giovedì 13 maggio 2021

LE MATTINE AL CAFÉ ROSTAND Ismail Kadare

 

LE MATTINE AL CAFÉ ROSTAND 

Ismail Kadare

Nota

Il Café Rostand è un luogo mitico della Parigi letteraria e per Ismail Kadare un luogo del cuore in quella che è diventata la sua città. Un legame che dura da oltre quattro decenni, da quando, nei primi anni settanta, miracolosamente gli venne permesso dal regime albanese di visitare la capitale francese. Il Café Rostand diventa un riferimento, una tappa obbligata ogni mattina per leggere e scrivere, rifugio e fonte d’ispirazione, routine che gli permette di evocare Tirana e Mosca, l’Accademia di Francia e il Macbeth, il premio Nobel ma anche gli amici e i compagni che subirono, come lui, il bavaglio della dittatura in Albania, e le figure letterarie che Parigi, con la sua storia e il suo fascino, gli ricorda.
In questi racconti, Ismail Kadare, riesce a trasmettere il fermento e la passione di una vita votata alla scrittura e all’arte.

Le mattine al Café Rostand

Tutti mi davano l’impressione di credere che sarebbe stato facile scrivere di Parigi. Il punto su cui divergevano era sapere se sarebbe stato più facile per chi ci era andato, anche solo una volta, o al contrario per chi non ci aveva mai messo piede.
Il desiderio di Parigi era di quelli i cui discorsi, senza ragione alcuna, esprimevano una smania di mondanità da quattro soldi, specialmente quando erano introdotti da un “ah”. Ah, se potessi andare una volta a Parigi, e poi succeda quel che succeda! Accompagnato dalla parola “sogno”, quel desiderio, presso alcuni, dava l’impressione che Parigi non solo non ci guadagnasse nulla da quella nostalgia universale, ma che, al contrario, ne subisse una sorta di dissoluzione, di perdita di sostanza, di quelle causate da un uso eccessivo.
Finalmente a Parigi... Tra le decine di milioni di lettere, cartoline, email, era poco probabile che in una di queste, dopo la menzione dell’aeroporto, del taxi, della miriade di luci, dell’emozione provata avvicinandosi alla città, dell’arrivo in hotel ecc., venisse evocato anche solo in due parole il momento del disincanto, con la chiusura della porta della camera, e poi la doccia, identica a quella che di solito si fa altrove.
Meno ancora ci si sognerebbe di descrivere, supponiamo alla fidanzata, il gorgoglio dell’acqua nel lavandino, quel legame inatteso tra il nuovo arrivato e l’invisibile regno di Parigi: le sue fogne.
Più persuasivo del passaporto e del visto ottenuto dopo tanto sforzo, quel gorgoglio era la prova di essere davvero arrivati nella città dei sogni. Eri tutt’uno con quel denso oceano da cui nessuno poteva tirarti fuori, perso in quel caos egualitario dove tutto si mescolava: uomini, lattanti, donne magnifiche, ex presidenti, assassini, editori, sartrofili.
In apparenza, poi, sapere se si aveva o no un legame con Parigi era un nodo tanto facile quanto difficile da sciogliere. Non era una questione di tempo: il legame poteva essere stato di poche ore, qualche settimana o mezzo secolo, la sua sostanza restava invariata. Non dipendeva dalle altre circostanze: dalle ragioni che l’avevano generato o dal modo in cui era avvenuto l’arrivo, accoglienza a braccia aperte o respingimento con le manette ai polsi, come talvolta accadeva ai richiedenti asilo. Il legame trascendeva tutto questo.
Come molte cose della vita, Parigi era tra quelle che, prima di manifestarsi, esistono dentro di te.
Nel mio primissimo libro, le avevo dedicato una poesia. Come ho detto altrove, spesso ho ripensato allo sguardo sorpreso dell’editore, e alla sua domanda: perché avevo scritto di Parigi? Avevo sedici anni, ero un liceale e non sapevo quasi nulla di come va il mondo. Perciò alzai le spalle e risposi: non lo so.
Lui allora mi fece una seconda domanda: avrei potuto scrivere una poesia su Mosca? E quando io scossi la testa per rispondere di nuovo “non lo so”, mi lasciò intendere che era questa la condizione per pubblicare Parigi. E così andò.
In seguito, mi è sembrato talvolta che un filo invisibile collegasse le due città al mio destino, benché fossi consapevole di far parte, come tutti i giovani scrittori albanesi, degli esseri che non avrebbero mai avuto accesso a Parigi. Dovevamo restarne privi, così come di Londra, Roma o New York.
Vero è che, oltre a Mosca, potevamo avere Praga, Budapest e Shanghai. Ma anche questo non sarebbe durato a lungo. Le avremmo rapidamente perse una dopo l’altra, con l’eccezione dell’ultima. Più tardi, sarebbe toccato anche a lei di lasciarci completamente soli.
Questi abbandoni perduravano moltiplicandosi. Dopo il primo veniva un secondo, e poi un altro, a sua volta sommerso da un altro ancora. Molto semplicemente.
Dieci anni dopo, quando, nella totale assenza di speranza e di aspettative, mi ritrovai improvvisamente di nuovo gratificato da una Parigi, mi sembrò tutto incredibile. L’intera faccenda giaceva in una sorta di... torpore, dato che la parola sogno non è affatto adeguata.
Hai pubblicato un libro a Parigi? Può essere... Credevamo fosse un pettegolezzo. Tutti sapevano che uno dei miei scritti era stato pubblicato all’estero. Ma era tanto tempo fa. E oltretutto a Mosca, non a Parigi.
Lo sguardo sorpreso del mio primo editore, quello che, come per tracciare il mio avvenire, aveva istituto una sorta di interdipendenza tra Parigi e Mosca, sembrava non voler smettere di seguirmi. Non potevo avere Parigi senza Mosca. In seguito, quest’ultima avrebbe prevalso fino al giorno in cui sarebbe scomparsa dalla mia vita per mai più ritornare.
Il mio legame con Parigi sarebbe stato lungo: quattro decenni.
A dire il vero ci furono due Parigi, quella dei tempi del comunismo e l’altra, senza tempo, e ciascuna occupava una ventina d’anni.
Facevo fatica a distinguere quale fosse la mia. Spesso, entrambe. A volte, né l’una né l’altra.
Di solito, il modo di arrivare decideva tutto. Arrivavo sempre in aereo, dunque dal cielo, e mai via terra. A prima vista si poteva pensare che il cielo, mai marcato dell’impronta del comunismo, facilitasse un passaggio più armonico da un mondo all’altro. In realtà era il contrario. A dispetto dell’atmosfera di allegra trepidazione, negli aeroporti sembrava tutto tanto più buio: i controlli, lo sguardo dei poliziotti, il peso del sospetto.
C’era una terza via d’accesso, mai evocata: quella sotterranea.
Avevo cercato di descriverla in un manoscritto che avevo affidato al mio amico C. Durand. Più che di un viaggio a Parigi, si trattava di un’apertura del mondo sotterraneo, per un tempo predefinito, scritto sul passaporto, prima di tornare, alla scadenza del termine, nelle prigioni sotterranee albanesi.
L’arrivo, quale che ne fosse la forma, era sconvolgente. Una belva selvatica in gabbia, un folle, un morto, non avrebbero potuto essere tanto atterriti dalle luci dell’aeroporto di Orly quanto lo scrittore del realismo socialista che per la prima volta arrivava in quel mondo, senza sapere se fosse rimasto il suo.
In quei primi anni settanta tutto aveva un’aria da incubo. La sensazione dell’impossibile si mescolava a quella di un errore commesso a quanto pare da qualche parte... Ho raccontato più volte quest’incubo. E ogni volta ho sperato che non si manifestasse più, pur nel presentimento che il suo ripetersi sarebbe stato inevitabile.
Si trattava di un invito. Per l’esattezza dell’invito che avrei dovuto ricevere per venire a Parigi. Da un anno in Albania non si parlava che di quello. Nessuno l’aveva visto con i suoi occhi, nemmeno io, ma tutti erano convinti che fosse proprio arrivato. E quanto più restava invisibile, tanto più diventava reale. Certamente metà dell’apparato statale era convinta che ce l’avesse l’altra.
Sulla strada per Parigi l’ambasciatore albanese, venuto a prendermi all’aeroporto, mi interrogò a sua volta sull’argomento.
Che cosa? Gli risposi.
L’invito, disse lui. Volevo vederlo, anche solo una volta... come era stato redatto...
Mi ci volle un po’ di tempo per dirgli che non l’avevo. Il suo stupore fu massimo, quando gli spiegai che non l’avevo neppure letto, per la semplice ragione che non l’avevo mai visto.
Mi guardò con la coda dell’occhio come se avesse a che fare con un pazzo.
Mi aspettavo che dicesse: mi prendi in giro? Sei a Parigi, dove è impossibile arrivare persino con cento inviti e duecento timbrature, e ti vanti di non aver visto l’invito con i tuoi occhi?
Avrei potuto aspettarmi un rimprovero più severo, ma, stranamente, l’ambasciatore tacque. Si accontentò di mormorare un “Ne ero certo...” Più tardi, con parole prudenti, mi confidò che anche lui aveva percepito qualcosa di insolito quando, quel mattino stesso, aveva parlato con l’editore francese. Un invito per il signor K.? Il Signor ambasciatore era sicuro?
Ascoltavo attonito. Ora toccava a me chiedere se ero stato pubblicato a Parigi oppure no.
Gli posi la domanda in tono mezzo serio e mezzo scherzoso, e nello stesso tono mi rispose che, per come andavano le cose, non c’era da meravigliarsi che fossi arrivato a dubitarne.
Presto o tardi, la conversazione tornava sempre sull’invito, con lui che mi chiedeva come avessi fatto ad arrivare a Parigi senza vederlo con i miei occhi e come potevo non avere la curiosità di capire cosa stesse succedendo...
Avrei voluto ribattergli che la curiosità era un lusso al di sopra delle mie possibilità. Era un miracolo che mi lasciassero viaggiare e questo mi bastava e mi avanzava. Ogni curiosità superflua avrebbe potuto rompere l’incantesimo... E lui invece si sforzava di capire come poteva esser stato deciso questo viaggio... o almeno cosa ne sapevo io.
Come era stato deciso? Non sapevo nulla neppure di questo. Sapevo soltanto che mi avevano convocato al ministero degli esteri per informarmi che il nemico faceva congetture a proposito di questo invito, e che loro, per chiudergli la bocca, avevano deciso di farmi partire.
Mi aspettavo che mi chiedesse chi era questo nemico e perché mai si dovesse dargli ascolto. Eravamo pagati per sapere che, quando la carovana abbaia, passa il cane... o meglio, era il contrario, quando il cane abbaia, passa la carovana.
Dietro i finestrini della macchina, le luci di Parigi danzavano, ora vicine ora lontane.
Ascolta, riprese l’ambasciatore rompendo il silenzio. Poco importa come sei arrivato qui, ora è bene non parlare con nessuno di questi dettagli.
Aveva la voce stanca, esitante. Nel mio foro interiore completavo macchinalmente tutte le frasi che lasciava sospese. Erano cose delicate, nessuno sapeva come sarebbero andate a finire. Dato che non avevo avuto inviti, era del tutto probabile che un giorno si sarebbero messi a stanare i responsabili di quel garbuglio. Ciascuno avrebbe cercato di dare la colpa al vicino, e lui, in quanto ambasciatore, non avrebbe potuto evitare di dare spiegazioni. Si può capire che gli altri si siano lasciati inebriare dalla vena artistica, dalle muse, dalla fama, ma tu, ambasciatore, come hai fatto a cadere in trappola?
Mentre parlava, ebbi l’impressione che dalle profondità di questa storia venisse a galla qualcosa. Quel retrogusto di fantasticheria non era casuale. Tutto il viaggio era trascorso sotto questo segno: paradossale, estraneo a ogni logica, totalmente surreale. Avevo un bel cercare altri epiteti, non mi avrebbero dissuaso. Era vero, non sarebbero bastati cento inviti a farmi arrivare, perché nessun invito da questo mondo avrebbe potuto raggiungermi dove vivevo da anni: sottoterra. Ancor meno avrebbe avuto il potere di strapparmi da là e portarmi da questa parte. Ovviamente tutto questo sembrava incredibile, perché mai era successo che un morto arrivasse dove era atteso: boulevard Saint Germain 79.
Fosse anche con cento inviti corredati di duecento timbrature... Era proprio così. Cento inviti insieme non avrebbero mai potuto realizzare ciò che poteva fare uno solo. Diverso, discreto, improbabile. In breve, conforme a quello che avevo ricevuto io: un non-invito.
Le luci ballavano in modo sempre più disordinato. Ero ormai quasi certo di non aver ricevuto inviti da nessuno. Come sarebbe stato appurato in seguito, quello che era passato per un invito non era stato altro che un miraggio, di quelli che nascono spesso dalla sete prolungata.
Tale sete era frequente in Albania, ma raramente era successo che il miraggio ingannasse un paese intero.
La macchina si fermò davanti all’ingresso di un hotel.
Alloggerai qui, disse l’ambasciatore. L’hotel aveva il nome della strada: Dupleix.
Congedandomi, mi guardò all’improvviso come se mi vedesse per la prima volta. Oltre alla sorpresa, credetti di distinguere nei suoi occhi una dose di terrore. Era un terrore particolare, come quelli che si condividono tra due persone. Un terzo avrebbe potuto chiedersi: chi è questo viaggiatore? E farsi la stessa domanda anche per il diplomatico.
Le occasioni successive avrebbero visto ripetersi gran parte delle sensazioni di quella notte. Gli hotel cambiavano, gli ambasciatori anche, quanto agli inviti, si facevano ora più precisi, corredati di orari, date, scadenze, ma la maggior parte, ahimè, mancava della sua ragion d’essere: la facoltà di portare l’invitato là dove era atteso.
Grande era la tentazione di indugiare nella nostalgia del primo invito, quello sghembo, improbabile, quasi infedele, per non dire immorale, ma che malgrado tutto era riuscito dove gli altri avevano inciampato.
Le lettere di diniego erano state redatte direttamente dal ministero degli esteri. Le ragioni addotte in genere riguardavano lo stato di salute, a eccezione di alcune, come nel caso di un invito a venire in Francia per ricevere le insegne di ufficiale della Legion d’Onore, rifiutato con il pretesto che I.K. non poteva essere più che un ufficiale di riserva dell’esercito albanese, perché la legge del paese vietava il cumulo di cariche con un grado militare straniero.
Sforzandomi di restare serio, risposi al capo servizio che si trattava della Legion d’Onore, che era un’onorificenza, e non della Legione Straniera, che faceva parte a tutti gli effetti dell’esercito francese. Mi ribatté che era la stessa cosa, ma acconsentiva a che, nella risposta, il comma che parlava della guerra in Vietnam, tema su cui l’Albania non condivideva assolutamente la posizione francese, venisse redatto in modo più diplomatico.
Quando l’invito includeva la moglie, il motivo del loro diniego era più semplice da trovare: era in stato interessante. “Secondo i miei calcoli, la tua cara Helena deve aver messo al mondo trenta pupetti,” si è azzardato a dirmi un giorno, in tono scherzoso, il mio editore francese.
Abbiamo riso entrambi per un po’, poi abbiamo cercato di immaginare se un numero tale avrebbe potuto essere contemplato pure nel caso in cui Helena avesse avuto non solo sei o sette braccia, sul modello del Krishna della mitologia indù, ma anche gli altri organi moltiplicati nella stessa proporzione.
Quando gli dissi che comunque ero lo scrittore del mio paese che viaggiava di più all’estero, ne rimase scioccato. Non smetteva di ripetere: È grottesco! Oltre il grottesco, è impossibile, non ci sono parole. Almeno in francese.
Si strozzava di indignazione, mentre cercavamo di inventarci gli inviti immaginari da mandare agli scrittori albanesi. A poco a poco ci avvicinavamo a quello che avremmo potuto chiamare invito inverso, una sorta di controinvito che mi ricordava la storia di quel cliente del Gran Caffè di Scutari, che per farsi portare un tè atteso troppo a lungo gridò al cameriere: Ehi, ragazzo, non portarmelo quel tè, mi raccomando!
Non mandatecene più di questi inviti... Una volta lanciata, l’immaginazione finì per partorire da sola la formulazione appropriata: “Signore, caro amico, ho il piacere di non invitarla al ricevimento offerto dell’editore Fayard, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro. Ringraziandola nuovamente per la sua incomprensione, la prego di accettare, caro Signore, l’espressione della mia profonda stima, nonché il mio augurio sincero di non vederla, né in questa né in altre occasioni. Non suo, Claude Durand.
Ci sforzavamo di ridere, senza però riuscirci davvero. Tuttavia, certi giorni ci abbandonavamo a sognare che tutto questo sarebbe improvvisamente finito, e che quell’esercito di “no” e di “non” si sarebbe sfasciato per lasciare spazio a qualcosa di affermativo.
Ero pronto a credere che sarebbe bastata la comparsa, un giorno, della colomba annunciatrice nella forma di un invito normale, perché si instaurasse il giusto ordine delle cose.
Non avrei mai immaginato che il peggio sarebbe arrivato nella forma più inattesa. Non era del tipo: Non puoi più viaggiare all’estero senza darci dettagliato resoconto di ciò che hai fatto la volta precedente. Oppure: A partire da questo momento, ogni traduzione delle tue opere è sospesa. Niente del genere. Era tutta un’altra cosa. Radicalmente diversa. Era un invito normale, redatto alla perfezione. Con un “Caro Amico” come intestazione. Sottoscritto dall’editore.
E tuttavia, appena letto mi rimase sulla punta delle dita come se avessi aspettato tutt’altro. Nemmeno io sapevo cosa volevo trovarci. Un appunto manoscritto a margine: “Vada pure”, come mi era parso di notare all’inizio? Lo riesaminai: era proprio quello che c’era scritto; in ogni caso non diceva: “Non ci vada”, né “bisogna che non vada”, “senza che ci vada”, “non ci deve andare”, “non ci vada proprio” o “non potrà andarci mai”.
Non potei fare a meno di chiedermi più volte: “Che diavolo ti prende?”, senza per questo sentirmi sollevato. La cosa più stupefacente è che, quando diedi la notizia a due conoscenti davanti all’ingresso del Club degli Scrittori, mi sembrò di notare sui loro volti, invece della punta di allegra sorpresa che ci si sarebbe aspettati, una certa stanchezza.
Credevo fosse il riflesso del mio vuoto interiore, ma, quando lessi lo stesso vuoto negli occhi di Helena, mi dissi che forse c’era di mezzo qualcosa di più profondo.
Helena tenne per un po’ l’invito sotto gli occhi e, prima ancora che avessi il tempo di dire a me stesso: No (non dirmi che leggendo “Vada pure” hai capito “Non ci vada”), fu esattamente ciò che mi disse lei.
Ridemmo entrambi in modo forzato.
Cominciavo a capire che l’invito, di colpo, aveva avuto il suo effetto. La notizia del viaggio “di là” si era staccata dal suo senso primario, al punto che non mi sarei sorpreso se, al posto di congratularsi con me, mi avessero detto: Oh cielo, cosa ti è successo?
A ripensarci, anni dopo la caduta del comunismo, mi sembrò di aver esagerato, finché, un giorno, un amico che indagava alcune stranezze a proposito delle condanne politiche non mi riferì di essersi imbattuto in almeno due casi in cui il futuro condannato, prossimo alla disgrazia, era proprio stato fatto oggetto di un invito da parte dei rampolli del tale o talaltro dirigente, oppure era stato mandato a fare un breve soggiorno all’estero!
Nelle mie lettere da Parigi ho ritrovato le stesse incoerenze, lo stesso inspiegabile garbuglio. Ci sarebbero voluti molti giorni per ritrovare l’equilibrio. E la cosa si sarebbe ripetuta in occasione di diversi altri viaggi quando, alle luci dell’aeroporto di Orly, urla, pianti e lamenti di un tempo si sarebbero mescolati nel mio spirito.
Di tutte le notti, la prima si sarebbe sempre rivelata particolarmente irrequieta. A volte si faceva sentire la voglia di correre alla finestra per controllare se qualcuno o qualcosa – la Tour Eiffel, per esempio – non se ne stesse andando da Parigi di nascosto, mentre tutti, presidente, ministri, guardie di notte, dormivano con i pugni chiusi.
Dopo il Dupleix, il secondo hotel sarebbe stato il Derby, non lontano dal primo, ma dall’aspetto un briciolo più allegro.
Le notti erano più o meno le stesse, anche i portieri notturni si assomigliavano, e altrettanto i bistrot. Il più gradevole tra questi, la Terrasse, mi aveva attratto fin dal primo mattino, ma solo il quarto giorno, con le mani che cercavano nelle tasche un pezzo di carta e una penna, ebbi la certezza che era proprio il bistrot giusto.
Avevo finito per farmi vincere dalla sensazione che la maggior parte degli eventi che si verificavano a Parigi, compresi quelli che ero certo di vivere lì per la prima volta, erano in realtà come già visti.
A quanto pare era un meccanismo legato ai sogni, che prosperava solo nella confusione. La quale era all’opera ovunque. Le impressioni delle due Parigi, quella comunista e l’altra, sua opposta, si mescolavano senza che si potessero distinguere le più significative.
