mercoledì 12 maggio 2021

UN CAZZO EBREO Katharina Volckmer

UN CAZZO EBREO 

Katharina Volckmer 

Il romanzo, scritto in due anni, è stato a lungo rifiutato perché considerato scandaloso. Ma è il contrario: sotto al velame delle sconcezze (chiamiamole così) emerge un racconto serio, toccante e profondo. Il vero scandalo sarebbe non leggerlo. È ironico, audace, esplosivo. Ma anche arguto, profondo, geniale. Per esempio sull’Olocausto: [...] «Ma persino oggi, dottor Seligman, un ebreo vivo genera in un tedesco una certa eccitazione, è qualcosa a cui non ci hanno preparato da piccoli. Siamo stati abituati soltanto a ebrei morti o disperati che ci guardano da innumerevoli fotografie grigie, o da qualche remoto luogo d’esilio senza mai sorridere, e noi perpetuamente debitori nei loro confronti».

[...]«E il nostro unico modo di farci perdonare da voi è stato trasformarvi in creature magiche, dotate di una polverina miracolosa che esala da ogni poro, intelligenza superiore, nomi curiosi e biografie infinitamente più interessanti. Nella nostra immaginazione nessun ebreo potrebbe mai essere un tassista e nel mio libro di teologia c’era persino una pagina dedicata agli ebrei famosi. E quando facevamo lezione di musica dovevamo cantare Hava Nagila in ebraico, dottor Seligman, trenta bambini tedeschi e neanche un ebreo in lontananza e noi cantavamo in ebraico per assicurarci di restare de-nazificati e profondamente riguardosi. Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi – istericamente non razzisti in qualsiasi circostanza, e pronti a negare sempre qualsiasi differenza. All’improvviso c’erano soltanto tedeschi. Nessun ebreo, nessun operaio immigrato, nessun Altro» [...]

UN CAZZO EBREO 


So che potrebbe non essere il momento migliore per sollevare l’argomento, dottor Seligman, ma mi è appena venuto in mente che una volta ho sognato di essere Hitler. Mi vergogno molto a parlarne persino adesso, ma ero davvero lui, tenevo un discorso da un balcone, affacciata su una folla di fanatici seguaci. Indossavo l’uniforme con quei pantaloni buffi, a palloncino, riuscivo a percepire la presenza del baffetto sul labbro superiore e facevo volteggiare la mano destra nell’aria mentre ipnotizzavo tutti con la mia voce. Non ricordo di cosa stessi esattamente parlando, penso fosse qualcosa da fare con Mussolini o forse si trattava di qualche altro assurdo sogno di espansione, ma non importa. Cos’altro è il fascismo, in fin dei conti, se non un’ideologia fine a se stessa, non contiene alcun messaggio da rivelare e in ogni caso gli italiani alla fine ci hanno battuto. Non posso fare cento metri in questa città senza leggere le parole “pasta” o “espresso”, con quella loro orribile bandiera che penzola da ogni angolo. In compenso non mi capita mai, da nessuna parte, di imbattermi nella parola Sauerkraut. Non era realistico pensare che potessimo reggere le redini di un impero per migliaia di anni con la nostra deplorevole cucina, ci sono dei limiti a quello che puoi imporre alla gente e tutti se la darebbero a gambe dopo un bis di ciò che abbiamo il coraggio di chiamare cibo. È sempre stato il nostro punto debole, non abbiamo mai creato qualcosa da goderci senza uno scopo superiore, non è mica un caso che in tedesco non ci sia la parola “piacere”– conosciamo solo lussuria e gioia. Le nostre gole non sono mai abbastanza umide per succhiare qualcuno con devozione perché siamo stati tutti cresciuti a troppo pane secco. Ha presente, quel pane terribile che mangiamo e di cui parliamo a chiunque come se fosse una sorta di mito che si autoperpetua? Penso sia una punizione divina per tutti i crimini che abbiamo commesso, ragion per cui, da quel paese, non arriverà mai una cosa sensuale come una baguette, o soffice come i muffin ai mirtilli che servono qui. È uno dei motivi per cui me ne sono dovuta andare, non volevo più essere complice della menzogna del pane. A ogni modo, mentre stavo tenendo quello che ora definiremmo un discorso d’odio, sentivo che l’applauso orgiastico proveniente dalla folla era solo una flebile compensazione delle mie evidenti deformità. Ero dolorosamente consapevole di non assomigliare affatto all’ideale ariano che smerciavo da anni, voglio dire, non che avessi il piede equino, ma né tutti gli ebrei morti del mondo, né il mio presunto vegetarianismo mi avrebbero comunque reso papabile per una di quelle foto eccitanti della Riefenstahl – mi sentivo un impostore. Possibile che nessuno notasse che sembravo una vecchia patata con una parrucca di plastica? Riesco ancora a percepire la tristezza con cui mi sono svegliata quel giorno, la tristezza di sapere che non sarei mai stata uno di quei bellissimi biondi ragazzi tedeschi, con i loro fisici greci e la pelle che al sole si dora meravigliosamente, la sensazione che non sarei mai stata ciò che sentivo avrei dovuto essere.

Non voglio dire di aver provato tristezza per Hitler, e non è in ogni caso accettabile spazzar via un intero popolo perché non sei felice del tuo corpo e perché quel popolo rappresenta ciò che odi di te stesso, ma il sogno mi ha fatto riflettere sulla sua vita privata. Sulla sua quotidianità. Si è mai immaginato Hitler in pigiama, dottor Seligman, che si sveglia con i capelli arruffati e inciampa in camera sua mentre cerca le pantofole? Sono certa che qualche tizio un po’ triste abbia scritto un libro sulla sua vita domestica, ma preferisco di gran lunga immaginarmela da me, i libri la renderebbero solamente tediosa. Riesco persino a vedere le sue lenzuola con le svastiche ricamate e il pigiama coordinato, così come tutto il resto, comprese le tazze della colazione. Ne ho viste alcune, in Polonia, in uno di quegli strani negozi di antiquariato interamente dedicati ai memorabilia dei loro persecutori, dove appunto vendevano tazze e piatti con disegnate minuscole svastiche. Sembrava una sorta di perverso universo di Barbie dove con i giusti risparmi accumulati nel tempo ti saresti potuto comprare una vita completamente nuova, luccicante e coordinata. Mi immaginavo perfino delle brevi pubblicità televisive, con un bambolotto snodato di Hitler in sella a uno di quei cavalli brillantinati, che strappa una fanciulla tedesca dalle mani di un qualche lascivo ebreo e galoppa lontano, verso il tramonto: la razza era sana e salva. Scaltri com’erano a livello mediatico, ritengo che i nazisti abbiano davvero perso una grande opportunità di marketing, pensi quanto si sarebbero potuti divertire i piccoli tedeschi se avessero avuto un campo di concentramento della Lego chiamato Freudenstadt – costruisci il tuo forno, organizza le tue deportazioni e non dimenticarti di conquistare abbastanza Lebensraum. Avrebbero persino potuto produrre accessori per adulti, a parte tutti i guanti e i paralumi fatti di pelle, avrebbero potuto creare dilatatori anali a tema cavallo fatti con capelli veri dei nemici. Ma direi che ormai quella nave è salpata. E non intendevo offenderla, dottor Seligman, soprattutto ora che la sua testa è tra le mie gambe, ma non pensa che ci sia qualcosa di bizzarro nel genocidio?

L’altro giorno mentre tornavo a casa qualcuno si è buttato sotto il treno, qualcuno che voleva andarsene col botto e mettendolo in culo ai compagni pendolari quale gesto finale nella nostra moderna guerra di disperazione. Così me la sono dovuta fare a piedi passando per una di quelle zone di Londra dove vivono persone delle vecchie generazioni, con mobili veri e bagni puliti, e quei luminosi negozi per bambini che fanno apparire l’infanzia un’invenzione francese e quei giardinetti d’ingresso dove la primavera pare arrivare prima che in qualsiasi altro luogo. Adoro soprattutto quei boccioli scuri di magnolia – sembrano così eleganti, quasi viola. Li ha presenti, dottor Seligman? E nessuno si sognerebbe mai di buttare la spazzatura davanti a una di quelle case, sono case che rendono delicati persino i più volgari dei caratteri, invece il mio vialetto subisce costantemente violazioni altrui e quando sbircio tra le tende al mattino ci trovo qualsiasi cosa, congelatori arrugginiti, vecchi beauty case, giocattoli usati. Mi domando cosa ci sia in me da far supporre agli altri che sarò felice di ricevere i loro rifiuti e sono arrivata molto vicina a rendere pubblica la mia umiliazione lasciando un cartello in cui chiedo loro di farla finita, che è una cosa grave quasi quanto chiedere del cibo o un paio di mutandine pulite. Ha mai provato a far rispettare a qualcuno i suoi basilari bisogni d’essere umano? Non sto chiedendo niente di esorbitante come del buon sesso o emozioni vere, almeno mi lasciassero a volte qualcosa di divertente, ma è come se fossi nelle grinfie di una fata deforme che vuole essere certa che nessun principe arriverà mai alla mia finestra e che tutti i miei sogni alla fine puzzeranno di pipì di volpe e somiglieranno a quella plastica che si vede nei documentari che parlano di come abbiamo ucciso madre natura. Diventano oggetti di colpa e disgusto e la notte provo ad addormentarmi senza una chiara visione del futuro. È per questa ragione che ho smesso da tempo di andare in quelle zone della città che non posso permettermi, mi fanno vedere tutti i miei fallimenti attraverso una lente di ingrandimento e mi ricordano tutte le cose che i miei genitori non mi perdoneranno mai. Perché non ho semplicemente aperto le gambe al momento giusto, perché non mi sono presa più cura del mio corpo e non ho sposato uno di quegli uomini con gli alberi di magnolia nei giardinetti d’ingresso? Avrei potuto essere una di quelle donne che stanno sedute nei caffè alla moda senza neanche una cosa di cui preoccuparsi. Sarebbe stato come vivere in una cioccolateria, dottor Seligman. Penso sia per questo che le persone ricche hanno sempre l’aria di chi è stato appena scopato con un dildo fatto su misura, mentre qualcun altro gli stirava le lenzuola fresche nella stanza accanto. È per la stessa ragione che i loro figli sono meno brutti, perché possono permetterseli davvero, perché quei bambini sanno di avere il diritto di esserci. Credo sia così che funziona il rango. Pensa sia stato un errore invece venire qui e incontrarla, dottor Seligman?

Eppure non ho paura di quello che stiamo per fare, dottor Seligman. Non ho paura di morire e nulla del genere. So che posso fidarmi di lei e che la morte è silenziosa. Non sono mai le cose rumorose a ucciderci, le cose che ci fanno vomitare e urlare e piangere. Quelle cose stanno solo cercando attenzione. Sono come gatti in primavera, dottor Seligman, vogliono provare la nostra resistenza, ci svegliano nel cuore della notte e ascoltano la melodia delle nostre maledizioni – ma non hanno cattive intenzioni. La morte è tutto quello che ci cresce dentro, tutto quello che alla fine esploderà, traboccando dai suoi circuiti naturali e inondando tutto ciò che ha bisogno di respirare. Le infezioni che covano silenti, i cuori che si spezzano senza avvisaglie. È qui che tutti quei film e programmi tv, con la loro violenza pornografica, si sono sbagliati, dottor Seligman, la gente raramente muore in quel modo. È già interamente dentro di noi il modo in cui moriremo, non c’è nulla che gli altri possano fare – proprio come da una certa età in poi tutte le persone che un giorno feriremo e scoperemo calpestano già questa terra. L’ho sempre trovato un pensiero bizzarro questo fatto che, fondamentalmente, tutta la nostra vita sia già qui. È la nostra concezione del tempo che ci forza in una prospettiva lineare. Ma è per questo che non ho paura, dottor Seligman, riesco a sentire che il mio destino non è morire tra le sue mani. Sono così delicate da non poter lasciare nemmeno una cicatrice.

E non è che io non sia mai stata innamorata, dottor Seligman. So che non può vedermi molto bene, ma non vorrei pensasse che sono una di quelle persone senza sentimenti o empatia. È solo che innamorarsi non è mai stato una cosa facile, non è mai stato l’esercizio prevedibile che sembra funzionare per la maggior parte delle persone, perché il mio amore non corrispondeva mai alla mia realtà. Perché nessun amore è mai sopravvissuto all’immagine che io ne avevo. Perché K non sapeva come maneggiare le parole. E così sono stata sola per la maggior parte della vita, così sola in effetti che ho quasi commesso qualcosa di stupido l’altro giorno, qualcosa che mi avrebbe reso perfino più ridicola e tutto perché improvvisamente mi sono ricordata del mio cuore spezzato e ho pensato che scrivere quella lettera avrebbe spinto il fato a pentirsi di alcune delle sue decisioni. È una delle mie tante stranezze, questa cosa di immaginarmi il fato come un tizio melodrammatico e grasso, sdraiato su una chaise-longue, che accarezza un patetico animale domestico mentre aspetta che i suoi capricci vengano assecondati. E io penso sempre che esista un modo per arrivare a quel tizio, per influenzarne le decisioni, mettendomi magari un orecchino speciale o non prendendo il solito treno. Oppure trovando una maniera davvero unica di suicidarmi. È semplicemente il modo in cui nego l’evidenza che non c’è nessuno ad ascoltare i miei pensieri e che la maggior parte della mia vita è trascorsa in un buco nero. So che non fa alcuna differenza se mi alzo con il piede destro o sinistro, che non c’è nessun meccanismo superiore all’opera e che potrei anche amputarmi una gamba o strofinarmi dell’acido sullo spazzolino. Il tizio sulla chaise-longue non batterebbe ciglio e mi spedirebbe in ogni caso sul mio trascurabile percorso, senza nemmeno ricordarsi il mio nome. Qualche volta riesco a sentirlo mentre offre dell’uva al suo patetico animaletto e rimpiango di essere nata dentro questa orribile pelle umana. Si immagini soltanto cosa significherebbe essere l’animale di qualcuno, dottor Seligman, il tipo di amore incondizionato che ispirerebbe. Farebbero qualsiasi cosa per lei, le lascerebbero i termosifoni accesi d’inverno anche non potendo permetterselo, e se vomitasse sul loro paio di scarpe preferite, le ripulirebbero sorridendo. E poi, un giorno, quando ne avrà abbastanza, potrà correre in mezzo al traffico e farsi investire davanti agli occhi dei suoi padroni, mandando in pezzi il loro povero cuore. Ma almeno così non lascerebbe niente dietro di sé, eccetto forse un collare e qualche copertina preferita, niente che non possa essere sepolto con lei da qualche parte nel giardino sul retro. Non ci sarebbero lasciti, nulla che i suoi eredi debbano gestire, a eccezione di notti desolate e passeggiate ormai senza scopo. Non si troverebbero nella mia situazione, o in quella della mia famiglia, dottor Seligman, ora che mio nonno è morto; siamo stati lasciati in balia del volere di un uomo anziano a noi estraneo e quando ho visto mia madre al funerale, la scorsa settimana, mi sono resa conto di quanto fosse turbata, e non solo a causa dello stato in cui ero io.

Eppure ci è mancato poco che scrivessi quella lettera al signor Shimada. So che si può diventare dipendenti dai sex toy, che se ti concedi troppi orgasmi gratis perdi lucidità e le interazioni reali diventano insignificanti. Ma io ho sempre voluto un amico di penna, dottor Seligman, da bambina rispondevo a quegli annunci, ma nessuno mi ha mai riscritto, quei bambinetti tedeschi dovevano aver intuito che già allora c’era qualcosa di sbagliato in me, o forse pensavano semplicemente che fossi un pedofilo sotto mentite spoglie. A ogni modo, io volevo davvero tenere una corrispondenza con il signor Shimada riguardo ai suoi robot o, a essere onesta, volevo chiedergli di produrne uno per me. L’avevo visto in tv mentre parlava di quelle piccole macchine del sesso che aveva ideato e prodotto, sembrava così elettrizzato dal suo messaggio. Come un moderno messia, un Gesù con un dildo che cammina. Lo so che questi robot sono progettati per soddisfare i bisogni sessuali degli uomini, perché gli uomini naturalmente hanno il diritto di vedere i propri bisogni sessuali soddisfatti, ma quanto può essere complicato invece costruirne uno con un cazzo elettronico? È probabile che lei la ritenga una cosa tremendamente triste, dottor Seligman, posso quasi avvertirla accigliarsi laggiù, ma il signor Shimada dovrebbe soltanto rimodellarlo un poco, togliere il seno, chiudere uno dei buchi, della faccia invece non mi importa granché. Non crede che sarebbe meglio se tutti avessimo il nostro robot personale da scoparci? Si immagini se fossimo tutti soddisfatti e non dovessimo più spiegare i nostri desideri. Ma, verosimilmente, si inventerebbero qualche stupido motivo per affermare che i robot maschi sono pericolosi o che non sono necessari perché chi è senza cazzo può sempre trovarne uno dietro l’angolo. Perché chi è senza cazzo deve essere controllato così che quelli con il cazzo non si sentano intimiditi, perché è una cosa negativa che gli uomini si sentano intimiditi. Ma il mio non è un auspicio politico, dottor Seligman, ho smesso da tempo di interessarmi della violenza universale che colpisce il mio corpo. Sono soltanto stanca e l’idea di potermi concentrare esclusivamente sul mio desiderio mi appare un sogno perduto da tempo. Di poter spegnere il mio partner quando non ho alcuna emozione da condividere.

Alla fine mi è mancato il coraggio, temevo che il signor Shimada pensasse che sono una maniaca. Lo so che probabilmente riceve un sacco di lettere strane, ma l’idea di essere giudicata da qualcuno che dall’altra parte del mondo costruisce manichini scopabili mi inquietava abbastanza. E poi io non sono mai stata in Giappone e non so neanche quali sarebbero i convenevoli giusti. E se avessi provato a spiegare tutte le mie circostanze e come intendessi usare il mio robot sarebbe stata una lettera davvero lunga e lui si sarebbe annoiato a morte e non l’avrebbe mai finita. O forse le mie circostanze sono banali come quelle di chiunque altro, ci saranno dei cuori infranti pure in Giappone, non crede? Riflettendoci ora, dottor Seligman, sono sicura che il signor Shimada capirebbe e magari, quando tutto questo sarà finito, gli scriverò. Voglio dire, perché scoparsi un pezzo di plastica se non per salvaguardare il tuo cuore? Sono sicura che si convincerà e mi costruirà il mio piccolo uccello parlante. Ha mai avuto intimità con un oggetto, dottor Seligman? Ho sempre avuto paura di inserire nel mio corpo qualcosa di elettrico e di folgorarmi laggiù ed essere ritrovata nella più infelice delle posizioni. Si immagini i titoli, donna single con due gatti uccisa da un vibratore difettoso. Può esserci qualcosa di più tragico? È a conoscenza di casi simili? Voglio dire, lo so che ci sono garanzie e che il Giappone non è la Cina e che usano per qualsiasi cosa i massimi standard produttivi, ma in passato non ho mai avuto il coraggio. O meglio, a essere sincera, e dato che si tratta di una visita medica e questa informazione potrebbe essere rilevante, non mi sono mai spinta più in là del mettermi una banana nella vagina. Una di quelle banane dalla buccia molto spessa e con le estremità che assomigliano quasi a delle vene pulsanti. Detesto ripensarci ora, ma all’epoca mi aveva eccitata e mi era sembrato un rischio davvero contenuto. A ogni modo il risultato fu deludente. Le cose si seccarono molto e dopo un po’ mi stufai dei miei stessi movimenti. Fu prima di sapere che puoi mettere il lubrificante praticamente su tutto e capire dunque perché la gente finisce in ospedale con metà del soggiorno su per il culo. Penso sia ciò che la solitudine fa alle persone, dottor Seligman, dimenticano come esprimere i loro desideri.

Credo stia per cominciare a nevicare, dottor Seligman. Quelle nuvole sembrano sul punto di scoppiare, e mentre venivo qui prima ho sentito quell’aria invernale. Ha presente, quel momento, il pomeriggio tardi, quando un particolare tipo di grigio sembra ormai parte dell’atmosfera e sta per ingoiare la luce ed è impossibile distinguere quello che vedi da quello che senti. Quando è freddo a sufficienza per scorgere il calore che lascia il corpo delle persone. Ma negli altri giorni deve godersi una bella vista da quassù. Va mai a sedersi al parco qui davanti alla sua finestra, dottor Seligman? Quando avevo ancora un lavoro andavo spesso a sedermi al parco vicino all’ufficio durante le pause pranzo, quel genere di parco grazioso che i tedeschi avrebbero vandalizzato ma che gli inglesi trattano come uno spazio sacro, con fiori veri e cani ben educati. Ma ora non ci vado più. Ho paura che la gente si accorga di quello che mi sta succedendo e che mettermi là seduta nello stato in cui sono mi farebbe sembrare una truffatrice. L’altra ragione per cui ho smesso di andare al parco è che ascoltare regolarmente le conversazioni delle altre persone mi faceva sanguinare gli occhi. Nient’altro ti fa realizzare con la stessa brutalità quanto la vita sia davvero banale. Fino a quando parli solo tra te e te puoi sorvolare su qualche dettaglio, ma quando vengo esposta alle chiacchiere senza senso degli altri una fortissima urgenza di uccidermi si impossessa immediatamente di me perché non riesco più a ignorare il fatto che non siamo altro che una stella morente che vaga in un vuoto infinito, senza meritare neanche un raggio di luce solare che ci tiene in vita. Dipendesse da me, il sole a quest’ora sarebbe già esploso da un pezzo. Ho contemplato persino l’ipotesi di diventare muta. Può sembrarle difficile da immaginare, dottor Seligman, ma semplicemente non volevo più contribuire all’inquinamento orale. Quando andavo ancora a sedermi al parco pregavo sempre che queste persone senza cervello fossero colpite dalla cacca dei piccioni, che fossero marchiate e macchiate per l’offesa commessa, per non aver compreso che le loro cosiddette personalità non sono altro che cumuli di sostituibili cazzate. È anche l’unico modo in cui riesco a fantasticare di me come signora dei piccioni, e a immaginare tutte le briciole e le granaglie con cui nutrirei i miei uccellini, pronte a trasformarsi in schifosissima merda giallo-marrone destinata ad atterrare sulla testa, i cappotti e il cibo della gente. La merda impedirebbe alle persone di continuare a produrre altri sproloqui, e consentirebbe di trovare un momento di silenzio, per quanto breve, in cui tutto ciò che riesci a sentire è solo la loro disperazione e il tubare compiaciuto dei piccioni. Ecco cosa sogno, dottor Seligman, e se ci riflette attentamente, sono questi piccoli gesti di rivalsa a fare la differenza, e lentamente, ma inesorabilmente, i piccioni stanno distruggendo le facciate delle nostre più amate città con la loro inarrestabile pioggia di merda. Pensi solo ai gargoyle di Notre-Dame o a quegli adorabili palazzi di Venezia che si stanno sciogliendo sotto una doccia di acido naturale, e lì vicino troverà una piccola signora dei piccioni che sorride di fronte a un’altra vittoria. S’immagini se i nazisti avessero saputo. A quanto pare provarono ad addestrare le api, anche se non so a che scopo, forse per scovare gli ebrei e pungerli a morte. Ma se Hollywood non ne è a conoscenza, probabilmente è una storia falsa. Cosa avrebbe impedito loro altrimenti di girare un film dal titolo Gli apicoltori di Hitler quando hanno praticamente usato tutti i possibili titoli con Hitler, io personalmente sono ancora in attesa di: Le forbicine da unghie di Hitler e La vera storia dietro il taglio di capelli di Hitler. Sono certa comunque che avessero dei piccioni viaggiatori per i loro stupidi messaggi in codice, ma sono certa pure che non fossero consapevoli del potere distruttivo della merda di uccello. Superiori come sempre, gli svizzeri invece lo sanno. Ho letto una volta da qualche parte che il municipio di Zurigo ha assunto un uomo per setacciare la città e sparare ai piccioni in pieno giorno. Mi chiedo se fossero incluse anche le signore dei piccioni in quanto fonti di incontrollata azione femminile, ufficialmente inscopabili come le streghe e le suore, e perciò troppo libere – pensa che gli svizzeri siano capaci di un simile livello di pulizia?

