venerdì 28 maggio 2021

L'ELEGANZA DEL RICCIO Muriel Barbery


L'ELEGANZA DEL RICCIO

Muriel Barbery


edizioni e/o

Titolo originale: L'élégance du hérisson

© 2006 by Editions Gallimard, Paris

Capitolo primo

Chi semina desiderio

«Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola. Antoine Pallières, prospero erede di un' antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell'alta borghesia degli affari - la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi -, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirei qualcosa. Che cosa possono mai comprendere le masse lavoratrici dell'opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.

A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente. «Dovrebbe leggere L'ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia. Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L'ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai propri bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un' organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.

"Chi semina desiderio raccoglie oppressione" sono sul punto di mormorare, come se mi ascoltasse solo il mio gatto. Ma Antoine Pallières, a cui un ripugnante aborto di baffi non conferisce invece niente di felino, mi guarda, confuso dalle mie strane parole. Come sempre, mi salva l'incapacità del genere umano di credere a ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine. Una portinaia non legge L'ideologia tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l'undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un'assurdità che nessun borghese può concepire.

«Mi saluti tanto la sua mamma» borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia delle due frasi venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari. 6

Capitolo secondo

I miracoli dell'Arte

Mi chiamo Renée. Ho cinquantaquattro anni. Da ventisette sono la portinaia al numero 7 di rue de Grenelle, un bel palazzo privato con cortile e giardino interni, suddiviso in otto appartamenti di gran lusso, tutti abitati, tutti enormi. Sono vedova, bassa, brutta, grassottella, ho i calli ai piedi e, se penso a certe mattine autolesionistiche, l'alito di un mammut. Non ho studiato, sono sempre stata povera, discreta e insignificante. Vivo sola con il mio gatto, un micione pigro che, come unica particolarità degna di nota, quando si indispettisce ha le zampe puzzolenti. Né lui né io facciamo molti sforzi per integrarci nella cerchia dei nostri simili. Siccome, pur essendo sempre educata, raramente sono gentile, non mi amano; tuttavia mi tollerano perché corrispondo fedelmente al paradigma della portinaia forgiato dal comune sentire. Di conseguenza, rappresento uno dei molteplici ingranaggi che permettono il funzionamento di quella grande illusione universale secondo cui la vita ha un senso facile da decifrare. E se da qualche parte sta scritto che le portinaie sono vecchie, brutte e bisbetiche, così, sullo stesso firmamento imbecille, è solennemente inciso a lettere di fuoco che le suddette portinaie hanno gattoni accidiosi che sonnecchiano tutto il giorno su cuscini rivestiti di federe fatte all'uncinetto. In proposito si aggiunga che le portinaie guardano ininterrottamente la televisione mentre i loro gatti grassi sonnecchiano, e che l'atrio del palazzo deve olezzare di bollito, di zuppa di cavolo o di cassoulet fatto in casa. lo ho l'inaudita fortuna di fare la portinaia in una residenza di gran. classe. Dover cucinare quei piatti ignobili mi sembrava così umiliante che l'intervento di monsieur de Broglie, il consigliere di Stato del primo piano, intervento che lui deve aver descritto alla moglie come cortese ma fermo, fatto allo scopo di eliminare dalla convivenza quotidiana quei miasmi plebei, fu per me un immenso sollievo che tuttavia dissimulai come meglio potei, fingendo doverosa obbedienza. Sono passati ventisette anni. Da allora, ogni giorno, vado dal macellaio a comprare una fetta di prosciutto o di fegato di vitello, che infilo nella mia sporta a rete tra il pacchetto di pasta e il mazzo di carote. Esibisco compiacente queste vettovaglie da povera, impreziosite dalla pregevole caratteristica di non emettere cattivi odori, perché io sono povera in una casa di ricchi. In questo modo alimento congiuntamente lo stereotipo comune e anche il mio gatto, Lev, che ingrassa solo grazie ai 7

pasti in teoria a me destinati e si rimpinza di insaccati e maccheroni al burro, mentre io posso appagare le mie inclinazioni culinarie senza perturbazioni olfattive e senza che nessuno sospetti niente. Più ardua fu la faccenda della televisione. Eppure quando mio marito era ancora in vita, mi ci ero abituata, perché la costanza con cui lui la guardava me ne risparmiava l'incombenza. Nell'atrio del palazzo giungevano i rumori dell'aggeggio, e questo bastava a rendere eterno il gioco delle gerarchie sociali, per mantenere le cui apparenze, in seguito alla morte di Lucien, dovetti scervellarmi ben bene. Se da vivo, infatti, mi sollevava dall'iniquo obbligo, da morto mi privava della sua incultura, baluardo indispensabile contro il sospetto altrui. Trovai la soluzione grazie a un non-pulsante.

Un campanello collegato a un meccanismo a infrarossi ormai mi avverte dell'andirivieni nell'atrio, sollevando tutti quelli che passano dall'obbligo di suonare un qualche pulsante affinché io, anche da lontano, possa sapere della loro presenza. In queste occasioni, difatti, me ne sto nella stanza in fondo, quella in cui trascorro i momenti più sereni del tempo libero e in cui, protetta dai rumori e dagli odori che la mia condizione mi impone, posso vivere a mio piacimento senza essere privata delle informazioni vitali per ogni sentinella che si rispetti: chi entra, chi esce, con chi e a che ora.

Così, mentre attraversano l'atrio, i condomini sentono quei suoni soffusi che segnalano la presenza di una televisione accesa e, non brillando certo per fantasia, si figurano la portinaia stravaccata davanti all' apparecchio. lo, rintanata nel mio antro, non sento niente, ma so quando passa qualcuno. Quindi, nella stanza accanto, nascosta dietro la mussola bianca, attraverso un occhio di bue situato di fronte alle scale, mi informo con discrezione dell'identità di chi passa. La comparsa delle videocassette e poi, più tardi, del dio DVD ha cambiato le cose ancora più radicalmente a favore della mia felicità. Siccome non è molto frequente che una portinaia vada in estasi davanti a Morte a Venezia e che dalla sua guardiola escano le note di Mahler, ho attinto dai risparmi coniugali, così faticosamente messi da parte, e ho acquistato un altro apparecchio, che ho sistemato nel mio nascondiglio. Mentre la televisione della guardiola, garante della mia clandestinità, bercia sciocchezze per teste di rapa senza che sia costretta a sentirla, con le lacrime agli occhi, gioisco dei miracoli dell'Arte.

8

Pensiero profondo n° 1

Sogni le stelle

nella boccia dei pesci

rossi finisci

A quanto pare, ogni tanto gli adulti si prendono una pausa per sedersi a contemplare il disastro del a loro vita. Al ora si lamentano senza capire e, come mosche che sbattono sempre contro lo stesso vetro, si agitano, soffrono, deperiscono, si deprimono e si chiedono quale meccanismo li abbia portati dove non volevano andare. Per i più intelligenti diventa perfino una religione: ah, spregevole vacuità dell'esistenza borghese! Alcuni cinici di questo tipo cenano alla tavola di papà: «Cosa ne è stato dei nostri sogni di gioventù?»

si domandano con aria disincantata e soddisfatta. «Sono volati via, e la vita è proprio bastarda». Non sopporto questa finta lucidità dell'età matura. La verità è che sono come tutti gli altri, ragazzini che non capiscono cosa sia successo e che giocano a fare i duri mentre avrebbero voglia di piangere.

Eppure non è così difficile da capire. Il problema è che i bambini credono ai discorsi dei grandi e, una volta grandi, si vendicano ingannando a loro volta i figli. «La vita ha un senso e sono gli adulti a custodirlo» è la bugia universale cui tutti sono costretti a credere. Da adulti, quando capiamo che non è vero, ormai è troppo tardi. Il mistero rimane, ma tutta l'energia disponibile è andata da tempo sprecata in stupide attività. Non resta che cercare di anestetizzarsi, nascondendo il fatto che non riusciamo a dare un senso alla nostra vita e ingannando i nostri figli per cercare di convincere meglio noi stessi. La mia famiglia frequenta tutte persone che hanno seguito lo stesso percorso: una gioventù passata a cercare di mettere a frutto la propria intelligenza, a spremere come un limone i propri studi e ad assicurarsi una posizione al vertice, e poi tutta una vita a chiedersi sbalorditi perché tali speranze siano sfociate in un'esistenza così vana. La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso in una boccia. Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda. Questo toglierebbe al 'infanzia alcuni momenti felici, ma farebbe guadagnare un bel po' di tempo al 'adulto - senza contare che si eviterebbe almeno un trauma, quello del a boccia. lo ho dodici anni, abito al numero 7 di rue de Grenel e in un appartamento da ricchi. I miei genitori sono ricchi, la mia famiglia è ricca, e di conseguenza mia sorella e io siamo 9

virtualmente ricche. Mio padre è un deputato con un passato da ministro e finirà senz'altro presidente della camera a svuotare la cantina del 'Hotel de Lassay, la sua futura residenza. Mia madre ... Beh, mia madre non è proprio una cima, però è istruita. Ha un dottorato in lettere. Scrive gli inviti a cena senza errori e non la smette di scocciare con i suoi riferimenti letterari («Colombe, non fare la Guermantes», «Tesoro, sei proprio come la Sanseverìna di Stendhal!»).

Nonostante ciò, nonostante tutta questa fortuna e tutta questa ricchezza, da molto tempo so che la meta finale è la boccia dei pesci. Come faccio a saperlo? Si dà il caso che io sia molto intelligente. Di un'intel igenza addirittura eccezionale. Già rispetto ai ragazzi della mia età c'è un abisso. Siccome però non mi va di farmi notare, e siccome nelle famiglie dove l'intel igenza è un valore supremo una bambina superdotata non avrebbe mai pace, a scuola cerco di ridurre le mie prestazioni, ma anche facendo così sono sempre la prima della classe. Verrebbe da pensare che sia facile simulare un'intelligenza media quando, a dodici anni come me, si è allo stesso livello di una normalista. Beh, niente affatto! Bisogna darsi da fare per sembrare più stupidi. Però per certi versi questo mi permette di non annoiarmi a morte: tutto il tempo che non mi serve per imparare e capire lo passo a imitare lo stile, le risposte, i procedimenti, le ansie e le sviste dei bravi alunni ordinari. Leggo tutto quello che scrive Constance Baret, la seconda della classe, in matematica, francese e storia, e così imparo come devo fare: il francese è una sfilza di parole coerenti e senza errori d'ortografia, la matematica è una riproduzione meccanica di operazioni prive di significato e la storia è una successione di fatti uniti da connettori logici. Anche paragonata agli adulti sono molto più furba della maggior parte di loro. È così. Non ne vado particolarmente fiera perché non è merito mio. Ma una cosa è certa, nella boccia io non ci vado. È una decisione ben ponderata. Anche per una persona come me, così intelligente, così portata per lo studio, così diversa dagli altri e così superiore ai più, la vita è già perfettamente prestabilita, e viene quasi da piangere: a quanto pare nessuno ha pensato che, se l'esistenza è

assurda, una bril ante riuscita non vale più di un fallimento. È solo più piacevole. Anzi, nemmeno: credo che essere coscienti renda il successo amaro, mentre la mediocrità spera sempre in qualche cosa. E così ho preso una decisione. Presto lascerò l'infanzia e, nonostante sia certa che la vita è una farsa, non credo di poter resistere fino alla fine. In fondo siamo programmati per credere a ciò che non esiste, perché siamo esseri viventi e non vogliamo soffrire. Allora cerchiamo con tutte le forze di convincerci che esistono cose per cui vale la pena vivere e che per questo la. vita ha un senso. Pur essendo molto intelligente, non so quanto tempo 10

ancora potrò lottare contro questa tendenza biologica. Quando entrerò anch'io nel a corsa degli adulti, sarò ancora in grado di affrontare la percezione dell'assurdo? Non credo. Per questo ho preso una decisione: al a fine dell'anno scolastico, il giorno dei miei tredici anni, il16 giugno prossimo, mi suicido. Attenzione, non intendo fare niente di spettacolare, come se fosse un atto di coraggio o di sfida. Tanto più che mi conviene che nessuno sospetti nl:Jlla. Gli adulti hanno un rapporto isterico con la morte, diventa un affare di stato, fanno un sacco di storie, e dire invece che è l'evento più banale del mondo. In realtà, quel o che m'interessa non è la cosa in sé, ma il come. Il mio lato giapponese propende ovviamente per il seppuku. Quando dico il mio lato giapponese intendo il mio amore per il Giappone. Sono in terza media e, ovviamente, come seconda lingua ho scelto giapponese. Il prof non è un granché, in francese si mangia le parole e si gratta continuamente la testa con aria perplessa, però il libro di testo è decente e dall'inizio dell'anno sono molto migliorata. Tra qualche mese spero di riuscire a leggere i miei manga preferiti in originale. La mamma non capisce come una bambinadotata-come-te possa leggere i manga. Non vale la pena spiegarle che "manga" in giapponese significa solo "fumetto". Crede che mi abbeveri di sottocultura, e io non la smentisco. Insomma, forse tra qualche mese potrò leggere Taniguchi in giapponese. Ma questo mi riporta alla nostra questione: deve essere prima del 16

giugno, perché il16 giugno mi suicido. Ma niente seppuku. Sarebbe pieno di significato e bellezza ma ... ecco ... non ho affatto voglia di soffrire. In effetti non sopporterei il dolore; penso che quando si decide di morire, proprio perché si è convinti che questo rientra nell'ordine delle cose, bisogna farlo piano piano. Morire deve essere un passaggio delicato, una morbida discesa verso il riposo. C'è gente che si suicida buttandosi dal a finestra del quarto piano oppure ingoiando della varechina o addirittura impiccandosi! Non ha senso!

Lo trovo perfino osceno. A cosa serve morire se non a evitare la sofferenza? lo ho pianificato attentamente la mia uscita di scena: ogni mese, da un anno a questa parte, rubo un sonnifero dalla scatola sul comodino della mamma. Lei ne prende talmente tanti che, se anche ne rubassi uno tutti i giorni, non se ne accorgerebbe comunque. Ma ho deciso di essere molto prudente. Quando si prende una decisione che difficilmente gli altri capiranno, non bisogna lasciare niente al caso. È incredibile con quanta rapidità la gente intralcia i progetti ai quali teniamo di più, in nome di sciocchezze tipo "il senso della vita" o "l'amore per l'umanità". Ah sì, anche: "la sacralità dell'infanzia". Quindi mi avvio tranquillamente al a data del 16 giugno e non ho paura. Magari qualche rimpia,nto, forse. Ma il mondo, così com'è, non è fatto per le principesse. Detto questo, non si può vegetare come una verdura marcia solo perché si ha in progetto di 11

morire. Anzi, è proprio il contrario. L'importante non è morire, né a che età si muore, l'importante è quello che si fa al momento di morire. In Taniguchi, i protagonisti muoiono scalando l'Everest. Siccome io non ho nessuna possibilità di affrontare il K2 o le cime delle Grandes Jorasses prima del16 giugno prossimo, il mio Everest personale sarà un bisogno intellettuale. Mi sono data come obiettivo di riflettere il più possibile e di annotare su questo quaderno i pensieri profondi che mi verranno in mente: se nulla ha un senso, la mente deve almeno potersi mettere alla prova, non è vero? Ma la mia forte propensione per il Giappone mi ha fatto aggiungere una regola: il pensiero profondo deve essere formulato sotto forma di piccola poesia al a giapponese: un hokku (tre versi) o un tanka (cinque versi).

Il mio hokku preferito è di Basho.

Con i gamberi

nei capanni da pesca

svariati gril i!

Questo non è la boccia dei pesci, no, questa è poesia!

Ma nel mondo in cui vivo c'è meno poesia che in un capanno di pescatori giapponesi. Evi pare normale che quattro persone vivano in quattrocento metri quadrati mentre chissà

quante altre, e forse tra queste dei poeti maledetti, non hanno nemmeno un al oggio decente e stanno in quindici, tutti ammassati in venti metri quadrati? Quest'estate, quando abbiamo sentito al telegiornale che alcuni africani erano morti perché nel loro condominio insalubre era scoppiato un incendio nel e scale, mi è venuta un'idea. Loro la boccia dei pesci ce l'hanno tutto il giorno sotto al naso, non possono evitarla sognando a occhi aperti. Ma i miei genitori e Colombe pensano di nuotare nel 'oceano perché vivono nei loro quattrocento metri quadrati pieni di mobili e dipinti. Allora, il 16 giugno ho intenzione di rinfrescare un pochino la loro memoria di sardine in scatola: darò fuoco al 'appartamento (con la diavolina del barbecue). Sia chiaro, non sono mica una criminale: lo farò quando non c'è nessuno (il 16 giugno cade di sabato, e il sabato pomeriggio Colombe va da Tibère, mamma ha yoga, papà va al club e io rimango qui), sloggerò i gatti dalla finestra e avvertirò i pompieri in tempo perché non ci siano vittime. Poi andrò tranquillamente a dormire dalla nonna con i miei sonniferi. Senza casa e senza figlia, forse penseranno a tutti quegli africani morti, o no?

