mercoledì 26 maggio 2021

UN AMORE Dino Buzzati


UN AMORE 
Dino Buzzati 
«Col nuovo romanzo Un amore ci troviamo nel cuore del più acceso realismo e psicologismo, nella dissezione quasi anatomica di un sentimento amoroso che molti diranno patologico, ma che in realtà tutti gli uomini che non hanno gli occhi e il cuore foderato di una cotenna di lardo hanno almeno virtualmente provato»:1 così scriveva Eugenio Montale all’indomani della pubblicazione del romanzo-scandalo di Dino Buzzati, Un amore. È il 1963 quando Mondadori dà alle stampe il testo che sarà destinato a suscitare un forte scalpore, non solo nella società benpensante dell’epoca, ma soprattutto tra la critica che spesso non riesce a riconoscere in queste pagine un filo conduttore con la precedente produzione letteraria dello scrittore. Agli occhi di quanti erano abituati al Buzzati allegorico, misterioso e magico di Barnabo delle montagne (1933) e del Segreto del bosco vecchio (1935), o al Buzzati dei temi surreali dei Sessanta racconti e del più celebre Deserto dei Tartari (1940), questo nuovo romanzo appare quanto mai lontano. In Un amore quell’inconfondibile stile fantastico, evocatore di atmosfere magiche, lascia il posto alla realtà e al tormento, a una scrittura asciutta che sperimenta il monologo interiore.
L’opera di Buzzati vede la luce in un periodo, gli anni Sessanta, in cui l’editoria italiana cerca di soddisfare i gusti delle masse con le pubblicazioni a dispense e i tascabili e registra un’espansione che volge lo sguardo verso il nuovo ceto medio di lettori attenti alla narrativa. I premi letterari, come lo Strega, il Viareggio, il Campiello, e le classifiche dei titoli più venduti sulle pagine culturali dei quotidiani diventano sempre più uno strumento pubblicitario capace di orientare il gusto dei lettori e di influenzarne gli acquisti. Gian Carlo Ferretti parlerà di «bestseller all’italiana»2 alludendo al successo editoriale di romanzi come Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La ragazza di Bube di Carlo Cassola, Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani. Sono anni in cui lo slancio consumistico si bilancia con la necessità di cultura che si attua in progetti di raffinata ricerca letteraria, come la nascita della casa editrice Adelphi nel 1962 e la pubblicazione da parte di Feltrinelli delle opere sperimentali del Gruppo 63, fieramente avverse alla letteratura dei grandi numeri. La neonata classe piccolo-borghese ha però bisogno di punti di riferimento letterari e culturali, di romanzi che siano uno specchio della società e delle sue ipocrisie. In questo contesto si inserisce Un amore, consacrato a un successo strepitoso di pubblico, ma a lungo rifiutato dalla critica che lo ha interpretato come un cedimento di Buzzati alla narrativa di consumo o, peggio, come un riempitivo malriuscito di un «momento di stanchezza creativa».3
1.  Eugenio Montale, Un amore, «Corriere della Sera», 18 aprile 1963, in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori 1996.
2.  Gian Carlo Ferretti, Il bestseller all’italiana: fortune e formule del romanzo di qualità, Laterza 1983.
3.  Mario Stefanile, Buzzati e l’amore, «Il Mattino», 9 maggio 1963.


UN AMORE 

    1. 
    Un mattino del febbraio 1960,  a Milano,  l'architetto Antonio Dorigo,     di 49 anni, telefonò alla signora Ermelina. 
    "Sono Tonino, buongiorno sign..." 
    "E' lei? Quanto tempo che non si fa vedere. Come sta?" 
    "Non c'è male,  grazie. Sa in questi ultimi tempi un mucchio di lavoro     e così... senta potrei venire questo pomeriggio?"     "Questo pomeriggio? Mi faccia pensare... a che ora?" 
    "Non so. Alle tre, tre e mezza." 
    "Tre e mezza d'accordo." 
    "Ah senta, signora..." 
    "Dica, dica." 
    "L'ultima volta,  si ricorda?...  insomma  quella  stoffa  per  essere     sincero non mi finiva di piacere, vorrei..."     "Capisco. Purtroppo alle volte io stessa..." 
    "Qualcosa di più moderno, mi spiego?" 
    "Sì,   sì.   Ma   guardi  ha  fatto  bene  a  telefonarmi  oggi,   c'è     un'occasione... insomma vedrà che resterà soddisfatto." 
    "Tessuto nero, preferibile." 
    "Nero, nero, lo so, come il carbone." 
    "Grazie, a più tardi allora." 
    Mise giù la cornetta. Era solo nello studio. Anche Gaetano Maronni, il     collega che occupava la stanza vicina, quel mattino era uscito.     Era una  mattina  qualsiasi  di  una  giornata  qualsiasi.  Il  lavoro     procedeva  bene.  Dalla grande finestra dell'ottavo piano si vedeva la     casa di fronte, una casa moderna uguale alle case intorno, uguale alla     casa dove Dorigo si trovava.  Abbastanza  allegra,  tuttavia,  in  via     Moscova,  vasto  complesso  condominiale intersecato da viali-giardino     dove potevano parcare le automobili. 
    Era una delle tante giornate grigie di Milano,  però senza la pioggia,     con  quel  cielo  incomprensibile  che non si capiva se fossero nubi o     soltanto  nebbia  al  di  là  della  quale  il  sole,  forse.   Oppure     semplicemente  caligine  uscita  dai  camini,  dagli  sfiatatoi  delle     caldaie a nafta, dalle ciminiere delle raffinerie Coloradi, dai camion     ruggenti, dalle fogne,  dai cumuli di detriti immondi rovesciati sulle     aree fabbricabili della periferia, dalla trachea dei milioni e milioni     -  erano tanti?  - assembrati fra cemento,  asfalto e rabbia intorno a     lui. 
    Accese la terza sigaretta,  erano le dieci e tre quarti ("Sono Tonino,     buongiorno sign..." "E' lei?  Quanto tempo che...") sul muro di fronte     a lui l'orologio elettrico fornito dal  complesso  condominiale,  ogni     tanto un fievole brandello di musica,  di là, nella stanza accanto, la     signorina Maria Torri teneva accesa sul  tavolo,  nella  borsetta,  in     grembo, la radiolina giapponese, senza una tregua mai anche durante le     discussioni e Dorigo non aveva avuto il coraggio di proibirgliela,  in     fondo se la sarebbe tenuta volentieri una anche  lui,  ne  aveva  anzi     comperata  una  di contrabbando,  tascabile,  per diecimila lire,  nei     negozi del centro le vendevano a ventiquattro-venticinquemila, ma dopo     neanche un paio di giorni la Giorgina gliela aveva soffiata,  mica che     la  Giorgina  lo  entusiasmasse ma si conoscevano da tanto tempo,  lui     l'aveva incontrata sotto i portici del Corso mentre  dalla  tasca  del     paltò gli usciva un piccolo valzer viennese proprio quelli che lui non     poteva  soffrire,  ma per pigrizia non aveva spento e allora lei aveva     detto "Fammi vedere, che bello, me lo regali?".  Che gliene fregava in     fondo a lui della radiolina? 
    Accese  la  quarta sigaretta,  ci sarebbe stato da finire un lavoro ma     non ne aveva la minima voglia,  dopo tutto non c'era  urgenza  bastava     presentarlo sabato e si era appena a martedì, poi quando gli veniva la     voglia  di  fare  l'amore  lavorare era molto difficile non che Dorigo     fosse un tipo molto sensuale e carico di virilità  eppure  ogni  tanto     all'improvviso  senza  apparenti  motivi  l'immaginazione si metteva a     lavorare e tutto il corso dei pensieri cambiava completamente.     Quando poi l'incontro con una ragazza era combinato,  il  corpo  tutto     cominciava ad aspettare, era uno stato doloroso ma insieme bellissimo,     difficile  da spiegare,  quasi la sensazione di essere una vittima che     si  offriva  interamente  al  sacrificio,  l'intero  corpo  nudo,  con     abbandono   e   rigurgito   di   struggenti  energie;   le  quali  gli     formicolavano in ogni parte delle membra e dei visceri e della  carne.     Una carica di forza tremenda,  tutt'altro che bestiale e cieca,  anzi,     lirica e piena di turpitudini oscure. 
    In queste ore Dorigo dimenticava perfino la propria faccia che gli era     sempre dispiaciuta,  ch'egli  aveva  sempre  giudicata  odiosa;  e  si     illudeva di poter essere perfino desiderato. 
    Nello  stesso  tempo  l'attesa della donna ("Sono Tonino,  buon giorno     sign..." "Ah,  è lei?  Quanto tempo che...") gli faceva smarrire  ogni     sicurezza in sé, ch'era così alta nel lavoro. Di fronte alla donna non     era più l'artista ormai quasi celebre,  citato internazionalmente,  il     geniale scenografo,  la personalità invidiata,  l'uomo  immediatamente     simpatico,  lui  stesso  si  meravigliava  di  riuscire simpatico così     subito  ma  con  le  donne  era  tutto  diverso,  egli  diventava  uno     qualunque,  scostante perfino, se ne era accorto un'infinità di volte,     le donne restavano intimidite e  più  lui  si  sforzava  di  mostrarsi     disinvolto  e  spiritoso,   più  era  peggio,  la  donna  lo  guardava     disorientata e quasi impaurita, ci voleva una grande confidenza perché     egli ritrovasse se stesso e si mostrasse naturale ma  per  arrivare  a     una vera confidenza ce ne occorreva del tempo,  gli inizi erano sempre     stentati e laboriosi,  come invidiava  Maronni  che  dopo  tre  parole     metteva  le  ragazze  a  loro  agio,  alle volte lo odiava perfino dal     dispetto,  con le donne i suoi prediletti  paradossi  erano  un  gioco     completamente  sbagliato,  se  ne  accorgeva benissimo,  invece di far     ridere   provocavano   disorientamento   e   disagio,   loro   avevano     l'impressione  che lui le prendesse in giro o le volesse snobbare.  Si     consolava un poco al  pensiero  che  a  lungo  andare  la  sua  classe     riusciva  quasi  sempre  a  salvarlo,  per  lo  meno a fargli fare una     discreta figura,  se non a piacere;  la donna infatti intuiva,  magari     odiandola,  la sua superiorità intellettuale, chiusa e orgogliosa, che     non  riusciva  a  concedersi  apertamente  eppure  come  egli  avrebbe     desiderato  invece  abbandonarsi  senza  riserve  gioiosamente come un     bambino nell'entusiasmo del gioco. 
    Che  ragazza  gli  avrebbe  preparato,  quel  pomeriggio,  la  signora     Ermelina? Si guardava bene da un eccessivo ottimismo, è così difficile     imbroccare  nel proprio tipo,  certo dalla signora Ermelina,  grazie a     Dio, c'erano sempre maschiette fresche, se non altro la giovinezza dei     corpi. 
    In fondo, pensava, se Ermelina gli avesse fatto venire la Britta,  non     sarebbe andata male.  Erano mesi che non faceva l'amore con la Britta.     La Britta non conosceva rilasciamenti sentimentali,  ma in  letto  non     faceva storie.  Quel corpo biondo,  sodo,  liscio,  elastico, senza un     pelo neppure all'inguine.  E sì che lui in genere  le  bionde  non  le     poteva  soffrire  neppure se false.  Ma la Britta aveva la compattezza     provocante di una  foca  giovanetta.  Quando  alzava  le  braccia,  le     ascelle si offrivano,  spalancati fiori, rosee, liscie, umide, tepide,     senza un'ombra,  un tenero rigonfiamento sporgeva perfino un poco,  da     tanta era la giovinezza. 
    Guardò  il  proprio  scrittoio  con sopra una confusione di libri,  di     fascicoli, di carte, i segni del lavoro. 
    Lavorava in pieno la città, a quell'ora, sopra, sotto e intorno a lui,     nella medesima casa uomini come lui lavoravano, e nella casa di fronte     lavoravano e nella casa vecchissima di via Foppa che si intravedeva in     uno squarcio tra le case, e dietro ancora, nelle case invisibili e più     in là,  più in  là,  nella  caligine,  per  chilometri  e  chilometri,     lavoravano.  Carte,  registri,  moduli,  telefonate,  quietanze,  mani     ingombre di penne,  di arnesi,  di matite,  intente a una vite,  a  un     incastro, a un'addizione, a un innesto, a una saldatura, a un estratto     conto,  a  un fissaggio,  sterminio di formiche frenetiche assetate di     benessere eppure i loro pensieri  oh,  gli  veniva  da  ridere,  tutto     intorno,  per  i chilometri e chilometri suddetti,  pensieri simili ai     suoi,  sconci e squisiti,  per la  misteriosa  voce  che  chiama  alla     propagazione  della  specie,  trasumanata  in vizi strani e brucianti,     perché mai nessuno aveva il coraggio di dirlo?  pensieri  di  lei,  di     lei,  di quella bocca speciale,  di quelle labbra fatte in certo modo,     di una prospettiva di muscoli tesi, ricordi?, morbidi e fluidi, in una     curvatura diversa da tutte le altre, di una piega, di una pienezza, di     una concavità, di un caldo,  di un umido,  di una cedevolezza,  di uno     sprofondamento,  di  un  abisso  cocente.  E  i  giornali parlavano di     irrigidimento sovietico,  interpellanze alla Camera per l'Alto  Adige,     assicurazioni di Nenni circa l'autonomia del PSI,  incendio del cinema     Fiamma,   crisi  della  giunta  regionale  siciliana,   che   pazzesca     buffonata. 
    Accese  la  quinta  sigaretta.   Era  in  piedi,  con  la  particolare     eccitazione che gli competeva,  a  lui  così  sensibile  e  apprensivo     ("Sono Tonino,  buongiorno sign..." "E lei?  Quanto tempo che..."). Ma     stava   bene,   nessuna   parte   del   corpo   gli   dava   fastidio.     Complessivamente tranquillo,  forte e sereno.  Era infatti una mattina     come tante altre. Il cielo, fuori, si manteneva grigio e uniforme.  Ma     lui si sentiva bene. 
    Le  prossime  ore  non  gli  pesavano  né gli facevano paura di nessun     genere i giorni successivi.  Né il grande futuro.  Il telefono taceva.     Dorigo era tranquillo, le cose gli andavano. Vestito di un completo di     grisaille,  camicia  bianca,  cravatta  in  tinta unita rosso magenta,     calze pure rosse, scarpe nere lavorate, quasi che. 
    Quasi che tutto dovesse continuare come era  continuato  fino  allora,     fino a quel giorno di febbraio, che era un martedì e portava il numero     9.  Tutto  sicuro  e  propizio  per  un borghese nel pieno della vita,     intelligente, corrotto, ricco e fortunato. 
    2. 
    La signora Ermelina stava al sesto piano  di  una  grande  casa  nelle     vicinanze di piazza Missori. L'ascensore era di quelli che la porta si     apre automaticamente da sola ma alle volte si chiude inaspettatamente.     Una volta Dorigo ci era rimasto preso dentro,  per un istante la paura     di venir schiacciato come una noce,  ma in realtà la  pressione  delle     due valve non era eccessiva. 
    Sulla  porta  non  c'era  la  targhetta col nome.  Il grande corridoio     pavimentato di marmo era deserto.  Ma non si poteva sbagliare la porta     appunto  per  la  mancanza  della  targhetta,  tutte  le  altre invece     l'avevano. 
    C'era la vaga impazienza,  se non  l'emozione,  di  questi  casi.  Che     ragazza  sarebbe  stata?  Era la cosa più facile del mondo - Dorigo lo     sapeva - demolire il costrutto di incontri del genere.  Che gusto  c'è     ad  avere  una  donna  quando  si  sa che lei lo fa esclusivamente per     soldi?   Che  soddisfazione  poteva  avere  l'uomo,   a  parte  quella     esclusivamente  fisica,  così  rapida e in fondo così discutibile?  La     vecchia obiezione. 
    Eppure la soddisfazione c'era. E grandissima. Quasi inverosimile anzi.     Non già per gli esercizi carnali,  più o  meno  raffinati.  Era  tutto     quello che li precedeva a rendere la cosa stupenda. 
    La  signora  Ermelina  immediatamente  aprì.  Era emiliana,  cordiale,     bonaria, ancora una bella donna, di stampo familiare,  senza niente di     equivoco.  A sentirla parlare si sarebbe detto che facesse la ruffiana     solo per aiutare quelle povere ragazzine. 
    Lui non aveva fatto in tempo a entrare che  lei  gli  sussurrava,  con     quell'aria di complicità: 
    "Vedrà  che  bambina,   vedrà  (abbassò  ancora  più  la  voce)...  Mi     raccomando sa,  è minorenne...  una  ballerina,  una  ballerina  della 
    Scala." 
    E intanto lo introduceva nel salotto. 
    Che  cosa  meravigliosa  la  prostituzione,  pensava Dorigo.  Crudele,     spietata,  quante ne restavano distrutte.  Però che  meravigliosa.  Si     stentava  a  credere che possibilità del genere potessero esistere nel     mondo d'oggi, così regolamentato e squallido.  Il sogno realizzato,  a     un colpo di bacchetta magica, per ventimila lire. 
    Per  ventimila  lire,  anche per meno spesso,  avere subito,  senza la     minima difficolta e pericolo,  delle figliole stupende che nella  vita     solita,  fuori del gioco,  sarebbero costate una quantità di tempo, di     fatiche,  di soldi e poi magari al momento buono capaci di bruciare il     paglione.  Mentre qui!  Una telefonata. Un breve percorso in macchina,     sei piani di ascensore,  ed ecco già la ninfetta stava togliendosi  il     reggipetto, sorridendo. 
    C'era  del  male nel fare questo?  Non mancavano a Dorigo gli scrupoli     morali.  Ma per quanto ci avesse pensato a lungo non  era  riuscito  a     trovare il punto debole.  Se tutti facessero come me, sarebbe peggio o     meglio? si chiedeva. E non vedeva il possibile danno. 
    Eppure,  c'era dentro qualcosa di turpe.  La  prostituzione  forse  lo     attraeva proprio per la sua crudele e vergognosa assurdità.  La donna,     forse a motivo dell'educazione familiare,  gli era  parsa  sempre  una     creatura  straniera,  con  una  donna non era mai riuscito ad avere la     confidenza che aveva con gli amici.  La donna era sempre  per  lui  la     creatura  di  un  altro  mondo,  vagamente  superiore e indecifrabile.     All'idea  che  una  giovanetta   di   diciott'anni,   per   guadagnare     quindicimila lire,  andasse in letto, senza preamboli di sorta, con un     uomo mai visto né conosciuto,  e si lasciasse godere  l'intero  corpo,     partecipando anzi con slanci lussuriosi più o meno simulati,  a questa     idea Dorigo provava un moto di incredulità e di rivolta.  Come  se  ci     fosse dentro qualcosa di completamente sbagliato. 
    Da questo pensiero aspro e dolente, da questa incapacità di ammettere,     nasceva  però  il desiderio.  Una donna per bene,  che fosse andata in     letto  con  lui  per  amore  disinteressato,   gli  sarebbe   piaciuta     infinitamente meno. 
    Sadismo  forse?  Il  perverso  compiacimento di vedere una cosa bella,     giovane e pulita, assoggettarsi come schiava alle pratiche più sconce?     L'assaporare lo spasimo dell'umiliazione corporale di cui  la  ragazza     certamente non è consapevole, anzi lei quasi se la spassa e si diverte     e  ride  ma  nel fondo del suo animo qualcosa intanto si contorce e si     ribella e vomita ma lei ride,  fa i giochetti,  arrovescia indietro la     testa.  gli  occhi  chiusi,  la  boccuccia  anelante,  come  fosse  in     paradiso? 
    Ma soprattutto  c'era  forse  in  questo  suo  sentimento  la  traccia     incancellabile  dell'educazione avuta: cattolica,  severamente avversa     ai fatti sessuali.  Per cui fra lui e le  donne  giovani  c'era  stata     sempre  una  barriera,  e le donne erano qualcosa di illecito e l'atto     carnale una specie di mito.  Di qui la sensazione che  per  una  donna     l'andare  in  letto  con un uomo fosse un episodio importantissimo che     coinvolgeva per così dire,  sia pure per pochi  minuti,  l'intera  sua     vita. E il constatare poi che ciò non doveva essere vero, che migliaia     di  donne erano disposte a praticare,  per un esiguo compenso,  maschi     sconosciuti,  e l'averle lui stesso frequentate per decenni,  non  era     servito a distruggere quell'idea.  Ogni volta, quando la prostituta si     spogliava nuda dinanzi a lui,  gli pareva un fatto quasi inverosimile,     stupendo, paragonabile a una fiaba. 
    Così,  ogni  volta  che  andava agli appuntamenti dalla ruffiana (e lo     stesso  gli  accadeva  una  volta  quando  erano  aperti  i   pubblici     postriboli) non si sarebbe affatto meravigliato se gli avessero detto:     "Ma è pazzo, signore? cosa le salta in mente? Una ragazza a pagamento?     Pensa  forse di essere ancora ai tempi di Eliogabalo?  Sa che lei è un     bel tipo". 
    E invece ogni volta il miracolo si avverava.  Una ragazza magnifica  -     non  sempre  purtroppo  ma  dalla  signora  Ermelina  di  racchie  era     difficile trovarne - una stupenda creatura,  una di quelle  che  fanno     voltare  tutti per la strada,  si spogliava dinanzi a lui dieci minuti     dopo la presentazione e lui poteva baciarla  e  stringerla  a  goderne     ogni risorsa carnale. Tutto per misere ventimila ire. 
    In  questi  momenti  lui  cercava  di  indovinare  che cosa lei stesse     pensando. Schifo? Rassegnazione?  Il senso della degradazione?  Niente     di  tutto  questo,  a giudicare dal loro contegno.  Le ragazze agivano     come se fosse la cosa più semplice e naturale di questo mondo.  Magari     col  non abbastanza dissimulato desiderio di far presto.  Ma senza mai     il più vago sintomo di sacrificio o avversione. 
    Ed erano tante, queste ragazze, e di così varia origine,  educazione e     livello  sociale  che  era legittimo pensare la prostituzione fosse un     atteggiamento normale di tutte le donne, solo che in certi ambienti, a     motivo di una rigorosa  disciplina  contro  natura,  questa  istintiva     propensione fosse coartata e spenta: pronta tuttavia a ridestarsi se i     casi della vita avessero offerto l'occasione. 
    La ragazza, la ballerina della Scala, aspettava già in salotto. 
    3. 
    Nel  salotto,  per  così  dire,  c'era un divano ad angolo,  un tavolo     rotondo,  un altro divano lungo,  un armadietto,  un armadio  a  muro.     Mobili cosiddetti moderni,  tipo Svezia,  abbastanza semplici, un vago     senso di pulizia.  Stupiva  la  presenza,  sui  muri,  di  due  grandi     riproduzioni  di  Breughel  il  vecchio: le famose scene di contadini. 
    Chissà come erano capitate là, o erano state scelte. 
    Era là seduta sul  divano  lungo.  Lui  ne  ebbe  al  primo  sguardo     un'impressione gradevole però niente di straordinario. 
    Un  faccino pallido,  reso arguto dal naso dritto e prominente,  dalla     bocca piccola, dagli occhi tondi e attoniti. C'era qualcosa di fresco,     di popolaresco, ma non volgare. 
    Guardò, cercando di misurare il piacere che ne sarebbe presto seguito.     Si accorse che l'ovale del volto  era  bellissimo,  puro,  benché  non     avesse niente di classico. 
    Ma  soprattutto colpivano i capelli neri,  lunghi,  sciolti giù per le     spalle.  La bocca formava,  muovendosi,  delle  graziose  pieghe.  Una     bambina. 
    La  bocca  aveva  labbra sottili ma rilevate non apertamente sensuali,     però maliziose. Il labbro inferiore, relativamente,  sporgeva un poco,     tanto  più che il mento era piccolo,  stretto e di profilo rientrante. 
    Non aveva rossetto. 
    La bocca era ferma e tesa,  molto piccola in proporzione alla  faccia,     ma  importante.  Tutta  la faccia era compatta per la tensione estrema     della giovinezza. Era una faccia decisa,  spiritosa,  ingenua,  furba,     pulita,  provocante.  Lui  si  ricordò  di una Madonna di Antonello da     Messina.  Il taglio del volto e la bocca erano  identici.  La  Madonna     aveva più dolcezza, certo. Ma lo stesso stampo netto e genuino.     In questi approcci Dorigo era sempre imbarazzato.  Il giudizio segreto     di lei lo atterriva. Sapeva di non essere bello.  Anzi.  La sua faccia     gli aveva sempre procurato dispiacere.  Ancora da ragazzino,  passando     davanti alle vetrine dei negozi,  gli capitava di guardarsi,  trovando     sul  vetro  la propria immagine.  Ogni volta era una umiliazione.  Che     faccia odiosa,  che faccia da cretino,  a che donna sarebbe mai potuto     piacere? 
    "Come  si  chiama?"  Da  principio  non  riusciva a far meno del "lei"     benché capisse la stupidità della finzione. 
    "Laide." 
    "Laide? che nome curioso." 
    "Laide, diminutivo di Adelaide, no?" 
    Ecco lui, Dorigo, era seduto sul divano,  aveva acceso una sigaretta e     intimidito come al solito per la presenza nuova osservava la ragazzina     che  stava  per  essergli  venduta.  Fra  pochi minuti quella creatura     fresca e graziosa, di cui aveva sempre ignorato l'esistenza, che aveva     dietro a sé una famiglia, un'infanzia, una giovinezza, un mondo intero     popolato  da  una  infinità  di  personaggi,   fatto  di  un   tessuto     complicatissimo di ricordi,  di abitudini, di conoscenze, di speranze,     di particolarità fisiche,  di giorni lieti e  di  ore  tristi,  a  lui     completamente  ignoti,  quella creatura tanto più giovane di lui,  fra     pochi minuti egli la avrebbe avuta nuda fra le  braccia,  distesa  sul     letto,  e  anche  lui  nudo.  E  tutto  sarebbe stato come se loro due     fossero marito e  moglie,  o  si  fossero  prima  lungamente  amati  o     frequentati,  o  per lo meno ci fosse stata una preparazione logica di     conoscenza, di inviti, di promesse, di lusinghe, di inganni, forse.  E     invece  non  si  erano  mai  visti,  lui  non  sapeva  niente di lei e     viceversa,  eppure fra pochi minuti lei avrebbe accolto in sé  la  sua     carne.  Per  quanto Dorigo non fosse più un bambino,  tutto questo gli     riusciva inverosimile e in certo senso spaventoso. 
    Ma nei casini d'una volta,  che Antonio aveva volentieri  frequentato,     non succedeva lo stesso?  No,  Dorigo non riusciva a spiegarselo bene,     ma era una cosa diversa. 
    Forse per la sanzione legale che faceva di quelle donne una  categoria     a  parte,  quasi come una milizia o un ordine religioso.  Consideriamo     forse uomini come noi i carabinieri o  i  preti?  Migliori  forse,  ma     appartenenti a un altro mondo.  Consideriamo donne le suore? No. Sante     creature, però di un'altra razza.  Altrettanto per le donne di casino.     Potevano essere giovanissime e di bellezza meravigliosa,  il fatto non     era raro,  tuttavia si aveva la sensazione che tra loro e noi ci fosse     una  barriera invalicabile: tanto possono l'abitudine,  i pregiudizi e     l'autorità della legge. 
    Forse era anche perché  le  ragazze  dei  postriboli  si  presentavano     pressoché nude,  in ridicole, ampollose e retoriche vesti in genere di     orribile gusto,  che lasciavano scoperti gambe e seni.  Per  cui  ogni     incognita era abolita in partenza. Una uniforme vera e propria che non     aveva  nulla  a  che  fare  con  gli  abiti  da sera,  pur simulandone     l'aspetto.  E anche questo contribuiva a farne  una  categoria  a  sé,     completamente separata dal restante genere umano. 
    Forse era anche perché, loro stesse, le ragazze delle case chiuse, non     facevano nulla per sembrare ragazze come tutte le altre. Recitavano la     parte  senza  alcuna  concessione  sentimentale.  Gentili sì,  spesso,     magari anche affettuose,  ma una ermetica  barriera  le  separava  dal     cliente.  Fra i due - salvo eccezioni in cui si rompeva il burocratico     incanto,  e allora erano guai - non c'era che un  rapporto  corporale.     Ogni altro interesse restava escluso.  Se l'uomo, incuriosito chiedeva     notizie sulla sua vita privata, non ne aveva che vaghe e convenzionali     informazioni. 
    In quanto a lei,  era buona regola che  non  fosse  curiosa:  chi  era     cliente? che mestiere faceva? aveva famiglia? era ricco?     Queste  notizie,   così  importanti  in  qualsiasi  normale  relazione     amorosa,  non facevano parte del gioco.  E tutti e  due  stavano  alla     norma,  e  non  facevano  niente per violarla.  Oltre a tutto,  questo     reciproco  disinteresse  facilitava  la  cosa  e   la   rendeva   meno     impegnativa. 
    Con  queste ragazze invece,  che si vendevano tali e quali come quelle     ma in circostanze,  ambiente e modi  completamente  diversi,  era  una     tutt'altra situazione.  Esse non differivano per nulla da quelle della     vita  normale  per  il   semplice   motivo   che   vi   appartenevano.     Esteriormente  non avevano nulla di diverso dalle donne che l'uomo per     bene frequenta abitualmente, a casa e fuori.  Il medesimo aspetto,  le     medesime abitudini, spesso il medesimo linguaggio. Loro stesse avevano     spesso  padri,  fratelli e fidanzati che non differivano per nulla dai     clienti.  Non c'era  barriera  di  separazione,  non  appartenevano  a     un'altra  razza,  magari la sera prima erano state ospiti di un'ottima     famiglia che lui stesso frequentava abitualmente. 
    Perciò la prostituzione assumeva qui un aspetto conturbante,  in certo     senso illogico e di ben maggiore attrazione. Perciò ogni volta Antonio     aveva la sensazione di varcare un confine vietato; le regole entro cui     era  sempre  vissuto,  per le quali la donna era un frutto proibito da     conquistare con lunghissime e spesso vane fatiche,  miracolosamente si     rompevano,  per compiacere alla sua lussuria. Certo, queste ragazzine-     squillo erano delle  rozze  principianti  al  paragone  delle  esperte     professioniste,  rotte alle più depravate fantasie.  In compenso, però     c'era il mistero. 



