» gli fece il vecchio. «Tutto bene» rispose Tristram. Quando il vecchio se ne fu andato chiuse la porta a chiave, si spogliò in fretta e imbucò a letto. A quel punto mollò la presa e lasciò che la febbre, come un demone o un'amante, prendesse completo possesso di lui.
Incessanti, tremito e sudore divorarono tempo, spazio, percezioni. Dal naturale alternarsi di buio e luce calcolò di esser giaciuto a letto per trentasei ore mentre la malattia gli tormentava e rodeva il corpo come un cane un osso, con una traspirazione talmente copiosa da mandargli in vacanza la vescica, sentendosi divenire tangibilmente più magro e leggero, dominato nella fase più acuta dalla convinzione che il corpo gli fosse divenuto trasparente, che ciascun distinto organo interno brillasse fosforescente nel buio tanto da far sembrare uno spreco scandaloso che neppure un'infermiera istruttrice potesse condurre i propri studenti di anatomia a fargli visita. Cadde poi in un sonno così profondo che né sogni né allucinazioni potevano raggiungerlo. Si svegliò di mattina con la sensazione di aver dormito, come un orso o una tartaruga, una stagione intera, poiché il sole che penetrava nella stanza era un sole primaverile. Snidò a malincuore il tempo dal suo nascondiglio e calcolò che doveva essere ancora febbraio, ancora inverno.
Lo tirò giù dal letto una sete intensa. Barcollò fino al lavandino, tolse dal bicchiere le dentiere gelide, poi lo riempì più volte con la dura, calcarea acqua del sud, trangugiando senza tregua finché non gli toccò distendersi sul letto a riprender fiato. Aveva smesso di tremare, ma si sentiva ancora sottile come un foglio di carta. Si riavvolse nelle coperte e si riaddormentò. La volta successiva fu la vescica stracolma a svegliarlo e, non ditelo a nessuno, la svuotò nel lavandino. Ora si sentiva in grado di camminare, anche se aveva molto freddo. Dovuto, ciò, al fatto d'essere digiuno. Il sole era al tramonto, si annunciava una serata rigida. Si vestì, e senza lavarsi né radersi scese giù allo spaccio. Lo trovò affollato di soldati seduti a bere tè, intenti a lamentarsi e millantarsi, tutta gente di fresco ingaggio. Tristram ordinò uova sode e latte naturale. Alla carne non osò neppur pensare. Mangiò molto lentamente, e sentì qualcosa che assomigliava alla promessa di un rinnovato vigore carezzargli le membra. Rimase affascinato nel constatare il risveglio di un'antica usanza (la cui introduzione in Inghilterra era attribuita a un leggendario marinaio chiamato John Player): alcuni soldati si divertivano ad asfissiarsi aspirando fumo da cilindretti di carta accesi a un'estremità. Tossicoso trastullo virile, ricreazione da soldati che devono pur ammazzare il tempo e far baldoria nell'attesa di coprirsi di glo, di glo, di glo, dada ramp. Sentì gli occhi colmarglisi di lacrime. Meglio tornarsene a letto.
Dormì come un ceppo per un altro inestimabile intervallo di buio e di luce. Quando si destò, e stavolta fu questione d'un istante, si trovò assurto a una regione di smagliante lucidità mentale. «Che cosa ti proponi?» aleggiava la domanda in aria. «Di non farmi prendere» rispose Tristram a voce alta. L'avevano coscritto con l'inganno il 27 marzo, giorno di Pasqua, dell'anno innanzi, e il congedo sarebbe giunto esattamente un anno dopo. Fino a quella data - cui mancava ancora più d'un mese - avrebbe fatto bene a adottare ogni cautela. Aveva omesso di farsi trucidare: il Ministero della Guerra gli avrebbe probabilmente dato la caccia sino a fargli scontare quella piccola negligenza nell'adempimento dei suoi doveri di soldato. Ma era verosimile che la cosa stesse loro tanto a cuore? Tristram riteneva di sì. Chissà con quanta stizza avrebbero scorso un elenco di nomi dove ce n'era uno con accanto un punto interrogativo invece che un segno di spunta... per non parlare di quel foglio assegni mancante. Forse neppure lì, in un ostello dell'esercito, poteva considerarsi al sicuro. Pensò che ormai si sentiva abbastanza in gamba per andarsene.
Si lavò e sbarbò meticolosamente, vestì con cura abiti civili. Scese le scale quasi volando, leggero come una pecora tosata: purgandolo di certi grevi umori la malattia gli aveva persino fatto bene. Niente polizia militare all'ingresso. Si era aspettato di aver davanti a sé tutta la giornata, ma uscendo per le vie della città di mare scoprì ch'era invece pomeriggio inoltrato. Mangiò pesce fritto in un ristorante defilato, non lungi dal quale scoprì poi una pensione dall'aspetto sudicio che gli andava a pennello. Nessuna domanda, nessuna curiosità. Anticipò una settimana d'affitto. Il denaro, pensò, gli sarebbe bastato preciso.
2
Tristram trascorse le quattro settimane successive in maniera decisamente proficua. Non aveva dimenticato il proprio ruolo insegnante di storia e materie affini - e fu così che, finanziato dal suo povero plotone massacrato, si concesse un breve corso di recupero. Installato da mane a sera nella Biblioteca Centrale lesse i grandi storici e storiografi contemporanei: Lotte ideologiche del ventesimo secolo di Stott; Prìnzipien der Rassengeschichte di Zuckmayer e Feldwebel; Storia dei conflitti nucleari di Stebbing-Brown; Kung-Ch 'an Chu I di Ang Siong-Joo; Surrogati religiosi nell'era prototecnica di Sparrow; La dottrina del ciclo di Radzinowicz. Tutti smilzi libriccini in forma logogrammatica, ortografia potata escogitata per risparmiare spazio. Ora però di spazio sembrava essercene a sufficienza. Al termine della giornata leggeva per rilassarsi i nuovi poeti e romanzieri. Notò che gli scrittori della Pelfase sembravano caduti in discredito: forse non si poteva, dopotutto, ed era un peccato, spremere artistica sostanza da quel vecchio imbelle liberalismo. I nuovi libri erano pieni di sesso e morte, uniche materie adatte a uno scrittore, forse.
Il 27 marzo, un lunedì, con un magnifico tempo primaverile, Tristram partì per Londra in treno. Il Ministero della Guerra aveva sede a Fulham. Tristram scoprì che occupava un blocco di uffici in un grattacielo di modesta altezza (trenta piani) chiamato Edificio Juniper. «Non può entrare, signore» gli comunicò un portiere in livrea. «Perché no?»
«Perché ci vuole un appuntamento.»
«Fuori dai piedi» ringhiò Tristram. «Tu non sai chi sono io.» Spinse da parte il portiere ed entrò deciso nel primo ufficio che gli capitò. Una quantità di grassocce bionde in divisa foraggiavano di schiamazzi una nutrita batteria di elettrofonomacchine. «Voglio vedere qualcuno che comanda» disse Tristram.
