lunedì 24 maggio 2021

LA SOCIETÀ SENZA DOLORE Byung-Chul Han

 

LA SOCIETÀ SENZA DOLORE 
Byung-Chul Han

Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite

Di tutte le altre sensazioni del corpo solo il dolore rappresenta per l’uomo una sorta di inesauribile corso d’acqua che conduce al mare. Il piacere si presenta ovunque l’uomo si sforzi di dargli un seguito, è come un vicolo cieco.

WALTER BENJAMINPiacere e dolore

 

Algofobia

«Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei!»1 Questo motto di Ernst Jünger è applicabile alla società nel suo complesso. Il nostro rapporto col dolore (Schmerz) rivela in quale società viviamo. Le sofferenze sono cifre di un codice: contengono la chiave per comprendere ogni società. Quindi chiunque voglia criticare la società deve effettuare un’ermeneutica del dolore. Se le sofferenze vengono lasciate solo alla medicina, ci sfugge il loro carattere di segni.

Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore. Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d’amore sono diventate sospette. L’algofobia si estende nell’ambito sociale. Ai conflitti e alle controversie che potrebbero condurre a confronti dolorosi viene riservato uno spazio sempre minore. L’algofobia interessa anche la politica. Aumentano la spinta al conformismo e la pressione del consenso. La politica s’installa in un’area palliativa e smarrisce qualsiasi vitalità. La «mancanza di alternative» è un analgesico politico. Il «centro» diffuso sortisce un effetto palliativo. Invece di discutere, di lottare per argomenti migliori, ci si abbandona alle imposizioni del sistema. Si fa cosí strada una post-democrazia. Una democrazia palliativa. Motivo per cui Chantal Mouffe chiede una «politica agonistica» che non scansi i confronti dolorosi2. La politica palliativamanca di visione e non sa realizzare riforme incisive, che potrebbero far male. Preferisce ricorrere ad analgesici di breve efficacia che si limitano a velare disfunzioni e fallimenti sistemici. La politica palliativa non ha il coraggio del dolore. Quindi perpetua l’Uguale.

Nell’odierna algofobia è insito un cambio di paradigma. Noi viviamo in una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo. Il dolore è la negatività per antonomasia. Anche la psicologia segue questo cambio di paradigma e passa dalla psicologia negativa intesa come «psicologia della sofferenza» alla «psicologia positiva» che si occupa del benessere, della felicità e dell’ottimismo3. I pensieri negativi vanno evitati e immediatamente sostituiti da pensieri positivi. La psicologia positiva subordina persino il dolore a una logica della prestazione. L’ideologia neoliberista della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori di un aumento della prestazione. Si parla addirittura di crescita post-traumatica4. L’allenamento della resilienza in quanto palestra dell’anima ha il compito di modellare l’essere umano nella forma di un soggetto di prestazione il piú possibile estraneo al dolore, e sempre felice.

La felicità quale missione della psicologia positiva è strettamente legata alla promessa di un’oasi permanente di benessere ottenibile per via medica. La crisi statunitense degli oppioidi possiede un carattere paradigmatico. Non è in gioco solo l’avidità di una casa farmaceutica. In essa è insito, piú che altro, un assunto fatale circa l’esistenza umana. Solo un’ideologia del benessere permanente può far sí che farmaci originariamente utilizzati nella medicina palliativa vengano impiegati in grande stile anche su persone sane. Non a caso, già alcuni decenni orsono lo studioso del dolore David B. Morris osservava: «Gli americani di oggi appartengono probabilmente alla prima generazione sulla Terra che considera un’esistenza priva di dolore come una sorta di diritto costituzionale. Le sofferenze sono uno scandalo»5.

La società palliativa coincide con la società della prestazione. Il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione. Esso non è compatibile con la performance. La passività della sofferenza non ha alcun posto nella società attiva dominata dal poter fare. Oggi il dolore viene privato di qualsiasi possibilità di espressione: viene condannato a tacere. La società palliativa non permette di animare, verbalizzare il dolore facendone una passione.

La società palliativa è inoltre una società del mi piace, che cade vittima della mania di voler piacere. Ogni cosa viene lucidata finché non suscita approvazione. Il like è l’emblema, il vero e proprio analgesico della contemporaneità. Non domina solo i social media, ma anche tutti gli ambiti della cultura. Nulla deve piú far male. Non solo l’arte, ma anche la vita stessa dev’essere instagrammabile, ovvero priva di angoli e spigoli, di conflitti e contraddizioni che potrebbero provocare dolore. Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico. Alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi. Per cui si soffoca tra le scorie della positività che vanno accumulandosi sotto la superficie della cultura della compiacenza.

In un articolo centrato sulle aste di arte moderna e contemporanea si legge:

Che siano Monet o Koons, le amatissime figure stese di Modigliani, le donne di Picasso o le sublimi campiture di colore di Rothko, persino i trofei pseudo-leonardeschi iper-restaurati della fascia di prezzo piú alta devono in tutta evidenza essere riconducibili al primo sguardo a un artista (maschio), e compiacere fino alla banalità. Pian piano, almeno un’artista donna si sta unendo a questa cerchia: Louise Bourgeois ha infatti stabilito un nuovo record nell’ambito delle sculture di grandi dimensioni. 32 milioni per Spider, anni Novanta. Ma persino i ragni giganti sono piú mostruosamente decorativi che minacciosi6.

Nel caso di Ai Weiwei, la morale stessa viene impacchettata in modo da spingere al like. Morale e compiacenza si fondono in una simbiosi ben riuscita. La dissidenza si riduce a design. Jeff Koons mette invece in scena un’arte amorale, ostentatamente decorativa, del mi piace. L’unica reazione sensata dinanzi alla sua arte è, come ha sottolineato lui stesso, «Wow»7.

Oggi l’arte viene costretta con tutte le forze nel corsetto del mi piace. Tale anestesia dell’arte non si ferma nemmeno davanti agli antichi maestri, costretti in un cortocircuito con la moda.

La mostra di ritratti scelti era accompagnata da un video che dimostrava quanto gli attuali vestiti d’alta moda siano in armonia cromatica con dipinti storici quali quelli di Lucas Cranach il Vecchio o Peter Paul Rubens. E ovviamente si sottolineava l’idea che i ritratti storici siano i precursori degli odierni selfie8.