    4. 
    A questo punto la signora Ermelina chiese: "Le fa niente, dottore,  se     proviamo un abito?" 
    "S'immagini."  Dorigo  sapeva  che la Ermelina,  per mascherare il suo     lavoro di ruffiana,  diceva di tenere una "boutique".  Nella camera da     letto  c'era infatti,  su tutta una parete,  un armadio a muro,  pieno     probabilmente di vestiti. 
    Del  resto  quel  diversivo   semplificava   le   ipocrite   cerimonie     dell'attesa.  Per  una  convenzione di decenza,  ogni volta l'andata a     letto era preceduta da un quarto d'ora di chiacchiere sul  più  e  sul     meno, in tono di allegria forzata. Dopodiché, esauriti gli argomenti a     portata di mano,  si faceva un imbarazzato silenzio. Finché la signora     Ermelina: "Su,  da bravi volete andare di  là?".  Quando  non  era  la     stessa  ragazza  a  prendere  per  mano  lui,  invitandolo ad alzarsi;     simulazione di desiderio che aveva sempre un certo effetto.     La signora Ermelina portò un vestito di grossa maglia di lana,  colore     caffelatte. "Questo sì tiene caldo." 
    Senza  la  più lontana ombra di imbarazzo,  Laide si sfilò il pullover     grigio e la gonna pieghettata a disegno scozzese. 
    Rimase in sottoveste nera. Antonio notò le gambe. Erano snelle, forti,     sode,  i polpacci sviluppati ma ancora da bimba,  senza quel blocco di     muscoli sporgenti che hanno quasi tutte le ballerine. 
    Lo colpì anche la rotondità compatta delle braccia,  così rara. In cui     c'erano  un  naturale  vigore  popolaresco  e  insieme  una  innocenza     infantile.  Mentre  lei  le  sollevava  per  infilarsi  dalla testa il     vestito,  egli vide che le ascelle non  erano  rase:  strano,  in  una     ballerina. 
    "Sembra  fatto  su  misura"  disse la signora Ermelina.  Senza parlare     Laide si avvicinò a uno specchio appeso a una  parete.  E  alzando  le     braccia si sistemò i lunghi capelli, rimasti impigliati nel vestito.     Mentre teneva le braccia così alzate,  e gli voltava la schiena,  girò     la testa,  guardando Antonio,  con un piccolo  sorriso  malizioso.  Si     rendeva forse conto di essere,  in quella posa,  molto bella? Se n'era     accorta da sola, con la fulminea intuizione delle donne,  esaminandosi     allo specchio? O qualcuno glielo aveva insegnato? 
    Così girato, il volto si presentava di fronte, nel suo taglio genuino,     con una proterva sicurezza di sé,  come a dire: mi vedi? vero che sono     diversa dalle altre?  vero  che  ti  piaccio?  Però  senza  civetteria     lasciva.  Le  bambine  fanno  così,  guardando  la mamma,  il papà,  i     fratelli, quando le vestono per la prima comunione. 
    Ma in quel preciso momento ci fu nelle profondità di lui  uno  scatto,     una specie di misterioso rintocco, come quando in una grande solitaria     campagna  si  sente  una voce lontanissima che chiama.  Egli certo non     poteva assolutamente capire cosa stava accadendo in quell'attimo,  non     poteva sospettarne l'importanza. All'improvviso, in uno di quei baleni     per cui di colpo si rivelano le oscure impronte dei giorni perduti, si     ricordò di avere già vista quella ragazza. 
    Esisteva in corso Garibaldi,  a Milano,  un gruppo di vecchissime case     addossate le une alle altre in un groviglio di muri,  di  balconi,  di     tetti,  di comignoli.  Dove lo spirito della città antica,  non quella     dei signori ma quella  dei  poveri,  sopravviveva  con  una  singolare     potenza.  Pezzo  a  pezzo,  la  vecchia  Milano  era  stata distrutta.     Risparmiati soltanto i solenni palazzi, simili,  in fondo,  ai palazzi     di tutte le altre città di ogni paese: esprimendo,  non importa in che     stile,  gli orgogli e le vanità della medesima specie umana.  Mentre è     proprio  nelle  abitazioni  dei poveri diavoli che viene fuori l'animo     genuino del popolo.  Ma i bestiali non capiscono queste cose e con  il     peso  dei miliardi spianano i sozzi e polverosi quartieri dei millenni     a scopo di lucro. 
    In corso Garibaldi però durava  ancora  ostinata,  pur  sbrecciata  ai     margini dal piccone,  un'isola ancora intatta. E fra il numero 72 e il     74 c'era un passaggio sormontato da un arco,  una specie di porta  che     immetteva  in  uno  stretto  e  breve vicolo.  C'era anzi una targa in     pietra su cui era scritto: Vicolo del Fossetto. 
    E' così angusto l'ingresso della minuscola strada che  la  maggioranza     dei passanti non se n'accorge nemmeno.  Ma,  dopo otto nove metri,  il     vicolo si allarga in una specie di  piazzetta  contornata  da  edifici     decrepiti.  E' un angolo dimenticato,  un labirinto di viuzze, anditi,     sottopassaggi,  piazzuole,  scale e scalette dove si annida ancora una     densa vita. Lo chiamano chissà perché, la Storta. 
    Chi ci vive? Che cosa vi succede di notte? E' un ghetto di miserabili?     E' un covo della malavita o del vizio?  I budelli che intersecano quel     viluppo di case in genere non portano nome.  La luce,  di sera,  viene     soltanto dalle stranite lampadine giallastre che illuminano fiocamente     gli androni d'ingresso.  Suoni di radio, richiami, echi d'alterchi, un     cane che abbaia. E poi il silenzio. 
    Qualche mese prima,  doveva essere settembre o ottobre,  una sera  che     già  erano  accese le luci,  lui,  Antonio passava a piedi appunto per     corso Garibaldi di ritorno dal suo studio,  per tornarsene a casa,  in     piazza  Castello.  Passato il largo della Foppa,  verso il centro,  la     strada assume una grande intensità di  Milano.  Le  case  per  lo  più     vecchie  o vecchissime,  da una parte e dall'altra.  I negozi uno dopo     l'altro. Anditi bui che si ingolfano verso tetri e strani cortili.  Ma     i   marciapiedi   formicolano   di   gente   e  non  è  quel  fermento     incomprensibile,  squallido e quasi disperato che alla sera si espande     per  esempio  in certi quartieri di Napoli,  è una animazione piena di     vita, popolaresca, gaia,  non miseria,  attesa e abbandono,  fretta se     mai, preoccupazione di non arrivare in tempo. E le facce - sarà magari     un'impressione  -  sembrano meno tirate,  ansiose e atone che in tante     altre contrade della città, anche più centrali, ricche e moderne.     A un tratto Antonio  si  accorse  che  dinanzi  a  lui  camminava  una     ragazza.   Indossava  un  abito  color  lillà-cenere  con  profilature     bianche,  di tessuto a "pied-de-poule",  un corpetto tipo bolero della     stessa stoffa,  molto stretto in vita, la sottana gonfia e corta, come 
    si usava.  Il braccio destro teso in giù a sostenere una grossa  borsa     di pelle,  camminava a passi decisi, imperiosi, quasi arroganti, senza     muovere le anche,  con un portamento bellissimo e  orgoglioso  di  sé,     facendo battere, con un autoritario a piombo, i tacchi alti e sottili.     Nel moto le giovanissime gambe avevano un rapido guizzo interno, dalla     caviglia,  su  per  la  svasatura  dei  polpacci,  e  oltre,  lungo la     emozionante progressione muscolare che si perdeva nella gonna.     Come quasi tutte le donne,  sebbene l'illuminazione interna  impedisse     un nitido riflesso,  la ragazza volgeva spesso la faccia alle vetrine,     a specchiarsi. Ma rapidamente, senza una precisa intenzione;  come per     una  abitudine  divenuta  istinto.  Antonio così poteva intravedere il     tipo. 
    Lo scorcio della  guancia  disegnato  senza  un  pentimento,  il  naso     diritto  e  sporgente  con  espressione  curiosa,  i  capelli lunghi e     nerissimi tesi all'indietro e raccolti  in  un  compatto  chignon.  La     bocca  non  riusciva  a vederla,  ma la poteva prevedere data la linea     affilata del mento. Doveva essere piccola, ferma e presuntuosa.     Una ragazzina del popolo,  una di quelle personalità fisiche  definite     fino  in  fondo,  non  vistose,  di  cui  ci si accorge a poco a poco,     scoprendovi una assoluta eleganza naturale. Avrà avuto diciott'anni. A     parte i fuggevoli sguardi alle vetrine,  procedeva  tenendo  la  testa     dritta e ferma,  come se guardasse diritto dinanzi a sé, senza neppure     vedere coloro che le venivano incontro. Antonio rallentò il passo, per     poter continuare a seguirla.  Dai lontani tempi di quand'era studente,     non  aveva mai pedinato o fermato donne per la strada,  e anche allora     raramente,  quattro o cinque volte in tutto: non già  perché  non  gli     sarebbe  piaciuto  farlo,  ma per una timidezza invincibile,  convinto     com'era che non sarebbe potuto piacere.  Le pochissime esperienze  del     genere  fatte  da ragazzo erano state del resto infelici.  Proprio per     quel complesso di inferiorità,  Antonio,  che in compagnia degli amici     sapeva essere spiritoso e "degagé", nell'abbordare una donna diventava     un perfetto cretino, non trovava le parole, balbettava, e la sua voce,     per  l'imbarazzo,  prendeva  un  tono falso,  duro,  scostante.  Se ne     accorgeva benissimo,  mentre le parole gli uscivano dalle  labbra,  ma     era più forte di lui. 
    Neppure   stavolta   egli  pensò  vagamente  alla  possibilità  di  un     abbordaggio.  Era evidente che  la  ragazza  apparteneva  a  un  mondo     completamente  diverso  dal suo.  Questo moltiplicava l'interesse,  ma     creava anche difficoltà insormontabili.  Che cosa  poteva  dirle?  Che     cosa  poteva  offrirle?  Come avrebbe potuto attirare la sua simpatia?     Certo, quel giovane fusto di commessa,  o modella,  o indossatrice,  o     puttanella  -  chissà  che  mestiere faceva - gli piaceva enormemente.     C'era poi la differenza dell'età,  un handicap di cui da qualche tempo     sentiva dolorosamente il peso. 
    Niente da fare dunque.  Fra poco la avrebbe vista sparire, in una casa     o in un negozio, o in un tram; e non la avrebbe incontrata mai più.     Difatti la giovane si infilò nel vicolo fra il numero 72 e  il  numero     74.  Prima  di  scomparire - tuttavia - lei si voltò improvvisamente a     guardarsi indietro.  In quel punto la luce era poca,  ma Antonio  poté     vedere la faccia.  Pallida,  asciutta,  infantile, gli occhi rotondi e     attoniti. Gli sembrò bellissima, un tipo un po' da spagnola.     Per un attimo i loro sguardi si  incontrarono.  Per  una  frazione  di     secondo si agganciarono l'uno all'altro. Egli avrebbe voluto salutare,     o  per lo meno sorridere.  Non ne trovò il coraggio.  L'espressione di     lei, nel guardare l'uomo, era di indifferenza assoluta.  Poi,  col suo     passo imperterrito avanzò nell'andito buio. 
    Andarle  ancora  dietro?  Antonio  si  fermò  all'imbocco  del  vicolo     fissando la svelta silhouette che si allontanava controluce perché  in     fondo c'era un cortiletto o uno slargo abbastanza illuminato. 
    Solo dopo che la sconosciuta ragazza fu scomparsa laggiù,  Antonio osò     entrare anche lui.  Al  termine  del  breve  budello  si  trovò  nella     minuscola  piazza  che  si è detta.  Da cui si irraggiavano fra casa e     casa, altre stradicciole e cunicoli.  Gli passò accanto un garzone con     un vassoio pieno di paste.  Una donna anziana, affacciatasi a chiudere     le imposte di una finestra  al  piano  rialzato,  guardò  Antonio  con     curiosità. Anche tre bambini che stavano giocando alle biglie sotto un     lampione, si voltarono ad osservarlo. Dall'intrico delle case intorno,     tutte a ballatoi paralleli,  venivano voci, rumori e suoni. Si sentiva     un martello battere su qualcosa di metallico.  Un odore di  zuppa  con     aglio, appetitosissima. 
    Era come un piccolo paese incistato fra lo schieramento delle case. Un     pezzo di Milano imprevedibile, di cui non aveva mai sentito parlare. A     parte  le  luci elettriche,  e una Vespa lasciata dinanzi a una porta,     tutto era come un secolo, due secoli prima. 
    Antonio avrebbe voluto esplorare i vicoli  circostanti;  fin  dove  si     estendeva  quella  cittadella  segreta?  C'erano  altre piazzette?  Si     poteva uscire dall'altra parte,  in via  Statuto  o  in  via  Palermo? 
    Avrebbe potuto anche incontrare di nuovo la ragazza. 
    Ma fu vigliacco come al solito. Si sentiva straniero. In fin dei conti     si  trovava  in  casa  d'altri.  Anche  l'angusta piazza doveva essere     proprietà privata.  Se qualcuno gli avesse chiesto perché era entrato,     che cosa avrebbe potuto rispondere? 
    Se  ne  andò,  accendendo  una sigaretta,  rassegnato.  Chissà dove la     piccola spagnola era andata a ficcarsi! Abitava forse lì? O era andata     a trovare un'amica?  O era  andata  a  un  convegno?  Non  la  avrebbe     incontrata mai più. 
    Eppure,  per  una  di  quelle  intuizioni  dell'animo,  apparentemente     assurde, che magari al momento non ci si bada ma rimangono dentro, per     poi ridestarsi a distanza di mesi e di anni,  quando il meccanismo del     destino   scatterà,   Antonio   ebbe   un   presentimento:   come   se     quell'incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere     rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame  che     non  si  sarebbe  spezzato  mai  più,  a loro stessa insaputa.  Già in     passato,  più di una volta,  aveva constatato la  incredibile  potenza     dell'amore,  capace  di  riannodare,  con infinita sagacia e pazienza,     attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili     che si erano persi nella confusione della vita,  da un capo  all'altro     del mondo. 
    Ma poi i giorni,  il lavoro,  i viaggi, la gente. Antonio non ci aveva     pensato più,  la  conturbante  figuretta  dimenticata  e  sepolta  nei     profondi sotterranei della memoria. 



    5. 
    Ma  quando,   nel  salotto  compiacente  della  signora  Ermelina,  la     minorenne,  con le braccia nude levate a manici d'anfora,  si voltò  a     sorridergli,  di colpo affiorò il ricordo di quella sera di settembre,     o ottobre, in corso Garibaldi. 
    Non poteva dire che fosse lei.. La ragazza di corso Garibaldi,  almeno 
    nel  ricordo,  era forse più bella,  però c'era una strana identità di     tipo umano. Certo, questa Laide non aveva lo stesso mistero.     Oppure la violenta attrazione esercitata su di lui da quella dipendeva     dal fatto che in quel momento,  in quel posto,  lei era  una  creatura     irraggiungibile   mentre   questa   era   a   sua  facile  e  completa     disposizione?  Forse era soltanto la diversa  situazione  a  fargliele     apparire diverse, mentre in realtà erano la stessa persona?     Intanto  Laide,  soddisfatta  della  prova,  si  era  sfilato l'abito,     rimanendo di nuovo in sottoveste. 
    "Non vorrai mica  rivestirti  adesso!"  disse  la  Ermelina,  ridendo,     perché la ragazza aveva raccolto la sua gonna dal divano "Figlioli, di     là tutto è pronto." 
    Era una delle formule sacramentali.  Preceduto da Laide, Antonio passò     nella camera da letto. 
    Senonché,  sulla soglia,  mentre la ragazza era già entrata,  Ermelina     fece un cenno all'uomo,  richiamandolo indietro.  E gli sussurrò in un     orecchio: 
    "Guardi che è un tipetto strano,  sa?  Le piace..." e  fece  un  gesto 
    "Glielo dico perché si sappia regolare." 
    "Ah, benissimo" rispose lui, pur non avendo capito. 
    Il  letto  era  fatto,  sopra  era  steso un rivestimento di cretonne.     Evidentemente  la  padrona  calcolava  che  si  facesse  l'amore  allo     scoperto.  Ma  la  stanza  era tutt'altro che calda.  Antonio tolse la     copertura e appena fu spogliato  si  infilò  sotto  le  lenzuola.  Lei     intanto era di là nel bagno a lavarsi. 
    Erano  forse il momento migliore quei cinque minuti d'attesa in letto,     mentre la ragazza,  di là,  preparava convenientemente il  suo  corpo.     L'immaginazione,   con   la  certezza  di  un  prossimo  incontrastato     esaudimento,  sviluppava le più eccitanti  e  lussuriose  ipotesi  che     naturalmente  sarebbero  state  poi  deluse  per  almeno l'ottanta per     cento. 
    Lei ricomparve ancora in sottoveste. "Ciao" disse entrando. E poi, con     un certo stupore: "Ti sei messo sotto?". 
    "Cara mia, non è mica caldo, qui." 
    "Sì, tanto caldo non fa." 
    Con la stessa disinvoltura che  se  fosse  stata  sola  in  un  locale     ermeticamente  chiuso,  senza la minima simulazione di pudore,  mentre     lui la esaminava pregustandola, si tolse la sottoveste,  poi le calze.     Sotto, portava delle mutandine viola e una "guèpière", di un viola più     chiaro con liste verticali nere,  piuttosto ricercata.  La Ermelina ci     teneva che le ragazze  della  sua  scuderia  curassero  la  biancheria     intima. Questo era l'importante, con una clientela scelta come la sua. 
    Se poi i vestiti e i cappotti erano strapelati, poco male.     La  testa  reclinata,  le labbra contratte nello sforzo,  Laide aprì i     ganci  della  guepière,  sulla  schiena.  Poi  la  schiuse,  come  una     conchiglia. Restò nuda. 
    Era il classico corpo della ballerina,  snella,  le anche strette,  le     cosce lunghe e slanciate,  i seni  piccoli  da  bambina.  Sembrava  un     disegno di Degas.     Fece una corsa verso il letto. 
    "Hai  ragione  tu,  che freddo" e si infilò ridendo sotto le lenzuola,     fra le braccia di lui. 
    Lui subito la baciò sulla bocca. Lei ci stava,  con apparente piacere,     infilandogli fra le labbra la lingua, senza intemperanze oscene, però,     anzi con un certo ritegno quasi casto. 
    Poi  Antonio  rialzò  il  capo  a  guardarla.  Quel  faccino allegro e     infantile sotto di lui, fra il nero dei lunghi capelli sparsi.  Pareva     trovarsi a suo agio.     "E' vero che sei ballerina?" 
    "Sì." 
    "E  dove  lavori?"  le  chiese,  facendo finta che Ermelina non glielo     avesse detto. 
    "In un teatro dove vai anche tu." 
    Cosa voleva  dire?  aveva  saputo  chi  era  Antonio,  che  faceva  lo     scenografo?  O alludeva genericamente alla categoria sociale,  come se     tutti i borghesi di una certa classe dovessero  tutti  frequentare  la     Scala? 
    "Ci vado come?" 
    "Un teatro dove vai anche tu." 
    "Sei ballerina della Scala?" 
    Col  capo  lei  fece  cenno  di  sì.  Una  confessione  che la rendeva     soddisfatta. 
    "Complimenti. Verrò ad applaudirti." 
    "Grazie." 
    "E scusa, come mai non hai le ascelle depilate?" 
    "Taci, che devo andare dall'estetista."     "Ma alla Scala, per ballare come fai?" 
    "Per quello,  ci sono delle specie di coppette  che  si  mettono  alle     ascelle, e così, ballando, non si vedono i peli." 
    Fece  una piccola smorfia arricciando il labbro superiore,  come fanno     le bambine un po' civette, quando vogliono farsi perdonare,     Lui:  "Di',  come  ti  chiami?  Laide?  Senti  una  cosa.  Cavami  una     curiosità. Per caso, abiti in corso Garibaldi?" 
    "Io?" fece una smorfia di stupore "Neanche per idea. Perché?" 
    "Niente. Perché ti ho visto in corso Garibaldi." 
    "Io in corso Garibaldi?" cadeva dalle nuvole. "Quando?" 
    "Di  preciso  non ricordo,  ma saranno tre quattro mesi.  Era di sera. 
    Verso settembre ottobre." "Se saranno due anni che non passo da  corso 
    Garibaldi!" 
    "Sei  entrata  in  una  specie  di  vicolo  che mena in quel quartiere     interno, quello che chiamano la Storta." 
    "Io alla Storta?" diceva "Stovta", con un grazioso erre. "In bei posti     mi fai andare! Mai stata alla Storta in vita mia, grazie al Cielo." 
    "Perché? Che c'è di male?" 
    "Guarda. Alla Storta non ci sono altro che puttane.  Ladri,  checche e     ruffi." 
    "Ruffi, come?" 
    "Ruffiani, no? Magnaccia." 
    "Ma scusa, cosa ne sai tu?" 
    "Lo sanno tutti, no? Perché? Tu, cosa credevi?" 
    "Io, niente. Non sapevo neanche che esistesse." 
    "Be',  guarda  che  da  quelle parti non ci metto piede,  io" sembrava     risentita. 
    "Cosa vuoi che ti dica? Mi pareva di averti vista." 
    "Sarà una che mi assomiglia. Com'era vestita?" 
    "Figurati se  mi  ricordo"  disse  Antonio  che  invece  si  ricordava     benissimo. 
    "E poi che cosa mi hai visto fare, ancora? Battere il marciapiede?" 
    "Non so perché tu te la prenda, adesso. Cosa ti ho detto di male?" 
    "Be', a me certi discorsi non mi vanno. Chiaro? Chiuso. E adesso..." 
    Lo trasse a sé, gli incollò la bocca sulla bocca. 



    6. 
    Chi era?  Dove andava?  Con quali speranze? Perché faceva quella vita?     Una ragazzina così fresca,  viva,  autentica.  Se fosse  nata  in  una     famiglia  come  quella  di lui,  Antonio,  sarebbe mai venuta lì dalla     Ermelina?  Che sbagliata infanzia c'era alle sue  spalle?  Oppure  era     soltanto  smania  di libertà,  e di ribellione,  desiderio di vestiti,     gusto rabbioso di umiliarsi,  buttarsi via,  vendersi,  abbandonare il     corpo alle voglie anonime, voluttà di precipitare? 
    Mentre  si  rivestiva,  in  quel  particolare stato d'animo,  sereno e     malinconico che segue lo sfogo dei sensi, Antonio scostò la tendina di     mussola che riparava la finestra. E vide fuori. 
    Non credeva di essere così in alto.  Di fronte c'era  una  casa  della     medesima statura e forse più.  Ma a destra di questa casa si apriva un     varco per cui lo sguardo spaziava su  una  sterminata  prospettiva  di     terrazze e di tetti. Di tetti soprattutto, neri, gremiti di comignoli,     laggiù. 
    Laggiù  era  la  Milano da cui veniva Laide.  Le case dei ballatoi col     tanfo di gatto,  coi vasi fioriti di maggio e le mutande appese  e  la     voce della giovane che canta con abbandono e la lite orrenda fra lui e     lei  con  parole  che  ripetere  sarebbe  vergogna,  il sole batte sul     giardino nobiliare riscaldando un poco le mura giallastre  della  casa     con gli stemmi,  chiama lo straccivendolo al mattino che si avvicina a     poco a poco e poi è qui di sotto e mentre si pensa è già  lontano,  il     cigolio  del  tram  alla  curva,  ogni  volta gli occhi del ragioniere     puntano sibilando sulla nuca  dell'impiegatina  quindicenne,  i  pozzi     condominiali  dei  cortili  lucidi  di  pioggia,   neri,  vitrei,  col     giradischi al settimo piano che abbandonato fa taa-taa-taa perché  lei     è  rovesciata sul divano e lui la tiene ed ansima,  ore undici e mezzo     del  mattino  al  termine  del  mercato  dei  grani  verrà  il  signor     Marsigliani da Borgotaro aveva detto una maschietta bionda per favore,     il camioncino scarica i pacchi di bobine, stavolta il boss è nero, Dio     solo  sa dove collocare questo grisbi,  basta tu voglia cara cosa fai?     la cameriera?  ecco il mio numero se credi,  ma una  cosa  guarda:  la     pulizia  mi  raccomando  non  importano  i  profumi  ma il sapone e il     dentifricio sì,  quei tipi che ciondolano nel sottopassaggio Carminati     lo  sai  che  mancano dell'ombra?  la porta cigolò no mamma sono stata     dalla Nora a sentir dischi e parla e parla ho fatto tardi, tremila per     sera più la vendita dei fiori più gli incerti mi  capisci,  non  farai     qui  da  me la schizzinosa,  tutto sta ad agganciarli certi vecchietti     che se li scuoti fanno din din da tanto  sono  pieni  di  marenghi  la     Milka  ne  ha  pelato uno quest'autunno ch'era uno spettacolo da tanto     ributtante ma ci ha rimediato la mezza pelliccia di visone l'hai vista     no?  Quel ronzio dell'ascensore su e giù,  lui le prende il mento  fra     due  dita lo scuote con rabbia sei sette volte e poi la tiene e poi la     scuote ancora lei lo guarda spaventata e adesso poche storie  bellezza     tu mi sganci venti deca uno sull'altro e se ti provi un'altra volta ti     faremo sistemare che conciata così non farai più neanche una marchetta     da cento,  chiaro?  e poi giù quella sberla che sa dare lui che una si     sente scoppiare la faccia  e  slam  va  a  terra  che  se  poi  sbatte     malamente tanto meglio così impara e certe volte se lui gli gira anche     la  cinghia  dei  pantaloni sul sedere bisogna poi vedere che segni da 
    non poter lavorare per una  settimana  e  anche  le  cosce,  l'autista     dell'ingegner  Kasparri  tutte le sere si cambia ma chi gli dà i soldi     per il "night"?  brutto che sembra un gorilla però dicono che  lei  la     signora  Kasparri  la  quale pare un angelo una Madonnina poi di notte     impazzisce  di  gelosia  sapendo  che  lui  intanto  sta  a  sbevazzar     champagne  con  le  troie  ma  non  riesce  a  farne a meno è come una     malattia,  nell'ufficio della SNADL al buio il telefono a quest'ora il     telefono e insiste per sei sette volte se ne è accorto tutto l'immenso     casamento un suono veramente disperato fin verso le tre e mezzo,  sarà     una settimana che lui si  è  accorto,  c'è  uno  scoperto  di  tredici     milioni  ma  nella  fossa  della  stazione di servizio quello che vede     passare sopra di sé il ventre,  l'inguine e le vergogne delle seicento     e  delle millecento sempre le stesse con le loro immonde incrostazioni     e non vede mai  l'ora  dello  stacco  e  fra  ruota  e  ruota  sbircia     l'orologio le sei meno un quarto le sei meno dieci, anche nel rialzato     dell'ufficio della TETRAM uno squillo di telefono, no no assolutamente     il  torrido impassibile ghignando con la sigaretta: per meno di tre no     no e poi no,  ti ho mandato apposta,  tu adesso non farmi pentire  con     tutte quelle spese che abbiamo fatto per te e intanto pensa alle calze     nere sul polpaccio di una certa sgarzolina come l'ha vista una stretta     all'inguine  ma  è assurdo lui ha moglie e figli,  e i tacchi i tacchi     quel rumore sguaiato di tacchi giù per le scale con  dentro  tutto  il     peso delle anche abbandonate alla gravità carnale,  presto Ines c'è un     signore che ti aspetta, che signore?  Lo sai da te,  lo conosci,  è il     solito  che  viene  a  quest'ora,  non  farti  pregare,  fagli sputare     l'anima,  lo sai,  dalla ringhiera del sesto piano lei sporta in fuori     con  gli  occhi  fuori il ventre fuori ad aspettare lui che non viene,     nel mezzanino finalmente la luce dell'alba e forse il cielo è grande e     azzurro ma forse ci sono delle nubi oppure c'è la  maledetta  faccenda     dell'alba, del momento che il sole viene su ma la città non lo conosce     non lo conosce mai,  le case livide e addormentate e chiuse e i pochi,     pochissimi,  che ancora sono vivi sentono qualche  cosa  di  pressoché     divino per un attimo,  solo un momento perché dopo c'è il sonno,  quel     peso alla testa,  il pensiero dell'orario,  luce  dell'alba  livida  e     svogliata nella grande città ma è poi grande? è ridicola, nel mondo ce     ne  sono  a  centinaia di più grandi,  all'ammezzato la luce filtrando     appunto fra gli interstizi, ciò che dimostra la serietà,  la ragazzina     nuda vede l'uomo che l'ha comperata per quella notte,  lo vede sazio e     addormentato la bocca socchiusa simile ai tombini delle fogne o  anche     ai  lumi tremolanti all'altare dell'Addolorata dove genuflessa al gelo     dell'alba lei stessa stamane col velo nero sul capo, lei,  lei stessa,     possibile?,  pregava, le lacrime agli occhi, pregava per il suo amore,     per il suo domani, per la sua casa,  un prete ciondolava nella navata,     sornione, sogguardandola compatibilmente con la dignità ecclesiastica,     quell'odore  di  incenso,  quel senso delle case intorno una attaccata     all'altra, verticalmente rigide, grigie, sature di vite umane,  sipari     tremendi  uno  sull'altro  asserragliati  stipati intorno alla piccola     chiesa ottocentesca dai muri neri scolanti, le ginocchia facevano male     lei si sentiva pura nonostante la notte che aveva passato in balia  di     uno  sconosciuto  pagante  anzi  proprio  a  motivo  di  questo per il     sacrificio personale che la prostituzione comportava,  la mamma a casa     ammalata  forse di un male orrendo quei dolori nelle parti basse tutte     le sere tutte le sere e intorno i profili a picco neri delle mura  con     quel  riflesso  che  mandavano  su  di  lei con quel velo d'ombra,  un     delicato lume viola  sul  quadrante  del  cruscotto  della  supersport     mentre lui una mano sulla coscia di lei,  così,  distrattamente,  come     assaggio della merce e intanto  discorsi  idioti  la  sai  quella  del     bambino  che  parlava  grasso?  dunque  c'era un bambino che entra nel     salotto e là c'era la mamma con un sacco  di  amiche  e  lui  dice,  a     momenti  nel fare la curva da bullo si andava a incocciare con un taxi     poi via in terza fortissimo,  è anche bella questa sensazione di forza     meccanica,  chissà  che  cosa  ha questo tipo purché non abbia l'alito     cattivo,   sentì  la  calza  sinistra  disfarsi  sopra  il  ginocchio,     un'improvvisa  scorlera maledizione con quello che costano,  il signor     colonnello del piano di sopra in pensione col suo  cagnolino  bastardo     che  la  guarda  quando  la  incontra  sulle scale come la guarda,  se     sapesse,  Dio mio se sapesse,  certo i tacchi alti donano si fa fatica     però  i  polpacci come risaltano,  gli sguardi dei maschi si attaccano     come filamenti, lei se li sente come ragnatele attaccate,  quei porci,     a  scuola  suor  Celeste  le diceva sempre basta specchiarti nei vetri     delle finestre è peccato, così diceva era inverno di là dalle finestre     il viale completamente coperto di neve silenzioso come  non  mai  e  i     lampioni uno dopo l'altro a perdita d'occhio,  ma questa notte rare le     automobili mentre nelle vecchie scale corrose le lampadine le fioche e     povere a ogni piano,  al terzo anzi si è bruciata,  e ne viene  quella     luce che racconta tante cose terribili, Dio, Dio, i muri tenebrosi, la     pozzanghera,   la   misteriosa   automobile   ferma,   il  laboratorio     incomprensibile all'interrato dove entrano ed escono  certi  tipi,  il     laido  studio fotografico al primo piano che non si capisce come vive,     il groviglio fantastico dei camini sul tetto, la perdizione dei cavedi     che si inabissano,  la solita pisciata nell'angolo,  il trac trac ogni     tanto  nell'alloggio  vicino,  la  lapide dove abitò il patriota delle     Cinque,  quel mattone che sporge,  la disputa serale  all'osteria  nel     cortiletto, tutta la densità di vite che fermentano e mai si sa mai si     saprà in una specie di rombo silenzioso,  già scendeva la notte i lumi     qua e là ma in alto ancora tutte  le  case  nere,  enigmatici  profili     fumiganti  di  caligine lui era sul bordo di una fossa immensa e buia,     di là veniva Laide da quel regno sconosciuto e una voce dentro di  lui     Dorigo  non  proprio  una  voce  piuttosto un rintocco profondo che lo     chiamava chiamava,  che idiozia si disse,  guardò l'orologio  in  quel     momento  proveniente dal bagno entrava Laide si è tirata su i capelli,     belli tesi,  in un compatto chignon certo un tipo maledetto  ma  senza     rosso sulle labbra gli dice: "Come, non ti sei ancora vestito?". 



