venerdì 28 maggio 2021

2084 LA FINE DEL MONDO Boualem Sansal

 



Il declino della Francia ha

un nome: muqaddima

MAURO ZANON  

La Francia “non si riconosce più”, scrive Boualem Sansal in una lettera aperta a Le Figaro. E indica una via per ritrovarsi.

I francesi hanno dato mille nomi al male che consuma il loro paese, e continuano a credere che ripetendoli all’infinito come dei mantra o come delle sure faranno passi avanti nella verità. Ma moltiplicare i nomi, a mio avviso, non fa altro che aggravare il male”. Declino, declassamento, inciviltà, jihad, Daesh, islamogoscista, “questa profusione non dice nulla di fondamentale, è snervante”, ha scritto ieri lo scrittore algerino Boualem Sansal in una lettera aperta pubblicata sul Figaro. “La verità è che la Francia soffre di un male interiore, non si conosce più, non si riconosce più, che è la peggiore delle malattie”. 

Sansal è uno dei più grandi scrittori contemporanei del mondo arabo. Nonostante le minacce di morte dei fondamentalisti islamici, continua a vivere a Boumerdès, vicino ad Algeri. Ma la Francia resta nel suo cuore, è il paese delle libertà che sognava fin da piccolo, e che oggi, però, vede in difficoltà, fragile e insicuro. “Mi sorprende che nessuno abbia pronunciato la parola ‘muqaddima’. Perché dice tutto del male di cui soffre la Francia (…). ‘Muqaddima’ è il titolo di un testo in cui l’autore – l’immenso Ibn Khaldoun – spiega come nascono e muoiono gli imperi. Dovrebbe essere il libro al capezzale di ogni francese che teme per il futuro dei suoi figli e del suo paese (…). Ci insegna che gli imperi si costruiscono disarmando la loro popolazione, rompendo le solidarietà tradizionali che assicurano la sua coesione sociale”, scrive Sansal. Ma ci insegna anche che “per domare i rivoltosi, gli imperi verranno obbligati ad arruolare tribù guerriere dai confini o mercenari stranieri, poi a sollecitare gli stati vicini per placare le tribù e i mercenari che, approfittando della loro debolezza, contenderanno loro il potere (…). Se non potranno in alcun modo sbarazzarsene, apriranno loro una via per avere un ruolo nella cerchia del potere, nella speranza di vederli civilizzati e integrati”. 


Secondo lo scrittore algerino, è proprio ciò che è accaduto in Francia. “Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Francia ha fatto appello alla forza lavoro maghrebina e africana per ricostruire la sua economia, poi, non potendo rimandarla indietro dopo il servizio reso, gli ha aperto la strada. Di fronte al fallimento della strategia, ha subappaltato i poteri di polizia e di governo agli islamisti per ristabilire l’ordine nei territori perduti della Repubblica. Circolo vizioso. Dopo aver assoldato gli islamisti per salvare le periferie e attribuito riconoscimenti e titoli di nobiltà ai loro rappresentanti incravattati, la Francia e l’Europa hanno fatto appello agli stati da cui provenivano gli invasori islamisti (Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Turchia, Cecenia…) per custodire i loro confini esterni e impedire che la loro religione si diffondesse in tutto il mondo”, osserva Sansal. La Francia, conclude, è “stordita, intontita, ha mani e piedi legati ed è involontariamente arruolata nella jihad planetaria”. .

Serve un sussulto, ora o mai più. “La decostruzione è molto avanzata. La Francia ha perso molto, il suo genio, la sua cultura, la sua lingua, i suoi valori, le sue competenze, i suoi territori, il suo esercito… Ma le è rimasta un po’ di vita, può risollevarsi”. In che modo? Ce lo indica Ibn Khaldoun, dice Sansal: “Bisogna dotarsi il più rapidamente possibile di un’economia produttiva che sappia creare ricchezza, conoscenza, abilità, professioni del futuro e che sappia diffondere lo spirito di conquista nella società”.

2084 LA FINE DEL MONDO

Boualem Sansal

Presentazione

Nell’Abistan – un impero così vasto da coprire buona parte del mondo – 2084 è una data presente ovunque, stampata nel cervello di ognuno, pronunciata in ogni discorso, impressa sui cartelli commemorativi affissi accanto alle vestigia dello Shar, la Grande Guerra santa contro i makuf, i propagandisti della «Grande Miscredenza».

Nessuno sa a che cosa corrisponda davvero quella data. Qualcuno dice che ha a che fare con l’inizio del conflitto, altri con un suo particolare episodio. Altri ancora che riguardi l’anno di nascita di Abi, il Delegato di Yölah, oppure il giorno in cui Abi fu illuminato dalla luce divina, al compimento del suo cinquantesimo anno di età. In ogni caso, è da allora che l’immenso paese, che era detto semplicemente il «paese dei credenti», fu chiamato Abistan, il mondo in cui ci si sottomette gioiosamente alla volontà di Yölah e del suo rappresentante in terra, il profeta Abi.

La Grande Guerra santa è stata lunga e terribile. Le sue tracce sono religiosamente conservate: edifici sventrati, muri crivellati, interi quartieri sepolti sotto le macerie, enormi crateri trasformati in immondezzai fumanti. Tuttavia, l’armonia più totale regna ora nelle terre dell’Abistan. Nessuno dubita delle autorità – gli Onorevoli e gli Adepti della Giusta Fraternità e i membri dell’Apparato – così come nessuno dubita che Yölah abbia offerto ad Abi di imprimere un nuovo inizio alla storia dell’umanità. L’abilang, una nuova lingua, ha soppiantato tutte le lingue precedenti, considerate stolti idiomi di non-credenti. Le date, il calendario, l’intera storia passata dell’umanità non hanno ormai più alcuna importanza e senso nella Nuova Era, e tutto è nella mano di Yölah. Yölah sa le cose, decide del loro significato e istruisce chi vuole. Agli uomini non resta che «morire per vivere felici», come recita il motto dell’esercito abistano.

Perché, però, dubbi e sospetti si insinuano nella mente del trentacinquenne Ati al ritorno a Qodsabad, la capitale dell’impero, dopo anni trascorsi in un sanatorio arroccato su una montagna? Perché nel suo cuore si fa strada la tentazione di attraversare la Frontiera, al di là della quale, si dice, vivano i Rinnegati, i makuf, i propagandisti della Grande Miscredenza capaci di tutto?

Ispirato alla celebre opera di George Orwell 19842084. La fine del mondo, narra di un mondo futuro dove tutti gli incubi del presente sembrano realizzati nella forma di una feroce teocrazia totalitaria.


Libro 1

Nel quale Ati arriva a Qodsabad, la sua città, e capitale dell’Abistan, dopo due lunghi anni di assenza, passati uno nel sanatorio del Sîn fra i monti dell’Ouâ e l’altro a scarpinare sulle strade, da una carovana all’altra. Durante il viaggio farà conoscenza con Nas, un investigatore del potente ministero degli Archivi, dei Libri sacri e delle sante Memorie, al rientro da una missione in un nuovo sito archeologico risalente a prima dello Shar, la Grande Guerra santa, la cui scoperta ha suscitato uno strano fermento in seno all’Apparato e, cosí si crede, nel cuore stesso della Giusta Fraternità.


Ati aveva perso il sonno. L’angoscia lo assaliva sempre piú presto, allo spegnersi delle lampade o anche prima, quando il crepuscolo dispiegava il suo livido velo e gli ammalati, stanchi della lunga giornata di vagabondaggi fra corsie e corridoi, fra corridoi e terrazze, cominciavano a tornare ai loro letti con passo strascicato, scambiandosi grami auguri in vista della traversata notturna. L’indomani alcuni non sarebbero piú stati lí. Yölah è grande e giusto, egli dà e toglie a suo piacimento.

Poi arrivava la notte, piombava sui monti cosí in fretta da lasciare sconcertati. Altrettanto di colpo il freddo si faceva bruciante e trasformava il fiato in vapore. Fuori il vento si aggirava senza tregua, pronto a tutto. 

I rumori familiari del sanatorio lo tranquillizzavano un po’, anche se esprimevano la sofferenza degli uomini e i suoi assordanti terrori o le vergognose manifestazioni della macchina umana, ma senza sovrastare il fantomatico borborigmo della montagna: un’eco remota che lui piú che udire immaginava, scaturita dalle viscere della terra, pregna di miasmi e di minacce. E quella montagna dell’Ouâ ai confini dell’impero, lugubre e opprimente lo era davvero, tanto per la sua immensità e il suo aspetto scabro quanto per le storie che circolavano nelle valli e salivano fino al sanatorio sulle orme dei pellegrini che due volte l’anno attraversavano la regione del Sîn, facendo sempre una deviazione all’ospedale in cerca di calore e di viveri per il viaggio. Venivano da lontano, dai quattro angoli del paese, a piedi, laceri e febbricitanti, in condizioni spesso rischiose; c’era un che di favoloso, di sordido e di criminale nei loro racconti sibillini, ancora piú inquietanti perché li narravano a bassa voce, interrompendosi al primo rumore per guardarsi furtivi alle spalle. Come chiunque, pellegrini e ammalati non mancavano mai di fare attenzione, per timore di essere sorpresi dai guardiani, forse i tremendi V, e denunciati come makuf, propagandisti della Grande Miscredenza, setta mille volte esecrata. Ad Ati piaceva avvicinare quei viaggiatori di lungo corso, li cercava, avevano collezionato tante storie e tante scoperte durante le loro peregrinazioni. Il paese era cosí vasto e cosí totalmente sconosciuto da far venire voglia di smarrirsi nei suoi misteri.

I pellegrini erano le uniche persone autorizzate a circolare, non a loro piacimento ma in base a precisi calendari, lungo itinerari ben segnalati dai quali non potevano deviare, scanditi da aree di sosta piazzate in mezzo al nulla, aridi altopiani, steppe infinite, fondi di canyon, località senz’anima, dove li si contava, li si suddivideva in gruppi come gli eserciti in assetto di guerra che bivaccano attorno a mille fuochi da campo in attesa dell’ordine di riunirsi e partire. Talvolta le pause duravano cosí a lungo che i penitenti si stanziavano in enormi bidonville e si comportavano come profughi abbandonati a se stessi, senza piú sapere con esattezza che cosa avesse alimentato i loro sogni il giorno prima. Nella provvisorietà perenne c’è una lezione: ciò che importa non è piú la meta ma la sosta, per quanto precaria sia; offre riposo e sicurezza, e in tal modo esprime l’intelligenza pratica dell’Apparato e l’affetto del Delegato per il suo popolo. Soldati apatici e commissari della fede inquieti e attivi come suricati si alternavano lungo le strade, in punti nevralgici, per sorvegliare il passaggio dei pellegrini. Che si sapesse, non si era mai verificata un’evasione o una caccia all’uomo, la gente andava per la sua strada come le veniva detto, trascinando i piedi solo quando la fatica si faceva sentire e cominciava ad assottigliare i ranghi. Tutto era ben regolato e passato al pettine fitto, non poteva accadere nulla che esulasse dall’espressa volontà dell’Apparato.

Non si conoscono i motivi di tali restrizioni. Sono antichi. La verità è che a nessuno era mai venuto in mente di chiederselo, l’armonia regnava da cosí tanto tempo che non c’era alcuna ragione di preoccuparsi. La malattia e la morte stessa, le cui visite erano fin troppo frequenti, non incidevano sul morale delle persone. Yölah è grande e Abi è il suo fedele Delegato.

Il pellegrinaggio era l’unico pretesto legittimo per circolare nel paese, a parte le esigenze burocratiche e commerciali per le quali gli interessati disponevano di un salvacondotto che andava vidimato a ogni tappa della missione. Nemmeno questi controlli che si ripetevano all’infinito e mobilitavano nugoli di addetti e controllori avevano una ragion d’essere, erano un retaggio di qualche epoca dimenticata. Il paese viveva guerre ricorrenti, spontanee e misteriose, questo era certo; il nemico era ovunque, poteva irrompere da est o da ovest quanto da nord o da sud, si stava all’erta, non si sapeva che faccia avesse né cosa volesse. Lo si chiamava il Nemico, con la maiuscola espressa dal tono di voce, e tanto bastava. A quanto si crede di ricordare, un giorno fu annunciato che non era bene chiamarlo in un altro modo, e l’ammonimento era parso legittimo e talmente ovvio, non c’è alcun motivo ragionevole di dare un nome a qualcosa che nessuno ha mai visto. Il Nemico assunse una dimensione mitica e terrificante. Finché, senza alcun preavviso, la parola Nemico scomparve dal lessico. Avere nemici è un’ammissione di debolezza, la vittoria o è completa o non è tale. Si parlava della Grande Miscredenza, si parlava dei makuf, neologismo che designava rinnegati invisibili e onnipresenti. Al nemico esterno si era sostituito il nemico interno, o viceversa. Poi venne il tempo dei vampiri e degli incubi. In occasione delle cerimonie solenni si evocava un nome gravido di tutte le paure, lo Shaitan. Si diceva anche lo Shaitan e la sua congrega. Alcuni l’hanno interpretato come un altro modo per dire il Rinnegato e i suoi, espressione che la gente capiva piuttosto bene. Non è tutto: chi pronuncia il nome del Maligno deve sputare per terra e ripetere tre volte la formula consacrata: «Che Yölah lo bandisca e lo maledica!» In seguito, superati ulteriori impedimenti, si diede finalmente al Diavolo, al Maligno, allo Shaitan, al Rinnegato, il suo vero nome: Balis, e i suoi adepti, i rinnegati, divennero i balisiani. Cosí sembrava tutto piú chiaro, ma per molto tempo, comunque, ci si continuò a chiedere come mai fossero stati usati per un’eternità tanti falsi nomi.

La guerra fu lunga, e piú che terribile. Qua e là, anzi ovunque a dire il vero (ma è probabile che alla guerra si siano aggiunte varie sciagure, terremoti e altre calamità), se ne vedono le tracce religiosamente conservate, allestite come installazioni artistiche di enormi proporzioni esposte al pubblico: complessi di edifici sventrati, muri crivellati, interi quartieri sepolti sotto le macerie, carcasse eviscerate, enormi crateri trasformati in immondezzai fumanti o putride paludi, mostruosi cumuli di ferraglie contorte, dilaniate, fuse, nelle quali si vanno a leggere segni e, in certi luoghi, grandi aree proibite, di varie centinaia di kilosicca o shabir quadrati, cinte da rozze palizzate nei luoghi di passaggio, a tratti divelte, territori spogli, spazzati da venti gelidi o torridi, che sembrano essere stati teatro di eventi al di là dell’umana comprensione, pezzi di sole caduti sul pianeta, magie nere che abbiano scatenato fuochi infernali, e chissà che altro, poiché tutto, terra, rocce, opere di mano dell’uomo, è vetrificato in profondità, e quel magma iridescente emette un crepitio acutissimo che fa rizzare i peli, ronzare le orecchie, impazzire il ritmo cardiaco. Il fenomeno attrae i curiosi, la gente si affolla intorno a quegli specchi giganteschi e osserva divertita i peli rizzarsi sull’attenti, la pelle arrossarsi e riempirsi di bolle a vista d’occhio, il naso sanguinare a goccioloni. Che chiunque abiti quelle regioni, uomo o animale, soffra di malattie inaudite, che la sua prole venga al mondo con ogni deformità possibile e che tutto ciò sia rimasto senza spiegazione non ha suscitato spavento, si è continuato a ringraziare Yölah per i suoi doni e a lodare Abi per la sua affettuosa intercessione.

Cartelli informativi posizionati in punti strategici spiegavano che dopo la Guerra, denominata Shar, la Grande Guerra santa, le distruzioni si estendevano all’infinito e i morti, novelli martiri, si contavano a centinaia di milioni. Per anni, per interi decenni, per tutta la durata della guerra e anche molto dopo, uomini grandi e grossi hanno lavorato a raccogliere i cadaveri, trasportarli alla meglio, accatastarli, cremarli, trattarli con la calce viva, nasconderli in trincee senza fine, ammucchiarli nelle viscere di miniere abbandonate, in grotte profonde poi richiuse con la dinamite. Un decreto di Abi ha autorizzato per il tempo necessario queste pratiche, ben lontane dal rituale funerario del popolo dei credenti. Raccogliere e cremare cadaveri sono stati a lungo mestieri in voga. Poteva dedicarvisi chiunque avesse muscoli e una schiena robusta, a tempo pieno o occasionalmente, ma alla fine sulla breccia rimasero solo quelli davvero ben piantati. Andavano da una regione all’altra con i loro apprendisti e i loro attrezzi da lavoro, un carretto a mano, corde, un paranco e una lanterna e, per chi era meglio equipaggiato, un animale da tiro, acquistavano una concessione adeguata alle loro forze e si mettevano all’opera. Nella memoria dei vecchi è rimasta l’immagine di quegli austeri e placidi colossi che transitavano in lontananza, per sentieri e valichi, con lo spesso grembiule di cuoio che batteva sulle cosce massicce, trascinando carretti stracarichi, accompagnati dagli apprendisti e talvolta dalla famiglia. L’odore della loro professione li seguiva, li precedeva, appiccicandosi ovunque, tanfo emetico di carne putrefatta, di grasso bruciato, di effervescente calce viva, di terra contaminata, di gas penetranti. Con il tempo quegli uomini grandi e grossi sono scomparsi, il paese era ormai bonificato, rimaneva solo qualche raro vecchio taciturno e lento che lavorava a giornata per due soldi nei dintorni degli ospedali, dei ricoveri e dei cimiteri. Triste fine per gli eroici netturbini della morte.

Quanto al Nemico, era semplicemente scomparso. Non si trovò mai alcuna traccia del suo passaggio nel paese, della sua miserabile presenza sulla terra. Stando all’insegnamento ufficiale, la vittoria su di lui fu «completa, definitiva, irrevocabile». Yölah aveva deciso, aveva donato al suo popolo piú che mai credente la supremazia, promessa fin dalle origini. Una data si era imposta, chissà come o perché si era stampata nel cervello di tutti quanti e compariva sui cartelli commemorativi affissi accanto alle vestigia: 2084. Aveva a che fare con la guerra? Forse. Non si precisava se riguardasse l’inizio o la fine o un particolare episodio del conflitto. La gente aveva formulato un’ipotesi, poi un’altra, piú ingegnosa, in relazione con la santità della propria vita. La numerologia divenne uno sport nazionale, si sommò, si sottrasse, si moltiplicò, si fece tutto ciò che era possibile fare con i numeri 2, 0, 8 e 4. Per qualche tempo si affermò l’idea che il 2084 fosse semplicemente l’anno di nascita di Abi, o quello in cui fu illuminato dalla luce divina, al compimento del suo cinquantesimo anno di età. Sta di fatto che ormai nessuno dubitava che Dio gli offrisse un ruolo nuovo e unico nella storia dell’umanità. Proprio a quell’epoca il paese, detto semplicemente «paese dei credenti», fu chiamato Abistan, un bellissimo nome, usato dalle autorità, Onorevoli e Adepti della Giusta Fraternità e membri dell’Apparato. Il popolino aveva mantenuto la vecchia denominazione di «paese dei credenti» e nella conversazione quotidiana, dimenticando rischi e pericoli, andava per le spicce, diceva «il paese», «la casa», «da noi». Lo sguardo dei popoli è cosí, noncurante e davvero poco creativo, non vede piú in là del proprio uscio. Sembrerebbe quasi una forma di cortesia: l’altrove ha i suoi proprietari, guardarlo equivale a violare un’intimità, infrangere un patto. Definirsi abistanese, abistani al plurale, aveva una connotazione ufficiale ansiogena, che evocava seccature e richiami all’ordine, quando non citazioni in giudizio, la gente parlava di sé dicendo «la gente», convinta che questo bastasse per riconoscersi.

A un certo punto la data è stata messa in relazione con la nascita dell’Apparato e, in seguito, con quella della Giusta Fraternità, la congregazione di quaranta dignitari scelti da Abi in persona fra i credenti piú fidati, dopo che egli stesso era stato eletto da Dio per assisterlo nel colossale compito di governare il popolo dei credenti e condurlo tutto quanto nell’altra vita, dove ognuno si vedrà interrogare sulle proprie opere dall’Angelo di giustizia. Veniva detto loro che in quella luce l’ombra non nascondeva nulla, era come un rivelatore. Proprio durante i cataclismi che si susseguirono senza tregua venne attribuito a Dio un nuovo nome, Yölah. I tempi erano cambiati, secondo la Promessa primordiale era nato un altro mondo, in una terra purificata, consacrata alla verità, sotto lo sguardo di Dio e di Abi, bisognava rinominare tutto, riscrivere tutto, in modo che la nuova vita non fosse in alcun modo contaminata dalla Storia precedente ormai obsoleta, rimossa come se non fosse mai esistita. Ad Abi la Giusta Fraternità attribuí il titolo umile ma cosí esplicito di Delegato e inventò per lui un saluto sobrio e commovente, si diceva «Abi il Delegato, che la benedizione sia su di lui» e ci si baciava il dorso della mano sinistra.

Sono circolati tanti racconti prima che tutto si estinguesse e rientrasse nell’ordine. La Storia è stata riscritta e suggellata per mano di Abi. Ciò che del tempo antico poteva essere rimasto impresso nella memoria purgata della gente, brandelli, fumo, alimentava vaghi deliri nei vecchi affetti da demenza. Per le generazioni della Nuova Era le date, il calendario, la Storia non avevano alcuna importanza, non piú di quanta ne avesse la traccia lasciata dal vento nel cielo, il presente è eterno, l’oggi è sempre qui, il tempo sta tutto nella mano di Yölah, egli sa le cose, decide del loro significato e istruisce chi vuole.

Comunque, il 2084 era una data fondante per il paese anche se nessuno sapeva a che cosa corrispondesse.