12

Camelie

13

Capitolo primo

Un' aristocratica

Il martedì e il giovedì, io e Manuela, la mia unica amica, prendiamo il tè insieme nella guardiola. Manuela è una donna semplice che i vent' anni sprecati a dare la caccia alla polvere in case altrui non hanno privato della sua eleganza. Dare la caccia alla polvere, del resto, è una sintesi molto eufemistica. Ma nelle case dei ricchi le cose non si chiamano mai con il loro nome.

«Svuoto cestini pieni di assorbenti» mi dice con il suo dolce accento sibilante, «raccolgo il vomito del cane, pulisco la gabbia degli uccelli, è incredibile quanta cacca facciano &gli animali così

piccoli, lustro i water. Altro che polvere! Cosa vuoi che sia la polvere! ». Figuratevi che quando Manuela scende da me alle due, il martedì da casa degli Arthens e il giovedì da casa dei de Broglie, ha rifinito con il cotton fioc latrine che, seppure placcate d'oro, sono sporche e puzzolenti come tutti i cessi del mondo, perché se esiste una cosa che i ricchi, loro malgrado, condividono con i poveri, sono gli intestini nauseabondi che da qualche parte finiscono sempre per liberarsi di ciò che li ammorba.

Manuela merita proprio un inchino. Benché sacrificata sull'altare di un mondo in cui i compiti ingrati sono riservati ad alcune, mentre altre si turano il naso senza muovere un dito, lei tuttavia non rinuncia a un gusto per la raffinatezza che supera di gran lunga qualunque doratura, a maggior ragione se sanitaria.

«Anche per mangiare una noce ci vuole la tovaglia» dice Manuela estraendo dalla vecchia sporta una scatola di legno chiaro da cui sporgono volute di carta di seta carminio e, racchiuse in questo scrigno, delle lingue di gatto alla mandorla. Preparo un caffè che non berremo, ma dei cui effluvi andiamo tutte e due matte, e sorseggiamo in silenzio una tazza di tè verde sgranocchiando le nostre lingue di gatto.

Dunque, come io sono un tradimento costante del mio archetipo, Manuela è una fellona inconsapevole rispetto a quello della domestica portoghese. Poiché la ragazza di Faro, nata sotto un fico dopo altri sette e prima di altri sei, mandata a lavorare giovanissima nei campi e altrettanto in fretta data in sposa a un muratore presto espatriato, madre di quattro figli francesi per cittadinanza ma portoghesi agli occhi della società, la ragazza di Faro, quindi, con tanto di calze contenitive nere e fazzoletto in testa, è un'aristocratica, una vera grande aristocratica, di quelle che non temono con 14

testazioni, perché lei ha la nobiltà impressa nell' animo e si fa beffe dei cerimoniali e dei nomi altisonanti. Che cos'è un' aristocratica?È una donna che, sebbene circondata dalla volgarità, non ne viene sfiorata.

Volgarità della famiglia del marito che, la domenica, ammazza a colpi di grasse risate il dolore di essere nati deboli e senza futuro; volgarità di un vicinato segnato dalla stessa desolazione, livida come i neon della fabbrica dove gli uomini si recano ogni mattina come se scendessero all'inferno; volgarità delle datrici di lavoro, villane nonostante tutti i loro soldi, che si rivolgono a lei come fosse un cane rognoso. Ma per cogliere tutta la grazia che alberga in quella donna bisogna aver visto come Manuela mi offre i frutti delle sue creazioni pasticcere, quasi fossi una regina. Proprio così, quasi fossi una regina. Quando appare Manuela, la mia guardiola si trasforma in palazzo e il nostro sgranocchiare da paria in festini da sovrani. Come il cantastorie trasforma la vita in un fiume cangiante che inghiotte il dolore e la noia, così Manuela tramuta la nostra esistenza in una calorosa e allegra epopea.

«Il giovane Pallières mi ha salutato per le scale» dichiara all'improvviso, rompendo il silenzio. Mugugno sdegnosa.

«Legge Marx» dico con un'alzata di spalle.

«Marx?» domanda lei pronunciando la come una sc, una sc leggermente palatalizzata che ha il fascino dei cieli limpidi. «Il padre del comunismo» rispondo.

Manuela emette un suono sprezzante.

«La politica» mi dice. «Un trastullo che i riccastri si tengono tutto per sé». Riflette un momento, le sopracciglia aggrottate. «Un libro diverso da quelli che legge di solito»

dice.

Alla sagacia di Manuela non sfuggono le riviste che i ragazzi nascondono sotto il materasso, e pare proprio che un tempo il giovane Pallières ne fosse un consumatore diligente benché selettivo, come testimoniava l'usura di una pagina dal titolo eloquente: "Le marchese civettuole". Ridiamo e discorriamo ancora un po' del più e del meno, tranquille, come tutte le vecchie amiche. Questi momenti per me sono preziosi, e mi si stringe il cuore se penso al giorno in cui Manuela realizzerà il suo sogno e tornerà per sempre al suo paese lasciandomi qui, sola. e decrepita, senza una compagna che due volte alla settimana faccia di me una regina clandestina. Mi chiedo anche con apprensione cosa accadrà quando l'unica amica che io abbia mai avuto, l'unica a sapere tutto senza aver mai chiesto niente, abbandonandomi si lascerà alle spalle una donna misconosciuta da tutti e la seppellirà sotto un sudario d'oblio.

15

Si sentono dei passi nell'atrio, poi udiamo distintamente il rumore sibillino della mano dell'uomo sul pulsante dell'ascensore, un vecchio ascensore con grata nera e porte a battenti, rivestito di legno, dove un tempo, posto permettendo, ci sarebbe stato un servitore in livrea. Riconosco questo passo; è quello di Pierre Arthens, ìl critico gastronomico del quarto piano, un oligarca della peggior specie ìl quale, da come strizza gli occhi quando se ne sta sulla soglia della mia dimora, deve pensare che io viva in una grotta buia, benché quel che vede dimostri piuttosto il contrario. Beh, io le sue famose critiche le ho lette.

«Non ci capisco niente» mi ha detto Manuela, per la quale un buon arrosto è un buon arrosto e basta.

Non c'è niente da capire. È un peccato vedere una simile penna sciuparsi per colpa della cecità. Scrivere pagine e pagine su un pomodoro con una prosa stupefacente - perché Pierre Arthens scrive un pezzo come se raccontasse una storia, e basterebbe questo a fare di lui un genio -, senza mai ve- dere né cogliere il pomodoro, è un angoscioso pezzo di bravura. Si può essere così dotati e così

ciechi di fronte alle cose? Me lo sono chiesta spesso vedendomelo passare davanti con il suo nasone arrogante. Pare proprio di sì. Alcune persone sono incapaci di cogliere l'essenza della vita e il soffio intrinseco in ciò che contemplano, e passano la loro esistenza a discutere sugli uomini come si trattasse di automi, e sulle cose come se fossero prive di anima e si esaurissero in ciò che di esse si può

dire, sulla base di ispirazioni soggettive.

Neanche a farlo apposta, all'improvviso i passi tornano indietro e Arthens suona alla guardiola. Mi alzo curandomi di trascinare i piedi, infagottati in pantofole così convenzionali che solo la coalizione della baguette e del basco potrebbe sfidarle nel campo degli stereotipi. Così facendo so di esasperare il Maestro, ode vivente all'impazienza dei grandi predatori, e non per niente inizio ad aprire la porta molto lentamente e con grande impegno, intrufolandoci un naso diffidente che spero sia pure rosso e lucido.

«Aspetto un pacco da un corriere» mi dice, gli occhi strizzati e le narici arricciate. «Quando arriva, potrebbe portarmelo immediatamente?». Questo pomeriggio monsieur Arthens indossa una grande lavallière a pois che gli fluttua intorno al collo da patrizio e non gli si addice affatto, perché la folta chioma leonina unita all'eterea leggiadria del pezzo di seta danno vita a una sorta di tutù vaporoso in cui svanisce tutta la virilità che gli uomini sono soliti sfoggiare. E poi, che diaminc, questa lavallière mi ricorda qualcosa. Quando mi viene in mente, per poco non sorrido. È quella di Lcgrandin. In Alla ricerca del tempo perduto, opera di un certo Marcel, altro noto portinaio, Legrandin è uno snob dilaniato tra due mondi, quello che frequenta e quello in cui vorrebbe entrare; uno snob patetico di cui, passando di speranza in amarezza e di servilismo in disprezzo, la lavallière esprime le fluttuazioni più intime. Così, sulla piazza 16

di Combray, sebbene non desideri affatto salutare i genitori del narratore, ma essendo tuttavia costretto a incrociarli, incarica la sciarpa, che lascia svolazzare al vento, di manifestare un umore malinconico che lo dispensa dai saluti ordinari.

Pierre Arthens, che pure di Proust non è digiuno, senza che peraltro ne abbia ricavato una particolare mansuetudine nei riguardi dei portinai, si schiarisce la voce, impaziente. llicordo la sua domanda:

«Potrebbe portarmelo immediatamente?» (il pacco del corriere - dal momento che i plichi dei ricchi non prendono mai le vie postali ordinarie).

«Sì» rispondo battendo ogni record di concisione, incoraggiata in questo senso dalla sua e dalla mancanza del "per favore" che la forma interrogativa e ipotetica, a mio avviso, non può scusare del tutto.

«È molto fragile» aggiunge, «faccia attenzione, la prego». Nemmeno la coniugazione dell'imperativo e il "la prego" incontrano i miei favori, tanto più che lui mi ritiene incapace di simili finezze sin tattiche e le impiega unicamente per suo gusto, ben lungi dall' avere la galanteria di supporre che potrei sentirmene offesa. Quando già dal timbro di voce capite che un ricco si sta rivolgendo solo a sé stesso e non immagina neppure che possiate comprenderlo, sebbene tecnicamente le sue parole siano destinate a voi, allora state veramente toccando il fondo della scala sociale.

«Fragile come?» chiedo quindi con leggero tono di lusinga.

Sospira ostentatamente e nel suo alito avverto un lievissimo sentore di zenzero.

«Si tratta di un incunabolo» mi risponde, e mi ficca il suo sguardo da gran possidente dritto negli occhi, che io cerco di rendere vitrei.

«Bene bene, buon per lei» dico assumendo un'aria disgustata. «Glielo porterò non appena arriva il corriere».

E gli sbatto la porta in faccia.

Mi diverto enormemente all'idea che questa sera a tavola Pierre Arthens racconterà, a mo' di aneddoto spiritoso, l'indignazione della portinaia perché ha menzionato in sua presenza un incunabolo che lei deve aver scambiato per qualcosa di scabroso.

Dio solo sa chi di noi due si umilia di più.

17

Diario del movimento del mondo n° 1

Restare raccolti in sé

senza perdere i pantaloncini

Un pensiero profondo ogni tanto è un'ottima cosa, ma non credo che basti. Insomma, voglio dire: ho intenzione di suicidarmi e di dare fuoco al a casa tra qualche mese, quindi ovviamente non posso fingere di avere molto tempo, e devo fare qualcosa di rilevante in quel poco che mi rimane. E poi, soprattutto, mi sono lanciata una piccola sfida: per suicidarsi bisogna essere: convinti di quello che si fa, e non si può bruciare un appartamento per sport. Quindi, se in questo mondo c'è qualcosa per cui vale la pena vivere, non me la devo perdere: una volta morti è troppo tardi per i rimpianti, e morire per uno sbaglio è davvero troppo stupido. Certo, ci sono i pensieri profondi, è vero. Ma nei pensieri profondi tutto sommato recito la parte di me stessa, quella dell'intel ettuale (che prende in giro gli altri intellettuali), o sbaglio? Non è sempre edificante, ma di grande svago. Al ora mi sono detta che dovevo compensare il lato "gloria della mente" con un altro diario che parlasse del corpo o del e cose. Non più i pensieri profondi dello spirito, ma i capolavori del a materia. Qualcosa di incarnato, di tangibile. Ma anche di bello ed estetico. Tolti l'amore, l'amicizia e la bellezza dell'Arte, non c'è molto altro di cui la vita umana si possa nutrire. Sono ancora troppo giovane per ambire veramente al 'amore e al 'amicizia. Ma l'Arte ... se avessi dovuto vivere, per me sarebbe stata tutto. Insomma, quando dico Arte bisogna intenderei: non parlo dei capolavori dei maestri. Nemmeno Vermeer mi fa amare la vita. È sublime, ma è morto. No, io penso al a bellezza nel mondo, a ciò che può elevarci nel flusso della vita. Quindi II diario del movimento del mondo sarà dedicato al moto delle persone, dei corpi, oppure, se proprio non c'è niente d'interessante, a quello degli oggetti, per trovare qualcosa che sia abbastanza estetico da dare valore al 'esistenza. Grazia, bellezza, armonia, intensità. Se le scopro, al ora forse dovrò riconsiderare le varie opzioni: se, in mancanza di una bella idea per la mente, trovo un bel movimento di corpi, al ora forse penserò che la vita vale la pena di essere vissuta.

Di fatto, l'idea di questo doppio diario (uno per la mente e uno per il corpo) mi è venuta ieri, mentre papà guardava una partita di rugby in televisione. Finora, in questi casi, osservavo soprattutto papà. Mi piace guardarlo quando si tira su le maniche della camicia, si 18

toglie le scarpe, si accomoda per bene sul divano davanti alla partita con birra e salame e dichiara: «Scoprite l'altro uomo che è in me». A quanto pare non gli viene in mente che uno stereotipo (il serissimo signor ministro della Repubblica) sommato a un altro stereotipo (nonostante tutto, il bravo ragazzo che apprezza la birra fresca) possano dare uno stereotipo al quadrato. In sostanza, sabato papà è tornato prima del solito, ha scaraventato via la borsa, si è tolto le scarpe, si è rimboccato le maniche, ha preso una birra in cucina e si è abbandonato davanti alla tivù dicendomi: «Tesoro, portami del salame, per favore, non mi voglio perdere l'haka». Quanto a perdersi l'haka, ho avuto tranquillamente il tempo di affettare il salame e di portarglielo, e c'era ancora la pubblicità. La mamma era seduta in equilibrio precario sul bracciolo del divano, per manifestare chiaramente la sua disapprovazione (nella famiglia stereotipo aggiungerei l'oca-intellettuale-di-sinistra), e tormentava papà con la complicata storia di una cena a cui dovevano invitare due coppie in crisi perché facessero pace. Conoscendo la finezza psicologica della mamma, la cosa faceva proprio ridere. Insomma, ho dato il salame a papà, e siccome sapevo che Colombe era in camera sua ad ascoltare musica, presumibilmente avanguardia illuminata del quartiere latino, ho pensato: in fondo, perché no, facciamoci questo haka. Nei miei ricordi, l'haka era una specie di danza un po' grottesca che i giocatori del a squadra neozelandese fanno prima della partita. Tipo un'intimidazione da scimmioni. E nei miei ricordi, poi, il rugby era un gioco pesante, con dei tizi che si buttano di continuo nell'erba e si rialzano per cadere di nuovo e ributtarsi nella mischia tre passi più in là.