Alla Terrasse, un pomeriggio di ottobre, andò in scena il divorzio tra le due Parigi. Avevo deciso di non tornare più in Albania prima della caduta del regime. Mentre guardavo allontanarsi il giornalista Daniel Schneidermann, di Le Monde, con il testo della mia intervista di addio, sarei stato incapace di credere che questa separazione sarebbe stata, da tutti i punti di vista, solo temporanea.
Due Parigi... La comunista e la postcomunista? Facile a dirsi! La realtà era ben più complessa. Non erano solo le immagini a divergere: place du Trocadéro, per esempio, la prima che avevo attraversato all’indomani del mio arrivo. Poi altre, più sorridenti, e altre meno. Gli Champs Élysées, con quell’aria da regina offesa, i boulevard, così animati e allegri, i ponti gettati un po’ a caso sulla Senna. Stessa impressione per quanto riguarda la gente: alcuni straniti, altri per nulla. Alla fine, delle due Parigi, arrivai a pensare che i cambiamenti generati dalla caduta del comunismo si erano fatti sentire sia qui che .
Ciononostante, esisteva una terza Parigi, la più inintelligibile di tutte: quella delle mie lettere. La loro evocazione sembrava suscitare in Helena un’inquietudine inconfessata. Ai suoi occhi la Parigi delle mie lettere non soltanto era diversa dalle altre due ma, in un certo qual modo, era di troppo. Non ho mai saputo rassicurarla sulla disinvoltura con la quale ritraevo le persone incontrate. Tanto più che si sentiva in parte colpevole per questa corrispondenza, se non altro perché era indirizzata a lei. Non riusciva ad ammettere, per esempio, che la parola “demonio” potesse esprimere simpatia, né descrivere, riecheggiando nella nebbia, la fuga del mio caro amico C.D. in compagnia di uno dei suoi collaboratori.
Se le mie lettere parevano fuori luogo, ancor di più lo erano i miei appunti su vari episodi, che Helena esaminava già, in vista della stesura delle sue Memorie. Del resto, tutta la letteratura era così.
Gli appunti sulla nostra sistemazione in boulevard Saint-Michel 63, per esempio, erano chiaramente scritti per evocare una quarta Parigi.
È il mio vecchio amico Jean-Marie B. che, mentre prendevamo il caffè di fronte al Jardin du Luxembourg, mi disse apertamente: perché non vieni a vivere in questo quartiere?
Parlandone, gli venne in mente che l’Institut de France, qualche passo più in là, era proprietario di un palazzo con un certo numero di appartamenti, e poiché io ero membro...
Passando in rassegna le procedure per ottenere un alloggio nel mondo comunista, gli raccontai che nel 1972 era stata proprio Parigi, o per meglio dire il fatto di essere stato pubblicato qui e la curiosità dei giornalisti francesi di venirmi a trovare a Tirana, a far sì che mi trasferissi da un piccolo bilocale in un appartamento grande il doppio.
Scherzando su cosa potesse aiutarmi adesso, Jean-Marie B. mi confessò che regalare un libro autografato era ancora consuetudine tra gli scrittori.
Ricordandogli che non sapevo molto delle abitudini locali in materia di raccomandazioni, gli chiesi se non fosse il caso di fare un po’ di più, al che rispose che un dono non sarebbe stato inopportuno, soprattutto se di natura simbolica.
Un appunto scritto tempo dopo rievoca com’è andata. Ecco il testo:
Sapevo che era difficile, ma avevo deciso di non rinunciare. Presi il revolver, lo misi nella borsa portadocumenti e uscii. Dicevo a me stesso: in questa faccenda non c’è via d’uscita, solo il revolver la può risolvere. Per fortuna non c’erano controlli all’ingresso. Il volto dell’uomo che mi aspettava sbiancò, appena dissi il motivo della mia visita. La conversazione faceva fatica a decollare. Gli occhi ogni tanto mi cadevano sulla borsa dove stava l’arma. Solo quando la tirai fuori cambiò tutto. Il suo turbamento era indescrivibile. Oh no, Signor K., la prego, no!
L’appunto finiva qui. A leggerlo si direbbe scritto da un gangster che si vantava di aver ottenuto con la forza, nel cuore dell’Académie française, ciò che la logica non aveva accordato.
In effetti, anche se non era andata proprio così, il fatto era successo davvero.
Avevo dunque deciso di non rinunciare. Il giorno dell’incontro, dopo aver scelto il libro da regalare, provvisto di dedica, lentamente, come intorpidito, presi il revolver dall’armadio. Facendolo scivolare nella borsa, non potei evitare di figurarmi i pensieri di un osservatore esterno che seguisse con lo sguardo i miei movimenti. (Questo è completamente impazzito! Oppure: Servirà da lezione all’Académie, che accetta tra i suoi ranghi un selvaggio balcanico.)
Scesi alla metro Odéon e feci il resto della strada a piedi. Camminavo piano, pensieroso, provando a immaginare cosa poteva succedere.
Per fortuna, come ho detto, non c’erano controlli all’ingresso.
L’uomo che mi aspettava, sfogliando il libro, strizzò gli occhi di contentezza. Ebbi allora la sensazione che avesse già capito il motivo per cui avevo chiesto un incontro. Questo non gli impedì di ascoltarmi con attenzione, senza dissimulare tuttavia che avrebbe dovuto deludere le mie aspettative. Dopo le parole: “Lei capisce bene, Signor K....”, anche un balcanico di coccio avrebbe dovuto capire che la richiesta non sarebbe andata a buon fine. Aggiunse che, se fosse stato in suo potere, avrebbe subito dato l’assenso, perché lui, come tutti i membri dell’Académie, mi stimava molto, e la mia bella dedica gli arrivava dritta al cuore... ma la faccenda non era semplice, gli appartamenti nel palazzo in questione erano oggetto di numerose richieste...
Ora o mai più, mi dissi. Mi sforzavo di non pensare a nulla, e di fare quel che andava fatto... come un balcanico di coccio: che lo fossi davvero oppure no, non aveva importanza.
Infilai la mano nella borsa e toccai la canna fredda dell’arma.
Mentre la tiravo fuori mi tornavano in mente con una strana chiarezza le parole dell’antiquario che, al mercato delle pulci di Tirana, mi aveva convinto a comprarla. Non c’era posto al mondo dove non si apprezzassero simili regali. Là a Parigi, anche se mi fosse andato tutto liscio, sarebbe arrivato il giorno in cui ne avrei avuto bisogno. Ma dovevo esserne ben consapevole: nessun regalo al mondo andava a braccetto con la dignità dell’uomo come un’arma. Non faceva provare vergogna, né metteva in imbarazzo, come un profumo o una cravatta. Al contrario, oltre che una cosa nobile, era un regalo virile e senza smancerie, proprio un regalo da signore!
Dall’altro lato della scrivania, l’uomo non credeva ai suoi occhi: Oh no! Gridò. Non è possibile, Signor K., è davvero troppo, non avrebbe dovuto...
Continuava a dire che era una cosa inimmaginabile, inaudita, mai una scena del genere si era prodotta tra le mura dell’Académie.
Devo ammettere che la vista dell’arma l’aveva sconvolto più di quanto avessi immaginato. Continuava a pronunciare parole di protesta, che alle mie orecchie arrivavano su due registi diversi:
O no, no, Signor K.! Sta passando ogni limite! In questa istituzione non si tollerano le minacce. Per favore, riponga quell’arma!
Il secondo significato delle sue proteste era così intrecciato con il primo che era difficile scinderlo.
Oh no, Signor K.! Era molto lusingato. La generosità, la besa albanese era cosa nota... Tuttavia, la prego di non mettermi in una posizione delicata. Riponga quell’arma, per favore... Mai avrei creduto... Non si è mai vista... una cosa simile!
Con gli occhi che gli brillavano, non la smetteva di parlare, come in trance, terrorizzato da un lato, ma dall’altro come in preda a un insopprimibile desiderio di essere ucciso da quell’arma.
Vero è che, messa così sul tavolo, tra me e lui, anche a me in quel momento parve ancora più bella. Tra gli ornamenti in argento, alcune pietre preziose brillavano, altre sembravano spente. A Tirana, l’antiquario mi aveva spiegato che bastava muoverla un po’ per rianimare gli smeraldi addormentati, mentre quelli svegli si spegnevano a loro volta: una delle magie di quell’arma.
A quel punto ci fissavamo negli occhi in silenzio, aspettando di veder nascere nell’altro la tentazione che non avevamo il coraggio di ammettere a noi stessi.
Allora, quest’arma è per me... disse alla fine con una voce spenta.
Non riuscii a fargli capire che non doveva fraintendere il gesto, visto che ne era ancora sconvolto, e non trovammo neppure il tempo di consultarci sulle prescrizioni del codice penale francese in caso di utilizzo di armi antiche...
L’incontro durò circa un’ora, ma lui, malgrado la meraviglia, rifiutò il regalo. Le lanciò un ultimo sguardo concitato mentre la riponevo nella borsa, e mi disse anche che non dovevo sentirmi offeso, che, comunque fosse andata, un’altra volta... non appena fosse stata risolta la faccenda... si fosse mai ripresentata l’occasione...
Ero convinto che l’occasione si sarebbe in effetti ripresentata, a meno che un altro, invece della pistola, avesse portato un lanciarazzi...
Avevo creduto che Helena alla fine si sarebbe abituata a questa “Parigi degli appunti”, ma l’esito tardava. Invece ero io, a quanto pare, ad abituarmi alle sue domande: era a Tirana, all’università, che usavate la parola demonio in segno d’affetto? E se un giorno mi porti a Mosca, come mi hai promesso, troverò traccia delle cose che mi hai descritto? Avevi preso un caffè al Rostand senza sapere che si chiamava Rostand? In che circostanza hai conosciuto Colette D.?
Colette D. l’avevo conosciuta durante uno dei miei primi soggiorni a Parigi, in occasione di un invito a casa di Pierre Sipriot, il direttore di Hachette Littérature. Mi sarei reso conto in seguito che a queste cene c’era spesso una ritardataria, che manco a farlo apposta era anche la più bella.
Aveva qualcosa di indefinito, che sembrava fosse di volta in volta la causa e l’effetto della sua bellezza. Aveva qualcosa della ragazza e della donna sofisticata, l’ondulazione dei suoi capelli chiari sembrava sempre rimettere in causa la prevalenza di un aspetto sull’altro.
In seguito, dopo una di queste cene in rue Monsieur-le-Prince 48, mi parlò di un fidanzato segreto, il che mi lasciò a bocca aperta. Credevo che in Francia, come ovunque altrove, la nozione stessa di fidanzamento fosse in via d’estinzione, per non parlare di fidanzamenti segreti. Il mio sguardo cadde istintivamente su Monsieur Sipriot, ma lei, senza lasciarmi il tempo di interrogarla in merito, scoppiò a ridere divertita, e muovendo la capigliatura disse: “No no, mica lui!”
Il suo lato di ragazzina continuò a ridere, mentre io cercavo di avvicinare il mio tono al suo, senza trovare niente da dire se non del mio sospetto che “Monsieur Chypriote” doveva avermi preso per un matto la prima volta che ci eravamo incontrati.
Lei continuava a fare “no”, questa volta soltanto con la testa, o più precisamente con i capelli, ma senza sorridere.
Avrei voluto aggiungere che la cosa non mi suscitava rancore, perché dopotutto, in un modo o nell’altro, noi provenienti dall’Est ci portavamo dietro un po’ della sua follia, come per la storia del mio pseudoinvito, ma questo non era facile da spiegare, per di più con il mio francese zoppo.
Ma niente affatto! disse scandendo le parole. Vi capiamo benissimo... meglio di quanto voi pensiate...
In un attimo mi parve che i suoi occhi cambiassero colore.
Noi vi proteggiamo, continuò sbattendo le ciglia in modo particolare... Capisce cosa voglio dirle? Ci prendiamo cura di voi... ma senza dare nell’occhio...
All’inizio credetti in effetti di non capire. Lei altrettanto. Senza spostare lo sguardo, mi ripeté tutto, con parole più chiare, accompagnate dallo stesso battere di ciglia, come colta in errore.
Adesso era la sua parte di signora elegante che aveva preso il sopravvento, e mi parve indispensabile rassicurarla che la capivo bene, che le ero riconoscente, ma invece di ringraziarla le chiesi:
Ma lei ha un ruolo in tutto questo per caso?
Prima ancora di avere risposta capii di aver fatto una di quelle gaffe difficili da riparare. Per un po’ mi osservò pensierosa.
Anche se così fosse, non glielo direi.
La prego di perdonarmi, Madame... Improvvisamente mi resi conto che la luminosità sublime dei suoi occhi, prima che con il mistero femminile, con la seduzione e con le immagini che di solito se ne traggono, aveva a che fare con qualcos’altro.
A quanto pare, superbo e solitario, era lo spazio riservato alla sua altezza, inaccessibile alla volgarità del mondo.
Ma Dame. Mia Signora. Cara inquilina di rue Monsieur-le-Prince 48, come indicato sul suo biglietto da visita. Mi sarei gettato ai suoi piedi se mi fossi sentito capace di farlo in modo accettabile... (Sarei stato anche disposto fare un corso, se ne esistevano, che insegnasse a inginocchiarsi davanti a una signora senza rovesciare i bicchieri sul tavolo, o senza strapparle il vestito elegante se, presi da vertigine, ci si aggrappasse a quello...)
Inginocchiarmi, chiedere scusa per le volgarità impudenti che a volte, sebbene dimenticate dai tempi dell’università a Tirana e Mosca, trovavano ancora la strada per risalire all’improvviso, in un pastrocchio russo-albanese.
Ogni volta che mi affacciavo alla finestra per vedere che tempo facesse, il mio sguardo si attardava sulle strisce pedonali di boulevard Saint-Michel. Siccome ci passavo varie volte al giorno, avevo l’impressione che fosse l’unico attraversamento del Quinto Arrondissement.
Non era l’unico punto di Parigi in cui due arrondissement condividevano un boulevard, ma chiunque venisse ad abitare in boulevard Saint-Michel non poteva che restare incuriosito dal fatto che uno dei marciapiedi apparteneva al Quinto e l’altro al Sesto.
Un confronto così palese, per non dire provocatorio, dei due quartieri più famosi di Parigi susciterebbe immancabilmente un’idea di rivalità. A prima vista, il Sesto aveva una certa superiorità. A conferirla sarebbe bastato il Jardin du Luxembourg, il parco più famoso della capitale. Il senato all’interno del parco, il Théâtre de l’Odéon a pochi passi da lì, per non parlare di boulevard Saint Germain, il Café Flore e il Deux Magot, la maggior parte delle case editrici, e pure l’Académie française, pesavano nettamente in suo favore.
Il Quinto, benché più sobrio, non era da meno. Avevamo Notre-Dame, tutto il Quartiere Latino con quel fascino così particolare, la Sorbona degli studenti, il Panthéon, per non parlare di rue Mouffetard, stretta stretta, elogiare la quale, oltre che quasi obbligatorio, era segno di cultura.
Forse un giorno la mia condizione ambigua di residente del Quinto che andava a prendere il caffè (e dunque a scrivere, cioè a esercitare la sua facoltà più elevata) nel Sesto, benché all’inizio frutto del caso, avrebbe rivelato un significato più profondo.
Simili sensazioni mi assalivano soprattutto quando attraversavo il boulevard per andare dall’altra parte. Contro ogni logica, ero persuaso che fosse sempre il Quinto che voleva lanciarsi verso il Sesto, e mai il contrario.
Mentre aspettavo il verde al semaforo, mi divertivo a immaginare Julien Gracq, professore al liceo Henri IV, che scendeva da rue Soufflot per andare dal suo editore, José Corti, e attraversava il boulevard in quello stesso punto. Più in là, prima di arrivare a destinazione, certamente si sarebbe fermato a prendere il caffè di mezzogiorno al Rostand...
L’idea che il più grande scrittore vivente di Parigi, e forse d’Europa, frequentasse il mio stesso café, mi sembrava del tutto naturale, se non ovvia. Se ne sarebbe potuto dedurre che ero orgoglioso, vanitoso, forse snob... non m’importava. Restavamo autori dello stesso editore e nessuno poteva dire che non era nell’ordine delle cose ecc., a meno che, chiaramente...
A meno che Julien Gracq non prendesse il caffè al Rostand.
L’ipotesi si manifestò un giorno sotto forma di avvertimento. Molti interrogativi esplosero uno dopo l’altro.
Se Julien Gracq non..., il Café Rostand avrebbe perso, se non tutta, almeno buona parte della sua magia, no?
La risposta sarebbe presto arrivata.
Accadde un giorno della settimana come gli altri. Camminando su rue de Médicis, a pochi passi dal Rostand, un volto familiare mi colse di sorpresa, nella vetrina di José Corti. Per poco non gridavo: E che ci fai tu qui, Éric?
Mi venne subito in mente che Éric Faye, giovane scrittore francese e amico di vecchia data, non era affatto fuori posto nella vetrina del suo editore. Quello confuso ero io. D’altronde...
Non mi restava che rimproverare me stesso per l’errore. Non avevamo forse scritto insieme un libro-intervista, pubblicato proprio da José Corti?
Non riuscivo ad ammettere che, soltanto qualche settimana dopo aver preso l’abitudine mattutina del caffè al Rostand, avevo scoperto che la sede di uno dei miei editori era dietro l’angolo. Rasentava l’incredibile.
Mi consolai del vuoto di memoria dicendomi che la pubblicazione era avvenuta diversi anni prima, nei primi tempi della mia sistemazione parigina, e che, inoltre, era stato più che altro Éric a occuparsene.
Nella vetrina c’erano diversi libri di Julien Gracq, l’autore di punta di José Corti. Dall’interno, dietro la vetrina, due occhi, forse quelli dell’editore, mi scrutavano con una certa curiosità.
Ci salutammo a distanza e io continuai per la mia strada.
Avrei fatto la sua conoscenza solo molto tempo dopo. Fu uno di quegli incontri che vengono portati a termine solo dopo una decina di saluti incerti e dubitativi.
Non so cosa mi spinse quel giorno, vedendolo al suo posto abituale: attraversai la soglia ed entrai. Mi presentai, al che lui rispose: “Lo so.” Non c’era da meravigliarsi, in fin dei conti era il mio editore.
Dopo avermi invitato a sedere, si presentò a sua volta: Bertrand Fillaudeau, responsabile editoriale di José Corti. Mi era sembrato amichevole, cosa che mi spinse a confidargli, in segno di intesa, che conoscevo Julien Gracq e che per di più avevo scambiato una corrispondenza con lui. Prima che avessi finito la frase, ripeté: “Lo so.” Feci un debole sforzo per giustificarmi la sua poca meraviglia, ma quando aggiunsi che, oltre a questa corrispondenza, ero stato a casa di Julien Gracq a Saint-Florent-le-Vieil, e Fillaudeau mi disse per la terza volta “lo so”, persi la speranza di potergli dire qualcosa di me che lui già non sapesse.
Mi trattenni per non cedere agli aneddoti da due soldi su Henry Miller e Anaïs Nin, che un tempo erano stati degli habitué di quelle parti, finché non mi venne in mente che anche Emil Cioran forse aveva abitato nei paraggi.
Sì, fece lui, proprio qui accanto, in rue de l’Odéon 21.
La conversazione s’intrattenne un momento sui personaggi che avevano avuto abitualmente a che fare con quest’angolo di Parigi e, di conseguenza, con il Rostand, come Gide, i cui genitori erano stati proprietari di un appartamento sopra il locale.
Mi sarebbe piaciuto dirgli anch’io, almeno una volta: “Lo so”, ma l’occasione non mi si presentò quel giorno. Intanto, l’angoscia che Julien Gracq non...
E Julien Gracq? Chiesi con un filo di voce.
Gracq? Disse lui. Non so perché mi aspettavo mi dicesse che Julien Gracq, come per un incantesimo e contro ogni aspettativa, avesse deciso di non metter piede al Rostand.
Ma perché? Chiesi senza dargli il tempo di finire la frase.
Perché? Come perché?
Volevo dire, com’è possibile...
Scusi?
Ci volle un po’ di tempo prima di uscire dal groviglio in cui eravamo caduti. O meglio, prima che capissi che mi aveva detto esattamente il contrario di quello che avevo immaginato di sentire, in altre parole che Julien Gracq, per il suo caffè di mezzogiorno, andava proprio al Rostand e da nessun’altra parte.
Sollevato, rilanciai la conversazione sui personaggi illustri di cui sembrava sapere ogni cosa. Balzac, per esempio, non aveva legami particolari con il quartiere, se non per il macinato di caffè, che comprava da un negoziante ebreo nella vicina rue Monsieur-le-Prince, al numero 50. Poteva sembrare poca cosa, ma, a meglio vedere, era difficile immaginare che senza quel prezioso pacchetto di caffè avrebbe scritto tutta La commedia umana, e neppure la metà. Per non parlare del palazzo adiacente, sul quale, come avevo visto dalla targa commemorativa, tra il 1654 e il 1662 aveva vissuto Pascal, e un po’ in là...
All’improvviso provai il desiderio irresistibile di fagli una domanda a cui ero sicuro in anticipo che non avrebbe potuto rispondere con uno dei suoi “Lo so”.