    7. 
    La  rivide qualche giorno dopo,  sempre dalla signora Ermelina.  Aveva     telefonato come al solito,  chiedendo però della Laide.  Come la trovò     di nuovo in quella specie di salotto,  restò un poco deluso.  Stavolta     aveva tirato  su  i  capelli  raccogliendoli  sulla  nuca  e  sembrava     trasandata.  Spiccavano nel volto quei tratti vagamente popolareschi e     sguaiati,  il naso petulante che terminava in patatina,  il moto delle     labbra,  che  si  aprivano di tanto in tanto a valva,  con espressione     furbesca,  provocante  e  sicura  di  sé.   Lo  impressionò  anche  la     disinvoltura  con  cui,  alla  presenza  di  lui,  dell'Ermelina  e di     un'altra ragazza bruttina di passaggio,  Laide parlava di cose sconce. 
    Raccontava delle sue colleghe ballerine, le definiva tutte puttane. 
    "Ce ne sarà pur qualcheduna ancora vergine" disse la Ermelina. 
    "Oh  sì,  sì"  disse la Laide ridendo "ma poi magari sono peggio delle     altre. C'è una mia amica, una di buona famiglia si intende,  che è una     tale  porca,  a forza di..." e qui fece un piccolo terribile gesto "le     sono venuti due  fianchi  così,  e  ha  dovuto  smettere  di  ballare,     figuratevi che attività. Eppure è ancora vergine."     "Perché vuoi che si sia ingrossati i fianchi?" disse Dorigo.     "Non c'è niente di peggio" spiegò Laide recisa,  con l'aria di una che     se ne intende. 
    Anche l'amore in letto non fu più come la prima volta.  Carezze e baci     sembravano  formalità  burocratiche.  Intanto  lui  cercava  di sapere     qualcosa di lei.  Ma Laide non era  disposta  alle  confidenze.  Seppe     soltanto  che  viveva  con  una  sorella  sposata,  di dodici anni più     vecchia di lei; che sua mamma era morta da qualche mese,  suo padre da     quindici  anni.  Sua sorella era sempre malata,  suo cognato aveva una     piccola industria. L'essere ballerina della Scala le consentiva grande     libertà di uscire e di far tardi alla sera. 
    Ma soprattutto a proposito della  Scala  Laide  era  elusiva.  Per  il     desiderio di essere stimato da lei,  di stabilire una specie di legame     professionale,  Antonio le disse che proprio in quei giorni  preparava     scene e costumi per un balletto di Lachenard,  "L'étoile du soir".  Ci     sarebbe stata anche lei? Oh certo, ma a lei quel balletto non piaceva. 
    "Ma ieri per esempio alla prova c'eri?" 
    "Ieri no, ieri avevo un po' di febbre." 
    In quanto al cognome poi, non ci fu assolutamente il verso di saperlo. 
    "Tanto, non ci possiamo vedere lo stesso?" 
    "Ma hai paura di cosa?" 
    "Niente, io sono fatta così, meno cose si fa sapere meglio è." 
    "Non ti fidi, allora." 
    "Cosa significa? Il mio nome non lo faccio sapere a nessuno." 
    "Il numero di telefono me lo potrai dare, almeno." 
    "Quello,  figurarsi,  quello non lo sa proprio nessunissimo.  Guai  se     chiamano a casa cercando di me, mia sorella fa uno di quei ciocchi." 
    "E la Ermelina, allora, come fa a chiamarti?" 
    "Sono io che le telefono. Ogni tanto la chiamo io." 
    "Per sapere se c'è qualche cosa di nuovo?" 
    "Oppure mi telefona lei dopo mezzanotte al "Due"." 
    "La balera?" 
    "Sì." 
    "Come? Ci vai tutte le sere?" 
    "Tutte le sere no. Quando ci vado faccio un numero." 
    "Un numero di che cosa?" 
    "Uno "slow"." 
    "E sei vestita come?" 
    "Oh, tutta coperta, in calzamaglia." 
    C'era  stato  un  paio di volte,  Dorigo,  al "Due",  con degli amici.     .L'avevano chiamato così per  allusione  al  Carcere  di  San  Vittore     denominato  popolarmente  "El do" perché l'ingresso porta il numero 2.     Era in centro,  nel sotterraneo di un bar: una di quelle sale da ballo     cosiddette esistenzialiste, decorate con stramberie macabre o astratte     un po' di gusto goliardico.  Ragazzi e ragazze, anche giovanissimi, si     esibivano in frenetici "boogie-woogie"  e  "rock-and-roll"  di  genere     acrobatico. Un posto nel complesso abbastanza allegro e simpatico, più     sportivo,  in certo senso,  che peccaminoso.  Ma era sotterraneo, e la     scaletta angusta per discendervi,  le scritte impertinenti e a  doppio     senso,  la soperchieria sia pure ingenua dei dipinti murali,  un certo     surrealismo alla francese  provvedevano  quel  tanto  di  losco  e  di     malavita   che   affascinava   le   signore   borghesi.   Non  c'erano     "entraЊneuses".  Ma certo le ninfette dei "numeri" non dovevano essere     delle novizie di convento.  Il semplice fatto di lasciarsi maneggiare,     per le piroette e i salti mortali,  in tutte le  parti  possibili  del     corpo.  Antonio si ricordò di avere assistito anche a uno "slow",  una     specie  di  danza  dell'"apache"  modernizzata,  con  lei  che  veniva     sbattuta a terra ripetutamente,  malmenata e trascinata per i capelli. 
    Laide doveva fare qualcosa del genere. 
    "E, scusa, come fai con la Scala?" 
    "A mezzanotte,  anche se c'è spettacolo,  la Scala è  finita,  al  più     tardi alla mezza." 
    "E tua sorella sa che balli al "Due"?" 
    "Madonna. Guai se lo sapesse." 
    "E a che ora torni a casa? alle tre? alle quattro?" 
    "Guarda,  al più tardi all'una,  all'una e mezza.  Eh,  altrimenti mia     sorella!" 
    C'era  molto  di  invererosimile,  in  tutte  queste  storie.  Che  la     Ermelina,  per esempio,  non conoscesse il suo numero di telefono. Che     sua sorella non  sapesse  la  vita  che  faceva  e  ignorasse  le  sue     esibizioni  notturne al "Due".  Che la Scala le permettesse di ballare     in un ritrovo tutt'altro che  serio.  Ma  lei  parlava  con  una  tale     sicurezza,  un  tale accento di assoluta sincerità che era impossibile     non crederle, si sarebbe dovuto pensare a un vero mostro.     D'altra parte che gliene importava?  L'avrebbe avuta ancora un paio di     volte  al  massimo,  la Laide.  Poi se ne sarebbe stufato per il venir     meno della curiosità.  Lei non era certo di quelle sapienti  artigiane     che sanno rinnovare il desiderio anche dopo lunghissima frequenza.  Se     le aveva chiesto di lei e della sua vita,  era solo per il fascino che     esercitava  su  di lui l'ambiente sconosciuto,  la esistenza di quelle     ragazzette.  Come vivevano?  Con quali aspirazioni?  Come  facevano  a     resistere?  Chi erano i loro veri uomini? Esse partecipavano del mondo     delle  famiglie  oneste  e   normali   e   insieme   della   malavita,     frequentavano  i  più  ricchi figli di famiglia,  entravano nelle loro     ville sontuose,  salivano a  bordo  delle  loro  Ferrari  e  dei  loro     "yachts"  illudendosi  di  appartenere  alla loro società ma in realtà     adoperate da questi signori come puro strumento di svago e di libidine     e perciò totalmente disprezzate.  Entravano come  ospiti  di  riguardo     nelle  "gar‡onnières"  dei  miliardari ma se piantavano grane o non si     sottomettevano docilmente  ai  capricci  più  osceni  e  umilianti,  o     chiedevano  diecimila  lire  in  più,  venivano  magari poi cacciate a     sberle, da uomini ubriachi, con epiteti infamanti, tal quale le infime     da marciapiedi.  Ostentavano la conoscenza delle sarte di lusso e  dei     grandissimi  alberghi  internazionali,  raccontavano  di frequentare i     "nights" d'alto bordo,  nei negozi erano incontentabili  e  altezzose,     per   la   via   camminavano   col   piglio  sdegnoso  di  principesse     irraggiungibili ma poi,  per un  biglietto  da  cinquemila,  correvano     trafelate  a  soddisfare,  nell'alberghetto  vicino alla stazione,  la     lussuria di un sensale cinquantenne, grasso e sudicio, che le trattava     come serve. 
    Nel corridoio,  uscendo,  trovò l'Ermelina.  La porta del salotto  era     chiusa,  si udiva un parlottare interrotto da risate.  C'era anche una     voce d'uomo. Un altro cliente, era probabile.  Forse gli era destinata     la Laide. Antonio diede le ventimila alla padrona. 
    "Me la saluti lei, la Laide." 
    "Ma no, viene subito." 
    L'Ermelina socchiuse la porta del bagno. 
    "Sei pronta? C'è qui il signor Tonino che ti vuol salutare."     Laide uscì dal bagno in sottoveste. Lo salutò sorridendo. 
    "Ciao, tesoro." 
    Quel  "tesoro" gli diede fastidio.  Era così professionale.  Se n'andò     come liberato.  Ma l'incontro con la  Laide  gli  aveva  lasciato  uno     strano turbamento. Forse anche per il ricordo della tipa incontrata in     corso  Garibaldi.  Come se qualcosa lo avesse toccato dentro.  Come se     quella ragazza fosse diversa  dalle  solite.  Come  se  fra  loro  due     dovessero  succedere  molte  altre  cose.  Come se lui ne fosse uscito     differente.  Come se Laide incarnasse nel modo più perfetto e  intenso     il  mondo  avventuroso  e  proibito.   Come  se  ci  fosse  stata  una     predestinazione. Come quando uno, senza alcun particolare sintomo,  ha     la  sensazione  di  stare  per ammalarsi,  ma non sa di che cosa né il     motivo.  Come quando si ode dabbasso il cigolio del cancello e la casa     è  immensa,  ci  abitano  centinaia  di  famiglie  e all'ingresso è un     continuo andirivieni eppure all'improvviso si  sa  che  ad  aprire  il     cancello è stata una persona la quale viene a cercarci. 
    Egli  temeva  perciò  in certo modo il terzo incontro,  pur col grande     desiderio.   Le  cose  potevano  complicarsi.   Lui  poteva   rimanere     invischiato, agganciato ancora di più. Invece niente. Il fascino della     ballerina si era sciolto da solo, nella banalità delle consuete copule     a pagamento.  La Laide era una delle tante.  Graziosa, certo, genuina,     fisicamente spiritosa.  Ma vuota.  Fra lui e lei non ci sarebbe  stato     mai niente. 
    Del resto,  il giorno dopo partì con Soranza, il suo amico, per andare     a sciare.  Si fermò a Sestriere una  settimana.  C'era  la  Dede,  una     ragazza  di ottima famiglia,  che aveva conosciuta l'anno precedente a     Cortina. Andavano a sciare insieme tutto il giorno.  Laide non era mai     esistita. 



    8. 
    Alle  ore  sedici  era la prova del balletto "La stella della sera" di     Lachenard.  Glielo avevano detto all'ultimo momento e Antonio  per  le     quattro aveva combinato con la signora Ermelina per la Laide.     "Chi  preferisce?"  aveva  chiesto  per  telefono la signora Ermelina.     "Faccio venire la Laide?" e nella voce c'era un'ombra vaga di  malizia     come se lei si fosse accorta di qualche cosa. 
    "Chi preferisce?" aveva chiesto la signora Ermelina. 
    "Mah, non so" aveva detto lui. 
    "Faccio venire la Laide?" 
    "La Laide, sì. O la Lietta." 
    "La Lietta?" 
    "Ma sì, mi ha detto che si chiama Lietta."     "Ah, la Lietta! quella un po' robusta?"     "Sì, sì" fece lui. 
    "Preferisce la Lietta?" 
    "Per me, faccia lei, una o l'altra." 
    Non  era  vero.  La  Lietta,  un fustone di ragazza dai capelli rossi,     l'aveva conosciuta un paio di mesi prima.  E  gliene  era  tornata  la     voglia.  Quelle spalle da lanciatrice di giavellotto, quei seni piatti     e insieme potenti, quelle cosce che sapevano stringere.  La Laide,  in     fatto d'amore,  la conosceva già bene, non poteva promettergli nessuna     sensazione nuova. Graziosa, certo, un tipo di gusto suo. Ma.     "Va bene" disse la signora Ermelina per telefono "una delle due."     Ma all'ultimo momento lo avevano avvertito che c'era la  prova  e  lui     telefonò per disdire. 
    "Pazienza"  disse  la  signora  Ermelina  "il  più  è che la peschi al     telefono per dirle di non venire." 
    "Chi?" 
    "Avevo combinato con la Laide." 
    "Mi dispiace, ma non è colpa mia." 
    Poco male.  In fondo lui ci andava per  vizio  più  che  per  un  vero     bisogno,  per la soddisfazione di provare, per l'indefinibile gusto di     godere una bella ragazza pressoché sconosciuta,  che per venti  trenta     minuti  diventava  sua,  come  una  moglie,  e magari era una creatura     bellissima,  una che per la strada tutti si voltavano a guardare.  Ma,     quando  stava  per  entrare  nel palcoscenico,  gli venne in mente che     anche la Laide doveva trovarsi là,  il  balletto  impegnando  l'intero     corpo della scuola. 
    Avanzò sul palcoscenico con un certo imbarazzo, per lui non addetto ai     lavori  le ballerine erano donne,  prima che artiste.  Ed era la prima     volta che le vedeva così da vicino. 
    Alla ribalta erano sei sette sedie,  per il coreografo,  Vassilievski,     la direttrice della scuola di ballo, il compositore, venuto apposta da     Parigi,  il direttore d'orchestra,  il "maЊtre-de-ballet" e gli altri.     Più in là a un pianoforte verticale,  un maestro sostituto  faceva  le     veci dell'orchestra. 
    Il  sipario  era  aperto ma la sala era immersa nel buio.  Solo alcune     bilance illuminavano di luce  bianca  il  piancito.  Più  in  alto,  e     dietro,  si  apriva  il  misterioso  antro  del  palcoscenico,  in  un     fantastico groviglio di scene arrotolate, di corde, di passerelle,  di     strani meccanismi, di ballatoi: prospettive vertiginose che lasciavano     intuire  un mondo a sé,  complicatissimo,  affascinante e assurdo.  Le     scene che aveva disegnato lui non erano ancora pronte.  Come  fondale,     c'era la classica figurazione prospettica di un chiostro,  forse usata     per la "Forza del Destino". 
    Ci furono le presentazioni, gli venne offerta una sedia. Lo trattavano     con rispettosa cortesia,  come un ospite non al corrente delle cose di     famiglia.  In  realtà  quel  giorno avrebbe potuto benissimo anche non     venire.  I costumi non erano ancora stati  messi  in  lavorazione.  Il     maestro  del  balletto  però,  mentre il maestro al piano attaccava le     prime note,  gli si avvicinò per dirgli  che  la  Clara  Fanti,  prima     ballerina, voleva chiedergli alcuni schiarimenti sul costume disegnato     per lei.  E sorrideva in modo allusivo come per dire: lei sa benissimo     che queste qui hanno da piantare sempre qualche grana. 
    In quel mentre si accorse che delle scene e  dei  costumi  non  gliene     importava più niente. Se fosse stato solo per le scene e i costumi non     sarebbe  neanche venuto,  probabilmente.  Finito un lavoro,  lui aveva     l'abitudine di non interessarsene più, per una pigrizia forse,  che in     pratica tuttavia si trasformava in norma di pratica saggezza.  Lui era     venuto per la Laide,  fino a quel momento non se n'era  reso  conto  e     adesso si sentiva addosso una impazienza tormentosa.     Entrò una folata di ballerine,  saranno state dieci o dodici, erano le     ombre della sera. Nessuna, naturalmente,  era in costume,  indossavano     tutte la calzamaglia nera.  Senza trucco,  i capelli per lo più tenuti     fermi da un nastro o fazzoletto passato sopra la fronte,  sparute  nel     complesso;  e  in  quella  tenuta  davano  un'impressione di ostentata     disinvoltura,  di sciatto,  anche di sporco per  i  segni  bianchi  di     polvere  sulle  ginocchia,  sui gomiti,  sul sedere Tuttavia,  proprio     questa trascuratezza  dava  alle  ragazze  qualcosa  di  provocante  e 
    spavaldo.  Ben presto, anche perché la calzamaglia modellava i giovani     corpi nelle minime rotondità e pieghe,  Antonio si accorse  che  erano     infinitamente  più  desiderabili  che  nell'elaborato  splendore di un     costume. 
    Vedendole così vicine, prese dall'impegno del lavoro, senza trucchi né     code di pavone,  così semplici e disadorne,  nude più che  se  fossero     nude, Dorigo allora capì improvvisamente il loro segreto, il perché da     immemorabili  secoli  le  ballerine  fossero  il  simbolo stesso della     femmina,  della carne,  dell'amore.  Il ballo era -  egli  capì  -  un     meraviglioso simbolo dell'atto sessuale.  La regola, la disciplina, la     ferrea  e  spesso  crudele  imposizione,  alle  membra,  di  movimenti     difficili  e  dolorosi,  il costringere quei giovani corpi verginali a     far vedere le più riposte prospettive in posizioni estremamente tese e     aperte,  la liberazione delle gambe,  del torso,  delle braccia  nelle     loro  massime disponibilità: tutto questo era per la soddisfazione del     maschio. A cui le ballerine, con impeto, con patimento, con sudore, si     abbandonavano.  E la bellezza stava appunto in questo  appassionato  e     spudorato  abbandono.  Senza  che  loro  ne  avessero  il  più lontano     sospetto,  era  tutta  una  ostentazione,  un'offerta,  un  invito  al     congiungimento  carnale.  Quelle  bocche  socchiuse,  quelle bianche e     tenere ascelle spalancate, quelle gambe divaricate allo spasimo,  quel     protendere avanti il petto in atto di olocausto,  quasi gettandosi fra     le braccia ardenti di un invisibile e  insaziabile  dio.  Con  geniale     sapienza  i  grandi  coreografi  avevano  stilizzato  questo  fenomeno     sessuale in atteggiamenti apparentemente casti e accettabili da tutti.     Ma dentro permaneva la carica.  Cosicché,  per uno che sapesse vedere,     una sequenza di passi classici riusciva di gran lunga più forte che la     lubrica danza del ventre di una spogliarellista di "night". Erano cose     che  naturalmente  nessuno  osava  confessare  a voce o scrivere,  per     quella generale e folle congiura di ipocrisia che  nasconde  il  mondo     dell'amore. 
    La  danza  -  scoprì  Dorigo  - non era altro che uno sfogo lirico del     sesso: per il resto non poteva essere altro che decorazione o idiozia.     Le rozze e lascive profferte carnali delle  prostitute  di  postribolo     risultavano  una  ridicola  commedia  al  paragone  degli  allusivi  e     maliziossimi  adescamenti  delle  ballerine,   che   penetravano   nel     profondo.  E  quanto  più una ballerina era brava,  quanto più audaci,     perfette, leggere,  armoniose,  acrobatiche le sue prestazioni,  tanto     più  intenso,  in  chi la contemplava,  la voglia di abbracciarla,  di     stringerla,  di palparla e accarezzarla specialmente sulle  cosce,  di     possederla fino in fondo. 
    Entrò una folata di ballerine,  saranno state dieci o dodici, erano le     ombre del crepuscolo. 
    In quel primo gruppo lei non c'era.  Per un istante,  con un  sussulto     interno,  gli parve di riconoscerla nella terza, una brunetta di media     statura.  Coi rapidi movimenti che facevano non era facile distinguere     bene. Poi la brunetta, girando su se stessa si avvicinò, fermandosi di     colpo,  insieme alle compagne,  con una gamba alzata all'indietro,  in     bilico sulla punta dell'altra.  Si presentò  così  di  profilo  e  lui     constatò che il naso era completamente diverso. 
    Poi entrò la prima ballerina,  poi ci fu un passo a due, poi il gruppo     di prima intervenne intrecciando un episodio collettivo.  La  faccenda     andava  per  le  lunghe.  Benché  la  "équipe"  fosse  già  abbastanza     preparata e avesse ormai bene il balletto nelle  gambe,  Vassilievski,     che indossava una specie di tuta,  interrompeva spesso, più che altro,     forse, per il gusto di esibizione personale e, senza musica,  rifaceva     questo o quel passo, scandendolo con curiose grida: là, là, ta-ta, là.     Era  già  avanti  con  gli  anni,  doveva  essere  ormai prossimo alla     cinquantina eppure lo scatto,  la precisione,  l'eleganza,  se non  la     potenza muscolare, erano ancora quelli dei suoi tempi d'oro, quando lo     consideravano uno dei due o tre primi ballerini del mondo.     Intervennero  finalmente  le  otto  lucciole,   tutte  giovanissime  e     mingherline,  anche loro con quell'aria sciatta  e  strapazzata,  come     operaie che sul lavoro non si preoccupano più di piacere;  tanto,  gli     spettatori della prova non le giudicavano per la loro bellezza;  e  in     quanto a Dorigo, nuovo dell'ambiente, nessuna delle ballerine sembrava     essersene neppure accorta.  Ma neanche fra le lucciole la Laide c'era.     Seguì il turbinare di una decina di pipistrelli,  uomini  questi,  coi     quali Vassilievski si diede molto da fare,  correggendo, rettificando,     modificando, inventando lì per lì nuovi movimenti.  Solo i pipistrelli     si portarono via, tra provare e riprovare, una buona mezz'ora.     Ed  ecco,  mentre Antonio seguiva con gli occhi la esemplificazione di     Vassilievski, irruppero da destra i folletti. Al momento lui non se ne     accorse  nemmeno.  Erano  otto  ballerine.   Dopo  essere  avanzate  a     rapidissimi  passettini sulle punte,  si misero a roteare su se stesse     con capriole laterali, poggiando ora i piedi ora le mani, così da fare     un giro tondo.  Immediatamente  Antonio  la  vide.  Aveva  raccolto  i     capelli  a  chignon sopra la nuca,  anche lei non aveva rossetto,  con     quella faccia stralunata e diversa che hanno le donne quando si alzano     al mattino,  addirittura insignificante.  Dalla faccia,  probabilmente     lui  non  l'avrebbe neanche riconosciuta.  E non la identificò neppure     per il corpo,  che poteva  confondersi  facilmente  con  quello  delle     compagne, di statura uguale e altrettanto smilze. La riconobbe da quel     suo caratteristico portamento,  dinoccolato, fiero e dispettoso. Delle     otto  era  l'unica  che  eseguisse  le  capriole  pressappoco,   quasi     svogliatamente,  senza  proiettare verticalmente le braccia e le gambe     in alto, con alterna successione, ma accennando appena.  Quasi volesse     intendere:  per  me  queste  qui  sono  sciocchezze,  non è il caso di     impegnarsi,  io so ben fare questo e altro.  La stava fissando ma  lei     guardava sempre dall'altra parte.  Era lei ma non era proprio lei. Con     quella specie di costume che non era neanche un vero costume, cambiava     anche l'espressione della faccia. Gli pareva anche più bassa,  per via     delle scarpette senza tacco. Lei indossava un pagliaccetto nero con le     maniche  lunghe,  e  calze nere di maglia pesante che le salivano fino     quasi all'inguine e non si  capiva  come  potessero  star  su.  E  fra     l'estremità  inferiore  della  maglia  e  il bordo delle calze restava     scoperta, lateralmente, una mezzaluna di pelle.  Non era lei la sola a     essersi sistemata così, evidentemente era una consuetudine ammessa. Ma     quel  lembo  di  coscia  nuda  che  appariva  aveva un senso speciale,     un'allusione, un riferimento ad altre cose proibite. 
    Lei non è in calzamaglia,  lei porta un pagliaccetto a maniche  lunghe     che  aderisce  alla  schiena,  al piccolo seno da bambina e al sedere.     Sulle gambe un paio di calze nere che la  coprono  interamente  ma  di     fianco  il  bordo  orizzontale  non  riesce a combaciare con il limite     inferiore della maglia, il quale, per la tensione delle carni,  fa una     curva. Cosicché una striscia di carne biancheggia fra quel nero. Quasi     una provocazione, una civetteria, una strizzata d'occhi, un invito. 
    Lei, terminate le capriole, gli passerà vicino, a non più di due metri     e  voltando  la  testa ora da un lato ora dall'altro lo vedrà,  i suoi     sguardi gli sono passati proprio sulla faccia  ma  non  c'è  stato  un     guizzo,  una modificazione sia pure minima dei lineamenti, un segno di     riconoscimento. Come se non l'avesse mai visto prima,  come se lui non     esistesse neanche. 
    No. Delle scene, dei costumi, del suo lavoro non gli importava niente.     Che andassero a farsi buggerare.  Dorigo seguiva lei,  sperando che si     distinguesse, che fosse più brava.  Ma in realtà lei non era né meglio     né peggio delle altre,  si capiva che avrebbe potuto fare ma ostentava     di non averne voglia. 
    Eseguiva  neghittosamente  il  minimo  necessario  per   non   rompere     l'armonia con le compagne. 
    Due  volte  ancora gli passò davanti,  e senza dubbio lo vide,  ma era     come se vedesse il vuoto. 
    Poi Vassilievski batté forte un piede e fece un cenno con  la  destra,     la  musica  del  piano  si  interruppe,  era  segno  che il coreografo     concedeva una pausa. Ballerini e ballerine si dispersero.     "No, no,  figliole restate qui,  solo cinque minuti.  Non c'è tempo di     andare  ai  camerini"  gridò  la direttrice della scuola perché alcune     avevano l'aria di volersi allontanare. 
    Comparve  in  quel  mentre  il  direttore  dell'allestimento  scenico.     Celebre   scenografo,    gran   signore,    si   avvicinò   a   Dorigo     complimentandosi   per   i   bozzetti.   Usò   termini   entusiastici,     probabilmente esagerati,  ma non era ipocrisia, piuttosto il desiderio     che  Antonio,  nuovo  dell'ambiente  e  manifestamente  spaesato,   si     sentisse più a suo agio. 
    "La ringrazio" disse Antonio. "Lei è molto buono. Sa, è la prima volta     che faccio scene così impegnative.  Ma conto sul suo aiuto. Alle volte     da semplici schizzi buttati là su un foglio di carta voi siete  capaci     di tirar fuori dei capolavori..." 
    Mentre  così  parlava  vide  la  Laide  che  stava  scherzando  con un     ballerino, un magnifico fusto più alto di lei di una testa;  gli stava     a  ridosso  e  a un certo punto,  ridendo,  gli menò un pugno in pieno     petto.  Come era lei,  in quel gesto: sfrontata,  maliziosa,  civetta,     popolaresca, sicura di sé. 
    Come  uno  spillo,   una  punta  dolorosa.   Quel  pugno,   allegro  e     cameratesco, implicava un lungo retroscena di intimità,  o per lo meno     un  rapporto  libero  e  sciolto  da pari a pari,  con una quantità di     comuni ricordi, lavoro,  speranze,  scherzi,  matte serate in giro per     Milano,  pettegolezzi  di mestiere,  barzellette sporche,  confidenze,     notti d'amore forse,  e un rapporto simile fra lui Antonio e Laide mai     ci sarà,  lo capisce benissimo, basta pensare alla differenza di anni,     in fondo lui potrebbe essere suo padre. 
    Poi venne la signora Novi  con  la  Clara  Fanti  per  il  costume  da     modificare. 
    "Non le piace?" chiese Dorigo alla prima ballerina. 
    "No  no  mi  piace  molto ma è impossibile ballare con quel pennacchio     sulla testa." 
    Lui la guardava.  Vista così vicina in calzamaglia la famosa  non  era     certo  quella specie di minuscola e guizzante fata che si era abituati     a vedere dalla platea o sulle pagine dei rotocalchi. Ma anche a lei la     tenuta di fatica riusciva molto più sexy.  Aveva una faccia precisa  e     ben disegnata di bambina puntigliosa,  solo le braccia,  muscolarmente     definite,  sembravano avere almeno trent'anni,  le gambe erano  invece     perfette  e  lei  le rendeva ancor più provocanti,  sovrapponendo alla     calzamaglia nera un paio di lunghe calze rosa che le  arrivavano  alla     sommità  delle gambe e in basso finivano alla caviglia.  Senza perdere     di snellezza le cosce e specialmente i polpacci risultavano  così  più     forti,  sodi e autoritari, assorbendo in sé la personalità complessiva     della figura che per il resto era di una leggerezza e quasi  fragilità     infantile. Strano però, Antonio non ne provava alcun desiderio.     "Non è un pennacchio" disse. "Dovrebbe essere leggerissimo. Una specie     di filigrana." 
    "Fatto di cosa?" 
    "Ah io non saprei dirle,  confesso che io non me ne intendo.  Ma senza     quel  pennacchio,  come  dice  lei,   bisognerebbe  cambiare  l'intero     costume." 
    "No no il costume mi piace." 
    "E allora ci vuole il pennacchio." 
    "Ma  come  faccio a ballare con quel coso in testa,  me lo insegna lei     come faccio a ballare?" 
    Intervenne la signora Novi, sempre allegra e padrona della situazione.     Propose di fare il pennacchio un po' più piccolo, il materiale sarebbe     stato leggerissimo,  la  Clara  non  si  sarebbe  neppure  accorta  di     portarlo. 
    Intorno si erano raccolti intanto, a guardare il bozzetto del costume,     alcuni ballerini e ballerine. Lei però non c'era. 
    La discussione durò pochi secondi, la Novi e la Fanti se n'andarono.     Lui  si trovò solo e spaesato in mezzo al palcoscenico che si popolava     di nuovo perché la prova  stava  per  ricominciare.  E  restò  qualche     momento indeciso, guardandosi intorno. 
    Si accorse allora che a un passo da lui,  voltandogli le spalle, c'era     la Laide.  Le mani sui fianchi stava chiacchierando con due ballerini,     fra cui non c'era però quello di prima. 
    Fu  una scena rapidissima,  un pulviscolo di tempo che però gli rimase     nel ricordo per sempre. 
    Un'altra ballerina, bionda, si avvicinò alla Laide e le disse: 
    "Senti, Mazza, vieni un momento per favore." 
    La Laide si voltò per seguirla dopo aver  fatto  ai  due  compagni  un     cenno di ciao con la mano sinistra. E venne così a trovarsi a fronte a     fronte con Dorigo. 
    Lei inevitabilmente,  per una frazione di secondo almeno, lo guardò in     faccia.  Lui stava per salutarla.  Dal fatto che lei,  prima,  non gli     aveva rivolto il minimo segno, Antonio aveva intuito che la ragazzina,     là  alla  Scala,  preferiva far finta di non conoscerlo: quasi per uno     scrupolo di pulizia,  forse,  per non mescolare il diavolo  e  l'acqua     santa.   Ma  adesso  erano  così  vicini,  così  faccia  a  faccia,  e     relativamente isolati (nessuno certo li stava osservando) che  il  non     salutarsi diventava assurdo. 
    Antonio però si trattenne, aspettando che fosse lei a salutarlo. Ma la     ballerina,  dopo averlo guardato in faccia, si volse da un'altra parte     seguendo l'amica. E non c'era, in questo suo sottrarsi, quella fretta,     quella precipitazione caratteristica di chi vuole evitare un contatto.     Lo strano era proprio qui: che nella ragazza non si era  avvertita  la     più  vaga traccia di simulazione e di commedia.  Bensì un'indifferenza     assoluta,   anzi  la  assoluta  assenza  di  reazione,   perché  anche     l'indifferenza è un modo di comportarsi verso la realtà esterna.  Come     se lei, pur guardandolo in faccia, non l'avesse neppure visto. Come se     lui fosse stato un muro,  un mobile o un essere tanto consueto da  non     esistere  quasi  più.  E  questo  non  assomigliava a lei,  e a Dorigo     risultava incomprensibile.  La Laide avrebbe dovuto  avere  un  guizzo     spaurito  degli  occhi,  un palpito di sorpresa,  o di fastidio,  o di     spavento che le facesse  socchiudere  le  labbra.  Niente,  invece.  E     questo era inspiegabile. E gli metteva dentro l'inquietudine.     Pensava:  è  anche  comprensibile  che  lei voglia tener rigorosamente     separate le sue due vite,  quella di prostituta e quella di  ballerina     della Scala,  è comprensibile che,  una volta esaurita la prestazione,     lei  voglia  escludere  un  cliente   dalla   sua   vita   privata   e     professionale;  incontrandolo  alla  Scala,  il  cliente diventerà uno     sconosciuto qualsiasi. 
    Pensando a questo Dorigo si sentiva mortificato e  offeso  anche  come     uomo e come artista. 
    Ma  ciò  che  era  avvenuto,  o  meglio ciò che non era avvenuto,  gli     sembrava peggio,  ancora più umiliante per lui.  E gli metteva addosso     un  rimescolamento,  un  rovello,  una  rabbia  di  cui non riusciva a     spiegarsi il motivo.  Era per aver constatato che  lui,  Antonio,  non     esisteva in lei più neppure come ricordo? Era perché la sua qualità di     scenografo non le aveva fatto la minima impressione? Era perché lei si     ostinava a vedere in Dorigo un puro e semplice cliente, cioè una larva     fisica  indifferenziata  e  non era affatto disposta a considerarlo un     compagno di lavoro? Era per questa impossibilità di. interessarla,  se     non di piacerle, di entrare in qualche modo nel suo mondo?     Ma  a  questo  punto  gli veniva la rabbia della rabbia.  Perché se la     prendeva così?  Perché  stava  a  smangiarsi  il  fegato?  Che  gliene     importava  in  fondo della Laide?  Come ragazza da letto,  ormai quasi     sazio,  conosceva a  memoria  tutto  ciò  che  si  poteva  sperare  di     ricavarne. Per il resto, una cretinetta qualsiasi. O forse agiva su di     lui il fascino romantico della ballerina? Possibile? Così ridicolmente     provinciale?  E  poi  di  che ballerina si trattava?  Di una qualsiasi     ballerinetta  di  fila,  nient'altro  che  un  numero,   senza  alcuna     personalità d'artista E poi, e poi, era sicuro che fosse veramente lei     quella ch'egli aveva visto alla prova? 




