martedì 11 maggio 2021

LE MILLE LUCI DI NEW YORK Jay McInerney

 

LE MILLE LUCI DI NEW YORK 

Jay McInerney 

NOTE DI COPERTINA 

«È un romanzo ironico, dallo stile pirotecnico e sofisticato…». Così ha scritto «Panorama» di questo libro che ha rivelato un nuovo, straordinario talento narrativo. Fin dalle prime righe il lettore, coinvolto dall’uso geniale della seconda persona, si sente vicino al protagonista: un giornalista che cerca di dimenticare la bellissima modella che l’ha abbandonato, frequentando i locali «hip» di New York, dove sesso, droga e alcool si consumano con furia disperata. Una scrittura brillante e nervosa, che passa con magistrale abilità dal registro «hard» a quello ironico, al dialogo interiore. Un romanzo che si legge d’un fiato.


JAY MCINERNEY

Ha pubblicato questo romanzo, che è diventato in breve uno dei più acclamati best-sellers d’America, a soli ventinove anni. Per questo il suo nome è stato inevitabilmente accostato a quelli di una serie di giovani scrittori di successo, con i quali egli ritiene però di aver poco o nulla in comune. Rifiuta anche l’etichetta di portavoce degli yuppies che gli è stata appiccicata addosso da una stampa incline alle definizioni sommarie.

Allievo di un grande narratore quale Raymond Carver, Jay Mclnerney ha pubblicato, oltre a questo, un altro romanzo, Ramsom, nel quale racconta le peripezie di un giovane americano espatriato in Giappone.

 


 


SONO LE SEI DEL MATTINO: HAI IDEA DI DOVE SEI?

Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora del mattino. E invece eccoti qua, e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto sconosciuto, anche se i particolari sono confusi. Sei in un nightclub e stai parlando con una ragazza rapata a zero. Il locale è lo Heartbreak oppure il Lizard Lounge. Tutto diventerebbe più chiaro se potessi fare un salto in bagno a sniffare una bella riga di Tiramisu Boliviano. Una vocina dentro di te insiste che questa epidemica mancanza di chiarezza è già il risultato di un eccesso di biancolina. La notte ha ormai girato quell’impercettibile chiavetta con cui si passa dalle due alle sei del mattino. Tu sai benissimo che il momento è arrivato e passato, ma non sei ancora disposto ad ammettere di aver superato il limite oltre il quale tutto è effetto collaterale gratuito e paralisi di terminazioni nervose. A un certo punto avresti potuto decidere di fermarti, ma sei andato oltre su una coda di cometa di polvere bianca, e adesso stai cercando disperatamente di cavalcarla. In questo momento il tuo cervello è uno schieramento di soldatini boliviani. Sono stanchi e infangati per la lunga marcia attraverso la notte. Hanno i buchi nelle scarpe, hanno fame. Hanno bisogno di sostentamento, di un po’ di Tiramisu Nazionale. La scena ha un sapore vagamente tribale – gioielli penduli, pitture facciali, copricapi e pettinature cerimoniali. Hai l’impressione che ci sia anche un tema latino – qualcosa di più che non i piranha che ti guizzano nelle vene e il ronzio lontano delle marimbas nel cervello. Sei appoggiato a un pilastro che potrebbe essere o non essere portante, rispetto all’edificio, ma che è essenziale al mantenimento della posizione eretta che preferiresti non abbandonare. La ragazza calva sta dicendo che questo posto non era male prima che si riempisse di coglioni. Tu non vuoi parlare con questa ragazza calva, e nemmeno ascoltarla, che è quello che stai facendo, ma in questo istante hai l’impressione che non ti convenga mettere alla prova le capacità di eloquio e di locomozione che ti sono rimaste. Come ci sei arrivato, in questo posto? É stato il tuo amico Tad Allagash, a pilotarti qua dentro, e poi è sparito. Tad è proprio il tipo di persona che ci si aspetterebbe di trovare in un posto come questo a quest’ora del mattino. È la parte migliore, o peggiore, di te stesso, non riesci bene a decidere quale. All’inizio della serata non c’erano dubbi: Tad era la parte migliore di te stesso. Avete cominciato su nell’Upper East Side con champagne e prospettive illimitate, in stretta osservanza alla regola Allagash del moto perpetuo: un bicchiere a ogni fermata. La missione di Tad nella vita è di divertirsi più di chiunque altro a New York City, e questo prevede un sacco di spostamenti, dato che esiste sempre la possibilità che il posto in cui non ti trovi sia molto più movimentato di quello in cui ti trovi. Sei affascinato dal suo totale rifiuto di stabilire qualunque meta più ambiziosa che non la pura ricerca del piacere. Vorresti essere come lui. Pensi anche che Tad voli piuttosto basso e sia un attimo pericoloso. I suoi amici sono gente ricca e viziata, come quel cugino di Memphis che ti ha presentato all’inizio della serata e che si è rifiutato di farsi trascinare oltre la Quattordicesima Strada perché, ha detto, non aveva il visto per i bassifondi. Questo cugino aveva una ragazza con un paio di zigomi da svenimento, e tu hai capito subito che era il massimo quando si è fermamente rifiutata di prender atto della tua presenza. Era in possesso di segreti – riguardanti isole, cavalli, sfumature di pronuncia francese — dei quali non saresti mai venuto a conoscenza. Nel corso della notte sei passato dalla puzza sotto il naso alla melma. La ragazza con la testa rapata a zero ha una cicatrice tatuata sullo scalpo. Sembra una lunga ferita suturata. Le dici che è molto realistica. Lei lo prende per un complimento e ti ringrazia. Tu invece volevi dire realistica nel senso di tutto fuorché romantica.

«Mi piacerebbe farmene tatuare una sul cuore,» dici.

«Se vuoi posso darti l’indirizzo del tizio che me l’ha fatta. Si fa pagare pochissimo.»

Tu non le dici che a questo punto nulla può più sorprenderti. La sua voce, per esempio, che è come l’inno del New Jersey suonato con un rasoio elettrico. La ragazza calva è emblematica del problema. Il problema è che, chissà perché, tu pensi sempre che incontrerai il tipo di ragazza che non è il tipo di ragazza che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora del mattino. Quando la incontrerai le dirai che quello che vuoi veramente dalla vita è una casetta con giardino in campagna. New York, i locali notturni, le donne rapate a zero – sei stufo di tutto questo. La tua presenza qui fa semplicemente parte di un esperimento: stai saggiando i tuoi limiti, per ricordarti di quello che non sei. Tu ti vedi come il tipo di uomo che si alza presto la domenica mattina per andare fuori a prendere il Limes e i croissants. Che poi, sfogliando l’inserto «Arte e Divertimenti», decide di andare a vedere una mostra costumi della corte degli Asburgo al Metropolitan, per dirne una, o lacche giapponesi del periodo Muromachi alla Asia Society. Il tipo di uomo che telefona alla donna che ha incontrato a una festa di editoria il venerdì sera una festa alla quale è riuscito a non ridursi a un ammasso rigurgitante alcool. Per vedere se la mostra interessa anche lei, e se magari ha voglia di andar fuori a pranzo, dopo. Il tipo di uomo che non la chiamerebbe mai prima delle undici, questa donna, perché magari non è mattiniera come lui. E forse ha fatto tardi la sera prima, al night. E che magari proporrebbe un paio di partite a tennis, prima della mostra. Si chiede se la ragazza sappia giocare, ma ne è praticamente sicuro. Quando incontrerai la ragazza che non ci si aspetterebbe di vedere eccetera, le dirai che per una volta hai deciso di lasciarti andare, di esplorare il Lower East Side della tua anima così, per sfizio, saltellando agilmente tra i mucchi di spazzatura al gaio ritmo di marimbas che hai nella testa. Be’, no, non «gaio», fa troppo gay. Ma lei capirà esattamente cosa avevi in mente. D’altra parte, praticamente ogni ragazza, purché dotata di normale capigliatura, ti sarebbe d’aiuto nel tenere a bada lo strisciante senso di morte che ti affligge in questo momento. Ti ricordi del Tiramisu Boliviano e ti rendi conto che ne hai assolutamente bisogno. Niente da fare, José. Prima devi seminare la ragazza calva. Nel bagno, gli scompartimenti non hanno la porta, il che rende un po’ difficile comportarsi con discrezione. Ma è subito chiaro che non sei tu l’unico ad aver pensato di rifugiarsi là dentro per fare il pieno. Dagli scompartimenti provengono inequivocabili rumori di sniffate. Le finestre sono oscurate, un particolare che ti riempie di gratitudine. Un due, un due. I soldatini si sono rimessi in piedi. Stanno marciando in formazione. Alcuni stanno ballando, e tu non puoi fare a meno di seguire il loro esempio. Proprio fuori della porta la vedi: alta, bruna, sola, seminascosta da un pilastro sul bordo della pista da ballo. Ti avvicini con una manovra laterale, dimenandoti come un concentrato di negro nello slalom del ritmo sincopato di una conga. Lei trasale, quando la tocchi sulla spalla.