«Senza appuntamento non può vedere nessuno» replicò una delle ragazze. Tristram traversò l'ufficio e aprì una porta con la metà superiore in vetro smerigliato. Vide un tenente seduto, indaffarato a pensare, fra due vaschette per corrispondenza, vuote.
«Chi l'ha fatta entrare?» domandò quello. Portava occhiali dalla massiccia montatura nera, aveva un aspetto da mangiadolciumi, unghie rosicchiate all'osso e sul collo un ciuffo di peluria sfuggito al rasoio.
«Domanda oziosa quant'altre mai» rimbeccò Tristram. «Mi chiamo sergente Foxe, T. Giungo qui in qualità di unico superstite di uno di quei massacri in scala ridotta amabilmente organizzati sulla costa occidentale dell'Irlanda. Gradirei parlare con qualcuno più importante di lei.»
«Superstite?» Il tenente parve cadere dalle nuvole. «Sarà meglio che si presenti al maggiore Berkeley.» Si alzò dalla scrivania rivelando un ventre da lavoro sedentario e uscì da una porta di fronte a quella da cui era entrato Tristram. Si udì bussare a quest'ultima e fu lo stesso Tristram a dire avanti. Era il portiere. «Mortificato di non avergli impedito l'accesso, signore» esordì. E poi: «Oh», perché Tristram aveva estratto la pistola: se gli andava di giocare ai soldati, pane per i loro denti. «Roba da matti» disse il portiere e richiuse di schianto la porta; attraverso il vetro s'intravide la sua ombra in rapida ritirata. Ricomparve il tenente. «Da questa parte» disse. Rinfoderata la pistola, Tristram lo seguì lungo un corridoio illuminato soltanto dal chiarore proveniente da altre porte a vetri. «Il sergente Foxe, signore» annunciò il tenente introducendolo alla presenza di un ufficiale che fingeva di essere terribilmente impegnato nella stesura di un messaggio urgente. Era un maggiore dalle mostrine rosse con una spettacolare capigliatura castanodorata; scrivendo, però, presentava a Tristram una chierica grande e tonda come un'ostia. Alle pareti foto di gruppo con scagnozzi dall'aria beota, la gran parte in pantaloncini. «Un attimo solo» temporeggiò il maggiore con piglio severo vergando a più non posso.
«Oh, ma la pianti» disse Tristram.
«Come, scusi?» Sollevato il capo a scoccargli quello che avrebbe voluto essere uno sguardo truce il maggiore rivelò un paio d'occhi smidollati, per giunta color aragosta. «Perché non è in divisa?»
«Perché secondo i termini contrattuali riportati sul mio foglio assegni, la mia ferma si è conclusa oggi alle dodici in punto.»
«Capisco. Ralph, sarà bene che lei ci lasci» disse il maggiore al tenente. Inchinatosi alla maniera d'un cameriere il tenente tolse l'incomodo. «Allora,» fece il maggiore a Tristram «cosa sarebbe questa faccenda dell'unico superstite?» Non sembrava aspettarsi risposta immediata, giacché proseguì: «Mi faccia vedere il foglio assegni.» Tristram glielo porse. Non essendo stato invitato a sedersi, sedette. «Hm» sbuffò il maggiore aprendo, leggendo. Fece scattare un interruttore e parlò in un microfono: «7388026 sergente Foxe, T. pratica immediatamente, per favore.» Poi rivolto a Tristram: «Scopo della visita?»
«Presentare un reclamo» rispose Tristram. «E avvertirvi che intendo rendere di pubblico dominio questo sporco imbroglio.»
Fu evidente la perplessità del Maggiore. Aveva il naso lungo e adesso, perplesso, se lo strofinava. Schizzando fuori da una fessura a parete una cartella in similpelle fece canestro in un cesto in fil di ferro; apertala, il maggiore ne lesse attentamente il contenuto. «Ah» fece. «Ecco. A quanto pare la cercano tutti. Lei a rigore dovrebb'essere morto, sbaglio? Morto insieme a tutti gli altri suoi commilitoni. Invece dev'essersela svignata svelto come la polvere. Potrei farla arrestare per diserzione, sa? Con procedura retroattiva.»
«Non dica sciocchezze» replicò Tristram. «Come unico superstite ero a capo io di quello sventurato manipolo trucidato. Spettava a me decidere. E ho deciso di concedermi un mese di licenza. Ero anche malato, e ben donde.»
«Patente irregolarità, non v'è dubbio.»
«Bel coraggio a parlar d'irregolarità, lei e la sua dannata combriccola d'assassini» s'indignò Tristram. «Un branco di belve assetate di sangue, ecco cosa siete.»
«Capisco» disse il maggiore. «E lei naturalmente si dissocia da noi, vero? Anche se immagino che lei» insinuò garbatamente «abbia in pratica ammazzato più gente di...
be', di me, per esempio. Lei ha, di fatto, preso parte a un'SS.»
«Che vuol dire SS?»
«Vuol dire Sessione Sterminio. Le nuove battaglie, sa, si chiamano così. Debbo necessariamente supporre che lei abbia inevitabilmente posto personalmente in essere una quota significativa di... be', vogliamo chiamarla procedura autodifensiva? Non vedo altrimenti in qual modo sarebbe potuto sopravvivere.»
«Avevamo ordini precisi.»
«Non lo metto in dubbio. Ordine di sparare. Nulla di più ragionevole quando il fuoco nemico ci martella, non crede?»
«Pur sempre di assassinio si è trattato!» sbottò Tristram esasperato. «Quei poveri, sciagurati, indifesi...»
«Oh, via, proprio indifesi non erano, vero? Si guardi dai luoghi comuni, Foxe. Un luogo comune tira l'altro, mi creda, e l'ultimo della serie è immancabilmente assurdo. Erano bene addestrati e bene armati e sono morti gloriosamente, convinti di morire per una grande causa. Il che, vede, risponde perfettamente al vero. Mentre lei, naturalmente, è scampato per il motivo più inglorioso. È scampato perché non ha creduto in ciò per cui combattiamo, in ciò per cui combatteremo sempre. C'è da dire, è vero, che lei venne rastrellato all'inizio, quando il sistema era altamente imperfetto. I criteri di arruolamento sono attualmente assai selettivi. I tipi diffidenti par suo non li tocchiamo più nemmeno con le molle.»
«Insomma vi approfittate di quei poveri diavoli che non distinguono il piede sinistro dalla mano destra, vero?»
«Si capisce. Ce la caviamo meglio senza idioti ed esaltati, ivi compresi teppisti e criminali. E, per quanto riguarda le donne, le deficienti che scodellano troppi figli.
Geneticamente parlando è un toccasana, le assicuro.»