La cultura della compiacenza ha svariate origini. Rimanda prima di tutto all’economicizzazione e alla mercificazione della cultura. I prodotti culturali finiscono in maniera sempre piú pronunciata sotto l’influsso della coazione al consumo. Devono assumere una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti. Tale economicizzazione della cultura collima con la culturalizzazione dell’economia. I beni di consumo vengono dotati di un valore aggiunto culturale. Promettono esperienze culturali, estetiche. Per cui il design diventa piú importante del valore d’uso. L’ambito del consumo invade quello artistico. I beni di consumo si presentano come opere d’arte. In tal modo l’ambito artistico e quello di consumo si mischiano, con la conseguenza che ora l’arte serve a sua volta l’estetica del consumo. Diventa compiacente. L’economicizzazione della cultura e la culturalizzazione dell’economia si rafforzano a vicenda. Si abbatte cosí la separazione tra cultura e commercio, tra arte e consumo, tra arte e pubblicità. Gli stessi artisti vengono messi sotto pressione affinché s’impongano come marchi. Diventano conformi al mercato, compiacenti. La culturalizzazione dell’economia riguarda anche la produzione. La produzione post-industriale, immateriale, s’impossessa delle modalità della pratica artistica. Dev’essere creativa. La creatività come strategia economica consente però solo delle variazioni dell’Uguale. Non ha accesso al completamente Altro. Le manca la negatività della rottura, che fa male. Dolore e commercio si escludono a vicenda.

Finché l’ambito artistico, nettamente separato da quello del consumo, seguiva una propria logica, non ci si attendeva alcuna compiacenza. Gli artisti si tenevano alla larga dal commercio. Il motto di Adorno, secondo cui l’arte è «estraneità al mondo»9, aveva ancora validità. Ne segue che l’arte che fa star bene è una contraddizione in termini. L’arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper far male. È da qualche altra parte. È a casa nell’estraneo. È proprio l’estraneità a caratterizzare l’aura dell’opera d’arte. Il dolore è lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente Altro. È proprio la negatività del completamente Altro a mettere l’arte in condizione di offrire una narrazione antagonistica rispetto all’ordine vigente. La compiacenza, invece, perpetua l’Uguale.

La pelle d’oca è, a detta di Adorno, la «prima immagine estetica»10. Porta in primo piano l’irruzione dell’Altro. La coscienza che non riesce a rabbrividire è reificata. È incapace di fare esperienza, poiché questa, «nella sua essenza, è il dolore in cui l’alterità essenziale dell’ente si svela rispetto a ciò che è abituale»11. Anche la vita che rifiuta qualsiasi dolore è reificata. Solo «l’essere toccato dall’altro»12 mantiene viva la vita. Altrimenti essa resta prigioniera nell’inferno dell’Uguale.

1. E. Jünger, Sul dolore, in Foglie e pietre, trad. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, p. 139.

2. C. Mouffe, Agonistik. Die Welt politisch denken, Suhrkamp, Berlin 2014.

3. B. Ehrenreich, Smile or Die. Wie die Ideologie des positiven Denkens die Welt verdummt, Kunstmann, München 2010.

4. E. Illouz e E. Cabanas, Das Glücksdiktat. Und wie es unser Leben beherrscht, Suhrkamp, Berlin 2019.

5. D.B. Morris, The Culture of Pain, University of California Press, Berkeley 1991, p. 71 [trad. ted. Geschichte des Schmerzes, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1996, qui p. 103].

6. M. Woeller, Gefälligkeiten machen sich bezahlt, in «Die Welt», 18 maggio 2019.

7. B.C. Han, La salvezza del bello, trad. di V. Tamaro, nottetempo, Milano 2019.

8. A. Mania, Alles wird Pop, in «Süddeutsche Zeitung», 8-9 febbraio 2020, https://www.sueddeutsche.de/kultur/pr-strategien-der-auktionshaeuser-alles-wird-pop-1.4788865.

9. T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, trad. di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1977, p. 308.

10Ibid., p. 553.

11. M. Heidegger, Parmenide, a cura di F. Volpi, trad. di G. Gurisatti, Milano, Adelphi 1999, p. 292.

12. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 553.


Coazione alla felicità

Il dolore è un complesso costrutto sociale. La sua presenza e il suo impatto sulla società dipendono anche dalle forme di dominio. La società premoderna dei martiri mantiene una relazione molto intima col dolore. I suoi sogni di potere sono letteralmente pervasi da grida di dolore. Il dolore funge da strumento di dominio. La festa cupa, l’orrido rituale del martirio, le sontuose messinscene del dolore stabilizzano la società. I corpi martoriati sono insegne del potere.

Nel passaggio dalla società dei martiri a quella disciplinare cambia anche il rapporto col dolore. In Sorvegliare e punire, Foucault sottolinea come la società disciplinare impieghi il dolore in una forma discreta. Esso viene subordinato a un calcolo disciplinare.

Punizioni meno immediatamente fisiche, una certa discrezione nell’arte di far soffrire, un gioco di dolori piú sottili, piú felpati, spogliati del loro fasto visibile […]: in pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale1.

I corpi martoriati non sono piú adatti alla società disciplinare orientata alla produzione industriale. Il potere disciplinare fabbrica, quali mezzi di produzione, corpi inclini ad apprendere. Anche il dolore viene integrato nella tecnica disciplinare. Il dominio continua a intrattenere una relazione col dolore. Obblighi e divieti vengono inculcati nel soggetto d’obbedienza mediante il dolore, quindi ancorati nel suo corpo. Nella società disciplinare il dolore ha ancora un ruolo costruttivo. Esso modella l’essere umano quale mezzo di produzione. Non viene però piú messo in mostra, bensí limitato a spazi disciplinari chiusi come le carceri, le caserme, gli istituti, le fabbriche o le scuole.

A ben vedere, la società disciplinare ha un rapporto affermativo col dolore. Come «disciplina», Jünger descrive «la forma attraverso la quale l’uomo mantiene vivo il contatto con il dolore»2. Il «Lavoratore» jüngeriano è proprio una figura disciplinare, che s’indurisce grazie al dolore. La vita eroica, che «cerca continuamente di restare in sintonia con [il dolore]», è volta a «temprare come l’acciaio»3. Il «volto disciplinato» è «chiuso», è un volto «dallo sguardo fisso», mentre il «volto raffinato» di un individuo delicato è «nervoso, mobile, mutevole» nonché «aperto agli influssi e agli stimoli piú diversi»4.

Il dolore rientra giocoforza in un’idea eroica del mondo. In un manifesto futurista di Aldo Palazzeschi intitolato Il controdolore si legge: «Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, piú egli sarà un uomo profondo. Non si può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano»5. Secondo questa visione eroica del mondo, la vita va organizzata in modo che sia sempre «attrezzata» per l’incontro con la sofferenza. Il corpo quale luogo del dolore viene sottomesso a un ordine piú alto: «Tale pratica richiede certo una postazione di comando dall’alto della quale il corpo venga considerato come un avamposto che l’uomo, da grande distanza, è in grado di impiegare e sacrificare in battaglia»6.

Jünger oppone la disciplina eroica alla sensibilità del soggetto borghese il cui corpo non è un avamposto, non è strumento per uno scopo superiore. Il suo corpo fragile è piú che altro un fine in sé: perde cioè quell’orizzonte di significato che consentirebbe di cogliere il senso del dolore.

Il segreto della moderna sensibilità sta nel fatto che essa corrisponde a un mondo in cui il corpo è il valore supremo. Ne risulta allora che il rapporto di questo mondo con il dolore è il rapporto con una potenza che va innanzitutto evitata, perché qui il dolore non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa7.