«Balliamo?»

Ti guarda come se avessi suggerito una seduta sadomaso. «Non parlo inglese,» dice, quando ripeti la domanda.

«Français?»

Scuote la testa. Perché ti guarda in quel modo, come se avessi le orbite piene di tarantole?

«Sei boliviana, per caso, o peruviana?»

Ora lei si sta guardando intorno in cerca di aiuto. Tutt’a un tratto ricordi il recente incontro con la guardia del corpo di una giovane ereditiera alla Danceteria – o al Red Parrot e indietreggi di colpo, mani in alto. I soldatini boliviani sono ancora in piedi, ma hanno smesso di cantare la loro marcetta. Ti rendi conto di essere a un punto cruciale. La depressione incombe. Quello di cui hai bisogno è un bel discorsetto di incoraggiamento. Il tuo mentore in questi casi è Tad Allagash, che però è sparito. Cerchi di immaginare cosa ti direbbe se ci fosse. Animo, torna in pista. Il bello deve ancora venire. Qualcosa del genere. All’improvviso ti rendi conto che dev’essersi defilato in compagnia di qualche Miss Sotto-il-vestito-niente. Saranno finiti nel suo appartamento della Quinta Avenue a tirare roba di gran classe. La prendono a cucchiaiate da enormi vasi Ming e se la sniffano di dosso, nudi come vermi. Tad Allagash è un essere odioso. Vai a casa. Il peggio deve ancora venire. Resta qui. Buttati a pesce. Stasera sei una repubblica di voci. Purtroppo, la repubblica è l’Italia. Tutte quelle voci agitano le braccia e si insultano. C’è un messaggio ex cathedra, direttamente dal Vaticano: Pentiti. Il corpo è il tempio del Signore e tu l’hai profanato. Dopotutto è domenica mattina, e finché ti rimarrà una cellula cerebrale intatta, nella tua testa risuonerà una voce patriarcale, echeggiante dalle volte marmoree della tua infanzia religiosa, a ricordarti che questo è il Giorno del Signore. Quello di cui hai bisogno, per zittirla, è un altro bicchiere di qualunque alcoolico a prezzo esorbitante servano in questo locale. Ma un’accurata perquisizione delle tasche porta alla luce un unico biglietto da un dollaro, più monetine varie. Ne hai pagati venti, di dollari, per accedere a questo posto. Ti senti invadere dal panico. Sul bordo della pista da ballo c’è una ragazza che ha l’aria di essere la tua ultima occasione di salvezza su questa terra. Sai di sicuro che se affronterai tutto solo il mattino, senza nemmeno gli occhiali da sole – che hai trascurato di portarti dietro, perché dopotutto chi le mette in programma, queste sceneggiate? – la dura luce del giorno ti tramuterà in carne e ossa. La mortalità ti trafiggerà passando per la retina. Ma eccola lì, coi suoi pantaloni spaccachiappe, coda di cavallo du-du-ah retro tirata sulla spalla, praticamente il meglio che tu possa sperare di raccattare in un posto come questo a quest’ora del mattino. L’equivalente sessuale del fast food. Quando le chiedi di ballare scrolla le spalle e fa di sì con la testa. Ti piace il modo in cui si muove, ti piacciono le ellissi lubrificate dei suoi fianchi e delle sue spalle. Al secondo ballo dice di essere stanca. É sul punto di filarsela quando le chiedi se ha bisogno di un piccolo Tiramisu.

«Hai la roba?» dice lei.

«Stevie Wonder è cieco?» dici tu.

Ti prende subito per un braccio e ti pilota nella toilette delle signore. Un paio di righe e comincia a trovarti affascinante. Anche tu ti senti affascinante. Un altro paio di righe. Questa donna è un aspirapolvere.

«Adoro le droghe,» dice, mentre marciate verso il bar.

«Allora abbiamo qualcosa in comune,» dici tu.

«Hai mai notato che tutte le parole piacevoli cominciano per D? O per L.»

Ci pensi su. Non sai bene dove vuole arrivare. I soldatini boliviani cantano la loro marcetta, ma non riesci a capire le parole.

«Dai, pensaci. Droghe. Delizie. Decadenza.»

«Depravazione,» dici tu, ormai sintonizzato sulla lunghezza d’onda giusta.

«Dexedrina.»

«Dilettevole. Disordinato. Debilitato.»

«Delinquente.»

«Delirio.»

«E per L,» dice lei. «Lussuoso e lussurioso.»

«Languido.»

«Librium.»

«Libidinoso.»

«Cosa vuol dire?»

«Arrapato.»

«Oh,» fa lei, inarcando le sopracciglia e lanciando una lunga occhiata nel vuoto sopra la tua spalla. I suoi occhi hanno un luccichio che ti ricorda con precisione il chiudersi dello sportello smerigliato di una doccia. É chiaro che il gioco è finito, anche se non riesci a capire bene dove hai sbagliato. Probabilmente la ragazza trova insultanti le parole che comiciano per A. Una purista. Sta scrutando la pista da ballo in cerca di un uomo con un vocabolario compatibile. Tu non hai finito, con le parole che le piacciono: detumescenza, per esempio. Distrutto e depresso: lacerato e lunatico. Non che tu abbia paura di perdere questa ragazza che crede che decadenza e Dexedrina siano il tesoro della lingua di re Giacomo e di Re Lear. Ma il contatto della carne, il suono di un’altra voce umana… Sai che là fuori, nella luce arcigna dell’alba, ti aspetta il tuo purgatorio personale, un disperato dormiveglia che è come un incendio nel grasso che ti frigge nel cervello.

La ragazza agita la mano e sparisce nella folla dei ballerini. L’altra ragazza, quella che non ci si aspetterebbe mai di trovare eccetera, non è in vista. Nemmeno Tad Allagash è in vista. I soldatini boliviani si stanno ammutinando. Non riesci a far tacere le loro voci infide.

È peggio di quanto ti aspettassi, uscir fuori nella luce del giorno. Il bagliore è come il rimprovero di una madre. Il marciapiede manda un crudele scintillio. La visibilità è illimitata. I depositi del centro hanno un’aria serena e riposante nella luce obliqua. Passa un taxi e tu ti sbracci per fermarlo, poi ti rendi conto di non avere soldi. Il taxi si ferma.

Ti avvicini e ti affacci al finestrino. «Credo che andrò a piedi, tutto considerato.»

«Coglione.» Si lascia indietro pezzi di copertone.

Ti incammini verso nord, con una mano sugli occhi. I camion rombano su per Hudson Street. Portano i rifornimenti alla città addormentata. Giri verso est. Nella Settima Avenue una vecchia con un alveare di bigodini sulla testa porta a spasso un pastore tedesco. Il cane grufola tra le crepe dell’asfalto, ma quando ti avvicini si irrigidisce in una posa di spaventosa vigilanza. La donna ti guarda come se fossi una creatura appena strisciata fuori dall’oceano lasciandosi dietro una scia di bava e di melma. Un ringhio impaziente, incerto, esce dalla gola del cane. «Buono Pooky,» dice la donna. Il cane fa per muoversi ma lei lo trattiene. Decidi di girare al largo.

