Fëdor Dostoevskij, “Il sogno di un uomo ridicolo."
[…] Sono sempre stato ridicolo, e lo so, forse, fin da quando sono nato. Forse sapevo di essere ridicolo già fin da quando avevo sette anni. Poi ho studiato, prima a scuola, poi all'università, e quanto più studiavo, tanto più imparavo che ero ridicolo. Così che per me tutta la mia scienza universitaria, in fin dei conti, pareva esistere soltanto per dimostrarmi e spiegarmi, mano a mano che mi addentravo in essa, che ero ridicolo. Come nella scienza, così mi accadeva nella vita. Anno dopo anno cresceva e si rafforzava in me quella medesima consapevolezza del mio essere ridicolo sotto tutti gli aspetti. Di me ridevano tutti e sempre. Ma nessuno di loro sapeva né sospettava che se c'era al mondo una persona che meglio di tutti gli altri era consapevole di essere ridicola, quella ero io, e proprio questa era la cosa che mi faceva più rabbia, il fatto che essi non lo sapessero, benché di ciò fossi io il colpevole, infatti io sono sempre stato così orgoglioso che mai e per nulla al mondo ho voluto confessarlo a nessuno. Questo orgoglio è cresciuto in me con gli anni e se fosse avvenuto che davanti a chicchessia mi fossi “lasciato andare a riconoscere che ero ridicolo, quella sera stessa, sui due piedi, mi sarei fracassato il cranio con una rivoltella. Oh, come mi faceva soffrire durante la mia adolescenza il pensiero che a un tratto non mi sarei trattenuto e avrei confessato questa cosa ai compagni! Ma da quando sono entrato nella giovinezza, benché ogni anno di più mi convincessi della mia orribile qualità, tuttavia, chissà perché, mi sono fatto più tranquillo. Proprio «chissà perché», perché fino a oggi non sono ancora riuscito a scoprire il perché. […]