Io l’ho ascoltata attentamente, signore, parlare dei numeri 50 e 52 di rue Monsieur-le-Prince, ma cosa mi sa dire del numero 48, dove vive Colette D., la donna con gli occhi più particolari di tutta Parigi?
L’idea di scrivere prima o poi qualcosa sul Café Rostand mi era venuta in modo così naturale che non ricordavo né il momento, né le circostanze. Tra il rimorso e la gratitudine, faceva pensare a ciò che si prova per la compagna di una vita che, sempre presente, non ha avuto, o ci sembra non abbia avuto, da parte nostra, la giusta attenzione.
Avevo scritto centinaia di pagine in quel café, assorto in decine di argomenti, perdendo totalmente di vista il locale stesso.
Rostandum Bellum.
Erano cinque o sei pagine a proposito di un evento immaginario, che inizialmente avevo intitolato L’affaire Rostand, poi La verità sull’affaire Rostand, e infine mi decisi, dopo una parentesi L’enigma Rostand, per la formula epica La guerra del R.
Helena pensava di includerlo nelle sue Memorie, ma dopo averlo letto si persuase che sarebbe rimasto totalmente estraneo al resto.
Benché mi piacesse credere che l’evento potesse avere qualche rapporto con la realtà, mi allineai alla sua opinione.
Ogni volta che di pomeriggio passavamo davanti al R., mi aspettavo che Helena mi chiedesse, come per scherzo, dove mai avessi visto quelle sedie sfasciate, quegli attacchi e contrattacchi, quella famosa guerra che mi ero immaginato, e poi le file di rifugiati sconfitti, avviliti, dispersi nel quartiere.
In realtà c’era stata davvero una chiusura temporanea del café, per lavori, ma difficilmente si sarebbero potuti assimilare il rumore e la polvere a degli eventi che meritavano la parola “guerra”, meno ancora se in latino.
Helena, dal canto suo, non solo non mi fece domande, ma un giorno, in modo del tutto inatteso, mi disse che aveva cambiato idea, e voleva includere quelle pagine nel suo libro.
Mi vorresti dire che hai cominciato a credere un pochino in Rostandum Bellum? (Pensi davvero che non abbia mai avuto un invito a Parigi?)
Tempo dopo, avrei ricevuto una risposta sorprendente a questa domanda, dalla bocca di Bertrand Fillaudeau. Fu lui a spiegarmi che, se la mia fantasia peccava di incoerenza (a dire il vero usò la parola “esorbitante”), l’esagerazione non era poi tanto marcata. In altre parole, la sostanza della storia era vera. Uno scontro c’era stato davvero al Rostand e, benché a fatica lo si sarebbe potuto definire bellum (Illyricum o Rostandum), continuava comunque a ispirare un certo terrore.
Il mio testo iniziava così:
Quella che si sarebbe poi chiamata “la guerra del Rostand” avvenne a cavallo dei due secoli, il XX e il XXI...
Più avanti venivano presentati i due campi avversi: i nuovi proprietari del café, e dunque i capi, da un lato, e, dall’altro, gli intellos, termine la cui sonorità mi faceva pensare agli hoplites dell’antichità.
Come molti altri dettagli, la vera causa dello scontro, tenuta accuratamente nascosta, sarebbe stata rivelata anni più tardi. In effetti gli intellos (cioè i giornalisti, gli scrittori, gli studenti a cui piaceva lavorare nel café) avevano dato al locale una certa reputazione da ritrovo d’élite, ma, tenendo i tavoli perennemente occupati, nuocevano al suo rendimento economico. Questo, peraltro, non si poteva dire apertamente. Lo scopo della guerra era far sloggiare gli intellos, senza cacciarli. In altre parole, dovevano andar via da soli, e senza rumore. Qui stava il busillis: l’umanità aveva visto ogni sorta di guerra, tranne quelle senza rumore.
Non potendola combattere, per un periodo pensarono di farne a meno. Tuttavia, trovarle un sostituto si rivelò impossibile, se non motivo di angoscia, tant’è che rinunciarono alla rinuncia della guerra, per ripartire con rinnovata alacrità.
Allora guerra a oltranza, per quanto sotterranea. Con attacchi e contrattacchi, vittorie e sconfitte.
La cronaca continuava ad arrivarci dal fronte: gli intellos avevano attaccato la zona del café vicino alla vetrata che dava sul Jardin du Luxembourg, senza sospettare che li attendeva un’imboscata.
Da nessuna parte veniva detto in cosa consistesse questa trappola. Più avanti il testo continuava:
La guerra continuò per tutto l’inverno... Dopo un attacco disperato per aprirsi un varco al centro, gli intellos si volsero verso l’ala nord, che era anche la più vulnerabile.
Cosa significava, in questo caso, la parola “attacco”, e le espressioni “aprirsi un varco al centro” e, soprattutto, “la più vulnerabile”?
I miei sforzi per identificarli erano andati a vuoto. Sembrava si trattasse dei clienti proprietari di cani (era in effetti il periodo in cui erano ammessi nei locali), con il fine di turbare la pace degli intellos. A meno che non si trattasse dell’apertura temporanea agli alienati provenienti da un vicino manicomio.
Questa parte del testo si chiudeva su toni tristi.
A metà della primavera, la resistenza degli intellos fu definitivamente infranta. Come all’indomani di ogni guerra persa, i rifugiati non avrebbero tardato a fare la loro comparsa nel quartiere.
I fuggitivi si dispersero infatti in varie direzioni, alla ricerca di altri café. La maggior parte si ammassava verso ovest, nei palazzi di rue Soufflot e di rue Gay Lussac. Gli altri, dove li portava la sorte.
Mi ricordo di un vecchio cliente che era finito al McDonald’s. Al Rostand, un giorno, mi aveva regalato un serie di disegni con il titolo Cinque stadi dell’Edipo Re. Lo riconobbi dalla strada, piegato come al solito su dei foglietti. Incuriosito, mi avvicinai, e, invece dei disegni di Edipo o Filottete, vidi il prezzo degli hamburger, in una grafia a colori violenti e accesi.
Fui sul punto di piangere, ma per fortuna lui non mi riconobbe.
Probabilmente il posto dove i rifugiati di questa guerra sarebbero stati più spaesati era rue Monsieur-le-Prince. Infatti, i nomi giapponesi dei locali si succedevano a un ritmo deprimente: Kiotori grill. Yamamoto-Sukusuma sushi. Samasuku-Kurosawa grill. Pareva si fosse realizzato un insolito gemellaggio Parigi-Tokyo, come risultato di un nuovo tsunami, un nuovo sisma, per non dire un franco-japonum bellum.
Dopo i rifugiati, toccò ai turisti essere passati al vaglio, più precisamente quelli che si sarebbero potuti definire “la nuova ondata del dopoguerra”.
Tra loro c’era qualcuno che chiedeva informazioni sulle tracce dei personaggi illustri che un tempo avevano frequentato il café. “Sta parlando di Hemingway? Frequentava un altro locale, la Closerie des Lilas, dieci minuti a piedi da qui...” “Ah, sorry, non sono molto informato di queste cose!”
Come epilogo c’era il ritorno dei fuggiaschi. La guerra era durata poco. I proprietari erano cambiati di nuovo, e la loro partenza aveva segnato la fine delle ostilità: insieme ai nuovi capi, era tornata la pace.
Uno dopo l’altro, sotto lo sguardo perplesso dei camerieri, gli intellos entrarono nel café che tante volte aveva tormentato i loro sogni, e riuscivano a malapena a trattenere le emozioni, mentre con gli occhi cercavano il loro solito posto, la frontiera fatale che divideva la zona centrale dall’ala ovest, il settimo tavolo dove erano stati definitivamente sconfitti, le sedie su cui avevano bevuto il loro ultimo caffè.
Alla fine, gli appunti tornavano sui turisti. Una conversazione immaginaria con uno di loro – scambio piuttosto insolito – chiudeva la saga del Rostandum Bellum.
“Lei sarebbe austriaco? Di Vienna? Yes? Allora saprà dirmi qualcosa su Alma Mahler, la bella viennese, moglie di Gustav... Gustav Mahler?”
“Ah sì, certamente, Mahler, yes...”
Il suo inglese approssimativo metteva in risalto l’ingenuità del suo sguardo. Benché il mio inglese non fosse migliore, la conversazione ebbe il suo corso:
“Forse la signora Malher era in questo café?” domandò lui.
“C’è possibilità, sì,” risposi io.
“Ah, forse tanto tempo fa.”
“Sicuro: prima di guerra.”
“Ah, yes. Prima di guerra, sure.”
“Può darsi prima di guerra, the first.
“Ah. Mahler morto (scrive 1911). Lei, vedova, bella tourist, da sola.”
Yes, sir.”
Sento che avrò difficoltà a continuare la conversazione, ancor più a spiegargli perché cerco informazioni su Alma Mahler. È evidente che dal canto suo lui vorrebbe chiedermelo, ma siccome ha la mia stessa difficoltà, desiste. Ci sorridiamo a vicenda come due scemi, felici di essere riusciti a capirci... Gli usignoli sanno tacere.
Questo non mi impedisce di immaginare la bella vedova trentenne, poco dopo la morte di Mahler, sul ponte di una nave da crociera che attraversa lo stretto di Corfù, in compagnia dei suoi spasimanti. Da una parte l’Albania, dall’altra l’isola di Corfù. Ed ecco che allo scalo successivo, come è scritto nelle sue Memorie, sul piroscafo sale un ministro albanese! (Un ministro albanese nel 1912! Sono appena tre o quattro settimane dal 28 novembre, data in cui, nella sua storia moderna, l’Albania si è dotata di un governo, un pugno d’uomini con il nome di ministri.) Ed ecco che uno di questi spunta su una nave di lusso, e con qualche parola attira l’attenzione della celebre vedova. Si tratta di un proverbio del suo paese, secondo lui. Un proverbio tanto insolito quanto oscuro: “Il colpevole non è l’assassino, ma il morto!” Il proverbio colpisce a tal punto la bella che diventa, secondo quanto afferma lei stessa, la massima della sua vita. (È stata e soprattutto sarà considerata una mangiauomini, ed ecco che un ministro del più giovane governo del pianeta le dà una giustificazione!)
Più della bella viennese, è il ministro ad accendere la mia curiosità. Da dove sei spuntato, chi ti ha fatto salire a bordo? Eri davvero un ministro oppure un fantasma, e dove l’hai pescato quel proverbio? L’Albania esiste come stato da meno di un mese. Dove hai trovato il tempo di andare per mare a corteggiare le belle viaggiatrici pronunciando parole così mi... mis... misteriose?
Attraversavo raramente rue Soufflot, di solito per andare in un negozio di telefonia, oppure, più raramente, per andare dal medico di base.
Un giorno, mentre fissavo il semaforo pedonale nell’attesa che scattasse il verde, avvertii alla mia destra la presenza di una donna. Avevamo fatto qualche passo verso il marciapiede opposto quando, dopo essersi scusata, mi chiese se fossi proprio Monsieur K.
Dopo che ebbi annuito, mi disse che era Odile Jacob, editrice.
“Ah, Odile Jacob, l’editrice?”
Doveva essere abituata a questa reazione di sorpresa nei suoi interlocutori, accompagnata da un’occhiata che, senza volere, scendeva dai capelli ai tacchi altissimi, come a dire che quella giovane donna elegante avrebbe potuto essere chiunque, ma non la famosa editrice parigina.
Avevo pronunciato la parola “editrice”, che in realtà voleva dire “l’editrice in persona?” o meglio “la proprietaria?”, perché tutti sapevano che la proprietaria delle edizioni Odile Jacob era Odile Jacob.
Le presentazioni, accompagnate da sorrisi, erano bastate a dare al semaforo il tempo di tornare rosso. Eravamo rimasti in fondo alla fila dei passanti, che erano già arrivati dall’altro lato. La cosa ci fu segnalata da un taxi a tutta velocità, e più precisamente dal volgare insulto del conducente alla mia vicina...
Qualunque altra donna sarebbe esplosa in recriminazioni indignate, a maggior ragione una celebre editrice, ma Odile Jacob, non contenta di restare su toni elusivi, aggiunse che era la seconda volta quella settimana che un tassista l’apostrofava in quel modo nello stesso punto.
Ridemmo in coro, e, prima ancora di arrivare al marciapiede di fronte, per quella disinvoltura o mancanza di scrupoli che, in una donna elegante, trovavano libero corso dopo quel genere di insulti, mi chiese se poteva sperare in una pubblicazione per la sua casa editrice...
Come per finire la frase in modo più concreto, indicò con la mano il palazzo delle edizioni Odile Jacob, trenta o quaranta passi più in là.
Non avevo fatto in tempo ad alzare le spalle per esprimere la mia esitazione, quando lei, con un sorriso sincero, mi disse che sapeva del mio contratto con Fayard, la mia proverbiale fedeltà era ben nota nell’ambiente, comunque non era male sapere che, in ogni caso... se non con un mio libro, almeno con un’opera afferente... Non sarebbe stato male... Oltretutto eravamo così vicini – e indicò di nuovo il suo palazzo, mentre io da parte mia ammettevo che, in effetti, dal mio balcone vedevo le sue finestre.
Appena qualche settimana più tardi, con il manoscritto Dossier K. in mano, attraversai esattamente nello stesso punto dove il tassista, sferrato il suo memorabile insulto, mi aveva forse fornito un nuovo editore.
Era proprio il libro giusto: i documenti segreti dell’archivio di stato, pubblicati per la prima volta da colui che lo dirigeva da ormai diversi anni.
In realtà, Odile Jacob non era la seconda, bensì la terza casa editrice del vicinato a pubblicarmi. Subito dopo José Corti, in circostanze quasi inaspettate ma sempre con il benestare di Fayard, un’altra mia pubblicazione aveva visto la luce nel “quartiere”.
La casa editrice Flammarion, anche se non era proprio contigua, si trovava nel perimetro del Rostand, una vicinanza che, per quanto mi riguarda, diventava quasi fatalmente un obbligo. Dirò di più: quando Flammarion mi presentò il suo progetto di collaborazione, ero certo che tra le prime due o tre frasi ne sarebbe comparsa una che cominciava così: “Oltre a essere vicini...”
E quindi, “oltre a essere vicini”, il personaggio sul quale mi chiedevano di scrivere era anche lui d’origine albanese.
Si trattava del nuovo astro nascente della coreografia francese ed europea, Angelin Preljocaj. L’editore pensava che alla pubblicazione del dialogo con Roman Polański sarebbe stato coerente aggiungere un saggio scritto da me. Poiché il libro riguardava l’armonia tra le arti, l’editore sottolineava che il dialogo tra un celebre cineasta americano e un grande coreografo francese avrebbe tratto beneficio se accompagnato dalle pagine di uno scrittore... albanese. Insomma, avevamo per le mani la combinazione di tre arti e di tre nazionalità: americana, francese, albanese – per non dire quattro, se si aggiungeva l’origine polacca di Polański. Quanto a quella, albanese, di Preljocaj, quest’ultimo non mancava mai di ricordarla sulle locandine e sui programmi, anche se era stata la Francia ad avergli dato una carriera.
Comunque sia, la cosa migliore sarebbe che ne parlasse con lui prima di decidere, aggiunse l’editore, lasciando trasparire la sensazione che non mi sarei fatto convincere facilmente a scrivere su un tema che mi era così poco familiare come la danza.
L’incontro con Angelin Preljocaj fu più piacevole di quanto avessi immaginato. Benché non parlassimo in albanese, ebbi l’impressione di conoscerlo da tempo. E questo, nonostante il fatto che la sua famiglia fosse originaria di Vermosh, nella parte più a nord del paese, che anche a noi albanesi sembra più lontana della Svezia. Inoltre, Angelin aveva passato così poco tempo sul suolo albanese che per lui non si sarebbero potute usare neppure le parole “da piccolo”. Serviva un diminutivo, ad esempio “piccino”, che a sua volta avrebbe avuto bisogno di un diminutivo supplementare, per la semplice ragione che Angelin aveva lasciato l’Albania prima che il suo embrione avesse raggiunto i nove mesi: ne aveva solo quattro e mezzo e stava ancora nel ventre di sua madre, che era difficile da identificare come “Albania”... E come se non bastasse, questa donna, insieme al marito e al pre-Angelin, aveva attraversato il pericoloso confine di stato, con tanto di filo spinato e cani minacciosi, in una terribile notte d’inverno.
Angelin Preljocaj mi raccontò tutto questo in un francese delizioso ed elegante, agli antipodi del tenore del racconto.
Passavano i giorni e ci sentivamo ancora più vicini, il che poteva sembrare quasi un insulto alla lingua albanese, la cui mancanza, in questo caso, non si faceva più di tanto sentire.
Come per dare una spiegazione plausibile a questa affinità, Angelin avanzò l’idea che, anche se il mestiere dello scrittore e del coreografo sembrano così distanti, in fondo...
In fondo... ripetei tra me e me... In fondo erano simili, oppure no?
Le due possibilità mi sfiorarono alla pari. L’analogia sembrava grottesca, la sua assenza forse ancora di più.
Esitava anche lui. Forzando un po’ la mano, poteva essere per la difficoltà a scegliere quale delle due opzioni, la somiglianza o la differenza, fosse preferibile.
In fin dei conti, non era un terribile scandalo credere che i nostri pensieri trovassero espressione per il tramite di un pugno di segni ridicoli, chiamati lettere? Ci eravamo rassegnati, nessuno aveva avuto l’idea di protestare: no, ma guarda un po’ ’sti libri pieni di segni, come si è ridotto il pensiero umano... No, niente affatto. Allora perché non ammettere che anche la danza, l’arte del balletto, può essere codificata... in qualche forma? La musica ha il pentagramma, perché non la danza? Non aveva alfabeto, né chiavi, né note, non per questo aveva minor diritto di esistere in forma di schizzi nel cervello del coreografo. In fin dei conti, la danza parlava con tale facilità all’immaginazione comune che la sua sostanza poteva essere espressa in una parola tra le più diffuse: movimento. Non era che movimento, né più né meno. Ma un movimento diverso... Sono in un certo senso i gesti ordinari dell’essere umano, ma esaltati. Un po’ come in un sogno, un... delirio.
Ci parlavamo addosso con una tale veemenza, che se un terzo avesse assistito alla conversazione probabilmente avrebbe pensato che alla fine avessimo scelto l’albanese.
In un certo senso, un movimento esaltato, dicevo tra me e me... Come il cammino di tua madre quando ha attraversato il confine albanese nella notte, portandoti nella pancia a meno di cinque mesi.
Lungo tutto quel confine, cani e filo spinato. E il suo desiderio di attraversarlo, di lanciarsi al di là. Il desiderio di muoversi in un altro modo, così forte che veniva trasmesso, insieme alla paura, alla progenie nel suo ventre.
Mi sembrava di aver trovato finalmente il cuore del mio testo per lui.
La nostra conversazione, ormai più distesa, scorreva serenamente.
Tu hai le lettere dell’alfabeto, io i miei ballerini, ragazzi e ragazze. L’alfabeto della lingua albanese ha ben trentasei lettere, se non sbaglio, no?
Il paragone certo era carino. Però...
Però cosa? Perché adesso mi metteva in imbarazzo con i suoi però?
Però cosa? Replicai.
Ecco, rispose. A un certo punto viene fuori un problema. Succede che una o due ballerine sono assenti, supponiamo siano rimaste incinte. Questo alle tue lettere non potrebbe capitare.
Ci manca solo questo! per un pelo non esclamai. Che due o tre lettere taglino la corda.
Ne risi un momento, dopo di che non mi sentii più per nulla tranquillo. Invece di seguire il corso della conversazione, continuavo a pensare alle lettere che avrebbero potuto abbandonarmi all’improvviso. Era pura follia, ma non mi impediva in alcun modo di chiedermi quali avrebbero potuto... restare incinte!
Innanzitutto, mi parve che la “a” e la “f” fossero le più predisposte. La seconda perché era l’iniziale della parola femmina, l’altra perché la maggior parte dei nomi propri femminili finisce per “a”.
Provai a non pensarci più, cosa che credetti di riuscire a fare una volta salutato Preljocaj. Non avevo previsto la sorpresa che mi attendeva, l’indomani, al Rostand.
Disposi davanti a me le mie paginette, secondo un rituale immutabile, quando d’un tratto fui colto da un’angoscia ignota, la più assurda mai provata nella vita. Sfogliavo febbrilmente i miei appunti come per trovarci un dettaglio che sembrava essersi volatilizzato, prima di rendermi conto che ciò che cercavo non era né una frase né un dettaglio sparito, ma due o tre lettere che forse si erano messe in malattia... assenti per... perché erano rimaste incinte...
Basta! dissi a me stesso, e, vista l’occasione, articolai il nome di Angelin. Più precisamente: Ehi, Angelin, con il tuo nome angelico, mi hai attaccato la fissa di scomporre le metafore, da tempo abbandonata...
Alato, altro-movente, autentico parente degli angeli.
Pochi giorni dopo, guardando la sua coreografia di Romeo e Giulietta, quando in scena apparve il filo spinato della frontiera albanese, le guardie con gli elmetti tedesco-russi e i cani, ripensai a sua madre, e subito l’idea che avevo avuto per il mio saggio su di lui mi rasserenò.