Nell’epoca post-industriale e post-eroica il corpo non è né un avamposto, né un mezzo di produzione. Il corpo edonistico che si piace e gode di sé senza alcun aggancio con un fine piú alto sviluppa al contrario del corpo disciplinato un atteggiamento di rifiuto nei confronti del dolore, che gli pare del tutto insensato e inutile.

L’odierno soggetto di prestazione si distingue essenzialmente dal soggetto disciplinare. Non è nemmeno un «Lavoratore» nel senso jüngeriano del termine. Nella società della prestazione neoliberista, negatività come gli obblighi, i divieti o le punizioni cedono il passo a positività come la motivazione, l’auto-ottimizzazione o l’autorealizzazione. Gli spazi disciplinari vengono sostituiti da aree di benessere. Il dolore perde qualsiasi appiglio col potere e il dominio. Viene depoliticizzato, diventando una questione medica.

La nuova formula di dominio recita: Sii felice. La positività della contentezza scaccia la negatività del dolore. In forma di capitale emotivo positivo, la felicità deve garantire un’ininterrotta capacità di prestazione. L’auto-motivazione e l’auto-ottimizzazione rendono molto efficiente il dispositivo neoliberista della felicità, in quanto il dominio si fa strada senza grandi fatiche. Il subordinato non è nemmeno consapevole della propria subordinazione. Crede di essere libero. Senza alcuna costrizione esterna, si sfrutta volontariamente credendo di realizzarsi. La libertà non viene oppressa, bensí sfruttata. Il Sii libero crea una costrizione piú disastrosa del Sii obbediente.

Nel regime neoliberista, anche il potere assume una forma positiva. Diventa smart. Al contrario del potere disciplinare repressivo, il potere smart non fa male. Il potere viene del tutto sganciato dal dolore. Si esprime senza alcuna repressione. La sottomissione si compie quale auto-ottimizzazione e auto-realizzazione. Il potere smart opera in chiave seduttiva e permissiva. Spacciandosi per libertà, è piú invisibile del potere disciplinare repressivo. Anche la sorveglianza assume una forma smart. Ci viene costantemente chiesto di comunicare i nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre preferenze, di raccontare la nostra vita. La comunicazione totale e la sorveglianza totale, il denudamento pornografico e la sorveglianza panottica finiscono per collimare. La libertà e la sorveglianza diventano indistinguibili.

Il dispositivo neoliberista della felicità ci distrae dai rapporti di dominio vigenti costringendoci all’introspezione. Fa sí che ognuno si tenga occupato solo con sé stesso, con la propria psiche, invece di indagare criticamente le questioni sociali. La sofferenza, della quale sarebbe responsabile la società, viene privatizzata e psicologizzata. Le condizioni da migliorare non sono sociali, bensí psichiche. Lo slancio verso un’ottimizzazione dell’anima, che in realtà costringe a un adeguamento ai rapporti di dominio, vela i malcostumi sociali. Cosí la psicologia positiva sigilla la fine della rivoluzione. A salire sul palco non sono i rivoluzionari, bensí i trainer motivazionali che impediscono il diffondersi del malumore o anche della rabbia.

Alla vigilia della crisi economica mondiale degli anni Venti, con le loro estreme differenze sociali, molti rappresentanti operai e attivisti radicali denunciarono gli eccessi dei ricchi e la miseria dei poveri. Nel XXI secolo invece, una covata ben diversa e piú numerosa di ideologi ha propagato il contrario, cioè che nella nostra società profondamente ineguale va tutto bene e le cose potrebbero persino migliorare per chiunque voglia darsi da fare. I motivatori e gli altri rappresentanti del pensiero positivo hanno consegnato proprio un bel messaggio a chi si trova a un passo dalla rovina per via del mercato del lavoro in costante tumulto: Accettate ogni «cambiamento», per spaventoso che possa sembrare, e consideratelo una chance8.

Anche l’assoluta volontà di combattere il dolore fa dimenticare come esso sia socialmente mediato. Il dolore rispecchia i fallimenti socioeconomici, che s’inscrivono sia nell’ambito psichico, sia in quello corporeo. Gli analgesici, prescritti in massa, coprono le circostanze sociali che conducono al dolore. L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi critica. Sottrae al dolore il suo carattere oggettivo, sociale. Mediante un’anestesia indotta per via medicamentosa o mediale, la società si rende immune alla critica. Anche i social media e i videogiochi fungono da anestetici. L’anestesia permanente della società impedisce la scoperta e la riflessione, opprime la verità. Scrive Adorno in Dialettica negativa: «Il bisogno di lasciar diventare eloquente il dolore è condizione di ogni verità. Infatti il dolore è oggettività che pesa sul soggetto; ciò che egli sente dentro di sé come il piú soggettivo, come sua espressione, è oggettivamente mediato»9.

Il dispositivo della felicità isola l’essere umano e conduce a una spoliticizzazione e desolidarizzazione della società. Ognuno deve badare alla propria felicità, che diventa quindi una questione privata. Anche la sofferenza viene interpretata come il risultato del proprio fallimento. Cosí, invece della rivoluzione, c’è la depressione. Mentre cerchiamo di sistemare alla meno peggio la nostra anima, perdiamo di vista le questioni legate alla società, il che provoca fratture sociali. Se siamo tormentati da paure e insicurezze, ecco che colpevolizziamo non la società, bensí noi stessi. Il fermento della rivoluzione è però il dolore percepito insieme. Il dispositivo neoliberista della felicità lo soffoca sul nascere. La società palliativa spoliticizza il dolore medicalizzandolo e privatizzandolo. In tal modo si opprime e si rimuove la dimensione sociale del dolore. Non risuona alcuna protesta dai dolori cronici che si lasciano interpretare quali manifestazioni patologiche della società della stanchezza. La stanchezza nella società neoliberista della prestazione è apolitica in quanto rappresenta una stanchezza dell’Io. È sintomo del soggetto di prestazione narcisistico e sfibrato. Essa isola gli esseri umani invece di riunirli in un Noi. Va quindi distinta da quella stanchezza del Noi capace di stimolare una comunità. La stanchezza dell’Io è la migliore profilassi contro la rivoluzione.

Il dispositivo neoliberista della felicità reifica la felicità, che è piú della somma dei sentimenti positivi capaci di garantire una prestazione migliore. Essa si sottrae alla logica dell’ottimizzazione: è caratterizzata dall’indisponibilità. Vi è insito un che di negativo. La vera felicità è possibile solo se infranta. È proprio il dolore a salvaguardare la felicità dalla reificazione. Inoltre, le conferisce una durata. Il dolore regge la felicità. La felicità dolorosa non è un ossimoro. Ogni intensità è dolorosa. La passione unisce il dolore e la felicità. La profonda felicità contiene un attimo di sofferenza. L’infelicità e la felicità sono, secondo Nietzsche, «due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o […] restano piccole insieme»10. Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore. La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore.