In Bleecker Street senti il profumo della panetteria italiana. Ti fermi all’angolo di Bleecker e Cornelia e guardi su alle finestre del quarto piano di un palazzo. Dietro quelle finestre c’è l’appartamento che hai diviso con Amanda appena arrivato a New York. Era piccolo e buio ma a voi piaceva il soffitto mal rappezzato, la vasca da bagno coi piedini ad artiglio, le finestre piene di spifferi. Eravate appena agli inizi. Avevate i soldi per l’affitto, avevate il vostro ristorante preferito in MacDougal dove le cameriere vi conoscevano per nome. Il vino ve lo portavate da casa. Tutte le mattine vi svegliavate al profumo della panetteria al pianoterra. Tu uscivi a comperare il giornale e magari un paio di croissants, mentre Amanda faceva il caffè. Questo succedeva due anni fa, prima che vi sposaste. Lungo la West Side Highway, una puttana solitaria traballa sui tacchi e si tira su la sottana come se nessuno le avesse detto che stamattina i pendolari non si riverseranno in città dal New Jersey attraverso i tunnel. Da vicino, ti accorgi che è un travestito. Passi sotto la struttura arrugginita della vecchia sopraelevata, e ti incammini lungo il molo. La luce dell’est sfiora la vasta superficie dell’Hudson. Guardi bene dove metti i piedi, quando ti avvicini all’estremità del molo in rovina. Non sei sicuro del tuo equilibrio e ci sono buchi attraverso i quali si intravede l’acqua nera, fetida. Ti siedi a guardare il fiume. In fondo, la Statua della Libertà scintilla nella foschia. Sull’altra riva, un’enorme insegna della Colgate ti dà il benvenuto nel New Jersey, lo «stato giardino». Osservi il solenne avanzare di una chiatta della nettezza urbana, avvolta da una nuvola di gabbiani stridenti, diretta in alto mare. Eccoti qua di nuovo. Incasinato di brutto e senza un posto dove andare.

 

 

IL REPARTO VERIFICA DEI FATTI

 

 

Il lunedì arriva puntuale. Le prime dieci ore le passi a dormire. Dio solo sa cos’è successo alla domenica.

Nella stazione della metropolitana aspetti il treno per quindici minuti. Finalmente un convoglio locale, snervato dai graffiti, si trascina dentro la stazione. Ti trovi un posto e inalberi una copia del Post. Il Post è la più vergognosa delle abitudini delle quali sei schiavo. Odi l’idea di finanziare robaccia del genere con i tuoi trenta cents, ma sei un segreto ammiratore di Api Assassine, Eroici Tutori dell’Ordine, Maniaci Sessuali, Vincitori di Lotterie, Delinquenti Giovanili, Liz Taylor, Frugoletti Prodigio, Lunatici, Guardoni, Incubi Viventi, Vita sugli Altri Pianeti, Combustione Spontanea, Diete Miracolose e Madri Comatose. La Madre Comatosa è a pagina due: LA SORELLINA DEL BAMBINO MAI NATO SUPPLICA: SALVATE IL MIO FRATELLINO. C’è la fotografia di una bambina di quattro o cinque anni dall’espressione stupefatta. È la figlia di una donna incinta che, dopo un incidente d’auto, giace in coma da una settimana. La domanda che assilla da giorni interi i lettori del Post è la seguente: vedrà o meno la luce della sala parto il piccolo imprigionato nel ventre della Madre Comatosa?

Il treno ha un fremito e si lancia verso la Quattordicesima Strada, fermandosi due volte nel tunnel per riprender fiato. Stai leggendo del nuovo fidanzato di Liz Taylor quando una mano fuligginosa ti dà un colpetto sulla spalla. Non è necessario che alzi gli occhi per capire che quello che ti sta di fronte è uno dei tanti cittadini che usufruiscono dell’assistenza dei CIM. Tu non hai niente in contrario a elargire un po’ di denaro agli handicappati fisici, ma la gente con gli occhi in teleselezione ti fa venire i brividi.

Al secondo colpetto sulla spalla alzi gli occhi. I vestiti e i capelli dello svitato sono abbastanza puliti, come se solo da poco avesse deciso di uscire dal consorzio civile, ma i suoi occhi sono andati a colazione, e la sua bocca lavora forsennatamente.

«Il mio compleanno,» dice, «è il tredici di gennaio. Compio ventinove anni.» Chissà come il modo in cui ti enuncia questa verità sembra una minaccia di morte a bastonate.

«Stupendo,» dici tu, e torni al tuo giornale.

Quando rialzi gli occhi l’uomo è a metà carrozza, con gli occhi fissi sull’annuncio pubblicitario di una scuola commerciale. Mentre lo guardi, si siede in braccio a una vecchia signora. Lei cerca di scivolar via ma lui non molla.

«Mi scusi, signore, ma mi si è seduto in braccio,» dice la vecchia signora. «Signore, signore. Mi scusi.» Quasi tutti i passeggeri stanno osservando la scena ma fingono di non vederla. L’uomo incrocia le braccia sul petto e si appoggia alla vecchia.

«Signore, la prego, si alzi.»

Non credi ai tuoi occhi. C’è almeno mezza dozzina di uomini giovani e forti, a tiro di sputo. Saresti già intervenuto tu, ma hai pensato di lasciar fare a qualcuno più vicino all’azione. La donna singhiozza piano. Col passare dei minuti diventa sempre più difficile far qualcosa senza richiamare l’attenzione sul fatto di non essere intervenuti prima. Continui a sperare che l’uomo si alzi e lasci in pace la vecchia signora. Li vedi già, i titoli del Post: VECCHINA SCHIACCIATA DA UN PAZZO IN UNA CARROZZA DELLA METROPOLITANA SOTTO GLI OCCHI INDIFFERENTI DEI PASSEGGERI.

«Signore, la prego.»

Ti alzi. Proprio in quel momento, si alza anche l’uomo. Si spazzola la giacca con una mano poi va giù in fondo alla carrozza. Ti senti idiota, là in piedi. La vecchia signora si sta asciugando gli occhi con un Kleenex. Vorresti chiederle se sta bene, ma a questo punto ti sembra un po’ inutile. Torni a sederti.

Sono le undici meno dieci quando arrivi a Times Square.

Esci fuori nella Settima Avenue e sbatti gli occhi. La luce del sole è eccessiva. Ti frughi in tasca in cerca degli occhiali. Giù per la Quarantaduesima Strada, attraverso il quartiere dei culi e delle tette. Ogni giorno lo stesso vecchio ripete la stessa solfa: «Ragazze, ragazze, ragazze – date un’occhiata, date un’occhiata. L’occhiata è gratis, signori. Date un’occhiata, date un’occhiata.» Le parole e il ritmo non cambiano mai. Carla la Perversa, Lola la Perfida, un Sensazionale Spettacolo dal Vivo – ragazze, ragazze, ragazze.

Mentre aspetti al semaforo della Quarantaduesima, scorgi, tra gli annunci dei vecchi nuovissimi spettacoli che strangolano il lampione come rampicanti, un nuovo manifesto con la scritta PERSONA SCOMPARSA. La fotografia è quella di una ragazzina dentuta e sorridente, sui diciotto anni. Leggi: Mary O’Brien McCann; iscritta alla NYU; occhi azzurri, capelli castani, vista per l’ultima volta nelle vicinanze di Washington Square Park; indossa un maglione blu e una camicetta bianca. Ti piange il cuore. Pensi alle persone che le volevano bene, che hanno scritto il manifesto a stampatello e l’hanno attaccato qui e probabilmente non sapranno mai cosa le è successo. Il semaforo è verde.

Ti fermi all’angolo a comperare una pasta e un caffè da portar via. Sono le dieci e cinquantotto. La balla dell’incidente nella metropolitana l’hai già raccontata troppe volte. Potresti dire a Clara che ti sei fermato a dare un’occhiata a Carla la Perversa e sei stato morso dal serpente che si porta al collo.