Non deve aver paura di me comunque, dottor Seligman, davvero. La sua assistente mi ha detto che è molto scrupoloso e che ci vorrà un po’ di tempo, soprattutto per le foto, perciò non voglio che si preoccupi, sono ancora convinta che le ragioni del mio licenziamento fossero un equivoco e che sia ingiusto dire che io abbia un problema con la rabbia. Ero arrabbiata quel giorno, ovviamente, era prima che cominciassi a prendere gli ormoni, ma licenziare così, senza avere la più pallida idea di quanto sia dura per gente come me. E non credo che minacciare di graffettare alla scrivania l’orecchio di un collega mentre si brandisce una spillatrice in aria possa essere davvero considerato un gesto di violenza. Non con quelle spillatrici comunque. Dubito che abbiano mai provato a spillare della carne umana a una solida scrivania con uno di quei duri aggeggi di plastica. È più plausibile che abbia rischiato io di rimetterci un occhio per colpa di una graffetta volante, ma ovviamente non glien’è fregato molto. E non penserà mica che ci abbiano mai dato degli occhiali protettivi, lo sa il cielo quante vittime può causare della cancelleria scadente. Ma adesso non mi dispiace più, che si avvelenino tutti masticando quelle orribili penne che trasformano la scrittura in una lagna. Perché la cosa peggiore non è stata perdere il lavoro, in questa città puoi fare la fame comunque, ma che mi abbiano obbligata a vedere uno psicologo di nome Jason, altrimenti avrebbero sporto denuncia. Riesce a immaginarsi come si fa a restare seri con uno psicologo che si chiama Jason, dottor Seligman? Uno psicologo che aveva l’aria di potersi chiamare Dave o Pete, che aveva il tipo di faccia che si adatterebbe a tutto, come uno di quegli insegnanti di yoga che sorridono imperterriti in mezzo a ogni atrocità, convinti che l’universo gli stia guardando le spalle. E se il sole potesse liberarsi di se stesso e girare intorno a loro, lo farebbe. È per questo che le persone come Jason pensano di poter perdonare tutti quegli insignificanti errori umani ed è anche per questo che ho deciso di mentirgli.

Non avevo idea di quali esperienze avesse Jason, ma ho pensato di mandarlo in bestia raccontandogli della mia ossessione sessuale per il nostro caro Führer e dicendogli che il mio scoppio d’ira e il tentativo di graffettare il lobo del mio collega alla scrivania erano solo conseguenza dell’impossibilità di vedere un giorno soddisfatto il mio desiderio. Non potevo confessargli la vera natura dei miei sogni e tutte le cose che non andavano nel mio corpo e dopo un po’ ho cominciato ad appassionarmi davvero alla mia storia. Un tempo volevo fare la scrittrice, dottor Seligman, e inventarmi un racconto come quello è stata un’esperienza bellissima. Più ci avvicinavamo alla fine più Jason non vedeva l’ora che la seduta si concludesse, me ne accorgevo. Credo che non ci sia nulla di più sgradevole di una perversione che non si condivide; inoltre essere rinchiuso in una stanza con una tedesca che parla da sola in uno stato semi-orgiastico mentre immagina di essere sculacciata con il frustino del Führer pone anche una questione morale, penso. Anche se Jason non sembrava veramente intenzionato a investire una qualsiasi emozione superflua, potevo intuire che stava soffrendo. Ma non raccontavo solo sconcezze, c’erano episodi di vera intimità, di quella galanteria paterna che tutte segretamente bramiamo, di dubbi e promesse infrante e dell’inevitabile epilogo in cui vengo lasciata per Eva Braun, la sua sciatta segretaria che aveva per cognome il colore più orrendo che c’è. Gli ho descritto nel dettaglio come avessi accarezzato i cani per l’ultima volta prima di restituire quei dolci simboli d’affetto, e di come fossi riuscita a sottrarre una ciocca dei suoi famosi capelli nascondendola in un paio di collant sporchi insieme a un biglietto, con la sua calligrafia, in cui mi chiedeva di indossare soltanto uno zucchetto ebraico. Credo che Jason sia proprio trasalito quando gli ho raccontato le fantasie che facevo sul mio piccolo A, come chiamavo Hitler, che mi faceva dire “il mio nome è Sarah”, prima di punirmi con il suo possente frustino. Nei miei sogni avevo capelli molto scuri e due adorabili occhioni neri e tutto appariva così meravigliosamente controverso. Jason ha giurato di firmare qualsiasi cosa che attestasse la mia natura calma e mansueta pur di non ascoltare di nuovo il racconto di come avessi preso l’abitudine di venire guardando piccole fotografie del Führer, immaginando il suo baffo solleticarmi le parti intime. Di come difficilmente raggiungessi l’orgasmo senza fare il saluto. Gli ho persino proposto di disegnare alcuni dei miei sogni e ho suggerito l’ipotesi che il gioco di ruolo avrebbe potuto essere un buon modo per superare le mie tensioni, ma tutto quello che è riuscito a borbottare era che non dovevo mai dimenticare che io non sono i miei pensieri. Più di tutto, a deludermi era la mancanza di immaginazione di Jason, dottor Seligman, ma c’era comunque una cosa di cui ero grata. Prima di quelle sedute pensavo a Hitler solo come a un grave caso di sindrome dell’uomo basso, finito terribilmente male. Un piccolo satellite disperato che cerca di corteggiare la sua stella, quando la sua stella non potrebbe essere meno interessata. Forse si sta chiedendo perché parlo del sole al femminile, ma si ricordi che nella mia lingua madre il sole è una donna e la luna è un uomo, una sorta di Valchiria che cerca di preservare le sue grazie da uno sgradevole omuncolo. Forse è per questo che siamo così contorti e forse è per questo che la cosiddetta sindrome dell’uomo basso ha avuto conseguenze tanto catastrofiche per noi. Non voglio fare di nuovo ammenda, ma forse Hitler si sentiva davvero come uno che non era in grado di soddisfare il sole. Solo un omuncolo arriverebbe a concepire la sua potenza in questi termini, a sentirsi minacciato da qualcuno a cui non verrebbe mai in mente l’idea di minacciarlo, visto che lui non è nemmeno in grado di produrre la sua stessa luce. Sono certa che al sole non importa nulla della luna e delle sue avance senza speranza, perché mai dovrebbe considerare un uomo che potrebbe benissimo introdursi nella sua vagina senza alcun impatto sentimentale?

Ma persino oggi, dottor Seligman, un ebreo vivo genera in un tedesco una certa eccitazione, è qualcosa a cui non ci hanno preparato da piccoli. Siamo stati abituati soltanto a ebrei morti o disperati che ci guardano da innumerevoli fotografie grigie, o da qualche remoto luogo d’esilio senza mai sorridere, e noi perpetuamente debitori nei loro confronti. E il nostro unico modo di farci perdonare da voi è stato trasformarvi in creature magiche, dotate di una polverina miracolosa che esala da ogni poro, intelligenza superiore, nomi curiosi e biografie infinitamente più interessanti. Nella nostra immaginazione nessun ebreo potrebbe mai essere un tassista e nel mio libro di teologia c’era persino una pagina dedicata agli ebrei famosi. E quando facevamo lezione di musica dovevamo cantare Hava Nagila in ebraico, dottor Seligman, trenta bambini tedeschi e neanche un ebreo in lontananza e noi cantavamo in ebraico per assicurarci di restare de-nazificati e profondamente riguardosi. Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi – istericamente non razzisti in qualsiasi circostanza, e pronti a negare sempre qualsiasi differenza. All’improvviso c’erano soltanto tedeschi. Nessun ebreo, nessun operaio immigrato, nessun Altro. Eppure non abbiamo mai restituito agli ebrei lo status di esseri umani né abbiamo permesso che interferissero con la nostra interpretazione della storia, fino ad arrivare a quel triste cumulo di pietre che è stato messo a Berlino per commemorare le vittime dell’Olocausto. Ce l’ha presente, dottor Seligman? Io mi domando, seriamente, ma chi vuole essere ricordato in quel modo? Chi vuole essere ricordato come il destinatario della violenza? Siamo talmente abituati ad avere il controllo delle nostre vittime che per questo, anche dopo tutti gli anni che sono passati, non riesco a non stupirmi che voi siate vivi fuori dai nostri libri di storia e dai monumenti alla memoria, che vi siate liberati dalla nostra versione di voi e che ora io e lei siamo in questa stanza insieme a fare ciò che stiamo facendo, tanto che da qua posso quasi sfiorare i suoi adorabili capelli. È praticamente un miracolo. Anche se forse dovrei dirle che i suoi capelli si stanno un po’ diradando, qui, sul cocuzzolo, ma è una cosa molto leggera, nulla che possa scoraggiare un’ammiratrice. A ogni modo, pensavo dovesse saperlo.

Pensa sia stato sciocco da parte mia non fare miglior uso di Jason, dottor Seligman? Per una volta che mi pagano per andare da un terapeuta e io non ho niente di meglio da fare che raccontargli una storia così folle. Dovrei rallegrarmi forse che non mi abbia fatto ricoverare spedendomi in qualche manicomio per essermi inventata dei soprannomi da dare all’uccello di Hitler. Ma questo è stato prima che il mio corpo diventasse il problema che è ora, quando ancora pensavo di poter semplicemente guardare un porno gay e in qualche modo ridere della situazione. Questo è stato prima che incontrassi K, dottor Seligman. Fino ad allora ero consapevole del mio dilemma, ma ci sono percorsi diversi di consapevolezza, e modi diversi di reagire alla nostra consapevolezza. E al contrario di quello che dicono, hai bisogno di un corpo da amare. Tutte quelle fesserie che raccontano sulle anime sono semplicemente false, che puoi amare un’anima a prescindere dalla forma in cui si incarna. I nostri cervelli sono fatti in modo tale che possiamo amare un gatto come un gatto e non come un uccello o un elefante. Se vogliamo amare un gatto, vogliamo vedere un gatto, toccarne il pelo, sentirne le fusa e farci graffiare se non lo accarezziamo nel modo giusto. Non vogliamo sentirlo abbaiare e se cominciassero a crescergli delle piume lo uccideremmo, lo studieremmo e infine lo esporremmo come un mostro. Non so perché i nostri cervelli siano fatti così, ma K mi ha insegnato che se cerchiamo di farci crescere delle piume senza che gli altri siano preparati all’idea di vederci volare ci spareranno dal cielo, e manderanno i loro cani a scuoterci per controllare che il nostro collo si sia spezzato, prima di buttarci in un sacco e sbarazzarsi di noi. La nostra mente può tollerare al massimo un gatto senza coda o con tre zampe, ma non può tollerare alcuna aggiunta, qualsiasi cosa vada a sommarsi a ciò con cui è previsto che un gatto nasca non sarà mai accettata. E un gatto che abbaia è un gatto malato che ha trascorso troppo tempo insieme ai cani, non è il tipo di gatto che vuoi in casa per farci giocare i tuoi figli, perché non si sa mai, la sua malattia potrebbe diffondersi e il giorno dopo il tuo Cockapoo potrebbe svegliarsi con un corno nel posto sbagliato. Fino a quando non ho incontrato K, dottor Seligman, non avevo capito che questi di cui parliamo sono confini assoluti e che nessun gatto che abbaia è mai riuscito a conquistare il cielo.

Ha presente quando ripensa alla sua vita e improvvisamente non può più far finta di essere stato all’oscuro di qualcosa? In un certo senso io ho sempre saputo di essere un gatto che abbaia, e stare seduta qui, con lei che cerca di farsi un’idea delle mie parti intime, mi riporta alla mente così tanti ricordi. Da piccolo la costringevano ad andare a nuotare con sua madre, dottor Seligman? Doveva condividere uno di quegli spogliatoi fatti a cubicolo con uno dei suoi genitori chiedendosi quanto tempo ci avrebbe messo il suo corpo a diventare esattamente uguale? Quando i suoi peli pubici avrebbero cominciato a ispessirsi e piccole verruche le sarebbero cresciute sotto le ascelle? Non so perché non potessi semplicemente aspettare fuori, come tutti gli altri bambini. Forse era il concetto di intimità di mia madre, ma ricordo quanto il suo corpo mi atterrisse, quanto mi sentissi la cosa più brutta al mondo e ogni volta che la sua pelle morbida toccava la mia mi sentivo annegare dentro quella piccola scatola, nel calore e nell’odore dei nostri vecchi asciugamani. La parola che si usava allora per le piscine era Badeanstalt, istituto del nuoto, ma Anstalt è anche un’abbreviazione per istituto mentale e qualcosa in quella terminologia rendeva i cubicoli ancora più sgradevoli, come fossero il primo gradino verso una vita da trascorrere in un confino solitario. Oltretutto, a mia madre era rimasta una cicatrice dal parto cesareo che mi aveva permesso di venire al mondo che non si era rimarginata bene, e che sembrava un verme lucido e rosso, eppure, invece di provare gratitudine, disprezzavo il suo corpo da sempre e ancora di più per quella macchia, per quel manifesto segno di debolezza. E speravo ogni volta che nascondesse la pelle flaccida in un costume intero invece di insistere con i bikini. Fuori, tutti si sarebbero resi conto che un giorno il mio corpo sarebbe stato come il suo, che i miei seni si sarebbero trasformati in quegli orribili cosi flosci, che strisce rossastre sarebbero apparse nei punti in cui la mia carne si sarebbe arresa. Avrebbero visto, messa in scena davanti ai loro occhi, l’intera tragedia del corpo femminile a diversi stadi del suo sviluppo, come quelle stupide canzoni che dovevamo cantare nei girotondi a scuola. Ancora, ancora e ancora. Non appena venivo liberata dalle quattro pareti della vergogna, dottor Seligman, correvo a cercare il primo fisico maschile a portata di mano, per ristorare lo sguardo sui toraci piatti, nutrendo la segreta speranza che potessi essere risparmiata, che il mio corpo non sarebbe cambiato e che mi sarebbe stato permesso di continuare a indossare quei costumi a pantaloncino. Che un giorno mia madre avrebbe smesso di minacciarmi con gli orrori della sua esistenza fisica.

Ha ragione, è possibile che mia madre non fosse veramente brutta, ma anche più avanti nel tempo non avrei mai superato la delusione del corpo, a causa delle discrepanze prodotte dalle mie illusioni e da tutti quegli inutili giornaletti per adolescenti. Lei vede più gente nuda di quanta ne veda io, dottor Seligman, e sarà d’accordo con me che tutto l’entusiasmo che abbiamo creato attorno al corpo è ingiustificato. È solo l’illusione che ci fa andare avanti, il fatto che abbiamo visto quelle statue antiche e ci siamo convinti che un giorno nasceranno di nuovo mortali del genere, che quelle siano vere riproduzioni di esseri umani come lei e come me. Non voglio dire che lei non sia attraente, dottor Seligman, è ovviamente un uomo di bell’aspetto anche con la calvizie incipiente e tutto il resto, ma sa, nessuno vorrebbe scolpire nel marmo uno di noi due. Non c’è nulla in noi che ispirerebbe la composizione di una melodia o di una poesia, nulla che terrebbe qualcuno sveglio la notte, dilaniato dal desiderio. È in questo che differiamo dagli animali, tranne per pochissime eccezioni, loro entrano benissimo nella parte, sono rappresentazioni perfette, di forma esatta e adeguata, della loro specie. È per questo che non esistono versioni idealizzate di tigri e panda e solo una mente perversa penserebbe a un cavallo ideale, ha presente, sì, quegli strani tipi a cui piace masturbarsi vicino a un cavallo perché qualsiasi altra cosa, nella maggior parte dei paesi, è illegale. Ma guardando fuori dalla sua finestra e vedendo così tante persone che sembrano pronte per un provino del Gobbo di Notre-Dame, forse hanno ragione. E se avessero visto la luce e avessero compreso che se c’è bisogno di raccontarsi così tante bugie prima che un essere umano diventi attraente, tanto vale andarsi a scopare un cavallo? E ovviamente i cavalli non parlano, dottor Seligman, deve essere alquanto più facile amarli.

Credo ci sia un momento in cui gli esseri umani sono veramente bellissimi. Probabilmente questo è il segno che sto diventando una vecchia sporcacciona, ma c’è un istante nella giovinezza in cui i corpi sono sodi e freschi, un po’ come i cavalli, in cui si inizia a divenire adulti ma senza ancora tutta la bruttezza che questo comporta. Prima che si mettano a pensare di costruire case e a spazzolarsi i capelli, prima che siano abbastanza grandi da poter essere menzionati in un testamento, quello è il momento in cui, agli esseri umani, si può ancora dedicare una poesia. Ora, io ho passato i trenta, nulla appartiene più a ieri, tutto è ormai avvenuto anni fa. E la risposta del mio corpo a ogni cosa sono le emorroidi e un’orribile sostanza puzzolente che fuoriesce dai miei orifizi. Non capirò mai perché il mio ombelico ogni tanto diventi fradicio, dottor Seligman, ma ricordo ancora quell’età. Quegli anni in cui tutti gli zii più raccapriccianti si riuniscono e ti molestano durante i pranzi di famiglia, quando ancora confidi che nella vita ti possa accadere qualcosa di interessante, prima di realizzare che tutti i tuoi parenti sono dei noiosi coglioni, e, nel complesso, neanche ben disposti nei tuoi confronti. Prima di renderti conto che i tuoi cugini sono i tuoi peggiori nemici e che la maggior parte delle esistenze non sono altro che infinite ripetizioni degli stessi errori, della stessa disperazione e dello stesso cattivo gusto. Ho tagliato i ponti con quasi tutta la mia famiglia anni fa e, anche se questo significa che morirò sola in una casa di riposo impregnata di piscio dove gli infermieri mi imbavaglieranno con le loro mutande sporche, significa pure che sono riuscita a liberarmi dal peggior tipo di conversazione sulla faccia della terra, quello tra i membri di una famiglia, in particolar modo tra zie. È come ficcarti un aspirapolvere nel cervello e attivarlo al contrario, solo che qui non c’è pietà, la tua testa non esploderà, il che sarebbe una benedizione. No, sarai costretto ad ascoltare quel rumore vuoto per il resto della vita. Perché il sangue è più denso dell’acqua e tutte, un giorno, siete venute fuori una dal grembo dell’altra. È una delle mie poche consolazioni, dottor Seligman, che sia riuscita a mollarle e, comunque, non comprenderebbero quello che mi sta succedendo ora. La maggior parte delle zie nemmeno capisce che tu possa volere dalla vita solo qualcosa in più dell’avere figli e morire, perché mai dovrebbero capire questo? E anche se provassi a parlare con loro mi chiederebbero tutte cosa è accaduto con l’eredità di mio nonno dopo la sua morte. E io non ce l’ho una risposta a questa domanda, voglio dire, chi lo sa che cosa gli passa per la testa ai vecchi? Sono come bambini con i soldi e una bussola morale ancora più inadeguata, sono guidati dagli ultimi desideri che possono permettersi e, in quella ricerca, nulla riuscirà a inibirli. Mi fanno paura, dottor Seligman, e qualche volta faccio degli incubi sulle mani di mio nonno e sul modo in cui insistevano nel sorreggere cose per cui non avevano sufficiente forza.

È sicuro di non voler rispondere al telefono, dottor Seligman? Non è un problema per me, davvero. Mi piace molto sentire la sua voce, a differenza di me ha un accento inglese così bello, troppo intelligente per essere snob. E potrebbe trattarsi di un’emergenza, o magari è sua moglie. È lei nella foto sulla sua scrivania, o è sua madre, dottor Seligman? Con alcuni uomini è difficile dire a chi appartenga il loro cuore, ma immagino che lei sia uno di quelli felicemente sposati con i pigiami stirati che non potrebbero mai immaginare di non essere felici. E inoltre lei fa parte di una minoranza pesantemente perseguitata, sono certa abbia dunque un sacco di figli, sono la sua forma di ribellione. Lo capisco, deve essere stato un tale trionfo per lei mettere incinta sua moglie e pensare a tutta quella gente che ha provato a renderlo impossibile. Così, in un certo senso, lei è come me e quando ha un orgasmo pensa a Hitler... sto scherzando, sono sicura che lei abbia pensato ai fiori o a come era bella sua moglie e che sia stato tutto estremamente dignitoso. Ma non crede che tenere la fotografia di qualcuno sulla scrivania sia un po’ possessivo? Adorare qualcuno, specialmente una donna, non è come seppellirlo vivo nella propria versione delle cose? Ho sempre pensato che gli uomini non fossero capaci di amare le donne per quello che davvero sono e che le abbiano perciò dovute trasformare in piccoli dolci, o meglio gateaux, sa, quelle cose dall’aspetto orripilante che in tedesco chiamiamo Torten. Il genere di cibo graziosamente decorato e in grado di sfamarti per molti giorni se necessario, il genere di cibo che potrebbe sfamare persino una famiglia, che però non compreresti in un negozio a meno che non fosse perfetto. E a un certo punto hanno cominciato a chiamare questa forma di oppressione “amore”, voglio dire, lo capisco, a nessuno piacciono i brutti, ma penso che sia un po’ esagerato etichettarla come un’emozione positiva, anziché qualcosa su cui dovremmo impegnarci tutti, come la mindfulness e i rifiuti plastici. Le basta guardare le donne nelle loro foto di nozze e poi pensare all’orribile Torte tedesca con i suoi infiniti strati di crema di burro, originariamente progettati per aiutare i pensionati a morire più in fretta, e a tutti quegli uomini in giacca e cravatta che sorridono all’ennesima donna che si è innamorata di tutte queste stronzate e si è lasciata trasformare in una piccola cosa graziosa, intimorita all’idea di muoversi e di far cadere una delle sue decorazioni, sia mai qualcuno noti che non è nata così. Che c’è una faccia sotto quella faccia e un cuore che batte sotto tutte quelle balze di stoffa bianca, lì presenti per rammentare al mondo una tirannia dell’innocenza apparentemente perduta da tempo e le generazioni di donne che sono venute prima, che hanno ceduto la propria libertà per arrivare a un giorno della loro vita in cui potessero credere veramente di essere la cosa più scopabile nella stanza e che questo riguardasse soltanto chi erano e non la conquista delle loro anime. Amare una persona in questo modo non è un po’ come stare con uno di quei robot del sesso del signor Shimada, dottor Seligman, o con un morto, qualcuno che non ha più difese e che non può più opporsi a ciò che viene detto di lui? Vorrei anche che fosse più accettabile parlare male dei morti, penso che saremmo più a contatto con noi stessi e la nostra storia se non dovessimo perpetuare il mito di quanto belle fossero le nostre nonne e dei baffi cresciuti sul loro viso solo quando erano ormai vecchie, invece di ammettere che i peli che avevano avrebbero potuto competere da sempre con le vibrisse di un gatto. Vorrei che non sentissimo questo bisogno di essere orgogliosi di qualcosa che non ha potenziale. Ma sono sicura che lei non abbia mai provato a soffocare sua moglie sotto strati di crema di burro, dottor Seligman. Potrebbe persino essere uno di quegli uomini con una storia romantica, uno di quelli che non guarda i porno, che non contemplerebbe mai l’ipotesi di cedere ai vizi che i soldi le consentirebbero di coltivare.