L’abbondanza delle specie di dolore si abbatte come un turbine infinito di neve su di un tal uomo, allo stesso modo che su di lui si scaricano i fulmini piú terribili della sofferenza. Soltanto a questa condizione, – essere aperto da tutti i lati e fin nelle piú riposte latebre alla sofferenza, – egli può rimanere aperto alle specie piú raffinate e alte di felicità […]11.

1. M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 10.

2. Jünger, Sul dolore, cit., p. 159.

3Ibid., p. 153.

4Ibid., p. 159.

5. A. Palazzeschi, Il controdolore, Stampa alternativa, Roma 2000, p. 18.

6. Jünger, Sul dolore, cit., p. 152.

7Ibid., p. 153.

8. Ehrenreich, Smile or Die, cit., p. 206.

9. T.W. Adorno, Dialettica negativa, trad. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, p. 18.

10. F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, trad. di F. Masini, in Opere, vol. V, tomo II, Adelphi, Milano 1977, p. 245.

11. F. Nietzsche, Frammenti postumi (1881-1882), trad. di F. Masini e M. Montinari, in Opere, vol. V, tomo I, Adelphi, Milano 1965, p. 432.

Sopravvivere

Il virus è lo specchio della nostra società. Evidenzia in quale società viviamo. Oggi la sopravvivenza assume un valore assoluto, come se fossimo costantemente in guerra. Tutte le energie vitali vengono adoperate per allungare la vita. La società palliativa si rivela una società della sopravvivenza. Dinanzi alla pandemia, ecco che la strenua lotta per la sopravvivenza subisce un inasprimento virale. Il virus fa breccia nella zona di benessere palliativa e la trasforma in una quarantena in cui la vita s’irrigidisce diventando mera sopravvivenza. Piú la vita è sopravvivenza, piú si ha paura della morte. In fin dei conti, l’algofobia è tanatofobia. La pandemia rende di nuovo visibile la morte da noi meticolosamente rimossa e sfrattata. La sovraesposizione mediale della morte ci rende nervosi.

La società della sopravvivenza perde del tutto il senso della buona vita. Anche il godimento viene sacrificato nel nome di una salute elevata a fine in sé. La rigorosità del divieto di fumare dimostra in maniera esemplare l’isteria della sopravvivenza. Anche il godimento deve cedere il passo alla sopravvivenza. L’allungamento della vita a ogni costo avanza a livello globale diventando il valore piú alto, che mette tutti gli altri in secondo piano. Nel nome della sopravvivenza sacrifichiamo volentieri tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. Dinanzi alla pandemia, anche la radicale limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza discussioni. Senza opporre resistenza ci adeguiamo allo stato di eccezione che riduce la vita a nuda vita. Sottoposti allo stato di eccezione virale, ci rinchiudiamo volontariamente in quarantena. La quarantena è una variante virale del campoin cui imperversa la nuda vita1. Il campo di lavoro neoliberista ai tempi della pandemia si chiama home office. Solo l’ideologia della salute e la libertà paradossale dell’autosfruttamento lo distinguono dai campi di lavoro dei regimi dispotici.

Dinanzi alla pandemia, la società della sopravvivenza vieta persino la messa di Pasqua. Anche i sacerdoti si esercitano nel «distanziamento sociale» e indossano la mascherina. Sacrificano del tutto la fede sull’altare della sopravvivenza. In chiave paradossale, l’amore per il prossimo si manifesta come una presa di distanza. Il prossimo è un potenziale infetto. La virologia esautora la teologia. Tutti prestano ascolto ai virologi, che acquistano un’autorità interpretativa assoluta. Il racconto della resurrezione cede il passo in tutto e per tutto all’ideologia della salute e della sopravvivenza. Dinanzi al virus, la fede si riduce a una farsa. Viene sostituita dalle terapie intensive e dagli apparecchi per la respirazione artificiale. Ogni giorno c’è la conta dei morti. La morte domina la vita, la svuota facendola diventare sopravvivenza.

L’isteria della sopravvivenza rende la vita radicalmente effimera. La vita viene ridotta a un processo biologico che va ottimizzato. Perde qualsiasi dimensione meta-fisica. L’auto-tracciamento assurge a culto. L’ipocondria digitale, la costante auto-misurazione mediante app per la salute e il fitness, degrada la vita a una funzione. La vita viene spogliata di qualsiasi narrazione capace di generare senso: non è piú ciò che si può raccontare, bensí ciò che si può misurare e conteggiare. La vita diventa nuda, oscena. Nulla promette durata. Impallidiscono anche tutti quei simboli, quelle narrazioni e quei riti in grado di elevare la vita rispetto alla mera sopravvivenza. Le pratiche culturali come il culto degli avi conferiscono vitalità anche ai morti. La vita e la morte si legano mediante uno scambio simbolico. Visto che le pratiche culturali che stabilizzano la vita sono andate del tutto perdute, ora imperversa l’isteria della sopravvivenza. Oggi morire ci risulta particolarmente difficile poiché non è piú possibile concludere la vita in maniera sensata. Viene terminata al momento meno opportuno. Chi non riesce a morire al momento giusto è costretto a morire in quello sbagliato. Invecchiamo senza diventare anziani.

Al capitalismo manca la narrazione della buona vita. Esso assolutizza la sopravvivenza. È alimentato dalla fede inconsapevole che piú capitale significhi meno morte. Il capitale viene accumulato contro la morte. In quanto patrimonio, viene immaginato in termini di sopravvivenza2. Malgrado la limitatezza dell’esistenza, il tempo del capitale viene accumulato. Questa pandemia ha inflitto uno shock al capitalismo, ma non l’ha superato. Da essa non emana una narrazione contraria al capitalismo. Non avverrà una rivoluzione virale. La produzione capitalistica non viene decelerata, bensí trattenuta a forza. Imperversa uno stato di sospensione nervosa. La quarantena non conduce all’ozio, bensí all’inoperosità forzata. Non è un luogo dell’indugio. Dinanzi alla pandemia non si dà soltanto la precedenza alla salute rispetto all’economia. L’intera economia della crescita e della prestazione è orientata alla sopravvivenza.

La preoccupazione per la buona vita va contrapposta alla lotta per la sopravvivenza. La società dominata dall’isteria della sopravvivenza è una società di non morti. Siamo troppo vivi per morire e troppo morti per vivere. Nella preoccupazione esclusivamente rivolta alla sopravvivenza noi siamo uguali al virus, questa creatura non morta che si limita a moltiplicarsi, quindi a sopravvivere, senza vivere.

La società palliativa è una società della positività. A caratterizzarla è una permissività illimitataDiversitycommunity o sharing sono le sue parole chiave. L’Altro quale avversarioviene fatto sparire. La circolazione delle informazioni e del capitale, che va accelerata, raggiunge la propria velocità massima là dove non incontra piú la resistenza immunologica dell’Altro. Per cui i valichi vengono livellati, rendendoli agevoli passaggi. I confini vengono eliminati. Le soglie vengono abbattute. La difesa immunologica dell’Altro viene radicalmente abbassata.