La faccenda funzionava in questo modo, semplice e complicato, ma non assurdo. I candidati al pellegrinaggio si iscrivevano a una lista per un certo luogo santo, che era l’Apparato a scegliere, e aspettavano di essere chiamati ad aggregarsi a una carovana in partenza. L’attesa durava un anno o per tutta la vita, irrevocabilmente, nel qual caso il certificato d’iscrizione veniva ereditato dal figlio maggiore del defunto, ma non dal secondogenito e mai dalle sorelle: la santità non si condivide e non cambia sesso. Seguiva una festa grandiosa. L’ascesi continuava con il figlio, l’onore della famiglia ne risultava rafforzato. Erano milioni e milioni ad attraversare il paese, provenienti da tutte e sessanta le province, di ogni età e condizione, a contare i giorni che li separavano dalla grande partenza, il Giobe, il Giorno Benedetto. In certe regioni si era instaurato l’uso di raccogliersi in folle immense, una volta all’anno, e flagellarsi generosamente con la frusta chiodata, nella gioia e nella baraonda, per indicare che la sofferenza non era nulla in confronto alla felicità di attendere fiduciosi il Giobe; in altre si organizzavano fantastici raduni, ci si metteva in cerchio, gambe incrociate, a contatto di ginocchia, e si ascoltavano i vecchi candidati che, esaurite le forze ma non la speranza, raccontavano il loro lungo e felice calvario chiamato l’Aspettazione. Ogni frase era scandita da un incitamento dell’assistente munito di un potente megafono: «Yölah è giusto», «Yölah è paziente», «Yölah è grande», «Abi ti sostiene», «Abi è con te» ecc., ripreso da diecimila gole strette dall’emozione. Poi si pregava gomito a gomito, si salmodiava a squarciagola, si cantavano odi composte da Abi in persona, e si ricominciava da capo fino allo stremo. Arrivava cosí il momento cruciale, si sgozzavano pecore e buoi grassi, a greggi e a mandrie. Ci volevano i piú esperti macellai della regione, si trattava di un sacrificio, un sacrificio comporta le sue difficoltà, sgozzare non è uccidere ma esaltare. Bisognava poi arrostire tutta quella carne. I falò erano visibili a distanza, l’aria si impregnava di grasso e il buon odore di carne arrostita solleticava ogni essere vivente che in un raggio di dieci shabir avesse naso, grugno, muso o becco. Era un po’ come un’orgia, interminabile e volgare. I mendicanti che accorrevano a nugoli, elettrizzati, attratti dall’aroma, non resistevano all’abbondanza di carne stillante buon sugo, si abbandonavano a un’ebbrezza sfrenata che li spingeva a comportamenti estranei alla religione, ma in fin dei conti la loro voracità era benaccetta, che fare altrimenti di tanta carne santificata? Gettarla via era un sacrilegio.

La passione per il pellegrinaggio era mantenuta viva da incessanti campagne, fatte di pubblicità, prediche, fiere, concorsi e manipolazioni varie, a cura del potentissimo ministero dei Sacrifici e Pellegrinaggi. Era un’antica e santissima famiglia amata da Abi a detenere il monopolio della Propaganda, il mussim, e la gestiva con la misura che si confà alla religione. «Né troppo poco né non abbastanza» era il suo slogan, noto anche ai bambini. Intorno ai sacrifici e ai pellegrinaggi gravitavano molte altre professioni e altrettante nobili famiglie si prodigavano per offrire il meglio. In Abistan l’unica economia era quella religiosa.

Le suddette campagne coprivano tutto l’anno, con un picco in estate, durante il Siam, la settimana santa dell’Astinenza assoluta, che coincideva con il ritorno dei pellegrini dalle loro remote e meravigliose visite a uno dei mille e mille siti aperti al pellegrinaggio in tutto il paese, luoghi santi, terre sacre, mausolei, teatri di gloria e di martirio dove il popolo dei credenti aveva riportato sublimi vittorie sul Nemico. Per una pervicace casualità l’Abistan era conformato in questo modo: i siti si trovavano tutti all’altro capo del mondo, lontano dalle strade e dagli abitati, quindi il pellegrinaggio era una lunga e impossibile spedizione che richiedeva anni, si attraversava l’intero paese, a piedi, lungo percorsi ardui e solitari, come voleva la tradizione, e ciò rendeva piú improbabile il ritorno dei vecchi e degli ammalati. Ma era proprio questo il vero sogno dei postulanti: morire sulla via della santità, quasi ritenessero che dopotutto non fosse un gran bene raggiungere la perfezione da vivi, essa imponeva un tale numero di oneri e doveri che l’eletto avrebbe per forza disatteso, perdendo di colpo il vantaggio di tanti anni di sacrifici. E poi, come avrebbe potuto un santo in miniatura, se non dandosi delle arie, godere della perfezione in un mondo cosí imperfetto?

A nessuno, proprio a nessuno dei rispettabili credenti è mai passato per la testa che quei rischiosi pellegrinaggi fossero un modo efficace per allontanare dalle città le folle pletoriche e offrire loro una bella morte sulla via dell’adempimento. Cosí come nessuno ha mai pensato che la Guerra santa mirasse allo stesso scopo: trasformare credenti inutili e derelitti in gloriosi e proficui martiri.

Ovviamente il sancta sanctorum era la casetta di pietre erratiche che aveva visto nascere Abi. Era la piú miseranda catapecchia del creato ma i miracoli che vi si verificavano andavano ben oltre lo straordinario. Non c’era abistanese che non avesse in casa una riproduzione della santa dimora; che fossero di cartapesta, di legno, di giada o d’oro, tutte esprimevano lo stesso amore per Abi. Nessuno lo segnalava, la gente non l’aveva notato, ma ogni undici anni la casetta cambiava posto, grazie a una direttiva segreta della Giusta Fraternità che per equità organizzava la rotazione del prestigioso monumento fra le sessanta province dell’Abistan. Cosí come non si sapeva che un certo programma, uno dei piú confidenziali dell’Apparato, approntava con molto anticipo il sito prescelto e addestrava gli abitanti dei dintorni al ruolo di futuri testimoni storici che avrebbero dovuto spiegare ai pellegrini che cosa significasse vivere nei pressi di un casolare unico in tutto l’universo. I penitenti ricambiavano ampiamente, non lesinavano acclamazioni, lacrime e piccoli doni. Una comunione totale. Senza testimoni che la raccontino la Storia non esiste, qualcuno deve dare avvio alla narrazione perché altri la concludano.

Il complesso sistema di restrizioni e divieti, la propaganda, le prediche, gli obblighi imposti dal culto, il rapido susseguirsi delle cerimonie, le iniziative personali da mettere in atto, che tanto contavano per la valutazione e per la concessione dei privilegi, tutto questo insieme di cose aveva creato uno spirito particolare fra gli abistani, perpetuamente affaccendati intorno a una causa di cui non sapevano un bel niente. 

Accogliere i pellegrini di ritorno dalle loro lunghe assenze, aureolati di fresca santità, festeggiarli, ingozzarli di dolciumi, farsi dare qualcosa, un oggetto, una ciocca di capelli, una qualunque reliquia, erano un momento e un’opportunità che la popolazione e i candidati al Giobe non si sarebbero persi per nulla al mondo. Quei tesori non avevano prezzo al mercato delle reliquie. Ma, ancor piú, dai cari pellegrini si apprendevano meraviglie, erano gli occhi che avevano visto il mondo e si erano posati sui luoghi piú sacri.

Nell’intrico delle routine e dei sacramenti l’Aspettazione era una prova che i candidati vivevano con crescente felicità. Pazienza è l’altro nome della fede, è il cammino e la meta, questo era l’insegnamento primo, al pari dell’obbedienza e della sottomissione, che facevano il buon credente. Bisognava inoltre, per tutto quel tempo, in ogni momento, giorno e notte, sotto lo sguardo degli uomini e di Dio, restare un meritevole fra i meritevoli. Non c’è un solo Aspettante che sia sopravvissuto per un secondo alla vergogna di essere cancellato dalla gloriosissima lista dei candidati al pellegrinaggio nei Luoghi santi. Un’assurdità che all’Apparato piaceva lasciar circolare, nessuno aveva mai sgarrato, nessuno era morto di vergogna, tutti sapevano che in seno al popolo dei credenti non c’erano ipocriti, cosí come sapevano che la vigilanza dell’Apparato era infallibile, gli Abusivi sarebbero stati eliminati prima che li sfiorasse l’idea di ingannare chicchessia. Disinformare, istigare, sobillare, ecco la piaga, il popolo aveva bisogno di chiarezza e di incoraggiamento, non di false voci né di velate minacce. A volte l’Apparato esagerava con la manipolazione, prendeva cantonate, arrivando a inventarsi finti nemici, che poi si sfiancava a scovare per togliere di mezzo, alla fin fine, i suoi stessi amici.

Ati era affascinato da questi avventurieri di lungo corso, li ascoltava fingendo indifferenza per non intimidirli o far rizzare le antenne alle guardie, ma poi trascinato dall’entusiasmo finiva per interrogarli con avidità, come un bambino, tempestandoli di «perché» e di «come». Però restava sempre insoddisfatto, con improvvisi rigurgiti di angoscia e di collera. Chissà dove c’era un muro che impediva di vedere al di là delle ciance di quei poveri erranti in libertà vigilata, condizionati per propalare chimere in tutto il paese. Non gli faceva piacere pensarlo, ma era certo che quei deliri fossero stati suggeriti da chi, lontano, nel cuore dell’Apparato, controllava il loro povero cervello. Non c’è mezzo migliore della speranza e del fiabesco per incatenare i popoli alle loro credenze, poiché chi crede ha paura e chi ha paura crede ciecamente. Ma questa è una riflessione che avrebbe fatto in seguito, nel pieno della tempesta: quando, per salvarsi dall’annientamento, si sarebbe trattato di spezzare la catena che lega la fede alla follia e la verità alla paura.

Nell’oscurità e nel brulichio delle vaste corsie troppo affollate lo pervadevano strani e incalzanti dolori, e lui rabbrividiva come i cavalli nella stalla che avvertono il pericolo aggirarsi nel buio. Sembrava proprio che nell’ospedale albergasse la morte. Poi sopraggiungeva il panico, lo perseguitava fino all’alba e rifluiva solo quando la luce del giorno cominciava a scacciare le pullulanti ombre della notte ed entrava in azione il turno del mattino nel fracasso delle pentole e delle liti. La montagna gli aveva sempre fatto paura, era un cittadino, nato nel calore della promiscuità, e lí, sul suo letto di dolore, sudando e ansimando, si sentiva alla sua mercé, schiacciato dal suo gigantismo e dalla sua durezza, oppresso dalle sue emanazioni sulfuree.

Eppure era stata proprio la montagna a guarirlo. Era giunto al sanatorio in condizioni pietose, la tubercolosi lo salassava vivo, sputava sangue a grossi grumi, la tosse e la febbre lo facevano impazzire. Nel giro di un anno si era piú o meno ristabilito. L’aria gelida, all’aperto, era un fuoco ardente, carbonizzava senza pietà i vermetti che gli divoravano i polmoni – i malati ne parlavano in questo modo figurato, pur sapendo che il male veniva da Balis il Rinnegato e che è la volontà divina a decidere in ultima istanza riguardo all’ordine delle cose. La pensavano cosí anche gli infermieri, rudi montanari a malapena dirozzati: distribuivano a orari fissi pillole confezionate alla buona e decotti emetici, senza dimenticare di sostituire i talismani quando ne arrivavano di nuovi, che si diceva facessero un gran bene. Quanto al dottore che passava di volata una volta al mese senza rivolgere la parola a nessuno, se non con schiocchi di dita, non si osava sfiorarlo neppure con lo sguardo. Non era un uomo del popolo, era un membro dell’Apparato. Al suo passaggio si biascicavano scuse e si scompariva nel primo anfratto a portata di mano. Il responsabile dell’ospizio gli faceva strada sferzando l’aria con il frustino. Ati non sapeva nulla dell’Apparato, tranne che aveva potere su tutto, in nome della Giusta Fraternità e di Abi, la cui gigantografia era affissa su ogni muro da un capo all’altro dell’Abistan. Ah, quell’immagine, va detto, era l’identità del paese. Di fatto si riduceva a un gioco d’ombre, a una sorta di volto in negativo, con al centro un occhio magico puntuto come un diamante, dotato di una consapevolezza capace di perforare anche le blindature. Tutti sapevano che Abi era un uomo, e dei piú umili, ma non era un uomo come gli altri, era il Delegato di Yölah, il padre dei credenti, il capo supremo del mondo, insomma era immortale per grazia di Dio e amore dell’umanità; e se nessuno lo aveva mai visto, era semplicemente perché emanava una luce accecante. No, era davvero troppo prezioso, esporlo allo sguardo della gente comune era impensabile. Intorno al suo palazzo, nel cuore della città proibita, al centro di Qodsabad, erano ammassati centinaia di uomini armati fino ai denti, schierati in impenetrabili barriere concentriche che nemmeno una mosca sarebbe riuscita a oltrepassare senza il visto dell’Apparato. Quei marcantoni erano selezionati alla nascita, addestrati dall’Apparato con cura minuziosa e gli obbedivano in modo esclusivo, nulla poteva distrarli, sviarli, indurli a tradire, non c’era compassione che potesse frenare la loro crudeltà. Se fossero esseri umani non lo sapeva nessuno, gli veniva asportato il cervello alla nascita, il che spiegava quella terrificante ostinazione e quello sguardo allucinato. Il popolino, che non manca mai di trovare il nome giusto per tutto ciò che non capisce, li aveva chiamati i Pazzi di Abi. Li si credeva originari di una lontana provincia meridionale, di una tribú isolata dal mondo legata ad Abi da un patto leggendario. Anche a lei il popolo aveva dato un nome che la diceva lunga: la leg-abi, cioè la legione di Abi.

Il dispositivo di sicurezza era cosí gigantesco da far pensare a qualcuno che quegli irremovibili robot stessero a guardia di un nido vuoto, o addirittura di niente, di una semplice idea, di un postulato. Era scherzare un po’ con il mistero; a questi livelli d’ignoranza ognuno ci mette la sua parte di elucubrazioni, ma tutti sapevano che Abi era onnipresente, al tempo stesso qui e là, in questo e in quel capoluogo di provincia, dentro un palazzo identico custodito altrettanto ermeticamente, da cui irraggiava luce e vita sul popolo. È la forza dell’ubiquità, il centro è ovunque, e cosí ogni giorno folle appassionate accorrevano in processione attorno ai suoi sessanta palazzi per offrirgli le loro migliori preghiere e ricchi doni e in cambio gli chiedevano solo il paradiso al momento della morte.

L’idea di rappresentarlo cosí, con un occhio solo, può aver provocato discussioni, si sono formulate ipotesi: si è detto che era monocolo, dalla nascita secondo alcuni, per le sofferenze patite nell’infanzia secondo altri, si è detto che aveva davvero un occhio solo in mezzo alla fronte, segno di un destino profetico, ma con altrettanta sicurezza si è detto anche che l’immagine era simbolica, che stava a indicare una mente, un’anima, un mistero. Diffuso com’era, in centinaia di milioni di copie all’anno, quel ritratto avrebbe potuto far impazzire per indigestione se l’arte non gli avesse attribuito un portentoso magnetismo, capace di emettere strane vibrazioni che riempivano lo spazio come il canto ammaliante delle balene satura gli oceani durante la stagione degli amori. Al primo sguardo il passante rimaneva soggiogato e poi si sentiva subito felice, intensamente protetto, amato, incoraggiato, anche sopraffatto dalla maestà e da quel quid di formidabile violenza che essa suggeriva. Davanti alle gigantografie illuminate senza risparmio che rivestivano le facciate dei grandi edifici pubblici si formavano capannelli. Nessun artista al mondo sarebbe riuscito a realizzare una simile meraviglia, era opera di Abi, ispirato da Yölah, ecco qual era la verità come ben presto si apprendeva.

Un giorno qualcuno aveva tracciato una scritta in un angolino di un ritratto di Abi. Una parola incomprensibile, scarabocchiata in una lingua ignota, con un’antica grafia anteriore alla prima Grande Guerra santa. La gente non era solo incuriosita, attendeva un evento straordinario. Poi si sparse la voce che la parola era stata tradotta dall’ufficio cifra dell’Apparato; in abiling la misteriosa iscrizione suonava cosí: «Bigaye vi osserva!» Non significava niente, ma grazie alla sua piacevole sonorità quel nome fu subito adottato dal popolo, e cosí Abi si ritrovò affettuosamente ribattezzato Bigaye. Ormai non si sentiva altro che Bigaye di qui, Bigaye di là, Bigaye il beneamato, Bigaye il giusto, Bigaye il perspicace, finché un decreto della Giusta Fraternità non intervenne a proibire l’uso di quella parola barbara, pena la morte immediata. Poco tempo dopo, il comunicato n. 66720 delle NoF, le Notizie dal Fronte, annunciò in tono trionfale che l’infame imbrattatore era stato scoperto e giustiziato seduta stante insieme a tutta la sua famiglia e ai suoi amici, e che i loro nomi erano stati cancellati dai registri a cominciare dalla prima generazione. Nel paese piombò il silenzio ma fra sé e sé molti si chiesero: come mai nel suddetto decreto la parola proibita era scritta Big Eye? A chi era dovuto l’errore? Allo scribacchino delle NoF? Al suo direttore, l’Onorevole Suc? A chi altri? Non poteva trattarsi di Duc, il Gran Commendatore, capo della Giusta Fraternità, e ancor meno di Abi: lui aveva inventato l’abiling, anche volendo non avrebbe potuto commettere errori, di alcun genere.

Sta di fatto che Ati aveva riacquistato un po’ di colorito e qualche chilo. Il catarro era ancora piú spesso, stentava a respirare, si lamentava tantissimo, tossiva molto, ma aveva smesso di sputare sangue. Per il resto la montagna non poteva far nulla, la vita era dura, nel paese mancava tutto, privazioni su privazioni riempivano la quotidianità, se è lecito usare questa espressione. Ci si deteriorava fin dall’ingresso nella vita, ovvio. A quell’altitudine e a una tale distanza dalla città il declino era rapido. Per molti, vecchi, bambini, invalidi gravi, il sanatorio era di certo il capolinea. I poveri sono cosí, rassegnati fino in fondo, cominciano a curarsi quando la vita sta per abbandonarli. Il modo in cui si imbacuccavano nel burni, semplice mantello di lana impermeabilizzato dalla sporcizia e con mille toppe, aveva un che di funebre e di grandioso, sembrava che si avvolgessero in un sudario regale, pronti a seguire la morte senza indugio. Non se lo toglievano mai, né di giorno né di notte, come se temessero di essere sorpresi dalla fatalità e doversi avviare nudi e pieni di vergogna alla morte, che peraltro aspettavano senza paura e accoglievano con una familiarità non simulata, quasi ossequiosa. La morte non guardava in faccia a nessuno, colpiva dove capitava. Quelli che la invocavano le aguzzavano l’appetito, e lei si ingozzava. La loro scomparsa passava inosservata, lí non c’era nessuno a piangerli. Gli ammalati non mancavano, ne arrivavano piú di quanti se ne andassero, non si sapeva dove metterli. Un letto non restava vuoto a lungo, i sofferenti che dormivano su pagliericci negli ampi corridoi ventosi se lo disputavano aspramente. Non sempre gli accordi stipulati in precedenza bastavano a garantire una successione pacifica.

Non c’era solo la penuria, c’erano le complicazioni legate al territorio, che facevano dimenticare il resto. I viveri, le medicine, gli articoli necessari alla gestione del sanatorio erano spediti dalla città in camion – orribili mastodonti tatuati su tutto il corpo che avevano l’età della montagna e non temevano nulla, perlomeno fino ai primi contrafforti, quando l’ossigeno cominciava a essere troppo rarefatto per i loro grossi pistoni – e poi a dorso di uomini e di muli altrettanto coraggiosi e resistenti, nonché provetti alpinisti, ma di una lentezza spaventosa: arrivavano quando potevano, in base agli incerti del clima, alle condizioni dei sentieri e delle strade scavate nella roccia, al proprio umore e alla gravità delle beghe tribali che avevano il raro dono di bloccare tutto, con conseguenze immediate sulla viabilità.

Su quelle montagne in capo al mondo ogni passo era una sfida alla vita, e il sanatorio si trovava in fondo a quel mortifero vicolo cieco. Ad alcuni, in tempi remoti e oscuri, è capitato di chiedersi perché fosse necessario spingersi cosí in alto sui monti e cosí lontano nel freddo e nella desolazione per isolare i tubercolotici, che non erano piú contagiosi di tanti altri: nel paese i lebbrosi giravano liberamente, cosí come gli appestati e coloro che erano affetti da quelle che venivano ancora chiamate febbri maligne, i quali però, va detto, avevano le proprie stagioni e aree di proliferazione. Mai nessuno era morto per essere venuto in contatto con loro o averne incrociato lo sguardo. Il principio del contagio è tuttora mal compreso, non muori perché gli altri sono malati ma perché sei malato tu. Insomma, cosí stavano le cose, ogni epoca ha le sue paure, toccava alla tubercolosi fregiarsi del titolo di morbo supremo che semina il panico fra le popolazioni. La ruota è girata, sono comparsi altri orribili mali, hanno devastato fiorenti regioni e riempito i cimiteri, e poi sono rifluiti, ma poiché il sanatorio era sempre lí, imponente nella sua eternità minerale, si è continuato a mandarci tisici e bronchitici vari invece di lasciarli morire a casa propria o poco lontano, fra gli altri ammalati. Si sarebbero spenti a poco a poco, circondati dall’affetto della loro gente, e invece li ammucchiavano sul tetto del mondo dove morivano in modo vergognoso, tormentati dal freddo, dalla fame e dai maltrattamenti.

Accadeva anche che le carovane semplicemente scomparissero, uomini, animali e mercanzie. A volte svanivano anche i soldati incaricati di proteggerle, a volte no; dopo qualche giorno di ricerche li ritrovavano in fondo a un burrone, sgozzati, mutilati, mezzo divorati dagli animali. Dei loro fucili nessuna traccia. Non lo si diceva ma alcuni lasciavano intendere che la carovana aveva imboccato la strada proibita e attraversato la frontiera. Era ciò che pensavano i vecchi, il loro sguardo era cosí eloquente. Chi ha parlato? All’improvviso l’atmosfera si faceva greve, i vecchi si disperdevano tossicchiando come scusandosi di aver detto troppo, mentre i giovani tendevano di colpo l’orecchio. I loro pensieri erano percepibili a distanza tanto gli pulsavano in testa.