    9. 
    Tre  giorni  dopo  telefonò  alla  signora  Ermelina:  "Senta,  domani     pomeriggio potrei vedere la Laide?" 
    Il fatto che lei aveva fatto finta di non vederlo gli era  rimasto  in     gola, voleva avere una spiegazione da lei. 
    "La  Laide?" fece la signora Ermelina.  "Sa,  l'altro giorno,  che lei     signor  Tonino  non  ha  potuto  venire.   Lei  è  arrivata  puntuale,     poverina." 
    "E' venuta alle quattro?" 
    "Alle quattro in punto era qui." 
    La cosa era inspiegabile. Alle quattro c'era la prova alla Scala, e la     Laide lui l'aveva vista là sul palcoscenico. O quella carognetta aveva     fatto  in  tempo  a  raggiungere il teatro in tempo per la entrata dei     folletti? Forse così si spiegava quella sua aria svogliata. 
    Dorigo però, con la signora Ermelina, preferì non indagare,  eran cose     che  non  la  riguardavano.  Combinarono per il giorno dopo alle due e     mezza. 
    Ma il mattino successivo Laide gli telefonò in studio,  era  la  prima     volta, la sua vocetta con l'erre gli fece uno strano piacere.     "Senti"  disse  "dovresti  farmi  un favore.  Alle due e venti io devo     partire per Roma." 
    "Per Roma? a fare?" 
    "Vado ospite dai miei zii,  per una settimana.  Ogni anno mi invitano. 
    E' un'occasione che non voglio perdere." 
    "E la Scala?" 
    "Mi son fatta fare un certificato medico." 
    "Be', allora non ci si vede?" 
    "No. Dicevo: se tu potessi far prima." 
    "Prima quando?" 
    "Non so.  All'una, una e un quarto. Così poi mi puoi accompagnare alla     stazione." 
    "Bisogna far tutto con l'acqua in gola, allora." 
    "Se tu non puoi, pazienza." 
    "No no vediamoci. Facciamo all'una?"     "All'una dalla signora Ermelina. Ciao." 
    La Laide ci teneva proprio a vederlo?  O era solo per le  quindicimila     lire?  Dorigo aveva un mucchio di lavoro,  quel giorno.  Ma sistemò le     cose in modo da essere  libero.  Di  saltare  la  colazione  poco  gli     importava. 
    All'una  era dalla signora Ermelina.  Fu fatto accomodare nel salotto. 
    Lei subito tornò di là in cucina. Non aveva ancora finito di mangiare. 
    Si sentiva un'altra voce di donna. Lui si mise a fumare. 
    Le una e cinque, le una e dieci. La signora Ermelina ricomparve.     "Tutte così queste ragazze. Senza testa. Lo sa dove sono dovuta andare     ieri sera per pescare la sua Laide? Al telefono non rispondeva." 
    "Dove?" 
    "Sono andata giù al "night", al "Due", dove fa il numero." 
    "Fa il numero tutte le sere?" 
    "Quando è a Milano, sì." 
    "Perché? Va fuori spesso?" 
    "Mah, in questi ultimi tempi è sempre a Modena." 
    "A Modena perché?" 
    "Lei dice che va per lavoro, per fare fotografie di moda." 
    "A Modena?" 
    "Dice che c'è una sartoria importante, ma chissà." 
    "E adesso? Sono già l'una e un quarto. E mi ha detto che deve prendere     il treno delle due e venti."     "Eh, non dovrebbe fare così." 
    "Oramai,  non viene più." (Sarà stata la ventesima volta che  guardava     l'orologio,  che  cosa ridicola,  neanche se fosse stato aspettando il     suo amore, dopo tutto non si trattava che di una squillo qualsiasi,  a     disposizione  di  chiunque  avesse  avuto ventimila lire da spendere e     probabilmente anche meno,  non era escluso che in separata sede  Laide     si  desse  anche  per meno,  anzi probabile,  queste ragazzette più ne     guadagnano più ne spendono, non hanno mai soldi abbastanza, cinquemila     lire in più fanno sempre comodo, anche quattromila, anche tremila,  al     pensiero Dorigo sentiva una cosa dentro,  un dispetto, un tormento, un     bruciore  irragionevole,  guardò  ancora  l'orologio,  erano  l'una  e     diciassette.) 
    "No  no"  disse  la  signora  Ermelina "se ha detto di venire,  quella     viene,  stia pure tranquillo" e fece un sorriso cattivo "con me non si     brucia il paglione." 
    "Comunque, oramai non c'è più tempo, se deve partire alle due e venti. 
    Ora che è alla stazione..." 
    "Verrà,  verrà,  su  questo non ci sono dubbi" e fece con la testa tre     quattro volte un segno di assenso,  socchiudendo un  poco  gli  occhi.     Voleva  dire che Laide quindici o diecimila lire che fossero non se le     lasciava sfuggire di sicuro?  O  che  mai  avrebbe  osato  mancare  di     rispetto a lei, Ermelina? figurarsi, non avrebbe mai rimesso più piede     in casa sua,  quella sgualdrina, come lei a Milano ce n'erano migliaia     e migliaia, anche più belle e giovani e fresche,  che non desideravano     altro,  e il suo giro,  di lei Ermelina,  era il più chic di Milano, i     clienti più per bene,  più ricchi e più sicuri,  certo le ruffiane  in     città  non  si  contavano oramai ma le altre,  puah,  o sfruttavano le     ragazze al sangue o le mettevano in pasticci, non fa mica comodo a una     studentessa di buona famiglia o a una signora con tanto  di  marito  e     figli,  non  fa  comodo per esempio essere sorprese di punto in bianco     nude in letto con uno che non conoscono neanche di nome e  poi  menate     in  questura  col  furgone e trattenute ventiquattr'ore come minimo in     guardina insieme alle  più  sudice  baldracche,  e  poi  avvertite  le     famiglie,  lo scandalo,  le scenate,  se poi non sono minorenni perché     allora vanno a finire al tribunale. Mentre con lei Ermelina,  potevano     dormire  fra due guanciali,  fra i suoi clienti ci sono troppe persone     altolocate perché le possano  creare  dei  fastidi.  E  poi,  di  lei,     signora  Ermelina  -  forse intendeva dire anche questo - le ragazzine     hanno paura. Lei è l'onestà in persona,  lei è donna di cuore,  quante     ne ha aiutate nei momenti difficili,  di quelle sciagurate, lei è come     una mamma per le sue care bambine. Guai però se si arrischiano a farle     un bidone,  ci mancherebbe altro.  Ah c'è stata qualcheduna che  si  è     provata,  ma  le  è  passata  per  sempre  la  voglia.  Ci vuol poco a     disonorare una ragazza che si è esposta un po' troppo,  lei Ermelina è     sempre  bene  informata,  lei  sa tutto di tutte,  basta alle volte un     colpo di telefono a casa,  o un bigliettino anonimo,  per mettergli  a     posto  la  testa.  Non  sarebbe  mica la prima che lei,  Ermelina,  ha     completamente rovinata. 
    A un tratto Antonio si accorse  di  essersi  levato  dal  divano,  per     l'impazienza,  e  di  camminare  nervosamente  su e giù per la stanza,     incapace  di  dominarsi,  mentre  la  signora  Ermelina  lo  osservava     compiaciuta.  Per  l'età  che  aveva,  ne  aveva  dunque  di desiderio     l'architetto! 
    "Senta" gli disse "un caffè non lo prenderebbe volentieri?"     "No grazie" si lasciò sfuggire "io non ho neanche mangiato."     La Ermelina scoppiò in una risata: 
    "Ah quest'è bella,  un uomo come lei...  per la  Laide...  saltato  il     pasto  un  uomo  come  lei!  Ma sa che lei è un gran simpatico!  Lei è     proprio un ragazzo!" 
    In quel momento il campanello della porta  suonò.  Mancava  un  minuto     alle una e mezza. 
    10. 
    Lei  entrò  pallida,  in  affanno,  con  l'espressione di una bestiola     inseguita. 
    "Dio mio che faccia hai" fece la  signora  Ermelina,  e  le  diede  un     affettuoso schiaffetto. "Su, su. Che cosa ti è capitato?" 
    "Ho  fatto una corsa,  una corsa" rispose Laide senza neppure salutare 
    Antonio. "Al teatro c'era prova, non mi lasciavano andare." 
    "Ma se vai  a  Roma  per  una  settimana?"  disse  Antonio  "Che  cosa     importava più la prova?" 
    "Insomma al teatro sono così. Che ora è?" 
    "Le una e mezza oramai." 
    "Su,  su,  andate,  non  perdete  tempo"  esortò  la  signora Ermelina     ridendo. 
    Dorigo,  per agevolare la Laide,  si spogliò  in  un  lampo.  Lei  no,     invece, stranamente sembrava non avere fretta. 
    "Vengo subito" disse e si ritirò nel bagno.  Lui continuava a guardare     l'orologio.  Sentì a lungo scrosciare l'acqua di là.  Ricomparve  alle     una e trentasette. 
    "Dimmi  una  cosa"  le  chiese  subito  appena  la ebbe fra le braccia     "perché  l'altro  giorno  alla  prova   hai   fatto   finta   di   non     riconoscermi?" 
    "Scusami  sai"  fece lei pronta "ma io preferisco evitare.  Tu sapessi     come là dentro sono tutte pettegole e maligne.  Se  ti  salutavo,  poi     subito cominciavano a domandarmi dove ti avevo conosciuto e per come e     per cosa." 
    "Ma almeno un sorriso, un segno!" 
    "No no, io in queste cose sono molto precisa." 
    "Però io adesso so come ti chiami." 
    "Oh bella, Laide, mi chiamo." 
    "No, il cognome." 
    "Sai il mio cognome?" 
    "Sì." 
    Lei sottrasse la bocca alla sua bocca: 
    "E allora, come mi chiamo?" 
    "Mazza, ti chiami." 
    Allora lei, stizzosa, si mise a pestare i pugni sul cuscino: 
    "Che  rabbia,  che  rabbia!  Te l'ho detto che non mi piace far sapere     certe cose. E come l'hai saputo?" 
    "Niente. C'era una che si è avvicinata e ti ha detto: senti, Mazza." 
    "Be', mi dispiace." 
    "Perché? Non ti fidi di me?" 
    "Cosa c'entra? Ma è sempre meglio..." 
    Che bella bocca aveva, però, piccola, viva, pneumatica. 
    Lui cercò di agevolarla,  ci teneva a  mostrarsi  superiore,  un  vero     gentleman:  alle  due  meno  diciotto  tutto era già finito.  Mica che     questo si potesse dire far l'amore. Ma c'era il treno da prendere. 
    "E le valige?" 
    "Sono giù in portineria." 
    "Io sono pronto. E tu?"     "Solo un colpo di rossetto."     Uscirono insieme dalla stanza. 
    "Dio Dio che faccia hai oggi,  non sembri neanche più tu" disse ancora     la signora Ermelina. 
    Lei: "Sono proprio tanto brutta?". 
    "Macché, solo che devi esserti strapazzata." 
    "Lo  so.  A  teatro  non  ce  la  faccio  più.  Del resto ho deciso di     piantarla.  Non  è  più  come  una  volta.   Adesso  c'è  un  ambiente     spaventoso." 
    Lui  fu  pregato  di  aspettare  fuori sul pianerottolo.  Le due donne     dovevano fare i conti, evidentemente. Sentì delle voci.  Poco dopo lei     comparve. 
    Le valige erano due, abbastanza belle. La più grande di pelle bianca e     nera si faceva fatica a sollevarla da terra. 
    Con quel peso lui si avviò alla macchina,  poco lontana.  Erano le due     meno cinque. E il sole splendeva su Milano. 
    "Perché dicevi che è un ambiente spaventoso?" chiese lui, gli sembrava     strano il commento da parte di una ragazza come lei. 
    "Ma sì, ma sì" fece lei irritata "ti prego,  non farmi parlare.  Ne ho     sopra i capelli. Tanto, ho deciso di venir via." 
    Erano arrivati alla seicento di Antonio. Caricarono le valige.     "E quando ti decidi" fece lei "a cambiare questa trappola?" 
    "Lascia perdere. Per girare in città è ancora la più comoda." 
    "Io sono abituata a qualcosa di meglio, sai?" 
    "Cosa? Jaguar, Mercedes, Rolls Royce?" 
    "Be', non prendertela, scherzavo." 
    Erano usciti da via Velasca, 25, una grande casa, la signora Ermelina,     stava al sesto piano. 
    Da via Velasca,  25,  una nuova casa,  avrà avuto due tre anni, Dorigo     portò le  valige  fino  in  piazza  Missori  dove  aveva  lasciato  la     macchina.  Al sesto piano c'era un lungo pianerottolo, nella penombra,     e in fondo c'era una porta, qui stava la signora Ermelina.     Dorigo sistemò le due valige nei sedili posteriori;  venne il  custode     del  posteggio,  era  un  uomo  cordiale  che assomigliava al ministro     Pella, lui gli diede cento lire di mancia.  Laide sedendosi,  le gonne     si ritirarono, comparvero le ginocchia, portava delle calze colore del     fumo,  le  ginocchia e qualcosa di più,  un presentimento.  Nella casa     della signora Ermelina la camera da letto era pulita ma nuda, il letto     era grande, non c'erano Crocefissi né Madonne, solo un orribile quadro     oleografico con una marina. 
    Lei disse fammi il piacere dovresti passare da via Larga devo  passare     dal mio calzolaio a ritirare un paio di scarpe. 
    Lui  mise  in  moto,  c'era  un  traffico  della malora,  si procedeva     lentissimi lui guardò l'orologio erano già le due. 
    Lui guardava Laide al suo fianco,  era la prima volta  che  veniva  in     macchina con lui. Ma lei non si volse. 
    Lui  pensava  che Laide lo avrebbe guardato,  mica che si illudesse di     essere bello ma in  fondo  un  uomo  come  lui  avrebbe  dovuto  farle     piacere,  per la vanità se non altro, sentirsi protetta da una persona     così per bene,  lei in fondo non doveva essere poi  tanto  abituata  a     persona così per bene,  lei senza dubbio una persona così per bene non     l'aveva mai incontrata o invece sì ne aveva senza dubbio incontrate  e     c'era  andata  in letto e li aveva baciati con tutte le altre pratiche     carnali  attinenti  ma  nessuna,  di  queste  persone,  l'aveva  certo     trattata  come  lui,  tutte  l'avevano trattata come una maschietta da     ventimila,  con tutti i complimenti del caso dietro  a  cui  c'era  un     sommo  disprezzo - così pensava - mentre lui non faceva differenza fra     per bene e non per  bene,  lui  la  trattava  come  una  signora,  una     principessa  non  l'avrebbe  trattata meglio,  non avrebbe avuto tanti     riguardi. Un sorriso, uno sguardo di riconoscenza gli sembravano quasi     dovuti. 
    Ma lei non  lo  guardava,  benché  lui  continuamente  si  voltasse  a     guardarla. Lei guardava dinanzi, nella strada, con un'espressione tesa     e quasi ansiosa, non era più la ragazzina arrogante e sicura di sé.     Non  aveva  quasi  rossetto,  non  era  più  bella,  era  una bestiola     spaurita, come quando era comparsa dalla signora Ermelina. 
    "Ecco qua. Puoi fermare qua?" 
    "Fa' presto, però, senò mi prendo una multa." 
    Non era più la ragazzetta spavalda  e  orgogliosa,  era  una  creatura     inseguita  che  cercava  scampo.  Scese  dalla macchina ed entrò in un     piccolo vecchio portone. Lui accese una sigaretta.  Erano già le due e     cinque. 
    Ricomparve  poco  dopo  con  in  mano  un  sacchetto  di  cellofan che     conteneva due scarpe. 
    "Sono nuove?" 
    "No, no, le ho portate a rifare i tacchi." 
    Di corsa verso la stazione.  E lui  continuava  a  guardarla,  non  ne     poteva fare a meno.  Lei no. Lei guardava davanti, il naso non era più     capriccioso e petulante,  era diventato la cosa più  importante  della     faccia, sembrava che fiutasse un pericolo. 
    Non parlava,  era chiusa in sé,  un pensiero impaziente e preoccupante     la teneva, guardava davanti a sé, sulla strada, ma non era impazienza,     non era paura di perdere il treno,  era qualche cosa di più.  Come  se     tutto,  intorno a lei,  fosse nemico, e lei dovesse guardarsi. Come se     ciò che l'aspettava, fra cinque minuti, fra un'ora, domani,  fosse una     minaccia.  Come se il viaggio che stava per fare non fosse una gioia e     un riposo bensì una "corvée" ingrata, a cui doveva assoggettarsi. 
    Non era bella,  era pallida,  aveva un segreto e fastidioso  pensiero. 
    Lui continuava a guardarla, lei non rispondeva. 
    Ma  più lei guardava intorno,  quasi guatando,  più diventava lontana,     irraggiungibile,  personaggio di un mondo a lui vietato.  E sempre più     Dorigo  la  desiderava  benché  non  fosse sua,  benché fosse di altri     uomini ignoti,  di moltissimi altri uomini ch'egli odiava  sforzandosi     di immaginarli: alti, disinvolti, coi baffetti, al volante di macchine     potenti, che la trattavano come cosa loro, come una delle tantissime a     loro  completa  disposizione,  da non pensarci su nemmeno,  al momento     adatto della sera, dopo il "night", un po' sbronzi,  menarla in camera     e neppure guardarla mentre si spogliava,  come i satrapi antichi, loro     di là nel bagno a orinare e sciacquarsi le gengive con l'Odol,  sicuri     di ritrovarla in letto,  completamente nuda, e se era il caso, poi, se     gli veniva la voglia,  strizzarle un poco le tettine,  e nel  migliore     dei casi piegarsi,  divaricandole le cosce con le braccia, e affondare     il muso nell'inguine,  suprema degnazione per loro,  fusti selezionati     con  Ferrari e "yacht" a Cannes,  ma all'indomani mattina,  al golf di     Monza,  neppure ne avrebbero accennato,  una puttanella qualunque come     tante da non farci nessun caso,  né più né meno di un beveraggio preso     al bar paesano dove ci si ferma durante il lungo viaggio  in  macchina     scoperta sotto al sole,  unicamente per calmare la sete e poi via quel     bar sarà per sempre dimenticato anche la barista bruna mica male che a     un certo punto, cercando la bottiglia del selz, si è chinata in avanti     e allora,  nell'ampia scollatura dell'abito trasandato ma  estivo,  si     sono intraviste,  anzi si sono viste benissimo le due tonde sode tette     da contadina e per un istante si è pensato come sarebbe bello fermarsi     qui e nella notte calda punteggiata di zanzare,  mentre fuori di tanto     in tanto passano i camion col loro mastodontico frastuono, rovesciarla     sul  letto  e denudarla,  scoprendone le muscolose membra brune,  così     naturali,  con quel buon odore di sudore e di sapone  di  bucato,  lei     abbandonata al maschio ricco e forestiero,  con l'ingenua vanità della     campagnola che crede forse di vivere  così  un  pezzo  del  romanzo  a     fumetti  letto due ore prima mentre il cavalier Frazzi e il Viscardoni     giocavano a briscola nell'angolo là in fondo e forse lui  dopo  avermi     goduta  capirà  che  razza  di  manza  sono  e  mi  porterà con la sua     meravigliosa macchina a Milano e mi comprerà una casa e mi  porterà  a     teatro  e  io gli farò vedere con la mia corporatura a quelle squinzie     là dal petto floscio,  le farò sbavare dall'invidia.  Ma  fuori  nella     macchina c'è la Claudia che aspetta,  quella sofisticata che ha finito     per  scocciarmi  l'anima  ma  non  si  può  piantarla  così,   per  le     convenzioni fortissime borghesi che impongono un contegno e allora lui     caccia  via il desiderio della servente,  non la saluta nemmeno,  esce     nel sole,  risale in macchina e via per l'autostrada,  mentre lei,  la     Claudia, sonnecchia domandando ogni tanto, lentamente: "Dove siamo?".     La  Laide,  quella creatura umana seduta di fianco a lui nella piccola     automobile, con tutti i suoi ricordi di bambina, sogni, palpiti, ansie     scolastiche, desideri di giocattoli e di abiti belli,  giorni di festa     cominciati  con  bellissime  speranze  e finiti con la delusione della     sera nella cameretta squallida senza finestre, con tutto lo sterminato     mondo di ricordi, realtà, speranze, le scarpette fruste, la sottoveste     fatta   in   casa,   l'illusione   di   essere   speciale,   destinata     all'attenzione  dei  signori,  capace  di  farli  innamorare  e invece     niente,  questa creatura meravigliosa esposta alla domanda  e  offerta     del mercato, la ruffiana che dice: avrei una bambina come piace a lei,     bruna,  sottile,  libidinosa  sa?  e lui che dice speriamo che non sia     come l'ultima volta,  l'ultima volta  è  stata  una  ciafeca  non  era     neanche  capace  di  baciare.  E allora la Laide viene fatta entrare e     lui,  senza neppure domandarle il nome se la fa sedere sulle ginocchia     e  comincia  a  palparla  e  poi  le  apre  sovrappensiero la chiusura     automatica lungo la schiena e lei  si  lascia  fare  e  lui  le  sfila     l'abito  e slaccia il fermaglio del reggipetto sulla schiena e poi con     le dita le stuzzica  i  piccoli  seni  scoperti,  verginali,  come  un     giochetto  risaputo  e intanto con l'altra mano le cerca l'inguine per     provarne le reazioni no no,  basta!  era assurdo era pazzesco che cosa     in  fondo gliene fregava di cosa facesse quella ragazzina dove andasse     e con chi?  era una delle tante non aveva mica intenzione un uomo come     lui  alla  sua  età di incastrarsi con una simile ci mancava altro che     andasse pure a farsi fottere da chi voleva e  da  quanti  voleva,  lui     aveva cose ben più importanti per la testa certo gli piaceva questo sì     non solo la faccia e il corpo ma tutto anche il modo di parlare quegli     affioramenti di dialetto milanese, come si muoveva e camminava, averla     accanto in auto gli piaceva mica che oggi ci facesse una straordinaria     figura lei era proprio conciata pallida e tirata pareva fino brutta no     proprio la sua vicinanza gli piaceva e l'essere salita in macchina con     lui  dopo  tutto  era una prova di confidenza,  se ne sentiva in fondo     lusingato,  ridicolo fin che si vuole ma era proprio  così:  lusingato     come  per  la  degnazione di una più in alto di lui,  del resto questa     creatura per il momento era seduta accanto, nell'automobile,  per quel     fuggevole momento,  se non era sua,  non era però di nessun altro, fra     poco, fra tre ore, questa sera, sì, sarebbe stata nuda,  abbracciata e     stretta  e posseduta da un altro corpo di maschio,  giovane,  virile e     muscoloso forse, ma per adesso no,  per il breve tragitto che restava.     E lui pensava ma non diceva niente. E lei pensava, si capiva benissimo     che  pensava a qualcosa non riguardante lui Antonio,  pensava a chissà     quali pasticci per rimediare un po' di soldi. 
    Fino a che la tregua cessò e,  fermatasi la  macchina  nella  galleria     delle carrozze alla stazione centrale di Milano, lei discese, sperduta     e tesa,  cercando con gli occhi un facchino che le portasse le valige. 
    Poi si volse: "Dammi il tuo indirizzo". 
    "Perché?" 
    "Ti manderò una cartolina." 
    Tassì urgevano alle spalle,  strepitando.  Lui ripartì,  la  intravide     un'ultima  volta,  di schiena,  che entrava nella biglietteria col suo     passo fermo sicuro e disdegnoso di ballerina. Ma partiva veramente? 
    11. 
    Perché se la prendeva tanto? Perché continuava a pensarci? Di che cosa     aveva paura?  che Laide scomparisse?  Figurarsi.  Bastava un colpo  di     telefono  e  lei  correva  a  prendere  un tassì;  e lui l'aveva a sua     disposizione,  con la biancheria in ordine,  tutta ben lavata da poter     baciare impunemente in ogni parte del corpo. 
    No.  Aveva un bel fare questo ragionamento.  Non bastava.  Lei sarebbe     accorsa, è vero, alla chiamata della signora Ermelina e sarebbe venuta     in letto con lui ma tutto in fondo si riduceva a  mezz'ora  un'ora  al     massimo,  questo  era  per lei solo un breve intermezzo di lavoro,  da     risolvere con gentilezza ma anche con la  maggior  celerità  possibile     (Dorigo  si era ben accorto di non farla godere,  quando le baciava il     sesso la Laide teneva chiusi gli occhi,  le labbra socchiuse tutto lì,     ma  per il resto non un vero palpito,  un sospiro,  un gemito,  meglio     così comunque piuttosto che le disgustose commedie di certe prostitute     convinte che in amore  tutti  gli  uomini  senza  distinzione  debbano     essere completamente cretini). Mezz'ora, un'ora al massimo con lui, un     paio  di volte alla settimana.  Ma il resto?  Tutte le altre ore della     giornata e della notte?  Dove andava?  Chi frequentava?  La  sua  vera     vita,  speranze,  divertimenti, gioie, vanità, amori, era altrove, non     nel brevissimo tempo trascorso con Antonio.  Laggiù era lei veramente,     laggiù era tutto quello ch'egli' avrebbe voluto sapere di lei,  laggiù     era il misterioso affascinante,  forse anche turpe e squallido mondo a     lui vietato.  Che rabbia per esempio quando,  dopo aver fatto l'amore,     lui le proponeva di accompagnarla a casa in macchina e lei  diceva  di     no,  si  doveva  fermare  ancora  un  poco  dalla signora Ermelina per     provare un vestito e lui  capiva  benissimo  che  il  vestito  era  un     pretesto  qualsiasi,  in  realtà  lei  restava  in  attesa di un altro     cliente.  Oppure,  se l'incontro avveniva di sera,  lei se ne  fuggiva     prima  di  lui,  la  aspettavano  a  teatro per esempio,  o non voleva     rincasare tardi senò sua sorella che  scenata,  oppure  c'era,  sotto,     un'amica che l'aspettava in macchina. 
    E  poi  non  era  vero  neppure  che  la Laide,  per guadagnarsi dieci     quindicimila,  fosse sempre a  sua  disposizione.  Oggi  per  esempio,     l'incontro  era  per  le due e mezza e la Ermelina per telefono gli ha     detto che era andata la sera a cercarla al  "Due"  e  si  era  apposta     fatta  accompagnare da un'amica e la Laide le aveva detto che alle due     e mezza sarebbe venuta e Antonio è andato alle due e mezza e là  c'era     soltanto la Wanna quella sciagurata, perché la signora Ermelina era di     là  in  cucina  e  la  Wanna  gli  disse che poco prima la Laide aveva     telefonato che non poteva perché doveva partire per Modena e allora  è     rimasto  che  non  capiva neppure quello che gli stava succedendo e la     Wanna lo guardava perfino con una specie di misericordia e a un  certo     momento  gli  dirà  "Abbiamo  preso una scuffietta eh" e lui non disse     niente,  nel salotto vuoto accende una sigaretta e allora lei la Wanna     si fece più vicina e comincia a toccarlo qua e là e allora Antonio pur     di  liberarsi  da quell'angustia,  dopo aver resistito un poco - aveva     anzi deciso di andarsene - ha fatto segno  di  sì  se  non  altro  per     dimostrarle  che  non era vero niente.  Così si appartarono di là e la     Wanna si spogliò nuda e cominciò a fargli quei giochi pervertiti che a     lui piacevano di solito ma non  quel  giorno  e  tutto  è  un  piacere     animalesco   esaurito  in  pochi  istanti.   Dal  letto,   mentre  lui     visibilmente abbacchiato stava rivestendosi,  la Wanna lo guardava con     un sorriso di compatimento:     "Una bella scuffietta eh?" 
    "Come sarebbe a dire?"     "La Laide no?"     Lui alzò le spalle. 
    "Dimmi" fece la Wanna "dunque lavora così bene?" 
    "Che discorsi! Mi piace." 
    "Su, sii sincero. Ci sa fare come me?" 
    "Cosa significa?" 
    "Strano. La Laide, quelli che ci vanno, dopo la prima volta..." 
    "Dopo la prima volta cosa?" 
    "Dopo la prima volta stop,  una seconda volta non ci tornano, ne hanno     abbastanza, preferiscono cambiare." 
    "Ah sì?" 
    "Tu sei il primo.  Di solito,  con quella  là  una  volta  sola,  dopo     preferiscono  cambiare.  E  sì che è carina...  Con tutti quei capelli     neri... vero che è abbastanza carina?" 
    Lui la guardò con odio.  Quella donnaccia parlava della Laide come  di     una  sua  pari,  altrettanto  disposta a vendere il suo corpo al primo     venuto. E purtroppo aveva ragione.  Eppure gli sembrava spaventoso che     quella   fresca  ragazzetta  dovesse  essere  messa  nel  rango  delle     prostitute di mestiere e che costoro la considerassero collega. 
    "Carina, vero?" insisteva la Wanna, per sfottere. 
    "E piantala, va'!" rispose Antonio, finalmente esasperato. 
    La Wanna scoppiò in una risata: 
    "Ma guardatelo,  non vuole  che  si  parli  male  del  suo  amore.  La     verginella!  Se  ne è presi un reggimento,  la tua Laide.  Guarda,  ti     dico, di ragazze ne conosco, ma una che si dia tanto da fare come lei,     non ho mai vista nessuna... Del resto, se a te piace!..." 
    "Be'" disse lui "io la trovo molto carina." 
    La Wanna: "Molto carina?" la voce si fece  cattiva.  "La  sai  la  sua     specialità?"     "Specialità come?" 
    "Nel far l'amore, no? Non ti sei accorto?" 
    "Accorto di cosa?" 
    "No?  E'  meglio  se  tu  non lo sai.  Si vede che con te non si è mai     lanciata." 
    "Specialità come?" 
    "Meglio che tu non sai.  Se  tu  sapessi,  ti  passerebbe  la  voglia,     garantito. O ne avresti ancora più voglia. Voi uomini!" 
    "Come sarebbe a dire?" 
    "Niente." 
    "Vuoi dirmi o no? che specialità sarebbe?" 
    "Meglio di no, mica che sia un mistero è lei la prima che lo dice, lei     se  ne  vanta  sai con me che sono stata due anni in quelle case,  lei     vuol far bella figura ha paura di fare la pivella vuol fare  la  prima     della  classe  ma poi magari non è neanche vero no è meglio che non te     lo dica del resto proprio il fatto che con te quei  giochetti  non  li     ha..." 
    "Giochetti?" 
    "Giochetti,   esercizi,  porcherie,  sconcezze,  chiamali  come  vuoi,     proprio il fatto che con te niente,  mi fa  pensare  che  siano  tutte     balle." 
    "Perché? E' proprio una cosa così tremenda?" 
    "Macché tremenda, bellissima anzi, se viene fatta bene."     "E   allora   mi  vuoi  spiegare  o  no?"  sentiva  quel  tormento  in     corrispondenza dello sterno. 
    "Ti ho detto,  meglio  di  no.  Ma  l'hai  presa,  allora,  una  bella     scuffia!" C'era una punta di astio. 
    "Io  me  ne  vado"  fece  Dorigo piegando due biglietti da diecimila e     infilandoli sotto un vaso di cristallo, vuoto, ch'era su un tavolo.  E     si avviò all'uscita. 
    La Wanna cercò di riparare: 
    "E non prendertela, dài! ma si può essere così? Non ti sei accorto che     scherzavo che era tutto uno scherzo?" 
    "Anche quella specialità che dicevi?" 
    "Ma se non la conosco nemmeno,  la tua Laide, l'avrò vista qui due tre     volte buongiorno buonasera tutto lì,  cosa vuoi che sappia  della  tua 
    Laide?" 
    "Allora inventavi?" 
    "Sì." 
    "Una bella carogna." 
    Si rovesciò indietro sul cuscino,  ridendo.  "Per farti arrabbiare. Mi     piace la tua faccia quando sei arrabbiato." 
    Se ne andò con un gran dispetto.  Capiva bene che era  meglio  lasciar     perdere.  Chissà in che incredibili pasticci la Laide era invischiata.     E di lui,  Antonio,  se ne infischiava totalmente.  Con tante  ragazze     anche  meglio  di  lei  che  ci sono in giro.  Una infatuazione simile     l'aveva avuta  durante  la  guerra,  ricordava,  a  Taranto,  per  una     bellissima bruna, triestina, che lavorava in casino. Nelle basi navali     le  case  di  tolleranza,  a  quei  tempi,  erano  fornite della merce     migliore.  E questa Luana era con lui molto  affettuosa.  Bene,  aveva     cominciato  a  pensarci,  l'andava  a  trovare  quasi tutti i giorni e     quando la sua nave si spostò a Messina le mandò anche delle cartoline,     chissà se le erano mai arrivate.  Si ricordava la tristezza quando  il     bastimento salpò da Taranto,  non l'aveva neanche potuta avvertire per     via del segreto militare,  era una mattina d'estate,  una vaga  nebbia     azzurra rilucente sulla rada, di là della quale biancheggiava la città     ancora  addormentata,  alla  luce del sole.  Dalla coperta,  mentre la     striscia candida delle  case  si  faceva  via  via  più  lontana,  lui     guardava  intensamente  in  corrispondenza del quartiere dove c'era il     postribolo con un'amarezza struggente  e  poetica,  lei  stanca  stava     dormendo  e  certamente  non  sognava  di  lui,  uno delle centinaia e     centinaia  che  la  frequentavano,  eppure  le  voleva  bene,  con  un     sentimento  pulito,  avrebbe  desiderato  poter fare qualcosa per lei,     pensava perfino,  se l'avesse rivista,  di  regalarle  un  anello,  un     braccialetto così da poter entrare in qualche modo nella sua vita.  Ma     dopo pochi giorni non ci pensava  più,  le  stesse  violente  emozioni     della guerra avevano spazzato via l'assurdo sentimento.  E non l'aveva     più rivista.  Dopo l'incontro mancato dalla signora Ermelina,  Antonio     quindi  decise  di  sbarazzarsi di quel fastidioso cruccio.  Il giorno     dopo  andò  a  sciare,  rimase  lontano  una  settimana,   si  sentiva     tranquillo, al ritorno riprese il lavoro con l'animo in pace. 
    12. 
    Non ci pensa più,  erano passati quasi quindici giorni, non ci pensava     più. E' nel suo studio, mezzogiorno,  ha fretta di sistemare il lavoro     perché  alle  due e mezza verrà a prenderlo l'amico Cappa per andare a     Saint-Moritz,  lo preoccupa piuttosto il tempo perché sembra che  stia     per  piovere,  oramai  non  ci  pensava  proprio,  il  telefono suonò. 
    Meccanicamente, alzò il microfono. 
    "Pronto." Quella voce con l'erre.  Era la seconda volta che  la  Laide     gli telefonava. La voce gli penetrò dentro, gli scendeva nel petto. Un     senso di meraviglioso sollievo.  Come mai questo sollievo?  Ma se alla     Laide aveva rinunciato.  Se non ci pensava più.  Perché questa  gioia? 
    "Come mai mi telefoni?" 
    "Niente. Ti dispiace? Volevo salutarti." 
    "Anzi, mi fai piacere. E cos'hai fatto in tutto questo tempo?" 
    "Se sapessi che scocciatura. A Modena per lavoro." 
    "Che lavoro?" 
    "Ma fotografie, lo sai." 
    Per  una  frazione  di  secondo  il  pensiero  di lasciar perdere,  di     liquidarla,  bastava le dicesse che andava via qualche giorno,  se mai     dopo,  un generico rinvio. Bastava un niente. Bastava un niente perché     lui fosse salvo. 
    Ma perché salvo? Che pericolo correva? Era ridicolo.  In fin dei conti     anche se di quando in quando faceva l'amore con la Laide! Non era mica     la  peste.  E  dopo tutto era lei adesso che lo cercava.  Poteva anche     darsi che la Laide avesse detto la verità,  forse era stata  veramente     via per tutti questi giorni. E adesso, appena tornata, gli telefonava.     Forse  Antonio  non  le  dispiaceva.  Forse  l'immagine  di lui le era     rimasta nel ricordo come una cosa pulita e rassicurante, forse sentiva     il bisogno di lui, forse era stanca di quella vita balorda,  forse era     stufa di tipi volgari,  di ambienti equivoci,  di amiche infide, forse     si sentiva sola. 
    "Allora" disse lui "ci si può vedere?" 
    "Ma certo. Vuoi che ci vediamo oggi?" 
    "Oggi non posso. Vado a sciare. Ma domenica ritorno." 
    "Ah... Va be' allora ti telefono lunedì." 
    "A che ora?" 
    "A mezzogiorno." 
    "D'accordo. Ciao allora. E grazie della telefonata." 
    "Figurati.  Ciao" disse lei e a Dorigo parve di  avvertire  nella  sua     voce  una  sfumatura  di  delusione,  come  se  Laide sperasse che lui     avrebbe rinunciato anche allo sci pur di rivederla subito. 
    Meglio così, pensava soddisfatto, farsi desiderare è sempre la tattica     migliore. Era ancora tranquillo. Di più. Era contentissimo.  Leggero e     sicuro di sé.  Che la telefonata lo avesse fatto felice non gli sembrò     preoccupante. Preoccuparsi? Era lui a dominare la situazione.     Ma  il  lunedì,   quando  l'orologio  sulla  parete  di  fronte  segnò     mezzogiorno,  si accorse di essere impaziente.  Si rese conto anzi che     per tutta la mattina aveva aspettato che mezzogiorno venisse, l'attesa     era cominciata fin dalla sera prima quando lui era tornato  a  Milano,     l'attesa era cominciata venerdì scorso nell'attimo stesso che la Laide     aveva  detto: Figurati.  Ciao.  Per tre giorni lui aveva continuato ad     aspettare, senza saperlo. 
    E  adesso  non  smetteva  di  guardare  l'orologio.   Trac  faceva  il     meccanismo  ogni  minuto,  e  la  lancetta faceva un piccolo scatto in     avanti.  Ogni trac era un pezzetto di tempo  che  se  ne  andava,  una     probabilità  in  meno che Laide mantenesse la promessa.  Da venerdì in     poi quante cose potevano  essere  successe,  quanti  uomini  l'avevano     desiderata,  le avevano fatto la corte, più giovani, ricchi e belli di     lui,  quante occasioni nel giro di tre giorni per una ragazzina  senza     testa lanciata alla disperata attraverso il mondo. 
    Alle dodici e dieci si alzò in piedi,  non resisteva più, non riusciva     più a concentrarsi sul lavoro, c'era da rispondere a una lettera,  lui     la leggeva e rileggeva senza riuscire ad afferrarne il senso.     Pensò:  se  entro cinque minuti non mi telefona,  vuol dire che non si     farà più viva. Magari non è neanche a Milano,  adesso,  forse ancora a     Modena o a Roma, chissà. 
    Fu chiamato di là da Maronni,  c'era il Blisa,  quello della cartiera,     per discutere il progetto del campo sportivo.  E se Laide  gli  avesse     telefonato mentre lui era di là? 
    La  porta del suo studio era di quelle che si chiudono da sole per una     molla a stantuffo.  La spalancò mettendo una sedia che tenesse  aperto     il battente. Anche l'uscio dell'altra stanza lo lasciò semiaperto alle     sue spalle,  per fortuna non aveva la molla. Si accorse che Maronni lo     guardava in certo modo. 
    "Aspetto una telefonata" disse. "E' uno che telefona da fuori."     Maronni sorrise: "Da fuori?". 
    "Sì, doveva telefonarmi da Como." 
    Mentì abbastanza bene. Di solito a mentire faceva una fatica.     Anche qui c'era un orologio.  Trac a ogni minuto.  In ogni  parte  del     palazzo c'erano di quegli orologi che facevano trac a ogni minuto. Gli     estranei restavano impressionati. Invece dopo poco ci si abituava, non     si  udiva  più  il  trac,  non si riceveva più la scossa.  Anche nello     studio di Maronni, un bellissimo ufficio, c'era un orologio.  Segna le     dodici e sedici,  segna le dodici e diciassette.  Il discorso riguarda     la facciata che guarda sulla strada.  Il Blisa  vorrebbe  qualcosa  di     rappresentativo, parla perfino di colonne. Persuaderlo a fare qualcosa     di decente sembra un'impresa disperata. 
    Con la coda dell'occhio Antonio vede scattare la lancetta. Le dodici e     diciannove.  Non  si farà più viva non gli telefonerà più,  scomparirà     nella nebbia con altri uomini sconosciuti altri uomini  giovani  altri     uomini  sicuri  di  sé.  Forse  è  meglio  una parete nuda a curvature     verticali, dopo tutto non gliene frega più di niente,  adesso lei dove     sarà?  Ci  sarà  un telefono dove lei si trova?  Ci sarà un elenco per     cercare il numero,  lei certo il numero non  se  lo  ricorda,  lei  il     numero non se lo ricorda garantito.  A parlare del progetto faceva una     tremenda fatica però ci riusciva sebbene con lunghe pause.  Guardò: le     dodici e venti.  Laide non telefonerà più.  Ma esiste la Laide? Esiste     una ragazza con un nome così buffo? Non è mai esistita. E' esistita ma     non esiste più.  Esiste ma lontana lontanissima le  dodici  e  ventuno     l'orologio  ha fatto trac adesso finalmente anche lui ha sentito.  Non     la rivedrà mai più. 
    Con un pretesto lasciò Maronni e Blisa chiudendosi  nel  suo  ufficio.     Come  fu solo respirò.  Che fatica dominarsi alla presenza degli altri     magari ridere e scherzare.  Adesso almeno non c'era più il pericolo di     non sentire il campanello del telefono, accese una sigaretta, dopo due     boccate  la  gettò,  gli  parve  fosse mezzanotte,  una specie di buio     dentro di lui, era pazzesco, era ridicolo, peggio ancora,  era indegno     per  un uomo come lui far tante storie per una ragazza squillo,  certi     giorni non era neppure bella,  certi giorni era proprio bruttina,  sì,     sì,  non proprio racchia ma abbastanza insignificante lui si attaccò a     questo pensiero consolante,  non era bella ma  mediocre  comunque  non     vale la pena. 
    Ci  voleva  altro.  E  quel  musetto vivo e spiritoso,  quella gaiezza     fisica,  le gambe,  pensava,  quelle cosce lunghe e strette che  anche     sotto le gonne, nel fare il passo, rivelavano una spavalda giovinezza,     quella  meravigliosa  inverecondia,  più  ingenua  e  casta del pudore     rigoroso delle educande di collegio, per cui la Laide, senza il minimo     imbarazzo,  se era caldo,  si sedeva e sollevava le gonne scoprendo le     cosce fino all'inguine, quel fanciullesco dono di sé al prossimo, come     una  bambina  a cui hanno fatto credere che è tutto un gioco e non c'è     niente di male,  quella folla di ombre ignote che  le  fa  da  sfondo,     uomini  e  donne,  a  cui lei appartiene,  luci di sghembo nell'angolo     della balera di moda, telefonate ambigue,  folli corse sull'autostrada     con  la  supermacchina  del  figlio  di  famiglia  che a centosessanta     all'ora le  prende  con  la  mano  destra  la  testolina  e  la  bacia     lungamente,  nell'interno profondo della piccola bocca,  quel suo modo     di apparire,  a  passi  incerti  e  fieri  nello  stesso  tempo,  come     guerriero che entri nella tana del drago,  quel dispetto,  quel dire e     non dire,  quel  profilo  come  si  vedono  negli  album  dei  pittori     dell'ottocento, nel quale c'è insieme la plebe, la razza, il sesso, la     famiglia,  la  storia  anche,  quegli  occhi  rotondi  ora fissi,  ora     spaventati,  ora impertinenti e duri,  ora allegri e fidenti  come  di     contadinella  che  va  alla  sagra,  quel suo vendere il corpo come se     fosse un piccolo sport di  moda  fra  le  ragazzine,  quella  composta     dignità nel letto senza rilasciarsi mai alle smanie della carne,  quel     completo abbandono che sapeva essere ritegno, quella prostituzione che     era ingenuo rituale di casta per cui lei povera dava ai ricchi il  suo     corpicino  nudo  da  godere,  quel  desiderio di vita stupido,  folle,     conformista che è un modo di esistere  per  tante  giovanette,  quella     pronuncia  con l'erre,  riflusso forse sotterraneo di una aristocrazia     smarritasi negli umidi meandri dei cadenti palazzi, fra un andirivieni     di servitori con le torce. 
    Il telefono suonò.  Non è lei,  si costrinse a  pensare.  Non  è  lei.     "Pronto" egli udì.  Lento, stanco, diffidente, con dentro una sfiducia     totale nel mondo, inconcepibile in una ragazzina di venti anni.     "Ciao" lui disse. 
    13. 
    Ora non si incontravano più dalla signora Ermelina. La Laide gli disse     che aveva litigato con la signora Ermelina e lo condusse  in  casa  di     un'amica. Ma poi lui approfittò dell'appartamento di Corsini, un amico     quasi  sempre  assente da Milano.  Era un bell'appartamento in fondo a     via Vincenzo Monti, vicino alla Fiera, era un appartamento allegro con     un grande soggiorno e una scala interna che conduceva  di  sopra  alle     camere  da  letto.  Il  suo  amico  non  c'era quasi mai,  comunque di     pomeriggio praticamente era sempre libero.  Alla Laide piacque  molto,     tutto  ciò  che  in  qualche modo la innestava,  come partecipe,  alla     agiata e rispettabile vita borghese,  le faceva un piacere immenso.  E     benché i mobili fossero moderni, si intuiva subito che l'inquilino era     una  persona  molto  chic  e  nello  stesso  tempo  solida,  non c'era     assolutamente l'aria del "pied-à-terre",  della "carbona"  di  scapolo     come si dice a Milano. 
    La  Laide girava curiosando,  tutta contenta come una bambina che stia     cercando i regali nascosti,  perlustrava i canterani della cucina e il     frigidaire,  sembrava  ci  trovasse gusto a prolungare indefinitamente     l'attesa di lui con i più neghittosi pretesti. E non che Antonio fosse     tanto impaziente di possederla,  ma solo in letto quando la  stringeva     nuda fra le braccia solo in quei brevi minuti si calmava completamente     l'inquietudine  maledetta  che  quella  ragazzina  gli  aveva messo in     corpo.  Lei poi in letto era molto più allegra e  vivace  del  solito,     mica che l'atto carnale con Antonio le procurasse molto piacere anzi è     chiaro che non gliene frega niente,  ma il letto forse diventa per lei     come un grande giocattolo sul quale è così divertente rotolarsi,  fare     scherzetti, infilarsi sotto le coperte e nascondersi (per i bambini il     sottocoperta  del  letto  non  rappresenta forse un mondo misterioso e     affascinante, una caverna immensa dove non si sa che cosa ci sia e che     non  si  osa  esplorare  fino  in  fondo  per  la  paura  di   restare     intrappolati  e  mentre  si  avanza strisciando nell'antro nero con la     coda dell'occhio si controlla che alle spalle le coperte non  chiudano     completamente  la  luce ma resti uno spiraglio,  un buco,  una fessura     luminosa che garantisca lo scampo nell'eventualità  di  un  improvviso     pericolo?),  il  letto  del  resto  è l'ambiente più perfetto per fare     piccoli litigi,  mostrarsi offesi,  mettere il broncio,  tampinarsi  e     provocarsi a vicenda,  per la scherma dei dispetti così importante per     dare gusto all'amore.  Tutte queste piccole e pressoché indescrivibili     civetterie  non  avevano però nulla di professionale o calcolato,  era     proprio la loro assoluta freschezza e spontaneità a eccitare Antonio e     magari irritarlo e magari portarlo alla esasperazione addirittura.     Per di più in letto la Laide perdeva quell'"aplomb" disdegnoso  a  cui     teneva  tanto  quando  per  esempio  camminava  per  la  strada,  nuda     risultava più bambina soprattutto per la piccolezza  delle  tettine  e     per  il  bacino molto stretto,  e lei stessa probabilmente se ne rende     conto e ne gode  e  allora  finalmente  si  sente  lei  padrona  della     situazione e vittoriosa,  fingerà di non accorgersi che nella lotta le     si è sciolto il chignon e i capelli neri si spanderanno  intorno  come     l'inchiostro  da  un  bottiglione infranto e allora si abbandonerà con     lui, sorridendo, a vanitose confidenze così candide da renderla ancora     una bambina.  "Sai che cosa ho io?" gli  dirà  "Che  sono  ancora  una     bambina ma sono terribilmente femmina." 
    "Una  volta  un ragazzo mi ha detto" racconta "io ero ancora piccolina     avrò avuto neanche dodici anni,  mi ha detto: tu Laide  sei  nata  per     fare impazzire gli uomini." 
    "Sai  che  cosa sono io?" gli dice,  nell'improvvisa eccitazione di un     lieto ricordo,  uno dei pochi forse che possiede,  quasi  pronunciasse     una  formula magica che la riscatti dalle miserie,  solennemente.  "Io     sono la nuvola. Io sono il fulmine. Io sono l'arcobaleno.  Io sono una     bambina deliziosa." E' nuda, inginocchiata sul letto, aperta dinanzi a     lui,  lo  fissa  con  occhi  impertinenti.  E sporge con quel suo moto     caratteristico le piccole labbra  sottili,  infantile  provocazione  e     sfida.  Mentre  Antonio  la  fissa in adorazione,  intimidito da tanta     sapienza  istintiva,  lui  con  tutto  il  suo  ridicolo  armamentario     letterario nella crapa. 
    14. 
    D'improvviso  si  rende conto di quello che forse sapeva già ma finora     non ha mai voluto crederci.  Come  chi  da  tempo  avverte  i  sintomi     inconfondibili   di   un   male  orrendo  ma  ostinatamente  riesce  a     interpretarli in modo da poter continuare la vita come prima ma  viene     il  momento  che,  per  la  violenza del dolore,  egli si arrende e la     verità gli appare dinanzi limpida e atroce e allora tutto  della  vita     repentinamente  cambia  senso  e  le  cose  più  care  si  allontanano     diventando straniere,  vacue e repulsive,  e inutilmente l'uomo  cerca     intorno  qualcosa  a cui attaccarsi per sperare,  egli è completamente     disarmato e solo, nulla esiste oltre la malattia che lo divora,  è qui     se  mai  l'unico  suo  scampo,  di  riuscire  a  liberarsi,  oppure di     sopportarla almeno,  di tenerla  a  bada,  di  resistere  fino  a  che     l'infezione  col tempo esaurisca il suo furore.  Ma dall'istante della     rivelazione egli si sente trascinare giù verso un buio mai  immaginato     se non per gli altri e d'ora in ora va precipitando. 
    Il  3  aprile verso le cinque.  In macchina da piazza della Scala vuol     prendere via Verdi ma il semaforo è rosso, stipate intorno le auto,  i     pedoni che passano,  il sole ancora alto,  una giornata bellissima, in     quel mentre immaginò la Laide sul bordo della  pista  di  Modena  dove     diceva  di  andare  a  posare  per fotografie di moda,  è là felice di     essere stata ammessa in quel  mondo  eccezionale  di  cui  i  giornali     parlano  tanto  in  termini quasi di favola,  è là che scherza con due     giovani collaudatori in tuta bianca,  quei tipi affascinanti,  simboli     incarnati  della  virilità moderna e uno le fa la corte e stupidamente     le domanda perché non fa del cinema,  un tipo come lei dovrebbe  avere     gran successo,  l'altro invece tace, è un ragazzo più tarchiato, nero,     dalla faccia quadrata e dura,  tace e solo di tanto  in  tanto  fa  un     lieve  sorriso  con  fare di complicità perché fra poco appena il sole     sarà sceso e la pista rimarrà deserta  lui  quella  maschietta  se  la     porterà  in  letto nella sua camera ammobiliata,  anche ieri del resto     lei non ha fatto la minima  difficoltà  come  se  fosse  la  cosa  più     naturale  del  mondo  lui  anzi restò stupito che una modella come lei     fosse così facile e gratis per giunta,  il semaforo  divenne  verde  e     Dorigo  ebbe  un sussulto per il colpo di clacson del solito imbecille     dietro a lui,  certo con fusti di quel genere la Laide si diverte e ci     va  con  entusiasmo  senza chiedere un centesimo non è neppure escluso     che sia lei a farci  qualche  regaluccio  proprio  per  dimostrare  di     essere una ragazza per bene,  sportiva e disinteressata,  a rifornirla     di grana ci pensassero i signori d'età della  ditta  Ermelina  ma  con     questi  è  tutta  un'altra faccenda,  con questi si tratta di lavoro e     mica che lei faccia un gran sacrificio perché in genere fortunatamente     sono persone educate,  di aspetto decente  e  molto  pulite  ma  certo     l'amore non c'entra per niente e ogni soddisfazione carnale è esclusa,     Dio  mio possibile che non riuscisse a pensare ad altro?  la mente era     fissa lì, sempre sullo stesso argomento tormentoso,  e all'altezza del     palazzo di Brera lo prese lo sgomento perché in questo preciso istante     ha  capito  di essere completamente infelice senza nessuna possibilità     di rimedio,  una cosa assurda e idiota,  tuttavia così vera e  intensa     che non trovava più requie. 
    Ora si accorge che,  per quanto egli cerchi di ribellarsi, il pensiero     di lei lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata, ogni     cosa persona situazione lettura ricordo lo riconduce  fulmineamente  a     lei  attraverso  tortuosi e maligni riferimenti.  Una specie di arsura     interna in corrispondenza della bocca dello stomaco,  su su  verso  lo     sterno,  una  tensione  immobile  e  dolorosa di tutto l'essere,  come     quando da un momento all'altro può accadere una cosa spaventosa  e  si 
    resta inarcati allo spasimo,  l'angoscia,  l'ansia,  l'umiliazione, il     disperato bisogno, la debolezza,  il desiderio,  la malattia mescolati     tutti insieme a formare un blocco,  un patimento totale e compatto.  E     capire che la faccenda  è  ridicola,  stolta  e  rovinosa,  che  è  la     classica  trappola  in cui cadono i cafoni di provincia,  che chiunque     gli avrebbe dato dell'imbecille e che perciò da nessuno può attendersi     consolazione,  aiuto,  o pietà,  consolazione e aiuto  possono  venire     unicamente  da  lei  ma  lei di lui se ne frega,  non per cattiveria o     gusto di far soffrire solo che per lei  egli  non  è  che  un  cliente     qualsiasi, del resto cosa ne sa Laide che Antonio è innamorato? non le     può passare neppure per la mente, un uomo di ambiente così diverso, un     uomo di quasi cinquant'anni. E gli altri? la mamma, gli amici? Guai se     sapessero.  Eppure  anche  a  cinquant'anni  si  può  essere  bambini,     esattamente deboli smarriti e spaventati come  il  bambino  che  si  è     perso  nel buio della selva.  L'inquietudine,  la sete,  la paura,  lo     sbigottimento, la gelosia, l'impazienza, la disperazione. L'amore !     Prigioniero di un amore falso e sbagliato,  il cervello non  più  suo,     c'era  entrata la Laide e lo succhiava.  In ogni più recondito meandro     del cervello in ogni riposta tana e sotterraneo  ove  lui  tentava  di     nascondersi  per  avere  un  momento  di respiro,  là in fondo trovava     sempre lei;  che non lo guarda neppure,  che non si accorge neppure di     lui, che ridacchia a braccetto di un giovanotto, che balla inverecondi     balli  manipolata  in  ogni  parte  del  corpo dal partner sudicione e     maligno,  che si  spoglia  sotto  gli  occhi  del  ragionier  Fumaroli     conosciuto  un  minuto  prima,   maledizione  sempre  lei,   insediata     selvaggiamente nel suo cervello,  che  dal  suo  cervello  guarda  gli     altri,  telefona  agli altri,  tresca con gli altri fa l'amore con gli     altri,  entra esce  parte  sempre  in  agitazione  frenetica  per  una     quantità  di  sue particolari faccende e traffici misteriosi.  E tutto     quello che non era lei,  che non riguardava lei,  tutto il  resto  del     mondo,  il lavoro,  l'arte,  la famiglia,  gli amici,  le montagne, le     altre donne,  le migliaia e migliaia di altre donne bellissime,  anche     molto  più  belle  e  sensuali di lei,  non gliene fregava più niente,     andassero pure alla totale malora,  a quella sofferenza insopportabile     soltanto  lei,  Laide,  poteva portare rimedio e non occorreva neppure     che si lasciasse possedere o fosse specialmente gentile,  bastava  che     fosse  con  lui,  al suo fianco,  e gli parlasse e magari controvoglia     fosse costretta a  tener  conto  che  lui  almeno  per  alcuni  minuti     esisteva,  solo in queste pause brevissime che capitavano di quando in     quando e duravano un soffio,  soltanto allora lui trovava  pace.  Quel     fuoco  all'altezza  dello sterno cessava,  Antonio tornava a essere se     stesso,  i suoi interessi di vita e di lavoro riprendevano ad avere un     senso,  i  mondi poetici a cui aveva dedicato la vita ricominciavano a     risplendere degli antichi incanti  e  un  sollievo  indescrivibile  si     spandeva in tutto il suo essere.  Sapeva,  è vero, che tra poco lei se     ne sarebbe  andata  e  quasi  subito  lo  avrebbe  di  nuovo  uncinato     l'infelicità,  sapeva  che  dopo  sarebbe  stato  ancora  peggio,  non     importa,  il senso di liberazione era così totale e  meraviglioso  che     per il momento non pensava ad altro. 
    E non è che la Laide gli desse speciali voluttà.  Anzi,  dopo la prima     volta era stato un calando. Solo la prima volta,  senza trascendere in     virtuosismi,  si  era  data  veramente  da fare.  Adesso era piuttosto     passiva, quasi intuisse che non ce n'era più bisogno, che lui,  tanto,     avrebbe  preferito  sempre  lei  alle altre colleghe.  E un giorno che     aveva osato dirle "Dio mio,  ma stai là come un  bacchetto,  non  vuoi     fare  proprio  niente,  tu"  aveva  risposto:  "Ma  è  l'uomo che deve     tampinare la donna e non viceversa". 
    Aveva sentito raccontare spesso di uomini, per lo più avanti nell'età,     che diventavano schiavi di una donna perché solo questa  donna  sapeva     procurargli  il  piacere  e  le  altre  no.  Una specie di stregoneria     sessuale. 
    Da principio si era chiesto se non gli stesse capitando  qualcosa  del     genere.  Purtroppo ha capito che il suo caso è completamente diverso e     di gran lunga più grave.  Se si fosse trattato soltanto di  un  legame     sessuale  non ci sarebbe stato motivo d'inquietudine.  Tutto si poteva     sistemare,  con un tipo simile,  in un semplice  rapporto  di  dare  e     avere. 
    No. Del possesso fisico ad Antonio, relativamente, importava ben poco.     Se  per  esempio  una  malattia  l'avesse costretta a non fare mai più     l'amore, in fondo lui ne sarebbe stato felice. 
    Immaginava per esempio che la Laide  fosse  andata  sotto  un  tram  e     avesse  perduto  una  gamba.  Come  sarebbe stato bello.  Lei inferma,     tagliata fuori per sempre dal mondo della  prostituzione,  del  ballo,     delle avventure, non più insidiata da nessuno. Soltanto lui Antonio ad     adorarla ancora. Questa forse l'unica possibilità che la Laide, se non     altro per gratitudine, cominciasse a volergli bene. 
    No.  Lui  la  amava  per  se  stessa,  per quello che rappresentava di     femmina,  di capriccio,  di  giovinezza,  di  genuinità  popolana,  di     malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era     il   simbolo   di   un   mondo  plebeo,   notturno,   gaio,   vizioso,     scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile     vita intorno  alla  noia  e  alla  rispettabilità  dei  borghesi.  Era     l'ignoto, l'avventura, il fiore dell'antica città spuntato nel cortile     di una vecchia casa malfamata fra i ricordi,  le leggende, le miserie,     i peccati, le ombre e i segreti di Milano.  E benché molti ci avessero     camminato sopra, era ancora fresco, gentile e profumato. 
    Gli  basterebbe  -  pensava  -  che  la  Laide diventasse un poco sua,     vivesse un poco per lui,  l'idea di  poter  entrare  come  personaggio     nell'esistenza  di  quella  ragazzina  e di diventare per lei una cosa     importante, anche se non la più importante,  questa la sua ossessione.     Ne sarebbe orgoglioso più che se una bellissima e potente regina,  più     che se Marilina Monroe cadesse alle sue ginocchia pazza  d'amore.  Una     ragazza-squillo,  una delle innumerevoli maschiette da tanto al colpo,     una piccola prostituta che chiunque poteva avere! 
    Non era una infatuazione carnale,  era una stregoneria  più  profonda,     come se un nuovo destino, a cui non avesse mai pensato, chiamasse lui,     Antonio,  trascinandolo progressivamente,  con violenza irresistibile,     verso un domani ignoto e tenebroso.  E la situazione,  considerata  da     qualsiasi parte,  non lasciava intravedere via d'uscita.  Non potevano     attenderlo che rabbie umiliazioni gelosie e affanni a non finire.     Capiva pure che convincerla  a  vivere  con  lui,  metterle  su  casa,     stabilire un comune menage,  sarebbe stato una follia.  Lui si sarebbe     coperto di ridicolo, lei dopo neanche una settimana avrebbe cominciato     a mordere i  freni.  Con  quelle  abitudini.  E  quasi  trent'anni  di     differenza d'età. 
    Anche tentare di redimerla non aveva senso. Per Laide prostituirsi non     era una pena,  una schiavitù,  un disonorante giogo. Sembrava per lei,     piuttosto,  un gioco eccitante e remunerativo che non costava speciale     fatica.  E  le  inevitabili  umiliazioni  se,  per  non scontentare le     ruffiane,  era costretta a subire uomini odiosi o  repellenti?  Quando     Dorigo  vi  aveva  accennato,  lei pronta aveva risposto,  con un moto     d'orgoglio: "Be', io posso dirmi fortunata.  A me sono sempre capitati     dei bei ragazzi". "Va là che qualche volta avrai dovuto andare con dei     vecchi  magari  senza  denti."  "Ti  dico  di  no.  Devo dire che sono     fortunata.  Del resto,  io cerco sempre di vederli prima.  Se  non  mi     vanno,  sta pur sicuro che non ci vado." "E hai mai rifiutato?" "Uffa!     non ce n'è mai stato bisogno." 
    Ma il triste era appunto questo. Mentre lui l'amava veramente e non la     desiderava soltanto,  era impossibile che lei  corrispondesse  al  suo     amore.  Certamente  la  Laide  lo  considerava ormai un vecchio.  Alla     Laide,  la sua personalità artistica,  quel fascino intellettuale  che     qualche  volta  faceva colpo sulle donne del suo mondo,  era del tutto     indifferente.  Per farsi prendere in considerazione da lei,  una bella     Maserati  ultimo  modello  contava  molto di più che aver costruito il     Partenone. 
    Nello stesso tempo,  benché il possesso  fisico  di  lei  passasse  in     seconda  linea,  il  pensiero  del suo corpo diventava un'ossessione a     motivo della gelosia.  Come l'infermo non resiste alla  tentazione  di     toccarsi  continuamente  la  parte  malata e così rinnova e attizza il     dolore,  così l'immaginazione di Dorigo non  cessava  di  fantasticare     scene  ipotetiche  ma  verosimili  col  solo risultato di moltiplicare     l'affanno: e senza pietà ne perfezionava i particolari  nelle  minuzie     più oscene.  La vedeva entrare nella "garçonnière" del nuovo attempato     cliente,  a cui era stata spedita dalla signora  Ermelina,  e  dopo  i     soliti  convenevoli  e complimenti sedersi sulle ginocchia di lui dopo     essersi sollevata le sottane non tanto per non spiegazzarle quanto per     fargli sentire  di  più  la  carnalità  e  il  calore  delle  cosce  e     sorridendo  con  quella sua piega maliziosa delle labbra,  senza tanti     preamboli, mentre una grande mano si è infilata sotto il golfino e già     le palpa il seno,  applicargli sulla bocca la sua bocca in uno slancio     spudorato e allora lui eccitatissimo portarla di là quasi di peso, e i     due  nudi sul letto,  gli allacciamenti,  le contorsioni,  i baci,  il     gusto di lei, forse, di scatenare nell'uomo la più esasperata tensione     così trovando motivo d'orgoglio per il proprio corpo con  la  speranza     di un regalino extra e lei non sa neanche come si chiami e cosa faccia     di  mestiere,  può darsi benissimo che per tutta la vita non lo riveda     mai più ma intanto lo stuzzica e lo  bacia  con  zelo  nei  punti  più     sensibili,  divertendosi  ai  sussulti  spasmodici  del  vecchio  come     bambina che punzecchia un rospo per il gusto di vederlo saltare. Tutto     ciò che costituisce  contaminazione,  ludibrio,  sozzura,  umiliazione     abbietta  per una ragazzina si dipanava nella mente di Dorigo e allora     lui,  magari seduto al tavolo  di  lavoro,  se  ne  restava  immobile,     assente e orribilmente teso,  con l'impressione che questa tortura gli     consumasse anni e anni di vita. C'era forse un oscuro compiacimento in     così dolorose fantasticherie? Le perverse congetture non servivano per     caso  a  rendere   la   Laide   sempre   più   provocante,   estranea,     irraggiungibile e perciò più degna di desiderio e di amore? 
    15.