La società organizzata in chiave immunologica è circondata, come ai tempi della Guerra fredda, da mura e recinzioni. Lo spazio è costituito da blocchi separati gli uni dagli altri. Le barriere immunologiche rallentano però la circolazione delle merci e del capitale. La massiccia globalizzazione in corso dalla fine della Guerra fredda le abbatte radicalmente quale processo de-immunizzante allo scopo di accelerare il flusso delle merci e del capitale. La negatività dell’avversario, efficace in un quadro immunologico, non appartiene alla costituzione della società neoliberista della prestazione. Qui la guerra la si fa soprattutto con sé stessi. Lo sfruttamento altrui cede il passo all’autosfruttamento.

Ora il virus scatena una crisi immunologica. Fa breccia nella società permissiva ormai immunologicamente molto indebolita e la blocca in uno stato di shock. I confini vengono richiusi in preda al panico. Gli spazi vengono isolati gli uni dagli altri, gli spostamenti e i contatti radicalmente limitati. L’intera società ritorna in modalità di difesa immunologica. Abbiamo a che fare con un ritorno dell’avversario. Ora come ora facciamo la guerra al virus quale nemico invisibile.

La pandemia si comporta come il terrorismo che scaraventa una morte nuda addosso alla nuda vita, generando cosí una potente reazione immunologica. In aeroporto ciascuno di noi viene trattato come un potenziale terrorista. Senza fare resistenza, ci lasciamo sottoporre a umilianti misure di sicurezza. Lasciamo che ci palpeggino il corpo in cerca di armi nascoste. Il virus è terrore dall’aria. Ognuno è potenzialmente sospettato di trasmettere il virus, il che crea una società della quarantena che avrà come conseguenza un regime di sorveglianza biopolitico. La pandemia non lascia spazio ad altri modi di vivere. Nella guerra contro il virus, la vita è piú che mai sopravvivenza. L’isteria della sopravvivenza si acutizza per via virale.

1. G. Agamben, Homo sacer, Quodlibet, Macerata 2018.

2. B.C. Han, Kapitalismus und Todestrieb. Essays und Interviews, Matthes & Seitz, Berlin 2019.

Insensatezza del dolore

Una caratteristica cruciale dell’odierna esperienza del dolore consiste nel fatto che esso venga percepito come privo di senso. Non vi sono piú nessi in grado di fornirci appiglio e orientamento dinanzi al dolore. Abbiamo disimparato l’arte di patire il dolore. L’esclusiva medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore «priva ogni cultura della capacità di integrare con tutto il resto il suo programma per far fronte al dolore»1. Ora il dolore è un male insensato da affrontare armati di analgesici. In forma di mero supplizio corporeo, esso abbandona del tutto l’ordine simbolico.

Monsieur Teste di Paul Valéry incarna il soggetto moderno, borghese e sensibile, che esperisce il dolore come qualcosa d’insensato, uno strazio corporeo. L’intera narrazione cristiana che fungeva da narcotico o stimolante divino l’ha abbandonato per sempre: «Il dolore non ha alcun significato»2. In tal modo Valéry dà voce a un pensiero insopportabile che pesa come la morte di Dio. L’essere umano smarrisce uno spazio protettivo di natura narrativa e con esso anche la possibilità di un dolore simbolicamente attrezzato. Privi di protezione, siamo in balia di un corpo nudo, svuotato di senso e di linguaggio.

Tale frase lapidaria contraddistingue il punto storico conclusivo di un percorso in cui il dolore è stato sganciato dalle sue classiche codificazioni culturali. Il dolore compare per la prima volta come un oggetto resistente al significato […]. La possibilità di formulare una frase del genere ha presupposto […] una possente tabula rasa. Pare che nel XIX secolo i fisiologi e gli anatomisti abbiano definitivamente eliminato la semantica cristiana dal corpo culturale […]. La frase di Valéry è vicina al detto nietzschiano «Dio è morto». Con questa frase, il gelo del cosmo si posa sulle nostre ginocchia3.

Per Monsieur Teste, il dolore non è raccontabile. Distrugge la lingua. Là dove esso comincia, s’interrompe la frase. Solo i puntini di sospensione rimandano alla sua presenza:

Ah! Soffriva.[…] «Che cosa ho?, – disse. – Non molto […] Aspettate […] Conto dei granelli di sabbia e finché li vedo… Il mio dolore che si acutizza esige tutta la mia attenzione. Ci penso! – Attendo solo un mio gemito… e dopo averlo inteso – l’oggetto, il terribile oggetto, diventando piú piccolo, si sottrae alla mia vista interiore…»4

Monsieur Teste tace dinanzi al dolore. Il dolore della lingua lo rapisce, distrugge il suo mondo e lo incapsula in un corpo muto. La mistica cristiana Teresa d’Avila si presta a essere un contraltare di Monsieur Teste. Nel suo caso, il dolore è quanto mai eloquente. Il racconto inizia col dolore. La narrazione cristiana lo rende linguaggio e trasforma anche il corpo di lei in un palcoscenico. Il dolore approfondisce la relazione con Dio. Produce un’intimità, un’intensità. È persino un accadimento erotico. Un erotismo sacro lo converte in lussuria.

Nelle mani dell’angelo apparsomi vidi una lunga freccetta dorata, e sulla punta del metallo mi pare ci fosse un po’ di fuoco. Ebbi la sensazione che egli, con la freccia, mi perforasse piú volte il cuore arrivando fino in fondo, e quando veniva estratta era come se si portasse via anche la parte piú interna del mio cuore. Quando m’abbandonò, m’accese un amore focoso verso Dio. Il dolore di questa ferita era tale da strapparmi i già citati sospiri lamentosi; ma anche la delizia provocata da questo eccezionale dolore era cosí travolgente da rendere impossibile l’idea di volermene privare, e possibile solo un appagamento mediante Dio. È un dolore non corporeo ma spirituale anche se vi partecipa pure il corpo, e in maniera non trascurabile5.

Secondo Freud il dolore è sintomo di un blocco nella storia di una persona. Per via di questo blocco il paziente non è in grado di proseguire con la propria storia. I dolori psicogeni sono espressione di parole sepolte, rimosse. La parola si fa concreta. La terapia consiste nel liberare la persona da questo blocco rendendo di nuovo fluida la sua storia. Il dolore di Monsieur Teste è una «cosa», un «terribile oggetto». Si sottrae a qualsiasi narrazione. Senza passato né futuro, esso persiste nella presenza senza linguaggio del corpo.

Quando fa improvvisamente breccia il dolore, esso non illumina alcun passato, bensí solo le aree corporee presenti. Desta un’eco locale […]. Cosí facendo riduce la coscienza a un breve presente, a un attimo intricato e privo del suo orizzonte futuro […]. Ci troviamo qui alla massima distanza da qualsiasi storia […]6.