La strada proibita!... La frontiera!... Quale frontiera, quale strada proibita? Il nostro mondo non è forse la totalità del mondo? Non siamo forse a casa nostra ovunque, per grazia di Yölah e di Abi? Che bisogno c’è di confini? Chi ci capisce qualcosa?

La notizia gettava il sanatorio nello sbigottimento e nello sconforto, alcuni si flagellavano secondo l’usanza della loro regione, si batteva la testa contro il muro, ci si graffiava il petto, si ululava a morte: questo atto era un’eresia che avrebbe causato la rovina dei credenti. Che mondo poteva esistere al di là di quella cosiddetta frontiera? Sarebbe stato possibile trovarvi anche solo un po’ di luce e un lembo di terra su cui riuscisse a vivere una creatura di Dio? A chi mai poteva venire in mente di fuggire dal regno della fede verso il nulla? Solo il Rinnegato ispirava idee di quel genere, o i makuf, i propagandisti della Grande Miscredenza: erano capaci di tutto.

All’improvviso l’episodio diventava un affare di Stato e scompariva dalla scena. Il carico andato perso veniva sostituito come per magia con l’aggiunta di un bel supplemento, dolciumi, medicine costose e talismani efficaci, e di quella storia non rimaneva niente, nemmeno un’eco, anzi, ben presto si instaurava l’impressione tenace e ipnotica che non fosse mai successo nulla di spiacevole. Ci sarebbero stati trasferimenti, arresti e sparizioni ma non se ne sarebbe accorto nessuno, l’attenzione sarebbe stata richiamata altrove, nel regno non tutte le braci erano spente e non mancavano le cerimonie. Le guardie assassinate sarebbero assurte alla dignità di martiri e le NoF, i nadir (giornali elettronici murali installati ovunque nel globo) e la rete delle mockba dove si pregava nove volte al giorno avrebbero proclamato che erano caduti con onore durante un’eroica battaglia presentata come «la madre di tutte le battaglie» al pari di quelle vere o sognate che l’avevano preceduta e di quelle che sarebbero venute in seguito, un secolo dopo l’altro. Non c’era gerarchia fra i martiri e non c’era mai fine alla Guerra santa, la si sarebbe decretata quando Yölah avesse sbaragliato Balis conformemente alla Promessa.

Quali guerre, quali battaglie, quali vittorie, contro chi, come, quando, perché? erano domande che non esistevano, che non si ponevano, quindi non c’era da attendersi alcuna risposta. «La Guerra santa, si sa, è il cuore della dottrina ma è una teoria fra tante! Se le congetture si concretizzano con tanta facilità, e durante la vita, allora non c’è piú fede, non c’è piú sogno, niente amore sincero, il mondo è condannato»: cosí pensava la gente quando si sentiva mancare la terra sotto i piedi. Giusto, a che cosa aggrapparsi se non all’incredibile? È l’unica cosa credibile.

E il dubbio porta l’angoscia, e la sventura è dietro l’angolo. Ati era a questo punto, aveva perso il sonno e nutriva il presentimento di indicibili terrori.

Già al suo arrivo al sanatorio, nel bel mezzo dell’inverno precedente, era scomparsa una carovana, e anche la scorta, che in seguito fu rinvenuta in fondo a un burrone, intrappolata nel ghiaccio. In attesa di una schiarita per portarli al villaggio, i cadaveri furono depositati all’obitorio. L’ospedale era tutto un brusio, gli infermieri correvano qua e là con taniche e scope, i malati gironzolavano a sciami nel cortile comune gettando occhiate in tralice alla scala stretta e buia che scendeva a chiocciola verso la camera mortuaria, quindici sicca piú in basso, in realtà l’imbocco di una galleria, parzialmente crollata, che serpeggiava sotto la fortezza, scavata nella massa rocciosa all’epoca in cui su quei confini imperversava la prima Guerra santa. Non si sapeva dove fosse l’altra estremità, la galleria si perdeva nelle viscere della montagna. Era una via di fuga o un magazzino viveri, una segreta o una catacomba, forse un nascondiglio per le donne e i bambini in caso di invasione o un luogo di culto proibito, come all’epoca se ne scoprivano nei posti piú impensati. Era un budello malsano, si era riempito dei furori dei mondi passati, incomprensibili e cosí spaventosi che certi giorni dal fondo del pozzo tracimavano lugubri gorgoglii. Vi regnava una temperatura da congelamento rapido.

Orrore: a parte le ferite causate dalla vertiginosa caduta si veniva a sapere che dei soldati era stato fatto scempio. Niente piú orecchie, lingua, naso, pene cacciato in bocca, testicoli spappolati, occhi cavati. Un vecchio esagitato aveva pronunciato la parola «tortura» ma non ne conosceva il significato, lo aveva dimenticato o non voleva dirlo, e questo aggravò lo spavento. Si allontanò indietreggiando e borbottando qualcosa: «... scongiurare... democ... contro... Yölah ci preservi». In Ati quell’episodio avrebbe innescato un processo insidioso che lo avrebbe portato alla ribellione. Ribellione contro cosa, contro chi, non poteva immaginarlo; in un mondo immobile non è dato comprendere, puoi sapere soltanto se intraprendi la rivolta, contro te stesso, contro l’impero, contro Dio, e di questo nessuno era capace, ma d’altro canto come si fa a muoversi in un mondo statico? Il piú grande sapere del mondo batte in ritirata di fronte al granello di polvere che blocca il pensiero. Quelli che affrontavano la morte sulla montagna, che si inoltravano lungo la strada proibita e attraversavano la frontiera, loro sapevano.

Ma oltrepassare i limiti che significa? Per andare dove?

E perché massacrare quei poveri diavoli in uniforme quando potevano portarli con sé, o semplicemente abbandonarli al loro destino sui monti? Come rispondere? I soldati che erano stati risparmiati dai transfughi ed erano tornati indietro avevano subíto il castigo riservato ai vigliacchi, ai traditori, ai miscredenti, erano finiti allo stadio il giorno della grande preghiera, giustiziati fra le acclamazioni dopo essere stati esposti al pubblico ludibrio in giro per la città. Chiudere un affare di Stato implica la scomparsa dei testimoni, in un modo o nell’altro.

Per Ati quell’ospedale fuori dal tempo era perturbante, ogni giorno veniva a sapere cose inenarrabili, che sarebbero passate inosservate nel trambusto delle città ma che lí riempivano lo spazio, colonizzavano la mente, interpellandola senza tregua, schiacciandola, umiliandola. Una spiegazione era l’isolamento del sanatorio. Nel vuoto la vita diventa strana, non c’è nulla che la stabilizzi, non riesce a trovare un punto di appoggio né sa che direzione prendere. L’impressione di girare in tondo è penosa, vivere troppo a lungo di se stessi e per se stessi è micidiale. Da parte sua, la malattia distrugge molte certezze, la morte non si accontenta di nessuna verità che pretenda di essere piú grande di lei, le azzera tutte. Che esistesse una frontiera era sconvolgente. Il mondo era dunque diviso, divisibile, l’umanità molteplice? Da sempre, per forza, se una cosa esiste, esiste dall’eternità, non si dà generazione spontanea. A meno che non lo voglia Dio – lui è onnipotente −, ma Dio opera forse a dividere gli uomini, lavora forse un tanto al pezzo, quando capita?

Che cos’è la frontiera, per la miseria, che cosa c’è dall’altra parte?

Si sa che il cielo è popolato di angeli, l’inferno brulicante di demoni e la terra ricoperta di credenti, ma perché una frontiera ai suoi limiti estremi? Chi separa, e da che cosa? Una sfera non ha né inizio né fine. Che aspetto dovrebbe avere quel mondo invisibile? Se i suoi abitanti sono dotati di consapevolezza, sono al corrente della nostra presenza sulla terra e sanno questa cosa inconcepibile: che noi non sappiamo della loro esistenza se non come un’orribile e assurda diceria, l’improbabile residuo di un’era cancellata? La vittoria sul Nemico ai tempi della Grande Guerra santa non era dunque stata cosí «completa, definitiva, irrevocabile»! In realtà la sconfitta ci perseguitava e ci ricopriva della sua polvere mentre festeggiavamo senza posa la vittoria.

A che punto siamo, allora? A questo punto disastroso, per forza: siamo stati battuti, spogliati di tutto e respinti dalla parte sbagliata della frontiera. Pare proprio, in effetti, che il nostro mondo sia quello dei perdenti, un coacervo scampato alla disfatta, abbellire la realtà non è altro che imbellettare un morto ed esporlo al ridicolo. E Yölah l’onnipotente e Abi il suo Delegato, che ci fanno con noi su questa zattera alla deriva? Chi ci salverà, da dove ci giungerà aiuto?

Queste domande erano nell’aria, la saturavano, Ati non osava guardarle in faccia ma le percepiva e ne soffriva.

A volte, nonostante l’inflessibile dispositivo di sorveglianza e di «bonifica», il dubbio sfiorava la mente di qualcuno e si insinuava in quella di qualcun altro. Lanciata a briglia sciolta, l’immaginazione si inventa tutte le piste e tutti gli indovinelli che vuole per spingersi lontano, peccato che gli audaci siano imprudenti, si fanno subito scoprire. La tensione interiore che li pervade elettrizza l’aria tutto intorno a loro e basta questo, i V hanno antenne ultrasensibili. Credere che il futuro ci appartenga perché sappiamo è un errore comune. In un mondo perfetto non c’è futuro, ci sono solo il passato e le sue leggende articolate in un fiabesco racconto delle origini, non c’è evoluzione, non c’è scienza; c’è la Verità, unica ed eterna, e sempre, accanto, sta l’Onnipotenza che veglia su di lei. Il sapere, il dubbio e l’ignoranza derivano da una corruzione intrinseca al mondo mutevole, quello dei morti e dei malvagi. Fra questi due mondi non è possibile alcun contatto. È la legge, un uccello uscito dalla gabbia, anche solo per il tempo di un battito d’ala, deve scomparire, non può ritornarci, il suo canto sarebbe dissonante e seminerebbe la discordia. Eppure, ciò che uno ha visto, intravisto, soltanto sognato, un altro, poi, altrove, lo vedrà, lo intravedrà, lo penserà, e forse lui riuscirà a portarlo alla luce in modo che ognuno lo veda e intraprenda la rivolta contro la morte che lo abita abusivamente.

Tra inquietudini e interrogativi, tra crisi di rabbia e crisi di sconforto, tra fantasticherie e delusioni, Ati aveva smarrito la strada, questa era la sua unica certezza. In tutto il paese, nelle sue sessanta province, non accadeva mai nulla, nulla di visibile, la vita era limpida, l’ordine sublime, la comunione assoluta in seno alla Giusta Fraternità, sotto lo sguardo di Abi e la benevola sorveglianza dell’Apparato. In un tale stato di perfezione la vita si blocca, che cosa avrebbe da immaginare, da rifare, da migliorare? E di conseguenza il tempo si congela, che cosa mai dovrebbe scandire? E nell’immobilità a che servirebbe lo spazio? Abi era riuscito nel suo intento, l’umanità riconoscente poteva cessare di esistere.

«La nostra fede è l’anima del mondo e Abi il suo cuore pulsante»,

«La sottomissione è fede e la fede verità»,

«L’Apparato e il popolo sono TUTT’UNO, cosí come Yölah e Abi sono Tutt’uno»,

«A Yölah apparteniamo, ad Abi obbediamo», ecc.

erano alcune di quelle novantanove massime chiave che imparavi a memoria fin dalla piú tenera età e ripetevi per tutto il resto della vita.

Quando era stato costruito il sanatorio, tanto tanto tempo prima – un cartiglio scolpito nella pietra sopra l’arcata del monumentale portone rivelava una data, se davvero era una data, 1984, fra due segni cabalistici sgretolati, anno che forse era quello della sua inaugurazione, ma la breve epigrafe, che probabilmente lo confermava e indicava la destinazione dell’edificio, era in una lingua sconosciuta −, le cose funzionavano abbastanza bene, stando a ciò che dicevano certi vecchi pazzi, poi scomparsi, ma nessuno aveva capito di che parlassero, e comunque nessuno ricorda che fossero riusciti a spiegare qualcosa, il mondo è sempre girato nella stessa mirabile e canonica maniera, ieri e oggi, come girerà anche domani e dopodomani. A volte, per settimane e anni, si mancava di tutto, nulla arginava la sventura che si abbatteva sulle città e sulle esistenze degli uomini, tranne il fatto che tutto ciò era normale e giusto, ci si riteneva in dovere di consolidare senza posa la propria fede e imparare a irridere la morte. Il resto lo facevano le preghiere collettive che scandivano i giorni e le ore, e le salmodie trasmesse negli intervalli fra le nove preghiere quotidiane da instancabili altoparlanti, appesi in punti strategici del sanatorio, si ripercuotevano da una parete all’altra, dai corridoi alle corsie, intrecciando all’infinito le loro eco lenitive per mantenere l’attenzione a livello dell’abulia. L’accompagnamento sonoro si era cosí intimamente amalgamato con il sostrato che nessuno si accorgeva se scompariva quando mancava la corrente elettrica o l’antiquato impianto di diffusione si guastava, qualcosa nei muri o nel subconscio dei ricoverati continuava a salmodiare con un realismo piú vero del vero. Nello sguardo vacuo degli oranti brillava sempre la stessa dolce e vibrante luce dell’accettazione, non si spegneva mai. Accettazione, Gkabul in abiling, era del resto il nome della santa religione dell’Abistan, ed era anche il titolo del santo Libro nel quale Abi aveva raccolto i suoi divini insegnamenti.

A trentadue, trentacinque anni, non lo sapeva di preciso, Ati era un vecchio. Gli era rimasta un po’ della bellezza della sua gioventú e della sua razza: era alto, snello, la carnagione chiara abbronzata dal vento tagliente delle cime faceva risaltare il verde degli occhi punteggiato di pagliuzze d’oro, e la sua innata disinvoltura conferiva ai gesti una sensualità felina. Quando raddrizzava le spalle, chiudeva le labbra sui denti guasti e si concedeva un sorriso, poteva passare per un bell’uomo. Di sicuro lo era stato, ancora ricordava quanto ciò lo avvilisse perché la bellezza fisica è una tara, gradita al Rinnegato, attira irrisioni e violenze. Nascoste dietro gli spessi veli e i burniqab, compresse dai bendaggi e sempre ben custodite nei loro spazi, le donne non soffrivano troppo, ma per gli uomini dotati di una certa avvenenza era un supplizio continuo. Una barba incolta imbruttisce, modi rozzi e un abito da spaventapasseri risultano sgradevoli, ma purtroppo per Ati quelli della sua razza erano glabri di pelle e gentili di modi, e lui lo era particolarmente, con in piú una timidezza da giovincello che faceva venire l’acquolina in bocca ai tizi grandi, grossi e sanguigni. Ati rammentava la propria infanzia come un incubo. Non ci pensava piú, la vergogna aveva innalzato un muro. Solo in sanatorio, dove gli ammalati abbandonati a se stessi davano libero sfogo agli istinti piú bassi, gli era tornata in mente. Soffriva vedendo i poveri ragazzini scappare e divincolarsi, ma tale era la persecuzione che finivano per cedere, non potevano resistere alla brutalità degli aggressori e alle loro astuzie. Di notte li si sentiva gemere da spezzare il cuore.

Ati aveva perso la speranza di capire come mai il vizio proliferi proporzionalmente alla perfezione del mondo. Non osava trarne un controsenso, con il disordine la virtú non ci guadagnava ed era impossibile pensare che la depravazione fosse un residuo delle Tenebre precedenti alla Luce portata da Abi, tenuto vivo per mettere alla prova i credenti e far incombere la minaccia su di loro. Il cambiamento, anche miracoloso, richiede tempo, il bene e il male coabitano fino alla vittoria conclusiva del primo. Come sapere dove comincia l’uno, dove finisce l’altro? Dopotutto il bene potrebbe essere un semplice succedaneo del male, fa parte dei suoi stratagemmi presentarsi con un bell’abito e cantare melodiosamente, cosí come è nella natura del bene essere conciliante, fino all’ignavia, talvolta fino al tradimento. Sta scritto nel Gkabul, titolo 2, capitolo 30, versetto 618: «All’uomo non è dato sapere che cosa sia il Male e che cosa sia il Bene, egli deve sapere che Yölah e Abi operano per la sua felicità».

Ati non si riconosceva piú, aveva paura di quell’altra persona che lo aveva invaso, che si mostrava cosí imprudente e si faceva di giorno in giorno piú audace. La sentiva suggerirgli domande e sussurrargli risposte incomprensibili... e lui la ascoltava, tendeva l’orecchio, la incitava a precisare, a giungere a una conclusione. Questo faccia a faccia lo stremava. Era atterrito all’idea che finissero per sospettare di lui, che scoprissero che era un... non osava pronunciare la parola... miscredente. Non la capiva, quella maledetta parola, nessuno la pronunciava per paura che si materializzasse, però il senso comune si costruisce su cose familiari che vengono ripetute senza pensarci... Mis... cre... dente, era un’astrazione ovviamente menzognera, mai e poi mai in Abistan qualcuno è stato costretto a credere, e mai si è tentato qualcosa per guadagnare la sua sincera adesione, gli si imponeva il comportamento del perfetto credente, tutto qui. Nulla nel linguaggio, nell’atteggiamento o nel vestiario doveva distinguerlo dall’identikit del perfetto credente, ideato da Abi o da qualche ispirato coadiutore della Giusta Fraternità incaricato dell’indottrinamento. Lo si sarebbe educato fin dalla piú tenera infanzia e, prima che la pubertà si affacciasse all’orizzonte e rivelasse impietosamente le autentiche verità della condizione umana, sarebbe diventato un perfetto credente, incapace di immaginare che nella vita possa esistere un altro modo di essere. «Dio è grande, ha bisogno di fedeli perfettamente sottomessi, odia il pretenzioso e il calcolatore» (Gkabul, titolo 2, capitolo 30, versetto 619).

Quella parola lo disturbava anche piú di cosí. Essere un miscredente significa rifiutare una credenza alla quale si è iscritti d’ufficio ma, ed è questo il guaio, l’uomo può liberarsi da una credenza solo appoggiandosi a un’altra, cosí come si cura una dipendenza con altre droghe, appropriandosene piú intimamente, inventandola se necessario. Ma che cosa e come, visto che nel mondo ideale di Abi non c’è nulla che permetta di farlo, niente punti di vista in competizione, nemmeno l’ombra di un postulato per appenderci la coda di un’idea ribelle, per immaginare un seguito, per costruire una storia da contrapporre alla vulgata? Tutti i liberi sentieri sono stati censiti e cancellati, le menti sono strettamente regolate in base al canone ufficiale e sistematicamente rimesse a punto. Perciò sotto il dominio del Pensiero unico essere miscredenti è impensabile. Ma allora perché il Sistema lo proibisce pur sapendo che è impossibile e facendo di tutto perché tale rimanga?... All’improvviso ebbe un’intuizione, il piano era cosí chiaro: il Sistema non vuole che la gente creda! È questo il vero scopo, perché quando credi a un’idea puoi credere a un’altra, opposta per esempio, e trasformarla in un cavallo di battaglia per combattere l’illusione precedente. Ma dato che è ridicolo, impossibile e pericoloso proibire alla gente di credere all’idea che le viene imposta, la formula è trasformata in divieto di essere miscredenti, in altre parole ecco cosa dice il Grande Ordinatore: «Non cercate di credere, rischiate di smarrirvi in un’altra credenza, limitatevi a proibirvi di dubitare, dite e ripetete che la mia verità è unica e giusta e cosí l’avrete sempre in mente, e non dimenticate che la vostra vita e i vostri beni mi appartengono».

Nella sua infinita conoscenza dell’artificio, il Sistema ha ben presto capito che era l’ipocrisia a fare il perfetto credente, non la fede, che con la sua natura oppressiva porta con sé il dubbio, se non addirittura la ribellione e la follia. E ha anche capito che la vera religione non può essere che bigottismo ben regolato, assurto a monopolio e mantenuto con il terrore onnipresente. «Poiché nella pratica l’essenziale è il dettaglio», tutto è stato codificato, dalla nascita alla morte, dall’alba al tramonto la vita del perfetto credente è un susseguirsi ininterrotto di gesti e parole da ripetere, non gli lascia alcuno spazio per sognare, esitare, riflettere, eventualmente non credere, forse credere. Ati stentava a trarne una conclusione: credere non è credere ma ingannare; non credere è credere all’idea opposta e quindi ingannare se stessi e finire per imporre all’altro come dogma la propria idea. Questo era vero nel Pensiero unico... lo era anche nel mondo libero? Di fronte a questa difficoltà, batté in ritirata, non conosceva il mondo libero, non riusciva semplicemente a immaginare che collegamento potesse esserci fra dogma e libertà, né quale dei due fosse il piú forte.

Qualcosa si era guastato nella sua testa, non capiva che cosa. Aveva però la netta consapevolezza di non voler piú essere l’uomo che era stato in quel mondo che di colpo gli sembrava cosí orribilmente sporco e cattivo, desiderava la metamorfosi che si andava abbozzando nel dolore e nella vergogna, anche a costo di esserne ucciso. L’uomo che era, il fedele credente, stava morendo, ne era ben conscio, in lui nasceva un’altra vita. Una vita che sembrava esaltante mentre era destinata a subire un violento castigo: l’annientamento e la maledizione per lui, la rovina e la messa al bando per la sua gente perché, e questo era chiaro come il sole, non aveva alcuna possibilità di sfuggire a quel mondo, gli apparteneva anima e corpo, da sempre e fino alla fine dei tempi, quando di lui non sarebbe rimasto nulla, nemmeno un granello di polvere, nemmeno un ricordo. Quel mondo, Ati non poteva neppure rinnegarlo tacitamente, non aveva nulla da rimproverargli, in fondo, nulla da contrapporgli, esso era ciò che era, conformemente alla sua natura. E chi avrebbe potuto contestarlo, causargli un qualsiasi fastidio, e come infliggerglielo? Nulla lo toccava, anzi tutto lo rafforzava. È nato cosí, sovrano e maestosamente disinteressato alla terra e all’umanità, come la follia e la gigantesca ambizione dei suoi promotori volevano che fosse. Era la spiegazione, era come Dio, tutto procede da lui e tutto si risolve in lui, il bene e il male, la vita e la morte. Di fatto, nulla esiste, nemmeno Dio, solo lui è.