L’amore mi ricorda spesso il sangue, dottor Seligman. Non pensa che siano piuttosto simili? Il sangue è bellissimo e altamente simbolico solo fino a quando resta al suo posto, ma, una volta che ha sporcato la faccia di qualcuno o si è seccato su un asciugamano, ci disgusta perché la nostra mente pensa immediatamente alla violenza e a una mancanza di controllo. L’amore, come il sangue, ha bisogno di una storia che possiamo raccontare. Se scappa dalla foto incorniciata e dalle vene in cui l’abbiamo costretto, causa isteria e vengono allora messi in atto dei tentativi brutali di rimetterlo al suo posto, di contenere ciò che è contagioso, perché, come l’amore, il sangue dà la vita, ma è anche sede di tutto ciò che può ucciderci, di tutto ciò che ci spaventa, delle malattie che Dracula ha instillato nei suoi ratti. Esiste un’igiene dell’amore, non crede? Proprio come non posso andarmene in giro a spargere il mio sangue da tutte le parti – come se non avessero inventato infiniti prodotti per assicurarsi che le donne non perdano il loro sangue impuro in pubblico –, così non possono andarmene in giro e semplicemente amare dove meglio credo. Il sangue che vediamo sul marciapiede potrebbe essere di chiunque, non è immediatamente chiaro se abbiamo a che fare con una persona o un animale, e non sappiamo nemmeno come sia finito lì, se ci sia un colpevole o se qualcuno abbia compiuto un gesto autolesionista perché semplicemente non ce la faceva più. Se abbiano usato un’arma o soltanto i denti. Il sangue sul marciapiede indica disordine, proprio come l’amore fuori dalla cornice, un promemoria di tutto il dolore che ci sta inevitabilmente venendo incontro. E non mi fraintenda, non sto dicendo che dovrebbe essermi permesso di darmi alla pazza gioia in un parco giochi, ma abbiamo un’idea così tanto chiara di cosa sia una storia d’amore che se vai e provi a usare il tuo cuore in maniera diversa ti diranno che anche tu tieni nel seminterrato troppi topi malati di cui hai bevuto il sangue quando meno se l’aspettavano. Ma è colpa loro, dottor Seligman, se non avessero provato a infilare il mio corpo in una di quelle cornici fotografiche, a farmi sorridere mentre non c’era nulla di vero attorno a me, non avrei mai provato a essere come loro, e io e K non avremmo avuto bisogno di tutti quegli altri colori per dipingere un universo diverso, l’uno sul corpo dell’altra.

K poteva piangere come un bambino. Singhiozzava e si strofinava gli occhi e il labbro inferiore gli sporgeva in una smorfia di ribellione contro tutte le ingiustizie del suo fato. Non so se avesse insegnato ai figli a fare lo stesso, o se lo avesse imparato da loro, ma una volta, tempo dopo, mi ha detto che in quei momenti si sentiva davvero come un bambino, come se il suo corpo tornasse piccolo, incapace di sfuggire alla violenza degli altri, all’inevitabile debolezza dei suoi stessi arti, al potere che da sempre schiacciava i suoi sforzi. La nausea che avverti quando prendi un colpo al naso e senti l’odore del tuo stesso sangue. E così aveva trovato una via d’uscita dal suo corpo e, anche se doloroso, sapeva che la nostra carne trattiene parecchie bugie, che non dovremmo mai fidarci delle storie che scopriamo scritte sulla pelle. Penso sia per questo che dovevamo trovarci. La prima volta che ha pianto, dottor Seligman, lo guardavo e basta, come si guarda un animale che ha improvvisamente scelto di mostrarsi e di non fuggire via e, come con un animale, all’inizio non ho fatto alcun movimento, non gli ho offerto nulla di scontato, un po’ di conforto per esempio, ma sono semplicemente rimasta a guardarlo tornare al suo io precedente. Versando quei lacrimoni che raramente sgorgano da un occhio adulto, il tipo di lacrime che ancora credono alle avventure e ai rifugi. Lacrime che pensano che le favole siano vere, che fanno sogni d’oro convinte che il buio fuori dalle finestre non sia reale, ma solo un prodotto della fantasia dei loro genitori. E dopo i suoi occhi erano così puliti, non so dirlo meglio dottor Seligman, ma non si arrossavano mai, al contrario, sembravano freschi. Come se la creazione fosse appena avvenuta, come se il mondo gli si fosse nascosto per un attimo e i colori ora gli sembrassero improvvisamente nuovi. Come se potessimo addormentarci ogni notte sapendo che i nostri sogni ci avrebbero permesso di volare.

Ma non voglio annoiarla con il mio cuore infranto e tutta la storia su K, dottor Seligman. Sembra un tale cliché innamorarsi di un artista e deve sentire così tanti strani racconti con il lavoro che fa, tutti quei corpi che hanno bisogno di cambiamenti, e magari potrebbe persino non approvare il fatto che io sia stata con un uomo sposato. E Jason mi ha detto anche che dovrei provare a essere meno concentrata su me stessa e che interessarmi agli altri potrebbe aiutarmi a superare alcuni dei miei problemi. Ma la trovo una cosa molto difficile, la maggior parte della gente è noiosa, non crede? Vorrei riuscire a vedere le altre cornici sulla sua scrivania da qui, sette, giusto? Sono sicura che contengano le foto dei suoi figli e magari persino dei suoi nipoti. Immagino si sia sposato quando era ancora piuttosto giovane e che i suoi figli abbiano seguito il suo buon esempio e che si stirino sempre i vestiti e che facciate regolari riunioni di famiglia dove siete tutti molto affettuosi e felici. Dove anche le occasionali tragedie fanno parte della storia. Mi avrebbe perdonata se fossi stata sua figlia, dottor Seligman? La sua brutta figlia tedesca, fuoriuscita dal prezioso ventre di sua moglie come una mela marcia. Spesso penso a mio padre quando faccio qualcosa di sbagliato e mi rende così triste, perché so che non mi perdonerebbe mai niente di tutto questo. E non è che io non abbia mai contemplato l’idea di una gravidanza, è la cosa più ovvia da contemplare per una della mia età e non posso accendere il computer senza essere bombardata da pubblicità di test di gravidanza e pannolini, rappresentazioni di tutta la felicità che mi sto perdendo. Così ho comprato la spilla “Bambino a bordo” per viaggiarci in metropolitana, le vendevano al supermercato vicino al lavoro e ho pensato: perché no? Mentiamo su così tante cose, perché non su quello che succede nel nostro utero? E appena ho comprato la spilletta è spuntato quel sorriso, ha presente? Quel tipo di sorriso che ricevi solo quando qualcuno pensa che la tua vita sia magnifica e compiuta, quando tutti possono vedere che hai fatto sesso per una ragione e che il tuo corpo finalmente non è più tuo. Adoravo quel sorriso e per un po’ sono diventata piuttosto dipendente dalla spilla e dal potere che improvvisamente sembrava assicurarmi. Potevo chiedere alle persone di portarmi delle cose per la semplice ragione che, come diremmo in tedesco, stavo portando un’altra vita sotto il mio cuore. Unterm Herzen. Non voglio far finta di dire che comprendevo questa subitanea generosità, dottor Seligman, quando sapevamo bene tutti che non c’era alcun motivo per ritenere che questa nuova vita sotto il mio cuore si sarebbe rivelata meno banale di quella di chiunque altro. Eppure rappresenta ancora un momento santo, un momento blu e bellissimo quanto la veste della Vergine Maria, un momento in cui diventi finalmente chi sei. E io mi godevo la mia santità, mi sono resa persino solennemente intoccabile quando ho cominciato a girare uno dei miei anelli attorno al dito per farlo sembrare abbastanza piatto da essere una fede nuziale, abbastanza piatto per avere un marito in giacca e cravatta che mi aspetta a casa. Era quasi come aver trovato una religione, come se finalmente fossi nella posizione di poter disprezzare gli altri.

La spilla in ogni caso aveva i suoi limiti e ho smesso di usarla quando ho capito che dava a qualsiasi coglione il permesso di ficcarmi un dito morale su per il culo e soffocarmi con una qualche preoccupazione per il nascituro, cosa che raramente la gente dimostra verso chiunque sia fuori da un grembo. Persino io so che le madri non piacciono a nessuno. E persino la preoccupazione per il nascituro è una menzogna, dottor Seligman, voglio dire, lo sa che in tutti questi anni nessuno si è sognato di inventare una cintura di sicurezza per le donne incinte e che innumerevoli feti sono stati strangolati da quelle spietate strisce nere? Ricordo ancora come mi tagliavano il collo quando da piccola non mi sedevo per bene e mia madre mi diceva di raddrizzare la schiena, sono il tipo di arma alla buona capace di ucciderti in un attimo e mi terrorizzano, proprio come le canne da pesca e i collant. Non c’è modo che si sgancino prima di averti strangolata e se c’è forse un che di sexy nel giocare con i collant, sembra inaccettabile morire per colpa di una di quelle altre cose, essere strozzato da una delle tante banalità della vita. A ogni modo non posso permettermi una macchina, perciò nessun problema, ma persino adesso mi irrita come qualsiasi cosa, sempre, sia progettata attorno al cosiddetto corpo umano, il corpo dotato di cazzo, mettendo metà della popolazione a rischio di morte a causa degli oggetti quotidiani. E sono sicura che vale per tutto, dagli spazzolini agli ascensori, dalle borse dell’acqua calda ai pianoforti, fino alle tavolette del water. Certo può darsi che gli uomini abbiano bisogno di tutta questa assistenza extra, non è possibile nemmeno farci sesso se non hanno un’erezione, ma non posso fare a meno di chiedermi, anche se ora non mi riguarda davvero più, non lo trova irritante? O non ci pensa mai? Ho spesso provato a capire il vuoto dall’altra parte del grido, perché gli uomini come lei sono felici di tenere in gabbia e così a lungo le loro dolci metà? Una gabbia proporzionata al vostro di corpo, ovviamente, si tratta pur sempre di una tigre nella gabbia di un leone, con la gente intorno che dice che a malapena si distinguono. Eppure tutti concordano che sarebbe inaccettabile per il leone e la sua concezione di sé essere messo nella gabbia della tigre. C’è qualcosa di intrinsecamente ridicolo nella gabbia della tigre, allo stesso modo in cui io risulterei per tutti molto elegante con indosso il suo abito, dottor Seligman, mentre, se lei si presentasse con uno dei miei vecchi vestiti o con una gonna, la gente penserebbe invece che sia uscito di senno. Sarebbe la fine della sua mascolinità – della sua vita da uomo –, sarebbe un leone senza criniera, debole e umiliato, e non riesco mai a capire se ciò mi ispiri più rabbia o compassione.

Le ho già detto che mi piacciono le sue mani minute, dottor Seligman? Lo so che molte donne non sarebbero d’accordo, ma penso siano incredibilmente morbide e perfettamente adeguate alla sua professione. Sembrano quasi dei gattini, calde il giusto fin da subito, sua moglie deve esserne così felice. E non capisco perché ogni cosa che riguardi gli uomini debba sempre essere così sovradimensionata, perché le donne abbiano bisogno di sentirsi piccole. Penso sia uno dei motivi per cui, una volta che si erano esauriti i miei anni color pesca e gli zii raccapriccianti avevano voltato pagina, gli uomini non si sono mai interessati troppo a me – alcune parti del mio corpo non hanno mai avuto l’aspetto di parti del corpo di una donna, guardi solo le mie mani, sono sicura siano più grandi delle sue, per non parlare dei piedi, visto che porto un numero da uomo sin dalla pubertà. Non crede sia stupido ragionare di ogni cosa in questi termini quando non è evidentemente vero? Per anni i miei piedi sono bastati a farmi sentire un orco, senza contare tutte le industrie di prodotti progettati sia per gli uomini che per le donne, con colori e odori associati a persone con o senza cazzo. Non sono mai riuscita a capire per quale motivo questo debba essere il nostro principale modo di guardare alle persone, perché abbiamo avuto bisogno di creare un intero sistema, che arriva fino ai bagni pubblici, che separi i due generi. Per quel che mi riguarda, ho cominciato da tempo a utilizzare la toilette degli uomini, e non solo da quando ho iniziato a vestirmi come loro, ma perché non c’è mai fila, e perché volevo sapere come ci si sente. Si potrebbe dire che i bagni pubblici mi hanno insegnato più cose su di me di qualsiasi altro luogo. È stato quando li ho pensati come spazi rilevanti nelle nostre esistenze quotidiane, dottor Seligman, che mi sono sentita esclusa per la prima volta. È stato nei bagni pubblici che non ho mai confidato segreti alla mia migliore amica, che non mi sono mai ritoccata il trucco né ho scritto il nome del mio innamorato sui muri sporchi. È stato nei bagni pubblici che ho sentito per la prima volta di non appartenere a uno spazio costituito esclusivamente da donne e che non sarei mai stata in grado di condividere i momenti di estasi, intimità e dolore che sembrano in grado di unire le donne di fronte a uno di quegli specchi pieni di macchie. E non è che non avessi amiche, ma dover usare quei luoghi per via della forma che il mio corpo aveva assunto mi sembrava semplicemente sbagliato, perciò, una volta imparato a pensare con la mia testa, ho cominciato ad andare nei bagni dei maschi. E, cosa ancor più importante, dottor Seligman, è stato così che ho incontrato K.

Vuole sapere come ho conosciuto qualcuno in un bagno pubblico? Non confesserei spontaneamente questa informazione, ma già che me lo chiede, dottor Seligman. Gli uomini, per la maggior parte, si sentono minacciati quando valuti il loro cazzo in modo così brusco, quando invadi a occhi aperti uno dei loro ultimi santuari, ma non K. Potrei dire che fin dall’inizio è stato pronto a una sfida e che tutto ciò che è avvenuto in seguito era già contenuto in quel momento. Per favore, non si immagini che fosse mia abitudine andare nelle toilette maschili alla ricerca di sesso occasionale, dottor Seligman, non è il tipo di cosa che è successa con K, è solo il modo in cui ci siamo incontrati, nulla di più. E nulla di meno. Ero in piedi dietro di lui quando i nostri occhi si sono incrociati nello specchio e mi sono immediatamente dimenticata della presenza di chiunque altro in quella penosa toilette nel retro di un pub. Così come ho dimenticato che ero andata lì per fare pipì, all’improvviso non ne avevo più bisogno, tutto il mio corpo e le sue urgenze si erano volatilizzati, tutto ciò che vedevo era solo l’uccello di K. E lui l’ha capito e allora, questo gesto ancora mi commuove dottor Seligman, ha aspettato che gli altri uomini uscissero e si è lavato in uno di quei piccoli lavandini con i rubinetti separati per l’acqua calda e l’acqua fredda. È stato lì che ho saputo di potermi fidare di lui, che era sicuro sparire con lui in uno di quei microscopici cubicoli. Forse, dopotutto, è quello di cui ero in cerca in quei bagni, forse K è stato semplicemente il primo a capire che tutto ciò che volevo era succhiarlo a un completo sconosciuto, scordandomi di ogni altra cosa. Il primo che abbia saputo leggere il mio sguardo silenzioso. Credo che ormai non abbia più importanza, ma è stata la prima volta in vita mia che sono stata pronta a offrire devozione senza desiderare nient’altro in cambio, non volevo che provasse a farmi godere. Volevo solo stare lì, accucciata con la schiena contro il muro, con lui che mi teneva saldamente la testa mentre mi scopava in bocca. Mi piacevano le sue mani tra i capelli e mi piaceva che la mia lingua leccasse il lato inferiore del suo cazzo mentre scivolava avanti e indietro. E quando dopo si è offerto di farmi un ditalino ho declinato, quasi imbarazzata che ciò costituisse persino un’opzione. Eppure non mi ero mai sentita così appagata. Probabilmente lei ne sa più di me, dottor Seligman, ma non crede che siamo fuorviati dal nostro desiderio di avere un orgasmo?

Pensavo a mio padre mentre lo facevamo. È quasi il contrario di guardare i tuoi genitori fare l’amore, immaginare come ti vedrebbero fare del brutale sesso orale a un estraneo in un lurido bagno pubblico, non lo facevo perché mi eccitava, dottor Seligman, mi piace l’idea che gli altri guardino, ma non in quel modo e non sono arrivata al punto di godere nel deludere mio padre. Ci sono arrivata semmai con mia madre anni fa, ma con una madre fa poca differenza. Non sarai mai libero dal suo amore, da quell’affetto quasi animale che fa inseguire i propri figli fin dentro gli anfratti più bui, il tipo di amore che trova giustificazioni per Marc Dutroux e Harold Shipman. È come la bava di cui mia madre mi aveva ricoperta prima di forzarmi a venire al mondo, e l’idea che una volta fossi carne della sua carne mi riempie ancora di terrore. Il suo amore è sempre stato troppo, troppo imbarazzante, troppo indiscreto. L’amore di un padre non può essere confrontato, esprime un principio di scelta, è qualcosa che puoi conquistare e, ovviamente, qualcosa che puoi perdere. Ottenere l’amore di un padre è per molti versi la nostra prima vittoria, ha mai notato quanto i bambini siano civettuoli? Forse sanno che non li rispetterà nessuno solo grazie all’amore materno e che tutti troveranno di gran lunga più commovente il nostro riuscire a espugnare un cuore riluttante. Guardi soltanto quanta brutta pubblicità tocca in sorte alle madri single, qui in Inghilterra come altrove; senza l’amore paterno le tue possibilità di avere successo sono piuttosto scarse. Ne dipendiamo. Non ho idea di come funzioni da un punto di vista genitoriale e probabilmente non l’avrò mai, ma lei nutre un sincero interesse per i suoi figli al di là di quelle sette cornici, dottor Seligman? Si sente speciale per non averli abbandonati quando erano piccoli? Perché sappiamo tutti che avrebbe potuto, e che sarebbe andato tutto bene. Solo le donne sembrano non poter tagliare il cordone ombelicale, ha mai notato come, quando lasciano i figli per realizzare i loro sogni di ricchezza, di giovani maschi e vagine felici, diventino dei mostri? Come nella nostra immaginazione vengano sedotte dal diavolo e si trasformino in ricettacoli di sodomia e lussuria? Ogni tanto penso che alcune donne, una volta compreso cosa significhi essere percepita come una madre, trovino un modo per soffocare i loro feti in grembo, usando lo stesso cordone ombelicale che altrimenti le legherebbe a una vita di autoannientamento e disgustosi chutney fatti in casa dalle suocere. Ciononostante, non mi suscitano mai compassione. Non ho mai provato pietà per mia madre, mi faceva semmai arrabbiare che avesse scelto di mettermi al mondo invece di trovare un modo per sbarazzarsi di me prima che qualcuno potesse accorgersene. Che non avesse scelto di essere libera.

Lei aveva un dialogo molto schietto con suo padre, dottor Seligman? Io al mio non ho mai detto nulla perché ho sempre pensato che il silenzio fosse preferibile rispetto a una manifesta delusione, rispetto al racconto di una storia che non sarebbe mai stato in grado di capire. Non è che comunque parlassimo molto, mio padre era epilettico e perlopiù sedato dalle medicine e non penso che, a sua volta, avesse parlato molto con suo padre. Non è il tipo di cosa che mio padre avrebbe potuto imparare a casa, dove avevano tutti ereditato il silenzio del mio bisnonno. E così ho sempre avuto paura che raccontargli quello che mi succedeva davvero gli avrebbe causato una delle sue terribili crisi. Che sarebbe morto soffocato dal suo stesso vomito solo perché io non riuscivo a capire come essere una ragazza. Eppure tutto ha avuto inizio con lui steso a letto di domenica mattina, mentre cercava riposo dalla sua vita di rappresentante di lavatrici. Non è una battuta, quel lavoro allora esisteva per davvero e una volta l’anno doveva persino andare alla conferenza di aggiornamento sulle lavatrici che si svolgeva a Norimberga. La triste ironia della cosa mi è apparsa solo parecchio tempo dopo, dottor Seligman, ma davvero, quale altra città poteva essere così disperata da voler ospitare un evento del genere? In quale altro posto avrebbero potuto fare sogni bagnati sul bucato o su una canottiera pulita, fili e fili di panni stesi con camicie fresche di lavatrice che svolazzano nella brezza estiva – alla tv c’era persino una pubblicità che diffondeva quella stupida immagine. Tutto, pur di far dimenticare alla gente l’altro evento annuale che era solito svolgersi lì e le famose leggi che avevano preso il nome della città e che dividevano le persone in categorie umane e subumane, decidendo, con l’ausilio dei più piccoli e dilettanteschi grafici a torta, chi meritasse di vivere e chi no, chi avesse scopato nel modo sbagliato e chi no. E la cosa migliore che potessero farsi venire in mente, a parte la conferenza annuale sullo sviluppo delle lavatrici, è stato organizzare un agghiacciante mercatino natalizio, nient’altro che una facciata dietro cui nascondere la loro assenza di dolore. È il loro modo di far finta che questa sia la sola cosa mai avvenuta in quel luogo, che sin dal medioevo non abbiano fatto altro che vendere paccottiglia in legno esageratamente cara e che abbiano usato i forni soltanto per cuocere i Lebkuchen, sa, quei famosi biscotti speziati tedeschi. È tipico, questa incapacità di riconoscere che hanno perduto molto più dei loro beni architettonici mi fa talmente arrabbiare, dottor Seligman, e l’idea che abbiano cominciato a organizzare quei mercatini di Natale pure qui a Londra mi disgusta fino al midollo. Perché non riescono a lasciare in pace la gente?