«Oh Dio, Dio» gemette Tristram. «È mostruoso, è una maledetta follia.»
«Tutt'altro. Ricordi, lei ha eseguito degli ordini. Tutti noi eseguiamo degli ordini.
Gli ordini diramati dal Ministero della Guerra originano a loro volta dal CLPG.»
«Assassini, chiunque siano.»
«Certo che no. Comitato Limitazione Popolazione Globale, per intendersi. I cui membri ovviamente non impartiscono ordini nel senso militare del termine. Si limitano a indicare i livelli demografici ottimali in relazione alle disponibilità alimentari... sempre con un occhio al futuro, si capisce. E il loro concetto di disponibilità alimentari si distacca sensibilmente dall'antica, primitiva nozione di minimo indispensabile... a loro interessa un alto tenore con ampi margini. Non sono un economista, fra parentesi, quindi non mi chieda quanto ampi.»
«Io invece sono un docente di storia» precisò Tristram «e su argomenti del genere ho le idee abbastanza chiare.»
«Ah sì? Be', è evidente che avrebbero dovuto impiegarla esclusivamente in attività didattiche, e qualcuno prima o poi si beccherà un cazziatone da giorno del giudizio per averla trasferita alle unità combattenti... anzi, come accennavo, non avrebbero proprio dovuto arruolarla.»
«Certo, dice così perché adesso per voi sono un problema. Ho visto troppo, sentito troppo, ed è chiaro che ho intenzione di parlarne, di scriverne, di insegnare quanto so sulla vostra cinica organizzazione omicida. Non viviamo più in uno stato di polizia. Niente spie, niente censura. Rivelerò l'intera orrenda verità. Costringerò il Governo ad agire.»
Il maggiore non si scompose. Continuò a lisciarsi il naso con tutta calma. «Malgrado il suo nome» spiegò «il Ministero della Guerra in realtà non è affatto un settore della struttura governativa, bensì un'azienda privata. La denominazione 'Ministero della Guerra' è un semplice retaggio del passato. Quest'azienda opera su concessione. E la concessione, se non erro, va rinnovata ogni tre anni. Secondo me è assai improbabile che non venga rinnovata. Mi spiego: quale altro sistema esiste per mantenere sotto controllo l'incremento demografico? L'anno scorso il tasso di natalità è cresciuto in maniera formidabile, e continua ad aumentare. Non che in ciò vi sia alcunché di errato, intendiamoci. La contraccezione è una pratica crudele e innaturale: tutti hanno il diritto di nascere. Ma, analogamente, tutti debbono morire, prima o poi. L'età della chiamata alle armi verrà progressivamente posticipata... s'intende che ciò riguarda soltanto la popolazione normale, gli individui sani di corpo e di mente, giacché la spazzatura può essere eliminata poco dopo la pubertà. Tutti debbono morire, e la storia sembra insegnarci... in quanto storico lei non avrà difficoltà a convenirne... la storia, dico, sembra insegnarci che la morte più bella è quella del soldato. Che con supremo sprezzo del pericolo, come dice il poeta, si erge a difesa delle ceneri dei padri, dei templi degli dèi eccetera eccetera. Non credo proprio che troverà qualcuno disposto a schierarsi contro l'attuale sistema. Il Ministero della Guerra è un po' come la prostituzione: una valvola di spurgo per la comunità. Se noi non esistessimo, vasti rigurgiti d'indecenza e scelleratezza erutterebbero a lordare lo Stato. Noi siamo la madreperla, m'intende? Manigoldi, depravati, sciacalli e avvoltoi: elementi altamente indesiderabili in una società civile. Finché esisterà un esercito non si creerà mai uno stato di polizia: non più grigiazzi né manganelli di gomma né serrapollici né plotoni d'esecuzione in disagevoli ore antelucane. I problemi cruciali della collettività sono stati risolti. Adesso abbiamo uno stato libero: ordine senza organizzazione, il che significa ordine senza violenza. Spazio vitale e sicurezza sociale per tutti. Una casa pulita piena di gente contenta. Ma ogni casa, ovviamente, deve disporre di un impianto di smaltimento dei rifiuti. Ed è quello il nostro ruolo, quello è il compito che ci siamo assunti.»
«Ma è sbagliato» ribatté Tristram. «Tutto ciò è profondamente sbagliato.»
«Davvero? Diamine, se dovesse venirle in mente qualcosa di meglio venga pure a dircelo e l'ascolteremo.»
Aggrappandosi a un filino di speranza Tristram domandò: «Secondo lei la gente è fondamentalmente buona?»
«Be'» rispose il maggiore «adesso ha l'occasione di comportarsi come se lo fosse.»
«Esatto» disse Tristram. «Il che significa che il ritorno del liberalismo non può tardare. Non credo che uno Stato pelagiano vi rinnoverebbe la concessione.» «No?» L'eventualità parve lasciarlo del tutto indifferente.
«Vi state firmando la vostra condanna a morte per il solo fatto di esistere» insisté Tristram.
«Un po' troppo epigrammatico per i miei gusti» replicò il maggiore. «Senta, ho gradito molto questa chiacchierata, ma ho davvero un monte di cose da sbrigare. Per quanto riguarda il suo congedo, a rigore dovrebbe seguire la trafila canonica... Se le fa piacere, però, posso firmarglielo io, e prepararle anche una noticina per l'ufficio cassa.» Cominciò a scrivere. «Un'indennità di venti ghinee per ciascun mese di servizio. Un mese di licenza ufficiale precongedo a paga intera. Bene. Il conteggio minuto lasciamolo fare a loro. La pagheranno in contanti, vedendo che razza d'uomo sospettoso è lei.» Sorrise. «E mi raccomando,» soggiunse «non dimentichi di restituire codesta pistola.» Tristram rimase di stucco nel rendersi conto di aver puntato l'arma contro il maggiore. «Anzi, sarà meglio che la consegni direttamente a me. La violenza fuori dei luoghi deputati è cosa che aborriamo. Sparare è un'attività riservata all'esercito, e lei ormai non ne fa più parte, signor Foxe.» Tristram, obbediente, poggiò la pistola sulla scrivania del maggiore. Capiva, ora, che dopotutto sarebbe stato un errore sparare a Derek. «Altre domande?» concesse il maggiore.
«Una sola. Che fine fanno tutti quei morti?»
«I morti? Ah, capisco cosa intende. Quando un soldato viene congedato per decesso ne archiviamo il foglio assegni e facciamo pervenire una lettera di condoglianze al parente più stretto. Dopo di che al Ministero della Guerra non competono altre responsabilità. Subentrano gli imprenditori civili. Il passato, vede, ci ha insegnato qualcosa: il risparmio è il miglior guadagno. Quel che fanno i civili è affar loro. Basta che ci paghino. L'azienda per funzionare ha bisogno di denaro. Sappia che siamo completamente indipendenti dal pubblico erario. Credo che sia un fatto di cui andar fieri. Altre domande?»