L’Apparato lo avrebbe scovato ed eliminato, era una certezza lampante, presto probabilmente, e forse la macchina era in allerta da tempo, da sempre, in attesa del momento giusto per sferrare il colpo, come il gatto finge di dormire mentre il topo crede di essersela cavata. Lui era una cellula in un organo, una formica nel formicaio: una disfunzione in un punto si ripercuote subito in tutto il corpo. Il male che lo tormentava doveva titillare il Sistema fin nel profondo, chissà dove c’era stato uno scambio di segnali insoliti, trasmessi dall’istinto, dalla vibrazione delle corde vocali o dal flusso mentale dei V, scatenando automaticamente nel centro nervoso procedure di localizzazione dell’interferenza, di verifica e analisi di un’infinita complessità che a loro volta avrebbero innescato meccanismi altrettanto complessi di correzione, regolazione, all’occorrenza distruzione, e poi re-inizializzazione e oblio per scongiurare reminiscenze dannose ed eventuali successivi rigurgiti di nostalgia, e tutto ciò, sino al piú infimo quanto di informazione, sarebbe stato codificato e archiviato in un’infallibile memoria lenta per essere masticato e rimasticato all’infinito, cosí dalla ruminazione sarebbero scaturiti regolamenti sovrani e insegnamenti pratici destinati a rafforzare il dispositivo e a impedire che il futuro fosse qualcosa di diverso dalla stretta replica del passato.

Sta scritto nel Libro di Abi, titolo 1, capitolo 2, versetto 12:

«La Rivelazione è una, unica e universale, non richiede né aggiunta né revisione e nemmeno la fede, l’amore o la critica. Solo l’Accettazione e la Sottomissione. Yölah è onnipotente, punisce con severità l’arrogante».

Piú avanti, al titolo 42, capitolo 36, versetto 351, Yölah precisa: «L’arrogante subirà le folgori della mia ira, gli verranno cavati gli occhi, sarà smembrato, bruciato, e le sue ceneri saranno disperse al vento, e la sua stirpe, ascendenti e discendenti, subirà una fine dolorosa, nemmeno la morte la proteggerà dalla mia vendetta».

In fondo la mente è un puro meccanismo, una macchina cieca e fredda proprio in ragione della sua straordinaria complessità che le impone di imparare tutto, controllare tutto e incrementare senza posa l’ingerenza e il terrore. Fra la vita e la macchina sta tutto il mistero della libertà, che l’uomo non può raggiungere senza morire e che la macchina trascende senza accedere alla coscienza di sé. Ati non era libero e non lo sarebbe mai stato ma, forte solo dei propri dubbi e delle proprie paure, si sentiva piú vero di Abi, piú grande della Giusta Fraternità e del suo tentacolare Apparato, piú vivo della massa inerte e tumultuante dei fedeli, aveva preso coscienza della propria condizione, in ciò consisteva la libertà, nel percepire che non siamo liberi ma che abbiamo il potere di batterci fino alla morte per esserlo. Gli sembrava evidente che la vera vittoria sta nelle battaglie perse in partenza ma combattute fino in fondo. Grazie a questo capí che la morte a cui andava incontro sarebbe stata sua, non quella inflitta dall’Apparato, sarebbe stata frutto della sua volontà, della sua rivolta interiore, non il castigo per una devianza, per un’infrazione alle leggi del Sistema. L’Apparato può distruggerlo, eliminarlo, magari indurlo a passare dalla sua parte, riprogrammarlo e fargli adorare la sottomissione sino alla follia, non potrà togliergli ciò che non conosce, non ha mai visto, non ha mai avuto, non ha mai ricevuto né dato, che pure egli odia sopra ogni cosa e insegue all’infinito: la libertà. Lo sapeva, come l’uomo sa che la morte è la fine della vita – questo evento per essenza inafferrabile è la sua sconfessione e la sua conclusione, ma è anche la sua giustificazione −, poiché il Sistema non ha altro scopo che impedire alla libertà di manifestarsi, incatenare gli uomini e ucciderli, è il suo interesse a imporglielo ma è anche l’unico godimento che possa trarre dalla sua miserabile esistenza. Lo schiavo che sa di essere schiavo sarà sempre piú libero e piú grande del suo padrone, fosse anche il re del mondo.

Ati sarebbe morto cosí, con un sogno di libertà nel cuore, lo voleva, era una necessità, poiché sapeva che non avrebbe mai potuto avere di piú, e che vivere in un sistema di quel genere non era vivere, era girare a vuoto, per niente, per nessuno, e morire cosí come si disgregano gli oggetti inanimati.

Il cuore gli batteva talmente forte da far male. Strana sensazione: piú la paura lo invadeva e gli torceva le viscere e piú lui era forte. Si sentiva cosí baldanzoso. Qualcosa gli si stava cristallizzando in fondo al cuore, un grano di autentico coraggio, un diamante. Scopriva, senza sapere come dirlo se non con un paradosso, che la vita merita che si muoia per lei, perché senza di lei siamo dei morti che sono sempre stati solo morti. Prima di morire voleva viverla, quella vita che emerge nel buio, anche solo per una frazione di secondo.

Poco tempo addietro era fra quelli che esigevano la morte per chiunque infrangesse le regole della Giusta Fraternità. Per le colpe gravi si schierava con i duri che pretendevano esecuzioni spettacolari, convinti che il popolo avesse diritto a quei momenti di intensa comunione, con il sangue fumante che sprizzava a fiotti e il terrore catartico che esplodeva come un vulcano. La sua fede ne sarebbe uscita rafforzata, rinnovata. Non era la crudeltà a ispirarlo, né alcun sentimento spregevole, credeva semplicemente che a Yölah l’uomo dovesse offrire il meglio, nell’odio per il nemico come nell’amore per la propria gente, nella ricompensa del bene come nella punizione del male, nel buon senso come nella follia.

Dio è fuoco, vivere per lui è esaltante.

Ma queste, se ne stava convincendo a vista d’occhio, erano parole che forse gli erano state scolpite nella memoria alla nascita, automatismi a scoppio ritardato inseriti nei suoi geni e perfezionati incessantemente nel corso degli anni. E, all’improvviso, ebbe la rivelazione della realtà profonda del condizionamento che faceva di lui, e di ognuno, una macchina ottusa e fiera di esserlo, un credente felice della propria cecità, uno zombie imbalsamato nella sottomissione e nell’ossequio, che viveva per niente, per puro obbligo, per inutile dovere, una creatura meschina capace di uccidere l’umanità intera a uno schiocco di dita. La rivelazione lo illuminò, facendo apparire l’essere subdolo che lo dominava dall’interno e contro il quale voleva ribellarsi... e al tempo stesso non lo voleva sul serio. La contraddizione era flagrante, e indispensabile, era il cuore stesso del condizionamento! Il credente deve essere sempre mantenuto nello stato in cui sottomissione e rivolta intrattengono un rapporto amoroso: la sottomissione è infinitamente piú deliziosa quando riconosci di avere la possibilità di liberarti, ma questo è anche il motivo per cui ammutinarsi è impossibile, c’è troppo da perdere, la vita e il cielo, e nulla da guadagnare, la libertà nel deserto o nella tomba è un’altra prigione. Senza questa connivenza la sottomissione sarebbe una condizione indefinita che non permette di risvegliare la coscienza del credente alla propria assoluta insignificanza, e ancor meno alla generosità, all’onnipotenza e all’infinita compassione del suo sovrano. La sottomissione genera la rivolta e la rivolta si risolve nella sottomissione: ecco che cosa ci vuole, questa accoppiata indissolubile, perché esista la coscienza di sé. Tale è il cammino, si conosce il bene solo se si è consapevoli del male, e viceversa, in virtú di quel principio secondo cui la vita esiste e pulsa soltanto nella e con la contrapposizione di forze antagoniste. A ogni uomo è stata concessa una mente strana e scaltra, che pensa la vita, il bene, la pace, la verità, la fraternità, la dolce e rassicurante perennità, e le orna di tutte le virtú, ma le ricerca, e con quale passione, solo attraverso la morte, la distruzione, la menzogna, l’inganno, la dominazione, la perversione, l’aggressione brutale e ingiusta. E cosí la contraddizione scompare nell’indistinto, il conflitto fra il bene e il male cessa, trattandosi di due facce della medesima realtà, cosí come l’azione e la reazione si combinano, alla pari, per garantire l’unità e l’equilibrio. Sopprimere l’uno comporta sopprimere l’altro. Nel mondo di Abi il bene e il male non si contrappongono, si confondono poiché non c’è vita per riconoscerli, denominarli e costruire la dualità, sono un’unica e medesima realtà, quella della non-vita, o della morte-vita. La credenza sta tutta qui, la questione del bene e del male dal punto di vista etico è secondaria e vana, definitivamente spazzata via, il bene e il male non sono che pilastri, privi di significato proprio, della stabilità. La vera santa religione, l’Accettazione, il Gkabul, consiste in questo e solo in questo: proclamare che non vi è dio che Yölah, e Abi è il suo Delegato. Il resto appartiene alla legge e al suo tribunale, faranno dell’uomo un credente sottomesso e coscienzioso e delle folle altrettante coorti instancabili, faranno ciò che sarà chiesto loro, con i mezzi che verranno loro forniti, e tutti proclameranno: «Yölah è grande e Abi è il suo Delegato!»

Piú li si sminuisce e piú gli uomini si vedono grandi e forti. Solo al momento del trapasso scoprono, sbigottiti, che la vita non deve loro nulla poiché non le hanno dato nulla.

Che importa il loro parere, vampirizzati come sono da un sistema di cui si fanno difensori e vittime. Predatori e al tempo stesso prede nell’assurdo e nella follia. Nessuno dirà loro che nell’equazione della vita il bene e il male sono stati invertiti e che alla fine il bene è stato sostituito da un male minore, essa non lascia loro altra via, stante che la società umana può essere governata solo dal male, un male sempre piú grande, affinché nulla, mai, dall’esterno o dall’interno, venga a minacciarla. E cosí il male che si contrappone al male diventa il bene, e il bene è il perfetto espediente per assumere il male e giustificarlo.

«Il Bene e il Male sono miei, non vi è dato distinguerli, io mando l’uno e l’altro per tracciarvi la via della verità e della felicità. Guai a chi manca al mio appello. Io sono Yölah l’onnipotente» sta scritto nel Libro di Abi, titolo 5, capitolo 36, versetto 97.

Avrebbe voluto parlare della sua inquietudine con qualcuno. Tradurre in parole i pensieri ed esprimerli, sentire irrisioni, critiche, forse incoraggiamenti gli parve necessario in quella fase quando il traviamento era a uno stadio già molto avanzato. Piú di una volta gli venne la tentazione di parlare con un ricoverato, un infermiere, un pellegrino, ma all’ultimo momento si tratteneva, lo avrebbero preso per pazzo, lo avrebbero accusato di bestemmiare. Una parola, e il mondo crolla. Sarebbero accorsi i V, i cattivi pensieri erano nettare per loro. Sapeva come la gente fosse spinta a denunciare, lui stesso lo faceva con fervore sul luogo di lavoro, nel suo quartiere, nei confronti dei vicini e degli amici piú fidati. Aveva un buon punteggio e spesso era stato applaudito durante le Giori, le Giornate della Ricompensa, e menzionato sull’Eroe, lo stimato e onorevolissimo foglio dei CGV, i Credenti giustizieri volontari.

Con il passare dei giorni e dei mesi i concetti familiari si fecero sempre piú incerti, assumevano una risonanza diversa. Senza il giogo sociale e la macchina poliziesca che mantengono in carreggiata le credenze, tutto si disgrega, il bene, il male, il vero, il falso non hanno piú frontiere, non quelle precedentemente note – altre compaiono in filigrana. Tutto è indistinto, tutto è remoto e pericoloso. Ti smarrisci mano a mano che ti cerchi.

L’isolamento del sanatorio complicava tutto, le privazioni si assommavano, l’indottrinamento si allentava. C’era sempre un motivo che impediva lo svolgimento delle lezioni, nonché delle benefiche sedute di slogan e delle preghiere cosí riposanti fino alla sacrosanta Implorazione del Giovedí: colpa degli ammalati che non si presentavano, di una valanga o una frana che aveva ostruito la strada, della piena che aveva travolto una passerella, del fulmine che aveva spezzato una scala di corda, del maestro di scuola che era caduto in un burrone tornando dalla città, del direttore che in città c’era andato, convocato in alto loco, del coadiutore alla preghiera che aveva perso la voce, del portinaio che non trovava piú il suo mazzo di chiavi, della fame, della sete, di un’epidemia, di una carestia, di un’ecatombe, di mille cose futili e sublimi. Lontano da tutto non funziona niente, le calamità hanno campo libero. Quando si è abbandonati al proprio destino, inattivi come un sasso, circondati dalle privazioni, ci si sente di troppo, di peso, ci si ritrova fra ammalati, derelitti e pieni di vergogna, a guardarsi morire, raccontare i propri dolori, vagare da una parete all’altra, e di notte, nel letto gelido, perso nel buio come una zattera nell’oceano, per riscaldarsi si rimestano ricordi felici, sempre gli stessi, che assumono significati ossessivi. Parrebbe che vogliano annunciare qualcosa, vanno, vengono, cozzano fra loro. A volte, per un breve istante che tentiamo di prolungare riproiettando il film, aggiungendo peripezie e colori, abbiamo l’impressione di tornare da lontano, di esistere in un certo qual modo, che qualcuno nell’etere voglia parlarci, ascoltarci, offrirci il suo aiuto, un’anima buona, un amico scomparso, un confidente. Ci sono dunque cose in questa vita che ci appartengono, non come un bene venale ma come una verità, un conforto. Abbandonarsi con fiducia è una gioia.

A poco a poco compare un mondo sconosciuto in cui vigono strane parole, mai udite, forse intraviste, come ombre passeggere nell’accalcarsi dei rumori. Una in particolare lo affascinava, schiudeva la porta di un universo di bellezza e di amore inesauribile, nel quale l’uomo era un dio che traformava in miracoli i propri pensieri. Era pazzo, ne aveva paura, la cosa non sembrava semplicemente possibile: affermava di essere l’unica realtà.

Una notte si sorprese a mormorare sotto la coperta. I suoni uscivano da soli, come forzando il passaggio fra le labbra serrate. Si irrigidí, attanagliato dalla paura, poi si rilassò e tese l’orecchio a quelle parole. Lo attraversò una scarica elettrica. Gli mancava il respiro, si udiva ripetere la parola che lo affascinava, che non aveva mai usato, che non conosceva, ne singhiozzava le sillabe: «Li... ber... tà... li... ber... tà... li-ber-tà... li-ber-tà... libertà... libertà...» A un certo punto l’ha forse urlata? I malati lo hanno sentito?... Chissà. Era un grido interiore...

Il rantolo cavernoso della montagna che lo terrorizzava da quando era arrivato al sanatorio cessò di colpo. Il vento, liberato dalla paura, divenne lieve, profumava d’aria di montagna, aspra ed euforica. Una melodia sbarazzina che saliva dai profondi canaloni verso le cime. Ati la ascoltava deliziato.

Quella notte non chiuse occhio. Era contento. Poteva dormire e sognare, la felicità lo aveva stremato, ma preferiva rimanere sveglio e lasciare briglia sciolta all’immaginazione. Era una felicità senza domani, bisognava approfittarne. Si esortava anche alla calma, a tornare con i piedi per terra, a fare calcoli, a prepararsi mentalmente, perché ben presto avrebbe lasciato l’ospedale e sarebbe tornato a casa, avrebbe ritrovato casa sua... il suo paese, l’Abistan, di cui scopriva di non sapere niente, che avrebbe dovuto conoscere in fretta per avere un’opportunità di salvarsi.

Sarebbero trascorsi altri due mesi grevi come una tomba prima che l’infermiere di turno venisse a dirgli che il medico aveva firmato la lettera di dimissione. Gli mostrò la cartella clinica. Conteneva due fogli gualciti, il modulo di ricovero e quello di uscita sul quale una penna nervosa aveva aggiunto: «Da controllare».

Ati si sentí venir meno. Che i V lo avessero udito nei suoi sogni?

Con una stretta al cuore Ati ha lasciato il sanatorio, un bel mattino del mese di aprile. Il freddo era ancora micidiale ma fra le sue pieghe c’era un po’ del calore dell’estate in arrivo, un’infima traccia, abbastanza per far venire voglia di ricominciare a vivere e correre a perdifiato.

Era ancora notte fonda ma la carovana era pronta. Non mancava niente, forse un ordine. Il suo piccolo mondo era al completo ai piedi della fortezza, in paziente attesa, gli asini nella loro posizione preferita, a coppie, uno di testa e uno di coda, facevano colazione con una rachitica graminacea di montagna, i portatori stravaccati sotto la tettoia masticavano erba magica, le guardie sorseggiavano tè bollente palpeggiando la culatta del fucile con uno zelo tutto militare, e in disparte, dignitosamente imbacuccati nei mantelli polari foderati di pelo, intorno a un braciere acceso, il commissario della fede e i suoi accoliti (fra i quali, invisibile e inquietante, un V la cui mente telepatica scansionava i dintorni) si consultavano sgranando il rosario da viaggio. Fra una banalità e l’altra pregavano a gran voce Yölah, e in silenzio Jabil, lo spirito dei monti. In montagna scendere non è semplice, è piú pericoloso che salire, per via della gravità è facile cedere alla tentazione della fretta. I veterani, sempre molto sibillini, non si stancano di ripeterlo ai principianti, precipitarsi giú è una propensione tipicamente umana.

I passeggeri della carovana stavano un po’ discosti, sotto un cornicione diroccato, mogi e tremanti come se si avviassero ingiustamente alla morte. Gli si vedeva solo il bianco degli occhi. Il fiato corto indicava che non erano affatto tranquilli. Erano ammalati che se l’erano cavata e tornavano a casa, burocrati venuti per una questione di documenti che non poteva aspettare la bella stagione. Fra loro Ati, avvolto in vari burni impermeabilizzati dalla sporcizia, appoggiato a un nodoso bastone, con un fagotto che conteneva i suoi averi, una camicia, un bicchiere di metallo, una ciotola, le pillole, il manuale delle preghiere e i talismani. Aspettavano scalpicciando e battendosi i fianchi. Lo scintillio di quel cielo immenso che si incendiava all’orizzonte bruciava la retina, avevano le palpebre pesanti, si erano abituati alla vita lenta e crepuscolare del sanatorio. Tutto, in loro, il gesto, il respiro, la vista, si era corretto al ribasso per permettergli di vivere quell’impossibile ascesi, abbarbicati nel vuoto a piú di quattromila sicca di altitudine.

Ati avrebbe rimpianto il suo gelido inferno, gli era debitore della guarigione e di averlo messo di fronte a una realtà che non pensava esistesse, benché fosse quella del suo mondo e non ne conoscesse altre. Ci sono musiche che si sentono esclusivamente nella solitudine, al di fuori della compagine sociale e della sorveglianza poliziesca.

Aveva paura di ritornare a casa e al tempo stesso non vedeva l’ora. È fra la propria gente e contro di lei che bisogna combattere, è lí, nel susseguirsi dei giorni e nel groviglio dei sottintesi, che la vita smarrisce il senso delle cose profonde e si rifugia nella superficialità e nell’apparenza. Il sanatorio gli aveva restituito il vigore e aperto gli occhi su quella realtà inaudita, che nel loro mondo c’era un altro paese e che li separava una frontiera introvabile, e quindi invalicabile e mortale. Che mondo è mai quello in cui l’ignoranza è tale che non sai chi abiti a casa tua, in fondo al corridoio?

Era divertente porsi la domanda che fa perdere la testa: un uomo continua a esistere se dal mondo reale lo si proietta in uno virtuale? Se sí, può morire? Di che cosa? Niente tempo, nel virtuale, quindi niente problemi, niente vecchiaia, niente malattie, niente morte. Con che cosa potrebbe suicidarsi? Diventerebbe virtuale come il suo nuovo mondo? Conserverebbe memoria di quell’altro mondo, della vita, della morte, della gente che va e viene, dei giorni che passano? Un mondo che dà queste sensazioni è virtuale?...

Ma basta con tutto ciò, sulle ipotesi, sui giochetti mentali Ati ha almanaccato mille volte senza ricavarne nulla se non paure ed emicranie. E rabbia e insonnie. E vergogna e atroci rimpianti. Urge partire alla ricerca di quelle frontiere e attraversarle. Dall’altra parte vedremo ciò che una cosí lunga e perfetta macchinazione ci vietava e sapremo, con spavento o felicità, chi siamo e che mondo era il nostro.

Questo pensava, un po’ anche per passare il tempo, l’attesa è fonte di angoscia e di interrogativi.

All’improvviso, proveniente da ogni parte e da nessuna, da una valle lontana, un suono ampio, possente, pieno di rotondità e di armonia ha preso d’assalto la montagna fino al sanatorio: un canto magnifico e ammaliante i cui echi si intrecciavano ondeggiando per poi allontanarsi in uno strano modo, triste e poetico. Ad Ati piaceva ascoltarlo e seguirlo nel suo languido percorso verso l’estinzione in un silenzio siderale. Com’è bello il canto del corno di montagna!

L’avanguardia, partita dal sanatorio all’alba, aveva raggiunto i contrafforti, la prima sosta, una postazione multifunzionale, un misto di bazar del deserto, antro di sciamano e ufficio pubblico polivalente, annidata giú in basso, a oltre venti shabir in linea d’aria. Solo il corno di montagna aveva abbastanza fiato per farsi sentire a una tale distanza. In quel caso diceva che la strada era libera e praticabile. Era il segnale che aspettavano.

La carovana poteva mettersi in moto.

A ogni ora i corni dei contrafforti successivi avrebbero suonato per scandire il tempo e indicare la strada, e il corno da nebbia della carovana avrebbe risposto che il tempo, secondo il volere di Yölah, segue il proprio ritmo, il quale però non può eccedere la capacità di resistenza dei passeggeri, dei convalescenti privi di forze e di esperienza montanara e di qualche povero funzionario arrugginito dalla testa ai piedi.