Finalmente è finita la pubblicità, e dopo una sigla piena di ragazzoni stravaccati sull'erba si è visto lo stadio con le voci fuoricampo dei commentatori, poi un primo piano sui giornalisti (schiavi del cassoulet), poi di nuovo lo stadio. I giocatori sono entrati in campo e da lì la cosa ha cominciato a catturarmi. All'inizio non mi era chiaro, erano le solite immagini di sempre, però mi facevano un effetto nuovo, tipo un pizzicorino, un'attesa, un

"trattengo il respiro". Vicino a me, papà si era già scolato la sua prima birretta e si apprestava a proseguire sulla scia alcolica chiedendo alla mamma, che si era appena staccata dal bracciolo del divano, di portargliene un'altra. lo trattenevo il respiro. «Che succede?»

mi chiedevo guardando lo schermo, e non riuscivo a capire cosa ci vedessi di tanto stuzzicante. Quando i giocatori neozelandesi hanno cominciato il loro haka, ho capito. Tra loro c'era un maori, alto e giovanissimo. Era stato lui ad attirare il mio sguardo fin da subito, al 'inizio senz'altro per la sua altezza, ma poi per il suo modo di muoversi. Un movimento stranissimo, molto fluido, ma soprattutto molto concentrato, intendo concentrato su sé stesso. La 19

maggior parte della gente, quando si muove, beh, si muove in funzione di ciò che ha intorno. Proprio in questo momento, mentre sto scrivendo, c'è Constitution che passa strusciando la pancia per terra. Questa gatta non ha nessun progetto di vita concreto, eppure si dirige verso qualcosa, una poltrona probabilmente. E lo si vede dal modo in cui si muove: lei va verso. Ecco la mamma che passa avviandosi alla porta, esce a fare spese e di fatto è già fuori, il suo movimento si anticipa da sé. Non so bene come spiegare, ma durante lo spostamento il movimento verso in qualche modo ci disgrega: siamo qui e al o stesso tempo non siamo qui perché stiamo già andando altrove, non so se rendo l'idea. Per smettere di disgregarsi bisogna stare fermi. O ti muovi e non sei più intero, o sei intero e non ti puoi muovere. Ma quel giocatore, appena l'ho visto entrare in campo, ho sentito subito che era diverso: la sensazione di vederlo muoversi, proprio così, pur restando fermo. Assurdo, vero? Quando è cominciato l'haka ho guardato soprattutto lui. Si vedeva che non era come gli altri. Infatti Cassoulet n°1 ha detto: «E Somu, il temibile trequarti neozelandese, sempre molto impressionante con quel fisico da colosso; due metri e sette centimetri, centodiciotto chili, cento metri in undici secondi. Un bel bambino, signora!». Tutti erano ipnotizzati da lui, ma sembrava che nessuno capisse esattamente perché. Eppure è risultato subito chiaro durante l'haka: lui si muoveva, faceva le stesse mosse degli altri (battere il palmo delle mani sul e cosce, pestare per terra a ritmo, toccarsi i gomiti, il tutto guardando l'avversario dritto negli occhi con un'aria da guerriero nervoso), ma mentre i gesti degli altri andavano verso gli avversari e versotutto lo stadio che li guardava, i gesti di questo giocatore rimanevano in lui, rimanevano concentrati su di sé, e questo gli dava una presenza, un'intensità incredibili. E così l'haka, che è un canto guerriero, si caricava di una potenza straordinaria. La forza di un soldato non sta nell'energia che impiega per intimidire l'avversario inviando un mucchio di segnali, ma nel a capacità di concentrare in sé

la forza focalizzandosi su sé stesso. Il giocatore maori si trasformava in un albero, una quercia enorme, indistruttibile, con radici profonde, un irraggiamento potente, e tutti lo sentivano. Eppure avevamo la certezza che la grande quercia avrebbe anche potuto volare, che sarebbe stata veloce come il vento, malgrado o grazie alle sue profonde radici. E così ho guardato la partita con attenzione, cercando sempre la stessa cosa: momenti compatti in cui un giocatore diventasse tutt'uno con il suo movimento, senza bisogno di frammentarsi dirigendosi verso. E ne ho visti! Ne ho visti in tutte le fasi del gioco: nelle mischie, con un baricentro ben visibile, un giocatore metteva radici e diventava una piccola àncora solida per dare forza al gruppo; nelle fasi di spiegamento, un altro giocatore trovava la giusta velocità, smettendola di pensare al a meta e concentrandosi sul suo 20

movimento, e correva come in stato di grazia, la palla incol ata al corpo; l'estasi dei trequarti, che si tagliavano fuori dal resto del mondo per trovare il perfetto movimento del piede. Eppure nessuno raggiungeva la perfezione del grande giocatore maori. Quando ha segnato la prima meta neozelandese papà è rimasto come inebetito, a bocca aperta, tanto da dimenticarsi la birra. Visto che tifava per la Francia si sarebbe dovuto arrabbiare, e invece ha detto: «Che giocatore!» passandosi una mano sulla fronte. I commentatori avevano la bocca impastata, ma non riuscivano a nascondere che stavamo assistendo a qualcosa di veramente bello: un giocatore che correva senza muoversi, lasciandosi tutti al e spal e. E gli altri parevano muoversi in modo frenetico e maldestro, eppure non erano in grado di raggiungerlo.

Allora ho pensato: ci siamo, sono riuscita a individuare diversi movimenti immobili nel mondo; vale la pena continuare a vivere per questo? In quel momento un giocatore francese ha perso i pantaloncini in un maul, e di colpo mi sono sentita completamente a terra perché tutti piangevano dal ridere, compreso papà, che ci ha bevuto sopra un'altra birretta nonostante due secoli di protestantesimo familiare. A me pareva un sacrilegio. E quindi no, non basta. Ci vorranno altri movimenti per convincermi. Ma almeno mi è

venuta in mente questa cosa.

21

Capitolo secondo

Di guerre e di colonie

Non ho studiato, dicevo come preambolo a questi discorsi. Non è del tutto esatto. La mia gioventù da studentessa si è interrotta alla quinta elementare, prima della quale ero stata ben attenta a non farmi notare - spaventata dai sospetti che, sebbene non avessi neppure dieci anni, sapevo di aver destato in monsieur Servant, il maestro, dacché mi aveva scoperta a divorare con avidità il suo diario che parlava solo di guerre e di colonie.

Perché? Non lo so. Credete veramente che avrei potuto? È una domanda per gli antichi indovini. Diciamo pure che l'idea di battermi in un mondo di ricchi, io, figlia di nessuno, senza bellezza né attrattiva, senza passato né ambizione, senza savoir-faire né splendore, mi ha stancata prima ancora di provare. Desideravo solo una cosa: che mi lasciassero in pace, che da me non esigessero troppo e che, per qualche attimo al giorno, potessi godere della libertà assoluta di appagare la mia fame. Per chi ignora l'appetito il primo morso della fame è al contempo una sofferenza e un'illuminazione. Ero una bambina apatica e pressoché invalida, con la schiena curva tanto da sembrare gobba, e mi mantenevo in vita solo perché ignoravo l'esistenza di altre vite. La mia assenza di interesse sconfinava nel nulla; non c'era niente che mi comunicasse qualcosa, niente che mi svegliasse, e, fragile fuscello sballottato a piacimento da onde misteriose, ignoravo perfino il desiderio di farla finita. A casa nostra non parlavamo molto. I bambini urlavano e gli adulti assolvevano ai loro doveri come se fossero stati soli. Mangiavamo abbastanza, sebbene in modo frugale, non ci maltrattavano e i nostri vestiti da poveri erano puliti e rabberciati saldamente in modo tale che, se da una parte potevamo vergognarcene, dall'altra non pativamo il freddo. Ma tra noi non parlavamo. La rivelazione avvenne quando, a cinque anni, la prima volta che andai a scuola, fui sorpresa e spaventata nel sentire una voce che si rivolgeva a me e pronunciava il mio nome. «Renée?» domandava la voce, mentre io avvertivo una mano amica che si poggiava sulla mia. Eravamo nel corridoio, dove avevano radunato i bambini il primo giorno di scuola, anche perché pioveva.

«Renée?» continuava a modulare la voce che proveniva dall' alto, e la mano amichevole non smetteva di esercitare sul mio braccio - linguaggio incomprensibile - leggere e delicate pressioni. 22

Sollevai il capo, in un movimento insolito che quasi mi dette le vertigini, e incrociai uno sguardo. Renée. Ero proprio io. Per la prima volta, qualcuno mi si rivolgeva pronunciando il mio nome. Mentre i miei genitori usavano gesti o brontolii, una donna, di cui in quel momento notavo gli occhi chiari e il sorriso sulle labbra, si apriva un varco verso il mio cuore e, dicendo il mio nome, stabiliva con me una vicinanza di cui fino ad allora non avevo avuto neppure sentore. Mi vidi circondata da un mondo che improvvisamente si tingeva di colori. In un lampo doloroso percepii la pioggia che cadeva fuori, le finestre lavate dall'acqua, l'odore dei vestiti bagnati, l'angustia del corridoio, sottile budello dove si agitava il gruppo dei bambini, la patina sugli attaccapanni con i ganci di rame su cui si ammassavano le mantelle di panno scadente - e 1'altezza dei soffitti, distanti come il cielo agli occhi di un bambino. Allora, con gli occhi tristi incollati ai suoi, mi aggrappai alla donna che mi aveva appena fatto nascere.

«Renée» riprese la voce, «vuoi toglierti la mantella?».

E tenendomi saldamente perché non cadessi, mi spogliò con la rapidità di chi ha grande esperienza. A torto crediamo che il risveglio della coscienza coincida con l'ora della nostra prima nascita, forse perché è l'unica condizione vitale che sappiamo immaginare. Ci sembra di aver sempre visto e sentito e, forti di questa convinzione, identifichiamo con la venuta al mondo l'istante decisivo in cui nasce la coscienza. Il fatto che per cinque anni una bambinetta di nome Renée, meccanismo percettivo in azione dotato di vista, udito, olfatto, gusto e tatto, abbia potuto vivere nella totale inconsapevolezza di sé stessa e dell'universo smentisce questa teoria sbrigativa. Perché la coscienza per manifestarsi ha bisogno di un nome.

Ebbene, per una concomitanza di circostanze sfortunate sembra che nessuno avesse pensato a darmene uno.

«Ma che occhietti carini» aggiunse la maestra, e intuii che non mentiva, che in quel momento i miei occhi brillavano di tutta quella bellezza e, riflettendo il miracolo della mia nascita, scintillavano come mille fuochi. Cominciai a tremare e cercai nei suoi la complicità che nasce da ogni gioia condivisa. Nel suo sguardo dolce e benevolo non vidi altro che compassione.

Nell'istante in cui finalmente nascevo, suscitavo solo pietà.

Ero posseduta.

23

Poiché non potevo placare la mia fame nel gioco delle interazioni sociali, inconcepibili per la mia condizione - e quella compassione negli occhi della mia salvatrice la capii solo in seguito, perché quando mai si è vista una poveraccia sondare l'ebbrezza del linguaggio e praticarla con gli altri?

-, sarei ricorsa ai libri. Così ne toccai uno per la prima volta. Avevo visto i più grandi della classe cercarvi all'interno tracce invisibili, come mossi dalla stessa forza e, sprofondando nel silenzio, attingere dalla carta morta qualcosa che sembrava vivo. Imparai a leggere all'insaputa di tutti. La maestra ripeteva sempre a pappagallo le lettere agli altri bambini, mentre io conoscevo già da molto tempo la solidarietà che intreccia i segni scritti, le loro infinite combinazioni e i meravigliosi suoni che mi avevano reso signora di quei luoghi fin dal primo giorno, quando lei aveva pronunciato il mio nome. Non lo seppe nessuno. Lessi come una forsennata, all'inizio di nascosto, poi, quando il normale tempo di apprendimento mi sembrò superato, alla luce del sole, ma curandomi di dissimulare il piacere e l'interesse che ne traevo. La bambina fragile era diventata un'anima affamata.

A dodici anni abbandonai la scuola e lavorai in casa e nei campi a fianco dei miei genitori, dei miei fratelli e delle mie sorelle. A diciassette mi sposai.

24

Capitolo terzo

Il barboncino come totem

Nell'immaginario collettivo una coppia di portinai, binomio costituito da entità talmente insignificanti che solo la loro unione le rende manifeste, possiede quasi certamente un barboncino. Come tutti sanno, i barboncini sono quella razza di cani riccioluti che appartengono a pensionati qualunquisti, signore molto sole che vi riversano il loro affetto, o portinai barricati nelle loro guardiole buie. Possono essere neri o color albicocca. Quelli albicocca sono più bisbetici di quelli neri, che invece puzzano di più. Tutti i barboncini abbaiano astiosi per un nonnulla, ma in particolare quando non succede niente. Seguono il loro padrone trotterellando su tutte ,e quattro le zampe rigide senza muovere il resto di quel piccolo tronco a salsiccia che si ritrovano. E soprattutto hanno occhietti neri e collerici, conficcati in orbite insignificanti. I barboncini sono brutti e stupidi, sottomessi e sbruffoni. Sono barboncini. Anche la coppia di portinai, di cui il barboncino totemico è la metafora, sembra priva di passioni quali 1'amore e il desiderio e, come il totem stesso, destinata a rimanere brutta, stupida, sottomessa e sbruffona. Se in certi romanzi i principi si innamorano di operaie o le principesse di galeotti, tra due portinai, anche di sesso opposto, non nascono mai idilli degni di essere raccontati da qualche parte, come accade per gli altri.

Non solo noi non abbiamo mai avuto un barboncino, ma credo di poter affermare che il nostro matrimonio sia stato un successo. Con mio marito sono stata me stessa. Ripenso con nostalgia alle domeniche mattina, quelle mattine santificate (dal riposo, quando nella cucina silenziosa lui beveva il caffè e io leggevo.

L'avevo sposato a diciassette anni dopo un corteggiamento breve ma corretto. Lui lavorava in fabbrica come i miei fratelli maggiori e a volte veniva a casa con loro a bere un caffè e un bicchierino. Ahimè, ero brutta. E dire che, se fossi stata brutta come le altre, non sarebbe stato un fattore determinante. Ma la mia bruttezza era di una crudeltà riservata solo a me e, privandomi di ogni freschezza sebbene non fossi ancora una donna, a soli quindici anni mi faceva sembrare come sarei stata a cinquanta. La schiena curva, la corporatura massiccia, le gambe corte, i piedi distanti, la folta peluria, i tratti indefiniti, insomma privi di contorni e grazia, forse mi sarebbero stati perdonati in 25

virtù del fascino che contraddistingue sempre la giovinezza, quand'anche ingrata - e invece io a vent' anni avevo già l'aria della babbiona.

Per cui, quando le intenzioni del mio futuro marito si fecero più esplicite e non mi fu più possibile ignorarle, mi aprii a lui, parlando per la prima volta con franchezza a qualcuno che non fossi io, e gli confessai il mio stupore all'idea che desiderasse davvero sposarmi. Ero sincera. Da molto tempo mi ero adeguata alla prospettiva di una vita in solitudine. Nella nostra società essere povera, brutta e per giunta intelligente condanna a percorsi cupi e disillusi a cui è

meglio abituarsi quanto prima. Alla bellezza si perdona tutto, persino la volgarità. E l'intelligenza non sembra più una giusta compensazione delle cose, una sorta di riequilibrio che la natura offre ai figli meno privilegiati, ma solo un superfluo gingillo che aumenta il valore del gioiello. La bruttezza, invece, di per sé è sempre colpevole, e io ero già votata a quel tragico destino, reso ancora più

doloroso se si pensa che non ero affatto stupida.

«Renée» mi rispose lui con tutta la serietà di cui era capace e profondendo in questo lungo monologo una facondia che in seguito non avrebbe mai più sfoggiato. «Renée, non voglio per moglie una di queste ingenue che fanno tanto le spudorate e dietro a quei musetti graziosi non hanno più

cervello di un passerotto. Voglio una donna fedele, brava moglie, brava madre e brava donna di casa. Voglio una compagna calma e fidata che stia al mio fianco e mi sostenga. In cambio tu da me puoi aspettarti impegno nel lavoro, tranquillità in casa e tenerezza al momento opportuno. Sono un buon diavolo e farò del mio meglio».

E così fu.

Piccolo e secco come un fuscello, aveva comunque una faccia gradevole, in genere sorridente. Non beveva, non fumava, non masticava tabacco, non faceva scommesse. Dopo il lavoro, a casa guardava la televisione, sfogliava riviste di pesca oppure giocava a carte con gli amici della fabbrica. Estremamente socievole, invitava gente spesso e volentieri. La domenica andava a pescare. Io invece mi dedicavo alle faccende di casa, dato che lui preferiva che non andassi a lavorare da altri. Non era sprovvisto di intelligenza, sebbene la sua non fosse del tipo apprezzato dalla società. Le sue competenze si limitavano ai lavori manuali, tuttavia dava prova di un talento che non atteneva solo alle capacità motorie e, sebbene non fosse istruito, affrontava ogni cosa con quell'ingegnosità

che nelle inezie distingue i laboriosi dagli artisti e nella conversazione insegna che il sapere non è

tutto. Rassegnata ben presto a un'esistenza monacale, mi sembrava quindi già tanto che come marito il cielo mi avesse messo a portata di mano un compagno dai modi così piacevoli, il quale, pur non essendo un intellettuale, non per questo era meno arguto.

Sarei potuta finire con un Grelier.