Tristram rimase in silenzio.
«Bene, allora buona fortuna, vecchio mio. Immagino che ora le toccherà darsi da fare per trovare lavoro. Non dovrebbe aver difficoltà, coi suoi titoli.» «E con la mia esperienza» aggiunse Tristram.
«Altroché.» Sorridendo cordialmente si alzò per stringergli la mano.
3
Tristram prese il primo treno della sotterranea per Brighton, dicendosi all'unisono col ritmo del convoglio: «Pazienza, pazienza, pazienza, pazienza.» Quante realtà compendiava in sé quella parola: pazienze d'estensioni diverse e diseguali pesi, attese di tante lunghezze differenti. Quando Brighton gli svettò tutt'intorno, il cervello gli scalpitò di ricordi, gli trepidò di speranze. Pazienza. 'Sta' lontano dal mare ancora un poco. Fai le cose a tempo e luogo.
Trovò il Ministero dell'Istruzione dov'era sempre stato: in Adkins Street, a due passi da Rostron Place. Frank Gosport lavorava come sempre all'Assegnazione. Tant'è che riconobbe Tristram. «Ti trovo bene,» disse «bene per davvero. Pari pari la cera di uno che s'è goduto una lunga vacanza. In che cosa possiamo servirla, messere?» Era un tipo simpatico e rotondetto, dal sorriso contagioso, dai capelli lanuginosi come piume d'anatra.
«Un lavoro» rispose Tristram. «Un buon lavoro.» «Hmm. Storia, vero? Educazione civica e via dicendo?» «Hai buona memoria» osservò Tristram.
«Mica tanto» replicò Gosport. «Per esempio non ricordo il tuo nome... Derek, vero? No, stupido che sono, non può essere Derek. Derek Foxe è Segretario Coordinatore del Ministero della Fecondità. Ma certo, sì, naturalmente, è tuo fratello. Or mi sovviene. Il tuo nome comincia per T.» Premette pulsanti sulla parete; su quella opposta, in lettere debolmente luminescenti, comparve un elenco dei posti vacanti, righe su righe di caratteri delicatamente rilucenti. «Vedi niente di tuo gusto?»
«Quarta Divisione Scuola Unitaria (Maschile) Londra Sud (La Manica)» disse Tristram. «Chi è il Preside adesso?»
«Lo stesso di prima, Joscelyne. Non ci crederai, ma s'è impalmato una vera vecchia virago. Razza di furbacchione. Ha seguito la corrente, come suol dirsi.»
«Come mio fratello Derek.»
«Immagino di sì. C'è qualcosa che ti attira, là?»
«Non proprio. Troppi brutti ricordi. Mi stuzzica invece quella cattedra al Politecnico. Storia della Guerra. Direi che fa proprio al caso mio.»
«È un incarico nuovo. Praticamente non ci sono candidati. Devo iscriverti per quello?»
«Diciamo di sì.»
«Potresti cominciare all'inizio del semestre estivo. Sai nulla della guerra? Mio figlio ha appena ricevuto la chiamata.»
«Ed è contento di andarci?»
«È un birbante matricolato. Speriamo che l'esercito riesca a cacciargli un po' di sale in zucca. Bene. Vai a dare un'occhiata all'Istituto, quando hai tempo. È davvero un bel palazzo, direi. Il Preside è un brav'uomo. Si chiama Mather. Penso che andrete d'accordo.»
«Ottimo. Grazie.»
A Rostron Place, Tristram trovò un'agenzia immobiliare. Gli proposero un appartamento assai rispettabile a Palazzo Winthrop: due camere da letto, soggiorno-sala da pranzo, grande cucina provvista di frigorifero, stereotivú e lettore a parete per il Daily Newsdisc o uno qualunque dei suoi audioconcorrenti. Dopo averlo visitato decise di prenderlo, firmò il contratto di prammatica e versò un mese di affitto anticipato. Andò quindi a fare un po' di compere: armamentario da cucina, cibarie (davvero un gran bell'assortimento nei nuovi negozi aperti per iniziativa privata) e un po' di biancheria, pigiami e una vestaglia.
E adesso, adesso, adesso... Col cuore che gli martellava, col cuore che gli svolazzava come un uccello dentro un sacchetto di carta, si diresse, sforzandosi di camminare piano, verso il lungomare. Moltitudini di persone immerse nel sole primaverile e nella frizzante aria marina, gabbiani baritoni schiamazzanti come oboi, la granitica maestosità degli uffici governativi. Il Ministero della Fecondità - bassorilievo di un uovo dischiuso a mostrare due alucce neonate - recava una targa con la seguente dicitura: Sezioni Aggregate di Alimentazione, Agricoltura, Fecondità, Ricerca, Religione, Liturgia e Cultura Popolare. Motto: UNICA È LA VITA. Presa visione, le labbra contratte in un sorriso nervoso, Tristram decise che in fondo non aveva alcuna voglia di entrar là dentro, che alla fin fine non c'era nulla che egli potesse proficuamente dire o fare a suo fratello. Mutata dunque irrevocabilmente idea, interruppe la propria traiettoria puntando i piedi a terra. Perché la vittoria era sua, di Tristram, come quel pomeriggio avrebbe dimostrato. Quanto al mondo lui, Tristram, aveva di più caro e di più suo, egli, Tristram, l'avrebbe, pria che consumati si fossero novanta minuti o meno ancora, riconquistato. Completamente. Definitivamente. Era quella l'unica vittoria che gli necessitava.
Alta sopra il Palazzo del Governo la bronzea figura in toga dalla barba barocca, dalla toga baroccamente drappeggiata, fissava fieramente il sole in quella giornata senza vento, chioma e vesti agitate dal vento barocco della fantasia dello scultore. Chi era costui? Agostino? Pelagio? Cristo? Satana? Tristram fantasticò di scorgere il fulgore di minuscole corna nell'agitata massa di scultorei capelli. Avrebbe dovuto attendere, avrebbero tutti dovuto attendere. Ma egli era intimamente fiducioso che il ciclo sarebbe ripreso: quella figura proclamava al sole e alle nubi marine l'umana capacità di organizzarsi una vita degna, l'umana possibilità di fare a meno della grazia, la divinità implicita nell'umanità. Pelagio, Morgan, il Vecchio del Mare. Attese.
4
«Mare,» sussurrò Beatrice-Joanna «insegnaci a vivere.» Indugiava presso il parapetto della passeggiata mentre i rosei gorgoglianti gemellini ammantati di lana si malmenavano teneramente nel nido accogliente della carrozzina. Incommensurabilmente le dilagava dinnanzi traboccante di frenesia, pelle di pantera, clamide trafitta di mille e mille idoli solari, idra assoluta ch'ebbra della sua stessa azzurra carne si morde la coda sfavillante in un tumulto che ha la voce del silenzio. «Mare, mare, mare.»
