CRISI ECONOMICA: SUPERARE IL PIAGNISTEO (1)
E' ora di smetterla con la lagna sulla crisi che è partita nel 2007 e , per l'Italia, non accenna ad essere superata, dando la colpa al fallimento dei mercati, al eccesso di potere della finanza globalizzata, responsabili della stagnazione e della crescita delle disuguaglianze.
I mercati finanziari hanno sicuramente agito come fattore determinante della crisi, soprattutto per la interdipendenza delle economie di tutto il mondo. Tuttavia non si sottolinea abbastanza la responsabilita' dei paesi ( soprattutto i quattro Pigs mediterranei e l'Irlanda) nell'aver approfittato della finanza per drogare la crescita basata sul debito. Questo vale soprattutto per la crescita drogata del settore immobiliare, in Irlanda e Spagna, e per quella di Grecia, Portogallo e Italia che hanno approfittato dei tassi di interesse "tedeschi" per finanziare il debito pubblico attraverso i titoli di stato. Ma allora dovremmo criticare i mercati finanziari non tanto per aver bloccato la crescita , ma quanto di aver dato fiducia esagerata alla crescita basata sul debito, che non poteva portare che alla successiva crisi.
Negli ultimi decenni, con la internazionalizzazione dei mercati, non sono cambiate solo le economie, ma anche la cultura, la mentalità, i costumi. Nei paesi dell'occidente sviluppato il benessere di base delle famiglie, dato non solo dai redditi ma anche dai patrimoni accumulati attraverso le passate generazioni, crea un atteggiamento diverso verso lo studio, il lavoro e il guadagno. La riduzione del tempo di lavoro e' una tendenza incontrovertibile. Parliamo non solo di orario di lavoro, ma soprattutto di tempo nell'arco della vita. Occorre considerare che una quota sempre piu' alta di giovani iniziano a lavorare dopo i 30 anni, e che i sistemi pensionistici consentivano, fino a pochi anni fa, un ritiro dal lavoro intorno ai 60 anni, a fronte di una speranza di vita cresciuta enormemente nell'ultimo secolo. Occorre allora vedere cosa significa come impatto sulla crescita, e sullo stato sociale, questa modifica strutturale del tempo di lavoro, come aumento degli anni di "non lavoro", dovuto allo studio al pensionamento combinato con tempo di vita piu' lungo.
Un altro fattore da considerare nella crisi riguarda la nuova divisione internazionale del lavoro, e la conseguente perdita di posti di lavoro nei paesi avanzati. Si produce sempre meno all'interno dei paesi ad alto benessere e si consuma sempre di piu'. Le societa' mature tendono ad avere una continua crescita dei consumi a fronte di un calo progressivo della produzione. La produzione di merci assieme alla occupazione corrispondente si sposta verso i paesi emergenti. I beni acquistati nelle economie avanzate sono principalmente importati, traendo vantaggio del costo piu' basso derivante dallo spostamento della produzione. Inoltre molti dei servizi, sopratutto del tempo libero, che fino a ieri si pagavano, e quindi avevano dietro di sé posti di lavoro retribuiti e produttori in carne e ossa, oggi circolano gratuitamente sulla rete e quindi hanno perso ogni capacità di sostenere l'occupazione e i redditi. Il consumo anche in questo caso non crea posti di lavoro.
Sulla disoccupazione giovanile non esiste solo il problema della scarsita' di lavoro, problema sicuramente importante. Parliamo innanzitutto che, molto piu' rispetto al passato esiste la possibilita'/liberta' di studiare, che spesso diventa una combinazione di poco impegno con tanto tempo libero dedicato a divertimento e relazioni. Si afferma anche una tendenza a prolungare il periodo degli studi, con un ritardo, anche oltre i trent'anni, di ingresso nel mercato del lavoro. Non cosi' in Cina, India, Singapore, ecc. Dove lo studio e' duro, per affermarsi nel lavoro e nella vita, e di vuol arrivare il prima possibile a iniziare a lavorare. Inoltre il tempo di attesa si prolunga se si vuole un lavoro che sia all'altezza delle aspirazioni, o delle competenze che ritengono di avere ottenuto con lo studio, quando si possa sfruttare il patrimonio delle famiglie e la disponibilità dei genitori ad accompagnarne l'ingresso nel mercato del lavoro. Dovremmo allora considerare quanta parte della disoccupazione giovanile si possa definire "volontaria", perché risulta dalla decisione di non cercare o non accettare offerte di lavoro, non all'altezza delle aspirazioni. I lavori manuali sono spesso rifiutati e possono trovare spesso solo gli immigrati ad accettarli, spesso pagati in nero. Si sviluppa cosi' un proletariato di non garantiti, a salari piu' bassi, per attivita' comunque essenziali per il funzionamento della nostra societa': nell' edilizia, nel commercio, nel manifatturiero, nel turismo, nell'agricultura. Lavori di manovali, camerieri, operai, lavapiatti, elettricisti, imbianchini, ecc. vanno agli immigrati, che non hanno la cittadinanza, e oltre ad essere sottopagati, non hanno alcuna protezione dallo stato sociale. Questi lavori alla maggior parte dei giovani non interessano. Questo e' possibile finche' questi "disoccupati volontari" possono essere stare a carico delle famiglie.