Momento di grande emozione al sanatorio. Affollati sulle terrazze, sulle bertesche e sui cammini di ronda delle mura i malati guardavano la carovana allontanarsi nelle brume aurorali. Salutavano con la mano e pregavano sia per i coraggiosi viaggiatori sia per se stessi, rimasti prigionieri della propria estenuante malattia. Lividi com’erano, avvolti nei burni di stoffa grezza sfilacciati e rattoppati, circonfusi da un alone chiaroscuro, sembravano un consesso di fantasmi venuti a salutare la fine di qualcosa d’incomprensibile.

Alla curva della mulattiera, a picco su un burrone, Ati si girò per un ultimo sguardo alla fortezza. Vista dal basso, sormontata da un cielo vaporoso vibrante di luce, appariva in tutta la sua imponenza ieratica, addirittura terrificante. Aveva alle spalle una lunga storia, non si sapeva quale fosse ma la si percepiva. Dà l’impressione di essere stata sempre lí, ha conosciuto tanti mondi e una quantità di popoli e li ha visti scomparire a uno a uno. Di quei tempi non è rimasto quasi nulla, un’atmosfera spettrale impregnata di misteri e mormorii, una certa vanità delle cose in sottofondo, e alcuni simboli scolpiti nella pietra, croci, stelle, mezzelune, tracciate alla buona o finemente stilizzate, qua e là filatteri coperti di scarabocchi in una grafia gotica, e altrove disegni sfregiati. Dovevano voler dire qualcosa, non erano certo stati scolpiti per niente, una premura ha per forza un senso, non avrebbero cercato di cancellarli se non avessero avuto un significato forte. Durante la Grande Guerra santa la fortezza si era ritrovata su una linea del fronte che correva lungo la catena dell’Ouâ ed era stata arruolata dato che per il suo valore strategico costituiva un obiettivo irresistibile, fu una piazzaforte occupata dal Nemico e poi dal popolo dei credenti... o il contrario; insomma, cambiò di mano piú di una volta. Fatto sta che alla fine fu arditamente e definitivamente conquistata dai soldati di Abi, come esigeva Yölah. Narra una leggenda che intorno c’erano abbastanza cadaveri per riempire tutte le gole dell’Ouâ e attraversarle in piano. Può darsi, dopotutto le cifre riportate sono astronomiche, la potenza delle armi usate era superiore alla forza del sole e le battaglie si sono protratte per decenni – chissà quanti. Il miracolo è che la fortezza sia uscita indenne dall’annientamento generale. Se metà delle storie che circolano sono veritiere, significherebbe che in questo paese ovunque mettiamo piede camminiamo su cadaveri. È deprimente, non si può fare a meno di pensare che la prossima volta che si scaverà una fossa sarà per noi.

Dopo la guerra che ha distrutto ogni cosa e trasformato radicalmente la storia del mondo, la miseria ha gettato per strada nelle sessanta province dell’impero centinaia di milioni di sventurati, tribú smarrite, famiglie sperse, o quanto ne restava, vedove, orfani, disabili, pazzi, lebbrosi, appestati, gassati, irradiati. Chi poteva aiutarli? L’inferno era ovunque. I briganti pullularono, formavano eserciti e razziavano quanto rimaneva di quel povero mondo. Per tanto tempo la fortezza serví da rifugio agli erranti che avevano la forza e il coraggio di affrontare i muraglioni dell’Ouâ. Era un po’ una corte dei miracoli, si veniva da lontano a cercarvi asilo e giustizia, vi si trovavano il vizio e la morte. È proprio il caso di dirlo, non c’è mai stato mondo peggiore di quello.

Con il tempo le cose sono rientrate nell’ordine. I briganti furono arrestati e giustiziati secondo l’usanza di ogni regione, le macchine di morte funzionavano giorno e notte, si escogitarono mille modi di perfezionarle, ma anche giornate di trentasei ore non sarebbero bastate a smaltire il carico quotidiano.

Le vedove e gli orfani furono sistemati qua e là e si videro assegnare piccoli mestieri. Gli ammalati e i disabili continuarono a mendicare dove capitava, per mancanza di cure morirono a milioni. Proprio per far scomparire quei cadaveri che appestavano le città e le campagne e causavano tante malattie fu creata la misteriosa ed efficientissima gilda dei raccoglitori di morti. Si fecero leggi per organizzare l’operazione e la Giusta Fraternità promulgò un editto religioso che attribuiva valore sacramentale a quella che era innanzitutto una questione di igiene pubblica e di interesse corporativo. Sgombrata, ripulita, restaurata, la fortezza fu trasformata in sanatorio, vi furono relegati i tubercolotici. Per chissà quale contorto ragionamento ci si era convinti che fossero la causa di tutte le sventure dell’umanità. Ci si mobilitò contro di loro, li si cacciò via dalle città, poi dalle campagne che andavano nuovamente dissodate. La superstizione è sparita con il disgelo ma la pratica è rimasta, vi si continuano a relegare i malati di petto.

Fra ricoverati e pellegrini Ati imparò molto. Arrivavano dai quattro angoli del vasto impero. Apprendere il nome della loro città, un po’ delle loro usanze e della loro storia, sentire il loro accento e guardarli vivere giorno per giorno era per lui una sorpresa, un formidabile insegnamento. La fortezza offriva una visione globale del popolo dei credenti nella sua infinita varietà, ogni gruppo aveva il proprio colore e maniere particolari, che non si riscontravano negli altri. Cosí come avevano la propria lingua, che parlavano fra loro, sottovoce, lontano da orecchie estranee, con una tale bramosia da far venire voglia di saperne qualcosa. Ma i conciliaboli cessavano subito, gli alieni erano prudenti. Quando si rimise un po’ in forze, Ati corse da una camerata all’altra e se ne riempí gli occhi, le orecchie, e anche il naso, perché quella gente aveva un odore, erano odori tipici, si poteva seguire ognuno a fiuto. Si riconoscevano fra loro anche dall’accento, dal comportamento, dallo sguardo, che so, e prima ancora di essersi scambiati tre segni ecco che si abbracciavano, singhiozzando per l’emozione. Era commovente vederli cercarsi come in un mercato affollato, raggrupparsi in un angolo ombroso e chiacchierare a sazietà nel loro incomprensibile dialetto. Che cosa mai potevano dirsi tutto il santo giorno? Parole, niente di piú, ma cosí si tiravano su il morale. Era magnifico ma era anche piú di una semplice infrazione, la legge imponeva di esprimersi esclusivamente in abiling, la lingua sacra insegnata da Yölah ad Abi allo scopo di unire i credenti in una nazione, le altre lingue, frutto della contingenza, non servivano a niente, separavano gli uomini, li rinchiudevano nel particolare, ne corrompevano l’anima con la falsità e la menzogna. La bocca che pronuncia il nome di Yölah non può essere contaminata da lingue bastarde che esalano il fetido alito di Balis.

Non ci aveva mai pensato, ma se glielo avessero chiesto avrebbe risposto che gli abistani si somigliavano tutti, che erano come lui, come la gente del suo quartiere a Qodsabad, gli unici esseri umani che avesse mai visto. E invece ecco che erano infinitamente vari e cosí diversi che in fondo ognuno era un mondo a sé, originale, insondabile, e questo in un certo senso annullava il concetto di popolo, di un solo popolo, unico e coraggioso, fatto di fratelli e sorelle gemelli. Il popolo era dunque una teoria, un’ennesima teoria, contraria al principio di umanità, tutta quanta cristallizzata nell’individuo, in ciascun individuo. Era appassionante e sconcertante. Che cos’è, allora, un popolo?

La fortezza scomparve nella nebbia, dietro il velo delle sue lacrime. Era l’ultima volta che Ati la vedeva. Ne avrebbe conservato un ricordo mistico. Fra le sue mura aveva scoperto di vivere in un mondo morto e proprio lí, nel pieno del dramma, nel profondo della solitudine, aveva avuto la visione traumatica di un altro mondo, definitivamente inaccessibile.

Il viaggio di ritorno durò piú o meno un anno. Da un carretto a un camion, da un camion a un treno (nelle regioni in cui la ferrovia aveva resistito alla guerra e alla ruggine), e da un treno a un carretto là dove la civiltà scompariva di nuovo. E talvolta a piedi, o a dorso di mulo, attraverso montagne impervie e foreste selvagge. Allora la carovana si affidava alla sorte e alle sue guide e procedeva aggrappandosi a ciò che poteva.

Alla fine la comitiva avrebbe percorso non meno di seimila shabir, intervallati da soste infinite passate a rodersi il fegato in questo o quel posto, campi di raccolta, centri di smistamento, dove folle immense si incrociavano e si reincrociavano, si perdevano e si ritrovavano, si formavano e si scioglievano nella piú totale confusione, poi si stanziavano nell’apatia per affrontare con pazienza il tempo. I carovanieri aspettavano ordini che non arrivavano, i camion aspettavano pezzi di ricambio introvabili, i treni aspettavano che i binari fossero ripristinati e la locomotiva rianimata. E quando era tutto a posto, sorgeva il problema dei macchinisti e delle guide, bisognava precipitarsi a cercarli e attendere. Poi, dopo tot avvisi di ricerca e ricongiungimenti miracolosi, si veniva a sapere che avevano avuto un impegno altrove. Si poteva sentire di tutto, i soliti ritornelli e qualche novità: erano andati a seppellire qualcuno, a trovare amici ammalati, avevano problemi da risolvere, cerimonie da compiere, sacrifici da recuperare, ma perlopiú, ed era il vizietto degli abistani, sempre maledettamente opportunisti, rincorrevano le occasioni di fare volontariato per accumulare buoni punteggi in vista della prossima Giori, la Giornata della Ricompensa, dando una mano a chi ne aveva bisogno, ora a rimettere in piedi la torre di una mockba, ora a scavare tombe o un pozzo, ridipingere una midra, controllare liste di pellegrini, aiutare i volontari del pronto soccorso, partecipare a ricerche di persone scomparse, ecc. La Buona Azione è documentata da un attestato in carta libera da presentare all’ufficio della Giori del proprio quartiere, impossibile barare, è una dichiarazione giurata. A quel punto non restava che trovare l’alto responsabile che avrebbe rilasciato il permesso di lasciare il campo. Ovviamente il tempo perduto non veniva recuperato, la strada non lo permetteva, era un altro calvario che toccava picchi massimi durante la stagione delle piogge.

Fu tutto questo a richiedere un anno. Con un camion robusto, strade in buone condizioni da un capo all’altro, meteo favorevole, guide serie e una totale libertà di manovra si potrebbero fare seimila shabir in un niente, un mesetto.

Come chiunque, a parte i pellegrini e i carovanieri che la sapevano un po’ piú lunga, Ati non aveva alcuna idea di come fosse il paese. Lo immaginava immenso, ma che significa immenso se non lo vedi con i tuoi occhi, se non lo tocchi con mano? E cosa sono i limiti se non li raggiungi mai? La parola stessa «limite» pone un interrogativo: che c’è dopo il limite? Solo gli Onorevoli, i pezzi grossi della Giusta Fraternità e i capi dell’Apparato sapevano queste cose e tutto il resto, le definivano, le controllavano. Per loro il mondo era piccolo, lo tenevano in mano, avevano aerei ed elicotteri per scorrazzare in cielo, e veloci navi vedetta per solcare i mari e gli oceani. Li vedevi passare, li sentivi rombare, ma loro invece non li vedevi, non si avvicinavano mai al popolo, si rivolgevano a lui attraverso i nadir, gli schermi murali presenti in tutti i punti del paese, sempre tramite la mediazione di presentatori comunicativi che il popolino chiamava «pappagalli», o attraverso la voce molto ascoltata dei mockbi che nelle mockba confessavano i fedeli nove volte al giorno, e di certo (ma nessuno sapeva come) grazie ai V, quegli esseri misteriosi, un tempo chiamati jinn, che padroneggiavano la telepatia, l’invisibilità e l’ubiquità. Si diceva che i pezzi grossi possedessero anche, ma nessuno li aveva mai visti con i propri occhi, sottomarini e fortezze volanti azionati da un’energia misteriosa, che sondavano senza fine le profondità dei mari e dei cieli.

In seguito Ati avrebbe saputo che da un capo all’altro, in diagonale, l’Abistan misurava cinquantamila shabir, una cifra favolosa. Ebbe un capogiro. Quante vite bisogna vivere per superare tali distanze?

Quando si era deciso di mandarlo al sanatorio, Ati era in stato di semincoscienza. Non aveva visto nulla della traversata del paese, frammenti di paesaggio fra un mancamento e l’altro, fra un coma e l’altro. Ricordava che il viaggio gli era sembrato infinitamente lungo e che le crisi si erano fatte sempre piú frequenti e dolorose, lo dissanguavano e spesso aveva invocato la morte. Farlo era peccato, ma pensava che Yölah avrebbe saputo perdonare a chi pativa il martirio.

Quei viaggi non avevano nulla di lussuoso, la quotidianità del nomade trascorreva a disincagliare dalla sabbia, sgombrare, tappare, spingere, tirare, segare, spianare, riempire, smontare, caricare e scaricare mercanzie. Ci si dava da fare aiutandosi con la voce. Fra una corvée e l’altra ci si dedicava alla pratica della religione. Per il resto, mentre il paesaggio sfilava monotono, si contavano le ore.

Una cosa lo tormentava, ma alla lunga gli si impose come una realtà allucinante: il paese era vuoto. Non un’anima, né un movimento, né un brusio, solo il vento che spazzava le strade e la pioggia che le lavava e a volte si portava via tutto. Il convoglio si inoltrava letteralmente nel nulla, una sorta di nebbia grigio-nera attraversata di tanto in tanto da folgoranti strie luminose. Un giorno, fra uno sbadiglio e l’altro, Ati pensò che l’alba della creazione doveva essere stata cosí, il mondo non esisteva, né come contenente né come contenuto, il vuoto abitava il vuoto. Provò un senso di angoscia e di commozione, gli pareva che quei tempi originari fossero tornati e che quindi tutto fosse altrettanto possibile, il meglio e il peggio, bastava dire «Voglio» perché un mondo emergesse dal nulla e si organizzasse secondo i propri auspici. Stava per dirlo, ma si trattenne, non perché credesse che il suo desiderio avrebbe trovato ascolto, ma perché intuiva di essere parte di quella indeterminatezza originaria, e che formularlo avrebbe potuto avere effetto innanzitutto su di lui e trasformarlo in... rospo, forse, le prime creature apparse sulla terra erano quegli animali, viscidi e pustolosi, nati da un auspicio mancato di una divinità priva di esperienza... Non bisogna mai tentare la vita, o forzarla, è capace di tutto.

Due o tre volte scorsero in lontananza convogli militari che avanzavano con una rigidità ieratica, meccanica, e ancor piú, ostinata e risoluta, come quella forza invincibile che impone alle grandi mandrie della savana di mettersi in moto e intraprendere la loro migrazione verso la vita o la morte, non importa, conta solo andare avanti e arrivare al punto d’incontro. Tutto ciò dava l’idea di una spedizione misteriosa proveniente da un altro mondo. Nella scia polverosa della carovana di camion stracarichi di cannoni e lanciamissili procedeva un’interminabile legione di soldati con equipaggiamento pesante. Ati non ne aveva mai visti piú di quanti ne possa trasportare un camion di pattuglia in città, una dozzina, affiancati da miliziani occasionali, loro invece in numero imprecisato, tumultuanti e infaticabili al massimo, armati di machete, fruste, nerbi, e ciò in occasione delle grandi cerimonie negli stadi, per esecuzioni di massa o uffizi religiosi che chiamavano alla Guerra santa durante i quali l’esaltazione diventava estasi, mentre in questo caso erano piú numerosi delle formiche in piena estate. Andavano in guerra, tornavano? Quale guerra? Una nuova Grande Guerra santa? Contro chi se sulla terra esisteva solo l’Abistan?

E quanto alla guerra, si convinse della sua realtà il giorno che videro in lontananza un convoglio militare seguito da un’interminabile colonna di prigionieri, a migliaia, incatenati per tre. A quella distanza era impossibile distinguere i particolari che avrebbero permesso di attribuire loro un’identità, ma quale? Vecchi, giovani, banditi, miscredenti? Fra loro c’erano delle donne, di sicuro, lo si capiva da certi indizi, le ombre erano vestite di blu, il colore dei burniqab delle prigioniere, e stavano in disparte, alla distanza prescritta dalle Sacre Scritture, quaranta passi, affinché i galeotti e le guardie non potessero vederle né essere costretti a sentire i loro odori selvatici a cui la paura e il sudore aggiungevano un’acidità insopportabile.

Incrociarono anche file altrettanto impressionanti di pellegrini, che procedevano a passi pesanti, scandendo versetti del Libro di Abi e slogan da viandanti: «Pellegrino sono, pellegrino vado, eh oh, eh oh!», «Sulla terra marciamo, in cielo voliamo, e via!», «Un altro shabir, altri mille shabir, non ci fanno paura, alla gogna i fachiri!», ecc., e sempre la formula che scandisce ogni frase, ogni gesto della vita del credente: «Yölah è grande e Abi è il suo Delegato!» I loro canti enfatici risuonavano in lontananza, traendo echi inquietanti dal silenzio che attanagliava il mondo.

Di tanto in tanto qualche villaggio, invisibili gruppi di casolari nei quali per poco non inciamparono. Balzava agli occhi che la vita non vi aveva mai allignato davvero, vi aleggiava un’impressione di assenza e di grande parsimonia. A questo livello di riserbo non c’è nessuna differenza fra un villaggio e un cimitero. Nei dintorni pascolavano delle vacche ma non si vedevano guardiani; chissà se appartenevano a qualcuno. Nel loro sguardo infantile c’era quella paura grigia e scialba che nasce dal vuoto, dalla solitudine, dalla noia, dall’estrema povertà. Alla vista della carovana avevano roteato gli occhi in tutte le direzioni. Quella sera avrebbero dato latte inacidito.

Ma non esiste viaggio senza fine. In questo caso ci mise molto ad arrivare. Ormai Qodsabad non era lontana, tre giorni in linea d’aria. All’approssimarsi della meta le carovane segnavano il passo: era una vecchia abitudine, si mandavano esploratori a ispezionare i luoghi e un’ambasciata a negoziare un’accoglienza benevola, si approfittava di quell’attesa per riprendersi dalla stanchezza del viaggio perché l’ingresso in massa in una città amica scatenava effusioni stremanti, feste a ripetizione, continue serate in compagnia. Bisognava fare bella figura e restare vigili. In effetti quando si torna a casa ci si pone una domanda inevitabile: riconosceremo la nostra gente, saremo riconosciuti dopo cosí tanto tempo?

Qualcosa nell’aria diceva che si stava avvicinando una grande città, il paesaggio perdeva a vista d’occhio l’aspetto selvatico e imponente, assumeva i colori dell’abbandono, dello sfinimento e gli odori di cose che imputridiscono al sole, era all’opera una sorta di forza cieca e malvagia che corrompeva tutto, all’intorno, la vita, la terra, la gente, e lo restituiva deteriorato. Non c’era alcuna spiegazione, la decadenza esisteva di per sé, si nutriva dei propri resti e li vomitava per poi mangiarseli daccapo, eppure la prima cerchia di periferie era ancora lontana, molte decine di shabir, là la miseria era pantagruelica. Ati non se lo ricordava bene ma nel suo quartiere a Qodsabad l’aria non era migliore, però sembrava respirabile, perché si sta sempre meglio a casa propria che a casa del vicino.

Della carovana a cui era stato aggregato nell’ultimo centro di smistamento facevano parte funzionari di ritorno da una missione, intendenti vari, studenti avvolti nei burni di scuola, tuniche nere lunghe fino a sei dita sopra le caviglie, che si recavano nella capitale per perfezionarsi in certe raffinatissime branche della religione, e c’era anche, un po’ in disparte come si confaceva alla nobiltà, un gruppetto di teologi e di mockbi che rientravano da un ritiro spirituale sull’Abirat, la montagna sacra sulla quale Abi da bambino amava ritirarsi in solitudine e dove, già allora, aveva avuto le prime visioni.

Fra loro c’era Nas, un funzionario, non piú vecchio di Ati ma in perfetta salute, che tornava tutto abbronzato da uno scavo in un sito archeologico ancora segreto, destinato a diventare in futuro una celebre meta di pellegrinaggio. Restava da perfezionare la sua leggenda: Nas aveva il compito di raccogliere i dati tecnici che avrebbero permesso ai teorici del ministero degli Archivi, dei Libri sacri e delle sante Memorie di metterla a punto, tradurla in un copione e collegarla alla storia generale dell’Abistan. Era un evento davvero miracoloso, si era scoperto un antico villaggio in perfetto stato di conservazione. Come era scampato alla Grande Guerra santa e alle devastazioni successive? Come mai non lo avevano scoperto prima? Significava, cosa impensabile, che l’Apparato aveva fallito, o peggio, che era fallibile, e che quindi nella sacra terra del Gkabul esistevano luoghi e persone che sfuggivano alla luce e alla giurisdizione di Yölah. L’altro mistero era l’assenza di scheletri per le strade e nelle case. Di che cosa erano morti gli abitanti, chi aveva portato via i cadaveri, dove erano stati messi erano le domande alle quali Nas doveva trovare risposta. Una sera, conversando intorno al fuoco, si lasciò sfuggire che a quanto si mormorava fra gli impiegati del ministero un certo Dia, grande Onorevole della Giusta Fraternità e capo del potente dipartimento delle struttorie sui miracoli, aveva messo gli occhi su quel villaggio, lo voleva per rafforzare la propria fama e impadronirsi di un pellegrinaggio di primaria importanza. Nas si dedicava al proprio compito con passione e con crescente timore perché si rendeva conto di avere a che fare con grosse poste in gioco e complessi antagonismi fra clan della Giusta Fraternità. Un giorno, dimenticando ogni prudenza, rivelò ad Ati che gli scavi avevano portato alla luce reperti in grado di rivoluzionare le fondamenta simboliche stesse dell’Abistan.

Fu il suo sguardo ad attrarre quello di Ati, era lo sguardo di un uomo che, come lui, aveva fatto la perturbante scoperta che la religione può essere costruita sul contrario della verità e diventare perciò l’implacabile custode della menzogna originaria.