Intorno al Théâtre de l’Odéon, quattro o cinque vicoli, tutti con il nome di qualche drammaturgo dimenticato del XVII secolo, sembrano sempre in attesa. Verso le otto di sera, se davanti all’entrata del teatro si forma la fila degli spettatori, non si riescono mai a leggere i loro nomi, né il titolo delle loro opere. Poi, le porte si chiudono e subentra il silenzio, rotto più o meno tre ore dopo dal mormorio del pubblico, questa volta in uscita, dal quale vien fuori qua e là il nome dell’autore, che anche questa volta non si trova su nessuno dei vicoletti.
Dopo la mezzanotte, quando il silenzio cala tutt’intorno, i rari passanti che attraversano questa parte del quartiere a volte potrebbero avere l’impressione di sentire i singhiozzi trattenuti dei drammaturghi dimenticati.
Muto, inesorabile, il Théâtre de l’Odéon sembra squadrarli tutti dall’alto in basso.
Più compassionevole del teatro, loro antica dimora che da tempo li ha relegati nell’ombra, la capitale dimostra ancora una certa benevolenza nei loro confronti: non fa nulla per rimuovere dai vicoletti che risuonano dei loro pianti le targhe con i loro nomi. Su queste, è scritta la data di nascita di ciascuno, e, naturalmente, quella di morte. Tutte intorno al 1600. Pressappoco contemporanei di Shakespeare.
Una sera tardi, mentre con Helena passeggiavamo nel quartiere, ci fermammo come d’abitudine davanti alle locandine. To’, c’è il tuo nome, mi disse Helena indicandone una.
Guardai con sorpresa perché, a parte rare eccezioni, non avevo mai avuto a che fare con il teatro. Ancora più stupefacente, il fatto che il mio nome figurasse accanto a quello di altri due drammaturghi, come per l’annuncio di un’opera comune. Sulla locandina, il titolo della pièce: Macbeth. Sotto, i tre autori: Shakespeare, Müller, Kadare.
In basso, si leggeva il nome dei due registi: Caroline Guiela e Alexandre Plank. A fianco, le date degli spettacoli e gli orari. Era un festival di teatro iniziato il 5 maggio e finito il 16, la sera prima.
Com’era possibile? continuavamo a esclamare. Com’era potuto succedere che, a due passi da quel teatro, non ne avessimo saputo niente? Soprese simili succedono a volte a Parigi, ma qui ero l’autore e avrei dovuto almeno essere informato. Per non parlare dei diritti...
Secondo Helena, era appunto impossibile che la cosa fosse sfuggita all’ufficio diritti delle edizioni Fayard, era invece plausibile che la causa fosse la mia distrazione.
Probabilmente aveva ragione. Ricordavo vagamente di esser stato interpellato su una questione di questo tipo, uno di quei casi in cui dare il proprio assenso richiede poca riflessione, perché non ne può risultare nulla di dannoso. Quanto alla combinazione di più autori sullo stesso soggetto, era una tendenza frequente nel teatro contemporaneo.
Avevo avuto l’occasione di incontrare molti illustri scrittori tedeschi, ma mai Heiner Müller. Sulla locandina era menzionata La figlia di Agamennone, insieme ovviamente al celebre Macbeth, ma non c’era traccia dell’opera di Müller da cui i registi si erano ispirati per il loro “Macbeth”.
A parte la persistente curiosità di capire come aveva potuto prodursi tutto questo, mentre ci allontanavamo dal teatro avevo la sensazione che la vicenda non fosse priva di sale. Come ha scritto Helena nelle sue Memorie (Il tempo che manca), se anni prima mi avessero detto che una sera, su una locandina teatrale, avrei visto il mio nome accanto al Macbeth di Shakespeare, avrei creduto a uno di quei miracoli che succedono solo nei sogni.
Man mano che ci dirigevamo verso il nostro palazzo, le domande sul come e il perché di questa apparizione mi sarebbero sembrate sempre più povere di senso, fino a sparire. Forse fu questa la vera ragione che in seguito mi impedì di capire cos’era davvero successo al Théâtre de l’Odéon. Non senza una certa civetteria, mi divertivo sempre di più a considerare questo episodio come un affare di quartiere...
Mentre Costa-Gavras mi faceva segno dall’esterno della vetrata del café, mi tornò alla mente la vecchia parola avli, il paté fatto in casa. Da tempo dimenticata, difficile da trovare nei dizionari odierni, sembrava di origine turca o greca, più precisamente una di quelle parole che dopo aver circolato ovunque nei Balcani avevano perso traccia della loro origine.
Costa-Gavras, che aveva appena preso posto al mio tavolo, era dello stesso avviso; aggiunse che si tratta di vocaboli che crediamo di conoscere anche quando li sentiamo per la prima volta.
Abitava proprio vicino, in rue Saint-Jacques, quindi lo si poteva considerare dell’avli, ma non è questa la ragione per cui ci intendevamo su tutto. Ci eravamo conosciuti prima della caduta del comunismo, quando la Grecia era membro della NATO e l’Albania il suo nemico numero uno. Ma questo non ha mai interferito con la nostra amicizia. Più tardi, quando l’Albania è entrata a sua volta nella NATO ed era anche più zelante della Grecia, come accade ai novizi, il nostro rapporto è rimasto quello di sempre.
Una volta mi disse che voleva fare un film tratto dal mio romanzo su Doruntina, la ragazza data in sposa in un luogo lontano, che il fratello all’improvviso andava a prendere per riportarla a casa.
Per un po’ sembrò che l’intesa tra noi dipendesse dall’elaborazione del film, ma la constatazione che il soggetto non rientrava abbastanza bene nel suo universo cinematografico non modificò nulla dell’armonia presente nel nostro rapporto, e senza timore potevamo dire che con o senza film la nostra amicizia, ancora una volta, era rimasta la stessa.
Di che cosa potevano discutere due fuoriusciti dei Balcani in un café parigino?
Se non a parole, la curiosità si manifestava negli sguardi, e al tempo stesso in tantissime domande, per la maggior parte immaginarie. E altrettanto le risposte, ben inteso. Grecia-Albania: non avevano ragione di pensare che la parola da accompagnare a questo binomio avrebbe dovuto essere “guerra”? Sarebbe stata più o meno questa la mia risposta. Quella di Costa-Gavras sarebbe stata senza dubbio la stessa.
Dunque: Albania-Grecia-Guerra... Poco probabile vedere queste tre parole scritte su un qualunque cartello. Come quelli, supponiamo, che vediamo al confine.
Oh no, no! Da nessuna parte. Non c’era nemmeno bisogno di scriverlo. Lo sapevano tutti.
Voi siete vicini da secoli, o no? Da quanto tempo? Mille anni forse?
Più o meno.
Mille anni di vicinato... Chissà quante guerre vi siete fatti. Cento? Duecento?
No, no! Ci saremmo da tempo estinti.
Allora dieci, venti. Non ditemi che ne avete fatte di meno.
Mmh...
Saranno mica solo tre-quattro? Meno ancora? Una sola non ci credo!
Proprio così... Addirittura, a dire il vero... neanche quella è stata una vera guerra...
Allora, in questi mille anni, mentre il mondo intero, e prima ancora l’Europa, si è dilaniato facendo guerre a ripetizione, voi altri dei Balcani, i saggi della terra, non avreste visto che mezzo conflitto, come se non aveste nulla a che fare con una penisola bellicosa e malfamata, ma con l’Académie des sciences morales et politiques?
Una spiegazione, per quanto ardua, si rendeva necessaria.
Quella che sarebbe stata definita, per scherzo, una “mezza guerra”, non era affatto cominciata così. Come molti conflitti, era iniziata in modo solenne, con due decreti siglati dai due monarchi nemici, per continuare con bombardamenti, violazioni dei confini, urla di morte in tre lingue, per terminare con la firma di un trattato di pace.
In realtà era stata proprio la pace, conclusa a mezza voce, e dunque monca, in questo dissimile da ogni altra forma di pace, a trasmettere la propria menomazione alla guerra stessa.
A questo punto la spiegazione, anche se ci fosse parsa interminabile, doveva riprendere dall’inizio. A cominciare dai due belligeranti.
Se l’abbreviazione “Albania-Grecia-Guerra” occupava le menti da anni, bisogna precisare che un terzo stato si era intromesso nella storia: l’Italia. Dunque, il quadro esatto dovrebbe essere: l’Italia e l’Albania dichiarano un’offensiva congiunta contro la Grecia.
La ragione del cambiamento era semplice. Da un anno, dall’aprile del 1939, Albania e Italia erano un unico stato. I due paesi avevano ormai un unico re, Vittorio Emanuele, due capitali, Roma e Tirana, un mare comune, l’Adriatico, due lingue, l’italiano e l’albanese, un sommo poeta, Dante Alighieri, e così via. Al rituale mancava solo una guerra. Questa offensiva contro la Grecia, rinviata da un millennio, ardentemente attesa, inevitabile e fondatrice, venne finalmente dichiarata! Avrebbe dovuto essere festeggiata quanto l’arrivo di un nuovo nato i cui genitori non osavano più sperare, ma ahimè! arrivava al momento sbagliato: l’Europa aveva visto così tante volte il fumo di guerre importanti che quella guerricciola non diede nell’occhio quanto avrebbe dovuto. E ancor meno diede nell’occhio la sua fine, e la pace che le succedette.
Se quella guerra era sembrata strana, la pace lo fu ancora di più. Una pace senza pari sulla faccia del globo: non riguardava tutta la guerra, ma solo una metà. In altre parole, non si trattava di una pace tra la Grecia da un lato, e l’Albania e l’Italia dall’altro, come sarebbe stato logico. Quella pace implicava solo l’Italia, e non l’Albania.
Quelli che ne sentivano parlare non credevano alle loro orecchie. Sembrava un malinteso, o una nuova follia balcanica, finché a qualcuno non fu rivelato il senso nascosto: non era così facile staccarsi da una guerra che si era fatta attendere per un millennio.
E così accadde l’incredibile: la seconda guerra mondiale era finta da tempo, il secolo aveva ampiamente superato la metà, il millennio stesso si avvicinava alla fine, senza che la guerra greco-albanese desse segni di pacificazione. Solo la sua denominazione aveva subito una variante. Al vecchio quadro ne era stato sostituito un altro: Grecia-Albania-stato di guerra... Assurdo, no? Unico caso nella storia dell’umanità da Omero, passando per gli ittiti e gli assiri... Senza dubbio, in quanto artisti provenienti dai due paesi, trovandovi qui nel cuore di Parigi, vi sarete arrovellati ben bene su questo nonsense, questa follia greco-albanese.
Cosa rispondere? Dire che né noi, né gli altri ci pensavamo più? Che, in fin dei conti, ci eravamo abituati da secoli a quello stato di cose? E che a quel punto avevamo tutt’altro a cui pensare...? Più precisamente a quel lontano viaggio compiuto da un fratello per riportare sua sorella andata in sposa lontano...
La ballata era stata cantata dai greci come dagli albanesi, ciascuno nella sua lingua. Cambiava solo il nome della sposa: per gli albanesi si chiamava Doruntina, per i greci Areti.
Costa-Gavras ricordava che sua madre gliela cantava come ninnananna per farlo addormentare. Di certo questa era stata la motivazione principale per farne un lungometraggio.
La ballata faceva rabbrividire, ma di un brivido diverso da quelli che ci fa provare il mondo. Era forse per il fatto che al centro aveva qualcosa di impossibile. Avevamo tentato di articolarlo, ma non ci eravamo riusciti. Si raccontava che Goethe non avesse potuto chiudere occhio la notte che Karaxhiq gliel’aveva raccontata.
La ballata racconta di qualcuno o qualcosa che è rimasto lontano. Una ragazza andata in sposa, per esempio, ma anche una città irraggiungibile. Mosca. Parigi. C’è una promessa che va mantenuta. Ma ci sono altri ostacoli, cose impossibili: la strada che si interrompe all’improvviso, il cavallo o l’aereo che si fermano, il viaggiatore stesso, autore della promessa, che non si preoccupa di quel che può succedere. La ballata insiste sul fatto che sta proprio in lui, nel cavaliere o viaggiatore, l’ostacolo. Lui è morto.
Costa-Gavras ascoltava, pensieroso. Se Goethe aveva passato una notte in bianco per la storia di Doruntina, a lui non ne sarebbero bastate altre cento per fare un film.
Mi ripromisi che un giorno gli avrei raccontato tutto il mio primo viaggio a Parigi, quello dell’invito inesistente. Mettendole vicine, non si poteva non pensare al cavallo che avrebbe dovuto portarmi in città. E se, sempre secondo la ballata, almeno uno dei due, il cavaliere o il cavallo, ovverosia io o l’invito, non avrebbe dovuto essere di questo mondo, visto che io in boulevard Saint-Germain 79 ero arrivato sano e salvo, era sicuramente l’invito a venire dall’oltretomba.
Contrariamente a quanto avevo pensato, adesso che eravamo vicini, Colette D. veniva raramente a trovarmi al Rostand. Diceva di non volermi disturbare, che doveva essere vero, anche se ero ben consapevole che una bella donna poteva avere diverse ragioni per non frequentare un café a due passi da casa sua.
Ti disturbo? diceva, secondo una sua abitudine, prima di sedersi.
Come sempre, nel suo sguardo scintillava un’essenza che, a chiunque non avesse saputo interpretarla, poteva sembrare una sorta di “bellezza del sussiego”, ma tangibile, come solidificata.
Due o tre volte le dissi che non mi disturbava affatto, cosa che era vera, dato che era quasi mezzogiorno, ora in cui di solito interrompevo il lavoro, ma lei insistette nel dubbio, obbligandomi a risponderle una quarta volta, cosa che feci senza nasconderle una certa irritazione.
Evidentemente la cosa le fece un certo effetto, perché, dopo un attimo di silenzio, contrariamente alla sua abitudine, mi chiese con una certa disinvoltura: Quando sarà la tua cerimonia?
Feci spallucce per dire che non ne sapevo nulla, poi aggiunsi: Cosa vuoi dire con “la tua cerimonia”? Prima di essere mia, è della Francia, e quindi la “vostra”.
In effetti, nulla venne formulato così, ma in modo totalmente diverso. E precisamente:
Dopo il mio quarto “no”, con la prudenza di un’infermiera che toglie una medicazione, mi chiese notizie della mia nomina all’Académie.
Feci spallucce per dire che non ne sapevo nulla, che era vero, prima di cambiare argomento.
Dopo aver parlato entrambi del più e del meno, senza darlo a vedere lei riportò la conversazione sulla cerimonia, al che io ribadii che non ne sapevo nulla, ma questa volta ebbi l’impressione che fosse lei a sapere qualcosa.
La domanda, che mi aspettavo, mi sembrò ancora più sorprendente di quanto non avessi creduto: Come sei messo con il tuo paese?
I nostri sguardi si incrociarono per un attimo.
Non lo so, risposi. Sinceramente, non lo so. Poi aggiunsi: e non voglio saperlo.
Male, quindi, disse lei. (L’infermiera, l’ultima benda, la più dolorosa ecc.) Male come una volta?
Sembrerebbe.
Come una volta... Colette D. sapeva tutto del comunismo albanese, da quando gliel’avevo descritto in lungo e in largo molto prima della caduta.
Non le chiesi perché mi aveva fatto la domanda, sicuro che me l’avrebbe detto lei. E così accadde: La cerimonia è rinviata, l’Albania la ostacola... per non dire la blocca...
Si fece di nuovo silenzio, dopo di che aggiunse: Perché non mi chiedi come lo so?
Aveva ragione, dovevo chiederle come l’aveva saputo, altrimenti avrebbe avuto ragione di pensare che ero un paranoico dei paesi dell’Est e vedevo spie ovunque.
Alla mia domanda si lanciò in un monologo piuttosto confuso su argomenti di cui avevamo già parlato, come il fatto che niente era più come prima, che l’Albania ormai si considerava un paese democratico, e che quindi tutto questo non aveva senso... L’Académie aveva soltanto dodici membri stranieri dai quattro angoli del mondo, uno era il re di Spagna, quanto a me, prendevo il posto di Karl Popper, appena passato a miglior vita. L’Albania prendeva quindi il posto della Germania, non era una cosa da poco... Allora qual era il motivo per cui il presidente albanese non rispondeva all’invito? Un protocollo secolare voleva che il sovrano o il presidente del nuovo stato rappresentato nell’Académie assistesse alla nomina del suo concittadino... Che il tuo presidente abbia immaginato di mettere in dubbio la tua ammissione con la sua assenza? Oppure di poter intervenire presso lo stato francese per far sì che la cerimonia non si tenga? Lo sa, il tuo presidente, che in questi casi l’Académie è più forte dello stato francese?
Alla fine, mi chiese ancora, in un tono che questa volta aveva l’aria di un rimprovero, perché non la interrogavo sulle sue fonti riguardo a tutto questo...
Avevo così tanto atteso questa domanda che, mio malgrado, avevo elaborando una di quelle risposte tanto galanti quanto contorte, secondo la quale le donne sanno sempre molto più degli uomini, e in Francia ancor più che altrove, e questo era il suo lavoro e io non intendevo addentrarmi nel suo giardino segreto...
Lei mi rispose con lo stesso tono, senza nascondere la sua sorpresa per la mia rinnovata discrezione, per poi aggiungere che, stranamente, questa volta ci avevo preso: era proprio perché era una donna, se era al corrente di quel che tutti ancora ignoravano.
Ciò che appresi subito dopo mi lasciò a bocca aperta: il suo fidanzato segreto, quello che nominava di continuo (Henri mi ha mandato i fiori per il compleanno, sono andata con Henri a fare un giro in Bretagna ecc.), non era altro che uno degli alti dignitari dell’Académie!
Io avrei voluto precisare che quel nome di battesimo era esattamente lo stesso del vicepresidente, che peraltro conoscevo, ma era una di quelle coincidenze troppo banali da poter essere dette a voce alta.
La conversazione portò di nuovo sulla sventatezza dell’Albania, finché non mi fece la domanda: Perché non ti vogliono?; al che risposi: Non lo so. Alla domanda successiva, su quale schieramento politico mi fosse più ostile, se la destra o la sinistra, felice di poter finalmente pronunciare qualcosa di diverso da “non lo so” (avevo l’impressione di non aver mai detto tante volte queste tristi parole in un lasso di tempo così breve), risposi: Tutti e due”
Strano, fece lei. Poi aggiunse che la cerimonia si sarebbe tenuta in ogni caso, e che così sarebbe stata senza dubbio più intrigante.
Cosa intendeva per “intrigante”?
Intrigante: che ispirava ancora più curiosità su di te, sulla tua immagine. Uno scrittore poco amato dal suo paese, o che ha rapporti complicati con il suo paese, ha sempre del fascino in più... Almeno era stato così fino a poco fa, o no?
Le ripetei che non sapevo cosa dire, e poi le chiesi se questo significava che la faccenda avrebbe potuto dare l’idea di una situazione di gelo con l’Albania.
Lei tornò silenziosa e io a quel punto mi resi conto all’improvviso che il colore particolare dei suoi occhi era stato creato come in un disegno per momenti come quello.
Certo che poteva essere interpretato così. È inevitabile... Vedo che ti dispiace.
Non fu facile spiegare che l’Albania era ancora troppo fragile, che ancora non aveva le spalle abbastanza larghe. Almeno io non volevo renderla ancora più fragile.
Capisco, disse lei. Ti capisco perfettamente. Puoi parlarne con Henri. Dipende tutto da lui.
Henri... vuoi dire il vicepresidente? Ma...
Proprio lui, disse lei con un sorriso colpevole. Perdonami se non te l’ho detto fin dal principio. È proprio lui. Il mio Henri.
A fatica mi ripresi dalla sorpresa. Non osai comunque fare altre domande.
Ti sembra che non sia abbastanza giovane per il ruolo di “fidanzato”?
Mentre rimandavo giù un ultimo “non lo so”, mi spiegò che aveva diciassette anni quando aveva conosciuto il giornalista, e da allora, da allora... Sembrava una storia russa alla Eugenio Onegin.
Dopo due giorni, incontrai Henri (più precisamente, tutti e due gli Henri: quello dell’Académie e il suo) e concordammo una soluzione intermedia: la Francia avrebbe finto di non notare il capriccio, per non dire il passo falso, albanese, e tutto si sarebbe svolto come se nulla fosse accaduto.
Come se nulla fosse accaduto, ripeté Henri. A proposito: l’inno albanese non si canterà. Peccato, aggiunse: mi era sembrato così bello quando l’avevo sentito.
Cath J. compariva ogni tanto dietro la vetrata con lo stesso modo distinto di camminare e con il viso sorridente che accompagnava un gesto della mano come per dire: Lo so che stai lavorando, ripasso più tardi.
Cath era la prima parigina con cui avevo avuto occasione di fare amicizia. L’avevo incontrata durante la febbrile preparazione del film Il generale dell’armata morta. Era stato Marco Bellocchio a presentarmela in un café, il Mac Mahon, di fronte all’abitazione di Michel Piccoli, che stavamo aspettando. Cath aveva ventitré anni e sperava di ottenere un ruolo di secondo piano nel film. Aveva già recitato in due o tre film per la televisione, ma, come mi disse lei stessa, non era andata tanto bene. Mi confidò che amava molto la letteratura russa e sapeva che ero stato studente a Mosca. Ascoltandola parlare, intuii che non avrebbe avuto nessun ruolo, neanche di secondo piano. Era troppo sorridente per un film così cupo.