Oggi il dolore è reificato al punto da essere mero strazio corporeo. Il fatto che il dolore non abbia alcun significato non si lascia afferrare univocamente come un atto emancipatorio in grado di liberarlo, per esempio, da costrizioni teologiche. L’insensatezza del dolore suggerisce piú che altro che la nostra vita, ridotta a processo biologico, è a propria volta svuotata di senso. La sensatezza del dolore presuppone una narrazione che inserisce la vita in un orizzonte di senso. Il dolore insensato è possibile solo in una vita nuda, spogliata di senso, che non racconta piú.

In Immagini di pensiero, Walter Benjamin fa riferimento a quelle mani terapeutiche i cui movimenti inusuali dànno l’impressione di raccontare una storia. Dai racconti emana un’energia curativa: «Il bambino è malato. La madre lo mette a letto e si siede vicino a lui. E poi comincia a raccontargli delle storie»7. Benjamin è dell’avviso che basti la narrazione confidata dal malato al medico all’inizio del trattamento per avviare il processo di guarigione. Benjamin si chiede se sia possibile guarire ogni malattia, a patto che ci «si lasci trasportare abbastanza lontano – sino alla foce – sul fiume del racconto». Il dolore è una «diga» che si oppone inizialmente al flusso del racconto, tuttavia scavalcata quando la «pendenza diviene abbastanza forte da trascinare nel mare del felice oblio». La mano materna che accarezza il bimbo malato scava un letto per il flusso del racconto. Il dolore non è però una semplice diga che oppone resistenza al fluire del racconto. È il dolore a far ingrossare il corso della narrazione in modo che finisca per portar via il dolore stesso. È il dolore a mettere in moto il racconto. Solo cosí la sofferenza diventa a sua volta un «inesauribile corso d’acqua che conduce [ l’uomo] al mare»8.

Oggi viviamo in un’epoca post-narrativa. Non è il racconto, bensí il conteggio a influenzare la nostra vita. La narrazione è la capacità dello spirito di superare la contingenza del corpo. Quindi l’idea di Benjamin che il racconto possa guarire qualsiasi malattia non è poi cosí assurda. Anche gli sciamani scacciano la malattia e il dolore mediante evocazioni magiche aventi un carattere narrativo. Il corpo acquista potere là dove lo spirito si ritira. Dinanzi alla veemenza del dolore divenuto insensato, allo spirito non resta altro che ammettere la propria impotenza.

La domanda di Teste «Cosa può un uomo?» è una sfida che punta al massimo delle potenzialità umane. Ma c’è anche un minimoda garantire: quando la sensibilità «va oltre qualsiasi risposta», quando «la parte piú furiosa dell’organismo» conquista il predominio, ecco che il «potenziale di sofferenza» scalza le capacità umane. Per superficiale o profonda che sia, Valéry continua a riscoprire la soglia sulla quale il corpo, rimasto solo sul palco, concede allo spirito quel poco d’illuminazione di cui ha bisogno per riconoscere la propria sconfitta9.

Monsieur Teste anticipa l’essere umano ipersensibile della tarda modernità che soffre di dolori insensati. Oggi, la soglia del dolore in corrispondenza della quale lo spirito dichiara la propria impotenza precipita rapidamente. Lo spirito quale potenziale narrativo si disfa da solo. E proprio nell’epoca moderna in cui l’ambiente c’infligge sempre meno dolore, i nostri ricettori del dolore paiono diventare sempre piú sensibili. Si sviluppa un’ipersensibilità. È proprio l’algofobia a renderci sensibilissimi al dolore. Può persino indurre sofferenza. Il corpo disciplinato che deve difendersi da molti dolori provenienti dall’esterno ha una bassa sensibilità. A caratterizzarlo è un’intenzionalità ben diversa. Esso non si occupa di sé stesso, anzi: è proiettato verso l’esterno. La nostra attenzione è invece rivolta in ampia misura verso il nostro corpo. Come Monsieur Teste, auscultiamo ossessivamente l’interno del nostro corpo. Questa introspezione narcisistica e ipocondriaca è con tutta probabilità corresponsabile dell’ipersensibilità.

La favola di Andersen La principessa sul pisello si lascia leggere come una parabola sull’ipersensibilità del soggetto tardo moderno. Un pisello sotto il materasso provoca tali dolori alla futura principessa da farle passare una notte in bianco. Probabile che le persone al giorno d’oggi soffrano della «sindrome della principessa sul pisello»10. Il paradosso di questa sindrome del dolore consiste nel fatto che si soffre sempre di piú a causa di cose sempre piú piccole. Il dolore non è una grandezza constatabile in chiave oggettiva, bensí una percezione soggettiva. Le crescenti aspettative nei confronti della medicina, associate all’insensatezza del dolore, fanno sembrare insopportabili persino i dolori piú insignificanti. Inoltre non disponiamo piú di nessi di senso, narrazioni, istanze superiori o scopi in grado di abbracciare il dolore e renderlo sopportabile. E se il pisello che infligge sofferenza scompare, ecco che le persone iniziano a soffrire a causa dei materassi troppo soffici. È proprio la persistente insensatezza della vita a far male.

1. I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, trad. di D. Barbone, Mondadori, Milano 1977, p. 160.

2. J. Starobinski, Monsieur Teste face à la douleur, in Aa.Vv., Valéry, pour quoi?, Les Impressions Nouvelles, Paris 1987, pp. 93-120 [trad. ted. in Kleine Geschichte des Körpergefühls, Fischer, Frankfurt am Main 1991, qui p. 118].

3. H. Lethen, «Schmerz hat keinerlei Bedeutung» (Paul Valéry) oder: Gibt es Ereignisse, die den Kulturwissenschaften den Atem verschlagen?, in T. Forrer e A. Linke (a cura di), Wo ist Kultur? Perspektiven der Kulturanalyse, vdf Hochschulverlag, Zürich 2014, pp. 37-56.

4. P. Valéry, Monsieur Teste, trad. di L. Solaroli, SE, Milano 1988, p. 29.

5. Teresa d’Avila (Theresia von Jesu), Das Leben der heiligen Theresia von JesuSämtliche Schriften der heiligen Theresia von Jesu, vol. I, Kösel, München 1931, p. 281.

6. Starobinski, Kleine Geschichte des Körpergefühls, cit., p. 136.

7. W. Benjamin, Immagini di pensiero, in Opere complete, vol. v (Scritti 1932-1933), cura di E. Ganni, trad. di G. Schiavoni, Einaudi, Torino 2003, pp. 529 s.

8. W. Benjamin, Piacere e dolore, in Opere complete, vol. VIII (Frammenti e paralipomena), a cura di E. Ganni, trad. di E. Leonzio, Einaudi, Torino 2014, p. 79.