Libro 2

In cui Ati ritrova il proprio quartiere a Qodsabad, gli amici, il lavoro, e nella routine quotidiana finisce ben presto per dimenticare il sanatorio, le sue miserie e le cupe riflessioni che gli avevano invaso la mente malata. Ma quel che è fatto è fatto, le cose non scompaiono perché ci si allontana da loro, dietro le apparenze sovrane sta l’invisibile, con i suoi misteri e le sue oscure minacce. E sta il caso, che coordina l’insieme cosí come un architetto realizza la propria opera, con arte e metodo.


Ati si era rimesso dalla malattia e da quel prodigioso viaggio. Se c’era qualche postumo, non era granché visibile, colorito cereo, guance smunte, una rughetta, una piccola necrosi, scricchiolii alle articolazioni, improvvisi fischi in gola, nulla di serio, nulla che stonasse con il pallore di chi lo circondava. Vicini e amici lo avevano accolto con calore e accompagnato in processione solenne a sbrigare tutte le pratiche. Reinserirsi implica commissioni, attese, documenti da consegnare e ritirare, soluzioni da escogitare, a volte ci si perde. Ma alla fine i fili erano stati riannodati. Ati era a casa, la vita aveva ripreso un corso normale. E in realtà al cambio ci aveva guadagnato, era avventizio in un imprecisato organismo comunale, si ritrovava in municipio, in un settore delicato, l’ufficio licenze, dove venivano rilasciati documenti di primaria importanza ai commercianti; aveva il compito, sotto l’autorità del suo superiore, di redigerne copie conformi e archiviarle. A quel livello di responsabilità aveva il diritto, e l’obbligo, di portare il bracciale verde con la striscia bianca degli impiegati comunali subalterni e durante le preghiere alla mockba gli era riservato un posto in ottava fila. Prima viveva in una stanza di un umido seminterrato che puzzava di topo e di cimici ed era stata la causa della sua tubercolosi, gli assegnarono un piacevole monolocale sulla terrazza soleggiata di un edificio malconcio ma dignitoso. Ai tempi in cui l’acqua scorreva nelle tubature mandando in estasi le famiglie era stato una lavanderia aperta a tutti i venti e ai piccioni dove le donne salivano a fare il bucato e, mentre i panni asciugavano al sole, ridevano e scherzavano osservando il mondo degli uomini brulicare oziosamente ai piedi dello stabile nella polvere delle strade: un sabba che un comitato civico finí per scoprire, il luogo fu preso d’assalto, requisito per decreto del Balivo, esorcizzato e attribuito a un probo maestro di scuola che a furia di lavoretti e migliorie per tappare gli spifferi lo aveva trasformato in un confortevole nido. Era morto da poco e non lasciava nulla dietro di sé, né famiglia né ricordo, solo astrusi testi scolastici e l’impressione di un uomo incolore. Fra credenti la solidarietà era un dovere e aveva un peso particolare nel punteggio mensile, ma contavano anche l’affetto e l’ammirazione: nel quartiere Ati era un eroe, debellare la terribile tubercolosi e tornare vivo da tanto lontano erano un’impresa degna di un credente che gode del favore di Yölah, fargli un piacere andava da sé. Il poco che aveva raccontato del sanatorio, del clima e del viaggio era bastato a lasciare basiti colleghi e vicini. Per gente che non è mai uscita dalla sua paura l’altrove è un abisso. In seguito, molto in seguito, avrebbe saputo che la sua magnifica promozione non era dipesa né dalla simpatia della gente, né dalle sue prodezze, e nemmeno dalla benevolenza di Yölah, ma solo dalla raccomandazione di un membro dell’Apparato a nome dell’onnipotente ministero della Salute morale.

Poi piano piano tutto fu dimenticato e svaní nel balbettio e nel silenzio. Gli obblighi della religione, le attività parareligiose, le relative cerimonie lasciavano poco tempo per le fantasticherie e le chiacchiere, che la gente semplicemente rifiutava. Non tanto perché temesse di essere rimbrottata, o captata e intercettata dai V, o accusata dai Liberi miliziani, se non addirittura consegnata alla polizia e alla giustizia, ma perché la sua natura profonda era cosí, presto si annoiava di ciò che la distraeva dai doveri religiosi e parareligiosi, e in conclusione le faceva perdere punti e la esponeva alla vendetta di Yölah. Ad Ati andava bene, sperava solo di riprendere appieno la sua vita da buon credente attento all’armonia generale, non si sentiva la forza e il coraggio di essere un ateo militante.

Vi si dedicò con serietà ed energia tanto al municipio quanto alla mockba del quartiere, e nel servizio di volontariato dava il meglio di sé, correndo da un’incombenza all’altra senza concedersi il tempo di riprendere fiato. Ammazzarsi di lavoro, niente di meglio per dimenticare tutto quanto e se stesso, perché qualcosa gli ribolliva in testa e lo ossessionava. Anche quando era morto di stanchezza il sonno non arrivava, cosí prolungava il piú possibile le serate di studio alla mockba, il che lusingava moltissimo il mockbi e i suoi assistenti e cantori di formule magiche. Ati spiegava di aver accumulato un ritardo negli studi e nelle devozioni durante la permanenza in sanatorio, il cappellano dell’ospedale e i suoi coadiutori si prodigavano ma notoriamente scarseggiavano di scienza e di acume, alla prima difficoltà scadevano nel fiabesco e nel magico o addirittura in discorsi astrusi e nell’eresia. E poi c’erano la malattia e le sofferenze, e la morte che falciava come in guerra, e la fame e il freddo, e la nostalgia di casa, che ottundevano la mente e impedivano di comprendere tutto per bene.

Quanto al resto Ati faceva il possibile per schivare e sottrarsi. Ciò che un tempo lo soddisfaceva tanto – e di cui andava fiero − ora lo nauseava: spiare i vicini, riprendere il passante distratto, dare scappellotti ai bambini, colpi di frustino alle donne, aggregarsi alla folla e andare in giro nel quartiere per fare sfoggio di fervore popolare, partecipare al servizio d’ordine nelle grandi cerimonie allo stadio e usare il manganello, dare una mano ai carnefici volontari durante la somministrazione di castighi. Non riusciva a dimenticare di avere oltrepassato una linea rossa in sanatorio: si era reso colpevole di somma miscredenza, un reato di opinione, aveva fatto sogni di rivolta, di libertà, di una nuova vita al di là delle frontiere; un giorno quella follia sarebbe riaffiorata e avrebbe causato molte sciagure, ne aveva il presentimento. Nel mondo reale anche limitarsi a esitare è pericoloso, bisogna camminare dritto davanti a sé e tenersi sempre dalla parte dell’ombra senza mai risvegliare il sospetto perché in tal caso nulla fermerà la macchina dell’inquisizione, il titubante si ritroverà chissà come allo stadio circondato da tutti i complici che si sarà riusciti ad attribuirgli, fino all’ultimo.

Ciò che un tempo faceva con tanta naturalezza ora era un peso, e il male progrediva. Non riusciva piú a dire «Yölah è giusto» o «Benedetti siano Yölah e Abi il suo Delegato» e sembrare sincero, eppure la sua fede era intatta, sapeva soppesare il pro e il contro, distinguere il bene dal male in base alla retta credenza, ma purtroppo gli mancava qualcosa per essere adeguato, forse l’emozione, lo stupore, l’enfasi o l’ipocrisia, sí, di certo quello straordinario bigottismo senza il quale la credenza non potrebbe esistere.

Ciò che la sua mente respingeva non era tanto la religione quanto l’oppressione esercitata sull’uomo dalla religione. Non ricordava piú in base a quale ragionamento si fosse persuaso che l’uomo esisteva e scopriva se stesso solo nella rivolta e con la rivolta e che essa era autentica solo se si scagliava in primo luogo contro la religione e le sue truppe. Forse aveva addirittura pensato che la verità, divina o umana, sacra o profana, non era la vera ossessione dell’uomo ma che il suo sogno, troppo grande perché riuscisse a concepirlo in tutta la sua follia, era inventare l’umanità e abitarla come il sovrano abita il proprio palazzo.

Con il tempo giunse la quiete, Ati stava entrando davvero nella routine alla quale aspirava. Era infine un credente come gli altri, non correva piú pericolo. Riscopriva il piacere di vivere alla giornata senza preoccuparsi del domani e la felicità di credere senza farsi domande. Non c’è rivolta possibile in un mondo ermetico, dove non esiste alcuna via d’uscita. La vera fede consiste nell’abbandono e nella sottomissione, Yölah è onnipotente e Abi è il custode infallibile del gregge.


Con sollievo e compunzione un mattino Ati apprese che il Samo, il comitato della Salute morale, sarebbe passato l’indomani al municipio per l’esame mensile del personale, e di essere stato convocato come gli altri. Si sentiva davvero reinserito nella comunità dei credenti. Fino a quel momento lo avevano tenuto un po’ a distanza, dispensato com’era da confessione e manifestazione di zelo religioso: si riteneva che in quanto convalescente non fosse nel pieno possesso delle proprie risorse, che potesse essere ancora in preda al delirio e offendere suo malgrado la divinità e i suoi rappresentanti. Quando era tornato dal sanatorio si era deciso che in attesa che si ristabilisse del tutto sarebbe stato ascoltato alla mockba del quartiere, la quale avrebbe fatto rapporto all’unità locale del Samo. Nel Libro di Abi molti versetti insistevano sulla necessità che il credente sia padrone del suo linguaggio per poter essere correttamente giudicato.

L’Ispezione periodica era per cosí dire un sacramento, occupava un posto di spicco nella vita del credente, era un atto liturgico forte, importante quanto la Cesura per i bambini, la Resezione per le bambine, le nove preghiere quotidiane, la grande Implorazione del Giovedí, il Siam, gli otto giorni santi dell’Astinenza assoluta, o le Giori, le Giornate della Ricompensa che premiavano i credenti benemeriti, e quanto la lunga Aspettazione o il Giobe, lo straordinario Giorno Benedetto che vedeva i fortunati eletti per il pellegrinaggio mettersi in cammino verso i Luoghi santi. Non che ci si facesse «valutare» dal Samo, la gente non lo interpretava cosí, si partecipava con lui al consolidamento dell’armonia generale nella luce di Yölah e nella perfetta conoscenza del Gkabul, e Yölah sa ciò che è giusto e necessario. L’Ispezione era attesa con impazienza. Il risultato, un voto in sessantesimi corredato da osservazioni pertinenti, era annotato su un quadernetto verde con una banda color malva, il cosiddetto Libretto del Valore, il Liva, che ognuno portava con sé per tutta la vita. Era una carta d’identità morale che veniva mostrata con orgoglio, definiva gerarchie e apriva strade.

Negli uffici pubblici l’Ispezione si verificava il quindici del mese. Ne dipendevano tante cose, anzitutto lo stipendio del lavoratore (il voto poteva aumentarlo di metà o decurtarlo di altrettanto), l’avanzamento di carriera, l’accesso alle prestazioni sociali, l’assegnazione di un alloggio, di una borsa di studio per i figli, di un bonus per un nuovo nato, di tessere annonarie, l’iscrizione alle liste dei pellegrinaggi, la nomina alle Giori, e ogni sorta di privilegi in relazione con lo status della persona. Sessanta sessantesimi erano un miracolo che tutti sognavano. Il premiato sarebbe diventato un mito vivente anche se – gli ambiziosi ingenui non ci pensavano abbastanza – un tale riconoscimento lo avrebbe trasformato in un fenomeno da baraccone che sarebbe stato portato in giro da una piazza all’altra fino allo stremo. Ma ancor prima gli invidiosi lo avrebbero sminuito il piú possibile e addidato come rinnegato. L’Ispezione valutava la fede e la morale del credente e in subordine passava utili informazioni ai vari dipartimenti dell’Apparato. La sua parte «autocritica», se ben condotta, provocava talvolta crolli emotivi e sfociava in confessioni spontanee che potevano scatenare una bella caccia alle streghe. Insomma, il voto era una chiave universale, apriva e chiudeva tutte le porte della vita. Se un defunto aveva avuto ottimi voti durante tutta la sua esistenza, dal principio alla fine, alla famiglia era consentito chiederne la canonizzazione. Non l’aveva mai ottenuta nessuno ma la procedura esisteva e si era spinti a farvi ricorso da un’alacre pubblicità, a cura della Generale delle Pompe funebri, monopolio planetario in mano a un influente membro della Giusta Fraternità, l’Onorevole Dol, peraltro direttore del dipartimento dei Monumenti storici nazionali e dei Beni immobili dello Stato. L’argomentazione cruciale era che avere in famiglia un santo riconosciuto equivaleva al paradiso sicuro per ognuno dei suoi componenti e alla possibilità di vedere un giorno Abi in persona, o almeno la sua ombra dietro una tenda. Il funerale di prima classe che veniva offerto ai candidati alla canonizzazione costava mille volte piú caro delle esequie di un grande notabile e chissà quanti zeri bisognava aggiungere rispetto alla sepoltura di un operaio, basterebbe questo a dimostrare quanto la beatificazione fosse redditizia per gli assicuratori e altri becchini vari.

Quando il voto risultava negativo per sei mesi di seguito, e se la causa evidente dell’insufficienza non erano le condizioni di salute del soggetto, il caso passava sotto la giurisdizione di un altro organismo, il Coco, il Consiglio di Correzione. E l’insufficiente scompariva, dopo essere stato convocato con tutti i crismi. Di quel consiglio non si sapeva niente, ma ci si pensava spesso. Era come la morte: i vivi non la conoscono e non possono dirne nulla e chi la conosce non è piú in questo mondo per parlarne. Dello scomparso, subito depennato dalle liste e dalla memoria di tutti, si diceva caritatevolmente o crudelmente «se lo è preso il Coco, Yölah è compassionevole» oppure «il Coco l’ha depennato, Yölah è giusto», e si tornava alle proprie devozioni. Non sapere impedisce di aver paura e semplifica la vita.

Pur essendo cosí totalitario, e forse proprio per questo, il Sistema era accettato in tutto e per tutto in quanto ispirato da Yölah, ideato da Abi, attuato dalla Giusta Fraternità e sorvegliato dall’infallibile Apparato, e infine rivendicato dal popolo dei credenti per il quale era una luce sulla via della Realizzazione finale.

Il Coco, composto da due mockbi e da un membro dell’Apparato, era presieduto da un rettore che dipendeva dall’Onorevole della Giusta Fraternità cui spettava il controllo di una certa sfera di attività o regione. Uno dei comitati piú importanti era quello che valutava il personale degli uffici pubblici. Nella capitale godeva di un’aura particolare e vantava una solida struttura organizzativa, incaricata di coordinare una sfilza di sottocomitati che ne incrementavano l’azione nei vari servizi e quartieri della città. Li si identificava con il loro codice. Quello che operava nel quartiere di Ati, l’S21, nella zona sud di Qodsabad, era chiamato anche Comitato S21. Va detto che aveva fama di essere inflessibile ma infallibilmente giusto. Il suo presidente era il vecchio Hua, rettore emerito. Da giovane era stato un celebre combattente della fede.

Ati era tutto commosso nel ritrovare l’atmosfera del santo Esame, per molti versi era una semplice formalità (si trattava solo di rispondere a domande oziose e confessare piccole mancanze) che tuttavia poteva riservare sorprese, ecco perché ci si sentiva sereni e fieri ma anche tesi e preoccupati. Il comitato era giunto in pompa magna su una berlina che era un autentico pezzo d’antiquariato guidata da un membro dell’Apparato e scortata a piedi da un drappello di atletici miliziani, ed era stato accolto dagli alti responsabili del municipio fra le acclamazioni della folla e del personale ammassato nello spiazzo antistante. Ati non conosceva nessuno dei membri. Era normale, cambiavano ogni biennio per evitare che la qualità dell’Ispezione fosse compromessa da un prolungato contatto fra giudici e giudicati, e Ati era stato assente per due lunghi anni.

Mentre i giudici officiavano nella sala delle cerimonie trasformata in centro interrogatori, il personale era impegnato a prepararsi. Alcuni ripassavano passi scelti del Gkabul, altri si scambiavano informazioni sullo stato del paese, fornite dai nadir e dalle gazzette, in particolare le NoF, altri ancora affilavano argomentazioni, ripetevano slogan, perfezionavano pensieri, levigavano frasi, recitavano preghiere, conversavano passeggiando su e giú, sonnecchiavano in un angolo, avvolti nel burni. Era la veglia d’armi, si aspettava il proprio turno di andare al fronte ma senza autentica preoccupazione, si sapeva che nove pallottole su dieci erano a salve.

Ati passava da un gruppo all’altro, cercando di sbirciare sopra le spalle e cogliere qualche brandello nel frastuono dei corridoi.

Arrivò il suo turno. Essendo nuovo al municipio, era lui a concludere l’operazione. Fu presentato dal sindaco in persona ridotto al rango di usciere, ma in un’altra vita era stato a sua volta un mockbi, si rendeva conto dell’importanza delle cose. I giudici esaminatori sedevano dietro un tavolo sopra una pedana. Su un leggio rivestito di seta, un Gkabul, aperto a pagina 333, al capitolo «La via della Realizzazione finale» e in particolare al versetto 12: «Ho istituito comitati composti dai piú saggi fra voi per giudicare le vostre azioni e sondare i vostri cuori, e ciò allo scopo di mantenervi sulla via del Gkabul. Siate veridici e sinceri con loro, sono i miei inviati. Mal gliene incolga a chi bara e si sottrae, io sono Yölah, so tutto e tutto posso».

Su un tavolo erano impilati i fascicoli dei dipendenti del municipio, in ordine di anzianità.

I giudici avevano sguardi da giudice e voci adeguate al ruolo, avrebbero potuto mettere paura, ma dalle loro figure emanava anche una sorta di calore umano, impressione dovuta probabilmente alla veneranda età del presidente e all’aria melliflua dei giudici a latere. Sopra il burni di lana fine indossavano la stola verde con la striscia vermiglia dei giudici della Salute morale. Il rettore Hua portava un berretto di felpa di un nero brillante che faceva risaltare il candore immacolato dei ciuffi di capelli. Dopo avere dato una scorsa al fascicolo del summenzionato Ati, disse:

«Anzitutto questo: ascoltate i miei saluti e le mie preghiere e siate testimoni della mia umiltà.

«Che la benedizione sia su di te, Yölah il giusto, il forte, e su Abi il tuo mirabile Delegato. Siate lodati fino alla fine dei tempi, fino ai confini dell’universo, e che i vostri ambasciatori della Giusta Fraternità siano benedetti e giustamente ricompensati per la loro fedeltà. Io ti prego, Yölah, di darci la forza e l’intelligenza di compiere la missione da te affidataci. Cosí sia secondo la tua legge».

Dopo una pausa si rivolse ad Ati in questi termini:

«Ati, che Yölah ti assista in questa prova di verità. Egli ti vede e ti ascolta. Hai due minuti per dimostrargli che sei il piú fedele dei credenti, il piú onesto dei lavoratori e il piú fraterno dei compagni. Sappiamo che sei stato a lungo ammalato, lontano da casa, hai accumulato un ritardo negli studi e nelle devozioni. Come ordina Yölah e come ogni giorno mette in pratica Abi il suo Delegato, saremo indulgenti con te, per questa volta. Parla e non perderti in vanterie, Yölah odia chi chiacchiera a vuoto. Dopo la tua perorazione ti interrogheremo piú a fondo e tu risponderai semplicemente con un sí o con un no».

I giudici a latere assentirono.

Per una frazione di secondo Ati si permise di accarezzare l’idea folle che non doveva dimostrare niente a nessuno ma la realtà che lo circondava era troppo colossale perché potesse dimenticarsene. E quanto ad andare contro la propria educazione di credente sottomesso, non c’era un solo fedele che fosse in grado di farlo. Respirò a fondo e parlò cosí:

«Anzitutto questo: unisco ai vostri i miei umili omaggi a Yölah onnipotente e ad Abi il suo mirabile Delegato, e a voi miei buoni giudici rivolgo il mio rispettoso saluto.

«Grande Rettore, stimati maestri, Yölah è saggio e giusto, attribuendovi cosí alte funzioni mostra l’amore che ha per voi. Ponendomi al vostro cospetto mostra che io sono piccolo e ignorante. Con qualche parola mi avete insegnato molto: che Yölah è compassionevole – vi ha toccati con la sua grazia come attesta la vostra generosità nei miei confronti −, che Abi è un modello vivente e che basta imitarlo per essere un perfetto credente, un lavoratore onesto e un fratello per ogni membro della comunità. Se sono qui, tornato vivo dal sanatorio del Sîn dopo un faticoso viaggio, lo devo a Yölah. L’ho pregato ogni giorno, a ogni passo, e lui mi ha udito, mi ha sostenuto dal principio alla fine. A Qodsabad ho fatto lo stesso, sono stato accolto come un vero credente, un fratello sincero, un lavoratore onesto. Ecco perché credo di essere ciò che mi chiedete di dimostrare ma so anche che mi resta molta strada da percorrere sulla via del miglioramento. Come io giudichi la mia umile persona non conta, spetta a voi giudicarmi e fare di me il perfetto servo di Yölah e di Abi sotto gli ordini illuminati della Giusta Fraternità».

Il comitato era colpito ma Ati non sapeva di preciso se fosse stato persuasivo o soltanto eloquente.

Il presidente Hua si ricompose:

«Nei loro rapporti il mockbi del tuo quartiere e il tuo superiore al municipio dicono che fai mostra di grande impegno nello studio. È per ambizione, per ipocrisia o per che altro?»

«Per dovere, venerabili maestri, per mettermi in pari con le devozioni e in armonia con i miei fratelli. La malattia mi ha tenuto lontano troppo a lungo dai miei doveri e dai miei amici».

Il giudice a latere che rappresentava l’Apparato assunse un’espressione sospettosa e insistette:

«Studiare rafforza la fede. Pensi che lo si possa fare anche per trovare motivi di denigrare la fede? Chi si avvicina al suo idolo lo fa per amarlo di piú o per blandirlo e distruggerlo a tradimento?»

«Maestro, non posso credere che esistano persone simili, il Gkabul è una luce che eclissa il sole piú splendente, nessuna menzogna può sottrarsene, nessun artificio può spegnerla».

«Anche i tuoi amici e i tuoi colleghi la pensano cosí?»

«Ne sono certo, maestri, vedo ogni giorno che sono veri credenti, felici di vivere nella via e allevando i figli secondo i principi del santo Gkabul. Sono fiero di frequentarli».