Comunque spesso mia madre mi mandava a svegliare mio padre quando la domenica mattina restava a letto, e sapevo che sotto la coperta che tiravo via lui era quasi sempre nudo. La gente spesso pensa che l’approccio tedesco alla nudità sia molto avanguardista, che sia un segno della nostra emancipazione, ma ripensare ora alla nudità di mio padre non evoca in me un simbolo di libertà, dottor Seligman, al contrario, penso sia solo un modo di mostrare che non hai nulla da nascondere. Che il tuo corpo è sano e che non sei cresciuto con un terzo capezzolo o col piede cadente, che non ti sei scopato un ebreo per sbaglio, contaminando così l’intera razza. Che hai paura dei misteri. Non c’era nulla di particolarmente suggestivo nella sua nudità, eppure, guardando in silenzio il pene di mio padre nella camera dei miei genitori, elaborai un pensiero molto strano. E non è che potessi vedere molto, si trattava perlopiù di peli e testicoli, un perfetto esempio di modestia, ma a ogni modo, all’improvviso, mi venne in mente che avrei potuto magari comprarne uno in un negozio. Che da qualche parte, tra le Barbie e i vasetti di Play-Doh, doveva esserci una sezione in cui poter trovare il mio uccello, ecco quanto la facevo semplice. Non pensavo che la cosa ne nascondesse altre, semplicemente mi piaceva l’idea di sbarazzarmi delle mie Schamlippen. Probabilmente sa già, dottor Seligman, che in tedesco quelle labbra lì, le Schamlippen, sono chiamate “labbra della vergogna” e persino oggi non riesco a pronunciare la parola senza imbarazzarmi né riuscirei mai a trovare il coraggio di cercarne un paio in commercio. E invece, ogni volta che ne avevo l’occasione, cercavo tra i corridoi blu e rosa del negozio di giocattoli se c’era un cazzo, e cercavo invano. Nemmeno gli orsetti maschi o i robot avevano i genitali e non c’è molto da dire sulla ridicola montagnetta tra le gambe di Ken. Dubito che persino il commesso del negozio fosse autorizzato a portarsi il suo stesso uccello al lavoro, dunque lì non c’era nulla per me. Questo pensiero poi mi passava di mente e non mi ribellavo quando mi mettevano i vestitini e mi obbligavano a farmi crescere i miei orribili capelli ricci, e sono riuscita solo una volta a tagliarmi le ciglia. Non ho mai realizzato che quello fosse il primo tentativo di esprimere i miei veri sentimenti, che significasse qualcosa di più di una stramberia infantile. So che oggi le cose stanno cambiando, dottor Seligman, e che persino i bambini piccoli sono incoraggiati ad andarsi a comprare dei genitali a loro scelta, ma allora una ragazzina era ancora una figura felice che si formava intorno a una vagina, mentre tutti intorno a lei si auguravano che diventasse fresca e stretta. Il resto non contava.

Anche io non avrei saputo veramente cosa dire su K. Per me è difficile di solito descrivere le persone e non parlavamo molto di quelle cose che servono a definirci, come il lavoro e il taglio di capelli. E io in ogni caso ero stata licenziata per aver minacciato il mio collega con una spillatrice e K era un pittore a cui la moglie pagava le bollette. Non c’era veramente molto da aggiungere, e non gli ho mai raccontato di preciso come avessi perso il lavoro. Non sono neanche mai riuscita a capire di dove fosse originario K. Parlava con uno di quegli accenti stranieri che non rivelano mai da dove quella “stranierità” possa venire e, a differenza di me, non coltivava l’ossessione della sua Heimat. Per lui in realtà era quasi l’opposto, e ho capito presto che non gli piaceva parlare delle sue origini, o radici, o in qualsiasi altro modo le si voglia chiamare. E comunque è diventata una domanda così inutile da porre – da dove vieni? Penso che le persone dovrebbero essere libere di decidere per sé e che possano sentirsi diverse in momenti diversi, potrebbero svegliarsi ogni mattina e decidere di venire da posti diversi. Non sta a noi decidere. Ma non è quello che faceva K, penso avesse semplicemente rimosso la domanda dalla sua mente e quando stavamo insieme, dottor Seligman, era come se tutte le mappe fossero state staccate dal muro e potessimo smettere di essere tutte quelle cose che sei obbligato a essere in quanto persona funzionante. D’un tratto non c’erano continenti, soprannomi, genitori, lavori, figli, e, per quanto possibile, corpi. Senza metterci d’accordo abbiamo preso l’abitudine di non chiamare nulla con il suo nome, di non parlare di cazzi e vagine e di non fare l’amore nel modo in cui a entrambi era stato insegnato. Fare l’amore è un’espressione così stupida comunque, come puoi trasformarla in uno stato emotivo? E perché non si dice mai fare l’odio o la noia o la disperazione? Eppure, a volte, soprattutto dopo che K mi aveva permesso di giocare con alcuni dei colori del suo studio e di pitturargli il corpo, quando mi guardava muovergli addosso quelle sfumature rosse e rosa, sembrava così sollevato, dottor Seligman, come se gli fosse stato restituito qualcosa che aveva perso da tantissimo tempo. E io attendevo sempre il momento in cui avrebbe raccolto un po’ troppo viola e me lo avrebbe spalmato in faccia, molto lentamente e mai un altro colore. E allora iniziava a ridere, perché non solo piangeva come un bambino, ma rideva pure allo stesso modo. E c’era qualcosa di talmente irresistibile nelle libertà che si prendeva davanti al mondo. Era come se non ricordasse l’ultima volta che gli era importato veramente di qualcosa, come se fosse pronto a dipingere sopra tutto quello che incontrava sul suo cammino, seppellendolo sotto la sua esatta sfumatura di viola. Come se io potessi scomparire sotto quei fiumi di acrilico.

Questo è anche ciò che mi preoccupa delle macchine del sesso del signor Shimada, dottor Seligman. Qualcuno dovrà programmarle prima di spedirle, e, anche se non si tratta di vera intelligenza artificiale, non del tipo di robot che vediamo nei film, credo ancora che il sesso richieda in genere qualche forma di coscienza, non pensa anche lei? Sicuramente la maggior parte delle persone darà ai suoi robot un nome ed è per questo che ho paura che verrà programmato per amarmi pure se sarò soltanto io a trarne vantaggio. Capisce cosa intendo? Anche solo l’idea mi fa sentire a disagio, essendo stata cresciuta come una donna non mi è stato insegnato ad accettare favori sessuali e così mi sono chiesta se il mio robot potrà avere diverse impostazioni, magari potrebbe essere autorizzato a esprimere la sua avversione verso di me e i miei strani bisogni erotici. Alla fine potremmo litigare e, come un gatto, potrebbe scambiarmi con un diverso padrone, cosa che ovviamente io non farei nulla per impedire, proprio come lascio che le persone mi passino davanti nelle file o mi prendano in giro quando provo a ordinare qualcosa al bar. Qualcuno una volta mi ha detto che avevo una faccia da bambina, come se mi avessero visto fare le bolle soffiando con la cannuccia nel mio drink. Certi giorni mi sembra di indossare un grosso naso rosso che sono l’unica a non vedere e che nemmeno il mio robot del sesso, chiamiamolo Martin, dottor Seligman, che nemmeno Martin, praticamente un dildo che parla, potrebbe prendermi sul serio. Come se nulla potesse mai far scomparire la tua realtà. Come se ci saranno sempre giorni in cui tutte le tue cicatrici si risveglieranno, e tu sentirai ancora parole e risate che pare ti seguano ovunque. E rivivrai tutti quei vecchi dolori e quelle vecchie ferite, il tessuto compresso e il sangue che non è più il tuo. Quando la vita non sembra altro che una raccolta di istanti in cui hai perso il controllo, nient’altro che una fila di punti ciechi nella tua dignità, e tutto quello che puoi farci è scoparti un ammasso di materiale non riciclabile dotato di una voce artificiale. Credo che il pianeta starebbe meglio se ci accoppiassimo con gli esseri umani – se tenessimo a mente l’equilibrio ecologico delle nostre azioni.

Probabilmente lei ritiene che io sia una codarda, dottor Seligman, per il fatto che non riesco a descrivere Martin con la parola giusta, perché è una di quelle parole dal potenziale così offensivo che chiunque penserà che tua nonna abbia avuto una scappatella con il diavolo in persona e che presto ti verrà il piede equino e un cazzo a spuntoni grande come una casa. Io temo quelle parole, so quello che il linguaggio è in grado di fare, so che il linguaggio non mente mai, però, visto che siamo soli e che le sue pareti di velluto ci escluderanno dalla portata uditiva di chiunque, potrei persino arrivare a riconoscere che l’acquisto di Martin sarebbe una forma di sfruttamento, di schiavitù sessuale. Perché tutto ha inizio con quella concezione, e non ho modo di provare che non faccia parte della nostra indole assoggettare gli altri al nostro potere, alla nostra volontà, spezzare i loro corpi e spiriti e tentare di ritrarre costantemente un’immagine della natura umana che non esiste. Perché non esistono desideri amichevoli. E anche se Martin fosse programmato per sorridere quando lo faccio entrare, questo sorriso non avrà un fondamento vero in una situazione reale, non si baserà su alcun comportamento umano. E ho paura che mi devierà la mente, dottor Seligman, che, considerato il mio retaggio, scatenerà i miei mostri interiori e gradualmente comincerò a pensare che Martin è un uomo in carne e ossa, e che quindi posso trattare la gente in carne e ossa come tratto lui. Che dimenticherò cosa sia un essere umano e proverò a scoparmi le persone contro la loro volontà, o persino peggio. C’è da dire che questa nuova schiavitù, e tutti quei nuovi mezzi e gadget che sono costantemente a nostra disposizione come cagnolini febbricitanti, esprimono un’ironia che le precedenti forme non avevano. A differenza dei più tradizionali modelli, in cui le persone vengono ridotte ai loro corpi con l’intento principale di condurle all’estinzione torturandole a morte e di distruggere ogni prova che siano esistite, il tipo di schiavitù che ci rende tutti così ricchi, questi nuovi schiavi elettronici ci stanno seppellendo vivi. Ha notato anche lei, dottor Seligman, o forse è abbastanza fortunato da essere troppo vecchio per questo tipo di modernità, come questi nuovi schiavi siano tutti progettati per tenerci dentro casa? Come ci stiano privando di ogni contatto umano, procacciandoci cibo, spesa e orgasmi mentre annegano quello che rimane dei nostri cervelli in programmi televisivi senza fine? Come ci fotteranno e sfameranno fino a farci dimenticare in che modo pronunciare il nostro stesso nome? Fino a farci dimenticare che non siamo solamente la foto di noi stessi su uno schermo. Fino a isolare il nostro inutile residuo di identità dietro una cortina di comfort e silenzio.

E quando siamo veramente obbligati a parlare di noi, le cose diventano così imbarazzanti, perché c’è davvero poco di cui parlare. Anche lei ogni tanto deve andare a qualche drink di lavoro, dottor Seligman? Il tipo di occasione in cui non è mai chiaro se la gente puzzi di piscio o di caffè, dove si fa conversazione fino a quando tutti si annoiano talmente tanto da essere disposti piuttosto a rotolare giù per una collina dentro un barile pieno di chiodi? Quando avevo ancora un lavoro, la mia unica via d’uscita da queste situazioni era mentire sempre e far finta di essere originaria di Berlino e poi smettere di ascoltare non appena le persone cominciavano a snocciolare a tutta velocità i loro aneddoti implacabilmente prevedibili. Essere un tedesco a Londra implica due cose: fingere di venire da Berlino e di aver letto Max fottutissimo Sebald. Funziona sempre. Ma poi io non riesco davvero a capire lo scopo di questo moderno modo di viaggiare, dottor Seligman. Non crede anche lei sia una tragica illusione pensare che tutti abbiano imparato tutto dai loro tre mesi trascorsi ad Amsterdam o ad Hanoi? Semmai la cosa li ha resi ancora più cretini, perché si convincono sempre di aver acquisito in un batter d’occhio una forma di alterità glamour che li autorizza a ritenere che nelle loro vite sia avvenuto qualcosa degno di nota. Che, come per magia, siano diventati diversi, ma diversi in modo buono. Nutro molto più rispetto per chi ogni anno va a farsi la solita banale vacanza su qualche spiaggia del Mediterraneo, invece di trasformare le ferie in una dichiarazione. Sono certa che lei stia facendo scelte vacanziere molto sensibili e posso immaginarmela mentre si cambia gli occhiali e indossa uno di quei modelli sfumati e senza tempo, dottor Seligman, e porta fuori sua moglie per cena come faceva tanti anni fa. Lei non è una di quelle persone che improvvisamente si fanno crescere la barba e girano il mondo a cavallo di un gatto impagliato, frequentano i bar e mangiano tipicità per poi tornare a casa e mettersi a discettare di quelle culture. Questi individui mi irritano e basta, dottor Seligman, sono come i film americani sull’Olocausto, trasformano tutto in un cliché fino a che non senti di essere posseduta da Ronald McDonald e desideri che lì vicino, da qualche parte, ci sia una recinzione elettrica. Non so dire quando tutto sia divenuto così ridicolo da rendermi faticoso uscire di casa perché non so immaginare come si possa tornare a essere delle persone normali. Forse ha ragione nel ritenere che questo sia un argomento di cui avrei potuto parlare con Jason, che possa essere considerato parte della mia rabbia, ma non ho minacciato il mio collega a causa della sua vacanza messicana e anzi ho persino accettato con garbo quel piccolo colorato teschio glitterato che mi ha portato come souvenir. Ho addirittura sorriso ascoltando il suo racconto delle spiagge bianche e di tutto il mescal che si è bevuto e non sono stata lì a fargli notare che per arrivare in tutti quei posti sarà probabilmente dovuto passare sopra svariate fosse comuni di persone scomparse violentemente, donne per la maggior parte. Non sono quel genere di persona e questo è successo perfino prima che Jason mi dicesse che devo imparare a essere felice per gli altri e che smettendola di giudicarli potrei essere più generosa verso me stessa, potrei allenare il mio cervello a non reagire più a certi inneschi. Ma sentivo che se lo avessi fatto di me sarebbe rimasto ben poco, sarei diventata mansueta e avrei cominciato a sparire a poco a poco e così sono andata avanti a mentirgli.

Capisco perché me lo chiede, dottor Seligman, ma non sono sempre così ed è possibile che se Jason fosse stato in grado di apprezzare il significato estetico del velluto non sarei stata perfida a tal punto. È stato veramente il suo amore per il velluto, quando ci siamo visti la prima volta, a convincermi che lei fosse la scelta giusta, e poi il suo dopobarba è perfetto. C’era qualcosa nel velluto bordeaux delle sue pareti e delle poltrone a suggerirmi che lei fosse una persona seria; qualcuno di cui poter avere rispetto e di cui potersi fidare per questo lavoro. Penso che molti altri chirurghi plastici si siano involgariti per colpa della valanga di soldi che fanno e dei pazienti che operano, ma non lei, dottor Seligman, non c’è nemmeno una traccia di glamour in lei. E, per qualche ragione, non riesco a starmene qui sdraiata a fissare il velluto, forse perché comunica potere e allo stesso tempo delicatezza, è una di quelle eterne combinazioni che cerchiamo per lasciarci sedurre. Jason invece riceveva in una di quelle stanze contemporanee dove è impossibile stabilire se sei in un caffè, un ufficio, un negozio o nel salotto di qualcuno e non sono ancora sicurissima di cosa fosse. Tutta quell’estetica avocado mi intorpidiva i sensi e appena mettevo piede nel suo studio mi sentivo obbligata a mentirgli. Non c’era spazio per la sincerità. Ma, visto che perfino io facevo fatica a riempire tutte quelle sedute con sufficiente materiale sul cazzo del Führer e sul modo in cui, di tanto in tanto, includevamo i suoi cani nei nostri giochetti, ho iniziato a dirgli che talvolta mi metto a pedinare degli sconosciuti. Non ricordo come mi sia venuta questa idea, ma credo che mi affascinasse qualcosa nel grado di potere che puoi conquistare superando questi piccoli confini. Le persone sarebbero perlopiù terrorizzate se decidessi all’improvviso di metterti a fissare le loro finestre, e non si tratta nemmeno di un comportamento illegale, così come seguirle è, grosso modo, una faccenda nei limiti della legge. Penso che le maggiori perversioni nascano da un senso di insignificanza, dottor Seligman, e raccontare a Jason tutte quelle cose era quasi un modo divertente di sperimentarle, un altro modo di prendere distacco da me stessa. Ed è abbastanza facile seguire qualcuno, ha mai provato? Ci sono così tante differenti vite in questa città, non si può guardare in una direzione senza incontrare la realtà di un altro e a volte mi spaventa pensare a quante persone, attorno a me, stiano respirando, dormendo, a quante si stiano facendo una doccia e sprecando risorse proprio in questo momento, mi spaventa pensare a quanti altri modi esistano di fare le cose. Sono cresciuta in una cittadina, perciò spesso non riesco a credere che qui ci siano così tanti di noi. E saranno comunque così pochi quelli di cui conoscerai le vite, e, ora che ho deciso di venire qui e di vederla, ho più paura della solitudine di quanta ne abbia mai avuta prima. Lei ha riempito quelle sette cornici sulla sua scrivania con dei volti amati, ha costruito la sua fortezza contro la solitudine, o almeno crede di averlo fatto, ma io non potrò farlo mai più e questo mi terrorizza. E se, come il mostro di Frankenstein, finirò a fare la pervertita davanti alla felicità domestica altrui solo per esser scacciata via come un lurido piccione, gli arti rotti, sarà solamente per colpa mia. Sto esagerando, lo so, quella famiglia era infelice come il mostro e lui è stato fortunato ad andarsene e a rovinare le loro vite da lontano. K mi ha sempre detto che non siamo in grado di renderci felici a vicenda e che dovremmo soltanto accettare che la solitudine fa parte della condizione umana. Che non c’è via d’uscita dalla propria pelle e siamo tutti nati con un cuore infranto. È questo che intendono con peccato originale, pensava K.

Non gli ho mai confidato la mia paura della solitudine, dottor Seligman, non volevo offrire neanche una breccia alle sue stronzate positive e così gli ho solo raccontato di Helen, la donna che incrociavo nel mio tragitto casa-lavoro. Solitamente le donne non mi interessano; i loro corpi tendono a rammentarmi i miei doveri e mi riempiono di paura. Non posso sedere accanto a una donna incinta senza avvertire un leggero panico crescermi in gola mentre il seno comincia a sembrarmi improvvisamente più sodo. Ma c’era qualcosa in Helen che mi incuriosiva. Le ho dato questo nome perché ritenevo fosse adatto, aveva un piccolo neo di bellezza e mi ricordava Bambi, con gli occhi leggermente troppo grandi per la sua testa e sempre ricolmi di quel tipo di timore da cui gli uomini adorano proteggere le donne. È stato uno dei tanti imbarazzi della mia vita l’aver scoperto solo di recente che Bambi doveva essere un maschio e che il film è basato su un romanzo pornografico austriaco, che tra l’altro mi piace abbastanza. Bambi, il cerbiatto arrapato. Adesso dovrei dare a Helen un altro nome, certamente non quello di un cervo, ma allora mi sembrava adatto. Era minuta, aveva i capelli biondi e fonati con cura per sembrare mossi, si vestiva all’ultima moda e portava un anello di fidanzamento all’anulare. Mi piaceva il modo in cui si toccava le labbra con le sue mani sottili mentre mangiava il croissant del mattino, fingendo di essere una di quelle donne che non prendono peso, e mi chiedevo in che modo riuscisse a sopportare di essere uguale a chiunque altra. Doveva pur sapere che eserciti di altre donne a Londra portavano lo stesso anello, usavano le stesse sostanze chimiche per tingersi i capelli, tornavano a casa dagli stessi stupidi maschi e sognavano tutte quel matrimonio in Toscana. Ma Helen sembrava contenta, nonostante il suo fidanzato si fosse dichiarato probabilmente davanti a un monumento, su una spiaggia o al loro ristorante preferito gestito da perfidi stranieri che trattavano con condiscendenza, giudicando originale il loro terribile gusto negli arredi, mentre io mi accusavo di acidità e gelosia. Perché non riuscivo ad accettare che alcune donne traessero gioia dalla loro vagina e dalla loro femminilità? Perché dovevo sempre considerarla una debolezza? E così ho seguito le mie radici cattoliche e ho provato a dolermi. Prima di allora avevo associato lo stare sulle ginocchia solo a una confortevole posizione per masturbarmi, ma all’improvviso volevo imparare ad accettare quello che la vita aveva in serbo per me e il fatto che avrei potuto essere anche io come Helen. Penso che a quel punto Jason fosse piuttosto soddisfatto della mia storia, del mio inatteso desiderio di divenire una persona lineare e trattabile, di sbarazzarmi dei miei peli pubici e di cominciare ad assomigliare a una pesca. E anche quando gli ho raccontato come mi ero immaginata la vita sessuale di Helen – specialmente il corpo del marito, le chiappe sode e il cazzo solido – sembrava comunque sollevato che ci fossimo spostati dal sesso nazi e dal fatto che al solo ascoltare la voce di Adolf mi si presentassero incontrollabili erezioni anni dopo la nostra immaginaria rottura. Ero improvvisamente tornata a essere una gattara in calore che oggettificava gli uomini, cosa che deve essergli parsa più gestibile dei crimini. Mi è sembrato decisamente più a disagio quando gli ho raccontato che avevo cominciato a seguire Helen, perché vederla al mattino soltanto non mi bastava. E quando ho confessato che stavo progettando di introdurmi in casa sua, una di quelle case con gli alberi di magnolia viola nel giardino di ingresso, mentre lei si trovava in vacanza su un’isola greca, ho visto sul volto di Jason i primi segni di autentica disperazione. Gli ho detto che non avevo cattive intenzioni, ma che, quando conosco qualcuno, desidero sempre masturbarmi nel suo bagno e rubare un piccolo souvenir, un oggetto quotidiano come una bustina di tè, una penna o in alcuni casi, un capello che trovo sul suo cuscino. Sta ridendo dottor Seligman? Jason di sicuro non rideva e secondo me era convinto che avessi rinchiuso Helen nel mio seminterrato. È possibile anche che abbia pensato che sono austriaca, i tedeschi di solito non si fanno scrupolo a usare i seminterrati, a loro piace torturare la gente al primo piano, non sono così discreti. Non hanno l’obbligo di mantenere il buon nome di uno di quegli antichi imperi. E un’altra cosa Jason non capiva, che non c’è niente di meglio che masturbarsi in posti che hanno significato qualcosa per te e che non dimenticherai mai più per il resto della tua vita. È come se diventassero casa tua e questa, a parte il suicidio, è l’unica vera libertà di cui godiamo. Darci piacere quando lo vogliamo. Sono sicura che lei è d’accordo dottor Seligman, voglio dire, perché mai altrimenti avrebbe del velluto alle pareti?