9. Starobinski, Kleine Geschichte des Körpergefühls, cit., p. 137 s.

10. O. Marquard, Skepsis und Zustimmung. Philosophische Studien, Reclam, Stuttgart 1994, p. 99-109.

Astuzia del dolore

Il dolore rientra probabilmente tra le cose che non scompaiono. Modifica solo le proprie manifestazioni. Per Jünger, esso appartiene a quelle forze elementari che non siamo incapaci di far sparire. Jünger paragona l’essere umano moderno a Sinbad il marinaio, che insieme ai suoi compagni di viaggio banchetta e bighellona su un’isola – in realtà il dorso di un enorme pesce. Un falò risveglia dal sonno la creatura, che s’immerge nelle acque profonde scaraventando Sinbad in mare. Secondo Jünger noi ci troviamo «nella condizione di quei viaggiatori che hanno percorso un lungo tratto su un lago ghiacciato, quando, per l’aumento della temperatura, la superficie comincia a spaccarsi in grossi lastroni»1. Il dolore è quell’elemento che brilla oscuro attraverso le crepe nel ghiaccio. Il senso di sicurezza che c’illude proviene dal fatto che «il dolore viene respinto ai margini per fare spazio a un benessere mediocre»2. Ma con l’innalzamento della diga che protegge gli uomini dalle forze elementari aumenta anche la minaccia.

La pandemia scoppiata di recente dimostra come la diga alzata contro le forze elementari possa andare in pezzi in qualsiasi momento. A detta del paleontologo Andrew H. Knoll, insieme agli altri animali gli uomini sono solo «la glassa dell’evoluzione»3. La vera e propria «torta», invece, è costituita da microbi che minacciano in qualsiasi momento d’infrangere quella fragile superficie, anzi, di riconquistarla. Sinbad il marinaio, che scambia il dorso d’un pesce per un’isola, vale come una metafora persistente dello smarrimento umano. Gli esseri umani credono di essere al sicuro mentre è solo una questione di tempo prima che vengano trascinati nell’abisso dagli elementi. Proprio nell’Antropocene, l’uomo è piú vulnerabile che mai. La violenza che egli infligge alla natura si ripercuote su di lui con foga ancora maggiore.

Jünger è dell’avviso che il dolore non possa essere fatto sparire. Parla di economia del dolore. Se viene respinto, esso si somma di nascosto creando un «capitale invisibile» che «matura gli interessi e gli interessi sugli interessi»4. Facendo perno sull’«astuzia della ragione» hegeliana, Jünger postula l’«astuzia del dolore» in base alla quale esso aggira protezioni artificiali infiltrandosi nella vita come uno stillicidio, fino a colmarla:

E tuttavia il dolore reclama i suoi diritti sulla vita con una logica implacabile. Là dove si fa risparmio di dolore l’equilibrio verrà ristabilito secondo le leggi di un’economia rigorosa, e parafrasando una formula celebre si potrebbe parlare di una «astuzia del dolore» volta a raggiungere in qualsiasi modo lo scopo. Se perciò abbiamo di fronte agli occhi una situazione di largo benessere, siamo senz’altro autorizzati a domandarci chi ne porta il peso. Di norma non si dovrà fare molta strada per rintracciare il dolore, e scoprire che anche nel pieno godimento della propria sicurezza l’individuo non ne è mai del tutto al riparo. Il tentativo di imbrigliare artificialmente le forze elementari potrà impedire bensí i contatti piú ruvidi ed eliminare le ombre piú crude, ma non certo la luce diffusa con cui il dolore penetra nello spazio e si prende la sua rivalsa. Il vaso che non può essere riempito di getto verrà colmato goccia a goccia. Cosí la noia non è altro che dolore diluito nel tempo5.

Il postulato jüngeriano sull’astuzia del dolore non è poi cosí inverosimile. È evidente come il dolore non si lasci scacciare dalla vita. Pare anzi riuscire a far valere in ogni caso le proprie pretese nei confronti di essa, poiché malgrado i grandi passi avanti nella medicina che contrasta il dolore, quest’ultimo non si riduce. Neanche col grande arsenale degli analgesici si può sconfiggere la sofferenza. Stando a Jünger sono sí bandite le ombre piú crude, ma in compenso una luce diffusa penetra negli spazi. Il dolore viene sparso in ogni dove in forma diluita. L’odierna epidemia dei dolori cronici sembra confermare la tesi di Jünger. Proprio nella società palliativa avversa al dolore si moltiplicano i dolori silenti, confinati ai margini, che persistono nella loro assenza di senso, di linguaggio e d’immagini.

Alla base del dolore vi sono svariate forme di violenza. Le repressioni ad esempio rappresentano una violenza della negatività. Vengono esercitate solo da terzi. Ma la violenza non emana solo dagli altri. La violenza è anche un eccesso di positività che si esprime in forma di sovraprestazione, sovracomunicazione, sovrastimolazione. La violenza della positività conduce a dolori opprimenti. Sono infatti algogiche quelle tensioni soprattutto psichiche che caratterizzano la società della prestazione neoliberista. Esse recano tratti auto-aggressivi. Il soggetto di prestazione s’infligge violenza da solo. Si sfrutta volontariamente fino a crollare. Il servo prende la frusta dalle mani del signore e si frusta per diventare signore, sí, per essere libero. Il soggetto di prestazione fa guerra a sé stesso. Le pressioni interiori emerse in questo modo lo spingono nella depressione. Provocano anche dolori cronici.

Il comportamento auto-aggressivo vede oggi un rapido incremento, tanto da diventare un’epidemia globale. Sui social network circolano immagini di ferite da taglio profonde, autoinflitte. Sono le nuove immagini del dolore. Rimandano alla società dominata dal narcisismo in cui ciascuno si sobbarca sé stesso fino all’insostenibile. I tagli rappresentano un vano tentativo di buttar via questo carico di ego, di toglierselo di dosso e di sfuggire a tensioni interne e distruttive. Queste nuove immagini del dolore sono il rovescio sanguinante dei selfie.

Viktor von Weizsäcker descrive come segue la scena primordiale della guarigione:

Allorché una bimba vede soffrire il fratellino essa trova, senza quasi saperlo, una via per consolarlo: con affetto cerca la sua mano e, amorevolmente, lo tocca dove gli fa male. Cosí la piccola samaritana diventa il suo primo medico. Una specie di prescienza dell’efficacia originaria dell’azione domina in lei a sua insaputa; essa guida il suo impulso verso la mano e induce la propria al contatto appropriato. Infatti, ciò di cui il fratello farà esperienza è che la mano lo tocca facendogli bene. Tra lui e il suo dolore subentra la sensazione del venir toccato dalla mano della sorella, in un modo che la sofferenza si ritrae dinanzi a questa nuova sensazione6.

Oggi ci allontaniamo sempre di piú da questa scena primordiale di guarigione. L’esperienza della cura che guarisce, la sensazione di essere toccati e interpellati, è sempre piú rara. Viviamo in una società in cui aumentano solitudine e isolamento, peraltro accentuati dal narcisismo e dall’egoismo. Anche la crescente concorrenza, il calo della solidarietà e dell’empatia isolano le persone. Per il dolore, la solitudine e la mancata esperienza della vicinanza fungono da amplificatori. Forse i dolori cronici, come quelle ferite da taglio autoinflitte, sono il corpo che grida in cerca di attenzioni e vicinanza, in cerca d’amore – un indizio eloquente del fatto che oggi i contatti si verificano di rado. Ci manca in tutta evidenza la mano guaritrice dell’Altro. Nessun analgesico può sostituire quella scena primordiale della guarigione.