Nell’atrio provi già il ben noto senso di oppressione al petto, hai la gola secca. Era così anche il lunedì mattina a scuola. Il terrore di non aver finito i compiti – e dove ti saresti seduto, a colazione? Il fatto di cambiar scuola ogni anno non era certo d’aiuto. L’odore stantio di disinfettante nei corridoi e le facce dure degli insegnanti. Il tuo attuale capo, Clara Tillinghast, rassomiglia in un certo qual modo a una tiranna da quarta elementare, a una di quelle maestre fissate con la disciplina, dal volto senza età, che credono fermamente nella natura maligna dei maschietti e nella natura frivola delle femminucce, e che non hanno dubbi sul fatto che insegnare significhi piantare nozioni, come altrettanti chiodi, nel legno nodoso di teste recalcitranti. Ms. Clara Tillinghast, alias la Piovra, dirige il Reparto Verifica dei Fatti come se insegnasse ortografia, e da ultimo tu non sei riuscito a collezionare molte Stelline al Merito. Reggi il posto con i denti guasti. Se la decisione spettasse unicamente alla Piovra, saresti già a spasso da un bel po’, ma la tradizione della rivista è quella di non riconoscere mai i propri errori. Secondo il folklore locale, nessuno è mai stato licenziato: nemmeno il critico teatrale narcolettico che confuse due prime off-Broadway e scrisse un articolo mettendo insieme gli elementi di una saga familiare del Sud e di una farsa ambientata nel Vietnam; nemmeno la premiata plagiaria che copiò un pezzo di cinquemila parole pari pari da un numero di Punch vecchio di vent’anni e lo firmò col proprio nome. Quest’ufficio somiglia parecchio alla Ivy League, dalla quale proviene la maggior parte del personale, o a una di quelle fredde, impenetrabili famiglie del New England che preferiscono veder la pecora nera soffocare tra le mura domestiche piuttosto che lasciarla andare. Tu, comunque, sei un lontano cugino, a andar bene; se ci fosse una filiale dell’azienda di famiglia in qualche lontana colonia infestata dalla malaria ti ci avrebbero già spedito da un pezzo, sans chinino. Le tue trasgressioni sono numerose. Non le ricordi tutte, ma la Piovra ha la lista in uno dei suoi schedari. Ogni tanto la tira fuori e si aggiorna. Clara ha un cervello come una trappola d’acciaio e un cuore come un uovo bollito dodici minuti.

Lucio, il tizio dell’ascensore, ti dà il buongiorno. É nato in Sicilia e fa questo lavoro da diciassette anni. Con un corso di una settimana, sarebbe probabilmente in grado di prendere il tuo posto, così tu potresti passare le giornate ad andare su e giù con l’ascensore. Arrivi al ventinovesimo piano in un baleno. Dici arrivederci a Lucio e ciao a Sally, la telefonista, praticamente l’unica impiegata priva di accento bostoniano. Abita in un quartiere periferico, deve attraversare qualche ponte o qualche tunnel, per venire al lavoro. In generale la gente qui parla come se fosse stata allevata a English Breakfast Tea. Tillinghast ha acquisito le vocali larghe e le consonanti colpo di karaté a Vassar. Ma è originaria del Nevada, e di questo soffre e soffrirà sempre. Gli scrittori, naturalmente, sono diversi – un sacco di forestieri e di inclassificabili, tra loro – ma di solito vanno e vengono dai cubicoli del trentesimo piano a ore strane. Passano manoscritti sotto la porta a notte fonda, e si tuffano dentro qualche ufficio vuoto appena ti adocchiano in fondo al corridoio. C’è un uomo misterioso, lassù – il Fantasma che lavora a un articolo da sette anni.

Gli uffici della redazione occupano due piani. Quelli delle vendite e della pubblicità sono parecchi piani più sotto, a sottolineare la netta separazione tra arte e commercio, in quest’istituzione. Quelli del venticinquesimo piano portano giacca e cravatta, parlano una lingua diversa, e hanno i pavimenti coperti di moquette e le pareti adorne di litografie. É scontato che non bisogna rivolger loro la parola. Quassù invece l’aria è troppo rarefatta per i tappeti, Io stile tra l’altezzoso e lo scalcinato. Una scarpa troppo lucida o una piega di pantaloni troppo stirata destano sospetti, potrebbero significare origine italiana. La pianta dà l’idea di un condominio per talpe-in-carriera: gli uffici sono a dimensione di roditore, i corridoi larghi abbastanza da permettere il passaggio incrociato di due pedoni.

Percorri il linoleum fino al Reparto Verifica dei Fatti. Sull’altro lato del corridoio c’è l’ufficio di Clara, con la porta quasi sempre aperta in modo che chiunque vada o venga dal regno dei fatti non possa sfuggire ai suoi occhi indagatori. Clara è divisa tra il desiderio di privacy, con tutti gli onori, i privilegi eccetera inerenti alla sua posizione, e il desiderio di tener d’occhio il suo regno.

Questa mattina la porta è spalancata e non ti resta che fare il segno della croce e tirare dritto. Lanci un’occhiata furtiva alla scrivania di Clara, senza girarti, mentre entri nel tuo ufficio, e vedi che è vuota. I tuoi colleghi sono tutti al loro posto, tranne Phoebe Hubbard, che è a Woods Hole a fare una ricerca per un servizio in tre puntate sull’allevamento delle aragoste.

«Buongiorno, compagni proletari,» dici, scivolando al tuo posto. Il Reparto Verifica dei Fatti è l’ufficio più grande di tutto il giornale. Se le squadre di giocatori di scacchi avessero degli spogliatoi, sarebbero così. Ci sono sei scrivanie – una delle quali riservata agli scrittori di passaggio – e migliaia di testi di consultazione alle pareti. Ripiani di linoleum grigio, pavimenti di linoleum marrone. Un rigido senso gerarchico traspare dall’assegnazione delle scrivanie: quella più lontana dall’ufficio di Clara e più vicina alle finestre è riservata all’impiegato più anziano, e così via fino alla tua, contro gli scaffali e vicino alla porta – ma in generale l’atmosfera del reparto è improntata a un sano e democratico cameratismo. La fanatica lealtà alla rivista che regna in tutti gli altri uffici è inficiata qui da un senso di lealtà di reparto: noi e loro. Se la rivista esce con un errore, sarà uno di voi, non l’autore dell’articolo, a esser crocifisso. Non licenziato, ma sgridato, forse perfino degradato al rango di fattorino o stenodattilografo.

Rittenhouse, che elimina falsità e avalla fatti da più di quattordici anni, ti saluta con un cenno del capo e un buongiorno. Ha l’aria preoccupata. Questo ti fa pensare che Clara Tillinghast sia venuta a cercarti, e che sia stata ventilata la nozione dell’ultima goccia.

«Si è già vista la Piovra?» chiedi. Lui annuisce e arrossisce giù fino alla cravatta a farfalla. A Rittenhouse non dispiace un tocco di irriverenza, ma non può fare a meno di sentirsi in colpa, dopo.

«É piuttosto turbata,» dice. «O almeno, così mi è sembrato,» aggiunge, dando prova della scrupolosità della sua professione. Quest’uomo ha passato metà della sua vita a leggere i migliori scrittori e giornalisti della sua epoca al solo scopo di dividere i fatti dalle opinioni, senza badare alle ultime, e spulciando i primi con l’aiuto di volumi polverosi, rotoli di microfilm, telefonate intercontinentali, fino a dimostrarne la veracità o provarne l’erroneità. É un investigatore di gran classe, ma la deformazione professionale lo rende prudente nel parlare, come se a guardia della sua laringe ci fosse una feroce Clara Tillinghast, pronta a demolire ogni asserzione azzardata.