Certo, mi va bene che scatti delle foto. La sua assistente mi aveva anticipato che avrebbe fatto parte della visita di oggi ma grazie per aver chiesto, e non si preoccupi, starò ferma. Non posso fare a meno di pensare che Jason fosse comunque un ingrato, non apprezzava neanche che provassi a essere consapevole della mia situazione, qualsiasi cosa voglia dire, ma credevo che gli avrebbe fatto piacere che fossi consapevole di avere anche io una situazione. Non volevo neanche che diventasse sospettoso, perché non potevo permettermi di essere denunciata dai miei ex colleghi, la mia eredità non ce l’avrebbe fatta a coprire le spese ed è solo questione di tempo prima che le mie zie comincino a fare domande. E immagino che una piccola parte di me volesse anche dispiacersi per Jason. Con persone come lui funziona un po’ come nei film western, devi sparare per primo, perché se non ti rammarichi per loro, si rammaricheranno loro per te e da lì in poi andrà tutto a rotoli. E poi mi piace far sentire le persone incompetenti, visto che io non mi sono mai sentita brava in qualcosa, allora perché dovrebbero esserlo gli altri? Sono sicura che lei non si è mai trovato in una situazione del genere, dottor Seligman, lei non permetterebbe mai a un personaggio come Jason di farle mettere in discussione le sue convinzioni. È troppo sicuro di sé e dei suoi modi, sa come vivere la sua vita e non ha bisogno di alcun aiuto in merito. A differenza della maggior parte degli uomini conosce la differenza tra una donna e una bicicletta. Questa è una qualità molto affascinante, dottor Seligman, e le persone inutili come me si attaccano parecchio al tipo di guida che lei offre, siamo come i gabbiani che seguono le navi per l’oceano, drogati da un improvviso senso di direzione e scopo. Ma le persone come Jason campano solo facendo sentire male gli altri riguardo a se stessi, facendo finta di sapere in che modo annegheranno alla fine, proprio come tutti gli altri e per nessuna ragione apparente. Come il ragazzo di quello stupido film, Titanic. Sappiamo tutti che ci sarebbe stato spazio pure per lui su quella zattera, ma sappiamo pure che quello era l’unico modo per farla essere una storia d’amore. Per fingere che lei lo avrebbe sposato, per gustarsi un cuore infranto al posto della realtà. Nessuno vuole sposarsi con la sua cotta delle vacanze e le donne non possono salvare gli uomini dalla povertà, a meno che non siano delle vecchie pervertite, solo a Jasmine hanno concesso di salvare Aladdin, ma c’è da dire che lei ha una tigre come animale domestico. Non si scherza con le tigri.

La prego, non pensi che sono una sociopatica, dottor Seligman. Lo so che abbiamo bisogno di illusioni, ma qualche volta penso che non dovremmo avere così tanta paura della verità. E non intendo la verità sul fatto che la maggior parte dell’olio d’oliva è contraffatto o che dentro una barba su tre ci sono tracce di feci, non è roba divertente e forse è meglio continuare a mentire a noi stessi su queste cose e sui danni che ci procuriamo e procuriamo agli altri. Ma che mi dice della bellezza? Non pensa che saremmo tutti più felici se superassimo finalmente quell’illusione? Quando ero più giovane, la mia migliore amica era andata da un indovino e mi raccontava in continuazione storie spaventose su una guerra imminente, la terza guerra mondiale. Lo sa qual era il mio primo stupido pensiero? Che finalmente avrei potuto mangiare tutta la cioccolata che volevo, che improvvisamente non avrebbe più avuto importanza che fossi o non fossi grassa, perché qualche potere superiore avrebbe preso il controllo del mio corpo. Ed ero così eccitata nel ricordare le foto magrissime di mia nonna dopo la guerra, dottor Seligman, convinta che presto sarei stata libera da tutte quelle preoccupazioni meschine sulla mia pancetta e il timore di mia madre che il mio sedere potesse diventare troppo grosso e che avrebbe cominciato a sballonzolare. Grazie a lei sapevo da sempre che un corpo può diventare brutto e che qualsiasi cosa tu faccia nella vita non vuoi che nessuna parte del tuo corpo inizi a sballonzolare. E fino a quel giorno non ero stata in grado di liberarmi del suo punto di vista. Rivedrò in eterno la luce dei camerini che risplende sulle mie curve orribili, rivelando tutto ciò che non volevo lei vedesse. Ma a quell’epoca decisi di andare a comprarmi della cioccolata bianca, tutte le barrette che mi sarei potuta permettere con la mia misera paghetta, e le avrei nascoste perché mia madre non le trovasse e le avrei mangiate quando sarei stata sola, al sicuro, sapendo che il mio corpo aveva più o meno cessato di esistere davanti a quella catastrofe. Compresi solo molto più tardi, dopo aver mangiato tutta la cioccolata e dopo che nessuna bomba era caduta fuori dalla mia finestra, che nessuna catastrofe, a parte forse un attacco nucleare finale, sarebbe stata sufficientemente grande da poterci liberare da quella maledizione. Che, pur essendo a capo di questo pianeta, ne siamo gli abitanti più brutti, e il desiderio della nostra bellezza non scomparirà mai, né ci basterà quella che abbiamo davanti. Eppure non dimenticherò mai il sentimento con cui mangiavo quella cioccolata, dottor Seligman, se oggi ne mangio anche solo un pezzetto mi fa venire il mal di testa, ma allora era un peccato senza conseguenze. E non ho mai smesso di sognare che un giorno il mio corpo non sarebbe stato più importante. È un po’ come immaginare che i suoi occhiali siano occhiali da sole, dottor Seligman, così la luce diventa più facile da sopportare.

Sempre con la stessa amica guardavamo un sacco di video musicali. Non mi importava molto della musica e non ho mai avuto l’impressione che venisse suonata per gente come me. Ma c’era qualcosa che mi affascinava in quell’eccentricità condensata, in quei corpi perfetti e nel modo in cui riuscivano ad affrontare di tutto nel giro di tre minuti. Nel loro riuscire a restare attraenti in mezzo a ogni calamità. Nulla sembrava avere importanza se potevi ballare e qualcuno ti aveva truccato per interpretare qualsiasi genere di storia in una manciata di battute, così presi a guardare le classifiche ogni sabato mattina nel letto della mia amica. I miei genitori non avrebbero mai pagato per quegli altri canali, per i programmi comici e quella roba americana, per le pubblicità. E non avrebbero capito perché traessi conforto da questo universo parallelo, da quelle persone che si erano semplicemente lasciate alle spalle la loro vita ordinaria e che ora vivevano di fama e lustrini, e a cui piaceva l’idea che dei perfetti sconosciuti avessero i poster con la loro faccia attaccati in cameretta. Ammiravo la loro sicurezza e grazie a quei video pensavo persino che esprimessero una certa eleganza e che quei movimenti fossero autentici. Probabilmente se la starà ridendo là sotto, ma io non mi facevo ingannare dai testi e all’epoca nessuno cantava canzoni su cosa significhi essere un ragazzo bloccato nel corpo di una donna e che per di più desidera farsi altri ragazzi. Non sono certa che ne cantino nemmeno oggi, visto che la cultura pop in fondo non è così sovversiva e dev’essere vendibile in posti dove la gente non è libera. Ma i loro corpi mi fuorviavano e devi arrivare a essere parecchio vecchio prima di renderti conto che se volessi provare a camminare per strada conciato in quel modo, persino dentro uno di quei fisici perfetti, rappresenteresti una visione piuttosto tragica, e siamo stati cresciuti tutti a immagini così gradevoli che mi sorprende come ci riesca ancora di guardarci a vicenda. Invece dopo un po’ che me ne stavo seduta lì con la mia migliore amica, scorgevo un leggero rossore apparirle sul viso: quei video la eccitavano. Ma non importava quanto anche io potessi provarci, a me non procuravano nulla, la mia vagina rimaneva muta e intorpidita come se fosse fatta con il Play-Doh del negozio di giocattoli, sfregiata e inutile. E non è che li odiassi perché ero una di quelle persone che odiano le cose che piacciono alle femmine, ci ho solo messo molto a comprendere i miei desideri, dottor Seligman, a comprendere che sarei stata sempre a un passo dall’esaudirli e che scegliere il mio componente preferito di una boyband, di cui poi faticavo a ricordare il nome, sarebbe stata una bugia perché il mio corpo era il destinatario sbagliato. Perché il mio corpo non esisteva. Perché non potevo guardare quei maschi con gli occhi di una ragazza. Penso sia per questo che ho sviluppato un gusto precoce per l’opera e il teatro, era una cosa strana pure quella, ma un tipo di stranezza di cui la gente ha sentito parlare e che è più propensa ad accettare. E mi sentivo più a mio agio in un mondo di costumi e allegorie dove almeno occasionalmente ti poteva capitare di vedere una donna vestita da maschio o degli uomini ballare in calzamaglia, muovendosi in modi che non avevo mai conosciuto prima. Corpi che non erano programmati per parlare ai ragazzi e alle ragazze, corpi che parlavano a differenti insiemi di significati, più profondi di qualsiasi cosa avessi mai sperimentato e che mi fecero innamorare alla follia di un mondo dove per poche ore tutto era possibile e dove ci si poteva emozionare tantissimo senza alcuna ragione. In quel periodo desideravo vivere su un palcoscenico, dottor Seligman, essere autorizzata ad andarmene in giro con un costume di mio gradimento.

Questo amore per il palco era una delle cose che condividevo con K. Anche lui, ogni volta che il sipario si alzava, sembrava incantato e riuscivo a percepire un’eccitazione infantile percorrerlo come una corrente elettrica. Mi ha raccontato che per lui aveva sempre rappresentato uno spazio sicuro, uno spazio dove si può sapere in anticipo quali orrori aspettarsi. Era anche uno di quei pochi luoghi dove potevi stare seduto nel buio in mezzo ad altre persone e fingere di essere come loro, una delle centinaia di altre coppie del giovedì sera, che si tiene per mano per dimostrare il suo sentimento. Non avevano idea di cosa accadesse sotto la mia gonna e devo dire che K stava diventando sempre più incauto, sapeva perfettamente che saremmo potuti incappare in una delle sue tante conoscenze – in quanto uomo sposato, conosceva molti amici degli amici – ma non se ne curava. Mi diceva soltanto che a sua moglie non piaceva il teatro e che per lui significava molto venirci con me, che lo aiutava ad affrontare le cose. E ci ho messo tanto tempo, dottor Seligman, a capire quali fossero i suoi demoni. Non era il suo corpo perché, a differenza di me, nel suo aspetto e nel suo modo di muoversi dimostrava la sicurezza di una popstar, e così passavo molte ore nel buio accanto a lui, domandandomi cosa lo avesse fatto scappare dalla sua vita perfetta per venire e stare con me e la mia vagina sempre più disfunzionale. Questo poi è uno dei miei tanti difetti, dottor Seligman, il non saper immaginare l’infelicità altrui. Per tutta la vita mi sono sentita così violentata dalla società da rifiutare a coloro che vivono secondo le sue regole il diritto di essere infelici. Li volevo sorridenti fino alla morte per il loro essere a favore di quelle istituzioni e di quelle restrizioni che mi avevano reso tutto così difficile, per il loro pensare che, fintanto che riempi tutte le caselle e segui tutte le regole, continueranno a spuntarti fiori dal buco del culo fino alla fine dei tempi. Non volevo fossero autorizzati a parlare del loro dolore, volevo che soffrissero per la loro idiozia, che patissero la fame come quello stupido re greco, dentro la loro maledetta felicità. E anche con K, ho visto una foto di sua moglie una volta, era carina, sa, un po’ tipo Helen, una di quelle donne che non si preoccupano dell’essere donne, e ci ho messo moltissimo tempo ad accettare che lui si sentisse solo dentro tutta la sua felicità e che anche lui subisse la pressione di dover sorridere nelle foto di famiglia o di dover sorridere in generale. Ha presente come oggigiorno siamo tutti costretti a spassarcela in continuazione? Come le persone sfoderino il loro sorriso più largo per le pubblicità delle assicurazioni sanitarie e i trattamenti antiverruche? Se fosse per loro continueremmo a sorridere pure mentre dormiamo e la cosa peggiore è che questi individui si sentono criticati se non ricambi il sorriso o rifiuti di divertirti. Se lei fosse un normale chirurgo plastico, dottor Seligman, le chiederei di silenziare quei muscoli della mia faccia, di mettere fine a questa industria della felicità.

Ha paura dei cani, dottor Seligman? O piuttosto è uno di quegli uomini che vivono ciò che rimane della loro sessualità soprattutto attraverso i genitali sovradimensionati dei loro animali? A quanto pare, gli uomini, quando vedono un cane, vedono le parti intime prima di qualsiasi altra cosa – quasi fossero vittime dei loro stessi sogni. Pensi soltanto a tutte le padrone di cani a cui hanno lanciato sguardi eccitati e a tutti i maschi che hanno torturato perché si sentivano inferiori. Eppure questi uomini spesso si rifiutano di far sterilizzare le loro bestiole, temono che la cosa possa riflettersi negativamente sul loro uccello inattivo. Ma allora non mi preoccupavo affatto di questi animali, non pensavo che i loro piccoli musi adoranti mi si sarebbero potuti rivoltare contro. Fino a quando K non mi ha raccontato della sua paura dei cani, non mi era mai venuto in mente che alcuni di loro possono rappresentare una specie di arma illegale al guinzaglio, che quei denti potrebbero lacerarmi la carne e che le loro mascelle sarebbero sufficientemente forti da masticarmi le ossa. All’inizio è stato così strano per me, dottor Seligman, perché quando uno vedeva K pensava fosse un omone, dotato del tipo di fisico che è progettato per rimanere incolume. Ma il corpo che gli altri percepiscono non è mai il corpo che noi percepiamo e ogni volta che vedeva un cane si spostava dall’altro lato della strada e anche lì, mentre gli camminavo a fianco, riuscivo a sentire quanto il suo corpo fosse congelato dalla paura. Trovavo molto irritante che avesse un orgoglio così vulnerabile, che chiunque potesse accorgersi che portava una ferita che la sua pelle non era mai stata in grado di rimarginare. È come guardare qualcuno che viene schiaffeggiato dalla sua stessa mano. Non abbiamo mai parlato di questa paura, così come non abbiamo mai parlato della sua paura del buio perché ho sempre pensato che non c’è nulla di più privato delle paure e K ne era un vero collezionista. Non sarebbe bastata una vita intera per archiviarle tutte. A cosa pensa quando sente la parola paura, dottor Seligman? Io penso a una parte del mio corpo che non conosco, ma che sono sicura esista, una carne rosa che c’è da prima che nascessi. Qualcosa che non vuole essere toccato perché non ha pelle per proteggersi, una versione di me che non ha mai la possibilità di vivere e che respira da qualche parte nell’oscurità, terrorizzata all’idea di essere scoperta dalle mani sbagliate. Umida e senza forma. Ma lei, dottor Seligman, ci pensa mai all’angoscia? Ai miei avi con le loro uniformi e i loro cani? K mi ha fatto molto pensare a quell’immagine, a quanto si accresca la violenza se la si delega a un animale che è nato senza intenzioni, un animale che in altre circostanze l’avrebbe protetta. Un animale a cui è stata tolta la dignità perché tu potessi essere relegato al suo rango. E comunque non le avrebbero neanche concesso la possibilità di essere un gladiatore, hanno puntato dritti all’umiliazione, al potere di chi pensa di aver corrotto la natura a proprio vantaggio, cosa che mi riporta a un’altra delle mie inquietudini, dottor Seligman. La violenza è un giocattolo piuttosto maschile e sento che sottoponendomi a questo processo mi sto aprendo a quella possibilità. Mi sto esponendo al rischio di diventare uno di quei tedeschi con la faccia a salsiccia che ha bisogno di avere un pene canino, e la cosa mi preoccupa, dottor Seligman, mi preoccupa molto.

Penso sia una delle ragioni per cui sono venuta qui da lei; a essere sincera, è forse la ragione principale, e so che questo potrebbe suonarle un po’ strano, dottor Seligman, ma quando ero più giovane pensavo sempre che il solo modo per superare davvero l’Olocausto sarebbe stato amare un ebreo. E non semplicemente un vecchio ebreo qualsiasi, ma uno fatto e finito, con i boccoli e lo zucchetto. Uno devoto e che sa leggere la Torah e non esce mai di casa senza un cappello nero. Lo so che era un’idea di cattivo gusto e glielo sto dicendo solo per farle capire da dove vengo e forse anche per confessarle che ho sempre avuto un debole per quei boccoli. Io stessa ho attraversato una fase in cui mi mettevo i bigodini ogni sera per fingere di avere quei capelli mossi che odiavo così tanto, e adoravo l’idea che un uomo facesse la stessa cosa, sembrava tutto improvvisamente più fluido e mi sentivo meno ragazzina nel farlo. Continuo a pensare al gesto di srotolarsi i bigodini a vicenda al mattino, a come sarebbe stato dolce. Ma ovviamente non ha alcun senso pensare di poter compensare un crimine per conto di qualcun altro e che la mia altrimenti inutile vagina possa divenire improvvisamente un simbolo di pace accogliendo uno di quei bellissimi cazzi circoncisi. E comunque dove vivevamo noi non c’erano ebrei, nemmeno un promemoria che un tempo ce n’erano stati, niente, se non quello strano silenzio tedesco che sono giunta a temere più di ogni altra cosa. Quel modo di fingere che ogni cosa sia stata inghiottita dalle rovine. Me ne sarei dovuta andare in una delle città più grandi per scovare il mio ebreo e, se l’idea di raccontare questo piano a mio padre e forse persino a mio nonno mi piaceva, non avevo però il coraggio di partire alla ricerca del mio Shlomo. È così che chiamavo il mio nuovo innamorato immaginario, dottor Seligman, mi era sempre piaciuto quel nome. Non sono nemmeno certa che mio padre avrebbe avuto chissà quale reazione, le sue medicine avrebbero ovattato gran parte della sua disperazione, eppure mi sarebbe piaciuto esplorare quelle aree molli della mia famiglia, quel tessuto che è cresciuto attorno al passato. Provare a superare quel vuoto che sta tra noi e chi saremmo stati se non avessimo deciso di cambiare per sempre le cose in un istante di furia genocida. Non sono mai stata veramente capace di comprendere quello che abbiamo fatto, dottor Seligman, quello che significa spazzare via un’intera civiltà, ma ho sempre sentito di essere cresciuta in un paese spettrale, in cui c’erano più morti che vivi, in cui abitavamo città che erano state costruite attorno alle rovine di quelle di un tempo e ogni giorno ci faceva sentire come se calpestassimo qualcosa che non avrebbe dovuto essere lì. Ho sempre avuto l’impressione che avessimo spazzato via anche noi stessi. E ho sempre pensato che trovando Shlomo avrei potuto anche trovare un modo per tornare allo stato perduto delle cose, per recuperare un frammento di ciò che era andato così irrimediabilmente smarrito. Ma non c’è modo di tornare indietro e dubito proprio che sarei stata capace di tentare il povero Shlomo con le mie parti intime e ammiro davvero il coraggio che lei dimostra, dottor Seligman, nell’allungare le sue mani dentro una vagina tedesca. E io voglio prometterle che ne varrà fino in fondo la pena, non solo perché in questo modo si sta assicurando che non avrò figli, ma perché sta donando a una donna tedesca un cazzo ebreo. È una cosa estremamente più radicale di quanto lo sarebbe mai stata la mia relazione con Shlomo, non pensa? È come l’Übermensch che finalmente diventa vero. Riesco quasi a percepire il sole che sorge sul mio capo e le trombe che si preparano in sottofondo mentre camminiamo mano nella mano, certi che la nostra sarà una vittoria vera. Che questa volta si tratterà di un progetto di pace. Forse avremmo dovuto pensare a fare richiesta per dei fondi europei, il nostro progetto si sarebbe potuto chiamare tipo “Scambiare forme e menti: come avere un pene ebreo ha cambiato la mia vita”. Non crede dottor Seligman? Avremmo potuto essere famosi.

So che me lo ha già chiesto, ma non ho detto a nessuno che sono venuta da lei. Non è che mi vergogni, ma preferisco dire le cose una volta avvenute. Mi piace il senso di inevitabilità. Dovrò naturalmente comunicarlo ai miei genitori alla fine ma, sa, mia madre ha sempre voluto che diventassi un’insegnante, una professoressa, e non qualcuno che viene licenziato da un impiego amministrativo di terz’ordine e che ha speso una piccola fortuna per farsi un uccello. Perciò sarà dura per lei e si chiederà pure dove abbia preso i soldi. E il desiderio che diventassi un’insegnante le era stato tramandato da mia nonna, che non aveva mai potuto esserlo perché, come per mia madre, non c’erano abbastanza soldi per far studiare una donna, e quando mia madre incontrò mio padre con le sue lavatrici era già troppo tardi. Ma poi la vita ti concede la possibilità di affliggere i tuoi figli affinché rimedino ai tuoi fallimenti. Anche se tu non hai combinato un bel niente, puoi sempre scoparti qualcuno e lasciar fare alla prole, nonostante i miei genitori abbiano ovviamente una romantica foto di nozze per testimoniare l’autenticità dei loro sentimenti. Io non ero soltanto il prodotto della loro frustrazione, o almeno così raccontano. Ma ai loro occhi rappresento comunque una delusione, e nulla mi rivela più chiaramente l’assurdità della mia situazione di quando provo a immaginarmi come una di quelle professoresse tedesche, orgogliosamente dotate di seno, di fronte a un’aula piena di adolescenti che avrebbero dovuto chiamarmi Frau Göring-Mengele, o Bormann-Speer, o semplicemente Fräulein Adolf. Il solo pensarlo mi fa ridere, io che educo dei giovani e dentro una vita immediatamente cristallina per chiunque. Non è che a volte non provi invidia per quelle persone, dottor Seligman, quando mi sento giù mi chiedo quanto davvero valga il mio briciolo di libertà e se non esistesse davvero un modo per rimettermi in sesto, fare pace con le mie tette e suscitare l’odio per la letteratura e la musica in generazioni di ragazzini. Non ho mai avuto un cervello scientifico. Ma era impossibile che durassi, perché se decidi di vivere una vita di quel tipo poi devi viverla per davvero e se la gente viene a sapere che ti piace succhiarlo a degli sconosciuti nei bagni pubblici, non metteranno più i loro figli nelle tue mani. E ti inseguiranno con i forconi quando scopriranno che quelli che stringevi tra le labbra erano i loro mariti. In quanto donna, per non costituire una fonte di pericolo, mi sarei dovuta sposare, e questo è sempre stato fuori discussione per me. Non ho mai sognato quel sogno, dottor Seligman, nemmeno da bambina.

E credo ancora che K mi avrebbe trovata comunque e che non gli sarebbe importato niente dell’anello al mio dito, né sarebbe importato a me. Nulla ci avrebbe impedito di giocare ai nostri giochi e lui mi avrebbe fatto tornare indietro, in quei luoghi, in ogni caso. Non è che ogni tanto non ci potessimo permettere una camera d’hotel, ma K si eccitava a fare i nostri giochetti in pubblico. In qualsiasi cosa K facesse, dottor Seligman, cercava sempre una forma di esposizione in posti sicuri, non ho mai conosciuto nessuno con meno senso della privacy di lui. Il suo gioco preferito era farmi andare con un uomo a sua scelta e poi ascoltare dietro la porta. La cosa potrebbe scioccarla, dottor Seligman, ma dal primo minuto mi sono fidata di K e adoravo essere dominata in quel modo e adoravo anche il brivido di non sapere mai se ci fossimo appena incontrati per bere qualcosa o se avesse altri piani in serbo per me. E quando ero stata disubbidiente mi sceglieva un uomo molto brutto, uno di quelli che può solo sperare in una scopata di compassione. È incredibilmente facile offrire del sesso orale agli sconosciuti, è quasi come se non avesse valore perché non c’è mai il rischio di fare un bambino, perché non si tratta di un vero incontro tra due corpi, quanto piuttosto della fonte di sollievo che è una bocca a offrire. Ma a me non è mai importato nulla di queste cose, ero diventata indifferente a questo corpo e a ciò che gli accadeva, perché credo che a quel punto avessi già preso la decisione di venire qui da lei e il mio tempo con K assomigliava alla fine di una festa che organizzi in una casa che sai dovrà essere demolita. È tutto senza conseguenze. E mi divertivano anche quegli altri giochetti, quando mi faceva sdraiare sul pavimento del suo studio e mi chiedeva di masturbarmi mentre lui lavorava, andando avanti e indietro o facendo telefonate e io non potevo fermarmi finché non me lo diceva lui. Non avevo mai provato così tanto piacere prima eppure mi dava fastidio che per alcuni di questi giochi io dovessi sempre interpretare la parte di una donna. Capivo che K poteva scegliere solo maschi etero per i nostri giochi, ma penso lo facesse arrabbiare quando mi vedeva osservare quegli altri uomini, quelli che facevano l’amore tra di loro, perché non era possessivo quando si trattava di cose che poteva offrirmi anche lui, sapeva di essere bravo in quello. Ma riguardo alle altre cose, non gli piaceva vedere che le desideravo, dottor Seligman, e quando ho capito che K era più di quello che pensavo, era troppo tardi. Quando ho capito di essere divenuta preziosa per lui, e che non è vero che le stelle più rosse sono sempre le più fredde.