Lei mise su un disco. Erano in casa di Corsini, l'amico di Dorigo, nei     giorni della Fiera Campionaria.  Il sole sulla terrazza, le tapparelle     abbassate quasi a terra eppure,  se si stava attenti,  quel  rombo  di     macchine,  di  vita,  di  impazienze,  di  progetti,  di  avidità  che     fermentava intorno, motori, voci, passi,  soldi,  stupidità,  musiche,     sudore, desideri animaleschi. Fin lì arrivava all'ottavo piano ma loro     due non lo sentivano.  Lei perché immemore di tutto, tesa solo ai suoi     oscuri calcoli e capricci,  lui perché nulla esisteva al mondo più  se     non quella ragazzina dal viso diritto e petulante,  dai lunghi capelli     neri, dal cuore dal cuore cosa? ce l'aveva? 
    "Cos'è?" lui chiese. 
    "E' il "cha-cha-cha"  più  bello  che  esiste.  "Los  cari¤osos""  lei     rispose con la sicurezza di chi nomina il "Tristano" o il "Rigoletto",     risaputo nutrimento di tutti. E in una specie di infantile esaltazione     cominciò a ballare da sola. 
    E'  sicura di sé.  L'alterno ritmo la trasporta avanti e indietro come     un'onda ma nello stesso tempo era lei padrona  e  dominava  l'impulso.     All'improvviso  non  ci  sarà  più  niente  di falso,  di taciuto,  di     nascosto, di vile, di meschino.  Le braccia tenute su come due piccole     ali  ripiegate,  i  fianchi  ondulanti  nello scatto del saltello,  la     faccia chiusa in un sorriso immobile che non è più suo ma della musica     stessa, ingenuo pensiero di cose belle, orgoglio di sé,  provocazione,     offerta.  Nel  moto  che  la porta avanti e subito si ritrae,  buttava     indietro la testa in gesto di abbandono quasi di fronte a lei ci fosse     un altare, un dio, la vita. 
    Lei si fermò a guardare la rastrelliera con dischi. Stavano per salire     la  scala  che  portava  di  sopra  alla  camera  da  letto.  Ma  lei,     neghittosa, si è fermata a esaminare i dischi.     "Cosa fai?" lui dice. "Faremo un po' di musica dopo." 
    Lei non rispose. Le piccole mani bianche ed estremamente gentili hanno     già  estratto  dalla custodia un grande disco,  ha aperto il coperchio     del grammofono, l'ha acceso,  si direbbe molto esperta.  Tanto esperta     che a lui viene un orribile sospetto: che Laide sia già stata là?  che     il suo amico la conosca da un pezzo e  se  la  sia  portata  a  letto?     Altrimenti  come  avrebbe  potuto  manovrare con tanta disinvoltura il     giradischi, che ha un complicato sistema automatico? 
    "Come mai sei così pratica?" 
    "Una mia amica  ce  l'ha  identico.  La  Flora.  L'avrò  fatto  andare     centinaia di volte." 
    Al  momento  giusto il "pick-up" automaticamente calò con un movimento     sornione come di rettile. Al primo contatto uscì la musica. 
    "Che cos'è?" lui chiese. 
    "E' il "cha-cha-cha" più bello che ci sia.  "Los  cari¤osos".  Giù  al 
    "Due" lo suonano sempre. Ma trovarlo in disco non è facile." 
    "Sai ballare bene il "cha-cha-cha"?" 
    "Vorrei ben sperare." 
    C'è  una  risentita  fierezza nella voce,  come se il dubbio di lui la     avesse offesa. Se sa ballare il "cha-cha-cha"? Chiederebbe a un Fangio     se sa guidare l'automobile? Da sola, in mezzo alla grande stanza, si è     messa a ballare. 
    No - pensa Antonio - è impossibile  che  ci  sia  già  stata  qui  con 
    Corsini.  Corsini ha un'amica fissa e non va con altre ragazze.  E poi     Laide, quando l'ho portata qui per la prima volta, avrebbe fatto delle     storie,  per evitare pasticci.  Lei fa la vita che fa ma poi ci  tiene     immensamente  a  non  essere  considerata  una di quelle.  Se per caso     scoprisse che uno con cui ha fatto l'amore è  amico  mio,  chissà  che     diavolo inventerebbe per evitare che io venga a saperlo. Sì, la storia     dell'amica che ha un giradischi identico è plausibile abbastanza. 
    "Che cos'è?" 
    "E' il "cha-cha-cha" più bello che ci sia. "Los cari¤osos"."     Si  è  messa a ballare.  Ha un vestito color lilla di tessuto a grossa     trama teso sul busto,  serrato in vita da una  cintura,  la  gonna  al     ginocchio corta e gonfia.  Il "cha-cha-cha" non le sale nelle gambe ma     nel bacino e nella colonna vertebrale,  assoggettando il corpo  a  una     specie  di  desiderosa ondulazione,  di rilascio,  di dare e non dare,     offrire e no,  come  trotto  a  singulto  per  una  strada  che  torna     continuamente  su  se  stessa,  come un ostinarsi voluttuoso,  come un     giocare fra un'onda  e  l'altra,  un  ritmico  compiersi  d'amore  che     trascina su e giù,  frenetico, misurato, preciso, stanco, insaziabile,     come la febbre spirituale della sera nelle boscaglie  d'Africa  quando     l'animo  si  perde  nelle immaginazioni e nei ricordi,  come la livida     luce nel vicolo dalle cui profondità una voce chiama,  come  le  rosse     labbra ambigue che per un istante al riverbero dei fari si dischiusero     mute nella promessa,  come la giovinezza triste che ridendo si butta e     si contorce felice nel buio che  la  schianterà,  aspirazione,  ideale     anche,  vibrazione profonda della materia viscerale,  voce delle terre     che mai conosceremo,  imitazione del trionfo il quale mai si  compirà,     martello  dolcissimo  e  crudele  che  batti a tre a tre con una breve     pausa in mezzo,  a tre a tre batti,  batti a tre a tre e precipiti giù     per le cateratte del diciassette aprile battendo a tre a tre i macigni     e  l'acqua  urtando  impazzisce,   diventa  biscia,  epilessia,  arpa,     perdizione ma lei sopra coi tacchi a spillo levita,  fluttua,  gioca e     sorride  con  l'evidenza  soverchiante  di  una sapiente bambina,  qui     ritrovando il succo irresistibile e vero della vita. 
    C'è,  nel motivo popolaresco della musica,  semplice come  uno  stecco     eppure carico di secoli,  qualcosa che precisamente diceva addio,  con     potenza d'amore per quello che fu e mai ritornerà e nello stesso tempo     un confuso presentimento di cose che un giorno verranno, forse, perché     la musica vera è tutta qui nel rimpianto del passato e nella  speranza     del  domani  la quale è altrettanto dolorosa.  Poi c'è la disperazione     dell'oggi,  fatta dell'uno e dell'altra.  E fuori di qui altra  poesia     non esiste. 
    "Che cos'è?" lui aveva chiesto. 
    "E' il "cha-cha-cha" più bello che ci sia. "Los cari¤osos"." 
    Lui  sedette  sul  divano  e  la guarda,  sgomento e perduto.  Come il     cacciatore che si apposta per fucilare la lepre e vede il drago.  Come     il  soldatino  fiducioso  che  all'improvviso  si  trova  di fronte un     esercito schierato contro di lui  con  fanti,  cannoni,  e  cavalleria     corazzata.  Come  chi  si  accorge di aver sfidato uno cento volte più     forte di lui. 
    Lei forse, ballando,  credeva di giocare,  non si accorgeva di ciò che     stava accadendo.  Faceva così per impulso giovanile, sovrabbondanza di     energie,  gusto di farsi ammirare.  Sapeva questo sì,  di  ballare  il     "cha-cha-cha"  in modo stupendo,  con padronanza assoluta,  tanto che,     con civetteria,  ogni tanto fingeva perfino  di  incespicare.  Non  si     accorge però di ciò che, ballando, le succede nell'animo.     Perché  qui,  portata  da  una  forza misteriosa,  la ragazzetta dalle     spaventose abitudini, abituata ormai ad affittare a tanto l'ora il suo     corpicino,  senza immaginarlo,  si riscatta dai miasmi del  sottoscala     sollevandosi alla luce. 
    O  forse  invece  lei  confusamente  capisce  che,  ballando,  diventa     un'altra creatura? Nel profondo di sé,  forse indovina che questo è un     bellissimo modo di vendicarsi?  In questo perdersi nel ritmo non trova     forse una liberazione? E lì, davanti all'uomo molto più vecchio di lei     che tra poco la possederà a forza di soldi,  e ieri e oggi e domani si     venderà  ad altri uomini come lui,  che hanno bisogno di uno sfogo,  e     lei non ne soffre esageratamente però sa che altre  ragazze  come  lei     vivono  e  si  divertono e viaggiano "flirts" ricevimenti feste auto e     visoni senza bisogno  di  togliersi  il  reggipetto  a  pagamento,  sa     perfino  che  altre  ragazze come lei si alzano alle sei del mattino e     vanno a lavorare per otto nove ore a quaranta cinquantamila  al  mese,     quello che lei spesso guadagna nel giro di un paio di giornate, in lei     perciò  l'invidia  e  la  vergogna,  il  senso  dell'inutilità e della     progressiva rovina. Eppure adesso, ballando il "cha-cha-cha",  gode la     meravigliosa  sensazione  di  essere  libera,  lieve  e  pura,  di non     appartenere a nessuno tranne che a lei stessa anzi neppure a lei bensì     a qualcosa di più bello, alla musica, alla danza, alla poesia.     Aveva un vestito color lilla di  tessuto  a  grossa  trama,  teso  sul     busto,  serrato  da  una  cintura  in  vita,  la gonna corta e gonfia.     Sorrise,  nell'estasi del moto,  le sottili labbra socchiuse e piegate     in  fuori  come  petali,   maliziosamente.   Lui  seduto  la  guardava     scoraggiato. Come era vera, come era genuina, come era bella.  Lui non     l'avrebbe mai raggiunta.  Lei era fuori,  era straniera, apparteneva a     un'umanità diversa,  irraggiungibile,  era l'incarnazione di...  di...     della  del...  maledizione di tutto quello che lui finora non ha avuto     finora e idiotamente disprezzava, della follia, delle notti spavalde e     condannate, delle cosiddette avventure le quali sono fatte di sussurri     nell'angolo proibito,  di  corridoi  di  grand  hotel,  porte  che  si     schiudono  senza  scricchiolii,  parole  sommesse sul bordo del letto,     quelle trasparenze sessuali, la vorticosa storia che la affascina,  la     risata,  il braccio che cinge alla vita e lei si abbandona, lentamente     oh sì, sì,  lentamente mentre al di fuori,  sul giardino,  in completo     silenzio, posa la luna. 
    Neppure questa volta, lui pensò con amarezza. Lei ballava il "cha-cha-     cha"  da  sola  in  mezzo alla grande stanza.  Tra non molto salirà la     scala con lui,  comincerà a togliersi il braccialetto la  collana  poi     chiederà  permesso  per andare di là nel bagno poi tornerà seminuda si     sdraierà sul letto, concessa completamente a lui. Ma a che serve?  Non     quella  che  fra  poco  gli  sarà sdraiata accanto sul letto egli ama.     Avesse  anche  fatto  con  lui  l'amore  diecimila  volte  in   quelle     condizioni non sarebbe diventata sua più di quanto lo sia adesso, cioè     niente.  E'  quest'altra  creatura che gli è entrata nel cervello,  la     Laide di questi precisi istanti, la ragazza che intravedendo di là del     fosso la luminosa fortuna  ha  immerso  con  un  brivido  le  gambette     nell'acqua per passare ma l'acqua non è acqua,  è mota,  è molle creta     attaccaticcia, è il tremendo vischio organizzato della grande città da     cui lei si sente assorbire a poco a poco,  in cui di giorno in  giorno     sprofonda  e  la dorata luce sull'opposta riva intanto si allontana si     allontana  diventa  un  miraggio  irraggiungibile,   il  fosso  è  una     sterminata  palude,  un  mare  opaco e morto di fango;  e lei continua     caparbia ad avanzare,  le hanno detto che  l'importante  è  insistere,     certo le ragazze che si perdono d'animo è meglio che non ci si mettano     neanche,  inoltre  quella  viscosa palta,  in cui ormai è immersa fino     all'inguine, è tenera,  è tepida,  dà uno strano senso di piacere,  ma     ogni tanto lei si volta e vede,  sulla riva donde è partita, e la vede     bene perché il cammino percorso è spaventosamente poco, vede la gente,     gli uomini,  le donne,  le ragazze come lei che non ci pensano neppure     di tentare la scorciatoia del fosso e vivono e lavorano apparentemente     tranquilli  e  alla  sera  chiudono la porta di casa e la casa diventa     pulita e sicura,  non squillano  telefonate  ambigue,  non  cigola  la     serratura  del  cancello  alle  tre di notte,  non si fermano,  subito     dietro l'angolo per non essere notate,  le potenti fuoriserie  con  al     volante  il quarantenne sanguigno tirato a lucido,  ecco la vita delle     famiglie giuste, così ordinata,  mediocre e noiosa,  che disprezzare è 
    tanto facile eppure di tanto in tanto le viene il sospetto che sarebbe     bello  vivere  così,  anzi  capisce  che  proprio quello è il suo vero     profondo desiderio, il porto a cui lei sarebbe felice di approdare, il     mondo diverso dal suo e a lei negato. 
    E allora si dibatte per uscire dalla buca, vuol far vedere agli altri,     quelli che dalla riva le sorridono ma non la rispettano più, che anche     lei è una creatura degna di vivere e,  dimenticando tutto quello che è     successo,  torna bambina, quasi per ricominciare tutto da capo. Tale è     la Laide che,  ballando il "cha-cha-cha" da sola dinanzi a un  uomo  a     lei  estraneo,  si  trasforma  in  disinteressato  gesto  di bellezza,     diventa una rosa, una piccola nube, un innocente uccellino, lontana da     ogni bruttura, realizzando così un suo minuto di purezza. 