26

Bernard Grelier è uno di quei pochi esseri al numero 7 di rue de Grenelle davanti al quale non temo di tradirmi. Che io gli dica: «Guerra e pace è la messinscena di una visione determinista» o

«Farebbe bene a oliare i cardini del locale rifiuti», lui attribuirà a entrambe le frasi lo stesso senso, né più né meno. Oltretutto mi chiedo per quale inspiegabile miracolo la seconda asserzione riesca a innescare in lui un principio di azione. Com'è possibile fare una cosa senza capirla? Forse questo tipo di frasi non richiede un'elaborazione razionale, e come quegli stimoli che percorrono un arco nel midollo spinale e innescano il riflesso senza sollecitare il cervello, probabilmente l'ingiunzione a oliare è soltanto una sollecitazione meccanica che mette in moto le membra senza il concorso della mente.

Bernard Grelier è il marito di Violette Grelier, la "governante" degli Arthens. Entrata trent'anni fa a servizio in casa loro come semplice domestica tuttofare, è salita di grado man mano che i signori si sono arricchiti e, ormai governante, regina di un risibile reame che trova espressione nella domestica (Manuela), nel maggiordomo occasionale (inglese) e nell'uomo tuttofare (suo marito), nutre per il popolino lo stesso disprezzo dei suoi padroni altoborghesi. Ciarla tutto il giorno come una cornacchia, si affaccenda di qua e di là dandosi arie, rimproverando il servitorame come alla corte di Versailles dei tempi d'oro, e tormenta Manuela con pontificanti discorsi sull'amore per il lavoro ben fatto e il degrado delle buone maniere.

«Quella Marx non l'ha letto» mi disse un giorno Manuela. Mi colpì la pertinenza di questa constatazione, che proveniva da una domestica portoghese peraltro poco incline allo studio della filosofia. No, senza ombra di dubbio Violette Grelier non aveva letto Marx, per la semplice ragione che non figurava in nessuna lista di prodotti per la pulizia dell'argenteria di lusso. Come conseguenza di questa lacuna, ereditava una vita quotidiana patinata fatta di interminabili cataloghi dedicati all'amido e agli strofinacci di lino.

Il mio quindi era un matrimonio felice.

Per giunta avevo confessato ben presto a mio marito la mia grandissima colpa. 27

Pensiero profondo n° 2

II gatto quaggiù

è un totem moderno

decorativo

Comunque, da noi è proprio così. Se volete capire la nostra famiglia, basta guardare i gatti. I nostri sono due enormi otri per crocchette di lusso senza alcuna interazione di rilievo con le persone. Si trascinano da un divano all'altro lasciando pelo ovunque, e nessuno sembra aver intuito che non provano il benché minimo affetto per chicchessia. L'unico vantaggio dei gatti è che sono oggetti decorativi semoventi, un concetto intellettualmente interessante ma inapplicabile ai nostri due, vista la sporgenza delle loro pance.

Mia madre, che si è letta l'opera omnia di Balzac e cita Flaubert a tutte le cene, è la dimostrazione quotidiana di come l'istruzione sia una vera e propria truffa. Basta guardarla con i gatti. Lei è vagamente cosciente del loro potenziale decorativo, eppure si ostina a parlare con loro come fossero persone, cosa che non le verrebbe in mente con una lampada o una statuina etrusca. Dicono che fino a tarda età i bambini credono che tutto ciò

che si muove abbia un'anima e sia dotato di volontà. Mia madre non è più una bambina, ma a quanto pare non riesce a concepire che Constitution e Parlement non hanno più intelletto di un aspirapolvere. Ammettiamo pure che la differenza fra loro e un aspirapolvere è che un gatto può provare piacere e dolore. Questo significa forse che il gatto è più portato a comunicare con gli esseri umani? Niente affatto. La cosa dovrebbe solo spronarci a prendere particolari precauzioni, come con un oggetto fragile. Quando sento mia madre che dice: «Constitution è una gattina orgogliosa e sensibile al tempo stesso», mentre quella se ne sta stravaccata sul divano perché ha mangiato troppo, mi viene proprio da ridere. Ma se consideriamo l'ipotesi che la funzione del gatto è di essere un totem moderno, una specie di incarnazione emblematica e protettrice del focolare, un riflesso benevolo di quello che sono gli inquilini del a casa, la cosa appare evidente: mia madre trasforma i gatti in ciò che vorrebbe fossimo noi ma che assolutamente non siamo. Non c'è nessuno meno orgoglioso e sensibile dei qui citati componenti della famiglia Josse: papà, mamma e Colombe. Quei tre sono completamente fiacchi e anestetizzati, privi di emozioni. 28

Insomma, penso che il gatto sia un totem moderno. Nonostante tutte le parole, nonostante tutti i bei discorsi sull'evoluzione, la civilizzazione e un mucchio di altri termini in

"-zione", fin dai suoi esordi l'uomo non ha fatto molti progressi: crede ancora di non essere qui per caso e che ci siano degli dèi, perlopiù benevoli, a vegliare sul suo destino. 29

Capitolo quarto

Rifiutando lo scontro

Ho letto tanti libri...

Eppure, come tutti gli autodidatti, non sono mai sicura di quello che ho capito. Un giorno mi sembra di abbracciare con un solo sguardo la totalità del sapere, come se all'improvviso invisibili ramificazioni nascessero, e intrecciassero fra loro tutte le mie letture sparse - poi subito il senso scivola via, l'essenziale mi sfugge, e per quanto rilegga le stesse righe ogni volta mi appaiono più

inafferrabili, mentre io mi vedo come una vecchia pazza che crede di avere la pancia piena soltanto perché ha letto attentamente il menu. Pare che questa compresenza di talento e cecità sia il tratto distintivo dell'autodidatta. Pur privando il soggetto della guida sicura che ogni buona formazione fornisce, gli dona tuttavia libertà e capacità di sintesi del pensiero, laddove i discorsi ufficiali frappongono barriere e vietano l'avventura. Questa mattina per l'appunto me ne sto in cucina, perplessa, con un libretto sotto gli occhi. È

uno di quei momenti in cui mi assale la follia della mia impresa solitaria e in cui, a un soffio dal rinunciare, potrei invece aver trovato finalmente il mio maestro. Il quale maestro risponde al nome di Hussed, un nome che certo non si dà a un animale da compagnia o a una marca di cioccolato, dato che evoca qualcosa di serio, di arcigno e vagamente prussiano. Ma non per questo desisto. Dalla mia sorte ritengo di aver appreso meglio di chiunque altro a resistere alle influenze negative del pensiero universale. Vi dirò: se finora avete pensato che io, passando di bruttezza in vecchiaia e di vedovanza in portierato, sia diventata qualcosa di miserabile, rassegnata alla bassezza del proprio destino, è perché non avete immaginazione. Ho battuto in ritirata, certo, rifiutando lo scontro. Ma, nel chiuso della mia mente, non esiste sfida che io non possa accettare. Umile per nome, posizione e aspetto, nell'intelletto sono una dea invitta. Dunque Edmund Husserl, un nome che vedrei bene per un aspirapolvere senza sacchetto, minaccia l'immutabilità del mio personale Olimpo.

«Bene bene» dico facendo un bel respiro, «per ogni problema c'è una soluzione, non è vero?» e guardo il gatto, aspettandomi un incoraggiamento.

30

L'ingrato non risponde. Ha appena ingurgitato una spaventosa porzione di pàté e, ormai animato da smisurata benevolenza, troneggia in poltrona.

«Bene bene» ripeto stupidamente, e di nuovo contemplo perplessa il ridicolo libretto. Meditazioni cartesiane Introduzione alla fenomenologia. Dal titolo dell'opera e dalla lettura delle prime pagine si capisce subito che non è possibile affrontare Husserl, filosofo fenomenologico, senza prima aver letto Cartesio e Kant. Ma risulta ben presto evidente che destreggiarsi agevolmente tra Cartesio e Kant non basta a spalancare le porte alla fenomenologia trascendentale.

Peccato. Giacché nutro per Kant un'incrollabile ammirazione, e questo per il duplice motivo che il suo pensiero è una mirabile fusione di genio, rigore e follia e che, per quanto la sua prosa sia spartana, non ho incontrato grosse difficoltà a coglierne il senso. Le opere kantiane sono straordinarie, prova ne è la facilità con cui superano gloriosamente il test della susina mirabella. Il test della susina mirabella colpisce per la sua facilità disarmante. Esso trae la sua forza da una constatazione universale: nel mordere il frutto, l'uomo finalmente comprende. Che cosa comprende?

Tutto. Comprende la lenta maturazione di una specie umana votata alla sopravvivenza, che poi un bel giorno giunge all'intuizione del piacere; la vanità di tutti gli appetiti ingannevoli che distolgono dall'aspirazione primaria alla virtù delle cose semplici e sublimi; l'inutilità dei discorsi; la lenta e terribile decadenza dei mondi alla quale nulla sfuggirà, e ciò nonostante la meravigliosa voluttà dei sensi che concorrono a insegnare agli uomini il piacere e la spaventevole bellezza dell'Arte. Il test della mirabella si svolge nella mia cucina. Poggio sul tavolo di formica il frutto e il libro e, addentando l'uno, mi lancio anche sull'altro. Se entrambi resistono ai vigorosi assalti reciproci, se la susina non riesce a farmi dubitare del testo e il testo non giunge a rovinare il frutto, allora so che mi trovo davanti a un'impresa di una certa importanza e, diciamolo pure, inconsueta, perché ben poche opere non risultano ridicole, insulse e annientate dalla straordinaria succulenza delle piccole delizie dorate.

«Sono fritta» dico ancora a Lev, «perché le mie conoscenze in materia di kantismo sono davvero poca cosa di fronte all'abisso della fenomenologia».

Non ho molte alternative. Devo recarmi in biblioteca e vedere di scovare un'introduzione alla faccenda. Di solito diffido di questi commenti o sintesi, che imprigionano il lettore in un pensiero scolastico. Ma la situazione è troppo grave perché possa concedermi il lusso di tergiversare. La fenomenologia mi sfugge, e questo mi è insopportabile. 31

Pensiero profondo n° 3

Quelli più forti

fra tutti gli uomini

non fanno nulla

parlano solamente

parlano di continuo

È un mio pensiero profondo che è nato da un altro pensiero profondo. L'ha espresso un invitato di papà, ieri sera a cena: «Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare insegna agli insegnanti, e chi non sa insegnare agli insegnanti fa politica». A tutti è parsa un'idea molto acuta, ma per motivi fondamentalmente sbagliati. «È proprio vero»

ha detto Colombe, la specialista in finta autocritica. Lei è una di quelli che pensano che sapere è potere e perdono. Se sono consapevole di far parte di un'élite autocompiaciuta che liquida il bene comune per eccesso di arroganza, evito le critiche e ottengo il doppio del prestigio. Anche papà tende a ragionare nello stesso modo, nonostante sia meno cretino di mia sorella. Lui crede ancora che esista una cosa chiamata dovere e, benché secondo me si tratti di una pura chimera, ciò lo rende immune dalla demenza del cinismo. Mi spiego: non c'è nessuno più puerile del cinico, perché il cinico crede ancora con tutte le sue forze che il mondo abbia un senso e non riesce a rinunciare al e sciocchezze del 'infanzia, tanto che assume l'atteggiamento opposto. «Non credo più a nulla, la vita è una puttana e ne godrò fino alla nausea» sono le parole esatte dell'ingenuo scocciato. È così che la pensa mia sorella. Sarà anche una normalista ma crede ancora a Babbo Natale, non perché

sia una persona di buon cuore ma perché è decisamente infantile. Quando il collega di papà se n'è uscito con la sua bella frase, lei ridacchiava stupidamente, della serie ' l'anafora è il mio forte", ed è stata la conferma di quel o che penso da un bel pezzo: Colombe è

un disastro totale.

lo però credo che questa frase sia davvero un pensiero profondo, proprio perché non è

vera, o perlomeno non del tutto. Il suo significato non è quel o che appare a prima vista. Se nel a scala sociale si salisse in funzione della propria incompetenza, vi garantisco che il mondo non girerebbe come gira oggi. Ma il problema non sta qui. Il significato di questa frase non è che gli incompetenti hanno un posto in prima fila, ma che non c'è niente di più

duro e ingiusto della realtà umana: gli uomini vivono in un mondo dove sono le parole e non le azioni ad avere il potere, dove la massima competenza è il control o del linguaggio. 32

È una cosa terribile, perché in definitiva siamo soltanto dei primati programmati per mangiare, dormire, riprodurci, conquistare e rendere sicuro il nostro territorio, e quelli più

tagliati per queste cose, i più animaleschi tra noi, si fanno sempre fregare dagli altri, cioè

da quelli che parlano bene ma che non saprebbero difendere il proprio giardino, portare a casa un coniglio per cena o procreare come si deve. Gli uomini vivono in un mondo in cui sono i deboli a dominare. È un terribile oltraggio al a nostra natura animale, una specie di perversione, di contraddizione profonda.

33

Capitolo quinto

Triste condizione

Dopo un mese di lettura frenetica, con immenso sollievo giungo alla conclusione che la fenomenologia è una truffa. Come le cattedrali hanno sempre risvegliato in me quella sensazione prossima al collasso che si prova di fronte alla manifestazione di ciò che gli uomini possono erigere in onore di qualcosa che non esiste, allo stesso modo la fenomenologia mi lascia totalmente incredula all'idea che sia stata profusa tanta intelligenza in un'impresa così vana. Purtroppo siamo a novembre e non ho susine mirabelle a portata di mano. In simili circostanze, a dire il vero undici mesi l'anno, ripiego sul cioccolato fondente 70%. Ma conosco già in anticipo il risultato della prova. Se solo potessi addentare il mio metro di paragone, leggendo non starei più nella pelle dalla contentezza, e un bel capitolo come "Rivelazione della finalità della scienza nello sforzo di 'viverla' come fenomeno noematico" oppure "I problemi costitutivi dell'io trascendentale" potrebbero persino farmi morire dal ridere, folgorata dritto al cuore nella mia soffice poltrona, con il succo di mirabella o i rivoli di cioccolato che mi colano agli angoli della bocca. Se vogliamo affrontare la fenomenologia dobbiamo essere coscienti che essa si riassume in un duplice interrogativo: qual è la natura della coscienza umana? Che cosa conosciamo del mondo?

Prendiamo la prima parte.

Nei millenni, passando dal "conosci te stesso" a "io penso dunque sono", abbiamo continuato a chiosare sulla ridicola prerogativa dell'uomo per cui egli è cosciente della propria esistenza e, soprattutto, sul fatto che tale coscienza è capace di farsi oggetto di sé stessa. Quando l'uomo ha un prurito da qualche parte, si gratta e ha coscienza del fatto che si sta grattando. Chiedetegli: che cosa stai facendo? e lui risponderà: mi gratto. Spingiamo più in là l'indagine (sei cosciente di essere cosciente che ti stai grattando?) e lui continuerà a rispondere di sì, e così farà per tutti i "sei cosciente?" che possiamo aggiungere. Cuomo, sapendo che si gratta e che ne è cosciente, ha forse per questo meno prurito? La co·· scienza riflessiva ha un'influenza benefica sui pruriti? Giammai!

Sapere che abbiamo prurito ed essere coscienti che siamo coscienti di saperlo non cambia assolutamente nulla al fatto che abbiamo prurito. Inconveniente ulteriore, dobbiamo accettare la lucidità che ci deriva da questa triste condizione, e scommetto dieci chili di mirabelle che tutto questo finisce per ingigantire un fastidio che il mio gatto liquiderebbe con un banale movimento della zampa ante 34

riore. Agli uomini, del resto, sembra straordinario che un essere sappia di sapere che si sta grattando, visto che nessun altro animale ne è capace e che, in questo modo, noi sfuggiamo alla condizione di bestie; e ciò è talmente straordinario che questa preminenza della coscienza umana a molti sembra la manifestazione di qualcosa di divino, qualcosa dentro di noi che sfuggirebbe al freddo determinismo cui sono sottomesse tutte le cose fisiche.

L'intera fenomenologia poggia su questa certezza: la nostra coscienza riflessiva, segno distintivo della nostra dignità ontologica, è l'unica entità in noi degna di essere studiata perché ci salva dal determinismo biologico. Nessuno sembra cosciente del fatto che, essendo noianimali sottomessi al freddo determinismo delle cose fisiche, tutto ciò che viene prima è caduco.

35

Capitolo sesto

Tonache

La seconda domanda, dunque: che cosa conosciamo del mondo?

A questa domanda rispondono gli idealisti come Kant.