Il tuo vicino di scrivania, Yasu Wade, sta rivedendo un articolo di argomento scientifico. Questo è un segno di favore – di solito la Piovra riserva gli articoli di argomento scientifico, la cui verifica è urgente e soddisfacente, per sé. Wade è al telefono. «Okay,» dice, «ora, cosa c’entra il neutrino in tutto questo?» Wade è cresciuto in una serie di basi dell’aviazione militare fino a quando è scappato a Bennington e New York. Il suo accento è meridionale di classe – nasale e con la lisca. Ogni tanto ostenta difficoltà a distinguere la l dalla r, specialmente quando ha occasione di pronunciare espressioni tipo l’«elezione del presidente». Sua madre è giapponese, suo padre un capitano dell’aviazione di Houston. Si sono sposati a Tokyo durante l’occupazione, e Yasu Wade è l’improbabile risultato di quell’unione. Si autodefinisce l’Impareggiabile Giallo. Wade è assolutamente irriverente, ma chissà come riesce a divertire invece che offendere. É il beniamino di Clara, se non si conta Rittenhouse, che si è adattato all’ambiente con tanta naturalezza da diventare invisibile.

«Sei in ritardo, sei in ritardo,» dice Wade riappendendo il ricevitore. «Così non va. I fatti non aspettano nessuno. La mancanza di puntualità è una specie di errore rispetto all’ora del meridiano di Greenwich. In questo momento al meridiano di Greenwich sono le quindici e quindici, il che significa che, considerata l’ora legale, che molti di noi osservano, da queste parti, sono le undici e un quarto. Questo ufficio apre alle dieci del mattino – quindi lo scarto a tuo sfavore è di un’ora e quindici minuti.»

In realtà, le cose sono assai meno formali di quanto vorrebbe far credere Wade: la Piovra ama ribadire le sue prerogative arrivando in ufficio tra le dieci e un quarto e le dieci e mezzo. Se si riesce a essere alla scrivania entro le dieci e mezzo non succede praticamente niente. Chissà come tu riesci a non rispettare questa scadenza improrogabile almeno una volta alla settimana.

«È fuori?» chiedi.

«Non mi esprimerei in questo modo,» dice Wade. «‘Fuori’ può significare anche ‘impazzita’, e come tu ben sai Clara detesta ogni forma di perdita di controllo. Direi piuttosto che è un attimo irritata. Scontenta di te. O meglio, contenta di veder confermata l’opinione che si è fatta di te. Credo che voglia il tuo sangue. Se fossi in te…» Wade lancia un’occhiata alla porta e alza le sopracciglia. «Se fossi in te, mi volterei.»

La Piovra è sulla porta, un buon soggetto per una foto di Walker Evans sulla Depressione. Faccia dura e sospettosa: la guardiana delle aperture, la vestale della Seconda Edizione dello Webster’s Unabridged Dictionary. Ti lancia un’occhiata che frantumerebbe un vetro, poi se ne va. Ha intenzione di farti soffrire un po’.

Tu frughi nella scrivania e tiri fuori uno stick di Vicks inalante. Tenti di scavare un sentiero attraverso la neve indurita che ti blocca le meningi.

«Ancora problemi di sinusite, vedo.» Wade ti lancia un’occhiata significativa. Si vanta di essere anticonformista, ma è troppo schifiltoso per far cose sporche o pericolose. Tu hai il sospetto che il suo orientamento sessuale sia in gran parte teorico. I pettegolezzi scottanti sui culi bollenti sono il suo pane quotidiano. Non fa che parlare di chi va a letto con chi. Non che a te dispiaccia. La settimana scorsa erano David Bowie e il principe Ranieri.

Cerchi di concentrarti su un articolo sulle elezioni francesi. É compito tuo controllare che non ci siano errori di ortografia o di fatti. In questo caso i fatti sono così confusi che ti risucchiano in vaste zone di interpretazione. L’autore, già giornalista gastronomico, spreca gli aggettivi e disdegna i sostantivi. Definisce un anziano ministro «nodoso» e un socialista rampante «leggermente brunito». Cominci a pensare che la Piovra ti abbia dato quell’articolo perché vuol vederti penzolare dalla forca. Sapeva che era un casino. Probabilmente sapeva anche che la «buona conoscenza del francese» sul tuo curriculum era una balla e che sei troppo orgoglioso per ammetterlo, ormai. La verifica dei fatti richiede parecchie telefonate in Francia, e già la settimana scorsa hai fatto una serie di figure del cazzo con i vari je ne comprends pasdiretti a sottosegretari e addetti stampa. Per di più hai le tue buone ragioni per non voler telefonare a Parigi o parlare francese o fare qualunque altra cosa ti ricordi quel maledetto paese. Ragioni che hanno a che fare con tua moglie.

Non c’è modo di riuscire a verificare tutti i fatti di questo articolo, e non ci sono nemmeno modi dignitosi di ammettere il relativo fallimento. Puoi solo sperare che l’autore abbia azzeccato almeno qualcuna delle affermazioni che fa, e che la Piovra non decida di passare le bozze al solito pettine dai denti di rasoio.

Perché mai ti odia? Dopotutto è stata lei ad assumerti.

Quand’è che le cose hanno cominciato ad andar storte? Non è colpa tua se non si è mai sposata. Dopo la tua recente Pearl Harbour matrimoniale, sai benissimo che dormire soli non aiuta certo ad arginare cattivo carattere e condotta eccentrica. Sai le volte che ti è venuta voglia di dirle: Ehi, lo so anch’io come si sta. L’hai pur vista in quel piccolo piano bar dalle parti di Columbus Avenue, col bicchiere stretto in mano ad aspettare che qualcuno le si avvicinasse e le dicesse, ciao bella. Sai le volte che ti è venuta voglia di dirle, mentre ti stava facendo il pelo e il contropelo: Perché non vuoi ammettere di star male? Ma quando hai capito tutto questo era già troppo tardi. Lei voleva la tua pelle.

Forse tutto è cominciato con la storia di John Donleavy. Eri al giornale da poche settimane e Clara si era presa una settimana di vacanza. Donleavy stava scrivendo una recensione per il giornale. Fletteva le sinapsi dopo il secondo premio Pulitzer. Le recensioni di libri erano considerate roba da pivelli, al giornale, e Clara ti aveva affidato la revisione del pezzo. Nella tua innocenza, non solo avevi corretto occasionali errori di citazione; ti eri anche azzardato a suggerire qualche miglioramento nella prosa e a esprimere dubbi riguardo all’interpretazione del libro. Avevi consegnato le bozze e te n’eri andato a casa tutto contento. Chissà cos’era successo al Reparto Collazione; fatto sta che Donleavy aveva ricevuto le tue bozze invece di quelle della redattrice. La redattrice, una giovane donna arrivata fresca fresca dal giornale di Yale, era già agitata per l’improvvisa vicinanza di un genio come Donleavy, e quando aveva capito quello che era successo e aveva letto le tue bozze se l’era fatta sotto. Ti aveva convocato nel suo ufficio e sgridato per la tua presunzione senza precedenti. Alterare la prosa di John Donleavy! Una cosa tremenda. Impensabile. Tu, un mero spulciatore di errori che puzzava ancora di latte. Se avessi frequentato Yale, avresti almeno imparato a stare al mondo. Mentre stava cercando di decidere quale fosse il modo migliore di spiegare a Donleavy come fosse potuta accadere una cosa del genere, l’Autore in persona aveva telefonato per dire che aveva molto apprezzato i suggerimenti e che stava apportando le necessarie correzioni. Quella parte della storia l’avevi saputa dalla centralinista che aveva intercettato la comunicazione. La redattrice non ti aveva mai più rivolto la parola. Al ritorno di Clara, c’era stata un’altra predica, più o meno sullo stesso tono della prima, con l’aggiunta della precisazione che con il tuo comportamento avevi messo in serio imbarazzo lei e l’intero reparto. Quando era uscito il numero del giornale, avevi notato con una certa soddisfazione che i migliori dei tuoi suggerimenti erano stati incorporati nell’articolo. Ma quella era stata la fine dell’atteggiamento affettuoso e materno di Clara.