    16. 
    Quel giorno Laide sembrava più allegra e spensierata del  solito.  Che     accanto  a lui si sentisse finalmente a suo agio?  Che un principio di     intimità umana cominciasse a crearsi fra loro? Una bella fetta di sole     entrava di sbieco nella camera  da  letto  battendo  sulla  "moquette"     verde e illuminando di riflesso l'intera stanza lietamente.     Erano  già  distesi  sul letto,  lei ancora in sottoveste.  Ecco,  per     Dorigo nella consapevolezza certa dell'amore imminente, i rari momenti     di tregua e di sollievo.  Non più il dubbio che  lei  non  telefonasse     più,  che  svanisse  nel  nulla,  che  senza preavvisi avesse lasciato     Milano  per  sempre,  non  più  il  supplizio  dell'attesa  quando  si     avvicinava l'ora della chiamata promessa, con l'atroce stillicidio dei     minuti  una  volta  varcato  il  termine  e  allora  le congetture,  i     sospetti,  le speranze via via  sfuggenti  si  aggrovigliavano  in  un     vorticoso  crescendo che lo trasformava in una specie di ebete automa.     L'incredibile ancora una volta si  era  avverato.  Laide  era  al  suo     fianco,  gli parlava, si spogliava, si lasciava accarezzare, baciare e     possedere, per un'ora, un'ora e mezza sarebbe rimasta con lui,  là nel     segreto  di  una confortevole casa a loro completa disposizione.  Come     tutto diventava semplice e facile.  E le angosce patite risultavano  a     lui  stesso  delle  cose  assurde.  Ma perché mai Laide avrebbe dovuto     negarsi?  Lui era una persona educata,  pulita,  gentile,  le  offriva     ospitalità  in  un  ambiente  più  che  decoroso,  dove sarebbe potuta     impunemente venire anche una principessa. 
    Era pazzesco che una ragazza come Laide si lasciasse sfuggire due così     facili biglietti da diecimila. La situazione gli appariva allora tanto     chiara e rassicurante da escludere la possibilità di  nuovi  tormenti.     All'improvviso  Dorigo si sentiva forte e sicuro di sé,  la sensazione     perfino di essere guarito gli restituiva un  totale  benessere,  quale     aveva creduto di non poter conoscere mai più.  No, doveva piantarla di     stare in ansia, non ci poteva essere niente di più cretino. Dopo tutto     - si diceva,  convintissimo  di  essere  sincero  -  a  lui  importava     soltanto  che  ogni tanto Laide venisse con lui,  per il resto facesse     pure i cavoli suoi,  lui non aveva certo l'intenzione di assumerne  il     mantenimento  completo,  oltre  tutto  dove li avrebbe trovati i soldi     occorrenti? 
    ("Ma a te per vivere quanti soldi ti bastano?"  le  aveva  chiesto  un     giorno, mentre in auto si dirigevano alla casa di Corsini. "Be'" aveva     risposto lei "io alla Scala guadagno cinquantamila se ne avessi in più     altre  cinquantamila  sarei  a posto." Ma bastava ragionare un momento     per capire che era una storia.  Perché altrimenti avrebbe continuato a     fare quella vita?) 
    Si  sentiva  così  padrone  della  situazione  che  gli parve di poter     addirittura giocare.  Perché non confessarle quello che  un'ora  prima     era per lui la scottante verità? Non l'avrebbe mai fatto un'ora prima,     lo avrebbe giudicato pericolosissimo.  Ma adesso, che cosa ci perdeva?     Adesso era sicuro di non perderla. Adesso aveva capito.  Adesso poteva     permettersi questo lusso. 
    Oppure  questa  confessione è un estremo tentativo per scuoterla,  per     farle intendere che lui non è come gli altri,  lui  non  la  considera     soltanto  ragazzina da letto,  anzi di fare l'amore con lei non gliene     importa gran che, altro è quello ch'egli desidera veramente da lei?     "Senti" le dice, appoggiando blandamente una mano sulla gamba nuda "tu     mi dovresti fare un gran piacere."     Lei lo guarda insospettita: "Cosa?". 
    "Senti, mi dovresti dare una mano." 
    "Come sarebbe a dire?" 
    "Tu mi dovresti aiutare. E lo puoi." 
    "Aiutare come?" 
    Capisce mentre parla che è un piccolo  trucchetto  da  collegiali,  un     espediente  troppo  ingenuo.  Ma non ha trovato di meglio.  Lui che si     ritiene un uomo di talento,  pieno di meravigliosa  fantasia,  non  ha     trovato di meglio.  E poi lei è abbastanza ignorante,  piuttosto terra     terra gli uomini da lei generalmente avvicinati,  dunque può darsi che     la trovatina funzioni,  e magari sembri anche spiritosa.  Chissà,  per     lei è la prima volta.     "E' un brutto affare" lui dice. 
    "Perché?" 
    "Ho preso una  cotta,  una  maledetta  scuffia  per  una  ragazza  che     conosci."     "Che io conosco?" 
    "Sì. E tu, se appena vuoi, potresti metterci una parola buona." 
    "Proprio a me lo vieni a chiedere?" 
    "Ti considero un'amica, no?" 
    "Amica, ma non lo trovo molto bello che tu me lo chiedi proprio a me." 
    "Be', se non vuoi." 
    "No, dimmi." 
    "Allora è meglio lasciar perdere." 
    "Ma no, ti prego, dimmi. E' molto bella?" 
    "Per me, sì." 
    "E dici che la conosco?" 
    Lei  sorridendo,  incuriosita,  si  è  tirata su a sedere,  i seni non     stanno più belli tesi ma si afflosciano un poco, graziosi sempre e con     le punte in su, piccoli come sono. Lei non ci fa caso. 
    "Dici che la conosco?" 
    "Sì." "La conosco bene?" 
    "Sì." 
    "Come si chiama?" 
    Allora lui, come un bambino,  si getta bocconi,  nascondendo la faccia     nel cuscino. Ha già capito Laide? Ha capito lo scherzo? L'ha capito da     quando lui ha cominciato a parlare?  O l'ha capito da parecchi giorni,     da quando lui l'ha accompagnata alla stazione?  O  è  una  cosa  ormai     vecchia  per  lei che si è accorta di tutto fin dal primo giorno,  dal     modo con cui lui l'ha guardata mentre si provava l'abito della signora     Ermelina?  Le donne,  anche le meno  scaltre,  hanno  una  sensibilità     tremenda  per  avvertire  ciò che avviene nell'uomo in certi casi,  il     misterioso scatto per cui l'animo si accende  e  brucia  e  può  darsi     l'uomo  sul momento non se ne accorga neanche e non sospetti ma lei sì     e in quel momento stesso sale invincibile sul trono,  incominciando il     delizioso gioco di farlo impazzire. 
    "Chi è? Come si chiama?" 
    Lui si sollevò, chinandosi sopra di lei, e le sussurrò in un'orecchia: 
    "E' un nome che comincia per elle". 
    Lei finalmente si voltò, ridendo, ma senza rispondere. 
    "L'avevi già capito?" chiese lui. 
    Sorridendo lei fece segno di sì. 
    "E ci metterai una buona parola?" 
    "Ma c'è bisogno?" 
    Si stupì Antonio che lei stesse allo scherzo. 
    "Certo che c'è bisogno. L'amore è una brutta malattia." 
    "Oh no" disse Laide. "Invece è così bello." 
    "Sarà bello quando è corrisposto. Ma nel mio caso..." 
    "No, no, è bello essere innamorati, è una cosa bellissima." 
    "Ma tu l'hai provato?" 
    "Sì." 
    "Con chi?" 
    "E' morto. Un ragazzo con cui dovevo sposarmi." 
    "E lui ti voleva bene?" 
    "Sicuro Se ti dico che ci dovevamo sposare." 
    "Be', allora è diverso." 
    "Perché?" 
    "Perché io ti voglio bene e tu no." 
    "Bravo, bisogna lasciare anche il tempo, ti conosco da così poco."     Lui  resta male.  Non c'è stato in lei il minimo moto di sorpresa o di     soddisfazione per ciò che lui le ha detto.  Come se ci fosse abituata.     Come se lui fosse semplicemente uno dei tanti.  Come se fosse una cosa     risaputa e dovuta a lei per diritto.  Come se  lui  fosse  un  cretino     qualsiasi. Ha il desiderio di ferirla. 
    "Comunque" le dice "tu non hai con me nessuna confidenza." 
    "Perché?" 
    "M hai raccontato un sacco di bugie." 
    "Non è vero. Io ti ho sempre detto la verità." 
    "Anche sul tuo cognome?" 
    "Cosa  vuoi  dire?"  si  è  indurita,  lo  fissa  con occhi spauriti e     guardinghi. 
    "Tu ti chiami Anfossi e non Mazza." 
    "Chi te l'ha detto?" 
    "Lascia perdere. Ti chiami Anfossi o no?" 
    "Cosa significa?  In teatro quasi tutti ci facciamo  chiamare  con  un     altro nome." 
    "E alla Scala come ti chiamano?" 
    "Rosanna Mazza. Lo puoi trovare scritto anche sui programmi." 
    "E che bisogno c'era?" 
    "Dimmi piuttosto: chi te l'ha detto? La signora Ermelina, scommetto." 
    "E anche se fosse?" 
    "Quella carogna. Meno male che non ci ho più niente a che fare." 
    "Hai litigato?" 
    "Cosa ti importa a te? Quando ti dico che è una schifosa." 
    "Ci sarà un motivo." 
    "I motivi sono tanti. E li so io. Ma non così che mi spettini tutta!" 
    "Che cosa c'è oggi? Hai la luna?" 
    Lei sente il bisogno di rimediare.  Fa uno scherzoso broncio, alza gli     sguardi a lui, sbatte le palpebre con civetteria infantile. 
    "Su Antonio, vieni, che ho freddo." 
    E nello stesso istante che si china per  abbracciare  e  stringere  il     corpicino  nudo,  si  accorge  che la sua bella sicurezza di poco fa è     svanita,  non è vero niente che Laide sarà sempre a sua  disposizione,     non  è vero che lui ci potrà contare,  proprio nella gentile passività     con cui la ragazza,  rispondendo al suo abbraccio,  gli ha passato  un     braccio  sulle spalle,  gesto formale,  senza slancio né trasalimenti,     identico a quello che le donne eseguono nel ballo anche con l'estraneo     che per la prima volta le invita,  c'è  la  maledetta  distanza,  poco     prima  quando  scherzavamo  sull'amore  lei  era  molto  più  vicina e     comprensibile di  adesso  che  i  due  corpi  stanno  combaciando  nel     congiungimento carnale. 
    Ecco,  fra  poco  anche questo amore sarà finito,  lei andrà di là nel     bagno, lui resterà supino, sul letto, vuoto e privo di gioia,  poi lei     ricomparirà   a  raccogliere  i  vestiti,   il  braccialettino  d'oro,     l'orologio,  dirà: Dio com'è tardi su alzati ti prego,  il  raggio  di     sole sulla "moquette" verde non c'è più, una nube deve aver coperto il     sole,  lei  dirà con un moto di stizza che barba domattina non so come     fare. 
    "Cosa c'è domattina?" lui domandò. 
    "Te l'ho detto, no, che devo andare a Modena." 
    "No che non me l'hai detto." 
    "Tu almeno non ti ricordi mai di niente." 
    "Modena, a fare?" 
    "Per le fotografie, te l'avrò già detto cento volte." 
    "Guadagni bene, almeno?" 
    "Immaginarsi. Ma se dico di no, poi si resta fuori dal giro." 
    "Quanto?" 
    "Cinque, sette, alle volte anche dieci sacchi." 
    "Per ogni fotografia?" 
    "Eh, figurati." 
    "E il viaggio? e l'albergo?" 
    "Be', quello è pagato." 
    "E quanti giorni ti fermi?" 
    "Credo due giorni." 
    "Perché credo?" 
    "Sul lavoro non si sa mai." 
    "E la sera? la sera cosa fai?" 
    "Cosa vuoi che faccia? A Modena, figurati." 
    "Di', a proposito, ma a Modena non c'è quel tuo cugino?" 
    "Sì, ma è un tal noioso." 
    "E' innamorato di te?" 
    ""Oh de matt!"" 
    "E ci fai l'amore?" 
    "Ci mancherebbe altro. Non so, per te tutti non dovrebbero pensare che     a quello. E' un bravo ragazzo, per me ha un tale rispetto." 
    "Come? Neanche un bacino?" 
    "Non ha il coraggio di toccarmi con un dito." 
    "Ti crede vergine?" 
    "Spero bene. Mi considera come una sorella." 
    "E cosa fa?" 
    "L'ingegnere. Lavora a un oleodotto." 
    "E vuol sposarti, naturalmente." 
    "Lui sì. Io non ci penso nemmeno." 
    "E andate a spasso insieme?" 
    "Qualche volta." 
    "Dove? Al cinema?" 
    "Sì, per lo più al cine." 
    "E' un bel ragazzo?" 
    "Be', mica male." 
    "Ti piace?" 
    "Se ti dico che non m'importa niente.  E'  un  mio  cugino.  Gli  sono     affezionata." 
    "Anche  se  tu  ci andassi a letto insieme,  non so cosa ci sarebbe di     male." 
    "Semplicemente che a me non mi va.  Poi  figurati  in  un  posto  come 
    Modena. Lo saprebbero tutti." 
    "Lui vorrebbe, però." 
    "Lui? Bisognerebbe che tu lo conoscessi. E un timido tale. In famiglia     l'han tenuto come in collegio. Figurati che quando è a Milano suo papà 
    gli dà la chiave di casa solo una volta alla settimana." 
    "Quanti anni ha?" 
    "Venticinque, ventisei, credo." 
    "E come si chiama?" 
    "Marcello, si chiama. E poi cosa vuoi sapere ancora?" 
    "Per carità. Fa' quello che vuoi, cara." 
    "Be', adesso di questo interrogatorio ne ho piene le scatole. Chiaro?"     Lui  tace,  invelenito.  Come le darebbe volentieri un paio di sberle. 
    Oh, se ne fosse capace. 
    Lei se ne è accorta: "Come te la prendi  subito,  tu.  E  pensare  che     volevo domandarti un piacere". 
    "Che piacere?" 
    "Lo vedi che te la sei presa? Meglio non dirti niente." 
    "Fa' come vuoi." 
    "Vedi?  E'  questione  che  domattina devo partire alle sette e non so     come fare per il tassì."     "Chiamalo per telefono, no?" 
    "A quell'ora non ce ne sono." 
    "Figurati se alle sette non ce ne sono." 
    "E poi non posso chiamare perché mia  sorella  tiene  il  telefono  in     camera." 
    "Non puoi svegliarla?" 
    "Non la conosci!" 
    "Vuoi che ti accompagni io?" 
    "A quell'ora! Come fai a svegliarti?" 
    "Mi sveglio. Semplice." 
    "E in casa cosa dici?" 
    "Una levataccia non dà sospetti" e ride.     "Sul serio vuoi accompagnarmi?" 
    "Cosa c'è di straordinario? A che ora?" 
    "Il treno parte alle sette e quaranta. Basta che tu venga alle sette e     dieci." 
    "Dove?" 
    "A casa mia, no?" 
    "Ma lo sai che non so dove abiti." 
    "Via Squarcia 7." 
    "Dov'è?" 
    "Sai dov'è il Vigorelli? Là vicino. Puoi guardare sulla guida." 
    "Basta alle sette e dieci?" 
    "Ce la faremo in mezz'ora,  alla stazione,  spererei, anche con la tua     carriola. E poi alle sette le strade sono vuote." 
    Svegliarsi presto,  per Antonio,  è morte civile.  E poi sarebbe  così     semplice  dare  mille  lire  a  un tassista perché alle sette si trovi     sotto casa.  Ma non lo dice.  L'idea di poter rivedere Laide anche per     pochi  minuti.  Di averla a fianco.  Di entrare così un poco nella sua     esistenza privata. La meravigliosa sensazione che lei abbia bisogno di     lui.  Soprattutto la certezza  che  per  stasera  almeno  il  tormento     dell'incertezza  e  dell'attesa  non  ci sarà,  che potrà lavorare,  o     ridere,  o chiacchierare con gli amici come ai bei tempi.  Una  tregua     sicura. Una sospensione. Una particella di felicità. 
    "E stasera cosa fai?" 
    "Stasera c'è prova a teatro." 
    "E dopo, vai al "Due"?" 
    "Fossi matta. Con l'alzataccia di domani." 
    Confusamente  egli capisce che tante cose non ingranano,  nelle storie     che lei gli racconta. La Scala, le fotografie, la balera, la famiglia,     il cugino,  la signora Ermelina,  tante cose che è  difficile  mettere     d'accordo.  Eppure,  quando lei parla, ogni dubbio se ne va. Tale è il     genuino accento di quella ragazzina. No,  è impossibile che dica delle     bugie.  Ci  sarebbe  un sia pur lievissimo tentennamento,  incertezza,     nota falsa, titubanza. E lui è lì, teso, a scrutarla, a decifrarla.  E     lui  è intelligente,  lui è di una sensibilità addirittura morbosa nel     percepire le più sottili sfumature.  Una ragazzetta come  Laide,  così     lontana  da  ogni  complicazione  psicologica?  Solo  che  tentasse di     inscenare il minimo inganno, lui se ne accorgerebbe immediatamente. 



    17. 
    Fra il Velodromo Vigorelli e il  recinto  della  Fiera  c'è  un  largo     spiazzo  con  un'isola  di  prato,  chiuso  a  nord dallo schieramento     compatto delle case nuove. 
    Qui Antonio alle sette meno dieci si fermò colla sua seicento.  Era in     un anticipo addirittura ridicolo.  Non voleva farsi vedere da lei così     premuroso, sarebbe stata una troppo aperta confessione. 
    Faceva umido e freddo. Accese una sigaretta,  nonostante il turbamento     che gli davano le sigarette a digiuno. 
    Pioveva  a  dirotto.  Un'acqua  violenta  e  rabbiosa di primavera che     batteva sulla città livida,  vuota e addormentata.  Non c'era che lui. 
    Tutti gli altri dormivano. Tutti gli altri non sapevano. 
    La tregua era cessata. Fra pochi minuti la vedrà. Ma è vero? Non è per     caso  uno  scherzo?  O nel frattempo non possono essere successe tante     cose? Lei sentirsi male per esempio? Come lo avrebbe avvertito?     E' l'ora inospitale e ingrata in cui non ci sono più desideri.  Chiusi     e  neri i locali del divertimento e del vizio,  assopiti nella carnale     stanchezza gli amanti,  spenti i lumi,  benché la luce del giorno  non     basti ancora. 
    Anche  le  auto  dei più disperati nottambuli sono rientrate.  Non una     finestra accesa. Tutti chiusi nel tepore del letto. Solo furgoni delle     immondizie che rotolano di quando in quando.  Una luce che non è luce,     è grigio, è sonno, è lucernario, è indifferenza assoluta. 
    Guai  a  chi  in  una  città si lascia sorprendere da questa ora senza 
    pietà, quando piove a cateratte e lui è solo. 
    Gli pareva di essere un bambino castigato e battuto ingiustamente,  di     cui nessuno sa nulla.  In quel momento dormivano tutti, i fratelli, la     mamma,  gli amici,  quelli che di lui avevano bisogno e  di  cui  egli     aveva  bisogno.   Non  esistevano  più.  Erano  incastrati  nel  sonno     dell'alba, così profondo e benefico quando piove. Era solo. Si sentiva     solo,  ignorato e smarrito col suo affanno infernale di cui  la  gente     avrebbe  riso  così volentieri.  E intorno,  sotto la pioggia,  ancora     immobile,  la grande città che fra poco si  sveglierà  cominciando  ad     ansimare  a  lottare  a contorcersi a galoppare su e giù paurosamente,     per fare, disfare, vendere, guadagnare, impossessarsi,  dominare,  per     una  infinità  di voglie e accanimenti misteriosi,  di cose meschine e     grandi, lavoro, sacrifici e afflizioni infiniti,  e impeti,  e volontà     che rompono,  muscoli e scatti mentali, possessione e dominio, avanti,     avanti! e lui inchiodato là, in un'auto utilitaria grondante d'acqua e     di disperazione per un piccolo corpo bianco e giovanetto,  con  dentro     un barlume d'anima,  forse,  che ha nome Laide, e che nessuno conosce.     Sipari di case grigie bagnate ed ermetiche,  come di vite che non  gli     importavano niente. Il mondo? L'America e la Russia? La signoria della     terra? 
    Piuttosto  lei  si  sveglierà  in tempo?  La sveglia funzionerà?  Farà     abbastanza presto a vestirsi? La valigia l'ha già fatta?  Dio,  fa che     la valigia sia pronta,  che lei non sia indotta a rinunciare.  Dormirà     ancora?  O sarà già in bagno a scrutarsi  la  faccia  nello  specchio,     premendo  un  dito  sull'angolo  esterno  dell'occhio dove la notte ha     lasciato una minuscola increspatura della pelle?  E che cosa va a fare     a Modena?  Chi l'aspetta? Che cosa farà questa sera? Dormirà sola? Con     chi dormirà? No. Basta che venga.  Basta che dietro il cancello di via     Squarcia  (che  lui ieri sera è andato a ispezionare dall'esterno) lei     compaia col suo passo disdegnoso e a quella vista l'angoscia cadrà.  E     nello  stesso  tempo la sensazione che quella pioggia lo trascina già,     una forza mai conosciuta lo distacca a poco a poco da ciò  ch'è  stata     finora  la  sua  vita,  cose  simili  le ha lette più di una volta nei     romanzi e non ci aveva creduto,  favole  assurde,  e  adesso  lui  c'è     dentro  e adesso non lotta nemmeno più,  alla sera sì qualche volta si     ribella nell'esaltazione propria della notte,  adesso  no,  adesso  la     pioggia battente e selvaggia lo trascina via, e lui non alza dal gorgo     non alza neppure una mano per chiedere aiuto. 
    Il  tempo  non  passa  mai.  L'orologio  segna già le sette e dieci ma     Antonio ha l'abitudine di  tenerlo  sempre  un  poco  avanti,  saranno     appena le sette e due,  le sette e tre.  Un'altra sigaretta.  E se lei     avesse cambiato idea, se avesse rimandato la partenza?  Fino a che ora     avrebbe  aspettato?  Si  sentiva  la  faccia  stanca.  Si guardò nello     specchio del cruscotto.  Che faccia  odiosa,  specialmente  la  bocca. 
    Forse era ora. Ha messo in moto. 
    Via Squarcia deserta.  C'è un cancello,  di fronte alla casa di lei, e     di là un vasto cortile, in fondo un padiglione. Ha fermato la macchina     in modo da poter controllare l'ingresso della casa.  La cabina a vetri     della portineria è ancora spenta. 
    Il  suo  orologio  segna  le sette e venti,  saranno le sette e dieci,     sette e undici, piove un po' meno. Ancora una sigaretta. Verrà?     Adesso è già in ritardo.  Ancora cinque minuti e non si farebbe più in     tempo per il treno. Cosa è successo? 
    Non fa che guardare l'orologio, vorrebbe non guardarlo, aspettare ogni     volta un tempo conveniente, almeno. Ma l'ansia. Oh finalmente. 
    Sente  il  rumore  di  una  porta  a  vetri che si chiude.  Poi dietro     l'inferriata, nella penombra, una figura. 
    Qualcosa dentro  di  lui  che  si  apre,  liberando  una  soffocazione     interna, gli parve di tornare a vivere. Lei! lei! 
    Esce una donna con uno scialle in testa.  Avrà almeno quarant'anni. Si     accese la luce della portineria. 
    Le sette e ventitré.  Quella lì non si è svegliata.  Modena le  preme,     lui non ha capito perché Laide ci tenga tanto. E' impossibile, se si è     svegliata in tempo, che non sia già dabbasso. 
    Scende di macchina, sale i gradini della portineria, c'è un uomo. 
    "Senta,  per  favore,  potrebbe  avvertire  per  citofono la signorina 
    Anfossi che c'è la macchina che la aspetta?" 
    L'altro di malavoglia esegue: "Dice che scende subito". 
    Subito? Sono le sette e venticinque, va bene che c'è poca gente per le     strade ma se per caso i semafori si sono già messi a funzionare,  alla     Stazione in un quarto d'ora non si arriva. 
    Le  sette  e  mezza.  Cosa  combina  quella  disgraziata?  Le  sette e     trentadue.  Mai  la  Laide  comparirà,  non  scenderà  più,   non  gli     telefonerà più, non si farà viva mai più. Ormai il treno è perso.     Scattò la serratura del cancello.  Lei avanzò,  diritta,  con quel suo     passo deliberato e indifferente.  Nella destra  una  borsa  di  cuoio,     nella sinistra una grande valigia bianca. 
    Dorigo  le  va incontro.  Lei si direbbe quasi meravigliata di vederlo     là: "Mi puoi aiutare no?". Lui le prende la valigia. 
    "Oramai non si fa più in tempo." 
    "La sveglia non ha funzionato. Se non mi citofonava il portinaio..."     "Sai che sono le sette e mezza passate?  In cinque minuti  non  ci  si     arriva, alla stazione." "Perché cinque minuti?"     "Non hai detto che parte alle sette e quaranta?" 
    "Ce n'è un altro alle otto e cinque." 
    "Potevi dirmelo, no?" 
    "E che ne sapevo che la sveglia non suonava?" 
    Non gli ha detto neanche ciao,  non un sorriso, anche adesso che gli è     seduta accanto in macchina,  non l'ha guardato neanche  una  volta,  è     tutta  intenta  a provare e riprovare la serratura della borsa che non     chiude bene. 
    Non si è lavata,  non si è truccata,  ha un impermeabile tipo "trench-     coat",  è sparuta, è bruttina. Antonio però respira, lei è qui accanto     a lui nella sua macchina,  per qualche minuto almeno in certo  modo  è     sua, gli concede la sua presenza fisica, per qualche minuto lui sa che     cosa sta facendo, per qualche minuto non sta con altri, l'impermeabile     è corto,  sporgono le due ginocchia tonde e lisce,  le calze vi stanno     sopra belle tese. 
    "A Modena in che albergo vai?" 
    "Ancora non lo so." 
    "Lui ti aspetta?" 
    "Lui chi?" 
    "Il tuo cugino, il tuo cuginetto." 
    "E chi ne sa niente?" 
    "Quanti giorni stai via?" 
    "Non so, dipende dal lavoro." 
    "Le fotografie, dici?" 
    "Ma se l'avrò detto cento volte" sembra  infastidita,  sembra  capisca     come lui sospetti.     "E mi telefoni quando torni?" 
    "Certo che ti telefono." 
    "E di là mi telefoni?" 
    "Magari sì, se mi è possibile." 
    Guardava la strada davanti, erano in via Procaccini, pioveva ancora un     poco,  lei aveva un'espressione inquieta e tesa, di bestiola braccata,     come quel giorno ch'era partita per Roma. Ma lui non c'entra,  lui non     ha alcuna parte in quella sua inquietudine,  è una partita, un duello,     un gioco,  un intrigo,  un complotto,  chissà cosa,  fra lei  e  altre     persone  sconosciute  del  suo  mondo.  E  lui  è escluso.  Lui era il     borghese agiato che pagava. 