Benché sia poi andata proprio così, la cosa non mi impedì di rivederla una volta tornato a Parigi. Le riprese intanto erano iniziate, ma nella fisionomia di Cath nulla era cambiato. Piena di brio, mi invitò presto nel suo alloggio, in rue du Cardinal Lemoine, dove il sabato si sarebbero trovati, come d’abitudine, alcuni suoi amici. Dalla mia esperienza moscovita sapevo che in questi casi, tra le due situazioni che potevano presentarsi, l’imbarazzo di sentirmi un estraneo, messo all’angolo, oppure, invece, l’essere fagocitato dalla moltiplicazione delle cure dell’ospite, elargite per riempire il vuoto intorno a me, la seconda avrebbe avuto il sopravvento.
Cath sembrava nata per quel tipo di atteggiamento. Dopo aver approfondito la mia conoscenza, avrebbe saputo qualcosa in più dell’universo incognito da cui ero sbarcato, e la sua benevolenza di sorellina preoccupata si rese evidente a partire da questa prima serata.
Sarebbe andata così in ciascuno dei miei soggiorni parigini, da solo o con Helena, che le presentai. L’amicizia continuò anche dopo il mio trasferimento a Parigi, dopo la caduta del comunismo. In boulevard Saint-Michel 63, si sarebbe talvolta unita al pranzo domenicale con le nostre figlie.
La novità era sempre all’opera nella sua vita: due o tre nuovi film e altrettanti ruoli a teatro. Avevo notato che in lei l’aleatorio si intrecciava con il permanente: l’atteggiamento di sorellina. Sarebbe rimasta uguale, senza mai essere la stessa. Una volta rimasi di sasso, quando mi disse che si era messa a dipingere, ma la sorpresa più grande me la diede quando, dal fondo della sua borsa da parigina, tra profumo, rossetto e altre cianfrusaglie, la vidi tirar fuori una cosa che ai miei occhi era in totale contraddizione con la sua personalità: il suo primo romanzo...
Lo so che non mi prendi sul serio, mi disse quando mi portò la sua terza opera; nel frattempo, era diventata una vera scrittrice e, nel suo breve CV, la dicitura “romanziera” veniva prima di quella di “attrice”.
Sentivo che non mi biasimava per il mio scetticismo, consapevole di esser diventata una romanziera ai miei occhi come per gioco, come la vicina di quartiere che hai visto crescere e che, all’improvviso, vince un concorso di bellezza, ma non per questo per te diventa un’altra da quella che hai sempre conosciuto.
A quanto pare, contro ogni logica, di tutte le sue sfaccettature, attrice, scrittrice, pittrice, nella mia testa ne restava una i cui contorni non sarebbero mai rimasti indefiniti: sorella.
Una delle mie lettere a Helena, inclusa nelle sue Memorie, faceva emergere questo tratto della sua personalità. Datata 1989, in alto a sinistra aveva la dicitura: “ultima lettera da Parigi”. Ecco il testo:
A Parigi fa ancora bel tempo. Gli amici ci sono tutti, fedeli, affettuosi e matti come sempre. Bosquet, dopo lo scandalo, è partito per Praga. C’è anche Michel. Sciocchezze e asinerie piovono da ogni parte. È un battibecco continuo. Figurati che la giovane D. di Fayard, una tappetta, si è messa a discutere per telefono con il primo ministro lussemburghese per la storia del mio visto.
In tv continua il folle dibattito per sapere se è giusto o no permettere alle ragazze musulmane di andare a scuola con il velo! Cath mi ha detto di temere che il suo fidanzato la uccida. (Ho notato che a Parigi in questo momento è un’epidemia: sono già in tre o quattro ad avermi detto che hanno paura di essere fatti fuori dal tale amico o amica, per un motivo o per l’altro.)
Che altro dirti? Tra un’ora parto per il Lussemburgo, dove sarò accolto in pompa magna. (Credo che il proprietario della libreria dove si vendono le copie autografate sia proprio il vicepremier, che non è molto ben visto dal granduca, ma immagino voglia giustamente approfittare della mia visita per dimostrargli che gli intellettuali lo apprezzano ecc.)
Quando Helena sfogliava queste vecchie lettere e gli appunti per arricchire il suo libro, mi succedeva di buttare di tanto in tanto un’occhiata, cercando di ricordare cosa poteva nascondersi dietro il loro aspetto strampalato e l’impressione di saltare di palo in frasca. Stranamente, benché fossi l’autore, non ricordavo nulla di specifico. Senza sapere come, mi sembrava che a quell’epoca, appena mi mettevo a scrivere, fossi vinto da un umore particolare, che si sarebbe potuto dire sarcastico, irriverente o addirittura sconsiderato. Si trattava come di una sorda esasperazione, un succeda quel che succeda immotivato, una corazza difensiva dissimulata da una sorta di sdoppiamento.
Certamente questa era una spiegazione plausibile. Doveva essere il risultato dell’intreccio poco naturale di due vite (due mondi, come si diceva allora) in me contrapposte, perlomeno durante quello strano periodo.
Cath si era trovata per caso nel bel mezzo di quella confusione. Forse viste dall’esterno le cose erano più chiare. Poiché per lei ero “l’uomo che veniva dal terrore” (formula che proferiva in modo così allegro che sembrava si trattasse di Disneyland), l’annebbiamento era tanto inevitabile quanto difficile da dissipare.
L’inadattabilità, nel mio caso, era senza dubbio normale. Rimuovendo tutto un aspetto di Parigi, quei fantasmi avevano forse un significato. I due universi erano così inconciliabili che, al momento della collisione, interi pezzi di entrambi finivano annientati. Detto altrimenti, cessavano di esistere per me. Cath non faceva eccezione: per questo, quando d’improvviso la vedevo profilarsi dietro la vetrata del café, era come se suscitasse in me la sorpresa che si prova all’apparizione di un fantasma.
Avevo l’impressione che Patrick Modiano, uno dei jardinien du Luxembourg (la parola l’avevo chiaramente inventata io per lui), non superasse mai l’inferriata per andare sul marciapiede davanti.
Abitava dalla parte opposta del parco, forse in rue de Fleurus, al cui numero 27, un tempo, Gertrude Stein aveva riunito giovani scrittori americani, e dove un giorno lanciò loro la celebre frase: “Siete una generazione perduta!”
Modiano passeggiava quasi ogni giorno nel primo pomeriggio, più o meno come me. Da lontano era facilmente riconoscibile, con tutto quel che la gente sapeva di lui: dopo che Julien Gracq e Claude Simon si furono ritirati dalla scena, Modiano e Le Clézio, come in un rituale ben rodato, avevano già messo in piedi il loro duo. Era in tutto simile ai precedenti: André Maurois-François Mauriac, Evtušenko-Voznesenskij per il mondo sovietico, o, nel caso delle capitali, Budapest-Bucarest, che per la gente d’oltreatlantico sovente erano la stessa città.
Questa propensione a finire in un duo era abbastanza facile da riconoscere, più difficile da capire. Alcuni scrittori sembravano fatti a tavolino per essere complementari, altri invece per essere antitetici. Camus-Sartre, per esempio, erano un duo antitetico, proprio come quello, più raro, benché più facile da incontrare nella vita, della coppia uomo-donna (Sartre-Beauvoir). Le congeneri di quest’ultima, le donne di lettere, eccezion fatta per Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, in genere sembravano difficili da appaiare.
Il duo Modiano-Le Clézio sembrava il più riuscito di tutti, fino al giorno in cui il premio Nobel del secondo non pose fine al loro equilibrio. Non ricordo se per aver reso più frequenti, o al contrario più rare, le passeggiate di Modiano nel parco.
Ci incrociavamo spesso, e senza fingere di non riconoscerci, ma la sua nota difficoltà a comunicare, quanto alla quale, peraltro, non ero da meno, non ci aveva ancora permesso di arrivare a salutarci. (Nel frattempo, a Tirana, tra le nuove abitudini postcomuniste, lo scatto d’ira provocato da uno sguardo, seguito dalla frase: “Che hai da guardare?”, che poi veniva riportato nelle pagine di cronaca nera come inizio di una lite degenerata in omicidio, era ormai all’ordine del giorno.) Secondo i nuovi usi di Tirana, Modiano e io, dopo un “Che hai da guardare?”, saremmo dovuti venire alle mani più di una volta prima del giorno in cui, fermandoci quasi simultaneamente sui nostri passi, ci chiamammo con i nostri nomi, senza dissimulare il piacere inatteso che ci procurava il superamento di quell’ostacolo.
Io gli dissi che ogni giorno prendevo il caffè al Rostand e lui, o per compiacenza, o perché effettivamente gli era stato detto, mi rispose: Lo so.
Restammo dunque d’accordo di rivederci al Rostand. Tuttavia, passarono due anni, e benché i nostri scambi si fossero ripetuti diverse altre volte, il caffè insieme non era ancora stato preso, finché non mi tornò in mente il fatidico limite: il marciapiede che non superava mai.
Un giorno lo incontrai nel parco in compagnia della moglie, e quest’ultima mi ripeté punto per punto la vicenda del caffè, esattamente come gliel’aveva raccontata lui, che l’ascoltava con aria divertita. In quella circostanza, il futuro incontro prese tutt’un’altra dimensione, poiché improvvisamente presupponeva anche la presenza di Helena, e, dopo esserci scambiati i numeri di telefono, gli indicai il numero 63, dicendo loro che saremmo stati ben lieti di riceverli.
Non era passato ancora un anno quando, con il sorriso radioso che solitamente accompagna una nuova scoperta, mi disse di aver notato che davanti al nostro portone c’era un’edicola. Questo lasciava supporre che, benché con cautela e circospezione, la storia faceva il suo corso e procedeva nel verso giusto, in vista di una prossima visita. Restava solo il problema di fargli avere il codice d’ingresso del portone, cosa che avvenne ancora un anno più tardi.
Avrebbe potuto essere la volta buona, se non fosse stato per un evento inatteso: il suo nome era apparso d’un tratto tra i candidati al premio Nobel. Appena l’ebbi letto sul giornale, il mio primo pensiero fu di alzarmi e andare al parco per incontrarlo. Più che un desiderio, era quasi un obbligo. Sulla lista figuravamo entrambi, e non succede tutti i giorni che due jardinien du Luxembourg ne facessero parte insieme. Inoltre, e questa era la cosa più importante, mentre io in quella situazione mi trovavo forse per la trentesima volta, per lui era la prima, e quindi, dato che il novizio era lui, toccava a me congratularmi per primo. Anche qualcosa di semplice, tipo: non bisogna prendersela a male nel caso... nel caso in cui...
A questo pensavo quando realizzai che stavo per iniziare il secondo giro del parco senza averlo visto da nessuna parte. Durante la passeggiata successiva, dentro di me, l’incertezza di non sapere se avesse avuto la notizia oppure no si mescolò subito alla sensazione che fosse sparito in quel modo, proprio perché ne era al corrente. Tutta Parigi ricordava ancora il “Che catastrofe!” di Samuel Beckett, quando al telefono gli dissero che aveva ricevuto il premio. Da parte di Modiano, ci si poteva aspettare solo una reazione dello stesso calibro.1
E infatti era accaduto più o meno questo. Dalla comparsa del suo nome sulla lista, al parco non si fece vedere, non solo fino al giovedì dell’annuncio, ma anche nei due mesi successivi, come se aspettasse che cadessero anche le ultime foglie, testimoni che ormai preferiva evitare.
Si poteva ragionevolmente supporre che ci sarebbero voluti altri due anni buoni, senza contare tutto quello che poteva succedere nel frattempo, prima che ci incontrassimo di nuovo.
Considerando le circostanze a freddo, le possibili sorprese, il progresso lento ma sicuro delle diverse fasi, la comunicazione del nuovo codice d’ingresso, per non parlare di altri dettagli, difficilmente potevo immaginare che ci saremmo ritrovati prima del 2016. Volendo esser sicuri, e usando una scala decennale, forse si poteva puntare al 2026, quando io avrò compiuto novant’anni e lui qualcuno di meno.
Per essere assolutamente certi, bisognava fare assegnamento sul 2036! In compenso, non potremmo fare al Rostand, né in boulevard Saint-Michel 63, ma in un luogo dove poco importa se i differimenti sono contati in anni o in secoli.
Sarebbe il momento perfetto, laggiù, per riportare serenamente alla memoria il bistrot in cui non ci è stato dato di prendere il nostro famoso caffè, davanti a quel parco dal nome improbabile, tra lusso e burgo2, una sorta di burgo di lusso, insomma, costeggiato da un boulevard che, ormai, avrà certamente un altro nome, come quella lista, ti ricordi? dove figuravamo entrambi, una sorta di corsa non di cavalli, ma di tutt’altro tipo, e una volta su quella lista c’era stata addirittura una donna russa di nome Bella Achmadulina, della quale avrei voluto raccontarti un aneddoto, ma non potevo farlo, perché giù sulla terra a fare da ostacolo c’era qualcosa che, in albanese, si dice turp3 – ti ricordi per caso come si diceva in francese? No, non tormentarti, non ti verrà in mente, è troppo strana da ricordare ormai, nessuno qui sa cosa sia... E quindi, questa Bella Achmadulina, comparsa anche lei sulla lista, un tempo era iscritta all’Istituto Gor’kij, dove ero studente anch’io, e, come tutte le ragazze, alloggiava al secondo piano, ma le docce comuni erano al piano interrato, e i ragazzi avevano fatto un buco nella paratia che separava la doccia delle ragazze da quella dei ragazzi, immagini bene perché, e Bella, otre che bella, cominciava a essere riconosciuta come poetessa, il che non faceva che accrescere la curiosità nei suoi confronti... Così, quando vidi il suo nome sulla lista, per poco non gridai: Ah, ma è la famosa Bella! Aggiungendo alcune parole che, là sotto, risulterebbero sconvenientissime... Ma quella città, si chiamerà ancora Parigi?
Come ogni café degno di questo nome, il Rostand aveva le sue tradizioni. A partire dall’orario: era aperto tutti i giorni dell’anno senza eccezione. Cliente assiduo per vent’anni, non sono mai riuscito a sapere l’orario di apertura, perché non capitava mai di trovare la porta chiusa. O di assistere alla chiusura.
Diversamente dai suoi congeneri, il Rostand era difficile da categorizzare nel campo dei liberali o dei conservatori. Per esempio, mentre al Flore i cellulari erano vietati, proprio come a teatro, al Rostand non solo non ci si poneva il problema, ma persino i cani erano ammessi. (Non si poteva scartare l’ipotesi che questo fosse un residuo dell’“ultima guerra”, l’epoca in cui i cani erano stati determinanti per sventare le persecuzioni contro gli intellos.)
Per quanto riguarda gli altri animali, le cronache non erano del tutto chiare. Ci si ricordava vagamente di due aggeggi metallici simili a gabbie che, malgrado l’insistenza dei proprietari, non erano stati ammessi, uno perché conteneva un pappagallo che avrebbe potuto mettersi surrettiziamente a falsificare le voci dei clienti, l’altro perché si sospettava ospitasse un serpente.
Come la maggior parte degli altri café, il Rostand doveva avere le sue zone d’ombra, fatte di legami segreti intessuti tra lui e i suoi clienti, che non potrebbero mai esser portate alla luce del sole. Da lì passava tanta gente, con pensieri tanto diversi, e in uno spazio così stretto non si poteva evitare di scambiarli, in un modo o nell’altro. Era impossibile misurare tutto ciò che loro davano al café, e meno ancora ciò che ricevevano in cambio.
Poco più in là cominciava una zona ancora più segreta, simile in questo al mistero delle lingue di cui si fa fatica a capire quali metamorfosi attraversano nella gestazione e poi con la nascita di una poetica felice. Non diventano ancora più belle quando, stanche ed emozionate, hanno gli occhi che brillano di lacrime?
Le reminiscenze di un tempo si facevano sempre più rare, e ancor più quelle degli inizi, come il non-invito. Quest’ultima a volte riappariva con una sorta di sorriso triste, come la vecchia donna di mondo che un giorno lontano ti ha insegnato i gesti dell’amore. Non hai più bisogno di me, magari ti vergogni persino di me, ma non dimenticare che io ti ho trovato quando nessuno ti conosceva.
Un’altra volta, toccò a Parigi, la Ville Lumière, di apparirmi come fidanzata, da lontano, in modo leggermente distaccato, per così dire all’insaputa della Francia...
1 Nell’ottobre del 2014, quando questo libro si trovava in stampa, Patrick Modiano ha vinto il premio Nobel. (N.d.A.)
2 Burg in albanese significa “carcere”.
3 Vergogna.

Giornate al caffè

Mi ero reso conto che, con il passare del tempo, il fatto di scrivere in un caffè, attività che a Parigi passava inosservata, stava diventando abituale anche a Tirana, dove tornavo spesso.
Tuttavia, a Tirana, a parte qualche rara eccezione, nessuno si sarebbe sognato di aprire ancora il quaderno in un caffè. A prima vista poteva sembrare che la ragione fosse la paura di commenti del tipo: Eh, lo fa per vantarsi, si dà delle arie da francese, o peggio, come il mio amico Dh. Xh., che, sotto lo sguardo pesante di due avventori seduti al tavolo accanto, ogni volta che cancellava una parola li sentiva bisbigliare: Vedi, te l’avevo detto che non sapeva scrivere.
Ma, probabilmente, la verità stava altrove. Dopo la caduta del comunismo, il rapporto tra gli abitanti della capitale e i caffè era profondamente mutato. Non soltanto questi ultimi erano esplosi in numero, ma erano ormai il luogo abituale in cui si lavorava, ci si osservava, si litigava, e, a voler credere alla stampa locale, si compivano gli omicidi più spettacolari.
In un contesto simile, scrivere al caffè, prima ancora di risultare sconveniente, era diventato più che altro banale.
Benché fossi consapevole di tutto ciò, avevo la sensazione, o meglio volevo credere, che a questo paradosso mi legasse qualcosa di più profondo, e se possibile più nobile ed elevato.
Un libro arrivato per posta da lontano sembrava confermare la fondatezza delle mie impressioni.
I pacchi con una pubblicazione straniera suscitavano sempre una certa curiosità: di che opera si trattava, da dove era stata spedita, come era stato tradotto il titolo? Il pacco di quel mattino, per quanto di modeste dimensioni, aveva un peso notevole, al punto che il fattorino, porgendomelo, mi disse: Attento che pesa!
Era proprio così, come se il libro – book, come era scritto sul pacco – fosse di ferro.
Aprendolo, dovetti constatare che era anche peggio: era di piombo.
L’espressione “pesante come il piombo” mi passò per la mente insieme al titolo inglese: Coffeehouse Days.
Tempo addietro un editore americano mi aveva annunciato che stava preparando un’edizione speciale di Giornate al caffè destinata ai collezionisti. Era stato concordato che il prezzo elevatissimo, di quasi mille dollari, sarebbe stato giustificato, oltre che con la stampa su carta pregiata e l’impressionante copertina in piombo, dall’autografo apposto a mano dall’autore su ogni copia.
Non avevo mai capito la vera ragione per cui era stato scelto proprio quello scritto per una pubblicazione simile. Forse perché nel 2004 era il solo a non essere ancora stato tradotto. L’editore americano Reinmarker aveva trovato lui stesso un traduttore dall’albanese, e subito, in questo modo, aveva risolto la complessa questione dei diritti d’autore. Come al solito, a parte gli autografi, non avevo avuto modo di occuparmi di niente. Nella memoria mi era rimasto solo il sollievo provato alla firma dell’ultima copia.
Ed ecco che, molto tempo dopo, una mattina d’inverno a Parigi, come se una forza superiore mi rimproverasse di quel sospiro di sollievo, mi era tornato in mente il peso esercitato, per quarant’anni, da quello stesso racconto.
La vicenda era successa nel 1963. Il testo, di quasi quaranta pagine, con l’insolito titolo Giornate al caffè, dopo essere stato pubblicato per due sabati di seguito sul quotidiano “La voce della gioventù”, era stato di colpo censurato.
Al Caffè Tirana, dove avevamo l’abitudine di incontrarci, la faccia di Todi Lubonja, segretario generale della Gioventù, da cui dipendeva il giornale, si era fatta scura scura.
L’han-no cen-su-ra-to, ripeteva scandendo le sillabe, come per farsi capire da un interlocutore duro d’orecchie.
L’hanno censurato, ripeté il suo vice, mentre tutti e due mi guardavano con quell’aria di chi se ne intende e deve far capire a un ingenuo che ha fatto un errore grossolano ma non si rende ancora conto delle conseguenze.
Era la prima volta che cadevo sotto i colpi della censura, ma la cosa non mi impediva affatto di coglierne l’enorme portata. Avevo persino l’impressione di essermelo aspettato. È vero che loro lavoravano in un ufficio pieno di segreti, ma per quanto riguarda i divieti di pubblicazione io la sapevo più lunga. Durante i giorni moscoviti, e le notti, le conversazioni sulle censure – in particolare sulla primissima, quella successiva al primo permesso di pubblicazione, poi di nuovo concesso e poi di nuovo levato, e così via all’infinito – erano moneta corrente. Davo per scontato che il male un giorno mi avrebbe raggiunto, e, infatti, mi era appena piombato addosso.