Al di là del mare, in una villa sul Mediterraneo, Robert Starling, già Primo Ministro di Gran Bretagna e Presidente del Consiglio dei Primi Ministri dell'Unione Anglofona, attorniato dai suoi soavi fanciulli, nutrendosi deliziosamente, sorseggiando succhi di frutta, leggendo i classici coi piedi sollevati, elucubrava sottili congetture circa la fine del proprio esilio. Su altre sponde marine i talassografi approntavano i loro arrembaggi alle inesplorate smeraldine dovizie con nuovi marchingegni, astuti scandagli. Imperturbata vita s'acquattava a miglia nel profondo, a leghe nell'abisso.
«Mare, mare.» E pregò per qualcuno, e la preghiera venne immediatamente esaudita, ma il benigno accoglimento non originò dal mare. Nacque invece dalla più tepida terra alle sue spalle. Delicata una mano sul braccio. Sorpresa, si volse. Poi, dopo un attimo d'ammutolito turbamento, continuarono a mancarle parole, ma lacrime no. Gli si avvinghiò e l'aere sconfinato, il mare dispensatore di vita, il futuro dell'uomo nelle sue profondità, il presente della città turrita, il barbuto personaggio in vetta al pinnacolo... tutto s'obnubilò nel calore della sua presenza, nell'intimità del suo abbraccio. Egli divenne mare, sole, torre. I gemelli gorgheggiarono. E ancora non vi furono parole.
Si alza il vento... dobbiamo cercar di vivere. L'aura immensa apre e chiude il mio libro. Polverizzata l'onda osa schizzare e zampillar dalle rocce. Volate via pagine cieche, abbacinate. Frangetevi, onde. Frangetevi con acque gaudiose...
Ricordando la guerra come un teatro di Paul Fussell
Anthony Burgess ha felicemente rilevato il rapporto tra l'idea della Grande Guerra e l'idea della drammaturgia nel suo romanzo Il seme inquieto (1962), ambientato in Inghilterra nel corso del ventunesimo secolo. Poiché le tendenze attuali non sono state modificate, si sono avute come conseguenza un grande aumento di popolazione e una corrispondente scarsità di cibo. I nemici sono da un lato la fecondità e dall'altro la fame. Il governo inglese affronta il problema in molti modi: incoraggia l'omosessualità, punisce le famiglie che trasgrediscono la norma del figlio unico, estende lo spazio vitale aggregando al territorio del Regno Unito 'isole annesse' d'acciaio, importa 'uomini inscatolati' dalla Cina e organizza false battaglie di trincea da Grande Guerra per epurare la popolazione da elementi antisociali quali donne «deficienti che scodellano troppi figli» e uomini «teppisti e criminali» (p. 276).
L'eroe-vittima di Burgess è Tristram Foxe, un maestro di scuola. Questi è sposato con Beatrice-Joanna Foxe, che ama in segreto il fratello di Tristram, Derek, un alto funzionario governativo che si finge omosessuale sia per conservare il posto sia per poter più facilmente avvicinare Beatrice-Joanna. Ingravidata da Derek, la donna fugge nelle Midlands per nascondere la sua fecondità colpevole. Là partorisce due gemelli. Tristram viene privato del lavoro e parte a piedi per cercare la moglie. Non riesce a rintracciarla, ma durante i suoi picareschi vagabondaggi diviene a sua volta un paria e, come altri paria, finisce sotto le armi, per una vaga 'guerra'. È una guerra vaga perché nessuno sa o vuol dire chi sia il nemico. Ma poiché c'è un esercito deve esserci una guerra, secondo quanto un soldato cerca di spiegare a Tristram:
«Ma è ovvio che ci sarà una guerra. Non perché qualcuno la voglia, naturalmente, ma perché c'è un esercito. Un esercito qua e un esercito là ed eserciti a destra e a manca. Gli eserciti sono fatti per la guerra e la guerra è fatta per gli eserciti. Mica ci vuol tanto a capirlo.»
«La guerra è roba del passato» obiettò Tristram. «La guerra è stata messa al bando. Non ci sono più guerre da un mucchio d'anni.»
«Ragione di più perché debba essercene una» insisté l'autista. «Se è vero che da tanto siamo senza.» «Ma tu» replicò Tristram concitato «non ti rendi mica conto di cos'era una guerra. Io ho letto libri sulle antiche guerre. Erano terribili, tremende. (...) C'erano gas velenosi che trasformavano il sangue in acqua e batteri che sterminavano intere nazioni e bombe che in un istante radevano al suolo intere città. Tutto ciò è finito. Doveva finire. E non possiamo ricominciare. Ho visto le foto, io» rabbrividì. «E anche i filmati. Quelle antiche guerre erano terrificanti. Stupri, saccheggi, torture, incendi, pestilenze... Inconcepibile. No, no, non deve accadere mai più. Non dirlo nemmeno per scherzo.» (pp. 199-200)
La 'guerra' imminente, considerata in realtà come parte della soluzione finale del problema demografico, appare chiaramente anomala e arcaica. Da un lato «l'esercito britannico... era semplice fanteria, con un ridottissimo appoggio di reparti specializzati.» Dall'altro i suoi membri si comportavano in modo curioso, «inalberando i pollici agli obiettivi [dei telegiornali] con ghigni parzialmente dentati» (p. 222). Tristram si ritrova poi sergente istruttore dei 'nuovi eserciti'. Ma quando di fronte agli uomini comincia a porsi domande sulla guerra, si vede togliere il compito di istruttore e nominare invece sergente di plotone in una compagnia di fucilieri. I suoi sospetti aumentano quando vede che il suo plotone, comandato da un giovane subalterno credulone, il signor Dollimore, deve esercitarsi nella nomenclatura delle varie parti dei fucili della Grande Guerra. «Organizzazione, vocabolario, procedure, armamento di questo nuovo Esercito Britannico sembravano tutti usciti da vecchi libri e vecchi film» (p. 229). Curioso.