Che cosa rispondono?

Rispondono: non un granché.

L'idealismo è quel convincimento secondo cui noi possiamo conoscere solo ciò che appare alla nostra coscienza, quell'entità semidivina che ci salva dalla condizione di bestie. Noi del mondo conosciamo ciò che può dirne la nostra coscienza, perché questo le appare - e nient'altro. Facciamo un esempio a caso, prendiamo un simpatico gatto di nome Lev. Perché? Perché con un gatto credo sia più facile. Vi chiedo: come potete essere certi che si tratti di un gatto e addirittura sapere che cos'è un gatto? Potremmo plausibilmente supporre che questa conoscenza si formi grazie alla vostra percezione dell'animale, corredata da qualche meccanismo concettuale e linguistico. Gli idealisti invece rispondono che è impossibile sapere se ciò che noi percepiamo e concepiamo del gatto, ciò che la nostra coscienza avverte come gatto, sia o meno perfettamente conforme a quello che è il gatto nella sua intimità profonda. Forse il mio gatto, che al momento colgo come un quadrupede obeso con baffi vibranti e che nella mia mente sistemo nella casella etichettata" gatto", è in verità e nella sua stessa essenza un'appiccicosa palla verde che non fa miao. Ma i miei sensi sono conformati in modo tale che non mi appaia questo, e che l'immondo ammasso di colla verde, ingannando il mio disgusto e la mia ingenua fiducia, si presenti alla mia coscienza nelle sembianze di un animale domestico ingordo e setoso.

Ecco l'idealismo kantiano. Del mondo noi conosciamo solo l'idea che se ne forma la nostra coscienza. Ma esiste una teoria ancora più deprimente di questa, una teoria che apre prospettive ancora più spaventose che dell'accarezzare senza rendersene conto un pezzo di bava verde o, al mattino, cacciare in una cavità pustolosa i toast che voi pensavate destinati al tostapane. Esiste l'idealismo di Edmund Husserl, nome che ormai mi fa pensare a una marca di tonache per preti irretiti da un oscuro scisma della chiesa battista.

Per quest'ultima teoria esiste solo l'apprensionedel gatto. 36

E il gatto? Vabbè, ci si passa sopra. Il gatto non serve. A che ci serve? Quale gatto? A questo punto la filosofia è libera di abbandonarsi completamente alla lussuria del puro spirito. Il mondo è

una realtà inaccessibile che sarebbe vano tentare di conoscere. Che cosa conosciamo del mondo?

Niente. Se ogni conoscenza non è altro che l'esplorazione che la coscienza riflessiva compie di sé

stessa, allora possiamo mandare il mondo a quel paese.

Questa è la fenomenologia: la "scienza di ciò che appare alla coscienza". Come si svolge la giornata di un fenomenologo? Si alza, è cosciente di insaponare sotto la doccia un corpo la cui esistenza è priva di fondamento, di buttar giù toast annichiliti, di infilarsi abiti che sono come parentesi vuote, di recarsi in ufficio e di afferrare un gatto.

Poco lo riguarda se questo gatto esiste o non esiste e che cosa sia nella sua essenza. L'indimostrabile non lo interessa. Al contrario, è innegabile che alla sua coscienza appaia un gatto, ed è

proprio questo apparire che preoccupa il nostro uomo.

Un apparire, del resto, parecchio complicato. A questo punto è veramente notevole che si possa spiegare nei particolari come funziona, da parte della coscienza, l'apprensione di una cosa la cui esistenza in sé è indifferente. Sapevate che la nostra coscienza non percepisce al volo, ma effettua complicate serie di sintesi che, creando profili successivi, giungono a far apparire ai nostri sensi oggetti diversi, come per esempio un gatto, una scopa o uno scacciamosche (e Dio solo sa se è utile)?

Fate questo esercizio: guardate il vostro gatto e chiedetevi come possa accadere che voi sappiate com'è fatto davanti, dietro, di sotto e di sopra, mentre in questo momento lo percepite solo di fronte. Evidentemente, senza che voi nemmeno ci faceste caso, sintetizzando le molteplici percezioni del vostro gatto sotto tutte le angolazioni possibili, la vostra coscienza alla fine deve aver creato questa immagine completa del gatto che pure la vostra visione attuale non vi consente. Stessa cosa per lo scacciamosche, che percepite sempre in un'unica direzione benché nella vostra mente possiate visualizzarlo tutto intero e, miracolo, sappiate com'è fatto dall'altra parte senza nemmeno girarlo. Bisogna convenire che questo sapere è estremamente utile. Non possiamo immaginarci Manuela che si serve di uno scacciamosche, senza mobilitare all'istante la sua personale conoscenza dei diversi profili necessari all'apprensione. D'altra parte, non riusciamo a immaginarci Manuela che si serve di uno scacciamosche per il semplice motivo che negli appartamenti dei ricchi le mosche non ci sono mai. Né mosche né sifilide né cattivi odori né segreti di famiglia. In casa dei ricchi tutto è

pulito, levigato, sano e, di conseguenza, al riparo dalla tirannide degli scacciamosche e dalla pubblica riprovazione. Ecco quindi la fenomenologia: un solitario e infinito monologo della coscienza con sé stessa, un autismo duro e puro che nessun vero gatto andrà mai a importunare.

37

Capitolo settimo

Nel Sud confederato

«Cos'è che sta leggendo?» mi chiede Manuela arrivando con il fiatone dagli appartamenti di sua Altezza de Broglie la quale, sfinita per i preparativi della cena di stasera, sembra in preda a un attacco di tubercolosi. Dopo aver ricevuto dal fattorino sette scatole di caviale Petrossian, respirava come Dart Fener.

«Un' antologia di poesie folcloristiche» rispondo, e chiudo per sempre il capitolo Husserl. Oggi Manuela è di buon umore, lo capisco subito. Scarta con vivacità un cestino saturo di pasticcini ancora orlati dalle corolle bianche in cui sono stati cotti, si siede e liscia accuratamente la tovaglia con il palmo della mano, preludio a una dichiarazione entusiasmante. Dispongo le tazze, mi siedo a mia volta e aspetto. «Madame de Broglie non è soddisfatta dei suoi tartufi» comincia.

«Ah, davvero?» dico educatamente.

«Non profumano» prosegue con aria perfida, come se questa mancanza fosse per la signora una somma offesa personale.

Ci gustiamo questa informazione come merita, e mi immagino con piacere Bernadette de Broglie sconvolta e scarmigliata che, nella sua cucina, si ingegna a vaporizzare sui trasgressori un decotto di porcini e gallinacci nella speranza ridicola e folle che alla fine esalino qualcosa che ricordi vagamente il bosco.

«E Neptune ha fatto la pipì sulla gamba di monsieur SaintNice» continua Manuela. «Deve averla trattenuta per ore, e quando Monsieur ha tirato fuori il guinzaglio quella povera bestia non ha potuto più aspettare e ha provveduto nell'ingresso, sull'orlo dei suoi pantaloni». Neptune è il cocker dei proprietari al terzo piano, lato destro. Il secondo e il terzo piano sono gli unici a essere divisi in due appartamenti (di duecento metri quadrati l'uno). Al primo piano ci sono i de Broglie, al quarto gli Arthens, al quinto i Josse e al sesto i Pallières. Al secondo ci sono i Meurisse e i Rosen. Al terzo i Saint-Nice e i Badoise. Neptune è il cane dei Badoise, o più esattamente di mademoiselle Badoise, che studia legge ad Assas e organizza feste con altri proprietari di cocker che studiano legge ad Assas.

38

Ho una grande simpatia per Neptune. Sì, ci stimiamo molto, forse in virtù della complicità nata dal fatto che i sentimenti dell'uno sono immediatamente accessibili all'altra. Neptune sente che gli voglio bene; i suoi vari desideri mi sono evidenti. Il bello è che si ostina a essere un cane, mentre la sua padrona vorrebbe che fosse un gentleman. Quando esce in cortile, in fondo al guinzaglio di cuoio fulvo, guarda con bramosia le pozzanghere di acqua fangosa che se ne stanno lì nell'ozio. La padrona dà un colpo secco al giogo, lui abbassa il deretano fino a terra e, senza tante cerimonie, si lecca gli attributi. Athéna, la ridicola whippet dei Meurisse, lo fa sbavare come un satiro lubrico e lui ansima al solo pensiero, mentre la sua testa si riempie di fantasie. La cosa particolarmente buffa nei cocker è la loro andatura ondeggiante quando sono di umore faceto; è come se delle piccole molle, avvitate sotto le zampe, li proiettassero verso 1'alto - ma dolcemente, senza sbalzi. Questo stesso movimento agita anche le zampe e le orecchie come il rollio con una barca, e il cocker, piccola nave simpatica che solca la terraferma, porta in questi luoghi urbani un tocco marittimo di cui sono ghiotta.

Neptune, per concludere, è un gran golosone, pronto a tutto per le vestigia di un raperonzolo o per una crosta di pane raffermo. Quando la sua padrona passa davanti al locale rifiuti, lui tira come un matto in direzione del suddetto, con la lingua ciondoloni, dimenando la coda. Per Diane Badoise è una disperazione! Secondo quest'anima nobile, il suo cane dovrebbe essere come le ragazze della buona società di Savannah, nel Sud confederato di prima della Guerra di secessione, che potevano trovare marito solo se fingevano di non avere affatto appetito.

E invece Neptune fa lo yankee affamato.

39

Diario del movimento del mondo n° 2

Bacon per il cocker

Nel condominio ci sono due cani: la whippet dei Meurisse, che sembra uno scheletro coperto da uno strato di cuoio beige, e un cocker rossiccio appartenente a Diane Badoise, la figlia dell'avvocato con la puzza sotto al naso, una bionda anoressica che indossa impermeabili Burberry. La whippet si chiama Athéna e il cocker Neptune. Nel caso non vi fosse ancora chiaro in che tipo di palazzo abito. Nessun Fido né Rex da noi. Bene, ieri i due cani si sono incrociati nell'atrio, e io ho avuto modo di assistere a un interessante balletto. Sorvoliamo sul fatto che i cani si sono annusati il sedere. Non so se Neptune ce l'ha puzzolente, vero è che Athéna è balzata all'indietro, mentre lui pareva stesse annusando un bouquet di rose con dentro una bella bistecca al sangue.

No, la cosa interessante erano le due umane al 'altro capo dei guinzagli. In città, infatti, sono i cani a tenere i padroni al guinzaglio, per quanto nessuno sembra intuire che farsi carico volontariamente di un cane da portare fuori due volte al giorno, con la pioggia, il vento o la neve, è come mettersi da soli un guinzaglio attorno al col o. Per farla breve, Diane Badoise e Anne-Hélène Meurisse (stesso modello a venticinque anni di distanza) si sono incrociate nell'atrio ognuna al 'estremità del proprio guinzaglio. Questa circostanza è

sempre una vera comica! Sono impacciate come se avessero le mani e i piedi palmati, perché non possono fare l'unica cosa efficace in una situazione del genere: riconoscere quello che sta succedendo, per poterlo impedire. Ma siccome fingono di credere che portano a spasso dei raffinati peluche privi di qualsiasi pulsione fuori luogo, non possono sbraitare ai loro cani di smettere di annusarsi il culo o di leccarsi gli zebedei. Quindi ecco cos'è successo: Diane Badoise è uscita dall'ascensore con Neptune, e Anne-Hélène Meurisse aspettava proprio lì davanti con Athéna. Quindi per così dire è

come se avessero lanciato i cani uno addosso all'altro, e ovviamente, com'era inevitabile, Neptune è impazzito. Non capita tutti i giorni di uscire bello tranquil o dal 'ascensore e ritrovarsi col muso sul sedere di Athéna. Sono anni e anni che Colombe ci rompe le scatole con il kairòs, un concetto greco che significa più o meno il "momento propizio", quel a cosa che secondo lei Napoleone sapeva cogliere - perché chiaramente mia sorella è una specialista di strategia militare. Insomma, il kairòs è l'intuizione del momento. Beh, posso dirvi che Neptune aveva il suo kairòs proprio sul muso e non ha tergiversato, si è comportato da vero cavaliere: ci è salito sopra. «Oh mio Dio!» ha detto Anne-Hélène Meurisse, nean 40

che fosse stata lei la vittima del 'oltraggio. «Oh no!» ha esclamato Diane Badoise come se tutta la vergogna ricadesse su di lei, mentre scommetto un Ferrera Rocher che non le sarebbe mai venuto in mente di salire sul didietro di Athéna. E tutte e due hanno cominciato a tirare il guinzaglio dei loro cani, però è sorto un problema, ed è proprio da lì che è nato il movimento interessante.

Di fatto Diane avrebbe dovuto tirare verso l'alto e AnneHélène verso il basso, così da staccare i due cani, ma invece si sono mosse lateralmente, e siccome davanti all'ascensore è piuttosto stretto, ben presto sono andate a sbattere tutte e due contro un ostacolo: una contro il cancello dell'ascensore, l'altra contro il muro di sinistra, e così Neptune, destabilizzato dal primo strattone, ha ripreso slancio e si è ancorato più forte ad Athéna, che roteava gli occhi terrorizzati urlando. A quel punto le umane hanno cambiato strategia, tentando di trascinare i cani verso spazi più ampi per poter ripetere la manovra più

comodamente. Ma la cosa si faceva urgente: lo sanno tutti che a un certo momento non è

più possibile staccare i cani. Quindi hanno messo il turbo, gridando all'unisono «Oh mio Dio, oh mio Dio» e tirando i guinzagli come se ne andasse della loro virtù. Ma nella fretta Diane Badoise è leggermente scivolata e ha preso una storta. Ed ecco il movimento interessante: la caviglia si è piegata verso l'esterno e contemporaneamente tutto il corpo è

andato nella stessa direzione fuorché la coda di cavallo, che è partita dall'altra parte. Vi giuro che è stato stupendo: sembrava un Francis Bacon.

Da anni nel bagno dei miei genitori c'è un quadro di Bacon al a parete, con uno sulla tazza, per l'appunto, esattamente in stile Bacon, martoriato e poco invitante. Ho sempre pensato che avesse una certa influenza sulla tranquillità delle operazioni, ma comunque sia qui ognuno ha il suo bagno e quindi non mi sono mai lamentata. Però quando Diane Badoise si è presa la storta disarticolandosi completamente, creando strani spigoli con le ginocchia, le braccia e la testa, il tutto coronato dal a coda di cavallo in orizzontale, mi è

subito venuto in mente il Bacon. Per un brevissimo istante mi ha fatto pensare a una marionetta disarticolata, come se il suo corpo prendesse una stecca, e per alcuni millesimi di secondo (perché è stata una cosa rapidissima, ma dato che ora sono molto attenta ai movimenti del corpo, l'ho visto come al a moviola) Diane Badoise mi ha ricordato un soggetto di Bacon. Da lì a pensare che da anni questo affare sta in bagno solo per permettermi di apprezzare per bene un così strano movimento, è un attimo. Poi Diane è caduta sui cani e così ha risolto il problema, perché Athéna, spiaccicandosi a terra, è sfuggita a Neptune. Quindi c'è stato un balletto complicato: Anne-Hélène voleva soccorrere Diane, pur tenendo la sua cagnetta al a larga dal mostro lubrico, e Neptune, completamente indifferente al e 41

grida di dolore della sua padrona, continuava a tirare in direzione della bistecca alle rose. In quel momento però è uscita dalla guardiola madame Michel, e io ho afferrato il guinzaglio di Neptune e l'ho portato un po' più in là. Era proprio deluso, poverino. E così si è seduto e ha cominciato a leccarsi gli zebedei con molti slurp, cosa che ha fatto disperare ancora di più la povera Diane. Madame Michel ha chiamato un'ambulanza, perché la caviglia stava diventando un cocomero, e poi ha riportato Neptune di sopra, mentre Anne-Hélène Meurisse è rimasta con Diane. lo sono tornata a casa pensando: bene, un Bacon dal vivo, ne vale la pena al ora?

Ho deciso di no: perché non solo Neptune è rimasto senza leccornia, ma non ha nemmeno fatto la sua passeggiatina. 42

Capitolo ottavo

Profeta delle moderne élite

Questa mattina, ascoltando France Inter, con mia grande sorpresa ho scoperto che non ero quello che pensavo di essere. Finora avevo attribuito il mio eclettismo culturale alla mia condizione di autodidatta proletaria. Come ho già ricordato, ho trascorso ogni istante della mia vita che potevo sottrarre al lavoro a leggere, guardare film e ascoltare musica. Ma questa frenesia nel divorare prodotti culturali mi sembrava patisse di una suprema mancanza di gusto, una mescolanza brutale di opere rispettabili e altre che lo erano molto meno.