Ehi, fece Todi, dopo un momento di silenzio. Il vice ripeté lo stesso “ehi”, solo un pelo più marcato. Era cosa nota che fossero entrambi responsabili degli errori del giornale, e quel loro “ehi” poteva voler dire: che cosa ci hai combinato? – oppure, semplicemente: beato te che ancora non capisci in che guaio ti sei messo.
Censurato. Esordiente... Così giovane, e già con un racconto censurato, sembrava dire il loro sguardo.
Se non avessero fatto delle facce così cupe, mi sarei messo a ridere.
Erano loro, gli ingenui. Se avessero conosciuto i segreti della scrittura... Se avessero saputo da cosa era stato estratto quel piccolo mostro... Non erano che poche paginette, un solo arto di un dinosauro che ne contava centoquaranta, ed era bastato a mettere sottosopra gli uffici. Cosa sarebbe successo se l’avessero visto uscire tutto intero?
Se almeno avessimo evitato ’sto maledetto titolo! esclamò Todi.
Aveva letto il testo due volte e non riusciva ancora ad abituarsi al titolo. Il vice che, invece, l’aveva letto quattro volte, fece la stessa osservazione.
A quanto avevo capito, la notizia della censura era stata comunicata per telefono, accompagnata da una secca ramanzina, e l’indicazione di aspettarsi, il giorno successivo, l’analisi del “grave errore ideologico”. In tutta probabilità avevano cercato di incontrarmi per trovare un argomento che potesse discolparli.
Giornate al caffè, disse Todi, questa volta in un tono pensieroso. Anche dal punto di vista sintattico, suona strano.
Se ho capito bene, volevi dire più o meno che sono delle giornate che non fanno parte del nostro stile di vita, intervenne il vice. In qualche modo, giornate impregnate di una certa aria... decadente, sulle quali l’autore, in tal senso, getta uno sguardo critico. Non è così?
Abbozzai un “sì” con la testa, mentre lui aggiungeva che l’avrebbe riletto ancora una volta tenendo presente questa prospettiva.
L’hai scritto lì a Mosca, credo, disse Todi.
Sentii un nodo stringermisi in gola prima di rispondere. Come facevano a sapere... anche se non era andata affatto così?
Più o meno, risposi. Per fortuna, Todi continuò: Chissà quanti caffè Chruščëv saranno stati aperti a Mosca! Era così che cominciava il revisionismo: un caffè qui, un nudo là...
Stranamente, di caffè, non ce n’erano, risposi.
Ah!
I minuti passavano, e lentamente mi riprendevo dal mio turbamento. Non saprete mai la verità, dissi tra me e me. Sapevo che mi volevano bene e che, se continuavano con quel mini-interrogatorio, era anche per potermi difendere meglio. Tuttavia, venivano pur sempre dai loro uffici glaciali, dove la verità sul romanzo scritto a Mosca nel 1959 non doveva uscire a nessun prezzo. Quello da cui avevo estratto quelle Giornate al caffè.
A lungo nessuno era stato a conoscenza di quel romanzo. Era un’opera senza lettore, e così era stato per un bel po’, finché un giorno, dopo il mio ritorno in Albania, lo avevo affidato al mio migliore amico, D. Siliqi.
Ma non era durata molto. Dopo la sua morte in un incidente aereo, il romanzo era rimasto solo come prima. E tale giaceva nella mia coscienza: un testo senza lettore o, più precisamente, il romanzo di un lettore morto.
Anni dopo, spinto da uno slancio mistico, mi era venuto il desiderio di portarlo alla luce del sole, se non nella sua interezza, almeno in parte. Che ne rimanesse almeno una traccia, mi dicevo. Gli permetterebbe forse di essere cercato a sua volta, un giorno, come il cadavere dei dispersi.
La punizione era arrivata come un fulmine, come per sanzionare un peccato mortale. Riaddormentati, mostro! dicevo a me stesso. Ti ho svegliato prima del tempo. Non era ancora la tua ora.
Al Caffè Tirana, gli altri due continuavano a parlare della censura. Ora un po’ più fiduciosi, ora meno. Il pensiero di non avere più nessuno a cui confidare tutta la verità mi ricordava, per forza di cose, l’amico perduto.
Mi aveva lasciato solo in quel pasticcio. Allora pensavo agli amici di Mosca. Stulpanz. Anteos. Che come nessun altro conoscevano il funzionamento della censura, di cui, laggiù, avevamo così tante volte discusso. Anche loro non erano più lì.
Finalmente è successo anche a te! Ma guarda guarda... eppure lo sapevi benissimo che un giorno ti sarebbe toccato. Ne abbiamo discusso così tante volte! Quel Kaufmann, o Samoïlov, come si faceva chiamare, te l’aveva detto apertamente nella prefazione.
Come facevo a spiegargli che non era il genere di censura di cui avevamo parlato? Dopo la loro interruzione, in cui mi facevano notare che la censura che colpisce te sembra sempre peggiore di quella che colpisce gli altri (un po’ come l’erba del vicino sembra sempre più verde ecc.), avrei proseguito spiegando che la mia era davvero terrificante, perché non era una semplice emanazione degli uffici, ma di un’altra istanza, in un certo senso dell’essenza stessa della censura, altrimenti detto: il romanzo era stato già censurato... da... me stesso... Immaginate l’ampiezza della catastrofe? Ero stato io stesso il mio proprio censore... e non ero stato risparmiato.
Giornate al caffè... disse Todi, come parlando a se stesso. Ma dove sei andato a pescarlo, un titolo così? continuò, fissandomi con due occhi da cui, dietro il rimprovero, affiorava un velo di ammirazione. Si era lanciato a dire che avevamo ogni sorta di giornate: nuove, di primavera, cariche di speranza, ed ecco che spuntava quell’altro e diceva: Stop! Giornate al caffè! Non hai avuto quest’impressione? disse, rivolto al vice.
Per non dire di peggio, acconsentì quest’ultimo.
Todi continuò raccontando che la mattina, al momento del risveglio, quando tirava le tende alla finestra, prima ancora che gli passasse per la mente una delle espressioni appena citate, si era detto: Giornate al caffè... Tenendo presente la critica... A dire il vero, anche se si è visto di peggio, ti metteva comunque un nodo allo stomaco. La mia autocritica, domani, dovrà essere energica.
Anche la mia, ribatté il vice.
Avevo l’impressione che, benché con la coda dell’occhio, continuassero a fissarmi.
Non ricordavo di aver mai bevuto un caffè più amaro.
Non era facile per me capire che, ben quarant’anni dopo, Coffeehouse Days non solo mi riportava alla mente questi eventi, ma riportava anche alla luce la vecchia domanda: la mia attrazione per i caffè era sempre esistita, o si era materializzata dopo quell’episodio?
Mi piaceva pensare di averla sempre provata, ma in un modo diverso, spontaneo. D’altronde, non è forse vero che tutta una parte della vita umana resta così, allo stato latente, all’esterno di ogni cosa, e passano anni prima che il pensiero ne tracci il profilo?
La prima volta che ero entrato in un caffè, ero al terzo anno del liceo. Avevo appena ricevuto l’anticipo per la mia futura raccolta di poesie e con un gruppo di amici eravamo andati a festeggiare. Non avevamo mai messo piede in un luogo simile, ma alcuni di noi sapevano che il principale caffè della città si trovava in piazza Çerçiz. Ci andammo senza pensare un secondo a ciò che ci attendeva: la metà dei nostri padri, compreso il mio, si trovavano proprio lì, come loro abitudine; e, naturalmente, non credettero ai loro occhi, soprattutto quando si accorsero che avevamo ordinato del cognac.
Il minidramma padri-figli fu evitato, quando ci si rese conto che non eravamo lì per festeggiare il mio fidanzamento con una ragazza del quartiere Varosh, come inizialmente si era creduto, e che da parte mia non c’era alcuna sfida del tipo cognac vs caffè, di quelle che rischiano di portare lontano, fino allo scontro con il proprio genitore, come aveva detto un imbroglione austriaco, un certo Freud, che alcuni chiamavano Fred, altri invece Fehrid.
Che a bere il cognac ci siano stati dei problemi è dir poco, un po’ perché noi non eravamo abituati, un po’ per gli sguardi severi e diffidenti della clientela.
Ma non era che l’inizio. L’indomani, fummo convocati dal direttore del liceo. Condotta scandalosa. Avevamo macchiato la reputazione dell’istituto: il vicedirettore, il cui rigore era leggendario, si spinse ancora più in là, menzionando il “denaro sporco” di cui ci eravamo serviti per pagare bevande straniere e decadenti, sarebbe a dire il cognac.
Con mio grande stupore, fu proprio questa espressione a suscitare la collera di mio padre, facendolo uscire dalla consueta indifferenza che nutriva per quel che facevo.
Cos’ha detto? mi chiese. Mentre ripetevo: “denaro sporco”, si incupì. Come osa, quel pagliaccio? borbottò. Non ci volle molto per afferrare il motivo del suo sdegno. Il vicedirettore aveva chiamato “denaro sporco” il mio onorario, la metà del quale mi era stata “prestata”, come d’abitudine, da mio padre. Ne derivava quindi che anche mio padre usava denaro sporco...
Fui confortato dalla sua rabbia, pur convinto che la cosa non sarebbe finita lì. Era solo all’inizio. Per mio padre, che per tutta la vita aveva distribuito porta a porta le citazioni e gli ordini di comparizione in giudizio, era inimmaginabile essere stato accusato di infrangere la legge dello stato.
Due giorni dopo, tornò a casa in compagnia di Hilmi Dakli, l’avvocato più rinomato della città, che conoscevo già per una vecchia storia.
Mi fece delle domande e gli raccontai per filo e per segno tutto quanto: il mio desiderio improvviso di offrire da bere ai miei compagni, la scelta del caffè senza immaginare che ci avremmo trovato i nostri padri, e tutto quel che ne era derivato. L’avvocato tornò diverse volte sull’espressione “denaro sporco”, chiedendomi se ero assolutamente certo che il denaro con cui avevo pagato i bicchieri di cognac e le cioccolate in quel caffè era proprio quello che avevo ricevuto dalla casa editrice di Tirana, e che non provenisse invece da qualche altra fonte. Oltre al mio assenso, mio padre, per fortuna, aveva tenuto le ricevute dei vaglia postali, dettaglio che l’avvocato apprezzò in modo particolare.
Cominciata in modo confidenziale, la storia coinvolse rapidamente gran parte della città. La lettera che Hilmi Dakli aveva scritto a nome di mio padre, in cui vituperava l’espressione “denaro sporco”, partiva esattamente dall’origine latina della parola “onorario”, che non aveva proprio nulla a che fare con le asserzioni del vicedirettore del liceo. Prima ancora di essere recapitata alla direzione, la sua esistenza, divenuta non si sa bene come di pubblico dominio, aveva portato allo schieramento di due campi contrapposti: i favorevoli e i contrari. Il vicedirettore aveva subito visto volare in suo soccorso il Comitato della gioventù cittadino, che associava l’episodio alla comparsa dei sintomi di un’influenza straniera tra i giovani. Ci si aspettava che il Comitato del partito si schierasse al suo fianco, quando, alla nostra causa, si unì la direzione delle Poste, telefoni e telegrafi (PTT), che, in un severo comunicato, affermò con vigore che nelle PTT dell’Albania socialista mai sarebbe circolato il denaro sporco del revisionismo, e che il denaro immacolato del popolo albanese era il solo di cui le PTT si prendevano grande cura. Contro le PTT, e per delle ragioni che non si seppero mai del tutto, partì alla riscossa il Comitato dei reduci di guerra, ma il trionfo del campo avverso fu di breve durata, perché venne il turno del Comitato per la difesa delle minoranze, che attaccò il liceo con il pretesto che uno degli avventori del caffè, al momento dei fatti, apparteneva alla minoranza greca.
Il garbuglio durò ancora per un certo periodo, finché alla fine il liceo non venne definitivamente sconfitto. Stranamente, la notizia della vittoria non ci diede la gioia sperata. Avevamo immaginato che in una simile circostanza ci saremmo precipitati trionfanti al caffè, per farci portare non uno o due, ma tutta una sfilza di cognac. Non fu questo il caso: si verificò invece qualcosa di assolutamente sorprendente: la voglia di rimetterci piede ci aveva del tutto abbandonati.
Il sogno dei caffè si era ormai spostato su Tirana, ravvivata dalle luci, dalle ragazze e dalle altre curiosità della capitale. Eravamo impazienti di andarci. Tra le curiosità, al primo posto c’erano gli scrittori. Non i letterati o poeti in vista, regolarmente convocati a inaugurare riunioni e seminari, ma gli scrittori nel vero senso della parola. Che fino a quel momento, nella nostra immaginazione, erano o morti, o sovietici. Con il passare del tempo, scoprimmo che c’erano delle eccezioni, e che due di quelli che credevamo trapassati, Lasgush Poradeci e Dhimitër Pasko, benché messi da parte, erano ancora in vita. Tra i vivi al cento per cento, si potevano citare Dhimitër Shuteriqi e Sterjo Spasse, benché il primo fumasse la pipa come i francesi, e il secondo sfoggiasse una zazzera da battaglia come i francesi e gli spagnoli messi insieme.
Se avessi detto a qualcuno che Tirana, ai miei occhi, racchiudeva una dimensione onirica, ero certo che mi avrebbero compatito, nella convinzione che ripetessi soltanto una cosa sentita dire in giro. Eppure, che fosse o no farina del mio sacco, l’espressione mi sembrava corretta. Tirana era proprio di quelle immagini che a volte si avvicinano a tutta velocità, altre volte restano lontane, come in un brutto sogno.
Finalmente, l’autunno più importante della nostra vita era arrivato e, come molti altri studenti, mi stabilii nella capitale. Le belle ragazze e i caffè facevano parte delle meraviglie invocate, per non parlare di una terza che era la fusione di queste due: i caffè frequentati dalle ragazze. Erano così rari che non avevo ancora assegnato loro una denominazione specifica, ad esempio “cafferagazze” (come una sorta di caffelatte con le ragazze al posto del latte, oppure “coffeegirls”, come li avrei chiamati in seguito).
Più volte avevo notato che certi caffè portavano il nome di fiumi sovietici, molto spesso “Volga”. Fui sorpreso di scoprire che ce n’erano almeno due o tre con questa denominazione, finché un compagno di corso a Tirana non mi spiegò che un tempo, per la maggior parte, avevano avuto nomi come “Firenze” o “Lulù”, ed erano stati ribattezzati per ragioni facili da immaginare.
Un giorno toccò a me dirgli di aver notato che i nomi dei fiumi sovietici erano spesso utilizzati nei titoli dei romanzi – Il placido Don, per esempio – mentre da noi era impossibile trovarne. Ribatté che era perché i nostri fiumi erano irruenti, da un giorno all’altro venivano giù dalle montagne e inondavano ogni cosa sul loro cammino, per poi prosciugarsi del tutto, come per dispetto, fino alla piena successiva. Era convinto che questo aspetto incostante non si addicesse al titolo di un romanzo, e forse aveva ragione. Ne convenni, e aggiunsi anche che non era un caso se, su due romanzi albanesi che nel titolo avevano il nome di un corso d’acqua, il migliore era Il fiume morto, mentre Il fiume dorme, il nemico no non aveva alcun interesse.
Mi lanciò un’occhiata un po’ stranita e abbandonammo una conversazione che aveva preso una strana piega, e ora stava diventando pericolosa.
Anche se Tirana era piena di sorprese, la mia attrazione per i caffè tornava ogni volta come prima. Prevedibilmente, quelli che avevano nomi come “Roma”, “Berlino”, oppure “Hitler” erano stati chiusi, ma sopravvivevano altri locali che mi parevano pieni di mistero: il più famoso di questi era il caffè dell’hotel Dajti, sulla via principale.
Con il mio compagno di corso, un giorno, prendemmo il coraggio di entrare, senza badare agli sguardi diffidenti dei concierge dell’hotel. Anche il cameriere non nascose la sua incredulità, quando ci sedemmo a uno dei tavolini, uno di fronte all’altro. Dopo averci rivolto la parola in una lingua straniera, ci apostrofò in tono di rimprovero: Ma siete albanesi? Questo non è posto per voi, ragazzi.
Ce ne andammo con la coda tra le gambe, pieni di vergogna per non aver riconosciuto una cosa così manifesta.
Una settimana dopo, quando un mio amico, sbalordito, mi disse di aver visto Il fiume dorme, il nemico noentrare nel caffè del Dajti senza farsi cacciare da nessuno, realizzammo che, come molte altre cose nella capitale, la questione del Dajti era più complessa di quanto potesse sembrare. Che fosse principalmente un caffè per stranieri, come l’hotel di cui portava il nome, non voleva dire che certi albanesi non ci andassero abitualmente, alcuni persino per il caffè del mattino.
Il nostro primo pensiero fu che facevano parte di quegli albanesi che, a parte gli scrittori celebri, usavano ancora portare uno pseudonimo.
Due di questi ci erano noti: Chri-Chri, soprannome di Nonda Bulka dai tempi della monarchia, e il Dottor Pas, alias Dhimitër Pasko, della stessa generazione. Quest’ultimo, tuttavia, non aveva niente in comune con Il fiume dorme, il nemico no, perché tempo prima si era anche fatto un anno di carcere, mentre Il fiume ecc. era un comunista così organico che, appena finiti gli studi all’Istituto Gor’kij, a Mosca, era stato nominato all’Unione degli scrittori, poi al Comitato centrale del partito.
Ci sfiorò l’idea che al Dajti andassero solo i veri insospettabili, ma anche quelli su cui cadevano tutti i sospetti.
Facile a dirsi, difficile a credersi. Per esempio, a proposito di Chri-Chri, che veniva menzionato ogni volta che si parlava di eleganza nel vestire, si diceva che era insuperabile nell’accavallare le gambe alla “parigina”. Ma era un talento che poteva esercitare solo nei caffè adatti, come il Dajti, cosa che senza dubbio costituiva il motivo della sua assidua presenza nel locale.
Nella mia fascinazione per il glamour del tempo andato, avevo coinvolto un altro compagno di corso, non con una motivazione letteraria, ma semplicemente perché avevamo un debole per la stessa ragazza. Pieno di brio, mi accompagnava all’Unione degli scrittori, dato che la casa della nostra musa dava sul cortile del palazzo delle ex principesse di Zog. Dopo la “visita al palazzo”, sembrava che ogni cosa prendesse la dovuta eleganza e i passi ci portavano del tutto spontaneamente al Caffè Flora, in via Durazzo, dove la conversazione sulla “principessa del nostro corso” scorreva in modo naturale, come favorita dal fatto di essere nel suo ambiente.
Ora, noi non nascondevamo la nostra sete per un po’ di lusso, cioè di “decadentismo”, ma nel senso buono della parola, e non nel modo in cui l’aveva definito, all’inizio, il Comitato della gioventù di Argirocastro. Eravamo capaci di cercarne i sintomi dove erano più impensabili, come nelle criniere arruffate di certi scrittori in vista. A questo proposito, le più notevoli erano quelle di Petro Marko e Sterjo Spasse. Il primo, volontario nella guerra di Spagna, risultava credibile “all’internazionale”, per non parlare del suo romanzo dal titolo in spagnolo, Hasta la vista, che era ancora in gestazione, ma già noto in tutta Tirana. Il secondo, Spasse, autore, come avevamo imparato al corso, di Perché?, primo romanzo ufficiale del decadentismo albanese, benché non andasse mai nei caffè, aveva una qualità che lo distingueva da tutti gli altri: a casa sua, come nelle dimore della nobiltà russa nei romanzi di Tolstoj, si parlava solo in un’altra lingua, pertanto, straniera. Questa cosa ci aveva molto meravigliati, me e il mio amico, finché qualcuno non ci illuminò su questa famosa lingua che si parlava a casa Spasse: era quella che si parlava ai confini con la Macedonia, dove, da un lato e dall’altro della frontiera, gli idiomi si mescolavano, e quindi non era raro sentir parlare macedone in Albania e albanese in Macedonia, senza per questo dover pensare di poterla paragonare al francese dei Bolkonskij di Tolstoj.
Il Caffè Flora, il più nuovo a Tirana, rientrava nella categoria di quelli che, senza esser stati implicati in faccende contorte, in definitiva erano solo dei caffè caffè, di quelli dove le parole “mai” e “per sempre” erano più facili da pronunciare.
Senza dirlo ad alta voce, sognavamo entrambi di sentir pronunciare queste parole in compagnia della nostra principessa bionda. Da chi a chi, poco importava, purché lo fossero. Consapevoli di esserne invaghiti entrambi, ci era impossibile immaginare chi dei due avrebbe potuto piacere a lei.
Di volta in volta avevamo l’impressione che fosse uno, poi l’altro, poi tutti e due, poi nessuno.
Un giorno, durante la lezione di marxismo, mentre il professore parlava della storia del pensiero tedesco, lei, dopo il noto “uffa” che le scappava ogni volta che la materia le risultava astrusa, posò la matita, facendomi segno che, come altre volte, avrebbe copiato quel passaggio dai miei appunti.
Questo voleva dire che dovevo scrivere con una bella grafia, cosa che facevo ben volentieri. La sentivo che, con la coda dell’occhio, seguiva le frasi... il pensiero tedesco, contrariamente al russo... e poi questo, diversamente da quello...