Ma Dollimore non si rende conto che tutto va storto, tanto la sua mente è piena di luoghi comuni della Grande Guerra, 'pistolotti' di Rupert Brooke e appassionate frasi fatte, destinate al fronte occidentale di centocinquant'anni prima. Tristram, nella sua ossessione di non riuscire a sapere chi dovrebbe essere il nemico, è colpito dalla drammaticità di tutto ciò, dalla tangibile teatralità degli eventi, dal modo in cui lo scenario della Grande Guerra - quella classica - viene recuperato affinché questa guerra «avendo l'aspetto giusto» appaia valida. Nella stiva di una nave per il trasporto delle truppe dirette verso il primo scontro con il nemico, le truppe cantano canzoni della Grande Guerra («Mentre a Loos facevam la nostra parte / te la spassavi fra donnine e bere»), e nel frattempo Tristram nella sua cuccetta medita:
Gli parve di esser stato trasportato d'improvviso in un tempo e un luogo mai prima visitati, un mondo scaturito da libri e film, indescrivibilmente antico. Kitchener, napoo, Bottomley, artiglieria pesante, contraerea, zeppelin, Bing Boys... (...) Questo era davvero un film, questa era davvero una commedia, e loro vi erano dal primo all'ultimo coinvolti. Era tutta una finzione, qualcuno li stava usando come personaggi di un proprio sogno, (pp. 242-43)
Stabilisce allora che, qualunque cosa possa essere la sinistra farsa che si svolge attorno a lui in qualche modo egli dovrà salvarsi e sopravvivere. Continuerà quindi a 'recitare la sua parte' finché potrà fuggire. Ma tutto sembra talmente reale che finisce per coinvolgere anche i suoi sentimenti. Poco prima dello sbarco, quando Dollimore dice al plotone: «'Questa vecchia nazione che tanto amiamo. Farem per essa del nostro meglio, vero ragazzi?'» e gli uomini imbarazzati abbassano gli occhi, «Tristram provò per loro un grande affetto» (p. 246), quasi fosse stato adeguatamente istruito per esempio, da «Greater Love» di Wilfred Owen. Quando il battaglione si dispone in ordine sulla banchina, tutti i particolari sono esatti, tutto è perfettamente nello stile 'Grande Guerra':
Poche lampade, come vigesse una limitata disposizione d'oscuramento. Gli uomini delle comunicazioni gironzolavano provvisti di portablocchi. I poliziotti militari bighellonavano a coppie. Un maggiore con mostrine rosse e posticcio accento aristocratico sghignazzava tamburellandosi sul fianco uno sfollagente rivestito in cuoio. Il signor Dollimore venne convocato, assieme ad altri ufficiali subalterni, a una breve riunione presso alcune baracche. Dall'entroterra rombo d'artiglierie pesanti, sibilo di proiettili, diffuso balenio, tipica messinscena da film di guerra, (p. 247)
Il battaglione marcia verso il «campo base» lungo una strada ai due lati della quale «i lampeggianti bagliori svelavano alberi sfrondati come sagome sceniche...» (p. 247). Un caporale esprime a gran voce il sospetto che siano sbarcati in Irlanda a combattere gli irlandesi, i Micks, (o pirlandesi, p. 248). D'altra parte, Tristram acquista la certezza che la guerra viene 'recitata' quando si accorge che il fragore dell'artiglieria proviene da un amplificatore che fa echeggiare un disco rotto: «Dada rump, dada rump, dada rump... troppo regolare». Si tratta, è ormai del tutto chiaro, di una «guerra da cabina di regia» (p. 249).
Il mattino successivo, il plotone viene informato che arriverà in prima linea alla sera, «essendo imminente un non meglio precisato 'spettacolo'»:
Prospettiva che mandò in brodo di giuggiole il signor Dollimore. «Fiato alle trombe sul ricco morto!» citò, con poco riguardo per il plotone.
«Sembra proprio che lei abbia una gran voglia di morire» osservò Tristram intento a pulire la pistola. «Eh? Come?» Il signor Dollimore si riscosse dal suo repertorio di primi versi. «Sopravviveremo» disse. «Il crucco avrà quel che merita.»
«Il crucco?»
«Il nemico. Altro nome del nemico. Alla scuola ufficiali» spiegò il signor Dollimore «vedevamo film tutte le sere. E il nemico era sempre il crucco. No,
non è esatto. A volte si chiamava Fritz. E a volte Jerry.»
«Capisco. E studiavate anche poesia di guerra?»
«Il sabato mattina.» (p. 250)
Un aereo antidiluviano, «(cavi, montanti, carlinga aperta e smanacciante aeronauta con gli occhialoni) sorvolò pencolando il campo e via di nuovo. 'Uno dei nostri' disse il signor Dollimore al plotone. 'La valorosa Aeronautica Règia.'» (p. 251).
A sera, sotto un fiammeggiante tramonto - questa è, dopo tutto, esattamente uguale a quella «guerra delle origini» (p. 252) - gli uomini ricevono le munizioni e cominciano la marcia finale verso le trincee. «Marciarono attraverso una borgata, un terrificante artificioso guazzabuglio di macabre rovine» (p. 252) e fino a una sconquassata casa di campagna che risultò poi essere l'ingresso di una trincea. «'Che strana casa è questa' brontolò un uomo, quasi avesse affé sua creduto che li avessero invitati lì a cena. Era null'altro che un guscio vuoto, tipo un elemento scenico per uso cinematografico.» (p. 252). Il plotone di Tristram giunge alla sezione di trincea assegnatagli e Tristram riceve dal signor Dollimore l'ordine di far riparare gli uomini nei ricoveri e di sistemare le sentinelle. Mentre «i giradischi eruttavano senza tregua i loro simulacri di accanimento bellico», la furia di Tristram finalmente esplode:
«Ma a che serve» obiettò Tristram ostinato «collocare sentinelle? Laggiù non c'è alcun nemico. È tutta una messinscena. (...) Non capisce? E il nuovo sistema, il sistema moderno, per smaltire l'eccesso di popolazione. I rumori sono finti. Le fiammate sono fasulle. Dov'è la nostra artiglieria? Vede nessuna artiglieria dietro le linee? Certo che no. Ha forse visto granate o frammenti di proiettili? (p. 254)
Nel timore che si diffondano allarme e sconforto, il signor Dollimore estrae la pistola e fa fuoco su Tristram. Lo manca, e Tristram si convince che avrebbe dovuto essere più prudente. «Era evidente che non poteva darsi via di scampo dietro le linee Se mai scampo esisteva, doveva trovarsi dritto innanzi: un balzo ardito oltre il ciglio del fosso e che la sorte ci assista» (p. 257). Non però, si rende conto Tristram, partecipando all'attacco fissato per le 22.00. Il signor Dollimore dà l'ordine di inastare le baionette e caricare tutti i fucili, «con aria di gran sussiego. 'Inghilterra' declamò d'un tratto, e nella strozza gli palpitava il pianto.» (p. 258). A dieci minuti dall'ora fissata il bombardamento si interrompe, e «nell'inconsueta oscurità azzittita si poteva udir meglio il nemico tossicchiare, bisbigliare, nei toni lievi d'osteopàrvuli orientali» (p. 258). Pochi minuti prima dell'attacco, il signor Dollimore è così eccitato ed esaltato che comincia a mescolare Rupert Brooke con l'Enríco IV, parte II:
Pistola tremolante in pugno, occhi incollati all'orologio da polso, era pronto a guidar la sua trentina (in quell'anonimo cantuccio d'una terra forestiera) all'assalto ardimentoso, dovendo a Dio una morte (che per sempre è Inghilterra). (p. 258)
A cinque minuti dall'attacco, Tristram ha deciso che se il signor Dollimore sta per condurre fuori il plotone, egli stesso lo spingerà fuori e poi accortamente si terrà dietro di loro.