Bisogna dire, per amor del vero, che da ultimo il tuo comportamento sul lavoro non è stato esattamente ineccepibile. É questione di carattere. Tu ce la metti tutta, ma non riesci proprio a considerare le tue mansioni come qualcosa di indispensabile al trionfo della verità su questa terra. Chi l’aveva messa in giro, quella storia sui cervelli elettronici che avrebbero liberato quelli veri da questo tipo di ingrate fatiche?

In realtà, tu non vuoi essere uno spulciatore di errori. Preferiresti lavorare al Reparto Narrativa. Hai espresso ripetutamente, con la dovuta cautela, questa tua preferenza, ma da anni ormai non si liberano posti al Reparto Narrativa. Gli impiegati del Reparto Verifica dei Fatti hanno la tendenza a guardare dall’alto in basso quelli del Reparto Narrativa, il luogo in cui le parole si travestono da polpa senza la spina dorsale dei fatti. La sensazione generale è che se la narrativa non è morta, perlomeno è superata. Ma tu non hai mai dubbi, quando ti trovi a scegliere tra l’ultimo racconto di Saul Bellow e un articolo sul congresso repubblicano. Tutta la narrativa del giornale passa dal tuo reparto, e, dato che nessun altro la vuole, ti incarichi sempre tu di fare il controllo di routine – assicurarti che se in un racconto ambientato a San Francisco c’è uno psicopatico di nome Phil Doaks, nella guida telefonica della città non ci sia un Phil Doaks al quale possano girare le balle con conseguente richiesta di danni. È il contrario del lavoro di controllo di un normale articolo. Confermare che il racconto non faccia riferimento seppur casualmente in alcun punto a persone esistenti o fatti realmente accaduti. Un lavoro superficiale, che però ti offre l’occasione di leggere qualcosa di decente.

Da principio la Piovra sembrava contenta che tu ti assumessi un’incombenza che nessun altro voleva, ma ora ti accusa di passare troppo tempo sulla narrativa. Sei un ozioso nel regno dei fatti. Nel frattempo, i colleghi del Reparto Narrativa non fanno salti di gioia quando li informi che nella scena di pesca di un racconto l’autore riempie un torrente dell’Oregon di pesci che in quella zona non si sono mai visti. Sei il recalcitrante ambasciatore del paese della pedanteria. «E allora che cazzo si pesca nei torrenti dell’Oregon?» ti chiede il redattore. «Salmoni, per esempio,» dici tu. E vorresti aggiungere: È il mio lavoro – ma non piace nemmeno a me.

Megan Avery si avvicina alla tua scrivania. Prende in mano la cornicetta con il pezzo di stoffa sul quale Wade ha ricamato, in occasione del tuo ultimo compleanno, la seguente frase:

 

I fatti dipendono dal punto di vista

Se non fai attenzione ti portano fuori pista.

TALKING HEADS

 

Quando Wade te l’aveva regalato, ci avevi messo un po’ a decidere se ringraziarlo per il tempo e il lavoro impiegati, o offenderti per l’implicito commento sulle tue carenze professionali. Megan chiede: «Come ti va?» Tu dici che non ti lamenti. «Sicuro?» Megan riesce a far sembrare la sincerità un’alternativa praticabile. È una persona che potrebbe dar lezioni di sanità mentale. Perché non hai mai pensato prima di confidarti con lei? È più vecchia e più saggia. Non sai bene di quanto, più vecchia, sembra senza età. Potresti definirla bella, o attraente, ma è così pratica e sincera che ti riesce difficile considerarla un essere sessuato. È stata sposata, ma sembra la tipica femmina da West Village destinata a stare in piedi da sola e ad aiutare gli amici a superare i ricorrenti disastri. Nutri per lei una grande ammirazione. Non ne conosci molta, di gente dotata di buon senso. Forse potresti far colazione con lei, una volta o l’altra.

«Va bene, davvero,» dici.

«Hai bisogno di una mano per quell’articolo sulla Francia? In questo momento non ho molto lavoro.»

«Credo di riuscire a farcela da solo. Grazie.»

La Piovra appare sulla porta. Ti fa un cenno col capo. «Abbiamo deciso di far uscire quell’articolo sulla Francia nel prossimo numero. Ciò significa che lo voglio sulla mia scrivania oggi, prima che lei vada via. Chiudiamo domani pomeriggio.» Pausa di silenzio. «Ce la farà?»

Hai le stesse probabilità di farcela quante di ricevere una bella doccia fredda all’inferno, e tu sospetti che lei lo sappia benissimo. «Potrei passarlo direttamente al Reparto Collazione ad evitarle il disturbo.»

«Sulla mia scrivania,» dice lei. «Se ha bisogno di aiuto, me lo dica subito.» Tu scuoti la testa. Se dovesse accorgersi dello stato in cui versano attualmente le bozze, saresti fottuto. Non hai seguito la procedura. Hai usato la penna dove avresti dovuto usare la matita, la matita rossa dove avresti dovuto usare quella blu. Ci sono numeri di telefono scarabocchiati ai margini, macchie di caffè sulle colonne. Hai fatto tutte le cose che il «Manuale di Verifica dei Fatti» dice di non fare. Devi cercare di trovare una copia pulita su cui lavorare. La Piovra è fissata con la procedura.

La prospettiva del lavoro che ti aspetta resuscita l’indicibile mal di testa col quale ti sei svegliato. Sei già esausto. Sei stanchissimo. Otto giorni di sonno, e si potrebbe cominciare a ragionare. Una carrettata di Tiramisu, e forse riusciresti a superare indenne questa prova. Ma affrontarla è più di quanto tu possa fare, in questo momento. Dovresti protestare per l’improvviso cambiamento. Perché cazzo nessuno ti ha chiesto prima a che punto era l’articolo? Anche se parlassi perfettamente il francese, ti ci vorrebbero ancora parecchi giorni. Se non avessi paura di far vedere a Clara o al Druido le bozze così come stanno, protesteresti.

Se fossi giapponese, questo sarebbe il momento giusto per un bel seppuku. Stileresti una poesia di addio sulla transitorietà dei fiori di ciliegio e l’effimera durata della giovinezza, avvolgeresti la lama della spada in seta bianca, te la infileresti nella pancia, daresti un bello strattone verso l’alto e addio intestini. E niente gemiti o smorfie, per favore. Sai tutto di quel rituale per via di un articolo sul Giappone che hai dovuto rivedere. Quello che ti manca è la risolutezza del samurai. Tu sei il tipo di persona che si aspetta sempre un miracolo all’ultimo momento. Il territorio di Manhattan non è zona sismica, ma c’è sempre la possibilità di una bella guerra nucleare. Nessun avvenimento di minor portata avrebbe in realtà il potere di rimandare la consegna di quell’articolo.

Qualche minuto dopo mezzogiorno il Druido passa in punta di piedi davanti all’ufficio per andare a colazione. Per caso, in quel momento tu hai gli occhi fissi oltre la porta, nel vuoto, e così cogli il suo sguardo, stupendamente miope. Fa un inchino formale. Il Druido è elusivo; bisogna guardare attentamente, e sapere cosa si cerca, per vederlo. Non hai mai avuto la possibilità di vedere da vicino uno scrivano vittoriano, ma hai l’impressione che gli somiglierebbe molto. Al giornale, il suo caratteriale riserbo è stato elevato a principio. Al quarto posto nella successione dinastica, fa il bello e il cattivo tempo da vent’anni. Cercare di scoprire che cosa pensa è la preoccupazione della totalità del personale. Niente passa nel giornale senza la sua entusiastica approvazione e la sua revisione finale. Non c’è arbitrato e non c’è spiegazione. Il fatto di aver bisogno dell’aiuto di assistenti lo addolora profondamente, ma è invariabilmente gentile. Non esiste nessun comandante in seconda ufficiale, perché questo implicherebbe la possibilità di un cambiamento della guardia, e il Druido non può immaginare il giornale senza se stesso. Il Cremlino deve somigliargli molto. Forse perché il Druido ha il sospetto di essere mortale, la narrativa che tratta con troppa familiarità il tema della morte è bandita, da queste parti; la maggior parte dei riferimenti alla miopia viene doverosamente cancellata. Nessun particolare è troppo minuto per la sua attenzione.