L’eziologia dei dolori cronici ha molte facce. Le fratture, gli stravolgimenti e le contrazioni nel tessuto sociale provocano o rafforzano i dolori cronici. Non ultima, è l’assenza di senso della società attuale a rendere insopportabili i dolori cronici. Essi rispecchiano la nostra società svuotata di senso, il nostro tempo senza narrazione in cui la vita è diventata nuda sopravvivenza. Qui gli analgesici o le indagini interiori possono fare ben poco. Ci rendono solo ciechi davanti alle cause socioculturali del dolore.

1. Jünger, Sul dolore, cit., p. 146.

2Ibid., p. 151.

3. A.H. Knoll, Life on a Young Planet, Princeton University Press, Princeton 2003, p. 41.

4. Jünger, Sul dolore, cit., pp. 151 sg.

5Ibid., pp. 149 sg.

6. V. von Weizsäcker, Il dolore, in Filosofia della medicina, trad. di L. Bottani e G. Massazza, Guerini e associati, Milano 1990, p. 97.

Verità del dolore

Nel saggio Il dolore, Viktor von Weizsäcker lo descrive nei termini di una «verità che è divenuta carne», «il divenire carne di una verità». Là dove le separazioni fanno male, i vincoli andati perduti si rivelano veri. Solo le verità fanno male. Tutto ciò che è vero è doloroso. La società palliativa è una società senza verità, un inferno dell’Uguale. La «compagine di ordini vitali» si manifesta inizialmente come un «filo d’Arianna del dolore»1. L’ordine naturale delle cose è un «ordine del dolore». Il dolore è un affidabile criterio di verità, uno «strumento di discriminazione dell’autentico e dell’inautentico nella manifestazione del vivente»2. Il dolore può apparire solo là dove è minacciata una reale appartenenza. Senza dolore siamo quindi ciechi, incapaci di riconoscere la verità e i fatti.

Là dove queste scissioni fanno male, là i legami erano divenuti autentici, erano divenuti carne. E là dove un uomo può patire sofferenze, là egli si trova realmente, là egli – sia di ciò consapevole o inconsapevole – ha anche amato. Si dischiude cosí uno sguardo nella struttura del mondo: là dove l’essente risulta capace di soffrire, là esso si trova realmente legato, e non solo in base a una prossimità meccanica e spaziale, bensí in base a una coesistenza effettiva, ossia vissuta3.

Senza dolore non abbiamo né amato né vissuto. La vita viene sacrificata in nome della sopravvivenza confortevole. Solo una relazione vissuta, un’effettiva coesistenza ha accesso al dolore. La coesistenza meramente funzionale, senza vita, non porta ad alcun dolore anche quando decade. È il dolore a distinguere la coesistenza viva dalla prossimità morta.

Il dolore è vincolo. Chi rifiuta qualsiasi circostanza dolorosa è incapace di vincolarsi. Oggi vengono evitati i vincoli intensi, che potrebbero far male. Ogni cosa avviene in una zona d’agio palliativa. Nel libro Elogio dell’amore, Alain Badiou evoca lo slogan pubblicitario di un portale d’incontri: «È possibile essere innamorati senza soffrire!»4L’Altro come dolore scompare. L’amore come consumo che reifica l’Altro a oggetto sessuale non fa male. È contrapposto all’eros quale desiderio dell’Altro.

Il dolore è differenza. Esso articola la vita. Gli organi del corpo si lasciano riconoscere a partire dal loro dialetto del dolore. Il dolore marca i confini e sottolinea le differenze. Senza il dolore, sia il corpo sia il mondo affonderebbero in una in-differenza. Alla domanda: «In quale direzione, dunque, i dolori producono i loro effetti?», risponde Weizsäcker:

In primo luogo in questa direzione: che solo attraverso il dolore posso esperire ciò che è mio e tutto ciò che ho. Che il dito del piede, il piede stesso, la gamba mi appartengono, e che dalla terra su cui poggio fino ai capelli tutto mi appartiene, lo esperisco mediante il dolore; e mediante il dolore esperisco anche che un osso, un polmone, un cuore e un midollo sono là dove sono, e ciascuno di essi duole secondo un suo proprio linguaggio, cosí come ogni organo si esprime col suo proprio «dialetto». Che io abbia tutti questi organi posso evidentemente pervenire a notarlo anche altrimenti, ma soltanto il dolore mi insegna a comprendere quanto essi mi siano cari; l’importanza e il valore per me di ciascuno di essi singolarmente preso vengo a esperirli solamente attraverso il dolore, e questa legge del dolore determina in egual maniera l’importanza per me del mondo e delle cose che lo compongono5.

Senza dolore è impossibile apprezzare il mondo sulla base di differenziazioni. Il mondo senza dolore è un inferno dell’Uguale in cui imperversa l’indifferenza che fa scomparire l’incomparabile.

Il dolore è realtà. Sortisce un effetto di reale. Noi percepiamo la realtà soprattutto a partire dalla resistenza, che provoca dolore. L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Anche la digitalizzazione riduce sempre piú la resistenza e fa gradualmente sparire l’interlocutore recalcitrante, ciò che è contro, il controcorpo. Il protrarsi del like conduce a un’insensibilità, allo smantellamento della realtà. La digitalizzazione è anestesia.

Nell’epoca post-fattuale, con le fake news o i deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà, anzi un’anestesia della realtà. Solo un doloroso shock di realtà riuscirebbe a strapparci da questa situazione. La reazione di panico nei confronti del virus si rifà parzialmente a questo effetto scioccante. Il virus restituisce la realtà. La realtà torna a farsi sentire nella forma di un controcorpo virale.

Il dolore acuisce la percezione di sé. Esso contorna il sé. Disegna i suoi contorni. I comportamenti auto-lesionistici in aumento si lasciano interpretare come un disperato tentativo dell’Io narcisistico, diventato depresso, di sincerarsi di sé stesso, di percepirsi. Provo dolore quindi sono. Dobbiamo al dolore anche il senso dell’esistenza. Se scompare del tutto, si cerca un sostituto. Il dolore prodotto artificialmente offre un rimedio. Gli sport estremi e i comportamenti a rischio sono tentativi di sincerarsi della propria stessa esistenza. Per cui la società palliativa, paradossalmente, crea estremisti. Senza la cultura del dolore nasce la barbarie.

In una società anestetizzata occorrono stimoli sempre piú forti perché si abbia il senso d’esser vivi. La droga, la violenza e l’orrore diventano degli stimolanti che, in dosi sempre piú potenti, riescono ancora a suscitare un’esperienza dell’Io6.

1. Weizsäcker, Il dolore, cit., p. 105.

2Ibid.

3Ibid., p. 106.

4. A. Badiou, Elogio dell’amore, trad. di S. Puggioni, Neri Pozza, Vicenza 2013, p. 15.

5. Weizsäcker, Il dolore, cit., p. 105.

6. Illich, Nemesi medica, cit., p. 166.