Sebbene quello della lettura sia l'ambito in cui il mio eclettismo è meno esteso, anche lì la mia varietà di interessi è decisamente notevole. Ho letto opere di storia, di filosofia, di economia politica, di sociologia, di psicologia, di pedagogia, di psicanalisi e, ovviamente e innanzitutto, di letteratura. Se le prime mi hanno interessato, quest'ultima è tutta la mia vita. Il mio gatto, Lev, porta questo nome per via di Tolstoj. Il precedente si chiamava Dongo come Fabrice del. Il primo aveva nome Karenina come Anna, ma lo chiamavo solo Kare, per timore di essere smascherata. A parte l'infedeltà stendhaliana, i miei gusti si collocano senza ombra di dubbio nella Russia ante 1910, ma vado fiera di aver divorato una parte tutto sommato apprezzabile della letteratura mondiale, se si pensa che sono una ragazza di campagna le cui prospettive di carriera hanno superato ogni speranza fino a condurmi al portierato del 7 di rue de Grenelle, e che normalmente una tale sorte avrebbe dovuto consacrarmi al culto eterno di Barbara Cartland. Confesso di avere una predilezione colpevole per i romanzi polizieschi - ma quelli che leggo li considero alta letteratura. Certi giorni mi risulta particolarmente difficile dovermi strappare alla lettura di un Connelly o di un Mankell per andare a rispondere alla scampanellata di Bernard Grelier o di Sabine Pallières, le cui ansie non si accordano affatto con le meditazioni di Harry Bosch, lo sbirro appassionato di jazz del Los Angeles Police Departement, soprattutto quando mi dicono:

«È intollerabile che la puzza di spazzatura si sente fino in cortile». Che Bernard Grelier e l'erede di un' antica famiglia di banchieri possano preoccuparsi per le stesse cose triviali, e al contempo ignorare entrambi che le espressioni impersonali reggono il congiuntivo, getta nuova luce sul genere umano. 43

In campo cinematografico, invece, il mio eclettismo è illimitato. Mi piacciono i blockbuster americani e i film d'autore. In effetti per molto tempo ho consumato preferibilmente cinema d'intrattenimento americano o inglese, se si esclude qualche opera seria che giudicavo solo con il mio occhio estetico, mentre l'occhio passionale ed empatico aveva frequentazioni unicamente con lo svago. Greenaway mi suscita ammirazione, interesse e sbadigli, mentre piango come una fontana ogni volta che Melly e Mama salgono le scale dei Butler dopo la morte di Bonnie Blue, e considero Blade Runner un capolavoro del divertimento di alto livello. Per molto tempo ho ritenuto una fatalità che la settima arte fosse bella, potente e soporifera e che il cinema di in trattenimento fosse frivolo, piacevole e sconvolgente.

Guardate, oggi per esempio fremo d'impazienza pensando al regalo che mi sono fatta. È il frutto di un' attesa esemplare, 1'appagamento a lungo rimandato del desiderio di rivedere un film che ho visto per la prima volta nel Natale del 1989.

44

Capitolo nono

Ottobre Rosso

Nel Natale del 1989 Lucien era molto malato. Non sapevamo ancora quando sarebbe arrivata la morte, ma eravamo legati dalla certezza della sua imminenza, legati dentro noi stessi e legati l'un 1'altro da questo vincolo invisibile. Quando la malattia entra in una casa non si impossessa soltanto di un corpo, ma tesse tra i cuori un'oscura rete che seppellisce la speranza. Come una ragnatela che avvolgeva i nostri progetti e il nostro respiro, giorno dopo giorno la malattia inghiottiva la nostra vita. Quando rincasavo, avevo la sensazione di entrare in un sepolcro e avevo sempre freddo, un freddo che niente riusciva a mitigare, al punto che negli ultimi tempi, quando dormivo al fianco di Lucien, mi sembrava che il suo corpo assorbisse tutto il calore che il mio era riuscito a trafugare altrove. La malattia, diagnosticata nella primavera del 1988, lo consumò per diciassette mesi e se lo portò via la vigilia di Natale. L'anziana madame Meurisse organizzò una colletta tra gli abitanti del palazzo e in guardiola fu deposta una bella corona di fiori, cinta da un nastro senza nessuna dedica. Alle esequie venne solo lei. Era una donna pia, fredda e altezzosa, ma nei suoi modi austeri e un po'

bruschi c'era qualcosa di sincero, e quando morì, un anno dopo Lucien, giunsi alla conclusione che era una donna per bene e che mi sarebbe mancata, benché in quindici anni non ci fossimo quasi mai rivolte la parola.

«Fino all'ultimo ha reso la vita della nuora un inferno. Pace all'anima sua, era una santa donna»

aveva aggiunto a mo' di orazione funebre Manuela, che provava per la giovane madame Meurisse un odio raciniano.

Esclusa Cornélia Meurisse, con le sue velette e i suoi rosari, nessuno considerò la malattia di Lucien una cosa degna di interesse. Magari i ricchi pensano che la gente modesta, forse perché ha una vita rarefatta, priva dell'ossigeno del denaro e del savoir-faire, vive le emozioni umane con scarsa intensità e maggiore indifferenza. Essendo portinai, era acquisito che per noi la morte fosse un evento scontato, nell'ordine delle cose, mentre per i possidenti essa avrebbe rivestito gli abiti dell'ingiustizia e del dramma. Un portinaio che si spegne è un piccolo vuoto nello scorrere della vita quotidiana, una certezza biologica a cui non è associata nessuna tragedia. Per i proprietari che lo incrociavano ogni giorno per le scale o sulla soglia della guardiola, Lucien era una non-esistenza che 45

tornava al nulla da cui non era mai uscito, un animale che, vivendo una vita a metà senza fasti né artifici, al momento della morte doveva senz'altro provare solo un senso di ribellione a metà. Da queste parti, a nessuno poteva mai venire in mente che, come ogni altro, anche noi potessimo passare le pene dell'inferno, e che con il cuore stretto dalla rabbia man mano che il dolore ci devastava l'esistenza, fossimo sopraffatti dalla cancrena interiore, nel tumulto della paura e dell'orrore che la morte infonde in ognuno.

Una mattina, mancavano tre settimane a Natale, mentre tornavo dalla spesa con una cesta piena di raperonzoli e di polmone per il gatto, trovai Lucien vestito, pronto per uscire. Si era perfino annodato la sciarpa attorno al collo e mi aspettava in piedi. Abituata alle deambulazioni stremanti di un marito che nel tragitto dalla camera alla cucina si svuotava di ogni forza e diventava di un pallore spaventoso, dopo molte settimane in cui non lo avevo mai visto abbandonare un pigiama che pareva l'abito stesso del trapasso, a trovarmelo davanti con lo sguardo luminoso e l'aria birichina, il bavero del cappotto ben alzato fino alle guance stranamente rosa, per poco non svenni.

«Lucien!» urlai, e stavo per andargli incontro per sorreggerlo, metterlo a sedere, spogliarlo e chissà cos'altro, tutti quei gesti sconosciuti che la malattia mi aveva insegnato e che negli ultimi tempi erano diventati gli unici che sapessi fare; stavo per posare la sporta, abbracciarlo, stringerlo a me, accompagnarlo e tutto il resto, quando, con il fiato corto e una strana sensazione di dilatazione al cuore, mi fermai.

«Facciamo appena in tempo» mi disse Lucien, «il film comincia all'una». Nel calore della sala, con le lacrime agli occhi, felice come non ero mai stata, strinsi la sua mano, tiepida per la prima volta dopo mesi. Sapevo che un afflusso inatteso di energia lo aveva tirato su dal letto, gli aveva dato la forza di vestirsi, la voglia di uscire, il desiderio di condividere ancora una volta questo piacere coniugale, e sapevo anche che era il segno che restava poco tempo, lo stato di grazia che precede la fine, ma non mi importava e volevo soltanto godermi quel momento, gli attimi strappati al giogo della malattia, la sua mano tiepida nella mia e i brividi di piacere di entrambi perché, grazie al cielo, era un film che potevamo apprezzare tutti e due. Penso che morì subito dopo. Il suo corpo rimase altre tre settimane, ma il suo spirito se n'era andato alla fine del film, perché lui sapeva che era meglio così, perché mi aveva detto addio nella sala buia, senza rimpianti troppo dolorosi, perché aveva trovato la pace in questo modo confidando in quello che ci eravamo detti scambiandoci qualche parola, guardando insieme lo schermo illuminato dove si dipanava una storia.

Lo accettai.

Caccia a Ottobre Rosso fu il film del nostro ultimo abbraccio. Chi vuole capire l'arte del racconto non ha che da vederlo. Mi domando perché l'università si ostini a insegnare i princìpi narrativi a 46

colpi di Propp, Greimas o altre torture simili invece di investire in una sala di proiezione. Premesse, intrigo, attanti, peripezie, quête, eroi e altri aiutanti: molto meglio uno Sean Connery in uniforme da sommergibilista russo e qualche portaerei ben piazzata.

E insomma, dicevo, ho appreso questa mattina ascoltando France Inter che la contaminazione tra le mie aspirazioni alla cultura legittima e la propensione alla cultura illegittima non è un marchio imputabile alla mia bassa estrazione e al mio accesso solitario ai lumi della mente, bensì una caratteristica delle odierne classi intellettuali dominanti. Come l'ho appreso? Per bocca di un sociologo, e avrei desiderato ardentemente sapere se anche lui fosse interessato a sapere che una portinaia con le pantofole del dottor Scholl lo aveva appena innalzato a icona sacra. Studiando l'evoluzione delle abitudini culturali degli intellettuali, un tempo immersi dall'alba al tramonto nell'alta erudizione e oggi, al contrario, diventati poli di sincretismo in cui la frontiera tra la vera e la falsa cultura è irrimediabilmente confusa, il sociologo descriveva un professore di lettere classiche che un tempo avrebbe ascoltato Bach, letto Mauriac e guardato i capolavori del cinema e i film d'essai, ma che oggi ascolta Haendel e MC Solaar, legge Flaubert e John Le Carré, va a vedersi un Visconti e l'ultimo Die Hard Duri a morire, e mangia hamburger a mezzogiorno e sushi la sera. È sempre molto sconcertante scoprire che quello che credevamo il segno distintivo della nostra originalità è invece un habitus sociale dominante. Sconcertante e forse anche offensivo. Che io, Renée, cinquantaquattro anni, portinaia e autodidatta, proprio io, nonostante la clausura in una guardiola convenzionale, nonostante un isolamento che avrebbe dovuto proteggermi dalle tare della massa, e ancora nonostante questa vergognosa quarantena lontana dalle evoluzioni del vasto mondo nella quale mi sono confinata, che io, Renée, sia la testimone della stessa trasformazione che sconvolge le attuali élite - costituite dai giovani Pallières normalisti che leggono Marx e se ne vanno in massa a vedereTerminator, o dalle giovani Badoise che studiano legge ad Assas e singhiozzano davanti a Notting Hill -è uno shock da cui fatico a riprendermi. E chi presta attenzione alla cronologia vedrà senza ombra di dubbio che io non scimmiotto affatto questi giovincelli, ma che, con le mie abitudini eclettiche, li ho semplicemente preceduti.

Renée, profeta delle élite contemporanee.

«E perché no, perché no» mi dico, tirando fuori dalla sporta la fetta di polmone di vitello per il gatto e riesumando poi, più in basso, ben incartati in una busta di plastica anonima, due filettini di triglia di sabbia che ho intenzione di lasciar marinare e poi cuocere in un succo di limone profumato di coriandolo.

Ed è in questo momento che accade la cosa.

47

Pensiero profondo n° 4

Prenditi cura

di tutte le tue piante

e dei bambini

Abbiamo una donna di servizio che viene qui tre ore al giorno, ma delle piante si occupa la mamma. Ed è uno spettacolo incredibile. Ha due innaffiatoi, uno per l'acqua concimata, uno per l'acqua distillata, e un vaporizzatore con diverse posizioni per nebulizzazioni "mirate", "a pioggia" o "a nuvola". Ogni mattina passa in rassegna le venti piante dell'appartamento somministrando loro trattamenti personalizzati. E borbotta un mucchio di cose, completamente isolata dal resto del mondo. Quando si occupa del e piante puoi dirle qualunque cosa, la mamma non ci farà assolutamente caso. Per esempio, «Oggi ho intenzione di drogarmi e di andare in overdose» avrà come risposta: «La kenzia ha le foglie un po' gialline in punta, troppa acqua, non va per niente bene». Già intuiamo l'inizio del paradigma: se nella vita vuoi fare fiasco, non ascoltare mai quello che ti dicono gli altri, ma occupati delle piante. E non è finita qui. Quando la mamma spruzza l'acqua sulle foglie, la vedo animarsi di speranza. Lei pensa che sia una specie di balsamo che penetra nelle piante e fornisce loro il necessario per crescere. Stessa cosa per il concime a forma di bastoncini che conficca nella terra (o meglio in un misto di terraterriccio-sabbia-torba che fa preparare ad hoc per ogni pianta dal garden center di Porte d'Auteuil). Quindi la mamma nutre le sue piante così come ha nutrito i figli: acqua e concime per la kenzia, fagiolini e vitamina C per noi. Ed ecco il nocciolo del paradigma: rimani concentrato sull'oggetto, procuragli i princìpi nutritivi che dall'esterno vanno verso l'interno e che, agendo da dentro, lo fanno crescere e gli fanno bene. Una spruzzatina sulle foglie, ed ecco che la pianta è pronta per affrontare la vita. Guardala con un misto di inquietudine e di speranza, consapevole della fugacità del a vita, preoccupata per gli incidenti che possono capitare, ma nel o stesso tempo soddisfatta per aver fatto tutto il possibile, per aver svolto il tuo ruolo di nutrice: per un po' ci si sente tranquilli e al sicuro. È così che la mamma vede la vita: una serie di azioni esorcizzanti, inefficaci quanto una spruzzatina, che danno una breve illusione di sicurezza.

Sarebbe molto meglio se potessimo condividere la nostra insicurezza, penetrare tutti insieme dentro noi stessi e dichiarare che i fagiolini e la vitamina C, pur nutrendo l'animale, non salvano la vita e non sostentano lo spirito. 48

Capitolo decimo

Un gatto chiamato Grammaticus

Alla guardiola suona Chabrot.

Chabrot è il medico personale di Pierre Arthens. È una specie di anziano dongiovanni perennemente abbronzato, che davanti al Maestro si contorce da vero verme qual è, e che in vent'anni non solo non mi ha mai salutata, ma non ha neppure dato segno che io gli apparissi. Potrebbe essere un'interessante esperienza fenomenologica indagare i motivi per cui alla coscienza di alcuni non appare ciò che invece appare alla coscienza di altri. Che la mia immagine possa al contempo imprimersi nella zucca di Neptune e fare fiasco in quella di Chabrot è, in effetti, una cosa davvero sorprendente.

Ma questa mattina Chabrot sembra completamente sbiadito. Ha le guance cadenti, gli trema la mano e il naso è... umido. Sì, umido. A Chabrot, il medico dei potenti, cola il naso. Per giunta, pronuncia il mio nome.

«Madame Michel».

Forse non si tratta di Chabrot, ma di una sorta di extraterrestre trasformista con un servizio informazioni che lascia a desiderare, perché il vero Chabrot non si riempie la mente di informazioni sui subalterni, anonimi per definizione.

«Madame Michel» riprende l'imitazione malriuscita di Chabrot, «madame Michel». Dunque si dev'essere sparsa la voce. Io mi chiamo madame Michel.

«È accaduta una terribile disgrazia» ricomincia Naso che Cola il quale, perdindirindina, invece di soffiarsi il naso tira su.

Questa poi! Tira su col naso rumorosamente, ricacciando la secrezione nasale nel luogo da cui non è mai nemmeno venuta, e io, a causa della rapidità dell'azione, sono costretta ad assistere alle febbrili contrazioni del suo pomo d'Adamo intese a facilitare il passaggio della suddetta. È disgustoso, ma soprattutto sconcertante. Guardo a destra, a sinistra. L'atrio è deserto. Se il mio E.T. ha intenzioni ostili, sono spacciata. Si riprende, si ripete.

«Una terribile disgrazia, sì, una terribile disgrazia. Monsieur Arthens è in fin di vita». 49

«In fin di vita» dico, «cioè, proprio in fin di vita?». «Proprio in fin di vita, madame Michel, proprio in fin di vita. Gli restano quarantotto ore».