Non voglio essere nuovamente cattiva, e so che per certi strani versi potrebbe persino essere considerato un suo collega alla lontana, ma mi è appena venuta in mente quella che credo sia la più stupida delle domande che Jason mi abbia mai posto, dottor Seligman. Un giorno, dopo essermi accomodata in quella fragile sedia senza poggiatesta che pensava adatta ai suoi pazienti, e prima che potessi partire di nuovo per una delle mie tangenti, mi ha chiesto se ritenessi di essere stata una bambina buona. Non se fossi stata una bambina buona, ma se ritenessi di esserlo stata – solo uno cresciuto in Gran Bretagna potrebbe fare una domanda del genere, non crede? Come se la tua storia fosse in qualche modo in capo a te e alla tua interpretazione, come se avessi voce in capitolo, come se fosse una situazione felice. E la cosa non mi ha fatto arrabbiare, ma sono diventata improvvisamente invidiosa, perché ho capito che non tutti sono cresciuti come me, che c’è chi può guardare al passato ed esserne contento. Che i fatti possono essere flessibili. Voglio dire, lo so che in quanto tedeschi non potremo mai affrancarci dal nostro passato e cominciare a coltivare allegri fiorellini nei nostri giardinetti di ingresso – il nostro panorama sarà sempre una cosa che è stata rasa al suolo e che da vicino assomiglia al cemento. È semplicemente così, ma la domanda di Jason non solo mi ha fatto realizzare che qui le persone pensano di avere un ruolo nel proprio passato, ma che sono anche libere dalle fatiche della colpa. Siccome hanno vinto una guerra, possono affermare di pensare d’essere stati sempre buoni. E possono persino avere una regina e far sembrare di avere solo bisogno di costruire memoriali per se stessi e non per i crimini che hanno commesso altrove. Mi ricordo all’inizio, quando mi sono trasferita qui, quanto mi affascinasse che i soldati potevano essere considerati eroi e che tutto ciò che rimaneva di un impero che aveva abbracciato il mondo fosse l’amore per l’esotico – per lo zucchero, il rum e le spezie – e la comodità di una lingua parlata universalmente. Si immagina cosa significa per qualcuno come me sognare il lusso di un passato pulito, dottor Seligman? Deve essere come trovare un modo accettabile di accoppiarsi con dei cuccioli, affondare in infiniti strati di lanugine e non sentire mai più nulla che possa turbarti. E mi chiedo se qualcuno abbia modo di dire al signor Shimada questa cosa, che ciò che le persone davvero vogliono è l’oblio e la lanugine e non un robot iperaccessoriato da portarsi a letto. Non ricordo in realtà cosa ho risposto a Jason, sono sicura che ho trovato un modo per tornare alle mie solite disgrazie senza rivelare nulla di troppo importante, o forse ho fatto finta di non ricordare granché del mio passato, ma ora che ci penso mi viene in mente un’altra storia. E anche se questo processo è da tempo divenuto normale, mi fa sentire ancora un po’ divertente, come se fossi disonesta, mentre, davvero, si tratta di una cosa diversa. Perché la storia a cui sto pensando e che ora vorrei dire a Jason che non è mia, è una delle storie di K e lei potrebbe qualificarla come una bugia, ma per me è diverso, dottor Seligman, perché a essere sincera, non riesco a ricordare chi io fossi prima di incontrare K.

Le è mai successo, dottor Seligman, che qualcuno l’abbia spezzata in due versioni di se stesso? Prima e dopo. Che improvvisamente ogni parola che pronuncia le suoni un po’ strana perché ha il vago sentore che la sua lingua in precedenza si muovesse in modo diverso, ma non riesce a ricordare come? Che improvvisamente tragga uno strano orgoglio dalle sue imperfezioni, e i suoi movimenti sembrino essersi aggiustati alla realtà di qualcun altro? Non mi capitava mai di sentire questa repentina tristezza e posso giurarle che il mio naso era dritto, che prima c’era una simmetria che distingueva la mia faccia da quella degli altri. E non riesco a capire come mai i miei occhi siano divenuti di punto in bianco così verdi. È quasi come se K avesse versato un po’ del suo viola nelle mie vene e nelle mie ossa, per assicurarsi che tutti potessero vedere le tracce che aveva lasciato, che gli appartenevo in un modo in cui solo gli amanti pensano di appartenersi. Che ogni suono prodotto dal mio corpo avrebbe trasportato il trillo della sua voce e ogni suo gesto di riluttanza nelle dita, dopo aver soddisfatto i suoi bisogni. E penso che in un certo senso siamo tutti questa cosa qui: storie di altri. È impossibile essere noi stessi, ho provato per così tanti anni a essere ciò che definiscono “autentico”, ma adesso so che non sono soltanto una, quanto il prodotto di tutte le voci che ho ascoltato e di tutti i colori che ho visto e che ogni cosa che facciamo è causa di sofferenza per qualcun altro. E in un certo senso non importa di chi sia davvero la storia e ripensando al passato non credo che io e K fossimo mai stati in disaccordo su certi temi. So che non gli importerebbe, che gli piacerebbe che il suo passato fosse messo in scena e sono certa che persino lei, dottor Seligman, e le sue sette misteriose cornici sulla scrivania, siete fatti di altre storie. Sa, in qualche modo sto iniziando a percepire che c’è un altro lato di lei, che magari queste cornici non contengono foto dei suoi figli e nipoti, ma dei suoi sette peccati preferiti. Con il cambiare della luce la mia testa si fa un po’ trasognata – penso di vedere i primi fiocchi di neve danzare fuori dalla sua finestra – e comincio a intuire che lei può essere capace di qualcosa di più che amare soltanto una moglie. E per favore non pensi che la giudicherei, al contrario, io ammiro le perversioni e adoro l’idea che lei ogni mattina, dopo aver fatto colazione con sua moglie, possa venire qui per masturbarsi con dissolutezza diversa mentre aspetta il suo primo paziente. Che sia grazie a ciò che è stato in grado di sorridere a sua moglie in tutti questi anni. O magari quando è al telefono, se le capita mai di rispondere, oppure con un paziente, può permettersi di essere sempre cordiale e rilassato, sapendo che non è la persona con cui loro pensano di parlare. Che il loro rispettabile dottore talvolta si eccita con piccole fotografie del nostro defunto Führer. Nulla mi renderebbe più felice, dottor Seligman, se avesse una foto diversa con un nazista diverso per ogni giorno della settimana, rivendicando ciò che è così giustamente suo e venendo sui loro inamovibili, minuscoli, volti.

A ogni modo, la storia che K raccontava e che vorrei ora raccontare a Jason, dottor Seligman, era la storia di lui che da bambino scriveva lettere alle persone che non gli piacevano, mettendo i suoi genitori nelle situazioni più imbarazzanti, perché ovviamente la maggiore parte di queste persone erano, guarda caso, amici e vicini. A quel tempo si potevano trovare gli indirizzi di tutti sull’elenco telefonico, le cose in un certo senso erano molto meno private. E dunque K scriveva semplicemente tutto quello che trovava fastidioso in questa gente e, visto il suo talento per l’osservazione e il grado di cattiveria di cui era capace, probabilmente non risparmiava alcun dettaglio. Riesce a immaginarsi cosa significhi fare una cosa del genere all’età di otto, nove anni, dottor Seligman? Io non osavo nemmeno sciogliermi le trecce senza chiedere il permesso e K invece non faceva altro che prendere un martello e mandare in frantumi la vita sociale dei suoi genitori, perché, essendo il bambino che era, includeva anche tutti i commenti che i suoi facevano a proposito di queste persone. Rivelando quello che la gente fa sempre finta di non sapere – ovvero che è inusuale piacersi realmente a vicenda, che la maggior parte di queste costruzioni sociali dipendono dal potere o dal vantaggio. Riesco ancora a vedere K mentre lo fa, lui che prende una semplice penna e dice tutto per filo e per segno, e questa è forse la ragione più plausibile per cui è diventato un artista, nessuno prende gli artisti abbastanza sul serio da provocare uno scandalo. Eppure, mi chiedo, perché alcune persone nascono con un grado tale di libertà, con la sicurezza per mangiare sempre i bocconi migliori, e altre come me impiegano metà della vita e l’eredità del nonno per esprimere il loro più appassionato dei desideri? Non ha idea di quanto tempo ci abbia messo a capire che il mio nome non era il mio nome, dottor Seligman, che non era pigrizia se all’asilo non reagivo quando mi chiamavano, ma che conoscevo d’istinto qualcosa che avevo poi dimenticato. Perché io, semplicemente, non potevo identificarmi con quel nome, il nome di una ragazza, una donna, una femmina, il nome di qualcuno con una vagina. Quella bestiolina tra le mie gambe che a volte sembrava una lumaca. E ancora oggi provo imbarazzo quando mi chiamano Frau, o signorina o persino signora. Non mi è mai sembrato che una di queste categorie potesse descrivere chi veramente sono e non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui lei mi farà dono del mio bellissimo cazzo circonciso e tutto quanto e potrò finalmente chiedere al mondo di chiamarmi con il mio vero nome, il nome che avrebbero dovuto darmi anni fa. Così per certi versi questo è come un battesimo, dottor Seligman, lei è come un prete che mi riaccoglie nel mio regno a lungo perduto.

Non è affatto una domanda strana da porre, dottor Seligman, ma non sono davvero arrabbiata con i miei genitori. Voglio dire, come potevano sapere che avevano messo al mondo uno scherzo della natura? Non avevano avuto altri figli, perciò magari sentivano che c’era qualcosa che non andava, ma non penso che avessero considerato questa possibilità quando decisero di avermi, mia madre è sempre stata fin troppo vanesia per farlo. Era il tipo di donna che non guarda mai cosa è esposto nella vetrina di un negozio perché è troppo presa a controllare il proprio riflesso. Non avrebbe mai potuto nemmeno considerare l’ipotesi che sua figlia non fosse perfetta. Odiavo tutte quelle cose da femmina, il grande beauty case con i trucchi, la lacca per i capelli che mi faceva appiccicare i polmoni in bagno, i panni immacolati che non ammettevano mai buchi o macchie, la sensazione che non sarei mai riuscita a camminare con un vestito addosso. E l’imbarazzo che sentivo da quando la mia vagina aveva preso a sanguinare. Il modo in cui mia madre non smetteva di impormi il suo mondo, dall’andare da un dermatologo per i nei al dovermi coprire le gambe con quelle orribili calze lucide. Il fatto che fossi allo stesso tempo una sua rivale e il suo prodotto, che dovessi essere scopabile al suo posto quando le sue gambe sarebbero divenute troppo stanche, come in una famiglia di gatti randagi dove qualcuno dovrà compiere l’atto per far andare avanti le cose. Mi confondeva così tanto che provasse a esibirmi davanti ai conoscenti, i suoi amici e la nostra cosiddetta famiglia, sapendo bene che non c’era nulla che valesse la pena di esibire. E la cosa peggiore era quando mi portava a fare shopping, dottor Seligman, la più stupida delle ricerche in cui la gente confonde deliberatamente mezzi e scopo per uscire di casa e far finta che sia davvero possibile comprarsi dei pantaloni nuovi. E ha presente quelle madri che vanno a fare acquisti con le figlie e sembrano quasi identiche? Quelle figlie perfette perfettissime, che si sono a malapena strofinate via quel primo strato di bava con cui sono nate e che si sono concesse di essere mutate in un’esatta replica delle loro creatrici? Quando le vedo adesso mi spaventano, ma allora le invidiavo, perché mia madre e io sembravamo sempre una signora chic con accanto un Quasimodo al guinzaglio, o almeno così mi sentivo io, perché non ho mai saputo come acconciarmi i capelli o renderla felice assomigliando a una ragazza con addosso un vestitino. E lei deve aver sofferto per il mio imbarazzo, per la mia incapacità di parlare di quello che mi tratteneva, del perché non avessi una cotta per nessuno dei miei compagni di scuola e usassi il deodorante solo quando ero obbligata a farlo. Penso che la sua immaginazione possa essere arrivata al punto di preoccuparsi che mi fossi trasformata in una lesbica innamorata dei pantaloni, perché a quel tempo non tutte le ragazze mettevano gonne e vestiti, ma nulla più di questo. E vorrei aver intuito, dottor Seligman, vorrei aver compreso che faceva solo finta di non avere quell’insicurezza con cui nasce la maggior parte delle donne, così spaventate dai loro corpi che farebbero qualsiasi cosa per apparire e odorare decentemente, che indossano quei minuscoli stupidi calzini per non far puzzare i piedi in estate e che tutto quel trucco che mia madre tentava di spargermi in faccia altro non era che una specie di pittura di guerra, il suo modo di provare a proteggermi dal mondo, perché tutti sanno cosa succede a quelle che si ribellano, tutti sanno che i roghi delle streghe scintillano ancora sullo sfondo. E molto del nostro conflitto era dovuto a una certa inutile ansia da prestazione, imposta da un mondo che prova a tenere le persone senza cazzo al posto loro e mi piacerebbe fossimo state entrambe più sagge. Ma adesso, dottor Seligman, per la prima volta nella mia vita, sento di essere forte, per me e per lei, come se mi fossi liberata da quelle catene di rossetto e acconciature perfette, come se traessi orgoglio dai miei piedi sciupati e dai peli attorno ai capezzoli. E io so che un giorno andremo a fare compere insieme e che sarà finalmente orgogliosa di questo corpo che odiavamo entrambe così tanto. Sono sicura di questa cosa, dottor Seligman, perché di recente ho sentito nel profondo del cuore che voglio perdonarla. E dato che tutto questo procura talvolta un forte senso di solitudine, ho cominciato a indossare alcuni dei suoi vecchi vestiti, cardigan e sciarpe, sono sempre stata troppo grassa per il resto, e penso che sia un segno che ho iniziato a sentire la sua mancanza in un posto in cui avrei dovuto amarla così tanto tempo fa. E non c’è nulla che ammiri di più di coloro che hanno trovato un modo per amare le loro madri, penso sia la sfida più grande nella vita, l’unica che renderebbe il mondo un luogo migliore.

Penso che la sua assistente si sia addormentata, dottor Seligman. O ha degli orari di apertura così esclusivi che solo i pazienti speciali riescono a lasciare un messaggio? Il telefono squilla da secoli. Mi fa quasi arrossire che lei stia passando così tanto tempo con me, deve esser un brav’uomo e sono certa che saluti sempre sua moglie con un bacio. K non era il tipo di persona a cui piaceva molto tenersi per mano, o farsi le coccole o mostrare qualsiasi altro segno d’affetto. Non era il tipo di intimità che ricercava e per molto tempo ho pensato che avesse riservato quel genere di comportamento alla moglie e ai figli, perché, in qualche modo, se fosse stato tenero con due persone, le cose si sarebbero confuse. E perché l’infedeltà è questione di micromovimenti, di quei pochi secondi in cui non prestiamo attenzione e lasciamo andare quella farsa di esistenza che ci hanno insegnato a recitare. Non mi è mai importato molto di quella distinzione, ho sempre creduto di prendermi i bocconi migliori ogni volta che K sputava nella mia vagina invece di usare il lubrificante e la temperatura fredda della sua saliva, mentre la lasciava gocciolare dalle labbra, mi faceva dimenticare per un attimo quanto odiassi il mio corpo. Non riuscivo minimamente a immaginare che potesse fare la stessa cosa a sua moglie, ma non mi importava neanche, dottor Seligman. Potrebbe trovare difficile crederlo, ma non ho mai sognato di essere al suo posto. Non ho mai voluto sapere come K fosse al mattino e sono sempre stata sicura della nostra situazione e visto che io stessa non sono stata cresciuta con molto affetto intorno, non badavo nemmeno alla sua di freddezza. Ma per K deve aver significato qualcos’altro. Perché quel giorno, quando ci siamo trovati in una stanza d’hotel senza vernice per segnalare l’ovvia fine dei nostri incontri, mi è parso strano iniziare ad accarezzarlo con le dita pulite e mi sono ridotta a strofinargli i capelli in un gesto finale. Nient’altro, dottor Seligman, solo poche carezze, quando a un certo punto il suo corpo si è fatto improvvisamente teso, come di un animale selvaggio che soppesa l’attacco, come se stesse misurando l’entità della sua paura contro la possibilità di lasciare quella stanza d’hotel restando la stessa persona che era quando vi aveva messo piede. Domandandosi se quello sarebbe stato il principio o la fine della sua libertà. E non sapevo cosa fare, esausta di fronte a ogni movimento, mi sono semplicemente fermata e ho aspettato e prima che potessi allontanare lentamente la mano, K ha preso a rimpicciolirsi sul letto davanti a me, con indosso soltanto una maglietta, e ho avuto all’improvviso davanti agli occhi quel bambino in lacrime di cui le raccontavo prima. Il bambino che non riesce a trovare una via d’uscita dal buio ed è sfinito dalle reazioni del suo corpo alla paura. Non ricordo quanto a lungo abbia pianto, ma quando infine ho provato ad abbracciarlo, ho realizzato che rimaneva ancora troppo da consolare per me, che il mio corpo era ancora così infinitamente più piccolo del suo e che tutto quello che potevo fare era guardarlo vagare per quei corridoi di una vita fa, ricolmi degli orrori che solo lui poteva vedere. Nella paura tutti diventiamo animali, dottor Seligman, isolati dal conforto di un linguaggio comune, siamo soli con null’altro che l’istinto di difenderci. Eppure, penso che in quelle lacrime che lo legavano a me ci sia stato un profondo sollievo, perché finalmente aveva trovato qualcuno davanti cui poter piangere e da allora abbiamo preso a vederci nelle stanze d’hotel più di frequente. Lontano dai colori del suo studio, era come un bambino che insegna a se stesso a uscire di casa senza il suo giocattolo del cuore.

I corpi, e non intendo solo i corpi umani, dottor Seligman, continuano a sembrarmi molto strani. Penso di non aver mai avuto un buon occhio al riguardo, non ho mai saputo valutare quanta zuppa potrebbe entrare in un tupperware e non saprei dire quanto sia alta una persona o che taglia di maglione indossi. Invece ho sempre percepito le misure delle persone come se fossero basate sulla loro personalità, come se fossero lo spazio di cui avevano bisogno per esprimersi. Lei è obbligato ad avere un senso delle proporzioni decisamente migliore, e deve vedere gli altri in modo molto diverso, ma io, per esempio, non potrei mai immaginarmi mio padre come un uomo molto grosso. Nella mia mente la sua complessiva irrilevanza si è attaccata alla sua realtà fisica e ne viene fuori un uomo minuto che raggiunge a fatica i pulsanti della sua lavatrice. Un uomo cresciuto da uomini che non si sono insegnati a vicenda come crescere. Oppure Jason, nella mia testa i suoi piedi ciondolano dalla sedia, e forse questo è parte del problema, il fatto che io non riesca a vedere i corpi come davvero sono. E con ciò intendo anche il mio, di corpo, visto che mi ha procurato un perenne malessere e un continuo conflitto con il mondo, ho sempre pensato fosse enorme, come un’irregolarità che improvvisamente scopri con la lingua. Le mie proporzioni mi sono sempre parse esagerate. E poi tutte quelle stupide regole che si applicano al corpo femminile, che il petto nudo di una donna è nudo, mentre il petto nudo di un uomo non è nudo, che avrei dovuto indossare il pezzo sopra del bikini mentre tutti gli altri maschi potevano stare senza, che dovevo accettare il fatto che alcune parti del mio corpo sono sessuate, qualcosa da nascondere. Tutto era tremendamente difficile per me e mi sentivo sempre come se dovessi vedere qualcos’altro al posto di quello che vedevo davvero, come se ci fosse una coreografia segreta che era stata insegnata a tutti tranne che a me. E così non facevo che inciampare, provando a trovare il misterioso ritmo che univa le persone nei loro desideri. Sa, mi sento male a dire cose del genere su mio padre quando non le ho nemmeno confessato quello che pensavo di mia madre, guardandola non riuscivo a non vedere uno di quegli uccelli dalle piume ridicole, soprattutto quando stavo seduta in macchina dietro di lei, scrutando il suo castello di capelli ondeggiare su e giù lungo quelle stradine di campagna mi veniva ossessivamente in mente la parola Wiedehopf, “upupa” mi pare. Ma non mi sono mai sentita in colpa per questa cosa. Lei pensa che ci abbiano insegnato ad avere così tanto rispetto per i nostri padri perché non possiamo mai sapere fino in fondo chi sono? Lo so che adesso esistono prove scientifiche, ma queste cose ci mettono secoli prima di evaporare dalla nostra mente, come i conigli che sono in grado di morire di paura quando li prendi in braccio perché sono ancora terrorizzati dalle aquile, anche se vedono che sei tu a prenderli e le aquile sono ormai quasi estinte. Ma poi esprimiamo maggiore passione quando adoriamo cose che non esistono, come la razza, i soldi, Dio o, molto banalmente, i nostri padri.

Anche Dio, ovviamente, era un uomo. Un padre che poteva vedere qualsiasi cosa, da cui non potevi nasconderti nemmeno in bagno, e che era costantemente arrabbiato. Probabilmente aveva un pene grande quanto una sigaretta. Il tipo di uomo che spara ai leoni e sorpassa le donne in piscina. Naturalmente è molto più facile essere religiosi se sei un uomo, ma non sono mai riuscita a capire come mai una donna single possa voler frequentare una chiesa, o qualsiasi altro tempio, dottor Seligman, nessuna religione che mi sia mai capitata di incontrare aveva qualcosa di carino da dire sulle donne. Non sono mai riuscita a capire perché mia madre credesse in Gesù e tenesse nascosto in un angolo della sua camera un altarino segreto con ogni sorta di luccicanti ninnoli. Perché frequentasse posti dove ti insegnano solamente a provare paura e vergogna, dove non fanno che sparare cazzate sulle madri immacolate e le puttane, dove sono terrorizzati dalle vagine. Perché alla fine gira tutto intorno a questo, giusto? Al di là del trovare un sistema per non morire, per continuare a vivere da qualche parte in mezzo alle nuvole con tutte le persone che detestavi già da prima, è solo un modo per tenere sempre viva la distinzione tra chi ha un cazzo e chi no. E parlano di invidia del pene, ma guardi fin dove è arrivata la gente per azzoppare e sconfiggere le vagine, per convincere le donne che il piacere non è fatto per loro, che nulla vale quanto la bontà. Voglio dire, quante donne hanno scritto pagine e pagine di libri sui peni e su come gli uomini dovrebbero vestirsi e pensare e sognare? Su come le donne dovrebbero incarnare una sorta di figura materna scopabile, con le unghie pulite e un sacco di fazzoletti nelle borsette. Non ho mai capito perché Dio, che non poteva dare la vita, debba esserne la fonte, perché un uomo possa essere il nostro creatore? A meno che, ovviamente, non si tratti di ciò che in tedesco chiameremmo Arschgeburt, qualcosa che viene partorito dal buco del culo. Forse il mondo è proprio questo, dottor Seligman, una cosa partorita dal culo di un sant’uomo, avanzi di stelle spezzate e di un universo in implosione.