«Rispondi con un sí o con un no» gli ricordò il presidente.

«Sí».

«Ce lo diresti se uno di loro venisse meno ai suoi doveri?»

«Sí».

«Spiega un po’... gli infliggeresti il giusto castigo se fosse smascherato da un giudice?»

«Intendete dire... ucciderlo?»

«Intendo proprio questo, punirlo».

«Ehm... sí».

«Hai esitato... perché?»

«Mi sono chiesto se saprei farlo. Il castigo deve essere comminato santamente ma io sono maldestro nell’usare le mani».

Il rettore Hua riprese la parola.

«E ora hai un minuto per fare autocritica, ti ascoltiamo... e ricorda che ti osserviamo».

«Non so che dire, venerabili giudici. Sono un uomo insignificante, i miei difetti sono quelli del popolino. Sono pavido, meno caritatevole di quanto vorrei e a volte cedo alla cupidigia. La malattia che mi ha a lungo tormentato ha aggravato le mie debolezze, la privazione mi ha aguzzato l’appetito. Gli studi e il volontariato a cui dedico tutto il mio tempo mi aiutano a essere responsabile...»

«Bene, bene, puoi ritirarti. Ti daremo un buon voto per incoraggiarti sulla via della fedeltà e dello sforzo. Va’ spesso allo stadio per imparare a punire i traditori e le donnacce, fra loro ci sono certamente adepti di Balis il Rinnegato, prendi piacere nel punirli. Ricordati che credere non basta, bisogna anche fare, solo cosí il credente è un vero credente, forte e coraggioso».

E alzandosi aggiunse:

«Fare è credere due volte, e non far nulla è essere dieci volte miscredente, ricordatene, sta scritto nel Gkabul».

«Grazie, venerabili maestri, sono lo schiavo di Yölah e di Abi, e vostro devoto servo».

Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, passava e ripassava mentalmente il film dell’Esame. Era quello di uno stupro accettato che avrebbe subíto ogni mese di ogni anno per tutta la vita. Stesse domande, stesse risposte, stessa follia. Scappatoie? A parte buttarsi dal tetto, a testa in giú, non ne vedeva alcuna.

Ati non si capacitava. L’indomani, in municipio, la vita era ripresa come se il giorno precedente non fosse mai esistito. La forza dell’abitudine, che altro? Ciò che si ripete entra a far parte della massa di routine che non percepiamo e viene dimenticato. Chi mai si rende conto di respirare, battere le palpebre, pensare? Uno stupro reiterato un giorno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, per tutta la vita, diventa un rapporto d’amore? Una dipendenza felice? Oppure in gioco c’è ancora e sempre il principio d’ignoranza? Di che cosa infatti potremmo lamentarci se non sappiamo nulla, se nulla ci appartiene? Ati cercò di parlarne con qualcuno, per esempio con il suo superiore, era un veterano, ma questi aveva in mente tutt’altro, gli ordinò di ricordarsi di smaltire le copie conformi delle pratiche del mese precedente e archiviarle nel giusto ordine dentro il giusto faldone.

Ati giunse a pensare che l’unico scopo dell’Ispezione fosse di mantenere la gente nella paura, ma non appena formulò questa ipotesi la escluse, nessuno sembrava aver paura, né dello stupro né dell’idea che avrebbe potuto essere portato via dal Coco, e d’altra parte nessuno cercava di mettere paura, né i comitati né i miliziani, tutti quanti si preoccupavano solo di compiacere Yölah. Era incomprensibile, le pecore che si avviano al mattatoio non sono piú indifferenti al proprio destino degli uomini che si presentano all’Ispezione morale. Yölah era davvero il piú forte.

All’improvviso gli venne voglia di sapere a che punto fosse il suo reinserimento, era completato, appena iniziato oppure era definitivamente impossibile?

Ati aveva fatto amicizia con un collega di lavoro, un uomo di grande perspicacia che era stato per lui una vera guida nell’intricato mondo del municipio. Si chiamava Koa. Sapeva tutto, poteva anche di piú, era maestro nell’arte di dire alla gente proprio ciò che voleva sentirsi dire e tutti adoravano frequentarlo. Non gli veniva rifiutato mai niente. Poiché al municipio la corruzione era quella che era, indispensabile come respirare, Koa aveva adottato un comportamento a prova di bomba. Si era abituato a vivere in apnea senza far mostra che gli mancava l’aria e senza scandalizzarsi se le persone intorno a lui si grattavano e ansimavano come cani. Trasmise ad Ati la sua arte, che lo sbarazzò all’istante dai bruciori di stomaco. «Sta tutto nel respiro» gli diceva Koa vedendolo sollevato e sorridente. Non crearsi nemici è piú facile quando si è in tanti, ci si guarda le spalle a vicenda. Diceva: «Con i lupi bisogna ululare o fingere di ululare, belare è l’ultima cosa da fare». Ma in realtà Koa aveva un grande difetto, era buono d’animo, di un’inguaribile bontà, accompagnata da un incurabile candore che credeva di nascondere ammantandosi di bieco cinismo. La gente veniva a piangergli sulla spalla per ottenere subito ciò che con gli altri bisognava pagare a caro prezzo e aspettare a lungo. Questo rovinava il mercato e danneggiava i colleghi, ma poiché lui diceva loro proprio ciò che desideravano sentirsi dire, non se la prendevano troppo, lo pregavano per l’ennesima volta, ed era proprio l’ultima, di indirizzare i postulanti alla porta giusta, e ancora prima che versassero una lacrima.

Con il passare dei giorni e a furia di chiacchierare Ati e Koa avevano scoperto di avere una passione in comune: il mistero dell’abiling, la lingua sacra, nata con il santo Libro di Abi e diventata l’unica e onnipotente lingua nazionale. Sognavano di svelarlo, quel mistero, convinti che fosse la chiave per un’interpretazione rivoluzionaria della vita. Ognuno per conto proprio, erano approdati all’idea che l’abiling non fosse una lingua di comunicazione come le altre poiché le parole che mettevano in contatto la gente passavano attraverso il modulo della religione, che le svuotava del loro significato intrinseco e le caricava di un messaggio di enorme e sconvolgente entità, la parola di Yölah, e quindi fosse una gigantesca riserva di energia che emetteva flussi ionici di portata cosmica in grado di agire sugli universi e sui mondi ma anche sulle cellule, sui geni e sulle molecole dell’individuo, trasformandole e polarizzandole secondo lo schema originario. Chissà come, se non per incantamento, ripetizione e privazione del libero scambio fra persone e istituzioni, quella lingua creava intorno al credente un campo di forze che lo isolava dal mondo, lo rendeva sordo per principio a qualunque suono che non fosse il canto siderale e ammaliante dell’abiling. Alla fine faceva di lui un essere diverso che non aveva nulla a che vedere con l’uomo di natura, nato dalla casualità e dall’espediente, per il quale nutriva solo disprezzo e che avrebbe voluto schiacciare sotto il tallone se non poteva modellarlo a propria immagine. Ciò di cui Ati e Koa erano convinti era che trasmettendo la religione all’uomo la lingua sacra lo cambiasse sostanzialmente, non solo nelle idee, nei gusti e nelle piccole abitudini ma nell’intero corpo, nello sguardo e nel modo di respirare, affinché la sua componente umana scomparisse e il credente nato dalla sua distruzione si amalgamasse anima e corpo alla nuova comunità. Anche morto e ridotto in poltiglia non avrebbe mai piú avuto altra identità che questa: di credente in Yölah e in Abi il suo Delegato, e cosí la sua progenie sino alla fine dei tempi avrebbe portato impressa questa identità ancora prima di nascere. Il popolo di Yölah non si limitava ai vivi e ai morti, comprendeva i milioni e i miliardi di credenti che sarebbero arrivati nei secoli futuri e avrebbero formato un esercito su scala mondiale. Un ulteriore interrogativo stimolava Ati e Koa: se esistevano altre identità, quali erano? E poi due, complementari: che cos’è un uomo senza identità, un uomo che non sa ancora che per esistere bisogna credere a Yölah? E che cos’è di preciso la componente umana?

Ati si era aperto a queste domande in sanatorio, quando il dubbio cominciava a farsi strada e lui vedeva i suoi correligionari vivere il poco che gli restava da vivere in una totale paralisi. Che cosa trasformava un essere impregnato della propria essenza divina in una larva rudimentale e cieca, ecco un bel quesito. Era la forza delle parole? Comunque in quella fortezza medioevale, laggiú in quella landa remota dove passavano inconcepibili frontiere, i rumori della vita e delle cose avevano uno strano sottofondo, fatto di vecchi misteri irrisolti e di violenza stantia, alla lunga quel sottofondo trasformava gli ammalati in fantasmi erratici che davvero levitavano rasoterra, vagavano nel labirinto, gementi e imbolsiti, e scomparivano come per magia fra un cono di luce e l’altro o, inaspettatamente, dentro un’ombra indistinta. Proprio durante le interruzioni di corrente elettrica cosí frequenti Ati si rese conto che l’impianto di diffusione continuava a trasmettere suoni, però non li traeva da una memoria magnetica o da una provvidenziale dinamo ma dalla testa della gente, dove le parole impregnate della magia di preghiere e slogan ripetuti all’infinito erano penetrate nei cromosomi e ne avevano modificato il programma. Il suono immagazzinato nei geni passava dal corpo al pavimento e dal pavimento alle pareti che incominciavano a vibrare e a modulare l’aria sulle frequenze delle preghiere e delle formule magiche, mentre lo spessore delle pietre aggiungeva al requiem un’eco d’oltretomba. L’aria stessa era trasformata in una sorta di bruma acre e dolciastra che circolava per le viscere della fortezza e agiva sui ricoverati e sui penitenti piú di un potente allucinogeno. Era come se tutto quel mondo improbabile e oscuro vivesse all’interno di una preghiera ai defunti. È la forza del movimento infinitesimale, nulla gli resiste, non ce ne rendiamo conto e intanto, un’onda dopo l’altra, un angström dopo l’altro, sposta interi continenti sotto i nostri piedi, e delinea nelle profondità fantastiche prospettive. Proprio osservando quei fenomeni che andavano oltre l’umana comprensione Ati ebbe la rivelazione che la lingua sacra era di natura elettrochimica, con una probabile componente nucleare. Non parlava alla mente, la disintegrava, e con ciò che ne rimaneva (un precipitato vischioso) foggiava buoni credenti amorfi e assurdi omuncoli. Il Libro di Abi lo diceva in quel suo modo ermetico al titolo 1, capitolo 1, versetto 7: «Quando Yölah parla, non dice parole, crea universi e quegli universi sono perle di luce raggiante intorno al suo collo. Ascoltare la sua parola è vedere la sua luce, è trasfigurarsi nel medesimo istante. Gli scettici conosceranno la dannazione eterna e in verità essa è già cominciata per loro e per la loro progenie».

Koa aveva seguito un altro percorso. Dapprima aveva fatto studi approfonditi di abiling alla Scuola della Parola divina, prestigiosa istituzione aperta ai meritevoli, e lui lo era piú di molti altri poiché il suo defunto nonno era il famoso mockbi Kho, della Grande Mockba di Qodsabad, le cui prediche rimaste celebri e le cui magnifiche formule shock (come questo notevole grido di guerra: «Andiamo a morire per vivere felici», poi adottato dall’esercito abistano come motto sul proprio stemma) avevano arruolato innumerevoli contingenti di arditi ed eroici miliziani, tutti quanti caduti da martiri durante la precedente Grande Guerra santa. Koa, travagliato da una certa ribellione ancora giovanile contro la figura opprimente del nonno, andò poi a stabilirsi come insegnante di abiling in una scuola di una periferia devastata e lí, quasi fosse un laboratorio mobile messo a sua disposizione, poté verificare in vivo la forza della lingua sacra sulla mente e sul corpo di giovani alunni, che pure erano nati e cresciuti nell’uno o nell’altro dialetto clandestino del quartiere. Mentre il loro ambiente li destinava all’afasia, al degrado morale e alla perdita di ogni punto di riferimento condiviso, dopo un solo trimestre di apprendimento dell’abiling si trasformavano in fervidi credenti, esperti in dialettica e ormai giudici unanimi della società. E la nidiata, chiassosa e vendicativa, si proclamava pronta a prendere le armi e lanciarsi all’assalto del mondo. E di fatto anche fisicamente non erano piú gli stessi, somigliavano già a come sarebbero stati dopo due o tre terrificanti Guerre sante, tarchiati, gobbi, sfregiati. Molti ritenevano di saperne abbastanza e non avere bisogno di ulteriori lezioni. Eppure Koa non gli aveva detto un bel niente della religione e delle sue mire planetarie e celesti, né insegnato un solo versetto del Gkabul, a parte il saluto corrente «Yölah è grande e Abi è il suo Delegato» che dopotutto, per la gente fortunata, era solo un modo un po’ magniloquente di dire buongiorno. Qual era l’origine del mistero? Koa si poneva un’altra domanda, piú personale: come mai lui che era nato nell’abiling e nel Gkabul, che li conosceva intimamente, e aveva un nonno che era un virtuoso della manipolazione mentale di massa, era rimasto indenne? La prima cosa da decidere era piuttosto quale delle due domande fosse piú pericolosa. Capiva finalmente che quando accendi una miccia devi aspettarti che succeda qualcosa. Anche se non la vedi, esiste un’indubbia continuità nel percorso delle idee e nell’organizzazione delle cose, un proiettile sparato dalla finestra significa un morto all’altro capo della strada, e l’intervallo di tempo non è un vuoto, è il collegamento fra la causa e l’effetto. L’ultimo giorno dell’anno scolastico il povero Koa restituí la divisa come se in mezzo agli alunni temesse per la propria vita, tornò in città e si mise alla ricerca di un impiego stabile e remunerativo. Non conosceva il segreto della lingua, non lo avrebbe mai conosciuto, ma sapeva quanto fosse immenso il suo potere.

Che cos’erano diventati quegli alunni? Bravi e onesti mockbi, martiri incensati, miliziani ammirati, mendicanti di professione, vagabondi e bestemmiatori il cui viaggio si era concluso allo stadio? Koa non lo sapeva, ciò che succedeva in quelle periferie devastate era sempre molto vago, erano mondi a parte, circondati da mura e precipizi, le loro popolazioni si rinnovavano piú volte nel corso di una vita. La malattia, la miseria, le guerre, le calamità, la sfortuna prelevavano la loro quota, e persino il successo, che si portava via i malandrini pieni di risorse e li trasferiva in territorio nemico, nessuno era risparmiato, tutti alla fine morivano, ma poiché ne arrivavano altrettanti, emigrati, rifugiati, esuli, relegati, profughi, transfughi, anche falliti, non ci si rendeva conto di nulla, a tal punto quegli extraterrestri si assomigliavano, che fossero autoctoni o venissero da altrove. Come accade ovunque, fra gli umani come fra i camaleonti, si acquisiva il colore dei muri, e c’erano muri decrepiti e muri scalcinati, ecco il dramma. Era il lato cinico di Koa a parlare cosí.

I due compari si attivavano in varie direzioni. Frequentavano assiduamente la mockba, studiando il Gkabul, ascoltando il mockbi commentare le leggende dell’Abistan mille volte ingigantite, osservando le sue pecorelle cadere in catalessi non appena i banditori le invitavano alla preghiera con il saluto «Benedetti siano Yölah e Abi il suo Delegato», ripreso in coro dagli assistenti e dalla massa degli oranti, il tutto in un’atmosfera di intenso raccoglimento e di sotterraneo sospetto. Era come uno straordinario gioco di prestigio, piú lo si guardava e meno lo si capiva. I credenti erano governati da un principio di incertezza, a volte non si sapeva se fossero vivi o morti né se, in quel momento, loro stessi vedessero la differenza.

Studiavano anche a casa dell’uno o dell’altro quando riuscivano a ingannare la vigilanza dei comitati civici di quartiere, i cosiddetti Civici, che avevano il potere sovrano di autoinvitarsi ovunque sospettavano che si svolgessero nuove attività. E chiacchierare fra amici dopo il lavoro era un’attività fin troppo nuova, solo lo Shaitan induceva a simili ozi. Il burni verde con una striscia gialla fluorescente li segnalava da lontano ma i Civici erano autorizzati a ricorrere a qualche stratagemma per sorprendere chi stava di vedetta, da qui il senso di paura che affliggeva gli abitanti anche quando avevano chiuso la porta a doppia mandata. «Aprite in nome di Yölah e di Abi, è il comitato civico di questo o di quello!», ecco il genere di intimazione che non avrebbero mai voluto sentire. Nessuno era in grado di bloccare il meccanismo: fra convocazioni e interrogatori un giorno ci si ritrovava allo stadio a prendersi nerbate e lanci di pietre.

Bisogna sapere che i Civici erano comitati di vigilanza formati da cittadini, con l’approvazione dell’autorità (in questo caso il servizio della pubblica morale del ministero della Morale e della Giustizia divina e l’ufficio delle associazioni civili di autodifesa del ministero della Forza pubblica), che si prefiggevano l’obiettivo di punire i comportamenti devianti nel proprio quartiere, garantire la sicurezza nelle strade e la giustizia di prossimità; alcuni erano apprezzati, come i Civici dei costumi, altri odiati, in primo luogo i Civici anti ozio. Ne esisteva una miriade, ma molti erano effimeri, stagionali, senza un vero e proprio scopo. Avevano un luogo di raduno, la caserma dei Civici, dove si riposavano, si addestravano e da dove partivano per le loro incursioni nel quartiere.

Tutto sommato, Ati e Koa preferivano andare a caccia di anticaglie nelle periferie devastate dove regnava ancora un po’ di misera libertà, troppo poca per essere efficace, mentre ce ne vuole molta per cercare di risolvere segreti sui quali poggiano imperi incrollabili. E in effetti questa era proprio rivolta allo stato puro, erano arrivati al punto di prendere drasticamente in considerazione l’idea di andare a vivere un giorno nei ghetti della morte, quelle enclave lontane dove sopravvivevano popolazioni antiche, rimaste tenacemente aggrappate a vecchie eresie scomparse persino dagli archivi. «Ho dato loro la vita e mi hanno voltato le spalle e si sono schierati con il mio nemico, lo Shaitan, il miserabile Balis. Grande è la mia collera. Li ricacceremo dietro alte mura e faremo di tutto per farli morire nel modo piú orribile», sta scritto a loro riguardo nel Libro di Abi.

Introdursi in quei territori sembrava impossibile, i militari pattugliavano senza tregua il perimetro delle vertiginose muraglie che li cingevano ermeticamente, e sparavano a vista. E in piú bisognava superare il campo minato e la barriera impenetrabile di cavalli di frisia che isolavano il ghetto della città, sfuggire ai radar, alle telecamere, alle torrette di sorveglianza, ai cani e, cosa semplicemente inconcepibile, ai V. Non si trattava solo di segregare come per una quarantena un territorio malsano ma di proteggere i credenti dai miasmi mortali dello Shaitan, perciò alle armi pesanti si aggiungeva la potenza incommensurabile delle preghiere e delle maledizioni. 

Però non mancavano i canali per raggiungere con discrezione il ghetto. Li aveva creati la Gilda, il clan dei mercanti che rifornivano illegalmente, e quindi a caro prezzo, i ghetti attraverso fitte reti di gallerie sotterranee difese, si diceva, da trogloditi chitinosi di illimitata ferocia. Alla fine i due amici si decisero: al punto in cui erano, che altro fare? Avevano dato fondo ai loro risparmi fino all’ultimo didi. Ati, che dopo due anni di forzata invalidità era a corto di soldi, dovette vendere alcune buone reliquie ottenute da pellegrini nei quali si era imbattuto sui monti del Sîn. 

In ufficio, al municipio, hanno preparato una licenza intestata a un nome fittizio e si sono presentati alla sede locale della Gilda dei mercanti dicendosi intenzionati a concludere buoni affari nel ghetto. E una sera, appena dopo la ronda della guardia, si sono messi in cammino e ben presto si sono ritrovati davanti a un pozzo piuttosto grande, abilmente camuffato, nel cortile posteriore di una casa semidiroccata che confinava con un antico cimitero noto per la sua cattiva fama. Ad aspettarli c’era un omuncolo perfettamente nictalope: gli fece subito prendere posto in un cestone, azionò una suoneria e due leve, e il veicolo cominciò una discesa vertiginosa nel ventre della terra. In capo a una decina di ore, dopo mille giri in un ciclopico formicaio, passando sotto le mura e il campo minato, sbucarono nel ghetto chiamato dei Rinnegati, il piú vasto del paese, bastava nominarlo per far svenire i credenti sensibili e gettare le autorità nell’isteria. Era mattina e il sole brillava sul ghetto. L’enclave si estendeva per molte centinaia di shabir quadrati nella zona sud di Qodsabad, oltre la località detta «Le sette sorelle della desolazione», una catena di sette alture tondeggianti informi e rugose al limitare del quartiere di Ati. I Rinnegati, detti comunemente Rinn, chiamavano il loro mondo Hor e se stessi Hors (che si pronuncia Hur). Koa pensava che questi vocaboli fossero declinazioni della parola hu, in dialetto habilé, un antico idioma ancora parlato da qualche decina di locutori nel retroterra a nord di Qodsabad che lui aveva studiato un pochino. Hu o hi significava qualcosa come «casa», «vento» o anche «movimento». Quindi Hor sarebbe la casa aperta o il territorio della libertà e Hors gli abitanti della libertà, gli uomini liberi come il vento o gli uomini portati dal vento. Koa ricordava di aver saputo da un vecchio indigeno habilé che i suoi remoti avi onoravano un dio chiamato Horos o Horus, raffigurato come un uccello, un falco, immagine appunto della creatura libera che vola nel vento. Con il tempo e il deteriorarsi delle cose, Horos è diventato Hors, da cui Hor e hu. Ma l’uomo non sapeva perché a quell’epoca dimenticata le parole potessero avere due sillabe come Horos, e anche tre come ha-bi-lé, o addirittura quattro e piú, fino a dieci, mentre allo stato attuale tutte le lingue usate in Abistan (clandestinamente, non c’è bisogno di ricordarlo) comportavano solo parole di una sillaba, al massimo due, compresa l’abiling, la lingua sacra con cui Yölah aveva instaurato l’Abistan sul pianeta. Se alcuni avevano pensato che con il passare del tempo e il maturare delle civiltà le lingue si sarebbero allungate, avrebbero guadagnato significati e sillabe, era accaduto il contrario: si erano accorciate, rimpicciolite, si erano ridotte a sfilze di onomatopee e interiezioni, peraltro poco incisive, che suonavano come grida e rantoli primitivi, e non permettevano assolutamente di sviluppare pensieri complessi e accedere cosí a universi superiori. Alla fin fine regnerà il silenzio e sarà pesantissimo, porterà tutto il peso delle cose scomparse dall’origine del mondo in poi e quello ancora piú greve delle cose che non avranno visto la luce in mancanza di parole sensate per nominarle. Era una riflessione estemporanea, ispirata dall’atmosfera caotica del ghetto.