L’unico contatto diretto che hai avuto con il Druido è stato quando ti ha convocato per esprimerti la sua preoccupazione sull’uso che della lingua inglese andava facendo il presidente degli Stati Uniti. Stavi rivedendo un pezzo in cui il presidente metteva in guardia la nazione contro ogni tipo di azione precipitosa. Il Druido aveva l’impressione che l’aggettivo che il presidente aveva cercato invano fosse precipitevole. Ti disse di telefonare alla Casa Bianca per chiedere l’approvazione a quella correzione. Tu chiamasti doverosamente la Casa Bianca e cercasti in ogni modo di spiegare l’importanza di quella distinzione. Passasti parecchie ore in linea. Coloro che credettero che tu stessi facendo sul serio cercarono di non compromettersi. Gli altri ti mandarono a quel paese. Nel frattempo il giornale stava andando in stampa. Il Druido ti chiamò tre volte e ti incoraggiò a non cedere. Alla fine, con gli addetti alla composizione che strillavano per avere le ultime pagine, venne raggiunto una specie di compromesso, all’insaputa del presidente e dei suoi addetti stampa. Mentre la seconda edizione del Webster dava ai due aggettivi significati distinti, la terza edizione, più fresca, li elencava come sinonimi. Il Druido ti chiamò un’ultima volta per spiegarti questo particolare e dare – non senza trepidazione – l’approvazione alla citazione originaria. Il giornale andò in stampa. Il governo proseguì nel suo operato.

All’una esci a mangiare un panino. Megan ti chiede di portarle una Tab. Al pianterreno, semiruoti fuori dalla porta e pensi a come sarebbe bello non dover tornare mai più in ufficio. Pensi anche che sarebbe meraviglioso andare a rintanarsi nel bar più vicino. Il riverbero del marciapiede ti acceca; frughi nella tasca della giacca in cerca degli occhiali. Occhi delicati, spieghi di solito alla gente.

Ti trascini fino alla salumeria e scegli roast-beef con pane integrale e crema d’uovo con pane bianco. L’uomo pelato dietro il banco fischietta allegramente, mentre affetta. «Bello magro oggi il roast-beef,» dice. «E adesso un velo di senape – proprio come lo preparava mamma.»

«Cosa ne sa, lei,» dici tu.

«Facevo solo per dire, amico,» fa lui, avvolgendo il panino. Quello scambio di battute, le carni morte sul ghiaccio dietro il vetro, tutto contribuisce a farti passare la fame.

Fuori, mentre aspetti a un semaforo, vieni interpellato da un tizio appoggiato a un muretto.

«Ehi tu, da’ un po’ un’occhiata qui. Autentici orologi Cartier. Quaranta dollari. Compera l’orologio che non si ferma mai ma fa fermare la gente. Un autentico Cartier. Per soli quaranta dollari.»

L’uomo è ritto accanto al torace di un manichino con le braccia coperte di orologi. Te ne porge uno. «Avanti, da’ un’occhiata». Se lo prendi, ti sentirai obbligato a comperarlo. Ma non vuoi essere scortese. Prendi l’orologio e lo esamini attentamente.

«Come faccio a sapere che è autentico?»

«Ma sono domande da fare. C’è scritto Cartier proprio sul quadrante, no? Basta guardarlo e toccarlo, no? Un autentico orologio. Per quaranta dollari. Cos’hai da perdere?»

Sembra proprio autentico. Elegante, quadrante rettangolare, numeri romani, rotellina con lo zaffiro. Il cinturino sembra vero cuoio. Ma se è autentico, probabilmente scotta. E se non scotta, non può essere autentico.

«Te lo lascio a trentacinque. Ci perdo».

«Com’è che costa così poco?»

«Non ho spese fisse.»

Non possiedi un orologio da anni. Sapere che ora è in qualunque momento della giornata potrebbe costituire un passo avanti verso l’organizzazione del flusso disordinato della tua esistenza. Non sei mai stato capace di vederti come un tipo da orologio digitale. Ma un bel Cartier potrebbe farti comodo, per far scena. Sembra autentico, anche se non lo è, e segna l’ora. Che cazzo.

«Trenta dollari,» dice l’uomo.

«Va bene. Lo compero.»

«Per questa cifra non lo comperi, lo rubi.»

Carichi il tuo orologio nuovo e lo ammiri, al polso. L’1.25.

Quando arrivi in ufficio ti rendi conto di aver dimenticato la Tab di Megan. Ti scusi e dici che torni giù a prenderla. Lei dice di lasciar perdere. Mentre eri fuori ha preso due messaggi, uno di Monsieur Chissachi del Ministero di Chissachecosa, e uno di tuo fratello Michael. Tu non hai nessuna voglia di parlare né con l’uno né con l’altro.

Alle due ti rendi conto che a Parigi sono le otto e tutti sono già andati a casa. Per il resto del pomeriggio dovrai cercare di tappare i buchi con i testi di consultazione e una serie di telefonate al consolato francese di New York. Le tue palpebre sembrano tenute aperte dagli aghi dell’imbalsamatore. Vai avanti a testa bassa.

L’orologio nuovo si ferma alle tre e quindici. Lo scuoti, poi lo carichi. Ti resta in mano la rotellina.

Il curatore dell’articolo ti chiama per chiederti come va. Tu dici che va. Lui si scusa per la richiesta di anticipare la consegna; dice che voleva tenerlo per il mese prossimo o anche quello dopo. Senza un motivo preciso, il Druido ha deciso di pubblicarlo subito. «Volevo solo metterti in guardia,» dice. «Non dare niente per scontato.»

«É il mio mestiere,» rispondi tu.

«Voglio dire, specialmente in questo caso. L’autore non si muove da Parigi da dodici anni e passa la vita nei ristoranti. Non controlla mai niente.»

Anche Gesù pianse.

Due volte nel corso del pomeriggio telefoni all’autore per chiedergli dove ha raccolto il materiale. La prima volta gli elenchi una serie di errori e lui li ammette tutti, allegramente.

«Dove l’hai pescata questa notizia del governo francese che possiede una grossa quota della Paramount Pictures?» gli chiedi.

«Perché? Non è vero? Oh, merda. Cancella la frase.»

«Dovrei cancellare anche i tre paragrafi seguenti.»

«Cazzo. Chi me l’ha raccontata, questa storia?»

Alla fine della seconda telefonata l’autore comincia a dar segni di irritazione, come se fossero opera tua, tutti quegli errori. Gli scrittori sono tutti così: più dipendono da te, più ti odiano.

Nel tardo pomeriggio arriva un avviso indirizzato al «personale». È firmato dall’assistente del Druido, il che significa che va preso per Vangelo.

Siamo venuti a sapere che un certo Mr. Richard Fox sta scrivendo un articolo sulla nostra rivista. Può darsi che alcuni di voi siano già stati avvicinati da Mr. Fox. Abbiamo ragione di credere che le intenzioni di questo giornalista non coincidano con l’interesse della rivista. Desideriamo ricordare a tutto il personale qual è la politica della rivista riguardo ai contatti con la stampa. Ogni richiesta di intervista deve essere riferita a questo ufficio. In nessun caso un membro del personale dovrà parlare a nome della rivista senza previa approvazione di questo ufficio. Vi ricordiamo che ogni questione riguardante la rivista è strettamente riservata.

L’avviso è occasione di divertimento all’interno del Reparto Verifica dei Fatti. La rivista è stata coinvolta in parecchi processi riguardanti la libertà di stampa, ma in questo ordine da barzelletta non c’è ombra di ironia.

Wade dice: «Vorrei che Richard Fox mi telefonasse.»

Megan dice: «Non c’è pericolo, Yasu. So per certo che Richard Fox è etero.»