Visto che me lo chiede, dottor Seligman. C’è, in realtà, un’altra cosa che K mi ha raccontato della sua infanzia. Mi ha detto di aver spesso sognato di impiccarsi nel giardino dei suoi. Aveva persino scelto un albero in particolare e aveva sempre saputo che sarebbe dovuto accadere nella luce morente di un giorno invernale, mai in pieno buio, con pochi delicati fiocchi di neve che si sarebbero posati sulle spalle e sulle braccia – luminosi e luccicanti, in contrasto con il cappotto scuro, come i diamanti tra i capelli dell’imperatrice Sissi. Non mi ha detto perché provasse questa cosa e non importava, non c’è sempre una ragione per cui ci sentiamo in un certo modo. Non è sempre connesso a un trauma, a quello che altre persone ci hanno fatto, perché qualche volta siamo noi stessi la causa della nostra tristezza. Questo è quello che mi ha detto, e non stava piangendo, non eravamo in una stanza d’hotel, dottor Seligman, ma sul pavimento del suo studio e aveva preso un enorme pennello e aveva cominciato a ricoprirmi interamente il corpo di viola. I suoi capelli scuri sudati. Non lo aveva mai fatto prima, e sorrideva mentre lo faceva e pure mentre mi raccontava questa immagine della sua infanzia. Gli ho chiesto perché non avesse mai provato a dipingerla, a realizzarla in un luogo che fosse fuori da lui, ma al posto di una risata ha emesso soltanto uno strano suono e ha continuato a pitturarmi la pelle, le sue carezze molto più ferme e sicure delle mie, come se avesse una vera motivazione per trasformarmi in viola. L’immagine non mi spaventa, ha risposto dopo un po’, dottor Seligman. E io dipingo solo le cose che mi spaventano, come i cani e i topi, gli spazi ristretti o le altezze. Tutto ciò che vedi sulle tele che ti circondano sono le mie paure, mia piccola Strudel, è così che mi chiamava. Ma quell’immagine nel giardino dei miei, l’albero che conosco così bene, e tutte le diverse sfumature di verde e grigio e marrone e il mio corpicino che penzola contro il bellissimo sfondo dell’ultima luce del giorno, e magari un po’ di neve a terra, l’ultimo calore che lascia il mio piccolo visibile corpo nella fredda aria invernale. Quell’immagine non mi spaventa, quell’immagine è la mia sola fonte di sollievo, è la sola cosa in cui ho creduto, la sola libertà che posseggo. È ciò che mi fa alzare dal letto la mattina dopo aver trascorso l’ora precedente a pensare che quel giorno non ce l’avrei fatta. Trovo il sonno la notte sapendo che quell’immagine sarà sempre lì. Che quell’albero sta ancora facendo crescere rami sufficientemente forti per prendersi una vita.

Quando ho capito quello che stava succedendo davvero è come se le cose avessero preso a scivolare, dottor Seligman. E forse era previsto che accadesse tutto questo perché infine mi rendessi conto di dover venire da lei, che l’unico vero conforto che possiamo trovare nella vita è essere liberi dalle nostre bugie. Che era mio dovere porre fine a questa sceneggiata. Sapevo allora che non sarei più stata in grado di non vedere le cose, che non stavo semplicemente pensando fuori dagli schemi, ma che a quegli schemi molti anni prima avevo appiccato fuoco e mi rifiutavo di vedere il fiammifero che tenevo in mano. Non so descrivere cosa si prova, dottor Seligman, quando realizzi per la prima volta quello che significa guardare un uomo libero dai vincoli del tuo stesso corpo, quando impari a vedere con i tuoi occhi, quando capisci che la tua vagina non è reale e che tutto quello che pensavi di sapere sul desiderio non è vero. Non so quanto lei sia flessibile, dottor Seligman e quali cose possa aver provato, ma io non sono mai stata capace di tornare indietro a quelle regole e a quell’estetica, non potevo più guardare K nel modo in cui l’avrebbe fatto una donna. Nel modo in cui l’avrebbe guardato mia madre. Eppure ho provato, perché con lui le cose erano diverse, perché a volte si concedeva di essere desiderato in quegli altri modi, e perché mi piaceva pensare che sapesse. Che avesse giocato a quei giochi per soddisfare l’altra parte di me e perché, fin tanto che mi avesse permesso di pitturargli la pelle con i suoi meravigliosi colori, mi sarei dimenticata delle mie stesse bugie. Che ci fossero abbastanza colori nel suo studio per riconciliarmi con la mia vita di donna. Ci ho creduto davvero, dottor Seligman, che non sono intrinsecamente cattiva, a rendermi cattiva sono le circostanze, l’impossibilità di trascendere la propria realtà fisica nella mente, che non si può scopare semplicemente quello in cui credi, non importa quanto duramente ci si provi. Ed è per questo che la religione è condannata a deluderti alla fine, perché quando ti svegli la notte e l’unico uomo che hai mai pensato di poter amare sta dormendo accanto a te, i vostri corpi coperti da tutto ciò che avete da darvi, l’immagine perfetta che si pensa debbano rappresentare due amanti, eppure senti che è tutto sbagliato, che stai mentendo e tradendo, come una sirenetta che sta affondando la nave del suo innamorato, allora sai che nessun discepolo ha mai davvero compreso cosa significhi essere innamorati.

Lei crede nell’inferno, dottor Seligman? O gli ebrei vanno solo in paradiso? Nemmeno io ci credo, ma comunque a volte mi fa paura e chiunque se ne sia venuto fuori con l’idea della sofferenza eterna doveva avere davvero una mente malata. Doveva essere qualcuno con un’anima incasinata e troppi topi in camera da letto, altrimenti perché andarsene in giro e dire alla gente che il dolore che ha dovuto patire in vita non è stato abbastanza? Per toglierle l’ultima delle consolazioni. E qualche volta faccio degli incubi, dottor Seligman, nei quali non riesco a smettere di sanguinare, è molto doloroso, mi si apre una vena nel gomito e il sangue continua a uscire, ma non muoio e non c’è modo di fermare il sangue né il dolore, e siccome sono sempre terribilmente stanca non mi sveglio mai. La mattina spesso ci vuole molto tempo prima che quegli spettri scompaiano. Mi piace davvero l’idea di lei in paradiso, si merita certamente di starsene seduto su una soffice nuvola per questo miracolo che sta realizzando, perché mi sta permettendo infine di sfuggire al mio albero. Non trova ironico il fatto che talvolta temiamo cose in cui non crediamo? Era così che mi sentivo riguardo all’amore, l’idea di essere legata a qualcuno in quel modo mi spaventava, sono sempre stata una specie di creatura selvatica che tenta di sfuggire al laccio sulla sua testa, terrorizzata dalle possibili comodità della cattività. Non ho mai voluto che qualcuno sapesse quello che davvero mi stava succedendo nei pantaloni ed è anche per questo che ho dovuto minacciare il mio collega con la spillatrice, per mostrare che non ero pronta per la gabbia, che avrei calpestato tutti i fiori e i biscotti che avrebbe mai osato regalarmi. Quel singolo momento di eccesso dopo uno di quei drink di lavoro non significava che fosse cambiato qualcosa, che si potesse affermare qualcosa, che la tenerezza fosse consentita nel campo aperto della nostra quotidianità. Ma ovviamente un uomo rifiutato è come un cinghiale in calore e nulla più della giustizia è lontano dalla sua mente, non risparmierebbe nemmeno gli alberi, e ho afferrato la spillatrice solo dopo che aveva cominciato a blaterare cose romantiche – l’arma più pericolosa di un uomo – e io all’improvviso mi ero vista davanti carta da parati, stanze ben illuminate e bambini, ed ero così scioccata che avesse l’audacia di non vedere in me nient’altro che una donna che sono arrivata a minacciare di graffettarlo a morte. Non sono così violenta di solito dottor Seligman, e sono sicura lei sappia quanto sarebbe difficile attuare una minaccia del genere. Ci vorrebbe moltissimo tempo e io non mi descriverei esattamente come una persona molto zelante. Non resisto molto.

Comincio a sentirmi le gambe piuttosto stanche, è passato così tanto tempo da quando le ho aperte per qualcuno, dottor Seligman, ma penso che questa nostra nuova amicizia sia importante sotto infiniti punti di vista e non avrei mai pensato di poter parlare così con qualcuno che conosco. Io e K concordavamo sempre che le sole vere conversazioni che si possono avere nella vita sono quelle fra estranei e durante la notte. Di giorno non esiste anonimato e se soltanto attacchi bottone con qualcuno passi per uno bizzarro, come quei tipi strambi della Bibbia, ma poi arriva un’ora ogni notte dove i discepoli di Gesù si ritirano nei loro nascondigli sicuri, e le differenze non contano più. Questa per me è sempre stata la sola vera intimità, quelle le uniche persone con cui potevo condividere davvero delle cose. Quelle che incontravo la notte alla fermata dell’autobus, che stavano sedute sulle panchine vuote, o le donne tristi che vendevano trucchi e caramelle fuori dai bagni delle discoteche e dei bar. Erano le uniche persone vere che io abbia mai incontrato in questa città dove tutti sono avvolti dentro impenetrabili strati di paura e ambizione, e ogni nostro tentativo di comunicazione finisce in un senso di solitudine. Con gente talmente svuotata che sembra aver succhiato tutta l’aria residua, paralizzandoci i polmoni con la sua esistenza senza senso. Ma con gli estranei è diverso, davanti a loro puoi essere triste. Succede anche a lei, dottor Seligman? Io non riesco mai a essere triste davanti a quelli che conosco, c’è un meccanismo che mi permette sempre di funzionare e deve credermi quando le dico che solitamente agisco per un profondo senso di tristezza e sconforto. Se dovessimo attendere fino alla morbida oscurità delle prime ore del mattino, in qualche momento fra le tre e le quattro, la vedrebbe emergere, dottor Seligman, quella faccia sepolta sotto tutte le battute. E K ha sempre adorato l’idea che in questa città ci fosse una manciata di estranei che sapevano tutto di lui, che conoscevano la ragione per cui a volte piangeva come un bambino e comprendevano da quale cassetto della sua vita venisse questo alfabeto della paura. Che, senza rivelare i nostri volti o i nostri nomi, custodiamo i nostri segreti a vicenda e li proteggiamo nella notte come fossero stelle polari, pietre preziose che ci legano e ci fanno riconoscere in quanto esseri umani, dentro fugaci istanti divenuti così rari. E quando rincasiamo dalle nostre passeggiate notturne, dottor Seligman, quei segreti ci splendono nelle mani, piccole creature fragili che riporteremo in vita. Vorrei che io e K fossimo rimasti degli estranei, vorrei poter chiamare mio uno dei suoi segreti e sentirlo brillare nel buio accanto a me.

Adesso non ricordo se le ho già raccontato della macchinetta di Gesù Bambino. Ho il terribile vizio di ripetermi, è una delle tante cattive abitudini di mia madre a cui non posso sfuggire. Gliene ho già parlato? Allora, c’è una chiesa che i miei nonni frequentavano e in quella chiesa c’è una macchinetta, tipo un distributore automatico o una slot machine, ma fatta di vetro così che si poteva vedere nel dettaglio come funzionava la transazione. Se ci infili dieci Pfennig spunta un piccolo Gesù Bambino che corre in tondo e ti dà una benedizione. Non mi ricordo se Gesù Bambino salutava durante la corsa, ma ricordo che correva su dei binari e io pensavo sempre a quanto stanco dovesse essere alla fine dei suoi turni. Dopo aver assolto tutti quei vecchi e giovani nazisti, per giunta pagato meno della più economica delle puttane. E probabilmente una volta ogni tanto dovevano oliarlo o chiamare un meccanico quando si metteva in sciopero e uno dei suoi fianchi si bloccava in una posizione indecente. Quando gli si allentava l’aureola. Ha presente, dottor Seligman, quella cosa che dicono, che nessuno vuol fare del male, che siamo condizionati dalle nostre circostanze e dalla nostra mancanza di giudizio, dalla nostra Unverstand, perciò forse dovremmo perdonare questo Gesù Bambino per aver benedetto tutte quelle persone, per non essersi dato fuoco e nemmeno scagliato fuori dal suo meccanismo in segno di protesta ogni volta che quella gente faceva un ditalino alla sua macchinetta. Per farla semplice, una corsa veloce e tutti i tuoi peccati scomparivano. Conoscendo la Chiesa cattolica magari non dovevi nemmeno presentarti e potevi semplicemente mandare qualcuno al posto tuo. Forse, fin tanto che continuavi a far muovere Gesù Bambino, non importava. L’assoluzione è sempre stata una questione di classe e dunque mi sono chiesta spesso, tornando a casa con mia madre e i miei nonni, come fosse la notte per Gesù Bambino, tutto solo nella chiesa buia, se si pentisse del suo amore a buon mercato e di tutto quel perdono universale, se qualche volta provasse a raggiungere le candele messe per i morti e tentasse di devastare tutto. Ripensandoci ora, non vedo perché avrebbe dovuto importargliene. Sua madre non si era scopata nessuno per concepirlo, per quanto ne sappiamo era soddisfatto del suo cazzo e probabilmente non doveva pagare l’affitto, cos’altro poteva volere? Ma allora non mi era permesso fare battute su di lui, mia madre era insolitamente innamorata di quella macchinetta e si assicurava sempre di avere le monete giuste quando andavamo in chiesa. E ho imparato a rispettare questa devozione con lo stesso istinto che ci impedisce di ridere pensando a un animale indifeso, molto prima che mia nonna menzionasse en passant che il bambino nella teca di vetro ricordava a mia madre quell’altro figlio che avevano avuto prima di me, quello nato morto, quello per cui avevano comprato la carta da parati blu e che era stato sepolto da qualche parte lì nei paraggi. Mia nonna aveva raggiunto quell’età in cui diviene superfluo approfondire le cose e io ero troppo piccola per fare domande e così continuammo semplicemente a camminare giù per la collina. Il sole non era ancora pronto a porre fine al giorno.

Pensavo che non importasse chi era la tua famiglia, che potevi semplicemente attaccare una foto qualsiasi al muro e fartela bastare. Nessun estraneo sarebbe in grado di dire che hai comprato quei parenti al mercatino delle pulci, che te li hanno venduti con la cornice e che eri troppo pigra per staccarli da lì. E quello che mia nonna mi disse sul mio fratello morto, dottor Seligman, non mi importò. O, volendo essere del tutto onesta, mentre scendevamo da quella collina, ero felice che tutto quello che rimaneva di lui fosse nascosto in una macchinetta di Gesù Bambino dentro una remota chiesa cattolica gestita da quei misteriosi monaci polacchi che a un certo punto hanno dovuto iniziare ad assumere personale. Io ero felice d’essere l’unica e crescendo sono diventata gelosa di questo altro fratello che avevo cominciato a chiamare Emil. Ecco un altro esempio di odio per qualcosa che non esisteva, non potevo smettere di pensare a come sarebbe stata la vita se ci fosse stato Emil, se fosse stato seduto a tavola insieme a noi, che aspetto avrebbe avuto. Quanto bello sarebbe stato. Anche se ero felice che quel Bambino Gesù fosse tumulato in quella teca di vetro, con quegli strani monaci che badavano a lui, non ho mai pensato che sarebbe stato brutto. Ho sempre pensato sarebbe stato uno di quei ragazzi snelli ed eleganti, con gli occhi del blu più blu e la pelle che si dora al sole. Un viso bellissimo oltre ogni definizione di maschile o femminile, un viso che gli antichi greci avrebbero ammirato. E per molti anni io non mi sono sentita altro che una placenta, una specie di infelice mucchietto di cellule messe insieme in fretta per assomigliare a una persona. Mi sentivo come uno scarto del dottor Frankenstein. E devo ammettere di aver passato parecchio tempo a odiarlo, di non aver mai pianto per lui e certamente di non aver mai considerato i sentimenti di mia madre né quelli di mio padre, se qualcosa del genere c’è mai stato. Ho persino smesso di fargli visita, ho lasciato che accumulasse polvere nella sua teca di vetro, aspettando il momento in cui i primi puntini di ruggine ne avrebbero attaccato le ruote, la prima crepa a scuoterne le fondamenta trasparenti. Ma poi, lo sa, dottor Seligman, è impossibile camminare in linea retta quando sei bendato, non importa quanto ci provi, finirai a fare dei girotondi e a tornare plausibilmente al punto di partenza. Quando non penso alla mia vita come a una palla da basket che rimbalza fuori dal campo e mi colpisce in faccia, la penso come uno di quei percorsi bendati, come uno che ha sempre provato a camminare diritto, perché io non riuscivo a vedere e nessuno si è mai premurato di dirmi che era impossibile. Perché fino a quando mi sarei rifiutata di vedere, sarei potuta tornare a me stessa, al mio casino, alla catastrofe della mia patetica esistenza. Mi è così evidente ora, mentre sto sdraiata qui, che non ho passato così tanti anni a odiare un bambino morto in una teca di vetro perché non volevo condividere il mio cibo o il misero affetto dei miei genitori, i bizzarri tentativi di mio padre di legare con me riparando cose che non erano rotte e il desiderio di mia madre di vedere la sua vita svolgersi sul mio volto, la sua infinita interferenza con il mio corpo, le sue dita che mi aggiustavano i capelli quando avevo ormai superato quell’età da molto tempo. Riesco ancora a sentirle sul mio cranio. Avrei felicemente condiviso quelle imbarazzanti vacanze nelle riunioni di famiglia, la loro generale disapprovazione per la mia mancanza di popolarità e le innumerevoli volte che hanno provato a farmi fare attività fisica, sono sicura che lei sia troppo anziano perché sua madre possa averla trascinata a una lezione di Body Attack, dottor Seligman, una delle tante ragioni per cui è riuscito a mantenere tanto integra la sua dignità. Ma posso dirle che mi sforzavo veramente, ed ero così impegnata, così ferocemente dedita a odiare il mio fratello morto, Emil, non perché non volessi condividere cose con lui, ma perché odiavo me stessa e non desideravo altro che essere lui. Non come lui, ma lui. E non perché credevo che sarebbe stato un buon affare per i miei genitori, ma perché era un maschio, il maschio che avevo sempre voluto essere ed ero così gelosa che a lui fosse stata data la possibilità di nascere con quella correzione, che fosse stato così facile e invece io dovevo vivere questa miserabile vita al posto suo. Ed è per questo che ho deciso di prendere il suo nome, dottor Seligman, per liberarlo dalla sua teca e dargli la possibilità di vivere un po’ di quella vita che non aveva mai potuto vedere. E anche se non sarò mai tanto bello quanto lui, e non mi muoverò mai tra le persone con la stessa grazia, penso sia la cosa giusta da fare. E una volta finito qui, andrò in quella chiesa e lo porterò a casa con me. Spero sinceramente che nel frattempo non sia stato messo in un museo, così potrò liberarlo dalla sua teca e dai suoi binari e piazzarlo in uno di quei pochi angoli assolati di casa mia, vicino ai miei fiori e ai miei libri, in un posto dove non dovrà mai più benedire nessuno né funzionare da surrogato per i sogni infranti della gente. E mi auguro davvero che allora mi perdonerà per averci messo così tanto, per non aver capito che l’altra parte di me avrebbe potuto essere mio fratello, per non aver capito che ci vogliono molte menti per essere bellissimi.

E dunque non deve sentirsi un assassino, dottor Seligman, perché non sta davvero uccidendo né me né la mia vagina, ma in realtà sta solo facendo spazio perché vi si trasferisca anche Emil. Perché così condivideremo quell’eredità che mia madre non ha permesso a mio padre di tenere dopo la morte di mio nonno lo scorso anno, liberandolo dal fardello di essere il figlio prediletto. L’eredità che allora, mio padre, senza dirlo a lei, ha donato a me dentro un mucchio di scartoffie illeggibili, le proprietà finora intatte di mio nonno, rendendomi sua figlia fino alla fine dei tempi. Il discendente preferito di un uomo morto. Poiché i segreti sono più densi del sangue, io ho bisogno di un fratello per affrontare tutto ciò. E quindi noi prenderemo il suo nome, perché ho sempre odiato il mio e perché penso che Emil se lo meriti dopo tutti questi anni di preghiere e nazisti e vecchie signore in calore. Spero davvero non abbia dovuto assistere a troppe oscenità quando i monaci se ne stavano per conto loro. Ma mi chiedo se lei qualche volta si senta come il dottor Frankenstein, dottor Seligman, si sente come se stesse creando dei mostri? So cosa prova un sacco di gente nei confronti di quelli come me e immagino abbiano ragione nel dire che osserviamo da fuori, che vediamo attraverso le loro azioni e conosciamo tutto delle loro piccole menzogne. E penso sia quello che ci rende così brutti ai loro occhi, la conoscenza rende le persone brutte, ed è probabilmente la ragione per cui pensiamo che sia più semplice scoparsi gli stupidi, o che siano più scopabili, perché non sono macchiati dall’ovvietà e, come gli animali, sono molto più a contatto con i loro corpi. Ufficialmente, è senza dubbio considerata una cosa riprovevole, o almeno questo è quello che ho dedotto dai rimproveri di mia madre ogni volta che mi mettevo seduta con le gambe aperte nella mia incapacità di sedermi come si deve, visto che non ho mai capito perché ci siano due modi diversi di mettersi seduti, a seconda che si abbia o meno il cazzo. E non facevo che sbagliarmi, costantemente confusa dal fatto che, in quanto donna, ci sia in realtà meno da nascondere di un uomo, ma questo è stato prima di capire che un cazzo è una specie di spada, un oggetto di orgoglio e confronto, mentre una vagina rappresenta una cosa debole, della cui proprietaria ci si può fidare poco. Una cosa che verrà sempre fottuta, che può essere stuprata e può restare incinta e arrecare vergogna a una casa e a una famiglia. Una cosa che aveva bisogno di protezione senza che nessuno mettesse mai in forse quel bisogno di protezione, perché di notte le strade non erano sicure e le ragazze con i capelli corti sembravano ragazzi, non il contrario. Ho sempre trovato tremendamente disorientante tutto questo e spesso ho pensato che forse dovrebbero essere i cazzi a venire nascosti, che dovremmo bandire l’arma e non la ferita. Ma a ogni modo penso che i nostri corpi conoscano cose molto prima delle nostre menti, dottor Seligman, porteranno scritte addosso tutte le parole molto prima che le nostre lingue siano in grado di trovarle e i nostri denti di dividerle negli spazi vuoti tra le gengive. E in alcuni casi le parole possono impiegare anni a seguire i nostri corpi, a dire quello che è stato già detto. K lo sapeva già bene, ne aveva dipinti abbastanza da essere in grado di leggerli, di capire i miei movimenti, come se non fossi mai veramente in grado di camminare dentro scarpe strette o di essere solare in quel modo in cui si pensa debbano esserlo le ragazze, e anche se il mio corpo a volte era un segreto e ci metteva un po’ di più a rivelarsi, avrebbe dovuto infine accorgersi che questo unicorno aveva più di una coda. Doveva aver intuito cosa significava che avessi smesso di depilarmi là sotto, che avessi lasciato seppellire la mia vagina da tutto quel pelo scuro che si pensa le donne non debbano avere, mentre mi radevo soltanto l’area intorno all’altro mio buco. Doveva aver compreso quello che il mio corpo stava cercando di dire quando inaspettatamente hanno preso a spuntarmi dei peli intorno ai capezzoli e le mie mani hanno cominciato ad afferrarlo con maggiore fermezza, quando l’ho schiaffeggiato all’improvviso durante i nostri ultimi istanti di oblio, doveva aver capito, non crede, dottor Seligman? Che non era il mio cuore a deluderci.