21.55: «O Dio degli eserciti» sussurrò il signor Dollimore «da' la tempra dell'acciaio al cuor dei miei soldati.» (...) 21.58: Tremolio di baionette. A qualcuno venne il singhiozzo e non la finiva di ripetere: «Pardon.» 21.59: «Ah» dichiarò il signor Dollimore scrutando la lancetta dei secondi come ammirasse un numero del circo delle pulci. «Ci siamo quasi, ci siamo quasi...»
22.00. Argentino stridulio di fatali fischietti trafisse i cuori lungo l'intera linea, e istantaneamente tornò a erompere all'impazzata il bombardamento fonografico. (pp. 258-59)
Il signor Dollimore li guida fuori:
Rabbiosi crepitarono i fucili e sputarono piombo. (...) Orribilmente sibilarono i proiettili. Urla agghiaccianti, raccapriccianti bestemmie. Sollevato il capo oltre il parapetto Tristram vide delinearsi sagome nere di corpi stagliati ad affrontarsi in singolar tenzone, movenze ineleganti di gente che belluinamente caricava, stramazzava, sparava, infilzava, proprio come in uno di quei vecchi film di guerra. Osservò distintamente il signor Dollimore indietreggiare (...) e poi accasciarsi con la bocca spalancata. (...) Era un macello, un reciproco massacro, impossibile mancare un colpo. (pp. 259-60)
E infine Tristram riesce a vedere chiaramente il nemico, e scopre che non sono orientali: sono donne.
Tre minuti dopo l'inizio della battaglia, tutto è concluso. Le compagnie di sanità sul campo di battaglia finiscono con un colpo di pistola i feriti. Tristram si finge morto in trincea e quelli passano oltre. Quando ormai tutto è tranquillo, egli raccoglie il denaro del plotone lasciato in un ricovero, «un'antica tradizione, qual guiderdone ai sopravvissuti» (p. 262) e quindi si incammina attraverso il campo di battaglia. Oltrepassata di un miglio la linea delle trincee nemiche, arriva a una recinzione reticolata con un'apertura nel mezzo. Essa segna il perimetro dell'ampio 'set' che costituisce il campo di battaglia. E scopre dov'è: nell'Irlanda sud-occidentale, presso Dingle. Riesce a fuggire a Killarney, poi a Rosslare, Fishguard, Brighton e infine arriva a Londra, dove, ironicamente, si presenta all'Esercito come «l'unico sopravvissuto» e minaccia di rivelare tutto il criminale complotto. Un maggiore gli spiega che non può farlo: anche Tristram è compromesso, avendo preso parte a un «SS»:
«Che vuol dire SS?»
«Vuol dire Sessione Sterminio. Le nuove battaglie, sa, si chiamano così.» (...)
«Pur sempre di assassinio si è trattato!» sbottò Tristram esasperato. «Quei poveri, sciagurati, indifesi...»
«Oh, via, proprio indifesi non erano, vero? Si guardi dai luoghi comuni, Foxe.» (...)
Erano bene addestrati e bene armati e sono morti gloriosamente, convinti di morire per una grande causa. Il che, vede, risponde perfettamente al vero.» (p. 276)
Per di più, suggerisce il maggiore, i morti sono stati utili anche per un altro verso. Sono stati trasformati in carne in scatola; ancora una volta, ritorna la classica leggenda della German Corps Rendering Factory. Alla fine, non è poi molto confortante ritrovare Tristram riunito a una contrita Beatrice-Joanna, in un semiparodistico lieto fine.
È chiaro, ciò che colpisce nel Seme inquieto non è certo la sua credibilità. Certo, non è più credibile di Good-bye to All That la memoria di guerra di Robert Graves. La comparazione tra i due libri non è stiracchiata, in quanto i contorni delle scene caricaturali di Graves si possono oscuramente intravedere sotto molte scene di Burgess. Ciò che fa del Seme inquieto un libro singolare è la sua potenza immaginativa e intuitiva. Basandosi su ampie e certamente ossessive letture di memorie della Grande Guerra, e profondamente conscio della capacità della Grande Guerra di fissare una volta per sempre il modello della moderna e insensata violenza organizzata, Burgess ha compreso tanto l'associazione tra guerra e teatro quanto la necessità di un nostro approccio alla guerra attraverso i canali del mito e del cliché. Vale a dire, ha identificato la Guerra come la principale fonte del mito moderno. Tutto il libro è pervaso dall'idea che il mondo moderno è l'inevitabile prodotto di una serie di guerre. Le massaie comprano 'razioni'; la Polizia Demografica («Poldemo»), il cui compito è di imporre le leggi contro le gravidanze illegali, porta le stellette e la corona per indicare i gradi; la gente dimora in verticali casermoni; il nuovo mondo nel suo complesso è molto simile a quello del vecchio esercito. Allo stesso modo, il 'teatro' del campo di battaglia cerca di suggerire elementi teatrali propri del nostro tempo, come la falsa stazione ferroviaria costruita al campo di concentramento di Treblinka negli anni Quaranta, con «la sua biglietteria fasulla, le sale d'aspetto di prima e seconda classe verniciate, l'orologio fermo alle 15» (RJ. Lifton, History and Human Survival, New York, 1970, p. 200).
Un altro simbolo della tendenza del mondo moderno alla dissimulazione (o autoinganno) sorretta dalla tecnologia è la registrazione fonografica o 'messaggio registrato', e ciò affascina Burgess almeno quanto gli 'scenari'. Una conversazione di Tristram con il tenente Dollimore viene interrotta quando una «gracchiarne registrazione scaturì sibilando dagli altoparlanti, una tromba sintetica strombazzò il suo angelus». Poco prima di partire per 'l'oltremare', il colonnello tiene un discorso al battaglione di Tristram, ma non di persona: lancia il suo messaggio di esortazione e di saluto mediante un disco - rotto, sfortunatamente - diffuso dall'altoparlante:
«Dovrete combattere un nemico malvagio e senza scrupoli in difesa di una nobile causa. So che vi coprirete di glo di glo di glo di glo craaaaaark tornare vivi e perciò vi auguro buon viaggio e che tutta la fortuna del mondo sia con voi.» Peccato, pensò Tristram sorbendo surrogatè nella mensa sottufficiali, peccato che un disco incrinato dovesse incrinar l'immagine di quell'uomo forse sincero facendolo sembrare tanto cinico. Un sergente di Swansea, Provincia Occidentale, si levò da tavola e con pregevole voce tenorile cantò: «Copritevi di ria... di riaa... di riaaa!»