È un po’ fuori tema ma bisogna dirne una parola per la Storia: giravano molte dicerie sui ghetti e sui loro traffici. Se uno avesse voluto creare una bella confusione per impedire di capirci qualcosa avrebbe fatto proprio cosí. Si mormorava che dietro la Gilda si profilasse l’ombra dell’Onorevole Hoc della Giusta Fraternità, direttore del dipartimento del Protocollo, delle Cerimonie e delle Commemorazioni, un personaggio gigantesco che regolava e scandiva la vita del paese, nonché di suo figlio Kil, noto come il piú spregiudicato commerciante dell’Abistan. In certi ambienti si pensava addirittura che i ghetti fossero un’invenzione dell’Apparato. La tesi era che un regime assolutistico poteva esistere e durare solo controllando il paese fin nei suoi piú intimi pensieri, impresa irrealizzabile dato che, nonostante tutto ciò che era possibile inventare in fatto di controllo e repressione, un giorno o l’altro un sogno sarebbe riuscito a prendere forma e poi a evadere, e allora si sarebbe vista nascere un’opposizione, dove meno ce lo si aspettava, rafforzata nella lotta clandestina, e il popolo, incline per natura a concedere la sua simpatia a chi combatte la tirannide, l’avrebbe sostenuta non appena la vittoria gli fosse sembrata un’ipotesi credibile. Per il potere, il sistema per conservare il proprio assolutismo era prendere l’iniziativa, creare quell’opposizione e poi farla assumere da autentici oppositori, estremisti, dissidenti, subordinati ambiziosi, eredi presuntivi impazienti di farla finita, che sarebbero spuntati ovunque come per miracolo. Qualche crimine anonimo qua e là avrebbe contribuito a tenere in piedi la macchina da guerra. Essere il proprio nemico è la garanzia per vincere sistematicamente. Di certo il piano era di difficile attuazione ma una volta messo in moto sarebbe andato avanti da sé, tutti avrebbero creduto a ciò che gli veniva mostrato e nessuno sarebbe sfuggito al sospetto né al terrore. E di fatto, molti sarebbero morti per colpi che non avrebbero visto arrivare. Perché la gente creda e si aggrappi disperatamente alla sua fede ci vuole la guerra, una vera guerra, che provochi tanti morti e non abbia mai fine, e un nemico invisibile o che vedi ovunque senza mai vederlo davvero.

Il Nemico assoluto contro il quale l’Abistan combatteva Guerre sante su Guerre sante dalla Rivelazione in poi aveva quindi uno scopo ben piú importante, aveva permesso alla religione di Yölah di occupare il cielo e la terra in tutta la loro estensione. Nessuno lo aveva mai visto ma esisteva eccome, di fatto e per principio. Se mai aveva avuto un volto, un nome, un paese, frontiere con l’Abistan, era stato nei tempi oscuri prima della Rivelazione. Chi sapeva come fosse fatto? Ogni giorno le NoF riportavano gli echi di quella guerra in dispacci concitati che la gente leggeva e commentava con avidità, ma dato che gli abistani non uscivano mai dal loro quartiere e nel paese non c’erano carte su cui si potessero visualizzare le zone dei combattimenti, alcuni avevano avuto l’impressione che quella guerra fosse reale solo nei comunicati delle NoF. Era frustrante, ma poiché l’albero si riconosce dai frutti, vedevano la realtà della guerra nelle stele commemorative erette ovunque, a ricordo delle grandi battaglie, con i nomi dei soldati caduti da martiri. Quelli dei dispersi di cui a volte si ritrovavano i cadaveri qua e là, in un burrone, in un fiume, in una fossa comune, erano affissi nei municipi e nelle mockba. Il bilancio era spaventoso ed esprimeva pienamente l’attaccamento del popolo alla sua religione. Ai prigionieri era riservata una triste sorte, si diceva che l’esercito li radunasse in campi dove ben presto morivano. Alcuni mercanti raccontavano di avere visto lungo le strade interminabili coorti di quei prigionieri, condotte verso questa o quella destinazione. Ati poteva testimoniarlo, al Sîn aveva visto soldati sgozzati, gettati nei burroni, e sulla via del ritorno il terribile spettacolo di un’infinita colonna di prigionieri al seguito di un’unità motorizzata dell’esercito.

Nessuno dubitava che i soldati abistani catturati dal Nemico subissero la stessa sorte. La domanda tormentosa era questa: dove mai poteva portarli il Nemico e come ci riusciva con un cosí assoluto riserbo?

La Guerra santa implica tanti misteri.

Il ghetto e i suoi Rinnegati, invece, erano concreti e servivano a un unico scopo, il rigoroso controllo dei credenti nella quotidianità. Perché il pollaio sia ben custodito ci vuole una volpe nei paraggi. Il caos che vi regnava costituiva una protezione, era cosí totale che tutto passava inosservato. Si poteva senza correre alcun richio farsi redarguire dai Civici, gironzolare per le strade, abbordare le persone, chiacchierare con loro, togliersi il burni, dimenticare l’ora della preghiera, entrare in uno di quei posti bui e rumorosi, ignoti in Abistan, dove per un didi o un ril ti offrivano bevande calde, come il ruf o la lik, oppure ottime bevande fredde alcune delle quali, molto apprezzate dai consumatori, come lo zit, avevano il potere di offuscare la vista e il cervello. In quei posti c’era sempre, in fondo, dietro una pila di cassette o di sacchi o una tenda lercia, un corridoio o una scala stretta e buia che suscitava curiosità, ci si chiedeva dove potesse portare.

Non è sicuro che tutte queste libertà servissero a granché ma era molto eccitante. La cosa piú strana era che ai Rinn, pur godendo nel loro bailamme di una tale autonomia, piaceva recarsi a Qodsabad, Ur, nella loro toponomastica, per smerciare prodotti e oggetti del passato molto apprezzati dai notabili e riportare a casa dolciumi per la famiglia. Anche loro usavano i tunnel della Gilda e pagavano un pedaggio. L’Apparato li braccava senza pietà e va da sé che quelli catturati finivano allo stadio il giovedí successivo, dopo la grande Implorazione. La loro esecuzione era uno spettacolo pregevole, che inaugurava i festeggiamenti. A tale scopo era stata creata una polizia speciale, l’AntiRinn, sapeva riconoscere quei fantasmi, pedinarli e catturarli come si deve. Si è constatato che quegli esseri abituati alla vita selvatica e al brigantaggio erano nettamente piú reattivi dei credenti, ingessati in routine troppo numerose e severe. Non lo si diceva perché avrebbe significato distruggere una leggenda e attentare alla sicurezza dello Stato, ma sembrava proprio che i V, dotati di facoltà enormi, non riuscissero a individuare la traccia mentale dei Rinn, si confondeva con quella dei pipistrelli le cui onde ultrasoniche troppo potenti saturavano il radar dei V e lo disorientavano. Peggio: se diretto specificamente su un V, il flusso mentale dei Rinn poteva causargli emorragie dolorose, e in ogni caso umilianti per creature cosí temute, considerate campioni di invisibilità, ubiquità e telepatia. Erano congetture, argomenti di conversazione, nessuno aveva mai visto un V, meno che mai mentre perdeva sangue dal naso o dalle orecchie. Sta di fatto che gli innocenti chirotteri subivano periodiche stragi, a cui la popolazione partecipava attivamente, allo scopo di sgombrare il cielo dalle loro onde, peccato però che la natura li avesse dotati di un’altra caratteristica: si riproducevano alla velocità del fulmine. Quindi era proprio al crepuscolo, quando i piccoli vampiri si svegliavano e se ne andavano a caccia, che gli Hors uscivano dal ghetto e invadevano Qodsabad dove li attendevano complici e clienti, ed era all’alba che rientravano, quando i pipistrelli sazi tornavano nelle loro grotte. Si capisce perché gli Hors venerassero questo animale.

L’esercito faceva la sua parte nello sterminio dei Rinn, la sua artiglieria, i suoi vecchi elicotteri e i suoi droni bombardavano regolarmente il ghetto, specie in occasione delle grandi commemorazioni, quando gli abitanti di Qodsabad ammassati nelle mockba e negli stadi erano al culmine dell’eccitazione. Anche a questo proposito si raccontavano varie cose: si diceva che gli elicotteri dell’esercito sganciassero le bombe a casaccio, su terreni abbandonati invece che sul centro del ghetto, sulle abitazioni e sui rifugi, che le bombe e le granate non contenessero abbastanza esplosivo, che facessero solo rumore, provocassero solo qualche ferito, qualche morto, ecc., le supposizioni non mancavano. La spiegazione era che la Gilda era favorevole a una distruzione simbolica dei Rinn, conforme allo spirito di bontà del Gkabul; certo, erano creature abominevoli, empie e sporche, ma anche buoni clienti, comunque imprigionati in quegli orribili ghetti, risparmiare loro la vita non era poi cosí sciocco, argomentava la Gilda a tutti i livelli dove sapeva farsi ascoltare. Fra commercio e religione la connivenza è sempre possibile, vanno di pari passo. Da qui a concludere che la Gilda pagava i capitani dell’esercito e avvertiva i Rinn delle incursioni preparate contro di loro non c’era che un passo. Era un’equazione complessa: l’Abistan aveva bisogno dei Rinn per vivere cosí come aveva bisogno di ucciderli per esistere.

Il ghetto di Qodsabad aveva di certo un suo fascino pur essendo in condizioni spaventose, non c’era un edificio che si reggesse da solo, foreste di stampelle e stecche assemblate alla meglio li tenevano faticosamente in piedi. Ovunque, montagne di macerie raccontavano crolli recenti e antichi, e in entrambi i casi ingiuste sciagure. Bambini cenciosi si divertivano a scalarle e frugavano fra i detriti alla ricerca di qualcosa da vendere. La sporcizia aveva trovato il suo regno, in molti punti la spazzatura si ammonticchiava fino ai tetti delle case, altrove ricopriva il suolo fino al ginocchio. Poiché la pratica di seppellirla aveva da tempo raggiunto il limite, non era possibile né eliminarla né bruciarla (il ghetto sarebbe andato in fumo insieme alla sua popolazione), quindi si ammonticchiava all’aria aperta, spinta qua e là dal vento, e cosí il ghetto s’innalzava sulla sua spazzatura e sul suo materiale di riporto. Vi regnava l’oscurità giorno e notte. Alla mancanza di corrente elettrica aggiungeva il suo sinistro effetto la segregazione, come pure i vicoli angusti, l’urbanizzazione caotica, le distruzioni, i muggiti dei corni di allarme, i bombardamenti improvvisi, le grevi ore passate nei rifugi, e il resto che prolifera nelle città sotto assedio. Tutto ciò rattristava la vita e la inibiva gravemente. Eppure c’era vivacità, c’erano una cultura della resistenza, un’economia dell’improvvisazione, un piccolo mondo che si dava da fare senza tregua e trovava modo di sopravvivere e sperare. La vita non si limitava a scorrere, cercava, si abbarbicava, inventava, affrontava ogni sorta di sfide e ricominciava da capo per quanto umanamente possibile. Ci sarebbe molto da dire sul ghetto, sulle sue realtà e sui suoi misteri, sulle sue qualità e sui suoi vizi, sui suoi drammi e sulle sue speranze, ma la cosa davvero piú straordinaria, mai vista a Qodsabad, era questa: la presenza delle donne per strada, riconoscibili come donne umane e non come ombre fuggevoli in quanto non portavano né maschera né burniqab e ovviamente niente bendaggi sotto la camicia. Anzi, si muovevano in tutta libertà, svolgevano le incombenze domestiche per strada, discinte come se fossero in camera da letto, vendevano e compravano sulla pubblica piazza, partecipavano alla difesa civile, cantavano lavorando, cianciavano durante le pause e si abbronzavano al pallido sole del ghetto perché oltretutto sapevano trovare il tempo per la vanità. Ati e Koa erano cosí turbati quando una donna li avvicinava per vendere loro qualcosa che chinavano la testa e tremavano da capo a piedi. Era il mondo alla rovescia, non sapevano come comportarsi. Riconoscendoli per quelli che erano, goffi abistani che parlavano solo l’abiling, le donne li apostrofavano nel proprio dialetto, una parlata incomprensibile molto sibilante, sottolineando le parole con gesti precisi, sventolando in una mano l’articolo da vendere e indicando con le dita dell’altra il numero di ril da sborsare per comprarlo mentre lanciavano al pubblico sguardi maliziosi come se sollecitassero un applauso. Poiché la conversazione non poteva spingersi oltre, dato che Koa aveva esaurito lo stock di dialetti accumulato durante i suoi soggiorni linguistici nelle periferie devastate, i due amici compravano ciò che riuscivano a comprare e poi evitavano di farsi abbordare dalle donne, e ancora meno dai bambini che sapevano spennare un gonzo piú in fretta di quanto ci mettessero le loro madri a decapitare un pollo.

Nel ghetto la lingua sacra era compresa da alcuni Rinn, che trattavano con i rappresentanti della Gilda e avevano l’abitudine di andare a Qodsabad per il loro piccolo contrabbando. Ma la loro conoscenza si limitava al vocabolario commerciale e si esprimeva in cifre e gesti. La grande massa non capiva un bel niente, la lingua sacra non le faceva alcun effetto, anche se le avessero versato nelle orecchie l’intero Gkabul. Si doveva pensare che agisse solo sui credenti? Era inammissibile, il Gkabul è universale e Yölah è il padrone di tutto l’universo, cosí come Abi è il suo unico Delegato in terra. Il sordo è davvero chi non intende.

L’abbiamo tenuta in serbo per la fine poiché si tratta di una cosa orripilante anche per credenti di larghe vedute (diciamo dubbiosi): i muri erano ricoperti di graffiti, incisi con un chiodo, tracciati con un pezzo di carbone oppure... orrore, con escrementi umani, che sbeffeggiavano l’Abistan, le sue credenze e le sue pratiche, scritti in questa o quella lingua in uso nel ghetto. Non mancavano i disegni osceni, che parlavano da sé. Su qualche muro, qua e là, alcuni graffiti in habilé che Koa riuscí a decifrare; irriferibili bestemmie allo stato puro. Dicevano: «Morte a Bigaye», «Bigaye è un buffone», «Bigaye, re dei ciechi o principe delle tenebre?», «Abi = Bia!» (in habilé, bia significa piú o meno «ratto portatore della peste» oppure «voltagabbana» [!]), «Viva Balis», «Balis vincerà», «Balis eroe, Abi zero», «Yölah è aria fritta». Ati e Koa non vedevano l’ora di dimenticare quelle porcherie, di ritorno a Qodsabad conservarne traccia nella memoria li avrebbe segnalati ai V, il cui sonar non avrebbe dovuto scandagliarli a lungo per andare in tilt. I nostri due amici ne erano terrorizzati.

Secondo Qodsabad, era proprio in quel ghetto della morte che si acquattava Balis dopo che Yölah lo aveva cacciato dal cielo. La grande paura degli abistani, e anzitutto degli abitanti di Qodsabad, era che Balis e il suo esercito fuggissero dal ghetto e dilagassero nel sacro territorio dell’Abistan. Certo, non avrebbero potuto nuocere ad Abi, che godeva dell’alta protezione di Yölah, senza contare la sua invincibile Legione, ma avrebbero fatto molto male al popolino. Sembrava insomma che tutto lo spiegamento di forze intorno al ghetto, i controlli e i cosiddetti bombardamenti micidiali, per non parlare di quel ridicolo embargo, mirassero piú a rassicurare il buon popolo dell’Abistan che a impedire l’invasione di Qodsabad da parte dei Rinn. L’Apparato aveva l’aria di fare una cosa per un’altra e dare a intendere il contrario.

Come si ricorderà, l’idea di Ati e Koa era venire a capo dei fumosi interrogativi di cui avevano piena la testa: che rapporto c’è fra religione e lingua? La religione è concepibile senza una lingua sacra? Fra religione e lingua quale viene per prima? Che cosa costituisce il credente, la parola della religione o la musica della lingua? È la religione a crearsi un linguaggio speciale per esigenze di mistificazione e manipolazione mentale oppure è la lingua che, una volta raggiunto un alto livello di perfezione, si inventa un universo ideale e fatalmente lo sacralizza? Il postulato secondo cui «Chi ha un’arma finisce per usarla» è sempre valido? In altri termini, la religione è intrinsecamente orientata alla dittatura e all’omicidio? Ma non si trattava di generica teoria, la domanda precisa era la seguente: è stata l’abiling a creare il Gkabul o viceversa? La simultaneità non è concepibile, l’uovo e la gallina non nascono nello stesso momento, l’uno deve precedere l’altra. Nella fattispecie non si poteva parlare di casualità, nella storia del Gkabul tutto mostrava che in origine c’era stato un piano diventato sempre piú ambizioso. Altre domande: che dire delle lingue volgari? Che cosa avevano inventato, che cosa le aveva create? La scienza e il materialismo? La biologia e il naturalismo? La magia e lo sciamanesimo? La poesia e il sensismo? La filosofia e l’ateismo? Ma che significano queste cose? E cosa c’entrano in questo caso la scienza, la biologia, la magia, la poesia, la filosofia? Non sono state anch’esse bandite dal Gkabul e ignorate dall’abiling? 

Si rendevano conto che questo passatempo era pericoloso, oltre che futile e stucchevole. Ma che fare quando non c’è niente da fare se non cose inutili e vane? E fatalmente pericolose.

E pericolose lo erano davvero, pensavano quando si ritrovarono di nuovo, a cento sicca di profondità, nel ciclopico dedalo delle gallerie sotterranee e, alcune ore dopo, nella vecchia casa diroccata al limitare del cimitero, a sud delle «Sette sorelle della desolazione», proprio mentre civette e pipistrelli riempivano silenziosamente il cielo con le loro ombre furtive. In situazioni di questo genere, in questi crepuscoli grigi e freddi, è il mondo intero che sembra a rischio di morte imminente.

Il ritorno nella luce di Qodsabad fu un sollievo, un’angoscia e un indicibile motivo di orgoglio. Da un lato era una vicenda banale: i due amici si erano fatti un giro nel ghetto, come capitava quotidianamente ai membri della Gilda che andavano a riscuotere incassi, prendere ordinazioni e, già che c’erano, molestare le Rinnegate, cosí come, nell’altra direzione, i piccoli contrabbandieri del ghetto venivano ogni giorno a Qodsabad a smerciare i loro articoli e rubacchiare galline. Ma dall’altro era straordinaria, Ati e Koa avevano attraversato la barriera del tempo e dello spazio, la frontiera proibita, erano passati dal mondo di Yölah alla dimora di Balis, e senza che il cielo cadesse loro sulla testa.

La cosa piú difficile, al lavoro e nel proprio quartiere, sarebbe stata comportarsi con naturalezza e riuscire a ingannare i giudici dell’Ispezione morale e i Civici, mentre a partire da quel momento tutto, in loro, il modo di essere e di respirare, avrebbe puzzato di Colpa. Portavano appiccicato al burni e ai sandali l’odore unico e incancellabile del ghetto.

Dall’odissea in quel mondo proibito riportavano quattro insegnamenti straordinari. 1) Sotto le mura di separazione corrono gallerie di collegamento. 2) I ghetti sono popolati di essere umani, nati da genitori umani. 3) La frontiera è un’eresia inventata dai credenti. 4) L’uomo può vivere senza religione e morire senza l’assistenza di un prete.

E riportavano anche la risposta a un vecchio enigma: la parola Bigaye, che aveva suscitato un tale scandalo quando la si era scoperta scarabocchiata da una mano insolente su uno dei dieci miliardi di manifesti di Abi affissi sui muri dell’Abistan, nel ghetto era di uso corrente. Il colpevole era di certo un Rinn che prima di tornare nel proprio territorio aveva voluto lasciare una traccia della sua incursione in Abistan. Con ogni probabilità l’uomo che era stato arrestato e giustiziato era un tizio qualunque catturato a casaccio per strada. Per raffronto, Koa capí che il termine Bigaye apparteneva a un gergo derivante dall’habilé e significava piú o meno «Grande fratello», «Vecchio furfante», «Buon compare», «Grande capo». Quindi l’espressione «Big Eye» usata nel decreto della Giusta Fraternità non era corretta, e comunque non esisteva in nessuna lingua dell’Abistan o del ghetto, probabilmente si ricollegava a una lingua antica, una di quelle che si erano estinte all’epoca dello Shar, la prima Grande Guerra santa, che aveva visto scomparire la totalità delle popolazioni del nord, renitenti al Gkabul. Ati ne aveva dedotto che il testo scolpito nella pietra sopra il ponte levatoio del sanatorio era scritto in quella lingua, poiché la fortezza risaliva a quell’epoca, se non a prima, e il simbolo «1984» forse indicava qualcosa che non era una data. Ma di fatto era impossibile decidere, il concetto di data, come quello di età, era precluso agli abistani, per loro il tempo è uno, indivisibile, immobile e invisibile, l’inizio è la fine e la fine è l’inizio e oggi è sempre oggi. Con un’eccezione, però: il 2084. Questo numero, tutti ce l’avevano piantato in testa come una verità eterna, e quindi come un mistero inviolabile, nell’infinita immobilità del tempo doveva dunque esserci un 2084, solo soletto, ma come è possibile situare cronologicamente ciò che è eterno? Non ne avevano la piú pallida idea.

Ati e Koa si dicevano l’un l’altro che un giorno sarebbero dovuti tornare nel ghetto per saperne di piú.