All’improvviso, avvicinò la testa al punto che i suoi capelli mi sfioravano le tempie e, a voce bassa, mi chiese: Mi pensi?
Mi sentii colto alla sprovvista, quasi in fallo. È in questo stato di stordimento che riuscii ad articolare un “sì”.
La principessa (così la chiamavamo tra di noi, per non farci scoprire dagli altri) non disse altro. Continuò a seguire la mia penna... il pensiero tedesco... insomma, diversamente da quello... albanese... russo... Come se non fosse successo nulla.
Io, al contrario, pensavo che qualcosa fosse decisamente cambiato.
Il freddo glaciale conservava il suo fascino cristallino, più bello di un inverno dell’immaginazione.
Nella ressa dell’uscita dall’aula, cercai con gli occhi il mio compagno, senza riuscire a trovarlo.
Più tardi, al Flora... mi dissi.
Mentre camminavo verso il caffè, all’improvviso mi sembrò che la faccenda non fosse così insolita come mi era sembrata all’inizio. Sai, a lezione di filosofia, mentre il prof parlava del pensiero tedesco, e poi ovviamente del russo, ecco, del pensiero... mondiale, mi ha chiesto se penso a lei...
Be’, mi dissi. È talmente banale...
Comunque, banale o no, qualcosa dovevo dire.
Da un po’ di tempo ormai, tra noi si era stabilito una sorta di tacito accordo a proposito della principessa. Una sorta di patto cavalleresco in virtù del quale, a questo riguardo, nessuno avrebbe nascosto nulla all’altro. E io ero tenuto a rispettarlo.
Sai, gli dissi, prima ancora di essermi seduto bene, con la faccia contrita, come se dovessi dargli un’orribile notizia. A lezione, quando...
Suonava ancora peggio di quanto avessi immaginato. Anche il silenzio con cui il mio amico mi ascoltava mi pareva un segno di disprezzo. Finché non mi chiese: E tu che le hai risposto?
Ho risposto sì... Forse ho fatto male.
E perché mai? disse lui.
Per un bel po’ discorremmo di quel terribile “sì”. Lo considerammo sotto tutte le angolature, per trovare se avrebbe dovuto essere, per esempio, un po’ più caloroso (più freddo no di sicuro), con una punta di esitazione (peggio, sarebbe risultato troppo femminile), meno diretto, mmh, o, piuttosto, più energico, in un certo senso più focoso. Alla fine, giungemmo alla conclusione che quest’ultimo, il focoso, sarebbe stato il “sì” adeguato, a maggior ragione visto che eravamo in due, a pensare a lei.
Mi congedai in balia di una certa leggerezza. A quel punto, ero impaziente di rimanere solo.
A quanto pare, che fosse tedesco, russo, o illiro-albanese, quando aveva per oggetto una ragazza, il pensiero richiedeva solitudine.
“Mi pensi?”
Era un miracolo che si riproduceva nella mia mente ogni volta che mi ripetevo la magica frase, insieme alla sensazione che non sarebbe potuto succedere mai più.
Una ragazza voleva sapere... nonostante Platone o Hegel... una ragazza voleva sapere se pensavi a lei.
La notte passava, veniva il giorno, arrivava l’ora della lezione, di latino questa volta, ed ecco di nuovo lei.
Pensare a lei. A te. Alla principessa.
Regalique situ piramidum altius.
Le ore della giornata filavano, per lasciare posto a quelle della notte. Le stagioni stesse si susseguivano come quei paesi che immaginavi in pieno inverno quando c’era l’estate.
Per non parlare del fatto di immaginare lei, che pensa a te. Fuor d’ogni dubbio, era l’apoteosi assoluta. I capelli sparsi sul cuscino. Il sonno le si avvicinava piano, ma non la vinceva, perché glielo impedivi. Era senza dubbio una delle sette meraviglie del mondo. Infinitamente più altius delle piramidi descritte da Orazio, o dell’interminabile muraglia cinese.
Le giornate si susseguivano e noi non nascondevamo più il desiderio di stare insieme. Questo ci era permesso, come detto, durante le lezioni di marxismo e di latino, le uniche a svolgersi in sale comuni, per mancanza di professori. In facoltà sarebbero difficilmente sbocciate delle storie d’amore senza quelle sale, dove gli studenti sceglievano liberamente i posti a sedere.
Nella ressa dell’entrata a lezione, ci cercavamo continuamente con lo sguardo, per accertarci che l’altro andasse nella stessa direzione.
Il momento di sederci vicini era uno dei più meravigliosi e, volendo ricordarle che per me il tempo aveva fermato la sua corsa dall’istante in cui lei mi aveva fatto quella domanda, un giorno le diedi un biglietto dove avevo scritto: “Ti penso.” Questa volta, mi rispose per iscritto: “Anche io.”
Ignoravo fino a che punto l’effetto delle parole viene amplificato quando sono stese sulla pagina.
La scena, come d’abitudine, si svolse al Flora, dove, con una disinvoltura di cui non capivo l’origine, annunciai al mio amico che la prova di letteratura albanese era finalmente passata dall’orale allo scritto.
Adocchiò il biglietto, non potendo credere ai suoi occhi, come mi avrebbe detto in seguito, al fatto che le parole più semplici della lingua albanese potessero sembrare tanto preziose. Poi mi disse che avevo un bel far finta di niente, ormai era una relazione amorosa bella e buona. Con mezze parole, mi fece capire che se ne era reso conto già da diversi giorni, e che sarebbe stato uno scemo patentato se non ne avesse approfittato per farsi da parte e ritirarsi, come ci piaceva dire.
Era una conversazione delicata, e avrebbe potuto diventarlo ancora di più se avessi cercato di dar prova di magnanimità, in qualche modo, assicurandolo che avrei rispettato il cessate il fuoco... (Ma cosa voleva dire cessate il fuoco? Cielo, ci mancava solo questa!)
Nel frattempo, gli occhi della principessa si facevano sempre più soavi. Le sue guance altrettanto. Quanto alla pettinatura, che cambiava ogni giorno, ancor più dei biglietti mi faceva pensare a cosa doveva succedere dentro di lei.
Qualcosa di inatteso sarebbe successo tra me e il mio compagno. Le conversazioni sulla principessa si diradarono fino a cessare del tutto.
Non era facile districarsi: la pettinatura e il biglietto; e il latino, che tanto faceva avvicinare le persone, altrettanto poteva allontanarle. Il primo dissapore tra me e la principessa fu proprio a causa di questo. Era di nuovo l’ora di latino. Il professore parlava di Ovidio. La sua voce si era addolcita, come ogni volta che spiegava argomenti che gli stavano a cuore. Erano passati due millenni senza che il motivo della collera di Augusto fosse stato chiarito.
Non so da dove mi venne il desiderio di scriverle qualcosa in proposito, né come lo scambio si inasprì, fino a concludersi con le parole: “In questo caso non scrivermi più,” e la risposta: “Ci puoi contare: mai più!”
Tentai di ricomporre i cocci, senza successo. Ovidio era stato cacciato da Roma, era quasi arrivato al luogo che gli era stato assegnato come residenza, sulla costa del Mar Nero, ed è in questo stato che eravamo alla fine della lezione: neri di collera.
Contrariamente alla mia recente tendenza, non vedevo l’ora di raccontarlo al mio compagno, al Flora.
Il mio compagno fu sorpreso di trovarmi in vena di confidenze sulla principessa. Continuavo a ripetere i dettagli del nostro malinteso, soprattutto il tenore dei biglietti, quelli macchiati dal terrificante “mai più”.
Ebbi la sensazione che provasse un certo compiacimento, non tanto per lo screzio tra di noi, quanto a veder rientrare le cose nell’ordine. Eravamo di nuovo in tre, o meglio in due: io, lui e la principessa. O meglio, io e la principessa, poi lui, il terzo, il compagno inseparabile.
Così fu, effettivamente, per un po’ di tempo. Portavo le ultime notizie che, come il giornale della sera, erano seguite dal bollettino meteo: commenti sulla pettinatura, le pinzette scintillanti fra i capelli, come lampi in un cielo di tempesta, a cui lui prestava orecchio con interesse.
Ma questa intesa fu di breve durata. Dopo la mia riconciliazione con la principessa, al Flora in merito riprese il silenzio, e il mio compagno non nascose il suo dispetto. Lo sa tutta la classe, mi disse un giorno in tono di rimprovero.
E allora? ribattei io, in preda a un accesso di cieca rabbia, di quelli che non mancavano di assalirmi di tanto in tanto. E visto che se ne parla, cos’è che sa tutta la classe?
Non voleva dirmi di più, e dovetti insistere finché non mi rispose, tra le proteste.
Ben presto, mi misi a ridere in un modo che, in un altro, mi avrebbe fatto spavento. Ah, bell’affare! Certo che ci baciamo: c’è motivo di saltare sulla sedia per questo? Anzi, visto che lo sapevi, sei l’unico che l’ha raccontato da quando è successo.
Basta, fece lui. E se parlassimo di qualcos’altro?
D’un tratto, senza capire perché, sentii una stretta al cuore. Alla rinfusa mi riaffiorarono alla memoria l’ammissione della sua sconfitta, il cessate il fuoco, il patto, la sua rassegnazione, e quella mia spacconata mi parve d’un tratto di cattivo gusto. Non avevo ancora imparato a chiedere scusa, quindi cercai di farlo in modo indiretto.
Senza dubbio fu sorpreso del mio brusco cambio di tono, e soprattutto dall’idea di cui lo misi a parte, perché non sapeva che mi era appena venuta in mente. Gli proposi d’invitare la principessa a unirsi a noi per un caffè al Flora.
Oh, che bello! Esclamò. Forse anche lui si era detto più volte che noi tre... come un tempo... Una storia ben nota...
Mai avrei sospettato che quell’invito al Flora sarebbe stato fonte di un malinteso ancora più grave di tutti i precedenti.
Accadde il giorno in cui gli mostrai il biglietto con la risposta: “Vengo dove vuoi, ma non al caffè.”
Si scurì in volto, e dovetti spiegargli che, così lei mi aveva confidato, proprio il fatto di essere andata in un caffè, un anno prima (una di quelle situazioni in cui anche un amico di tuo fratello più grande è lì, e ti vede, al che la promessa di non andarci mai più), in famiglia era stato la causa di tutto un mormorio.
Lui tenne un attimo il biglietto tra le dita, senza nascondere la sua meraviglia. “Vengo dove vuoi...” lesse sottovoce. Che bello che una ragazza ti scriva queste cose!
Restituendomi il biglietto, aggiunse in un sospiro: Si vede che siete andati lontano.
Disse pensieroso quelle parole, e ne afferrai subito il significato: noi eravamo andati lontano, e lui, il vecchio compagno di sospiri, lo sconfitto, l’eliminato, con cui però avevo condiviso tutto, non ne aveva saputo nulla.
Quasi sentivo i meccanismi del suo pensiero, a tal punto che fui sul punto di gridare: ma cosa c’è da sapere? Eravamo consapevoli di quel che avevamo nella testa, e io ero quasi certo di sapere a cosa pensava lui. Naturalmente non c’era da farne un dramma. In fin dei conti erano cose che si potevano capire a mezze parole, cose di cui ridacchiano i ragazzi tra loro, come il fatto di sapere, a proposito delle bionde, se lo sono... dappertutto...
Tuttavia cercai nella memoria qualche proverbio sugli uomini galanti che, contrariamente ai giovani sporcaccioni balcanici, in certe situazioni sanno stare zitti.
Alla fine trovai le parole per dirglielo, e il silenzio colpevole con cui mi ascoltava riuscì a confermarmi che i miei sospetti erano esatti.
“Entra in scena il romanzo.” Avevo scritto questa frase su qualche quaderno, una volta ci avevo anche aggiunto le famose parole di Shakespeare secondo cui avrebbe chiamato in scena la morte.
A prima vista sembrava una cosa trita e ritrita. Avevo iniziato e lasciato a metà romanzi e novelle come nessun altro. Storie di fantasmi, pirati, commissari coperti di ferite che gridavano “Vittoria!”, la nonna defunta che tornava in vita, mettendo a tutti una fifa blu. E tuttavia, questa volta, era diverso. Per la prima volta scrivevo di me stesso. E, più precisamente, di me e della principessa.
Dopo una notte insonne, lo dissi al mio amico. Se ne rallegrò almeno quanto per l’altro segreto (quello della biondezza), di cui non gli avevo ancora rivelato nulla.
Ero in uno stato singolare. Sembrava un sentimento amoroso senza esserlo affatto. In certi momenti, mi dava l’impressione di esserlo di più. Altre, di meno. La lingua non mi permetteva di definirlo. Non si poteva dire mi sono irromanzato, nello stesso modo in cui si dice mi sono innamorato. Quando scrivevo un romanzo pieno di spettri e terrore, ne ero così preso che poco importava delle dolci ragazze che erano al mondo. Invece, questa volta, una di loro si trovava per l’appunto come avvinta al cuore del mio romanzo.
Ero in fibrillazione. In altre parole, ero irromanzato. Non è un caso se, per la differenza di una sfumatura, la radice della parola ha due possibili accezioni: romanzo (pubblicazione, stampa, pubblicità: correte in libreria ecc.) e romantico. La storia di X e Y, durata due o dodici anni. Quella di Balzac con la contessa di Hanska, per esempio. O quella di Dante e Beatrice, che dura da diecimila anni.
Simili osservazioni assorbivano costantemente i miei pensieri, al punto di farmi credere che fossero condivise da tutti. La domanda del mio amico su come stesse andando mi precipitò in un tale stato di perplessità che mi ci volle un attimo per capire di quale parlasse: del romanzo o del romanticismo. A coronare il tutto, aggiunsi che le due cose si erano separate, una di qua e l’altra di là.
Ci guardammo confusi, finché non aggiunsi che non solo non erano affatto sovrapponibili, ma che la faglia tra l’una e l’altra era sempre più profonda. In altri termini, la principessa e il romanzo non si potevano soffrire.
Il mio compagno, con gli occhi così fuori dalle orbite, avrebbe spaventato un oculista.
Davvero c’erano ragazze che storcevano il naso all’idea di diventare le eroine di un romanzo? Tranne quando si trattava di evitare i pettegolezzi, le questioni di reputazione, oppure del fratello maggiore, come nella storia del caffè.
Ma proprio per nulla! per poco non gridai. L’incompatibilità stava altrove.
Trattenendo a mala pena il nervoso, gli spiegai che, quando le cose andavano male con la principessa, ero assalito dal desiderio di scrivere. Appena ci riconciliavamo, il desiderio svaniva...
Ammise di non capirci nulla. Tutt’al più gli sembrava che, quando andava male, avevo bisogno del romanzo, quando la cosa era risolta... Un po’ come sputare nella zuppa quando non si ha più fame.
Scossi la testa per dirgli che non saremmo mai riusciti a capirci. Oppure, ci saremmo riusciti quando si fosse innamorato anche lui, perché avremmo raggiunto lo stesso livello di demenza.
E la principessa? domandò. Cosa dice di tutto questo?
Non ne sa nulla.
Ma una persona non sa come deve comportarsi con te, mi disse poco dopo. Rallegrarsi per i progressi del romanzo significa rallegrarsi del fatto che sei ai ferri corti con la principessa... E viceversa... Sei ben contorto.
Ribattere che era la letteratura, in primo luogo, ad essere contorta, sarebbe stato troppo volgare, così non risposi nulla.
Eppure, la parola era debole. Le novità che mi arrivavano dall’Unione degli scrittori tramite Met M. non facevano che confermarlo. Aveva lavorato lì un paio d’anni, e io l’avevo conosciuto proprio nel periodo in cui andavo a consegnare delle poesie, che poi sarebbero state pubblicate sul “Giovane letterato”. Aveva preso parte a tutte le battaglie interne dell’Unione, prima di finire internato. Due anni dopo, all’improvviso, si era presentato al nostro corso: era stato ammesso direttamente al secondo anno, perché, a suo dire, la condanna era dovuta a un errore.
Benché fosse tornato studente, continuava a seguire quel che succedeva all’Unione, per la quale nutriva attenzioni particolari.
Secondo lui, la storia dell’Unione degli scrittori era sempre stata piena di mistero. All’inizio, subito dopo la guerra, il Comitato degli scrittori era composto per metà da persone di estrazione borghese, per metà da ex partigiani. Benché i primi, con il passare del tempo, sarebbero spariti, gli altri non riuscivano a star dietro ai loro intrallazzi, e così il governo mandò in fretta e furia a Mosca due dei suoi membri tra i comunisti.
Nell’attesa che facessero ritorno, le cose erano andate di male in peggio. Per indebolire ulteriormente i borghesi, o meglio la fazione francese, come erano chiamati per via del fatto che uno di loro aveva studiato in Francia – fatto attestato dal modo in cui fumava la pipa, “alla francese” – vennero immessi nuovi membri, che ben presto furono denominati “la fazione del ministero dell’interno”. Stavano per prendere in mano la situazione, quando all’improvviso ricomparvero i “moscoviti” che, contro ogni aspettativa, invece di unirsi a loro, si allearono ai “francesi”.
La confusione che ne seguì fu inaudita. Si prevedeva un intervento dall’alto, ma tardava. Gli sporadici segnali non erano chiari. Lo stesso Met M. riconosceva di aver navigato a vista durante quella fase. Uno dei segnali, la ricomparsa della pipa di uno dei borghesi, aveva provocato un nuovo trambusto. Disinibito, si era messo ad aspirarla con una disinvoltura impressionante, mentre gli altri cercavano di decifrare, nelle volute di fumo che volteggiavano sopra di lui, qualche messaggio in codice.
Alla fine, la tempesta era scoppiata una volte per tutte, a causa di una notizia sconvolgente: al posto della fazione del ministero dell’interno, in testa c’era di nuovo quella dei francesi. L’enigma restò tale per un po’, finché a chiarirlo non arrivò una fuga, sopraggiunta nel racconto di uno dei pazienti di un ospedale psichiatrico: durante una riunione segreta “ai piani alti, qualcuno aveva osato ironizzare sulla Guida suprema, tacciandolo di essere un “francese”, per via degli studi che aveva fatto in Francia, cosa che coincideva con il soprannome dato alla fazione dei borghesi.
La situazione, nel frattempo, era lontano dal diventare limpida. Secondo Met M., il garbuglio era tale che spesso venivano condannati quelli che credeva risparmiati, e altri che credeva scagionati venivano ora riabilitati, ora di nuovo condannati. Così, alcuni erano stati espulsi dal partito, due o tre erano stati internati, e altrettanti scontavano la pena svolgendo lavori di interesse generale. Il solo a buscarsi la pena carceraria, senza remissiva, era stato Mark Ndoja, forse perché concentrava su di sé gli attacchi delle tre fazioni.
Met M., che aveva stretto rapporti con le tre fazioni, in quella confusione, senza sapere bene perché, era stato internato per errore, ragion per cui, forse anche questo per errore, era finalmente stato integrato nel nostro corso.
Si avvicinava la fine degli studi. Invece che sul diploma, il mio pensiero cadeva continuamente sul romanzo. Mai avevo provato un desiderio così irreprimibile di scrivere. Questo significava che le cose, con la principessa, non andavano affatto bene. Dire che navigassimo in cattive acque era ben al di sotto del vero. Mai erano state così calamitose. Il romanzo non sembrava aspettare altro. In poche settimane, scrissi più di quanto non avessi fatto in sei mesi. La principessa era sul punto di perdere la battaglia contro il libro. Più mi avvicinavo alla fine, più prendevo slancio. Come gli occhi di un lupo nella nebbia, vedevo ormai l’epilogo.
Come se questo pasticcio non fosse bastato, venne fuori la questione di Mosca. Aspettavo da tempo di essere ammesso all’Istituto Gor’kij, e allora più che mai ero vicino.
La principessa e Mosca. I pettegolezzi non sarebbero tardati. Sembra che tu dica in giro di non saper scegliere tra la principessa e Mosca, mi confessò un giorno, piena di rancore.
Giurai di non aver mai detto niente del genere, ma lei insistette. A sentir lei, avevo persino adattato i versi dell’ungherese Petöfi: “per amore darei la vita, ma per la patria sacrificherei l’amore”, che nella circostanza diventavano: per la principessa darei la vita, ma per Mosca sacrificherei la principessa...
Di nuovo giurai che erano calunnie, ma non voleva sentir ragione, quand’ecco che mi tornò alla memoria un fatto. Sei tu! gridai, come se avessi appena fatto una grande scoperta. Sei proprio tu, cara signorina, che mi hai detto almeno dieci volte che, trattandosi di letteratura, Mosca e tutto quel che ne deriva, non mi avresti in alcun modo ostacolato... Dimmi che non è vero!
Abbassò gli occhi e, dopo un attimo di silenzio, emise un “sì”. Era vero, e lo pensava ancora: una cosa sacra...
Vedi? replicai.
Lei ripeté che era vero, ma non le faceva piacere sentirlo dire dagli altri.
Finii per accarezzarle i capelli, sussurrandole all’orecchio che mi ero molto meravigliato di sentirla parlare in quel modo, per la prima volta. E le ricordai anche dell’indimenticabile pomeriggio in cui mi aveva detto quella frase, e io le avevo risposto che, se le ragazze non parlano mai con leggerezza di fidanzamenti e matrimoni, le dee invece... Era proprio un loro segno distintivo.