    18. 
    Entrato in ufficio trovò un appunto del telefonista: "Ha telefonato da     Modena sua nipote Laide che la prega  di  andarla  a  prendere  domani     mattina presto a Modena, Albergo Moderno". 
    Modena? Quanti chilometri? Neppure per un istante pensò di non andare.     Poi  gli  venne  in mente la sua modestissima automobile,  la seicento     ormai abbastanza scalcinata. 
    Cominciò ad architettare la fuga.  Partire presto non  era  difficile,     una  sveglia  anormale  non poteva insospettire in casa,  solo di sera     liberarsi era difficile.  Tutto stava nel poter tornare per le cinque,     cinque e mezza per un impegno di lavoro. Certo una faticaccia.     Ma  alla  sera  si  trovò  per caso a pranzo con Menotti,  suo vecchio     amico. Menotti aveva una macchina sportiva, aperta. Durante il pranzo,     sicuro che l'altro con un pretesto qualsiasi gli avrebbe detto di  no,     gli  chiese se il giorno dopo gli avrebbe prestato la spyder.  Menotti     non diede alla cosa la minima importanza.  Sì,  certo.  Purché  Dorigo     fosse tornato alla sera. 
    L'idea  di  andare  a  prendere Laide in un'automobile scoperta,  tipo     sport, rinfrancò Antonio.  Di queste stupidissime illusioni è fatta la     nostra vita, in fondo. 
    Al ritorno dal ristorante di Corsico, lungo il Naviglio, nella sera di     maggio profumato,  al volante della bella macchina,  col vento che gli     dava uno strano fastidio nella nuca, con una bella donna al fianco, di     cui non conosceva neanche il nome e di cui se ne  fregava  totalmente,     coi  lumi  dei lampioni che scorrevano via,  gli sguardi incuriositi o     invidiosi dei passanti,  col  pensiero  che  all'indomani  la  avrebbe     rivista, con la meravigliosa consapevolezza che la Laide, per la prima     volta  lo  aveva  chiamato,  con  la  levità che gli dava l'immersione     nell'aria blu della notte,  con quel senso inebriante di nudità che dà     la  macchina  aperta,  come  quando  da  bambino,  ai primi di giugno,     lasciava i calzoni "knicherboker" per mettere i pantaloni corti  e  le     gambe nude gli davano una confusa sensazione di voluttà, di espansione     fisica, di sfrontatezza carnale. 
    La  sveglia  alle  sei,  di  per  sé  dolorosissima,  fu una specie di     meraviglia all'idea di lei che lo aspettava,  all'idea della  macchina     con  cui  andava a prenderla.  Con quella macchina arriverà un uomo in     gamba, ricco, sportivo, disinvolto, moderno, giovane, come i fusti dei     film di moda.  Le farà una magnifica impressione.  Vedendolo  arrivare     con   una   spyder   sport   Laide   non  potrà  più  considerarlo  un     intellettuale,  uno sparuto,  un povero borghese.  Quella macchina gli     permetterà  di entrare finalmente nel suo mondo,  con pieno diritto di     cittadinanza, il mondo degli uomini ricchi e impavidi che manovrano le     ragazzette  povere  come  fossero  automobili,   anzi   con   maggiore     indifferenza,  e  loro  li  stanno a guardare intimidite e si lasciano     passivamente pastrugnare. 
    Partì alle sei e mezzo.  Trovò le strade vuote.  Peccato che il  cielo     fosse grigio. 
    Ogni  volta  che il piede premeva sul pedale dell'acceleratore era uno     spazio in meno che lo separava da lei.  Lui di  solito  prudente  fino     all'esagerazione,   volava   attraverso  la  città.   Le  case  ancora     addormentate  e  livide,  i  semafori  ancora  occhieggianti  barbagli     gialli, la città colta di sorpresa. 
    Imboccò  l'autostrada  del  Sole che il sole non era riuscito ancora a     rompere la bruma. La pista era deserta.  Mai aveva provato a guidare a     centoventi centotrenta all'ora. 
    Accelerando,  l'angolazione  a imbuto delle righe bianche si contraeva     stringendosi in modo preoccupante.  Lei  certo  dormirà  a  quest'ora.     Sola? Lei era laggiù in fondo, oltre l'orizzonte, lontanissima ancora.     Intorno.  Non case, non fattorie, non colonnette di benzina come sulle     strade solite.  La campagna deserta.  Prati fumiganti di nebbia  e  in     fondo  i  lunghi  schieramenti  regolari  di pioppi altissimi a quinte     successive che si perdevano nelle lontananze. Via via che lui correva,     da una parte e dall'altra gli alberi ruotavano concentrandosi in folla     verso l'estremità del rettilineo e poi sgranandosi di  fianco,  mentre     altri,   più  lontani,   gli  correvano  avanti  a  rinserrarsi  verso     l'orizzonte;  come se  due  immense  piattaforme  girassero  in  senso     opposto una a destra, una a sinistra. 
    Non  esisteva  ancora  il  sole  ma  si  capiva che dietro i velari di     umidità e di nebbia,  il sole c'era.  Tutta la sterminata campagna  lo     aspettava,  infreddolita.  E  a mano a mano che la lancetta bianca del     tachimetro saliva con nervose oscillazioni, l'aria fredda faceva gorgo     sulla nuca. 
    Poi gli parve che nel loro moto,  corrispondente in senso inverso allo     spostamento  della  macchina,  i filari dei pioppi intendessero dirgli     una cosa.  Sì,  la fuga degli alberi - intreccio fluido e cangiante di     prospettive in una duplice rotazione della campagna a perdita d'occhio     -  aveva assunto una speciale intensità di espressione come quando uno     sta per parlare. 
    Lui correva, volava anzi in direzione dell'amore e pure gli alberi che     scivolando al limite delle praterie, erano portati via da qualcosa più     forte di loro. Ciascuno aveva una sua fisionomia,  una forma speciale,     una sagoma diversa.  Ed erano tanti,  migliaia e migliaia.  Eppure una     comune forza li trascinava nel gorgo.  Tutti i pioppi della  smisurata     campagna fuggivano esattamente come lui ruotando in due vastissime ali     ricurve.  Era  uno  spettacolo,  nel solitario mattino,  con la strada     vuota dinanzi e i prati  vuoti,  le  campagne  vuote,  non  si  vedeva     un'anima,  sembrava che,  tranne lui, tutti si fossero dimenticati che     esistesse quel pezzo di mondo.  E lei  era  laggiù  in  fondo,  dietro     l'ultimissimo  sipario  di alberi anzi molto più in là,  probabilmente     stava dormendo con la testa sprofondata nel cuscino, fra lista e lista     delle tapparelle la luce  del  giorno  nuovo  penetrava  nella  stanza     illuminando la massa dei suoi capelli neri, immota. Era sola?     Allora,   egli   all'improvviso   capì   il  senso  di  quel  naturale     incantesimo.  Che cosa infatti volevano  dirgli  i  filari  di  pioppi     all'orizzonte  che  vanno vanno in corteo e sembrano sfuggirlo e nello     stesso tempo corrergli incontro, per poi allontanarsi alle sue spalle,     nella  nebbia,  consumati,   mentre  nuove  schiere  appaiono  dinanzi     inesauribili precipitandosi su di lui? 
    Di  colpo  egli  capì ciò che dicevano,  capì il significato del mondo     visibile allorché esso ci fa restare stupefatti e diciamo "che  bello"     e  qualcosa  di  grande  entra  nell'animo  nostro.  Tutta la vita era     vissuto senza  sospettarne  la  causa.  Tante  volte  era  rimasto  in     ammirazione dinanzi a un paesaggio,  a un monumento,  a una piazza,  a     uno scorcio di strada,  a un giardino,  a un interno di chiesa,  a una     rupe, a un viottolo, a un deserto. Solo adesso, finalmente, si rendeva     conto del segreto. 
    Un  segreto  molto  semplice: l'amore.  Tutto ciò che ci affascina nel     mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi,  le montagne,  i mari,     le valli,  le steppe,  di più, di più, le città, i palazzi, le pietre,     di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più, la neve, di più, la     notte,  le stelle,  il vento,  tutte queste cose,  di per sé  vuote  e     indifferenti,  si caricano di significato umano perché,  senza che noi     lo sospettiamo, contengono un presentimento d'amore. 
    Quanto era stato stupido a  non  essersene  mai  accorto  finora.  Che     interesse  avrebbe  una  scogliera,  una foresta,  un rudere se non vi     fosse implicata una attesa?  E attesa di che  se  non  di  lei,  della     creatura  che  ci  potrebbe  fare  felici?  Che senso avrebbe la valle     romantica tutta rupi e scorci misteriosi se il  pensiero  non  potesse     condurci  lei  in una passeggiata del tramonto tra flebili richiami di     uccelli?  Che senso la muraglia degli antichi  faraoni  se  nell'ombra     dello speco non potessimo fantasticare di un incontro?  E l'angolo del     borgo fiammingo che ci potrebbe importare o il caffè del "boulevard" o     il "suk" di Damasco se non si potesse supporre che anche lei un giorno     vi passerà,  impigliandovi un lembo di vita?  E l'erma cappelletta  al     bivio  col  suo  lumino  perché  avrebbe  tanto  patos se non vi fosse     nascosta un'allusione?  E a che cosa allusione  se  non  a  lei,  alla     creatura che ci potrebbe fare felici? 
    Pensò  alla  finestra solitaria illuminata nella sera d'inverno,  alla     spiaggia sotto le rocce bianche  nella  gloria  del  sole,  al  vicolo     inquietante e sghembo nel cuore della vecchia città, alle terrazze del     grand hotel nella notte di gala, ai fienili, al lume della luna, pensò     alle  piste  di neve nel mezzogiorno di aprile,  alla scia del candido     transatlantico illuminato a  festa,  ai  cimiteri  di  montagna,  alle     biblioteche,  ai caminetti accesi, ai palcoscenici dei teatri deserti,     al Natale,  al barlume dell'alba.  Dovunque c'era nascosto il pensiero     inconfessato di lei, anche se non sapevamo neppure chi fosse.     Quanto  meschina  sarebbe,  di  fronte  a  un  grande spettacolo della     natura, la nostra esaltazione spirituale se riguardasse soltanto noi e     non potesse espandersi verso un'altra creatura. 
    Perfino le montagne che egli aveva intensamente amato,  le nude scabre     inospitali rupi in apparenza così antitetiche alle cose d'amore adesso     assumevano  un  senso  diverso.  La  sfida  alla natura selvaggia?  Il     superamento dell'io? La conquista dell'abisso? L'orgoglio della vetta?     Che spaventosa cretineria sarebbe,  se  consistesse  solo  in  questo.     Difficoltà  e  pericoli diventerebbero ridicolmente gratuiti.  A lungo     egli aveva meditato al problema senza riuscire  a  risolverlo.  Adesso     sì.  Nell'amore  per le montagne si annidava clandestinamente un altro     impulso dell'animo. 
    Se quando era ragazzo uno glielo avesse detto,  e  lui  avesse  potuto     capire,  ciononostante  avrebbe sempre detto di no,  che non era vero,     per una forma di pudore.  Così anche gli altri diranno di  no,  che  è     un'idiozia,   che  è  retorica,   romanticismo  fuori  tempo.  Eppure,     interrogati,  non sapranno indicare altrimenti perché li  commuove  la     burrasca marina o l'arco diroccato dei Cesari o la dondolante lanterna     nel  vicolo dei bassifondi.  Mai confesseranno che in quelle scene c'è     anche per loro il richiamo a un sogno di amore, nonostante il disgusto     che una simile espressione possa dare. 
    Dal termine ultimo del rettilineo,  mentre già il  cielo  si  scioglie     nell'azzurro  e il sole si espande,  i grumi d'alberi appostati laggiù     continuano a  rompersi  sgranandosi  in  due  parti  lentamente  e  in     progressiva  precipitazione scivolano via ai suoi fianchi,  con fluido     intreccio di prospettive, rapidi i filari più vicini,  lenti e pigri i     filari  lontani,  in  una  duplice  rotazione della campagna a perdita     d'occhio.  E quando egli premeva  il  pedale,  il  moto  degli  alberi     accelerava e gli sembrava così che l'intera pianura gli obbedisse.     Gli  vengono  pure in mente le carovane delle miagolanti befane venute     dall'America  che  scendono  dai  pullman  dinanzi  ai  musei  e  alle     cattedrali.  Forse che anche le sciagurate, nel girovagare da un paese     all'altro,  inseguono quel presentimento  d'amore?  Esattamente  così,     compatitele.  Pure  in  quei  ruderi  standard pieni di salute resiste     ancora,  a loro  insaputa,  il  richiamo;  hanno  sessanta,  settanta,     ottant'anni,  sono donne morigerate e rispettabili,  impazzirebbero di     vergogna se potessero sapere ciò che le  trascina  su  e  giù  per  il     mondo.  Eppure  se  nei  viaggi non ci fosse quel barlume romanzesco e     inverosimile, mai si muoverebbero di casa. Il vagabondare di frontiera     in frontiera, di albergo in albergo, diventerebbe un supplizio.     E il fatto universale della poesia?  Come mai tanti  paesaggi,  selve,     giardini,  spiagge,  fiumi,  alberi,  crepuscoli  nei versi alla donna     amata?  Perché  nella  natura,   i  poeti,   più  ancora  degli  altri     riconoscono  il riferimento fatale.  Le torri antiche,  le nuvole,  le     cateratte,  le enigmatiche tombe,  il singhiozzo della  risacca  sullo     scoglio,  il piegarsi dei rami alla tempesta,  la solitudine dei greti     nel pomeriggio, tutto è un'indicazione precisa a lei, la donna nostra,     che ci incenerirà.  Ogni cosa del mondo congiurando con le altre  cose     del  mondo  in complotto sapientissimo per promuovere la perpetuazione     della specie. 
    Era una intuizione così bella e geniale che in altre circostanze  egli     ne avrebbe avuto soddisfazione. Ma, proprio per la sua esattezza, oggi     a lui procurava solamente dolore.  L'espressione degli alberi fuggenti     corrispondeva infatti alla condizione del  suo  amore;  il  quale  era     stolto  e  disperato.  Egli correva in direzione di lei benché sapesse     che laggiù  lo  aspettavano  soltanto  nuovi  affanni,  umiliazioni  e     lacrime.  Ma lui correva a perdifiato ugualmente, il piede premuto con     tutta la forza sul pedale, per la paura di perdere un minuto. 
    I pioppi della pianura, spostandosi processionalmente, a schiena curva     sembrava che gli dicessero: fermati uomo, fa dietro front, non pensare     più a lei e seguici, non correre alla tua rovina. Noi ti condurremo al     remoto paradiso degli alberi dove esiste soltanto benessere,  canto di     uccelli e pace dell'animo. Non ostinarti. 
    Era  così persuasivo il loro discorso che a un tratto egli fu preso da     un turbamento interiore,  si spostò sulla destra e si  è  fermato.  Ma     nello  stesso  istante si è fermato anche tutto il paesaggio intorno a     perdita d'occhio  e  a  lui  dinanzi,  in  fondo  alla  deserta  pista     d'asfalto,  il  crocchio degli alberi rimane compatto e immobile né si     scioglie più sgranandosi da una  parte  e  dall'altra,  i  pioppi  non     fuggono più,  non gli dicono più fermati,  non osano più dirgli niente     perché capiscono che non c'è nulla da fare, gli alberi gli dicono sì è     vero,  laggiù in fondo,  al sud,  dove la strada finisce,  c'è lei che     aspetta per farti dannare, ma non importa, tanto!     Tanto, il sole è già alto, e noi non ti possiamo salvare. 

    19. 
    Lei  non  ci  sarà,  lei sarà già ripartita,  il telefonista ha capito     male,  è impossibile che lei ci sia,  è impossibile che lei  lo  abbia     chiamato. 
    Chiede  dell'Albergo  Moderno.  Laggiù  in  fondo,  subito dopo quello     slargo,  in quel momento ricominciava l'inquietudine maledetta,  fermò     la  macchina,  entrò  col  batticuore,  un albergo come tanti altri di     provincia, a destra lo sgabuzzino del portiere.  La signorina Anfossi?     Chi  devo  dire?  Le  nove meno un quarto.  Sarà già vestita?  Dice di     aspettarla che fra cinque minuti scende. 
    Sedette su una poltroncina, di là attraverso una vetrata si vedeva una     grande sala, con qualche tavolino ai bordi,  ballavano alla sera?  lei     con chi avrà ballato? 
    Improvvisamente lei comparve,  scarmigliata e senza trucco.  "Come mai     sei venuto tanto presto?" "Così mi ha  fatto  sapere  il  telefonista.     Domani  presto,  c'era  scritto  sul  biglietto."  "Ma  io devo ancora     vestirmi,  ho da fare le valige,  poi devo salutare una  famiglia  che     sono  stati  così  gentili con me." "E allora a che ora vuoi partire?"     "Non so.  Ma tu hai fretta?  Potremmo partire  dopo  mezzogiorno."  "E     mangiamo  qui  a  Modena?"  "Be'  senti adesso tu prendi un caffè e io     intanto vado di sopra a prepararmi." 
    Salutava confidenzialmente i camerieri,  scherzava con la ragazza  del     bar,  sembrava a casa sua,  perfettamente sicura di sé, con quella sua     aria sempre un po' ribalda,  era pallida,  il naso petulante  più  del     solito. Era come le ragazzine brune appena uscite dal letto, la faccia     non ancora organizzata,  quella trasparenza un po' livida della pelle,     quel colore di marmo,  quell'ombra della notte ancora  attaccata  alle     guance,  alla bocca, quella specie di verginità carnale che si rinnova     ogni giorno dell'anno,  quella sincerità disarmata del corpo colto  di     sorpresa,  che fa apparire più brutte le vecchie e anche le giovani le     rende meno belle ma in compenso le giovani allora diventano più  nude,     forti,  sporche,  selvagge,  eccitanti,  confidenziali,  il bello e il     brutto spiccano cosicché risulta nella Laide  il  popolaresco  guizzo,     l'improntitudine,  la  piccola  bocca si apriva e si chiudeva,  le due     piccole   compatte   labbra,   specialmente   il   labbro   inferiore,     protendendosi in fuori come petali capricciosi e impertinenti.     Antonio   la  guardava  con  la  insperata  consolazione  di  trovarla     bruttina, in fondo ce n'erano migliaia di ragazzette meglio, non è che     tutti i maschi del mondo dovessero correrle dietro e a lui  stesso  in     fondo  adesso  non  importava  gran che,  per un istante egli sperò di     potere liberarsi dall'ossessione,  ma fu  un  istante  brevissimo,  la     Laide  che  si era seduta e stava bevendo un caffelatte strinse con la     destra l'avambraccio del cameriere che la stava  osservando  e  disse:     "Giacomo  ti  prego  portami una di quelle brioches che sai" e Antonio     osservò che il cameriere era un ragazzo di venti ventun anni col  naso     lungo e pesante e il mento piccolo, brutto si poteva dire, ma c'era in     lui  una  imbambolata  tensione  virile  e Antonio si domandò se.  Era     assurdo,  era spaventoso,  era di una estrema semplicità: quella notte     stessa forse,  pensò,  magari per puro capriccio Laide se lo era fatto     venire in camera. 
    Giacomo sorridendo arrivò con la brioche su di un piattino,  lei prese 
    la brioche: "Vado a chiudere la valigia" disse, e se ne ando. 
    Antonio la accompagnò fino alla scala, chiese: "Non posso venire su?".     Lei disse: "Sei matto?".  Lui restò ad aspettare in una poltroncina di     vimini che stava in un angolo da cui poteva controllare la scala.  Dal     suo banco là in fondo il portiere lo poteva vedere. Antonio si sentiva     imbarazzatissimo  e  ridicolo.  Alla  sua  età  farsi  veder menare al     guinzaglio da una ragazzina.  Lo zio!  Figurarsi se  il  portiere  non     aveva mangiato la foglia.  La classica situazione, il vecchio che paga     e la maschietta che se ne va a spasso coi fusti.  Nello sguardo di  un     cameriere che passava gli parve d'indovinare l'ironia. 
    Un passo sulle scale.  No, era un passo d'uomo. Comparve un giovanotto     in pullover che teneva a un braccio una giacca di  camoscio.  Un  tipo     sportivo.  Forse  uno  dei  piloti  che si allenavano al circuito,  un     collaudatore.  Per caso - si chiese Antonio - era a motivo  di  costui     che Laide gli aveva proibito di salire di sopra in camera sua?  Mentre     Laide prendeva il caffelatte con lui Antonio, per caso nella camera di     lei il giovanotto stava facendosi la barba? 
    Antonio lo scrutò ma quello passò via in direzione  dell'uscita  senza     minimamente badargli.  Ne fu tranquillizzato.  Se il giovanotto era in     camera con lei,  la Laide,  per  scendere,  aveva  dovuto  trovare  un     pretesto,  magari gli aveva detto che era arrivato suo zio.  In questo     caso,  se  non  altro  per  curiosità,   il  giovanotto  avrebbe  dato     un'occhiata a lui, Antonio. 
    Del resto questa era una ipotesi assurda.  La Laide,  così preoccupata     di salvare la forma (preoccupazione ridicola  perché  era  sicuro  che     tutti,  dal  portiere  all'ultimo  cliente  dell'albergo,  la  avevano     catalogata per una puttanella in trasferta,  figurarsi una che dice di     fare  la  modella  per  fotografie  di  moda),  la Laide non si teneva     garantito un giovanotto in pianta stabile con  lei.  Dopo  aver  fatto     l'amore l'avrebbe rispedito difilato in camera sua. 
    Un  moto  di  ribellione interno.  Stava rimbecillendo?  Perché questo     affannoso lavorio di sospetti gelosi?  Era sua,  la Laide?  Che doveri     aveva verso di lui? Forse per quelle cinquantamila lire da lei chieste     in prestito (storia di un debito contratto per la malattia della madre     che  si  era  impegnata di pagare a rate e una rata scadeva appunto il     giorno dopo) e che lui era stato ben felice di darle per la sensazione     di stringere con lei finalmente un  legame  privato?  No,  non  poteva     onestamente  pensare  che  quelle cinquantamila lire le imponessero un     impegno neppure vago di fedeltà.  Dunque?  Non era padrona  di  andare     dove  cavolo  le piacesse e di farsi sbattere da chi voleva?  Che cosa     poteva obiettare lui? 
    Guardò l'orologio erano passati venti minuti,  di là nella grande sala     a vetrate risplendeva il sole, si alzò, uscì a togliere la capote alla     macchina,  ci teneva che la Laide trovasse la macchina scoperta,  alle     donne le macchine scoperte piacciono, danno un tono sportivo, moderno,     di ricchezza,  lui stesso in quella  macchina,  benché  non  fosse  di     lusso,  si sentiva diverso,  più giovane, più sicuro di sé, invidiato,     era la prima volta che la adoperava ma già si era accorto che  per  la     strada tutti lo guardavano, tutte le donne lo guardavano, specialmente     quelle giovani. 
    Mentre abbassava la capote e la ripiegava nell'apposito alloggiamento,     manovra  abbastanza  complicata,  notò  che  due  giovani  inservienti     dell'albergo  si  erano  fatti  sulla  soglia  e  lo  osservavano  con     l'interesse  tipico  dei  giovani  per  tutte  le automobili fuori del     normale. 
    Cercò di fare il più presto possibile, ansioso che la Laide scendesse.     Quando rientrò, il portiere,  sorridendo,  gli disse: "No,  sua nipote     non è ancora discesa." 
    Sua nipote?  Quella faccenda non gli piaceva per niente: quasi che lei     ci tenesse a mettere bene in chiaro le cose:  non  vi  verrà  mica  in     mente alle volte che questo cinquantenne sia il mio amante?  quasi che     lei si  sarebbe  sentita  umiliata  nell'ammettere  pubblicamente  una     relazione  fisica  con  un  uomo  che  poteva essere comodo suo padre.     D'accordo,  il fatto che Laide lo invitava come suo zio dimostrava che     non  si  vergognava  di  lui,  anzi  forse ci teneva a questa fittizia     parentela,  a farsi credere di una famiglia così  per  bene,  nipotina     prediletta  di un uomo noto e stimato.  Non solo,  ciò creava fra loro     due un legame,  anche se falso,  ben più solido di  quello  del  tutto     inconsistente,  fra una ragazza squillo e un cliente. E pure questo lo     lusingava,  Antonio aveva un piacere immenso per  ogni  cosa  che  gli     permetteva,  in un modo o nell'altro,  di entrare nella vita di Laide,     mondo ambiguo complicato peccaminoso e terribilmente milanese.     Capiva però quanto l'assegnargli la parte di zio fosse comodo a Laide.     Un alibi che le consentiva di fare l'amore con questo e con  quello  e     nello  stesso tempo di farsi condurre in giro da Antonio senza che ciò     risultasse scandaloso.  Avrebbe avuto  una  voglia  matta,  quando  il     portiere dell'albergo,  gli aveva parlato della nipote, di rispondere:     "Nipote?  Mai stata mia nipote,  quella lì".  Poi si  era  fermato  in     tempo:  avrebbe probabilmente fatto la figura del vecchietto cornuto e     menato per il  naso.  Senza  contare  che  lei,  Laide,  se  per  caso     informata  della  cosa,  sarebbe  andata  in bestia,  capace magari di     mandarlo a dar via l'anima alla presenza di tutti. 
    Così rimuginava quando lei discese. Era tutta in ordine,  ben truccata     e  pettinata,  indossava  un  vestito "plissé" e portava in braccio un     minuscolo  cagnolino  maltese.  Dietro  veniva  il  facchino  con  una     valigia,  due  valigette,  un "beauty case" e un soprabito di antilope     scamosciata. 
    "E' questo il tuo famoso cagnolino?" 
    "Mettiamo addirittura le robe in macchina?" fece lei prontissima senza     rispondere e lui notò che dava un'occhiata intorno di controllo se mai     altri,  oltre al facchino avesse udito la domanda di  Antonio.  Perché     era  ben  strano  che  uno zio non avesse mai visto il cagnolino della     diletta nipote. 
    Si accorse pure che Laide di colpo  si  era  ingrugnata:  affrettò  il     passo in modo da distanziare il facchino e gli disse: 
    "Se c'è una cosa che odio è di parlare delle nostre cose alla presenza     di estranei!" 
    "Che cose? Che cosa ho detto?" 
    "Niente,  niente"  fece  lei  a bassa voce perché il facchino si stava     avvicinando  "in  certe  cose  voialtri  uomini  siete  dei   perfetti     cretini." 
    Si  rasserenò  per  fortuna  quando dinanzi all'albergo vide la spyder     rossa che aspettava, fiammeggiante al sole di maggio. 
    "E' tua?" 
    "No. Me l'ha imprestata un amico." 
    "Figurarsi.  Quando è che ti deciderai a cambiarla quella tua  vecchia     baracca?" 
    Sistemarono le valige nel portabagagli, poi lei disse: 
    "Senti, dovresti farmi un piacere, scusa sai." 
    "Cosa?" 
    "Qui all'albergo mi è rimasto qualcosa da pagare." 
    "Sarebbe come dire il conto?" 
    "Lo  vedi  come  sei?  Subito  a  pensar male.  Il conto è già pagato.     Vorresti che ti faccia venire da Milano fin qui  perché  mi  paghi  il     conto  dell'albergo?  Mi  stimi  proprio  poco  sai.  E'  la  nota del     portiere, saranno quattro cinquemila lire." 
    Erano in realtà cinquemila e duecento.  Pagò.  Tornò fuori.  Propose a     lei,  siccome non era ancora mezzogiorno,  di partire subito,  lui nel     pomeriggio doveva essere in studio.  Invece di mangiare  là  a  Modena     potevano  benissimo fermarsi a Parma,  anche a Parma c'erano dei buoni     ristoranti. 
    "Perché?" fece Laide "Chi ci obbliga a partire così  presto?  Possiamo     partire dopo colazione, con l'autostrada fai in tempo benissimo. E poi     io vorrei salutare Marcello." 
    "Marcello chi sarebbe?" 
    "Mio cugino no? Te l'avrò ripetuto dieci volte." 
    "E non l'hai visto abbastanza in questi giorni tuo cugino?"     "Una  volta  sola  l'ho visto.  Ha tanto di quel lavoro,  in cantiere. 
    Spetta che vado a vedere se lo pesco." 
    Lasciò Antonio e si affacciò al banco  del  portiere.  Per  non  farsi     vedere  assillante,  lui  non si mosse.  La vide,  attraverso la porta     dell'albergo, che stava telefonando. Sembrava molto contenta.  Rideva.     Lui non vedeva l'ora che finisse.  Accende una sigaretta.  La vede che     continua a telefonare, la vede ridere ancora. 
    La Laide ha messo giù il  telefono  e  lo  raggiunge  sul  marciapiede     all'ombra della tettoia. Ha un'espressione felice. 
    "E allora?" 
    "Allora, non so se te l'ho detto, devo andare assolutamente a salutare     una  famiglia sono stati così gentili con me tu sapessi non posso mica     andarmene via così senza salutarli."     "Chissà a che ora andiamo a mangiare allora." 
    "Oh per mangiare a me non mi imporla. Si potrebbe fare così.  A minuti     arriva  Marcello  e  mi  accompagna  da questi amici.  Tu intanto puoi     andare a mangiare.  Poi alle due alle due e mezza ci  si  trova  e  si     parte subito. Così non ti faccio perdere tempo." 
    "Vengo  da  Milano  apposta  a  prenderti  e tu mi pianti solo come un     cane." 
    "Su, non arrabbiarti adesso. Come faccio io, senò, con quegli amici?"     "E poi quella faccenda di Marcello non mi sfagiola per niente.  Mi  ha 
    tutta l'aria che sia tuo cugino come io sono tuo zio."     Gli occhi di Laide si sono dilatati. Di sorpresa e di rabbia. 
    "Ecco,  per  te sono tutte puttane.  Non si può voler bene a uno senza     andarci in letto insieme?  Non lo guarderei neanche più in  faccia  se     non avesse rispetto per me." 
    "Non mi vorrai mica dire che non ti ha mai dato un bacio." 
    "Porco  di  un  demonio"  fa  lei esasperata "me lo immaginavo sai che     avresti piantato questa grana.  Tutti uguali voi uomini.  Noi dobbiamo     per  forza  essere  tutte  delle troie!  No,  se proprio vuoi saperlo,     Marcello non mi ha baciato mai. E' come se fossimo fratelli. Chiaro?"     "Non mi pare sia il caso di prenderla così.  Dopo tutto tu sei  libera     di fare il diavolo che vuoi." 
    "Ah  non  bisognerebbe prendersela!  Mi dai della puttana e non dovrei     prendermela?" 
    "E chi ti ha dato della puttana?" 
    "Tu, se credi che io venga con te e poi vada anche con lui. Lui sì, se 
    mai, potrebbe prendersela, se sapesse che noi due..." 
    Antonio è sopraffatto. Antonio le crede,  è inverosimile ma Antonio le     crede, ha un tale accento di sincerità e di orgoglio offeso, la Laide.     Per  essere  capace  di  mentire così dovrebbe essere un mostro,  no è     impossibile che una ragazzina come lei  riesca  a  una  finzione  così     perfetta,   dovrebbe   avere   una  intelligenza  e  una  fantasia  da     Shakespeare. 
    "Be'" fa Antonio ammansito "e al tuo Marcello chi hai detto  che  sono     io?"     "Mio zio." 
    "Uno zio spuntato fuori da un momento all'altro?" 
    "Sì, gli ho detto che prima tu viaggiavi, che eri all'estero." 
    "E lui ci ha creduto?" 
    "Perché  non avrebbe dovuto credere?  Non sono mica tutti come te.  Ma     aspetta... mi pare che sia lui." 