È stato il disco rotto che diffondeva i fragori dell'artiglieria a convincere Tristram che il campo di battaglia è uno scenario; e in seguito, meditando su quanto gli è successo, egli ricollega il messaggio d'addio del colonnello, su disco rotto, con quello dell'artiglieria, «nell'attesa di coprirsi di glo, di glo, di glo, dada ramp». L'immagine dell'inganno elettronico che coinvolge gli ascoltatori in grandi imprese pubbliche o mortali, ci avvicina a L'arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, dove il cassetto dei guanti di un'automobile della California si trasforma in una 'biblioteca' con nastri incisi: «EVVIVA (AFFETTUOSO), EVVIVA (STIMOLANTE), PLEBAGLIA OSTILE in un assortimento di 22 lingue... CONFLITTO A FUOCO (CONVENZIONALE), CONFLITTO A FUOCO (NUCLEARE), CONFLITTO A FUOCO (IN CITTÀ), ACUSTICA DA CATTEDRALE...».
Insistendo sul fatto che i dischi hanno qualcosa a che fare con la Grande Guerra, Burgess si dimostra molto sensibile all'elemento teatrale, presente in effetti nell'intero macchinario che fece funzionare la guerra. Esisteva un disco popolare di un attacco vittorioso (vale a dire, un falso), che Alfred M. Hale ascoltò nel 1917 da un grammofono in un negozio di tè. Quel disco ricorda,
riproduceva una battaglia, e le truppe che entravano in azione. Ascoltammo il messaggio del generale prima della battaglia, che incitava gli uomini «o la va o la spacca», e poi le preghiere del cappellano, dopodiché ci fu un lungo silenzio punteggiato da rumori appena percettibili - verosimilmente, i rumori della battaglia - che si distinguevano dai suoi [del grammofono] rumori, a grandi intervalli. Infine ci fu il messaggio di congratulazioni del generale alle truppe che ritornavano segnate dalla battaglia, e questo era tutto. Ricordo di essere stato molto colpito dalla invero notevole abilità con cui tutte le difficoltà indubbiamente legate all'incisione di un simile disco erano state superate. (Materiale presente negli archivi dell'Imperial War Museum)
Esiste ancora una versione postbellica di un disco del genere, non datata ma risalente con ogni probabilità alla fine degli anni Venti o agli inizi degli anni Trenta. È destinato a quello che oggi potremmo chiamare il 'mercato della nostalgia malata': il suo pubblico dovrebbe essere composto di veterani desiderosi di ricordare spesso la guerra in termini drammatici. Sull'etichetta del disco, gli attori sono indicati soltanto come «alcuni dei ragazzi». Un gruppo di soldati britannici entra in un bar francese (sbattendo la porta) per farsi servire caffè e «cog-nack» da «Marie». Cantano «I Want to Go Home» con accompagnamento del pianoforte e scherzano sulle loro bevande. All'improvviso, un fischio acuto:
Soldato: Blimey, guarda! C'è il sergente maggiore!
Sergente maggiore: In riga!
(Rumori di gente che esce dal bar; saluti a Marie; sbattere della porta). Ufficiale: Battaglione, att-enti!
Spall'armi!
Avanti, march!
(Pifferi e tamburi, piedi in marcia. Brontolii allegramente incoerenti della truppa).
Ma ancor più interessante è l'altra facciata del disco. Essa presenta un pezzo della durata di tre minuti e dal titolo «L'attacco». È recitato con assoluta precisione, curando molto il 'realismo'. La voce dell'ufficiale che comanda il plotone potrebbe essere quella dello stesso Dollimore:
(Canti di uccelli. Poi in lontananza il fuoco dell'artiglieria). Primo soldato:
Che bella mattina!
Secondo soldato:... Presto sarà maledettamente chiara!...
Primo soldato: I crucchi avranno una bella fifa.
Secondo soldato: Sanno che stiamo arrivando. Ci scommetto.
(II grido «Barellieri!» viene ripetuto ed echeggia lungo la linea).
Ufficiale: (soddisfatto, voce da classe alta). Sembra che il reticolato davanti a
noi sia stato tagliato a dovere, sergente...
Sergente: Grazie a Dio, qui c'è del rum.
Ufficiale: Distribuiscine una razione doppia, sergente.
(Incessante fuoco d'artiglieria, sempre più fragoroso).
Ufficiale:... Ora ricordate bene, ragazzi, non dovete andare oltre [la] strada sprofondata nella seconda linea... Be', dov'è il caporale dei lancia-bombe? Chi è? Caporale: Eccomi signore!
Ufficiale: Stai bene attento, caporale, e non dimenticartene: quando entrerai nella trincea dei crucchi devi farti strada verso destra e mentre passi devi liquidare quel grande ricovero dei crucchi... E ricorda anche che la cosa importante è quel nido di mitragliatrici, che deve essere distrutto a ogni costo.
(Rumore di motore d'aeroplano).
Ufficiale: È troppo alto: non potete colpirlo.
Sergente: Quanto manca all'attacco?
Ufficiale: Poco meno di un minuto. E ora state pronti, ragazzi. Restate saldi...
Preparatevi, ragazzi.
Sergente: Quanto manca ancora, signore?
(Fischi di pallottole ed esplosioni vicine).
Ufficiale: Conto alla rovescia.... dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno. (Colpo di fischietto).
(Urla confuse: Avanti tutti! Tutti! Gli scoppi dell'artiglieria risuonano più fragorosi, colpi di fischietto, dissolvenza graduale).
(Registrazione Parlophone n. R. 517, facciata E2935 e E2936.)
La suspense è ben orchestrata, e l'effetto è quanto mai eccitante. «L'attacco» dovette essere per molte migliaia di famiglie una sorta di memoria popolare della guerra, consentendo ai veterani, quando ne sentivano il bisogno, di recitare di nuovo, per interposta persona, la parte che un tempo avevano realmente sostenuto. Il loro istinto, anche se meschino, era però giusto: sentivano che una guerra tanto teatrale poteva benissimo essere rivissuta in modo teatrale.
I più raffinati potevano invece riviverla in modo maggiormente indiretto, attraverso la letteratura. Alla fine degli anni Trenta la consuetudine di ricordare la guerra sotto forma teatrale era talmente diffusa tra i lettori che Virginia Woolf adottando come titolo Tra un atto e l'altro (Between the Acts) poteva fissare la collocazione storica del suo romanzo tra due giganteschi drammi teatrali, la prima e la seconda guerra mondiale. E in La stanza di Jacob la signora Durrant si rivolge con comprensione al giovane Jacob Flanders: «'Povero Jacob', disse la signora Durrant, dolcemente, come se l'avesse conosciuto da tutta una vita. 'Ti manderanno a recitare nella loro commedia'». Essa crede di alludere soltanto a un convenzionale spettacolo filodrammatico, ma ben presto Jacob reciterà la sua parte in un impensato teatro che lo distruggerà.
Tratto da Paul Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna, 2000, trad. di Giuseppina Ponzieri. Per gentile concessione della casa editrice