«Ma l'ho visto ieri mattina, stava d'incanto!» dico sbalordita.

«Ahimè, signora, ahimè. Quando il cuore non regge più, è la fine! La mattina salti come un grillo e la sera ti ritrovi all'altro mondo».

«Morirà a casa? Non va all'ospedale?».

«Oooooh, madame Michel» mi dice Chabrot guardandomi con la stessa espressione di Neptune quando è al guinzaglio, «chi mai vorrebbe morire in ospedale?».

Per la prima volta in vent'anni provo un vago moto di simpatia nei confronti di Chabrot. Dopotutto, mi dico, anche lui è un uomo, e alla fine siamo tutti simili.

«Madame Michel» riprende Chabrot, e sono tutta stordita da questo profluvio di "madame Michel", dopo vent' anni di nulla, «forse molta gente vorrà vedere il Maestro prima... prima. Ma lui non vuole ricevere nessuno. Vuole vedere solo Paul. Le dispiacerebbe respingere gli importuni?». Sono molto combattuta. Noto che, come di consueto, tutti fingono di accorgersi della mia presenza solo per mettermi al lavoro. Ma in fondo, mi dico, sono qui per questo. Noto pure che Chabrot si esprime in un modo che adoro - le dispiacerebbe respingere gli importuni? - e la cosa mi turba. Questo garbo desueto mi piace. Sono schiava della grammatica, mi dico, avrei dovuto chiamare il mio gatto Grammaticus. Questo tizio mi indispone, ma ha un eloquio incantevole. Insomma, chi mai vorrebbe morire in ospedale? ha chiesto l'anziano dongiovanni. Nessuno. Né Pierre Arthens né Chabrot né io né Lucien. Con questa domanda anodina Chabrot ci ha fatto tutti uomini.

«Farò il possibile» rispondo. «Ma non posso certo inseguirli su per le scale».

«No» mi dice, «ma potrebbe distoglierli. Dica loro che il Maestro si rifiuta di ricevere visite». E mi guarda con aria strana.

Devo stare attenta, devo stare molto attenta. Negli ultimi tempi mi lascio andare. C'è stato l'incidente del giovane Pallières, quel mio modo strampalato di citargli L'ideologia tedesca che, se solo lui avesse avuto la metà dell'intelligenza di una gallina, avrebbe potuto mettergli la pulce nell'orecchio su molte cose imbarazzanti. E ora, siccome un vecchio rimbambito arrostito dai raggi UVA fa sfoggio di costrutti antiquati, ecco che io davanti a lui vado in brodo di giuggiole e dimentico ogni rigore.

Annego nei miei occhi la scintilla che vi era balenata e assumo lo sguardo vitreo di ogni brava portinaia che si accinge a fare del suo meglio senza peraltro inseguire la gente su per le scale. La strana espressione di Chabrot svanisce.

Per cancellare ogni traccia dei miei misfatti, mi concedo una piccola eresia.

«È guasi un infarto?» chiedo.

50

«Sì» mi dice Chabrot, «è un infarto».

Pausa.

«Grazie» mi dice.

«Non c'è di che» rispondo, e chiudo la porta.

51

Pensiero profondo n° 5

La nostra vita

servizio militare

per tutti quanti

Di questo pensiero profondo vado molto fiera. È stata Colombe a mettermi sulla strada giusta. Almeno una volta nella vita mi è stata utile. Non avrei mai pensato di poter affermare una cosa del genere prima di morire. Fin dal 'inizio tra me e Colombe è stata guerra, perché per Colombe la vita è una battaglia perenne dove bisogna vincere distruggendo l'altro. Non si sente al sicuro se non ha schiacciato l'avversario e ridotto il suo territorio alle giuste dimensioni. Un mondo dove c'è

posto per gli altri è un mondo pericoloso, secondo i criteri di quel a guerriera dei miei stivali! Allo stesso tempo, lei ha bisogno degli altri per un compito piccolo ma essenziale: deve pur esserci qualcuno che riconosca la sua forza! Quindi non solo tenta continuamente di schiacciarmi in tutti i modi possibili, ma in più, puntandomi la spada alla gola, vorrebbe che le dicessi che lei è la migliore e che le voglio bene. E certi giorni vado fuori di testa. Ciliegina sulla torta, per ragioni ignote Colombe, che non ha un briciolo di cervello, ha capito che il rumore è la cosa che temo di più nel a vita. Deve averlo scoperto per caso. Chiaramente a lei non sarebbe mai venuto in mente che qualcuno potesse avere bisogno di silenzio. Non credo si renda conto di come il silenzio serve a penetraredentro di sé, di come sia necessario a chi non si interessa unicamente al mondo esterno, perché dentro Colombe c'è caos e rumore come fuori, in strada. Comunque lei ha capito che avevo bisogno di silenzio, e sfortuna vuole che la mia camera sia accanto al a sua. E così fa rumore tutto il santo giorno. Urla al telefono, mette la musica al massimo (e questa cosa proprio mi distrugge), sbatte le porte, commenta a voce alta tutto quello che fa, comprese cose interessantissime come spazzolarsi i capelli o cercare una matita nel cassetto. Insomma, visto che non può invadere nient'altro, perché umanamente le sono del tutto inaccessibile, invade il mio spazio sonoro e mi rompe l'anima dalla mattina al a sera. Notate che bisogna avere una concezione del territorio molto limitata per arrivare a questi livelli: io me ne frego del posto in cui mi trovo, mi basta poter stare nel mio mondo senza essere disturbata. Colombe, invece, non solo si accontenta di ignorare questo fatto, ma in più ne fa una filosofia: "Quella rompi balle di mia sorella è una personcina intollerante e nevrotica che 52

odia gli altri e preferirebbe abitare in un cimitero dove sono tutti morti; io invece sono aperta di natura, allegra e piena di vita". Se c'è una cosa che non tol ero assolutamente è che la gente trasformi la propria impotenza o alienazione in un credo. E con Colombe sto fresca!

Però da qualche mese Colombe non si accontenta di essere la sorella più insopportabile dell'universo, ha anche il cattivo gusto di comportarsi in maniera preoccupante. Ci mancava solo questo: una sorella che è una piaga letale, e in più la visione dei suoi piccoli guai. Insomma, da qualche mese Colombe è ossessionata da due cose: l'ordine e la pulizia. Conseguenza assai piacevole: da zombie che ero, sono diventata una sudicia; adesso mi urla dietro di continuo perché ho lasciato del e briciole in cucina o perché stamattina c'era un capel o nel a doccia. E poi non se la prende solo con me: ci tormenta tutti dalla mattina al a sera per il disordine e le briciole. La sua camera, che era un caos incredibile, ora è lucidata a specchio: non un granel o di polvere, tutto passato in rassegna, ogni oggetto ha un suo posto ben definito, e guai a madame Grémond se non lo rimette esattamente come prima quando ha fatto le pulizie. Sembra un ospedale. AI limite, il fatto che Colombe sia diventata così maniacale non mi disturba. La cosa che non sopporto è

che faccia ancora la tipa rilassata. C'è un problema, ma tutti fanno finta di non vederlo, e Colombe continua a considerarsi l'unica di noi due che prende la vita "in modo epicureo". Eppure vi garantisco che non c'è nulla di epicureo nel farsi tre docce al giorno e gridare come un'indemoniata perché la lampada del comodino è tre centimetri più in là. Qual è il problema di Colombe? Non ne ho idea. Può darsi che a forza di voler schiacciare tutti si sia trasformata in un soldato, nel vero senso della parola. Allora passa tutto in rassegna, lustra, pulisce, come nell'esercito. I soldati sono ossessionati dall'ordine e dalla pulizia, è risaputo. Gli serve per lottare contro il disordine del a battaglia e la sporcizia della guerra, con tutti quei brandelli di uomini che si lascia dietro. Ma di fatto mi chiedo se Colombe non sia solo un caso esasperato che riflette la norma. Tutti noi non affrontiamo forse la vita come fosse un servizio militare, tirando avanti nell'attesa del congedo o della battaglia? Alcuni puliscono la camerata, altri stanno con le mani in mano, passano il tempo a giocare a carte, trafficano, brigano. Gli ufficiali comandano, le burbe obbediscono, ma nessuno si lascia ingannare da questa commedia a porte chiuse: una mattina bisognerà

andare tutti a morire, ufficiali e soldati, idioti e furbi che spacciano sigarette al mercato nero o fanno traffico di carta igienica.

Vi propongo, al volo, un'ipotesi da psicologo della mutua: Colombe è talmente caotica interiormente, talmente vuota e ingombra al tempo stesso, che tenta di mettere ordine 53

dentro di sé sistemando e pulendo l'interno ... di casa sua. Divertente, vero? Ho capito da un pezzo che gli strizzacervelli sono dei comici che considerano la metafora roba da grandi studiosi. In realtà, è al a portata di qualsiasi primi no. Ma dovete sentire gli amici psicologi del a mamma come si compiacciono per il minimo gioco di parole, e dovete sentire anche le stupidaggini che la mamma riferisce, perché lei racconta a tutti le sue sedute dallo psicologo come se fosse stata a Disneyland: l'attrazione "vita in famiglia", il palazzo degli specchi "la mia vita con mia madre", l'otto volante "la mia vita senza mia madre", il museo degli orrori "la mia vita sessuale" (a bassa voce per non farmi sentire) e, per finire, il tunnel della morte "la mia vita di donna in premenopausa". Ma quel o che mi fa paura di Colombe è che spesso ho come l'impressione che non provi nulla. Tutto ciò che Colombe esprime, a livello di sentimenti, è talmente studiato, talmente falso che mi chiedo se senta davvero qualcosa. E certe volte mi fa paura. Magari è

una pazza furiosa, magari cerca a tutti i costi di provare qualcosa di autentico e per riuscirei potrebbe compiere un gesto inconsulto. Vedo già i titoli dei giornali: «Il Nerone del a rue de Grenelle: una ragazza dà fuoco al 'appartamento di famiglia. Interrogata sulle ragioni di tale gesto, risponde: volevo provare un'emozione».

Vabbè, d'accordo, sto esagerando un po'. E poi da che pulpito mi permetto di denunciare una piromane? In ogni caso stamattina, quando l'ho sentita urlare perché c'erano dei peli di gatto sul suo cappotto verde, ho pensato: poveretta, è una battaglia persa in partenza. E se lo sai, ti senti meglio. 54

Capitolo undicesimo

Afflizione delle rivolte mongole

Bussano piano piano alla porta della guardiola. È Manuela, le hanno appena dato libera uscita per la giornata.

«Il Maestro è in fin di vita» mi dice, senza che io possa stabilire quanta ironia aggiunge nel riprendere il lamento di Chabrot. «Se non ha da fare, prenderemmo il tè ora?». Questa disinvoltura nella concordanza dei tempi, questo condizionale senza verbo modale, la libertà che Manuela si prende con la sintassi, perché lei è solo una povera portoghese costretta alla lingua dell'esilio, hanno lo stesso sapore desueto delle espressioni controllate di Chabrot.

«Ho incrociato Laura per le scale» dice sedendosi, le sopracciglia aggrottate. «Si reggeva al corrimano come se le scappasse la pipì. Quando mi ha visto, se n'è andata via». Laura è la secondogenita degli Arthens, una ragazza gentile che si fa vedere di rado. Clémence, la maggiore, è l'incarnazione dolorosa della frustrazione, una bigotta votata a tediare marito e figli sino alla fine con tristi giornate disseminate di messe, feste parrocchiali e ricami a punto croce. Quanto a Jean, il più giovane, è un drogato tendente al relitto umano. Da piccolo era un bel bambino con gli occhi pieni di stupore che trotterellava dietro al padre, come se da lui dipendesse la sua stessa vita, ma quando ha cominciato a drogarsi il cambiamento è stato impressionante: non si muoveva più. Dopo un'infanzia sprecata a correre invano dietro a Dio, i suoi movimenti erano come impediti e ormai si spostava a scatti, facendo pause sempre più lunghe per le scale, davanti all'ascensore e in cortile, fino ad addormentarsi a volte sul mio zerbino o davanti al locale rifiuti. Un giorno, mentre sostava con inebetito impegno davanti all' aiuola delle rose Tè e delle camelie nane, gli avevo chiesto se aveva bisogno di aiuto ed ero giunta alla conclusione che somigliava sempre più a Neptune, con quei capelli ricci poco curati che gli si appiccicavano alle tempie e gli occhi lucidi sopra un naso umido e tremolante.

«Eh... eh... no» mi aveva risposto scandendo le parole con le stesse pause che cadenzavano i suoi spostamenti.

«Vuole almeno sedersi?» gli avevo suggerito.

«Sedersi?» aveva ripetuto scosso. «Eh... eh... no, perché?».

«Per riposarsi un po'» avevo detto.

55

«Ah, giààà» aveva risposto. «Beh, eh... eh... no».

Lo lasciai quindi in compagnia delle camelie, tenendolo d'occhio dalla finestra. Dopo un bel po'

di tempo si distolse dalla sua contemplazione floreale e raggiunse la guardiola a bassa velocità. Aprii prima che riuscisse in qualche modo a suonare.

«Mi sgranchisco un po'» disse senza vedermi, i setosi cernecchi un po' arruffati davanti agli occhi. Poi, con un evidente sforzo: «Quei fiori... com'è che si chiamano?».

«Le camelie?» chiesi sorpresa.

«Camelie... » ripeté lentamente, «camelie... Ecco, grazie, madame Michel» disse alla fine con una voce sorprendentemente più ferma.

E alzò i tacchi. Non lo rividi più per varie settimane, fino a quella mattina di novembre in cui, mentre passava davanti alla guardiola, non lo riconobbi per quanto appariva caduto in basso. Sì, la caduta... Tutti vi siamo destinati. Ma quando un uomo giovane raggiunge prima del tempo la condizione da cui non si risolleverà, allora essa è così visibile e brutale che il cuore si stringe di pietà. Jean Arthens era solo un corpo martoriato che si trascinava in una vita in equilibrio sul filo. Mi chiesi con spavento come sarebbe riuscito a compiere i semplici gesti necessari all'uso dell'ascensore, quando l'improvvisa apparizione di Bernard Grelier, che lo afferrò e lo sollevò come una piuma, mi evitò di intervenire. Ebbi la fugace visione di quell'uomo maturo e debole che portava in braccio un corpo di bambino massacrato, poi sparirono nell'abisso delle scale.

«Ma Clémence verrà» dice Manuela, che incredibilmente mi legge sempre nel pensiero.

«Chabrot mi ha chiesto di pregarla di andarsene» dico pensosa. «Vuole vedere solo Paul».

«Per il dolore, la baronessa si è soffiata il naso in uno strofinaccio» aggiunge Manuela riferendosi a Violette Grelier. Non mi stupisce. Nei momenti supremi la verità deve pur venire a galla. Violette Grelier sta allo strofinaccio come Pierre Arthens sta alla seta, e tutti noi, quando non abbiamo più vie d'uscita, dobbiamo affrontare il destino in cui siamo imprigionati, e all'epilogo essere quello che siamo sempre stati nel profondo, qualunque fosse l'illusione in cui ci siamo voluti cullare. Sfiorare biancheria fine non ci autorizza a persistere nelle nostre illusioni, così come non restituisce la salute al malato. Servo il tè e lo degustiamo in silenzio. Non l'avevamo mai preso insieme di mattina, e questa infrazione al protocollo del nostro rituale ha uno strano sapore.

«È piacevole» mormora Manuela.

Sì, è piacevole in quanto gioiamo di un duplice dono: veder consacrata, attraverso questa infrazione all'ordine delle cose, l'immutabilità di un rituale cui avevamo dato vita insieme affinché, un pomeriggio dopo l'altro, esso si radicasse nella realtà tanto da darle senso e consistenza, un rituale che dalla trasgressione di stamani trae immediatamente tutta la sua forza - ma ci gustiamo anche, 56

come un nettare prezioso, il meraviglioso dono di questa mattina incongrua in cui i gesti meccanici prendono nuovo slancio; in cui annusare, bere, posare, servirsi ancora e sorseggiare rinascono a nuova vita. Questi attimi in cui si rivela la trama della nostra esistenza, attraverso la forza di un rituale che rinnoveremo con un piacere accresciuto dall'infrazione, sono parentesi magiche che gonfiano il cuore di commozione, perché all'improvviso il tempo è stato fecondato, in modo fugace ma intenso, da un po' di eternità. Fuori il mondo ruggisce o si addormenta, scoppiano le guerre, gli uomini vivono e muoiono, alcune nazioni periscono, altre, che verranno presto inghiottite, sorgono, e in tutto questo rumore e questo furore, in queste esplosioni e risacche, mentre il mondo avanza, si infiamma, si strazia e rinasce, si agita la vita umana.