Purtroppo, nel frattempo, si erano formati due campi, e non fecero che aggravare il nostro dissapore: quelli che sostenevano me e quelli che sostenevano lei. Il punto era sapere quale dei due avrebbe istigato la presunta separazione. Nessuno riusciva a capirlo, e neppure a sapere con certezza se la suddetta rottura si sarebbe effettivamente verificata. Noi, non più degli altri...
L’assurdità della vicenda diventava palpabile. Fino a quel momento non avevo mai provato la sensazione di compiere una sequenza di azioni senza capo né coda. E lei neppure.
Su questo punto il romanzo, come impaurito, mi lasciò in mezzo a una strada. Non avevo più nessuna voglia di scrivere: l’epilogo cui non vedevo l’ora di arrivare non aveva più nessuna attrattiva. Ci mancava poco e avrei creduto che il romanzo e la principessa, che fino a quel momento non si erano mai piaciuti, si fossero alleati contro di me.
La follia cresceva d’intensità davanti ai nostri occhi. Come per contagio, dopo aver colpito me, ora sembrava essere arrivata a lei. A volte provavo la sensazione di trovarmi su un palcoscenico teatrale, dove recitavamo una parte davanti agli occhi di tutti.
Il mio compagno continuava a ripetermi che sarebbe passata, ogni cosa sarebbe tornata in ordine, e lei avrebbe rinunciato ai suoi capricci per tornare la principessa che avevamo sempre conosciuto.
Non fu così. Al contrario, quella primavera la principessa fece una cosa che sarebbe rimasta a lungo senza precedenti: non soltanto si fidanzò, ma lo fece due volte nel solo mese di aprile!
Non ci capivo più niente. Né io, né nessun altro. Non sapevo se neppure lei ci capiva qualcosa. Le era caduta addosso una sembianza glaciale, che sembrava emanare dai capelli.
Con orrore, osservavo la sua capigliatura, come se i capelli da soli potessero produrre un archetipo femminile ancora più crudele.
Nel momento in cui l’enigma sembrò sciogliersi, la principessa era di nuovo sparita. Questa volta, la sua assenza si prolungò. Il suo fidanzato pareva un altro.
Ero per così dire ko, secondo l’espressione usata al circolo di box alla Casa dei pionieri di Argirocastro. Avevo preso due ganci alla mascella. Senza preavviso, mi colpì un terzo: era un articolo sulla “Voce della gioventù”, in cui venivo severamente criticato per alcuni versi, definiti “immorali”. In conclusione, il giornalista si domandava dove era stato deciso che i letterati della mia risma fossero inviati a Mosca, come si diceva in giro.
A proposito di quell’articolo, accadde un episodio singolare. Mentre lasciavamo la sala del corso per la pausa, il mio compagno mi raccontò che il giornale era stato posato da qualcuno sul banco della principessa, aperto alla pagina dell’articolo. La principessa, invece di fingere indifferenza o di prenderla per una provocazione, rimase in piedi a leggerlo. Tutti quelli che l’avevano notata in quel momento avevano visto la tristezza del suo sguardo.
L’aureola della dea era riapparsa... Senza che ne fossi consapevole, per tutte quelle turbolente settimane non avevo fatto che aspettare quel segno.
Fui investito da una pace inattesa. Quando, dopo l’ora di pausa, tornammo ai nostri posti, vidi che il giornale era ancora lì.
Per la prima volta dopo quei giorni tristi, sentii il desiderio di baciarla.
La notizia della mia partenza per Mosca arrivò prima della fine della settimana. Come inebriato, all’inizio non sentii neppure il nome dell’altro studente, ammesso insieme a me.
Quando lo ebbi scoperto, non credetti alle mie orecchie. Sterjo Spasse? Tu e Sterjo Spasse? Sì sì, proprio lui...
Quello di Perché? che avevamo studiato al liceo?
Il... il morto? per poco non me ne uscii con questa frase, quando il mio compagno mi disse più o meno la stessa cosa: era rimasto a bocca aperta, come se avesse appena saputo che partivo per Mosca con Naim Frashëri.
All’una fui convocato nell’ufficio del decano, dove mi informarono che avrei dovuto presentarmi immediatamente da F.G.J., al Comitato centrale.
Il fiume dorme, il nemico no, come lo chiamavamo, mi ricevette nel suo ufficio con un sorriso raggiante: Immagino tu sappia già perché ti ho fatto venire, mi disse in tono gioviale.
Certo che lo sapevo. Sei fortunato, continuò. Io stesso sono stato all’Istituto Gor’kij, e te lo ripeto: sei davvero fortunato.
Parlò per un po’ di Mosca, delle sue meraviglie, e poi ritornò di nuovo alla fortuna che mi era capitata di poter andare a studiare in quell’istituzione prestigiosa, unica nel suo genere in tutto il mondo socialista: l’Istituto Gor’kij!
Non ho bisogno di dirti che tutti i giovani scrittori di questo mondo sognano di andarci. E hanno buone ragioni. Questa scuola è l’avamposto del realismo socialista, l’arte che terrorizza i nemici del comunismo. È il motivo per cui l’attaccano senza pietà ogni volta che possono. La risposta della nostra arte sarà altrettanto implacabile... Lì a Mosca, nella scuola dove andrai, vengono preparati gli scrittori che stanno in prima linea nella nostra offensiva... Capisci cosa voglio dire? Sarete voi a mettere in ginocchio il decadentismo mondiale!
Ecco, ti ho parlato a cuore aperto, perché mi hai ricordato di quando ci sono andato io. Ah, che tempi! Ora ti darò alcune direttive.
Dopo la comunicazione delle direttive, Il fiume dorme ecc. mi accompagnò alla porta, e lì mi abbracciò, visibilmente commosso.
Mentre camminavo verso casa di mia zia, dove abitavo, assillato dai propositi sull’annientamento del decadentismo mondiale, pensai, come un uccello impaurito, al manoscritto del mio romanzo.
Appena arrivato, mi precipitai sul cassetto dove era riposto, e lo estrassi. I miei occhi caddero distrattamente sul frontespizio e per poco non esclamai: Ma dove sei andato a pescarlo, un titolo così? Ero disposto a credere che non fosse opera mia, ma di un altro che ci aveva messo quel titolo da depravato: Amore n. 2, romanzo.
Lo rimisi, insieme alle lettere della principessa, nel suo fascicolo, persuaso che l’ultimo titolo in ordine di tempo non fosse questo, bensì Le nebbie di Tirana, come avevo riferito al mio compagno, modifica che dovevo aver dimenticato di riportare sul manoscritto.
Quel pomeriggio, al Flora, dopo avergli rapidamente raccontato del colloquio con Il fiume dorme, gli chiesi se avesse parlato con qualcuno del mio romanzo. No, perché? Perché? risposi io. Perché... dimenticati della sua esistenza. Fa’ finta che l’abbia bruciato. Bruciato, capito? Più nessuna traccia!
Era sera quando uscimmo dal Caffè Flora. Per la prima volta non avevamo parlato della principessa. Mentre camminavo verso casa, all’improvviso mi venne l’idea di fare un salto dagli Spasse. Ci ero stato una volta per un compleanno e ricordavo dell’edificio situato in via Him Kolli.
Per la strada, invano mi sforzai di capire il senso di quel che stava capitando. Se Spasse si metteva a fare lo studente, di me che ne sarebbe stato?
A casa sua trovai tanta gente, che a quanto pare era venuta a fargli visita per la partenza. Appena entrato, venni accolto da un “ah” generale, come all’arrivo di qualcuno di cui si stava appunto parlando.
Era come sentire l’effetto di una sorpresa prevista, ma solo esteriormente. Era evidente che anche loro non capivano il significato di quello strano duo di scrittori spediti insieme a Mosca.
Oltre Chri-Chri, che conoscevo, c’erano Vedat Kokona e Mustafa Greblleshi, che vedevo per la prima volta. Il primo era ancora considerato lo scrittore più affascinante e distinto di Tirana e, osservandolo, pensai che il libro Da Tirana a Stoccolma, uscito lo stesso anno di Perché?, non avrebbe potuto essere stato scritto da nessun altro. Quanto a Greblleshi, il nome non mi era nuovo: lo ricordavo dai tempi del liceo, per le ragazze della classe che si passavano sottobanco il suo romanzo L’abisso d’amore, che, oltre all’ispirazione decadente, era stato scritto nel dialetto del Nord. Stava tutto raggomitolato in un angolo, dando prova di quella timorosa discrezione, tipica di chi si è fatto un giro in prigione, accanto al Dottor Pas. Conoscevo quest’ultimo come Mitrush Kuteli, prima di sapere che anche Mitrush Kuteli era uno pseudonimo, e stava per Dhimitër Pasko.
Anche lui era la prima volta che lo vedevo. Senza dubbio, era lo scrittore che suscitava più curiosità, dopo Lasgush Poradeci. Stava in silenzio: come Greblleshi, si era fatto uno o due anni in prigione, ma diversamente da lui, e benché rischiasse di tornarci, riusciva ad apparire meno turbato. Questo perché Pasko, secondo una voce non verificata, doveva essere l’unico scrittore non solo albanese, ma di tutto il mondo socialista, per non dire del mondo intero, ad aver partecipato alla battaglia di Stalingrado dal lato dei tedeschi, con il grado di ufficiale, e a tornare a casa indenne!
L’atmosfera dagli Spasse diventava sempre più vivace. Gli abitanti della casa, intenti a servire bicchierini di cognac, si parlavano, secondo il costume, in quella lingua improbabile che, benché non fosse di uso corrente nel paese, non era neppure il francese dei romanzi di Tolstoj. Sterjo in persona sembrava commosso.
Da Tirana a Mosca, dissi tra me e me: ecco il titolo di un libro che di certo un giorno scriverò...
Chri-Chri, seduto al mio fianco, alzò il bicchiere con me, guardandomi in modo un po’ strano.
Perché?4 disse d’un tratto senza distogliere lo sguardo.
Ripeté la domanda nello stesso tono divertito, poi, ridendo della sua stessa trovata, aggiunse che di certo conoscevo il titolo di quel romanzo, no?
Ah, il romanzo di... E guardai in direzione del padrone di casa. Certo che lo conoscevo.
Con lo stesso buon umore, dopo aver chiesto la mia data di nascita, Chri-Chri mi confidò che Spasse aveva scritto e pubblicato quel libro ben prima che io nascessi.
Però è una buona cosa, continuò, che andiate a Mosca insieme. È positivo che gli scrittori si apprezzino a vicenda. Senza fare distinzioni, eh?
Continuava a scrutarmi, come per prepararsi a chiedermi un’altra cosa.
Mentre si tirava su sulla sedia, notai fugacemente il suo modo tutto parigino di accavallare le gambe, come un preludio all’eleganza della sua domanda.
Spasse, che serviva lui stesso da bere di tanto in tanto, ci riempì i bicchieri per la seconda volta.
Chri-Chri disse qualche parola sottovoce, come se parlasse a se stesso. Era una cosa buona, sotto ogni punto di vista, ma, soprattutto, in quanto segnale di intesa. Sperava che anche tra i giovani sarebbe stata interpretata così, come sintomo di disgelo, no? Non era la prima volta che utilizzava quel termine. Poco dopo, quando mi chiese di nuovo se quel viaggio a Mosca poteva essere interpretato come un cambio di passo... in altri termini, se si poteva parlare di... di nuove direttive, quest’ultima parola mi riportò alla mente l’incontro al Comitato centrale.
Direttive? dissi tra me e me. Eh, sapessi, le direttive.
Le intenzioni di Il fiume dorme mi tornavano alla memoria alla rinfusa, come una sorta di emanazione malefica. Stavamo per andare laggiù, in quel sancta sanctorum, per essere addestrati come truppe scelte da mandare al fronte. Saremmo stati la prima linea del realismo socialista, allenati a sopportare qualunque cosa senza mai cedere alla compassione. Fino al giorno in cui le sue leggi non avessero infine prevalso nei quattro angoli del globo.
Sentivo che il secondo bicchiere mi stava salendo alla testa. Una sbornia triste, di cui non riuscivo a identificare l’origine, si allargava dentro di me. Volente o nolente, continuai. In conformità alle direttive. Finché non avessimo messo in ginocchio non solo il decadentismo, ma tutta l’arte mondiale!
Gli occhi di Chri-Chri mi fissavano, spenti.
Si aspettavano il disgelo, ma le direttive ci imponevano tutt’altra cosa: o noi, o loro!
D’un tratto capii da dove arrivava quella sbornia triste. Gli altri si erano riuniti per festeggiare un evento felice, io, invece, avevo appena strangolato il mio primo romanzo.
Il Dottor Pas ci seguiva con il suo sguardo triste, mentre negli occhi stravolti di Chri-Chri vidi sorgere i primi barlumi di terrore.
La prima settimana di settembre prendemmo l’aereo per Mosca. Avevo ventidue anni. Spasse il doppio.
A un certo punto, a metà tragitto, scese la notte. Ero come inebetito. Su quest’aereo ci sono due matti, pensai. Uno della monarchia, l’altro del socialismo. Tutte le domande che mi ero fatto là sotto, a terra, qui nel cielo suonavano in modo diverso. Volevo chiedere: Spasse, ma ti pare normale tutto questo?
L’aereo si mise a traballare. Ripensai alla principessa. Poi più a niente.
Finalmente, le luci di Mosca apparvero in lontananza. Infinite, cariche di mistero quanto si sarebbe potuto immaginare.
A terra, le cose non divennero affatto più comprensibili.
Dopo quella notte movimentata, prendemmo la filovia della linea 3, come ci era stato indicato, in direzione del centro di Mosca, dove si trovava l’Istituto. La statua di Puškin, vista decine di volte in cartolina, ci tranquillizzò: l’Istituto era a pochi passi.
I nuovi arrivati facevano conoscenza. Erano mescolate lì almeno dieci nazionalità, e altrettante lingue. Benché tutto fosse motivo di sorpresa, la maggior parte di noi cercava di dissimulare, e mostrava indifferenza.
Trascorsi i primi giorni, la principale fonte di stupore restava la differenza d’età tra me e Spasse. Rapidamente si seppe che ero il più giovane dei corsi superiori, mentre Spasse era il più anziano. La formula del lituano Mackjavicus, secondo la quale “gli albanesi sono terribili”, circolava come se nulla fosse, senza che le si potesse attribuire un significato preciso.
Ne avrei imparato il senso grazie all’altro studente venuto dai paesi baltici, Jeronim Stulpanz. Per via della traduzione in lettone del nostro poeta Migjeni, era l’unico a sapere un po’ di albanese. Secondo lui, Mackjavicus, che cercava un’intenzione nascosta dietro ogni cosa, dopo essersi spaccato il cervello per giorni era giunto alla conclusione che noi due albanesi, essendo il più vecchio e il più giovane del corso, avremmo tenuto la classe sotto controllo.
Non avevo mai sentito una cosa tanto assurda, e Stulpanz era dello stesso avviso, ma questo non lo stupiva affatto, perché, secondo lui, la maggior parte di quello che diceva Mackjavicus era senza senso.
Nella prima lettera che scrissi al mio compagno rimasto a Tirana, dopo aver evocato le curiosità di Mosca, tra cui, in primo luogo, le bellissime ragazze, dissi che, contrariamente a quanto si sarebbe potuto pensare, i caffè erano così rari che ci si sarebbe sentiti autorizzati a dire che non ce n’erano affatto. Un compagno di corso greco ne aveva scovato uno sull’Arbat, mentre un altro, il Caffè degli Artisti, si trovava in via Gor’kij, non lontano da noi, ma poiché serviva solo tè, di caffè non aveva che il nome.
Quanto agli scrittori “con la d” (come chiamavamo tra noi i decadenti), dovevano essere ancora più rari dei caffè, perché non ne avevo ancora visti, né di loro avevo sentito parlare.
C’era in compenso una pletora di birrerie e di scrittori sorridenti. Il direttore del seminario di poesia si chiamava proprio così, Smeljakov, che significa “sorrisone”. A dire il vero questa frase non la scrissi, perché, pensai, era la prima lettera che mandavo in Albania dall’estero, e non sapevo ancora come dovevano essere le lettere da spedire, per non parlare di quelle da ricevere.
In realtà, le discussioni sugli scrittori decadenti, benché in sordina, erano già iniziate, e precisamente quando ci avevano detto che forse avremmo avuto un corso sulle correnti letterarie del decadentismo.
Alcuni non ci credevano, altri ne sottolineavano l’opportunità, visto che Chruščëv aveva dichiarato che i nostri ragazzi (nashi rebjata) avrebbero dovuto studiare il veleno decadente della letteratura, per rispondere con l’antidoto socialista.
All’inizio di ottobre, come se avessimo presentito l’arrivo del male, scoppiò il caso Pasternak. Avete voluto il decadentismo? Eccolo, ce l’avete in casa.
La maggior parte pensava che le lezioni “con la d” sarebbero state sospese, o almeno rinviate.
Durante l’ora di psicologia della creatività, osservai il profilo di Spasse che, per via del segreto che portava, mi sembrava ancora più nobile.
Un giorno, nell’effervescenza prodotta dall’annuncio del Nobel, Jeronim Stulpanz, scrutandomi in modo insolito, mi chiese se fosse stato proprio Spasse a scrivere il romanzo Perché?, pubblicato negli anni trenta.
Preso alla sprovvista, gli chiesi da chi avesse avuto quell’informazione, e lui, in tono ironico, mi ribatté che per lui non c’era segreto impossibile da smascherare. Non è un segreto, gli dissi, ma da lì a gridarlo ai quattro venti... Chi parla di quattro venti? rispose lui. Aveva solo ritrovato nei suoi appunti che l’autore del primo romanzo decadente della letteratura albanese si chiamava Spasse, e aveva voluto verificare che si trattasse della stessa persona.
Dopo che ci fummo calmati entrambi, gli raccontai i dettagli. Spasse aveva pubblicato il romanzo nel 1935, quando aveva ventun anni. L’opera aveva avuto un grandissimo successo. Dieci anni più tardi, dopo che i comunisti ebbero preso il potere, era stata censurata. Veniva citata solo nelle scuole, come cattivo esempio. Nonostante ciò, continuava a essere molto celebre. Non era raro sentirla menzionare, ad esempio in bocca a quei due ubriaconi che, con le mie stesse orecchie, avevo sentito gridare che era inutile cercare il perché di questa o quest’altra cosa, perché neppure Sterjo Spasse avrebbe saputo trovarlo.
A ogni nuovo dettaglio, Stulpanz faceva esclamazioni di sorpresa, il che mi spingeva a rivelare altre cose, finché non arrivammo alla domanda che, prima di esser formulata nella capitale sovietica, lo era stata a Tirana: com’era possibile che ci avessero mandati a Mosca insieme? Seguita da tutte le altre, comprese quelle rivolte da Chri-Chri durante la serata dagli Spasse.
Stulpanz non nascondeva l’ammirazione, ma gli chiesi di tenere per sé tutto quello che era appena stato detto. Altrimenti, era facile immaginare le conseguenze. Si erano tanto accaniti su Pasternak, quando nel nostro corso c’era ben di peggio.
Per via di Pasternak avevamo creduto che il ciclo di lezioni contro il decadentismo sarebbe stato rinviato. Al contrario, venne anticipato.
Per un po’ non pensammo che al trio malefico Kafka-Joyce-Proust.
A volte mi tornava in mente il titolo del libro di Kokona, trasformato, per via del Nobel, in Da Mosca a Stoccolma.
Nel frattempo, benché Stulpanz mi avesse promesso di non farne parola con nessuno, le voci su Spasse diventavano sempre più insistenti. Non era una questione di interpretazione: cattive influenze, tendenze decadenti ecc. Il suo caso era come tagliato con il coltello, ufficiale, con il bollino di conformità, come si diceva: l’ex primo scrittore decadente d’Albania studiava a Mosca!
Accadeva che Stulpanz, nel bel mezzo di una lezione, cercando il mio sguardo, mi facesse un cenno per indicare Spasse. In piena forma, il nonnino, eh?
Quanto a Spasse, sembrava non notare nulla, o fingeva di non capire...
Venivano a vederlo dalle altre classi. Con sorpresa o emozione, a volte persino timore. Alcuni mostravano apertamente la loro ammirazione. Due ragazzi del primo anno del quinquennio cominciarono a portare i capelli come lui. Mancava solo un’altra delle frasette di Mackjavicus, del tipo: Io l’avevo capito subito che qualcosa non tornava, con quei due. Oppure: Fosse stato per me, li avrei rispediti a casa loro fin dal primo giorno.
Nel frattempo, tutti i “perché” di domanda erano stati proferiti, e così pure i “perché” di risposta, compresa l’ipotesi di una svolta liberare, di quelle che, da parte di Chruščëv, negli ultimi tempi, servivano a imbrogliare il mondo intero.
Con l’arrivo dei primi freddi, comunque, veniva a delinearsi il cuore della faccenda: il vecchio decadente Spasse, in tutta probabilità, era stato mandato a Mosca per essere rieducato. Se le cose stavano così, secondo Stulpanz, il decadentismo che usciva da Spasse entrava, in compenso, dentro di noi.
Parigi, 2000-2002
4 Il titolo di questo romanzo di Spasse (1935), pubblicato durante la monarchia, veniva citato nel periodo comunista come esempio del decadentismo albanese.