Diceva sempre che i colori erano apparsi dopo l’annegamento, dottor Seligman. I colori che K dipingeva erano i colori che vedeva quando chiudeva gli occhi la notte, cerchi e linee che lampeggiavano e vibravano nel buio, lì, eppure non lì, sempre irraggiungibili e troppo perfetti per essere il prodotto della sua immaginazione. I colori erano apparsi dopo che da piccolo era quasi annegato nella piscina della zia, e aveva pensato che il blu, il tipo di blu che associamo a una vita migliore, il colore delle vacanze che non abbiamo mai fatto, della freschezza che sogniamo nei giorni roventi, sarebbe stato l’ultima cosa che avrebbe mai visto. Più tardi si disse che quello era stato il momento in cui era diventato un pittore, il momento in cui suo cugino aveva provato ad affogarlo mostrandogli la vita subacquea, il momento in cui K apprese che la violenza ci unisce come nient’altro e che non esiste nulla di più violento del corpo di un bambino di cinque anni. È come quando impari per la prima volta la differenza tra l’essere colpito da uno schiaffo o da un pugno, non la scorderai mai più. E tutti noi conosciamo il colore di una piscina, i suoi odori e il sapore dell’acqua, così, di nuovo, c’era qualcosa di molto comune nel trauma di K, nel modo in cui la vita aveva scelto di modellarlo e nell’uso che lui ne aveva fatto. In quei momenti spesso mi ricordava quelle strane piante che la gente scarica nei boschi per non pagare i rifiuti del giardino, quelle piante che chiaramente non appartengono a quel bosco e che, nonostante l’ostilità del contesto, insistono a fiorire. Che non mollano soltanto perché non sono di lì. K era esattamente come loro, non gli importava di non piacere alla maggior parte della gente, non gli importava che lo trovassero un tipo arrogante e che plausibilmente tradiva la moglie, un artista ridicolo con troppa hybris e insufficiente talento, un ragazzino viziato, un cattivo padre e un ipocrita. Non gli importava, dottor Seligman, semplicemente fioriva e si rifiutava di essere abbattuto da quelle bestie banali e dai loro banali colori. K sceglieva sempre come vedersi e io lo amavo per questo. Un bombo che ignorava come, secondo le leggi della meccanica, non potesse volare.

A lei piacciono le stanze d’hotel, dottor Seligman? Io ho sempre ammirato quelle superfici brillanti e penso che se avessi mai scritto un libro sarebbe stato sulle stanze d’hotel. Adoro semplicemente l’idea di uno spazio dove la tua vita reale non conta più e il tempo ha smesso di esistere. Sono come gli aeroporti, con l’eccezione che puoi startene nudo e non sei costretto a fingere di essere un viaggiatore abituale o che il tuo lavoro ti permetta di girare il mondo. Le stanze d’hotel da quel punto di vista sono molto più anonime e le lenzuola di solito sufficientemente fresche da generare una tiepida euforia e anche se mi mancavano i colori del suo studio mi piaceva incontrare K in quegli spazi vuoti. Era molto più simile a stare con un estraneo e penso che tutti debbano utilizzarle qualche volta. Porta mai sua moglie o i suoi sette nazisti in una stanza d’hotel, dottor Seligman? O forse porta tutti? Penso che dovrebbe, c’è qualcosa nella reclusione in un luogo sconosciuto che ci eccita in modo buono e che mi ha sempre fatto pensare al tipo di sesso che la gente doveva fare nei bunker durante la guerra. E forse era questo che io e K eravamo, due persone che provavano a scopare una via d’uscita dall’apocalisse che entrambi si portavano dentro, una via d’uscita dalla paura che i nostri corpi non riuscivano a gestire da soli. Qualche volta penso sia questa la ragione per cui la gente desidera segretamente le guerre, non solo per poter torturare i suoi discendenti con storie di corpi mutilati e di quando era a costretta a mangiare la buccia delle patate, ma soprattutto per poter fare nuovamente del sesso vero e proprio e non quella versione addomesticata che la libertà e la pace possono offrire. E anche se eravamo attenti a usare sempre un hotel diverso, dottor Seligman, non siamo riusciti a rimanere estranei. Ripensandoci, sono sicura che K mi abbia detto in realtà da dove venisse, ma l’ho dimenticato, o l’ho voluto dimenticare, per proteggerlo dall’inevitabile. Ma l’inevitabile è arrivato e siccome K riusciva a dormire solo con la luce accesa, non posso far finta di non averlo sentito o visto accadere, non posso far finta che non abbia detto quelle parole che non dovresti mai dire a qualcuno come me, a un gatto che abbaia. È come chiedere a qualcuno di non morire, come parlare con una di quelle impossibili costruzioni grammaticali. Ma lo ha detto comunque, dottor Seligman, dopo aver aperto i suoi bellissimi occhi verdi nel cuore della notte, ha detto: RESTA PER SEMPRE CON ME. E prima che potessi rispondere qualsiasi cosa, si era addormentato di nuovo, in quel sonno pesante che nulla può turbare. Il sonno di un bambino. E non è che K non fosse un uomo buono, non era il tipo di uomo che immagineresti fare un ditalino a una gallina morta, o che guarderebbe con aggressività i titoli di coda di un film. Il tipo di uomo che trae orgoglio dalla puzza della sua stessa cacca. Era il tipo di uomo che mia madre avrebbe accolto calorosamente nella doccia, e cosa si potrebbe chiedere di più? Vogliamo tutti scopare dove sono stati i nostri genitori, e non mi importava che fosse sposato e avesse dei figli e via dicendo. Quelle cose non significano nulla per me, e spero sapesse che non ero diventata improvvisamente una all’antica e che Emil sarebbe rimasto con lui fino alla fine dei tempi, ma la persona che lui voleva aveva da tempo cessato di esistere. Che era stato con un fantasma, e, come un fantasma, io sono svanita da quella stanza mentre lui era ancora addormentato, cosa che fa davvero sentire come se si uccidesse qualcuno mentre ha gli occhi chiusi. E quando ci penso ora mi sento sempre come se, mentre chiudevo quella porta, avessi sulle mani il suo sangue – non i suoi colori, non il viola che aveva scelto per me, ma che le mie dita fossero bagnate e appiccicose per il suo sangue. Come qualcuno che ha appena avvelenato il suo cane e deve andarsene dalla stanza, perché non sopporterebbe di incrociare di nuovo quegli occhi. Sembrava l’incubo di qualcun altro, dottor Seligman, e non so mai quanto a lungo si debba guardare una ferita prima che smetta di sanguinare. Eppure, mentre percorrevo quel corridoio all’alba, c’era qualcosa di diverso, e neanche il tempo di arrivare alla reception che non ho potuto fare a meno di sorridere alla prima faccia incontrata. È stato allora che ho saputo con certezza che lei era rimasta lì con K e che Emil era venuto via con me. Che eravamo finalmente salvi.

Anni fa, quando ero più giovane e vivevo ancora in Germania, dottor Seligman, ho visto una volta un documentario su una ragazza che era allergica a tutto. Ha passato la vita in una casa con stanze molto luminose, ma nessuna finestra, perché era allergica persino al sole. La sua pelle diventava rossa e si riempiva di bolle al più leggero tocco di raggio solare e così viveva come una Regina delle Nevi, ricoperta da un’eterna oscurità, invisibile all’occhio umano. Ma visto che non era una creatura delle favole e persino il dottor Živago doveva mangiare qualcosa nella sua casa di ghiaccio e possibilmente andare pure al gabinetto, la sua vita era una tribolazione. Perché, anche se avevano trovato dei vestiti bianchi per coprirle la pelle, non c’era nulla che potesse mangiare senza star male, nulla che non la riducesse miseramente e non la facesse soffocare e gonfiarsi. E come un animale le cui esigenze di vita sono divenute intollerabili, i genitori ogni tanto pensavano di sollevarla dalla sua sofferenza – o dalla loro, dipende dal punto di vista –, fino a che un giorno uno dei loro vicini si era presentato alla porta con uno scoiattolo morto. Uno scoiattolo rosso, uno di quelli buoni, non di quelli grigi che ormai riteniamo solo leggermente migliori dei topi, perché rubano il mangime degli uccelli e scavano i bulbi dei fiori. Il vicino non era giovane, non un plausibile pretendente per la solitaria fanciulla e così si convinsero che il suo voleva essere un gesto gentile. Spellarono la creaturina e gettarono via la folta coda e misero a bollire la poca carne che aveva da offrire. Le dissero cos’era, e a lei non importò, lo mangiò, e non successe nulla. Il suo corpo rimase quieto come quando io mangio uno degli acini d’uva che la fortuna ci offre. Era una specie di miracolo e, a differenza di alcuni tra i primi coloni americani che morirono per non aver mangiato altro che conigli, molto prima che fossimo salvati dalle nostre cinque porzioni quotidiane di frutta e verdura, lei è vissuta felicemente mangiando solo scoiattoli. Il vicino andava a caccia per lei ogni giorno, ma visto che il suo sistema immunitario era così delicato e gli estranei e i germi ponevano un’infinità di rischi, lui non ha mai potuto incontrarla, non è mai andato oltre la soglia di casa dove i suoi genitori ricevevano le preziose prede. Eppure lui ha continuato, e ogni volta che lo scoiattolo era piccolo e tenero, la lingua di lei esultava e il cuore le si gonfiava di gratitudine.

Mi piace immaginare che dopo un po’ lei abbia preso a chiedere di conservare le code, e si sia decorata la stanza con quella peluria rossiccia di scoiattolo e che, dato che quelle erano le uniche cose che lei e il suo misterioso cacciatore avevano entrambi toccato, e nulla è sensuale come uno sconosciuto, a un certo punto abbia cominciato a giocarci. Ogni coda era come un nuovo incontro, il muro una mappa dei suoi orgasmi, timidi e delicati all’inizio fino a divenire chiassosi e affamati, mentre ha preso a giocare con molte code contemporaneamente, così eccitata che si sarebbe potuta fare il muro. Ma questa ovviamente è solo la mia testa che divaga, dottor Seligman, sono sicura che nulla di tutto ciò sia successo e che tutte le code siano state disposte nella più rispettabile delle maniere e che alla fine l’amore del cacciatore, tenendola in vita, non abbia fatto altro che accrescere la sua sofferenza, mentre l’altro amore, quello dei suoi genitori, l’avrebbe plausibilmente uccisa prima che potesse accorgersi della prima ruga sulla fronte. Questo forse è il motivo per cui mi piace pensare a questa storia, non tanto per via della masturbazione con le code di scoiattolo, ma per ciò che racconta dell’amore e di come in realtà sia una ricerca egoistica, di come sia irresponsabile lasciare che qualcuno si innamori di te, eppure impossibile da evitare. Perché anche se ti seppellissi vivo in una stanza senza finestre e ti dichiarassi allergico al mondo intero, qualcuno troverà un modo per piazzare il suo cuore sotto i tuoi piedi. Ci ho messo tanto a capirlo e, a ogni modo, come potevo immaginare che anche gli uomini muoiono per un cuore a pezzi? Pensavo fosse un destino riservato solo alle ragazze.

Starà nevicando sul mare, dottor Seligman? Adesso fuori è quasi scuro, e spesso, quando la notte sono distesa a letto e non riesco a dormire, penso a questa immagine. Non trova anche lei che sia la perfetta rappresentazione dell’innocenza? Quei bellissimi bianchi fiocchi di neve che cadono dal cielo notturno, silenziosamente, giù dal paradiso con tutto il suo sacro blu e tutta la sua celestialità, danzando nell’aria sopra le onde, frusciandosi addosso gli uni gli altri con la divina leggerezza che solo le ali di un angelo potrebbero imitare, appena prima di essere inghiottiti da quel torbido mare di sporcizia e rifiuti tossici, un diluvio di animali moribondi. Destinati a non essere mai più visti, con soltanto una frazione di secondo a disposizione prima di essere inglobati da questa enorme massa di strati diversi di oscurità che non fa differenza tra i suoi elementi, i suoi abitanti. Dove tutti e tutto devono ingoiare la stessa mole di sporcizia e malattia, giorno dopo giorno. Eppure dicono che sono tutti diversi, non è così dottor Seligman, che ogni fiocco di neve ha dei cristalli unici, e sono per molti aspetti simili a noi. Alcuni fortunati abbastanza da nascere su quelle graziose cime montuose, in gruppi sufficientemente grandi da seppellire sotto di sé intere comitive di brutti turisti tedeschi con la loro brutta attrezzatura da montagna. Altri atterrano nei giardinetti davanti alle case dove vengono ammucchiati per assomigliare a uomini fatti di neve con un piccolo cazzo arancione carota e altri, come me, planano su quel mare di oscurità senza scopo reale oltre al prolungare e peggiorare la nostra miserabile esistenza, e solo pochissimi selezionati riescono ad arrivare a quei luoghi che li premiano con l’eternità. Quei fiocchi di neve speciali che staranno qui ancora a lungo dopo che io e lei saremo entrambi morti, dottor Seligman. Sono sicura che la Regina delle Nevi stessa li abbia ordinati alla perfezione, che ci sia un’intrinseca ragione per la loro iridescenza immortale, che non possa essere solo un caso.

Dunque, io non mi sono mai preoccupata dell’innocenza, dottor Seligman, e non ci ho mai creduto, perché la mia frazione di secondo è stata troppo breve per fare di me nient’altro che un mostro e negli anni ho preso familiarità con il non riuscire a guardarmi le mani la notte, con il lusso di non dover tenere puliti i miei giorni. Mi chiedo, lei è mai stato preso dalla noia o dalla solitudine in cima alla sua montagna, dottor Seligman? Ha una caverna segreta per i suoi vizi? Ma comunque, in quanto ebreo, lei andrà senza dubbio in paradiso, perciò non deve preoccuparsi. E quando mi vedrà dalla sua nuvola vaporosa, circondato dalle sue cornici mentre trascino Martin, il mio semiautomatico robot del sesso, da una stanza di hotel all’altra, usando quel bellissimo cazzo da lei donatomi in modi che potrebbe ritenere perversi, mi guardi da lassù con benevolenza. Vera benevolenza, non quel genere di benevolenza egocentrica con cui Jason ha provato ad ammazzarmi. Perché neanche lui è stato visto sulla cima di una montagna, sono certa sia atterrato in primo luogo su una fognatura e abbia passato la vita a leccarsi per ripulirsi, ma se lo si guarda abbastanza da vicino si può scorgere ancora un po’ di merda che gli luccica sotto i lucidi cristalli. E non so dirle del signor Shimada, non l’ho mai incontrato, e non so come siano i fiocchi di neve in Giappone, più graziosi magari, immagino, ma per avere una mente come la sua le loro estremità a un certo punto devono aver toccato qualcosa che non era bianco. Proprio come K, penso a lui adesso, riesco a vedere tutti i colori dell’arcobaleno riflessi in lui risplendere per un breve istante prima che affoghi di nuovo – un piccolo diamante – illuminando l’oscurità da cui non è mai riuscito a fuggire. E allora piango per lui perché so che non ha mai percepito il suo destino, che ha sempre pensato che i suoi cristalli fossero destinati a quelle regioni più alte, che fossero stati toccati dalla Regina delle Nevi e che qualcosa sia andato storto quando si è sentito dissolvere privo di senso tra le onde. Che in qualche modo la sua vita sia stata un grande errore e che nemmeno la sua morte avrebbe fatto alcuna differenza, che tutto è avvenuto troppo tardi. Che tutto è sempre avvenuto troppo tardi. Non penso che nessuno sia affogato tante volte quante K e così non mi sento responsabile per quando è annegato per l’ultima volta nella fredda aria invernale. Quando ha fatto infine ritorno nel giardino dei suoi genitori e ha confessato il suo amore per quell’albero, i cui rami negli anni erano cresciuti forti abbastanza per sorreggere il suo corpo senza vita dentro la luce morente di un giorno invernale. Non posso essere ritenuta responsabile per quello, dottor Seligman, noi non siamo il destino delle altre persone e non sono stata io a piantare quell’albero fuori dalla sua finestra e a gettare quell’ombra sulla sua infanzia, non sono stata io a mostrargli come avere paura del buio. Ma sono io che riesco ancora a sentire i suoi colori sulla pelle, dottor Seligman. Io riesco ancora a sentire la differenza tra i diversi tipi di viola e vorrei aver saputo allora che i colori hanno delle storie e che il viola è il colore del lutto e della tristezza e che K mi ricopriva sempre della sua pena e che io ora la porto con me, perché non credo che ci si possa davvero ripulire le mani o la pelle. Qualcosa avrà intercettato il tuo sistema prima che tu possa arrivare all’acqua, e le vene prenderanno lentamente a riempirsi delle nostre storie reciproche e del nostro reciproco sporco, dei nostri colori reciproci e delle nostre reciproche grida, porteremo sotto pelle i nostri reciproci cuori spezzati fino al giorno in cui arresteranno ogni cosa e bloccheranno il flusso del nostro stesso sangue e tutto scoppierà in un ultimo istante di disperazione.

Noi siamo i nostri reciproci peccati, dottor Seligman, e prima che lei si sfili i guanti e si alzi da questa sedia, prima che io mi rimetta i pantaloni per guardare finalmente le sue sette cornici, prima che lei veda di nuovo la mia faccia, voglio raccontarle di mio nonno, perché penso che debba sapere da dove vengono i soldi per questa terapia. Non era un nazista famoso, non uno dei suoi sette preferiti, cosa che ci avrebbe reso quasi parenti, accomunati dal sangue e dalle perversioni. Non sono neanche sicura fosse un vero e proprio nazista, non ci siamo mai incontrati e non ci si può fidare dei racconti dei parenti. Tutto quello che so è che era un capostazione e che viveva con sua moglie e i suoi sette figli sopra la stazione di una piccola città della Slesia e, poiché le cose andavano bene, aveva comprato un pezzo di terra per ciascuno dei suoi sette figli perché ci costruissero una casa una volta cresciuti e ci vivessero felicemente con le loro famiglie, con un mucchio di bambini che correvano e rubavano il dolce dalle credenze delle loro tante zie. Ma su quella terra non è mai stato costruito nulla, alla fine della guerra sono stati sfollati e se ora ci andasse troverebbe una piccola foresta nel mezzo di una cittadina polacca, casa di Bambi e dei suoi amici, un pezzo di natura preservato dai malvagi artigli della civilizzazione. Con api e fiori selvatici e gufi la notte. Quasi romantico, potrebbe dire, e se volesse andare a fare una passeggiatina, non so esattamente quanto ci sia da camminare, prima che il sole tramonti arriverebbe ad Auschwitz, o a quello che ne è rimasto, il fondamento di tutto ciò che oggi siamo. Ma mio nonno non lavorava ad Auschwitz, era un uomo devoto, un cattolico che aborriva l’uso delle armi e che avrebbe rifiutato un incarico del genere. Era semplicemente il capostazione dell’ultima stazione ferroviaria prima di Auschwitz, dove spesso i treni erano fermi nottetempo, dove si assicurava che non si creassero ingorghi, che tutto procedesse regolarmente, e che i treni vuoti potessero fare ritorno in perfetto stato. Non intendeva fare male a nessuno e quando penso a lui, dottor Seligman, vedo un uomo minuto in piedi sulla piattaforma, con indosso una qualche antica uniforme con un cappello, quasi tenero a un occhio moderno, mentre guarda quei treni e tutte quelle mani che spuntano da quei vergognosi finestrini in cima, e vedo la neve, dottor Seligman, i fiocchi di neve che cadono sulle loro dita, mandati lì dalla Regina delle Nevi, fragili momenti di eternità che cadono dal cielo come angioletti con le ali spezzate, la loro grazia che si dissolve nell’istante in cui i corpi s’incontrano. E vedo la neve cadere sul cappello di mio nonno, sulle sue spalle e sulla terra davanti a lui e sento i suoi piedi che vogliono tornare a casa, ma ci sono ancora troppe ore davanti e la neve continua a cadere proprio come i fiocchi di neve fuori dalla sua finestra. Cadono sul rumore dei motori che vogliono muoversi, fino a che le mani lentamente diventano invisibili a occhio nudo e i suoi piedi si dimenticano del calore un tempo conosciuto. Fino a che le foreste arrivano a crescere sopra tutto quello che è sacro, e i loro rami afferrano gli angeli prima che colpiscano terra. Fino a che il sole distende le gambe in segno di resa, e tutti noi cadiamo sotto il potere di una luna senza vita.

E ora, trasformiamo questo corpo in qualcos’altro.

Un istante di fuoco nel cielo.

Lasciamo questo posto, prima che venga invaso dai clown.

Facciamoci oro, dottor Seligman.

Cambiamo forma nei secoli, ma senza mai scomparire.

Teniamoci per mano.

Facciamoci guerrieri.

Ringraziamenti

Grazie a

Joachim per avermi fatto diventare una scrittrice francese.

Jean e Olivier per aver reso tutto questo possibile.

Heidi e Chris per averlo trasformato in una questione internazionale.

Tamara e Lauren per avermi fatto sentire così ben accolta.

Jacques, Joely e Clare di Fitzcarraldo per aver fatto diventare il blu il mio colore preferito.

Amy, Jordan, Morgan e tutti quelli della Avid Reader Press per il sogno americano.

Jane per quel giorno a Brighton.

Laurence per avermi permesso di far crescere tutto quello spazio. (E per i video dei panda.)

T per aver comprato con me della cancelleria con gli unicorni.

Tash per il piercing.

Sam per essere la migliore delle stronzette brillantinate.

Alla bella Miriam per tutto l’incoraggiamento.

Stephen per essere Stephen.

Peter per dimostrare che i tedeschi possono essere divertenti.

Nick per essere il nostro orso.

Paul per l’appartamento a Berlino.

Florian per l’amicizia.

Derya per le conversazioni.

Marya per non avermi spiegato la matematica.

Matthew per oltre un decennio di tè, torte e dispiaceri.

Rémi per la musica.

Sergey per la pazienza.

Gatta e Myshkin per avermi ricordato che la maggior parte degli oggetti sono superflui.

Ai miei genitori per avermi messo al mondo.

Maurizio per ogni cosa.