Allora beviamo una tazza di tè.

E come Kakuzo Okakura, l'autore del Libro del tè,che si addolorava per la rivolta delle tribù

mongole nel XIII secolo non perché avesse causato morte e afflizione, ma perché aveva distrutto l'arte del tè, il più prezioso tra i frutti della cultura Song, anch'io so bene che il tè non è una bevanda qualunque. Quando diventa rituale, rappresenta tutta la capacità di vedere la grandezza nelle piccole cose. Dove si trova la bellezza? Nelle grandi cose che, come le altre, sono destinate a morire, oppure nelle piccole che, senza nessuna pretesa, sanno incastonare nell'attimo una gemma di infinito?

Il rituale del tè, quel puntuale rinnovarsi degli stessi gesti e della stessa degustazione, quell'accesso a sensazioni semplici, autentiche e raffinate, quella libertà concessa a tutti, a poco prezzo, di diventare aristocratici del gusto, perché il tè è la bevanda dei ricchi così come dei poveri, il rituale del tè, quindi, ha la straordinaria virtù di aprire una breccia di serena armonia nell'assurdità delle nostre vite. Sì, l'universo tende segretamente alla vacuità, le anime perdute rimpiangono la bellezza, l'insensatezza ci accerchia. Allora beviamo una tazza di tè. Scende il silenzio, fuori si ode il vento che soffia, le foglie autunnali stormiscono e volano via, il gatto dorme in una calda luce. E, a ogni sorso, il tempo si sublima.

57

Pensiero profondo n° 6

Fammi sapere

cosa bevi e leggi

a colazione

e io posso sapere

veramente chi sei tu

Tutte le mattine, a colazione, papà beve il caffè e legge il giornale. A dire il vero, diversi giornali: Le MondeLe FigaroLibération e, una volta al a settimana, L'ExpressLes EchosTime Magazine eCourrier international. Ma si vede lontano un miglio che la sua più grande soddisfazione è la prima tazzina di caffè con Le Monde sotto gli occhi. Rimane assorto nella lettura una buona mezz'ora. Per godere appieno di questa mezz'ora deve alzarsi veramente prestissimo, perché le sue giornate sono molto piene. Ma ogni mattina, anche se c'è stata una seduta notturna e ha dormito solo due ore, alle sei è già in piedi e si legge il giornale bevendo un caffè bello forte. È così che papà si edifica ogni giorno. E

dico "si edifica" perché penso che ogni volta sia una nuova costruzione, come se durante la notte tutto fosse stato ridotto in cenere e si dovesse ripartire da zero. Nel nostro universo la vita umana è vissuta così: occorre ricostruire continuamente la propria identità di adulti, un fragilissimo assemblaggio sbilenco ed effimero che maschera la disperazione e racconta a sé stesso, davanti allo specchio, la menzogna al a quale abbiamo bisogno di credere. Per papà, il giornale e il caffè sono bacchette magiche che lo trasformano in un uomo importante. Come la zucca in una carrozza. E notate che la cosa lo soddisfa parecchio: non lo vedo mai così calmo e disteso come davanti al suo caffè del e sei. Ma a che prezzo! A che prezzo conduciamo questa esistenza falsa! Quando sopraggiunge una crisi e cadono le maschere - e una crisi sopraggiunge sempre tra i mortali - la verità è terribile!

Guardate Arthens, il critico gastronomico del sesto piano che sta morendo. Oggi a mezzogiorno la mamma è tornata dalle compere come un fulmine e, varcata la soglia di casa, ha gridato ai quattro venti: «Pierre Arthens è in fin di vita!». Ma ai quattro venti c'eravamo io e Constitution. Inutile dire che è stato un flop. La mamma era un po' spettinata, pareva delusa. Stasera, quando è tornato papà, gli è piombata addosso per comunicargli la notizia. Papà è sembrato sorpreso. «Il cuore? Ma come, così presto?» ha chiesto. Devo dire che monsieur Arthens è uno cattivo sul serio.

58

Papà al confronto è solo un ragazzino che vuole fare l'adulto rompiscatole. Ma Arthens... è un cattivo di prima scelta. Quando dico cattivo non voglio dire malevolo, crudele o dispotico, sebbene sia anche un po' così. No, quando dico "uno cattivo sul serio" intendo dire che quest'uomo ha talmente rinnegato tutto quello che ci può essere di buono in lui da sembrare un cadavere, anche se è ancora vivo. Perché quel i cattivi sul serio odiano tutti quanti, ovvio, ma soprattutto sé stessi. Voi non lo percepite quando qualcuno odia sé stesso? Diventa un morto pur essendo vivo, anestetizza i cattivi sentimenti, ma anche quelli buoni, per non provare il disgusto di sé.

Una cosa è certa: Pierre Arthens era uno cattivo sul serio.

Dicono che fosse il guru del a critica gastronomica e il campione mondiale della cucina francese. Beh, questo non mi stupisce. Se volete il mio parere, la cucina francese è penosa. Tanto genio, tanti mezzi e risorse per un risultato così pesante ... Una miriade di salsine, farciture e dolcetti da farsi scoppiare la pancia! Che cattivo gusto ... E quando non è pesante è di una ricercatezza esagerata: si muore di fame con tre ravanelli stilizzati e due capesante in gelatina di alghe, serviti in stoviglie finto zen da camerieri allegri come beccamorti. Sabato siamo andati in un ristorante così, molto chic, il Napoleon's Bar. Era una cena di famiglia per festeggiare il compleanno di Colombe. Che ha scelto le portate con la sua solita grazia: delle robe pretenziose al e castagne, un agnel o con erbe dal nome impronunciabile, uno zabaione al Grand Marnier (il top del 'orrore). Lo zabaione è

l'emblema della cucina francese: una cosa che vuole essere leggera ma che ammazza qualunque cristiano. lo non ho preso l'antipasto (vi risparmio i commenti di Colombe sulla mia anoressia da rompiballe), poi ho ordinato sessantatré euro di filetti di triglia al curry (su un letto di zucchine e carote croccanti tagliate a dadini), e poi per trentaquattro euro quello che c'era di meno peggio sul menu: un fondant al cioccolato amaro. Vi dirò: per quella cifra avrei preferito un abbonamento annuale da McDonald's. È di cattivo gusto, ma almeno è

senza pretese. E non sto a dilungarmi sullo stile della sala e dei tavoli. Quando i francesi vogliono scostarsi dal o stile Impero con tendaggi bordeaux e dorature a gogo, si lanciano nel model o ospedale. Ti accomodi su sedie di Le Corbusier ("Corbu" come dice la mamma), mangi in servizi bianchi dalle forme geometriche molto burocrazia sovietica, e in bagno ti asciughi le mani con teli di spugna talmente fine che non assorbono un bel niente. La misura, la semplicità sono un'altra cosa. «Ma cosa avresti voluto mangiare?» mi ha chiesto Colombe con aria esasperata perché non sono riuscita a finire la prima triglia. Non ho risposto. Perché non lo so. Dopotutto, sono solo una bambina. Ma nei manga ho l'impressione che i protagonisti mangino in modo diverso. Sembra tutto semplice, raffinato, 59

misurato, delizioso. Mangiano come se stessero guardando un bel quadro o cantando in un bel coro. Né troppo né troppo poco: misurato, nel senso positivo del termine. Forse mi sbaglio, però la cucina francese mi pare vecchia e presuntuosa, mentre quel a giapponese sembra ... beh, né giovane né vecchia. Eterna e divina.

Insomma, monsieur Arthens è in fin di vita. Mi chiedo cosa facesse ogni mattina per entrare nei panni del cattivo sul serio.

Forse prendeva un caffè ristretto leggendo la concorrenza, oppure preferiva una colazione al 'americana con salsicce e patate saltate. Cosa facciamo noi la mattina? Papà

legge il giornale bevendo il caffè, la mamma beve il caffè sfogliando cataloghi, Colombe beve il caffè ascoltando France Inter, e io bevo latte col cacao leggendo i manga. In questo momento sto leggendo dei manga di Taniguchi, un genio che mi insegna molte cose sugli uomini.

Ma ieri ho chiesto al a mamma se potevo bere il tè. La nonna a colazione beve tè nero, un tè al profumo di bergamotto. Anche se non mi piace un granché è comunque sempre più carino del caffè, la bevanda dei cattivi. Ma ieri sera al ristorante la mamma ha ordinato un tè al gelsomino e me l'ha fatto assaggiare. Lho trovato talmente buono, talmente "mio" che stamattina ho detto che d'ora in poi lo voglio bere a colazione. La mamma mi ha guardato con un'aria strana (la sua aria "sonnifero smaltito male") poi ha detto sì sì tesoro adesso sei grande.

Tè e manga contro caffè e giornale: l'eleganza e l'incanto contro la triste aggressività

dei giochi di potere degli adulti.

60

Capitolo dodicesimo

Commedia fantasma

Quando Manuela se ne va mi dedico a una serie di avvincenti occupazioni: pulizie, passata di straccio sul pavimento dell'atrio, trasporto della spazzatura in strada, raccolta dei volantini, annaffiatura dei fiori, preparazione della pietanza per il gatto (compresa una fetta di prosciutto con cotenna ipertrofica), organizzazione del pasto per me - pasta cinese fredda con pomodoro, basilico e parmigiano -, lettura del giornale, ritirata nel mio antro per leggere un bellissimo romanzo danese, gestione di una crisi nell'ingresso causata da Lotte, la nipote degli Arthens, la figlia maggiore di Clémence, che piange davanti alla guardiola perché il Nonnino non vuole vederla. Alle ventuno ho finito e d'improvviso mi sento vecchia e molto depressa. La morte non mi spaventa, tanto meno quella di Pierre Arthens, ma l'attesa è insopportabile, questo vuoto sospeso del non ancora che ci fa avvertire l'inutilità delle battaglie. Mi siedo in cucina, nel silenzio, senza luce, e assaporo l'amara sensazione dell' assurdo. Piano piano la mia mente va alla deriva. Pierre Arthens... Despota brutale, assetato di gloria e di onori, il quale tuttavia si sforza sino alla fine di perseguire con le parole un'inafferrabile chimera, lacerato tra l'aspirazione all'Arte e la brama di potere... In definitiva, dov'è il vero? E dove l'illusione? Nel potere o nell'Arte? Non è forse con la persuasione di discorsi imparati a memoria che portiamo alle stelle le creazioni umane, mentre denunciamo come crimine di illusoria vanità la sete di dominio che ci agita tutti - sì, tutti, ivi compresa una povera portinaia nella sua guardiola striminzita, la quale, pur avendo rinunciato al potere esteriore, ciò

non di meno insegue nella sua testa sogni di potenza?

Come scorre la vita dunque? Giorno dopo giorno ci sforziamo con risolutezza di fare la nostra parte in questa commedia fantasma. Da primati quali siamo, la nostra attività consiste essenzialmente nel mantenere e curare il nostro territorio affinché ci protegga e ci soddisfi, nell'arrampicarci o almeno non scendere nella scala gerarchica della tribù, e nel fornicare in tutti i modi possibili - foss'anche con la fantasia - sia per il piacere che per la discendenza promessa. Allo stesso modo usiamo una parte non trascurabile della nostra energia per intimidire o sedurre, poiché queste due strategie da sole assicurano la brama territoriale, gerarchica e sessuale che anima il nostro conatus. Ma niente di tutto ciò raggiunge la nostra coscienza. Parliamo di amore, di bene e di male, di filoso 61

fia e di civiltà, e ci attacchiamo a queste rispettabili icone come una zecca assetata al suo cagnolone caldo.

Tuttavia, talvolta la vita ci pare una commedia fantasma. Come strappati da un sogno, ci guardiamo agire e, raggelati nel constatare il dispendio vitale necessario a conservare i nostri requisiti primitivi, ci chiediamo sbigottiti che cosa ne è dell'Arte. D'improvviso, le nostre smorfie frenetiche ci sembravano il colmo dell'insensatezza, la nostra casetta confortevole, frutto di un debito ventennale, una vana usanza barbara, e la nostra posizione nella scala sociale, tanto dura da conquistare e così eternamente precaria, una logora vanità. Riguardo alla nostra discendenza, la contempliamo con occhio nuovo e inorridito perché, senza gli abiti dell'altruismo, l'atto della riproduzione appare profondamente fuori luogo. Restano solo i piaceri sessuali; ma, trascinati nel fiume della miseria primigenia, vacillano come tutto il resto, poiché la ginnastica senza amore non rientra nel quadro delle nostre lezioni imparate a memoria.

L'eternità ci sfugge.

Nei giorni in cui tutte le credenze romantiche, politiche, intellettuali, metafisiche e morali che anni di istruzione ed educazione hanno tentato di imprimere in noi crollano sull'altare della nostra natura profonda, la società, territorio attraversato da grandi onde gerarchiche, affonda nel nulla del Senso. Fuori i poveri e i ricchi, i pensatori, i ricercatori, i potenti, gli schiavi, i buoni e i cattivi, i creativi e i coscienziosi, i sindacalisti e gli individualisti, i progressisti e i conservatori; non sono che ominidi primitivi i cui sorrisi e le cui smorfie, le andature e le acconciature, il linguaggio e i codici, in scritti nella mappa genetica del primate medio, significano solo questo: mantenere la posizione o morire.

In quei giorni avete disperatamente bisogno d'Arte. Aspirate ardentemente a riavvicinarvi all'illusione spirituale, desiderate appassionatamente che qualcosa vi salvi dal destino biologico, affinché la poesia e la grandezza non siano del tutto estromesse da questo mondo. Allora bevete una tazza di tè oppure guardate un film di Ozu, per sottrarvi al cerchio delle disfide e delle battaglie che sono prerogativa della nostra specie dominante, e per dare a questo patetico teatro l'impronta dell'Arte e delle sue opere maggiori.

62

Capitolo tredicesimo

Eternità

Alle ventuno, quindi, inserisco nel videoregistratore la cassetta di un film di Ozu, Le sorelle Munekata. È il mio decimo Ozu del mese. Perché? Perché Ozu è un genio che mi salva dal destino biologico.

Tutto è cominciato il giorno in cui ho confidato ad Angèle, la giovane bibliotecaria, che mi piacevano molto i primi film di Wim Wenders e lei mi ha detto: «Ah, e TokyoGa l'ha visto?». E quando uno ha visto Tokyo-Ga, che è un documentario straordinario dedicato a Ozu, chiaramente ha voglia di scoprire Ozu. Dunque ho scoperto Ozu, e per la prima volta in vita mia l'Arte cinematografica mi ha fatto ridere e piangere, com'è tipico del divertimento vero e proprio. Inserisco la videocassetta e sorseggio del tè al gelsomino. Ogni tanto torno indietro grazie a questo rosario laico chiamato telecomando. Ed ecco una scena splendida.

Il padre, interpretato da Chishu Ryu, attore feticcio di Ozu, filo conduttore della sua opera, uomo meraviglioso, raggiante di calore e umiltà, il padre, quindi, che presto morirà, discute con la figlia Setsuko della passeggiata appena fatta a Kyoto. Stanno bevendo del sakè.

IL PADRE

E il tempio del Muschio! La luce metteva ancora più in risalto il muschio.

SETSUKO

E anche quella camelia che vi era posata sopra.

IL PADRE

Oh, l'avevi notata? Che meraviglia! (Pausa.)Nell'antico Giappone ci sono cose belle. (Pausa.)Mi sembra davvero eccessivo voler definire negativo tutto questo.

Poi il film va avanti, e proprio alla fine c'è quest'ultima scena in un parco dove Setsuko, la figlia maggiore, parla con Mariko, la sua buffa sorella minore. 

SETSUKO, il volto radioso

Dimmi, Mariko, perché i monti di Kyoto sono violetti?

MARIKO, birichina

È vero, sembrano un flan di azuki.

SETSUKO, sorridente

È un colore molto grazioso.

Nel film si parla di amore deluso, di matrimoni combinati, di discendenza, di fratelli, di morte del padre, dell' ntico e del nuovo Giappone, ma anche dell'alcol e della violenza degli uomini. Ma soprattutto si parla di qualcosa che sfugge a noi occidentali, e che solo la cultura giapponese chiarisce. Perché mai queste due scene brevi e senza spiegazione, che non sembrano motivate da nulla nell'intreccio, suscitano un'emozione tanto intensa e racchiudono tutto il film nelle loro ineffabili parentesi?

Ed ecco allora la chiave del film.