«Per certo? Mi interesserebbe molto sapere quale procedura hai usato per verificarlo.»

«Lo so, che ti piacerebbe,» fa Megan.

«Comunque,» continua Wade, «volevo semplicemente dire che sarei proprio curioso di sapere quante monete d’argento vale una bracciata della biancheria sporca del giornale. Ma non fraintendermi – non è che Richard Fox non mi piaccia.»

Rittenhouse si sta tormentando gli occhiali, per far capire che vorrebbe parlare. «Io, per esempio, sono del parere che Richard Fox non sia un giornalista obbiettivo. Ha una certa propensione al sensazionalismo.»

«Ma certo,» dice Wade. «Ecco perché ci piace tanto.»

La coscienza di essere in possesso di informazioni pericolose suscita una breve sensazione di potere all’interno del Reparto Verifica dei Fatti. Vorresti che Richard Fox o chiunque altro nutrisse sufficiente interesse per Clara Tillinghast da assassinarla sulla carta.

Alle sette l’ufficio è deserto. Se ne sono andati tutti. Ti hanno offerto aiuto, ma tu l’hai rifiutato con un leggero cenno della mano. C’è una specie di nobiltà, nell’andare al patibolo tutto solo.

Clara infila la testa nella porta, prima di andarsene. «Sulla mia scrivania,» dice.

Col cazzo, pensi tu.

Fai di sì con la testa e, per dimostrare la tua buona volontà, la rituffi subito sulle bozze. Da questo momento in poi si tratta solo di far perdere le tue tracce, cancellando con una riga tutto quello che non sei stato in grado di controllare e sperando che non si tratti di cose importanti.

Alle sette e mezzo telefona Allagash. «Che cosa fai ancora in ufficio?» dice. «Abbiamo un programmino eccezionale per la serata. Eventi meravigliosi ci attendono.»

Due delle cose che ti piacciono, di Allagash, sono che non ti chiede mai come stai, e che non aspetta mai una risposta alle sue domande. Una volta questo modo di fare ti infastidiva, ma quando le notizie sono pessime è un bel sollievo che qualcuno non voglia saperle. In questo momento tu vuoi rimanere alla superficie delle cose, e Tad è un divo del pattinaggio artistico che non prende mai in considerazione la possibilità dell’esistenza di squali sotto il ghiaccio. Hai degli amici che ti vogliono davvero bene e che parlano il linguaggio della coscienza. Da un po’ di tempo a questa parte fai di tutto per evitarli. La tua anima è nelle stesse pietose condizioni del tuo appartamento, e non vuoi invitare nessuno a entrare prima di aver dato una bella ripulita.

Allagash ti dice che Natalie e Inge stanno morendo dalla voglia di conoscerti. Il padre di Natalie dirige un’industria petrolifera e Inge farà presto uno spot pubblicitario molto importante in televisione. Non solo, i Deconstructionists suonano al Ritz, un’agenzia di fotomodelle sponsorizza una festa a beneficio della distrofia muscolare al Magique, e Natalie è riuscita a mettere le mani su un bel po’ del Prodotto Nazionale Lordo della Bolivia.

«Devo lavorare tutta la sera,» dici tu. In realtà hai intenzione di smettere il più presto possibile, ma una nottata alla Allagash non è esattamente quello che ti ci vuole per farti passare la depressione. Stai pensando al letto. Sei così stanco che potresti stenderti lì, sul linoleum, e scivolare in un lungo coma.

«Dammi tempo. Passo a prenderti,» dice Tad.

La frase «sforzo estremo» ti balza all’occhio dalla colonna stampata. Ti fa sentire un verme. Pensi ai greci alle Termopili, ai texani di Alamo, a John Paul Jones nella sua bagnarola che faceva acqua da tutte le parti. Vorresti partire lancia in resta e debellare ogni falsità ed errore.

Dici a Tad che lo richiamerai di lì a mezz’ora. Dopo un po’ il telefono ricomincia a squillare e tu lo ignori.

Qualche minuto dopo le dieci metti le bozze sulla scrivania di Clara. Sarebbe già un bel sollievo se potessi dire a te stesso di aver fatto un buon lavoro. Ti senti come uno studente che ha appena consegnato un tema per metà copiato e per metà senza senso, e per di più lasciato a metà. Hai scovato e sistemato una bella quantità di errori colossali, il che serve soltanto a renderti ancora più conscio della natura sospetta di tutto quello che non hai controllato. L’autore contava sul Reparto Verifica per conferire autorità alle sue subdole osservazioni e alle sue insidiose generalizzazioni. Non è leale da parte sua, ma d’altro canto aiutarlo è il tuo mestiere, e sei tu che rischi il posto. Nella storia della rivista c’è stato un solo caso di pubblica ritrattazione, e il responsabile dell’errore è stato immediatamente mandato al confino nel Reparto Pubblicità. La tua unica speranza è che la Piovra non legga le bozze. Forse un incendio di origine sconosciuta devasterà gli uffici. Oppure può darsi che Clara stasera faccia il pieno, cada dallo sgabello del bar e si spacchi la testa. Oppure potrebbe farsi raccattare da un Maniaco Sessuale. Qualunque lettore del Post ti direbbe che è possibile. Sono cose che succedono tutti i giorni.

C’era un cartone animato che guardavi sempre alla televisione, o almeno così credi di ricordare, con una tartaruga che viaggiava nel tempo e un mago buono. La tartaruga tornava, diciamo, ai tempi della Rivoluzione francese, e inevitabilmente si ficcava nei guai fino al collo. All’ultimo momento, proprio mentre era lì con la testa sotto la ghigliottina, strillava: «Aiuto, signor mago!» E il mago, all’altra estremità della deformazione temporale, agitava la bacchetta magica e salvava la disgraziata tartaruga.

Mentre scendi giù per gli stretti corridoi e passi davanti a tutte quelle porte chiuse provi già una vaga sensazione di nostalgia. Ricordi cos’avevi sentito facendo lo stesso percorso per andare al primo colloquio, ricordi che l’aria leggermente trasandata dei corridoi non aveva fatto che aumentare la tua apprensione. Avevi pensato a tutti quelli che si erano fatti un nome lì dentro. Avevi pensato a te stesso in terza persona: Arrivò al primo colloquio in giacca blu. Venne esaminato per un posto nel Reparto Verifica dei Fatti, un lavoro che con ogni probabilità perfino a quei tempi doveva sembrare particolarmente inadatto a un temperamento così esuberante. Ma non avrebbe languito a lungo tra i fatti.

Ora ti sembra che perfino quei primi mesi fossero pieni di promesse. Eri convinto dell’importanza del tuo lavoro e dell’inevitabilità di una tua rapida ascesa. Avevi conosciuto persone che ammiravi da un’intera vita. Ti eri sposato. Perfino il Druido ti aveva mandato un biglietto di auguri. Era solo questione di tempo, prima che i responsabili si rendessero conto che il tuo era un talento sprecato, in mezzo ai Fatti.

Qualcosa cambiò. A un certo punto smettesti di accelerare.

Mrs. Bender, la responsabile di grammatica e sintassi, sta ancora lavorando. Le auguri la buonanotte. Lei ti chiede dell’articolo francese e tu dici che hai finito di sistemarlo.

«Che casino,» dice lei. «Sembra tradotto letteralmente dal cinese. Questi stronzi di scrittori pretendono che facciamo noi tutto il lavoro.»

Tu annuisci e sorridi. La sua lamentela è una ventata d’aria fresca, è uno scroscio di pioggia alla fine di una giornata afosa. Indugi nel vano della porta mentre lei scuote la testa e fa schioccare la lingua.

«Vai a casa presto?» dici tu.

«Mai abbastanza presto.»

«Vuoi che vada giù a prenderti qualcosa da mangiare?»

Lei scuote la testa. «Non voglio aver l’impressione di ‘vivere’, in questo posto.»

«Ci vediamo domani.»

Lei fa di sì con la testa e torna alle sue bozze.

Tu vai all’ascensore e premi il bottone di Discesa.