    20. 
    Lo guardò con una specie di paura. No.  Marcello non è un tipo da fare     paura nemmeno a lui Antonio, cinquantenne. Arrivò con uno scooter, era     vestito  con  discreto cattivo gusto,  una cravatta variegata gialla e     verde, un abito a righe. Ma la faccia? L'importante era la faccia.     La faccia corrispondeva alle descrizioni della Laide.  Era un  giovane     piuttosto alto, più alto di Antonio, leggermente curvo tuttavia. Ma la     faccia? La faccia era l'importante 
    La  faccia  corrispondeva,  corrispondeva fino in fondo.  Brutto?  Non     brutto. Peggio. Inespressivo, privo di vita, ottuso.  Non brutto però.     Gli occhi, soprattutto gli occhi. Senza guizzo, senza scintilla, senza     neppure  intenzioni  o  sottintesi.   Bonario,  vagamente  goffo.  Sì,     corrispondeva perfettamente. Le presentazioni. L'imbarazzo fu minimo.     "Senti" disse Laide "lo sai dov'è la  piazza?  dritto  avanti  di  qui     saranno duecento metri,  dove c'è una discesa. Tu vai a mangiare e poi     ci vediamo in piazza."     "A che ora?" 
    "Adesso che ore sono?" 
    "Mezzogiorno e venti." 
    "Facciamo alle due e un quarto." 
    "Così tanto?" 
    "Sai. Quei miei amici non stanno in centro." 
    "Alle due e un quarto? Ti prego però, non farti aspettare." 
    "Alle due e un quarto. Mi senti?" 
    "Ti si parla e tu pensi ad altro. Senti, me lo faresti un piacere?"     Antonio guardò  Marcello.  Marcello  sembrava  assente,  completamente     distaccato e apatico. "Cosa?" 
    "Me lo terresti Picchi?" 
    "Il cagnolino?" 
    "Come faccio a portarlo in vespa? Del resto è un tesoro, vedrai." 
    "E bisogna dargli da mangiare?" 
    "Be',  non importa,  mangerà a Milano.  Se mai una pappetta, un po' di     riso e carne. Mi raccomando però, carne cruda e poca, sai?  è piccino,     il mio Picchi." 
    Laide  si  accoccolò sul seggiolino con un salto grazioso che denotava     una lunga abitudine.  Marcello mise in moto.  Lei  fece  un  gesto  di     saluto  a  Antonio.  Poi  si voltò in avanti,  sembrò appoggiarsi alle     spalle di lui, non si volse più a salutare. Lui rimase impalato, sotto     il sole, col cagnolino in braccio. 
    Qualcosa debolmente dentro di lui diceva: guarda  che  non  è  giusto,     pensa  alla  tua  età,  lei se ne va in motoretta con un giovanotto di     ventidue venticinque anni e ti pianta qua come un fesso.  E ti  lascia     il cagnolino. Lo capisci il ridicolo? Lo capisci la figura che fai?     Sta  dinanzi  alla porta dell'albergo col cagnolino in braccio,  sulla     soglia dell'albergo sono  due  giovani  inservienti  dell'albergo,  in     uniforme,  quelli di prima,  e lo guardano.  Né meraviglia né beffa né     ironia. Lo guardano però. 
    Andò al primo ristorante, era un ristorante abbastanza famoso,  faceva     caldo,  si  sedette  in  una  saletta laterale dove non c'era nessuno.     Deporrà a terra il cagnolino ch'era dotato,  nonostante la piccolezza,     di una vitalità tremenda. 
    Ordinò del prosciutto,  non aveva voglia di mangiare,  il mangiare gli     faceva schifo. E' solo. Nella saletta,  due tavoli più in là,  sedette     una coppia,  dovevano essere stranieri.  Lei,  una bionda slavata,  si     interessò subito del cagnolino, con giocosi richiami. Il cagnolino non     le bada. 
    Non riesce a mandare giù,  aveva un bel masticare,  in questo  momento     lei dov'è?  Giravano carrelli carichi di ogni bene di Dio,  che gliene     frega?  Era troppo alla sua età.  Immaginò  che  un  conoscente  fosse     entrato, gli avesse chiesto come mai, e quel cagnolino di chi era? Era     troppo,  alla sua età.  Ordinò una paillard. Forse la paillard sarebbe     riuscito a mandarla giù.  La straniera bionda non si  interessava  più     del cagnolino. 
    Andare  da  solo  al  ristorante gli era sempre stato ingrato.  Pur di     andare non da solo al ristorante quasi  sempre  preferiva  saltare  il     pasto. Gli portarono la paillard. Portarono la zuppa per il cagnolino.     Era  caldo,  c'era  molta gente,  mangiavano di gusto,  erano allegri,     maledetti.  Le una e mezza,  faceva caldo,  ancora  tre  quarti  d'ora     d'aspettare.  Era  un  ristorante  di  classe,  camerieri  andavano  e     venivano, a Picchi la pappa non piaceva. 
    Una banana,  per finire,  era la cosa  più  semplice,  la  banana  era     acerba,  la lasciò a meno di metà. Un caffè. Il cameriere, spoetizzato     da un cliente simile,  portò il conto.  Le una e  tre  quarti.  Ancora     mezz'ora. E non aveva neanche un giornale da leggere. Aspettò il resto     lungamente,  ma  il  cameriere  non  veniva,  il  cagnolino cominciò a     zampettargli alla base dei calzoni,  voleva salirgli sulle  ginocchia,     lo  prese  sulle ginocchia,  lo prese ad accarezzarlo,  era pratico di     cani.  E se avesse tagliato la corda?  Se avesse scaricato le valige e     il cane all'albergo e se ne fosse andato? Vagamente capiva che un uomo     non avrebbe fatto altro,  un uomo decente. Ma lui non era più un uomo,     era uno sciagurato era un bambino,  peggio  che  un  bambino,  era  un     verme, un essere abbietto, anche questo lo capiva vagamente.     Con  una  specie  di  sogghigno  interno  immaginava  la  scena.  Lei,     accompagnata dal cuginetto che arriva  sul  luogo  d'appuntamento,  in     piazza, e non lo trova. Girano intorno per le strade vicine. Niente, e     sono già le due e quaranta.  E se fosse ancora al ristorante? Vanno al     ristorante. Neanche qui. E se fosse tornato all'albergo?  All'albergo,     appena  Laide  entra,  il portiere le rivolge un sorriso che può voler     dire una quantità di cose diverse. "Guardi signorina che il suo zio ha     lasciato detto  che  doveva  partire  si  scusa  di  non  aver  potuto     aspettare..."  "E  i  miei  bagagli?"  "Sono  qui,  signorina."  "E il     cagnolino?" "E' qui,  signorina." E allora lei  farsi  bianca  per  la 
    rabbia  e  dominarsi  a  mala  pena  per  salvare la faccia davanti al     portiere (lei crede che ce ne sia bisogno,  ah  ah).  Ma  avrebbe  una     voglia  di  tirar  giù  tutti  i  sacramenti  possibili e di dirgliene     quattro a quella carogna di uno zio.  E  adesso?  Senza  una  lira  in     tasca.  Figurarsi se Marcello...!  E' lei che gliene dà a Marcello, di     tanto in tanto, a titolo di prestito. E la rabbia. E l'umiliazione.  E     l'accorgersi  che  il  portiere  ha  capito  tutto  e la guarda con un     sussiego e una superiorità che prima non aveva.  Fin troppo chiaro che     lei  è una di quelle e che la storia del lavoro e delle fotografie non     è che un alibi puerile. Subito, difatti, quando lei avverte che quella     sera si fermerà ancora all'albergo, il portiere le annuncia che la sua     camera è già stata impegnata e che altre stanze non ci sono.  E quando     lei  si  arrabbia  e supplica il portiere con un sorrisetto fin troppo     chiaro,  le dice: "Non so signorina proprio per farle una agevolazione     personale...   se  per  una  notte  si  accontenta...  potremmo  farle     sistemare un letto all'ultimo piano... proprio accanto alla mia camera     c'è una stanzetta vuota...". Che lezione, che sacrosanta lezione. Mica     poi un minchione come si poteva pensare, lo zio Antonio. Innamorato si     di quella squinzietta ma i piedi sulla faccia non se li lascia mettere     neppure da lei. 
    In ogni particolare Antonio miniava voluttuosamente questa  vittoriosa     fantasia  pur  rendendosi conto che mai sarebbe stato capace di tanto.     Ed era come quando uno immagina le cose più orrende, le catastrofi, un     terremoto, una battaglia,  una spaventosa malattia,  la totale rovina.     Perché al pensiero di non poterla più vedere una angoscia senza limiti     si  impadroniva  di  lui.  No.  Qualsiasi  cosa  pur di evitare questa     condanna.  Che cosa avrebbe fatto senza di lei?  Come  avrebbe  potuto     resistere?  Laide era il mondo stesso, la vita, il sangue, la luce del     sole, la gloria,  la ricchezza,  l'appagamento dei sogni.  Soltanto il     sentirsi sulle ginocchia il cagnolino di lei - si era addormentato per     fortuna  -  lo  consolava  Perché  la  bestiola  apparteneva a Laide e     l'averla con sé gli garantiva di poter rivedere la Laide, sia pure per     un minuto.  Maledetto  cagnolino  petulante  e  bisbetico,  adorabile,     depositario di una miracolosa investitura. 
    Il cameriere portò il resto, erano le due meno dieci, facciamo il caso     che  una  gomma nel frattempo sia andata a terra.  Si alzò impaziente.     Vide in uno specchio la propria faccia, brutta, tirata. Che peccato.     La gomma non era a terra. Alle due e cinque era nella piazza.  Collocò     l'auto  nel posteggio.  Ma qui resistere seduto in macchina non poteva     tanto era il sole. Discese col cagnolino. 
    C'era nel mezzo  della  piazza  un  rettangolo  di  prato.  Vi  lasciò     passeggiare  la bestiola tenendola al guinzaglio,  poca gente in giro,     però qualcuno si  fermò  a  guardare,  era  un  cane  così  piccolo  e     grazioso.  Le  due  e dodici,  le due e tredici.  Finalmente!  Tra due     minuti lei sarebbe ricomparsa,  sarebbe venuta via  con  lui,  al  suo     fianco,  nel sole,  loro due soli sull'autostrada,  per la prima volta     una specie di gita insieme, e nessuno poteva rompere le scatole. E lui     le avrebbe parlato,  aveva deciso di parlarle,  non poteva più  andare     avanti così,  costasse quel che costasse, non poteva più resistere con     questo continuo tiramolla,  quel vedersi ogni tanto,  quel non poterle     telefonare,  quel  conteggiare l'amore a ventimila lire il colpo,  una     volta in macchina non ci sarebbe stato più nessuno a dar fastidio,  né     quell'ambiguo  cugino  Marcello,  né i parenti di lei,  né i fusti del     "Due" con cui ballava alla sera,  né le ruffiane.  Soli nell'immensità     della pianura. E lui non era mai stato capace di parlare a una ragazza     dicendole  ciò che il cuore avrebbe voluto dire,  mai mai,  era sempre     stato un disgraziato,  ma adesso qualcosa  traboccava,  adesso  sì,  a     costo di spaccarsi avrebbe parlato,  era questione di vita o di morte,     così non poteva resistere. 
    C'era al sole un tale caldo insopportabile che prese il  cagnolino  in     braccio  e  si fece sul bordo della strada,  là dove la casa di fronte     proiettava l'ombra.  Le due e diciassette.  Da un  momento  all'altro.     Alla sua età,  con un ridicolo cagnolino in braccio,  ad aspettare una     ragazza squillo che, mentre lui faceva colazione al ristorante, magari     era andata in letto con l'amato bene,  e con l'amato bene aveva magari     riso  lungamente di lui,  imbecille,  che aveva bevuto tutte le bagole     che lei era stata capace  di  inventare  e  magari  ancora  in  questo     momento stava ridendo, a cavalcioni del bidet, mentre lui si asciugava     il  sudore  della  galoppata.  Ma perché?  Magari no.  In fondo poteva     essere tutto vero,  impossibile anzi  che  non  fosse  vero,  mai  una     ragazzina  come  lei  avrebbe  avuto  un  simile  "toupé".  Era  vero.     Certamente era vero.  Ma perché farlo aspettare  così  in  mezzo  alla     strada  con un cagnolino in braccio?  Laide lo considerava dunque così     poco? Perché umiliarlo così? Se i suoi colleghi avessero saputo,  se i     suoi amici lo avessero visto. Era proprio quel pestilenziale cagnolino     a  rendere estremamente ridicola la situazione.  Le due e venticinque,     dieci minuti di ritardo.  Perché?  Era un uomo di quasi cinquant'anni,     serio,  stimato, rispettato, un uomo quasi importante. Era un bambino,     era solo,  era maltrattato,  era umiliato,  nessuno sapeva la sua pena     nessuno al mondo anche se avesse saputo avrebbe avuto pietà di lui. Il     cagnolino ebbe un trasalimento,  era stanco di stare in braccio, aveva     voglia di camminare.  Nessuno al mondo poteva avere misericordia della     sua ignobile della sua stupida pena, lo avrebbero deriso anzi, anche i     vecchi amici avrebbero fatto delle lunghe sghignazzate. 
    Fu  proprio  in  uno  di quei momenti che l'attesa spasmodica cede per     stanchezza fisica e gli occhi stanchi non guardano  più  intorno,  che     comparve la motoretta di Marcello con la Laide sul seggiolino.     "Sono le tre meno venti" disse Antonio. 
    "Be' adesso sono qui" fece lei, sicura di sé, senza raccogliere. 



    21. 
    Marcello  in  motoretta  li  accompagnò  fino  alle porte della città,     Antonio premeva l'acceleratore ansioso di liberarsene  e  a  un  certo     punto, dove non c'era più traffico, Marcello cominciò a distanziarsi.     Allora  lei  la Laide si mise in ginocchio sul sedile per poter vedere     indietro e agitare il braccio in segno di saluto. Se fosse partita per     la Cina non si sarebbe data tanto da fare. Se non si fossero mai visti     più, non poteva essere più eccitata. 
    Lo capiva o no che per lui, Antonio,  quelle erano altrettante sberle?     Come  era  ancora  possibile  che  lui  credesse  ancora nel cuginetto     timido, rispettoso e vergine? 
    Finalmente Laide si risedette ma ancora per un bel  pezzo  continuò  a     voltarsi indietro, il braccio destro teso verticalmente a salutare. 
    "Be', adesso hai finito?" 
    "Che cosa?" 
    "Di salutare l'amato bene." 
    "Amato bene un corno. Quante volte te lo devo ripetere che con lui non     c'è mai stato niente? Comincio a essere stufa, sai." 
    "Be', non prendertela." 
    "No  perché ormai io ti conosco quando tu ti ficchi in testa una roba,     è così e basta. Per tua norma e regola bugie non te ne ho mai dette." 
    "E quella del nome allora?" 
   " Quale nome?" 
  "Che ti chiamavi Mazza invece di Anfossi." 
    "Nessuna bugia. Alla Scala mi facevo chiamare Le assicurazioni della Laide, che non c'era niente di male   in quello che faceva, che dalla signora Ermelina ormai non andava più,   che giù al "Due" era un ambiente di famiglia, che Marcello non avrebbe   mai osato toccarla, che a Modena andava per "lavoro",  che tutto nella   sua  vita era a posto e rispettabile,  tutti i suoi alibi precisi fino   al decimo di millimetro avevano lo straordinario effetto di  calmarlo,   e lui ne restava persuaso come se avesse preso un filtro nonostante le   continue e decisive obiezioni del buon senso.   Ma  intanto era ansioso di proporre a Laide il patto a lungo meditato.   Questo patto era per Antonio di fondamentale importanza, poteva essere   per Antonio la salvezza.   Da  dove  veniva  infatti  il  tormento,  l'inquietudine,  l'angoscia,   l'incapacità di lavorare,  di mangiare, di dormire? Perché Antonio non   era più lui bensì un essere schiavo e tremante, incapace di reagire?   Ma era chiarissimo il perché.  Perché evidentemente per  poter  vivere   aveva bisogno di Laide ma Laide non gli apparteneva in alcun modo,  la   Laide andava e veniva, gli telefonava e non gli telefonava, finora per   la verità era sempre stata di parola ma se  avesse  cominciato  a  non   telefonargli?  oppure a dirgli che gli avrebbe telefonato e poi invece   non telefonava? Era insomma un bene incerto e fluttuante sul quale lui   non poteva contare. E proprio da tanta incertezza venivano il tormento   e lo spasimo.   Imboccò la diramazione per l'autostrada  e  poco  dopo  cominciava  la   grande   curva   sopraelevata   della  congiunzione,   c'era  un  sole   bellissimo, erano le tre e un quarto, guidare una macchina scoperta di   colore  rosso  con  a  fianco  una  graziosa  e   piccante   ragazzina   modernissima  al  corrente  di  tutto  ciò  che occorre alle ragazzine   modernissime,  non solo: con  a  fianco  la  creatura  amata,  lei  in   persona,  la donna più desiderabile fra tutte le donne del mondo,  lei   ossessione incubo fatalità  mistero  vizio  segretezza  chic  malavita   grande città perdizione amore, lei al suo fianco con un fazzoletto blu   a  "pois"  bianchi  annodato  sotto  il mento,  provocante e altezzosa   contadinella,  andare così in macchina scoperta era bellissimo peccato   che  là non ci fosse gente,  nessuno c'era che potesse valutare il suo   meraviglioso privilegio di andare in un pomeriggio di  maggio  in  una   spyder  rossa  con  a  fianco  una maschietta simile,  ragazzina e non   ragazzina,  bambina e donna,  fiorellino e peccato e tutto ciò era ben   visibile bastava un'occhiata,  oh poter continuare così e non ci fosse   da andare al lavoro,  e il  sole  non  tramontasse  e  la  strada  non   terminasse  e  lei non avesse da tornare a Milano perché evidentemente   non aveva fretta ma alla sera gli aveva  detto  che  doveva  andare  a   pranzo  da  una  zia  e lui non aveva insistito ma si sa benissimo che   cosa significhino le zie per le ragazzine spericolate e  spregiudicate   smaniose di soldi,  lui non glielo avrebbe chiesto di sicuro,  sarebbe   stato come schiaffeggiarla puntigliosa com'era ma avrebbe giurato  che   per quella sera aveva preso un impegno,  magari la signora Ermelina le   aveva telefonato apposta ieri da Milano c'era una magnifica  occasione   un signore di Biella pieno di grana fino al collo un tipo proprio come   si  deve  e  riservato uno di quelli che se trovano il tipetto che gli   sfagiola non badano a un decame di più o di meno e chissà poi che  non   ne  venga fuori una sistemazione come si deve,  lui potrebbe venir giù   da Biella un paio di volte alla settimana e per il  rimanente  sarebbe   stata libera come una pasqua,  per quello aveva telefonato a lei Laide   e non a una delle altre perché lei Laide se voleva ci  sapeva  fare  e   nel  caso  a un cliente,  sempre che fosse una persona come si deve ed   educata, gli piacessero certi particolari capriccetti,  si fa per dire   naturalmente,  in fin dei conti che cosa c'è di male?  lei,  Laide era   una bambina intelligente e capiva al volo la situazione e non stava là   a far tante musse come per esempio quella sgualdrinaccia della  Nietta   che guardatemi e non toccatemi l'altro giorno ha disgustato un fior di   industriale con tanto di Mercedes e autista,  bell'uomo per giunta che   con lei Ermelina non si farà più vivo  garantito,  no,  no,  basta  si   impose  Antonio  trivellato ancora una volta da quelle gelose fantasie   costruite magari sul niente, ma perché no?  la Laide era ricorsa a lui   per farsi portare a Milano con armi, bagagli e cane in tempo per poter   essere a casa nel pomeriggio e così potersi rimettere in ordine per la   sera,  lavata, profumata e cambiata di biancheria intima così da poter   far colpo sul nuovo cliente, no, no, basta, il cagnolino nel frattempo   gli era sgusciato sulle ginocchia intralciandogli la guida, cominciava   il grande rettilineo,  intorpidita dal sole lei si era  accucciata  la   testa  appoggiata  al bordo superiore del sedile e sembrava disposta a   un sonno,  magari - pensò lui - risentiva della languida  e  deliziosa   stanchezza derivante dall'amore fatto poco prima con Marcello,  mentre   lui Antonio era al ristorante e si sa come sono impetuosi e  frenetici   questi  amplessi  d'addio  prima  di una lunga separazione.  Ma se lei   adesso si addormentava, magari a lui passava quella carica di smanioso   coraggio per poter farle la proposta.  Perciò,  con un violento sforzo   di volontà, le disse: "Laide".   "Cosa?"   "Senti, vorrei dirti una cosa."   "Dimmi."   "Io ho bisogno di te, te lo confesso, io ho bisogno di vederti."   "Ma non ci vediamo?"   "Sì,  ma...  io vorrei in un'altra maniera... Insomma io ti faccio una   proposta.  Tu senti e ci pensi su...  Poi domani,  dopodomani,  quando   vuoi, mi dai una risposta."   Lei tacque.   "Senti.  Io  ti  dò cinquantamila lire alla settimana e tu mi prometti   che ci troviamo due o tre volte alla settimana,  per il resto non aver   paura ti lascio libera non voglio neanche saperlo quello che fai, e se   tu  un  giorno  non  puoi  me  lo  dici e se devi andare via da Milano   qualche giorno me lo dici,  ma così,  vedi,  io so che ci  vediamo  di   sicuro  e  non occorre mica che ogni volta si faccia l'amore,  è bello   anche andare al cinema, al teatro, a pranzo insieme... per il resto ti   lascio libera...  Si capisce che se tu la  piantassi  con  la  signora   Ermelina  e tutti i giri del genere io preferirei lo capisci anche tu,   te l'ho già detto che ti voglio bene sul serio... Insomma... adesso tu   pensaci su e parliamo pure d'altro, o se vuoi fa' una dormitina."   Lei, subito, con gesto fermo e sicuro, volse la testa a guardarlo:   "Non ho bisogno di pensarci su" disse. "Io accetto senz'altro."   Un flusso nuovo di vita, una liberazione, fulmineamente l'angoscia era   cessata,  il mondo si ripresentava sui vecchi  cardini,  rinasceva  il   gusto per il lavoro,  l'arte,  la natura,  le belle cose,  fu talmente   impetuoso e  travolgente  il  sollievo  che  Antonio  stesso   rimase   sbalordito. A tanto poco dunque era dovuto il suo inferno?   Sì,  la situazione d'un subito capovolta. Adesso era lei sotto, adesso   era lui a dominare.  Né si chiedeva se non fosse abbietto vincere  nel   duello d'amore soltanto a base di soldi.  La consolazione, la felicità   era tale che il modo di raggiungerla non aveva più alcuna importanza.

22.

   Ma nel momento stesso che la  ebbe  scaricata  dinanzi  alla  casa  di   Milano  con valige borse "trousses" e cagnolino e lei scomparve dietro   la cancellata,  e lui,  credendosi liberato  dalla  smania,  volse  il   pensiero al resto della vita,  il lavoro,  la famiglia,  la mamma, gli   amici, la città con tutte le sue quotidiane distrazioni e si aspettava   di riassaporare il gusto dei giorni di una volta,  quella  complessiva   tranquillità  banale  forse,  di  sicurezza  quotidiana,  di  borghese   appagamento,  sul cammino ormai facile che lo  portava  a  progressive   soddisfazioni di carriera, allora si accorse di essere solo.   Solo,  e  nessuno  era in condizione di aiutarlo e neppure di capirlo,   forse di compatirlo neanche. E il lavoro, la famiglia,  gli amici,  le   serate  in compagnia non gli dicevano più niente,  intorno a lui tutto   era vuoto e senza senso. Non si era liberato,  ecco la questione,  non   si era affatto liberato.  Il pensiero di lei,  tormento, inquietudine,   angoscia, totale infelicità, lo possedeva come prima.   Peggio di prima anzi perché il patto con  la  Laide  -  anche  se  lui   tentava di negarlo - ora gli dava un barlume di diritto su di lei,  da   quel pomeriggio egli non era più l'amico occasionale  o  l'affezionato   cliente,  era  qualcosa  di  più,  una  specie di amante ufficiale,  o   protettore (in fin dei conti se fosse sincero confesserebbe di  averle   offerto  uno  stipendio precisamente a questo scopo che lei diventasse   almeno in parte sua,  che fosse tenuta a un'assiduità  che  prima  non   poteva   pretendere,   sì   quella  specie  di  diritto  che  hanno  i   commendatori sulle mantenute,  aveva un bel dirsi che il suo caso  era   diverso,   ch'egli  la  lasciava  libera,  che  le  chiedeva  solo  di   incontrarla un poco più spesso con la certezza di non perderla  da  un   giorno  all'altro come finora era possibile,  sì,  Antonio Dorigo,  lo   spregiudicato artista,  si è fatto commendatore anche lui,  ha assunto   la  miserabile parte che gli era sempre parsa sinonimo di mediocrità e   impotenza).   Peggio di prima perché adesso quell'embrione di diritto rendeva ancora   più insopportabile la libertà di Laide,  lo faceva ancora più  geloso.   In  fondo,  fino  a  oggi,  gli  incontri  con  la ragazza erano delle   meravigliose concessioni,  un privilegio.  Dal mondo di Laide  fino  a   oggi  egli era rimasto fuori,  c'era una specie di muro che nascondeva   la sua vita coi relativi  misteri  e  lui  non  presumeva  di  poterli   conoscere,  la sua famiglia,  i primi amori, i fidanzati, i "giri" con   le ruffiane, le serate al "Due", la dubbia faccenda della Scala,  solo   che  di  tanto  in tanto lei usciva per incontrarsi con lui.  Antonio,   fuori,  aspettava ansiosamente,  ogni volta che Laide compariva era un   indicibile  sollievo.  Poi  lei  rientrava  nel suo mondo,  lui non ne   sapeva più nulla e rinunciava ad aspettare.   Ma ora una piccola porta si era aperta  nel  muro,  lui  era  entrato,   appena  pochi passi,  e c'era buio di là non si vedeva niente,  di più   che prima quando egli era fuori.  Era entrato tuttavia,  per poco  per   pochissimo  forse  si  era  incastrato  nella  sua vita ed è felice di   questo come di un passo avanti,  di una conquista tuttavia è peggio di   prima,  adesso  egli non è più un estraneo,  in un certo senso avrebbe   diritto di sapere e non sa,  non può neppure chiedere o  indagare  per   paura  di rovinare tutto guai se Laide avesse il dubbio che per quelle   miserabili cinquantamila  lire  alla  settimana  lui  si  credesse  in   diritto di spadroneggiare,  non le ha detto lui stesso che la lasciava   libera?  Così ancora più di prima si affollano e contorcono  le  poche   cose  che  Laide ha raccontato di se stessa,  cose anche terribili che   gli mettevano dentro un bruciore difficile a  spiegare  in  cui  c'era   insieme  pietà,  gelosia,  ira,  lussuria,  e  che  gli  riattizzavano   l'amore.  Frammenti  turpi  e  ambigui,  veri  e  falsi,  forse  anche   inventati  da  lei  con  sottile  malizia  per istinto,  allo scopo di   eccitarlo, rendersi più interessante, dimostrarsi sicura di sé,  di là   del  bene  e  del male,  mescolanza di sfrontatezza invereconda,  sete   confusa di vita,  gusto di vendicarsi  dell'umile  sorte,  popolaresco   orgoglio, candore di bambina. Per esempio:   Racconta  di  essere  entrata alla Scala piccolissima che aveva appena   quattro anni.  Non c'era nessuna giovane come lei.  Era la  mamma  che   aveva  voluto,  e  alla  scuola di ballo tutti la chiamavano "rattin".   Erna Allasio,  che a quei tempi era la  direttrice,  l'aveva  presa  a   voler  bene.  E  a  poco  a  poco era diventata brava.  Aveva dato con   successo il passo d'addio e qualche volta aveva anche  fatto  degli  a   solo  come  le  prime  ballerine.  Ma il ballo le costava una tremenda   fatica.  Alle volte si sentiva male e a stento riusciva  a  dominarsi.   Finché  una sera - davano "Vecchia Milano" - era stramazzata di colpo,   avevano dovuto portarla fuori di peso,  era venuto il medico che aveva   diagnosticato:  mal  di  cuore.   Lei  però  aveva  voluto  continuare   ugualmente,  con sforzi sempre più terribili,  e così  adesso  si  era   scassato  il  cuore,  per  esempio  in montagna non poteva andare più,   bastavano mille milleduecento metri perché si sentisse male. Anche per   questo lei  aveva  deciso  di  piantarla.  Ma  sull'argomento,  quando   Antonio faceva domande,  era evasiva. Non si capiva se avesse lasciato   la Scala definitivamente,  quando la  avesse  lasciata,  o  se  ancora   continuasse.  Ogni  tanto diceva "Stamattina sono andata per esercizi"   oppure "Stasera c'è prova" oppure "Stasera ho lavoro". Lui controllava   sui programmi e quasi mai corrispondeva.  Se lui insisteva per sapere,   le  venivano  i  nervi.  Tutta  insomma  la  sua vita di ballerina era   avvolta da una nebbia.  E non c'era dubbio che ballerina fosse  stata,   sapeva  troppe  cose  della Scala,  conosceva troppi nomi,  abitudini,   fornitori di calzemaglia e di scarpette.  Però a Dorigo  è  venuto  il   dubbio che Laide da un pezzo alla Scala non ci sia più. E gli dispiace   pensare  che Laide non faccia più la ballerina,  è proprio un peccato,   la qualità di ballerina della Scala la  arricchirebbe,  la  renderebbe   più  importante,  la  tirerebbe  fuori  dalla malaugurata truppa delle   ragazze squillo,  ne farebbe un'artista anziché una  piccola  mignotta   senza  arte  né parte,  la sistemerebbe nel modo più perfetto entro il   quadro di Milano,  di cui Laide sembra  l'incarnazione,  una  graziosa   impertinente  bandierina  fluttuante  sopra lo sterminato scenario dei   tetti dei camini delle chiese e delle  fabbriche,  sopra  i  reconditi   cortili, i vecchi giardini, le storie, le superstizioni, le miserie, i   suoni,  i delitti, le feste. Eppure sono troppe le contraddizioni e le   lacune.  Fra l'altro è mai possibile che  nel  corpo  delle  ballerine   della  Scala famoso in tutto il mondo tengano una che tutte le sere fa   un numero in una balera più o meno  malfamata?  Ormai  Antonio  dubita   perfino  di  averla  vista realmente sul palcoscenico durante la prova   della "Stella della sera".  Al momento non aveva avuto il  dubbio  che   fosse  lei.  Ma  non  poteva essere stata un'autosuggestione?  E' così   facile scambiare una ragazza per un'altra,  basta che la  pettinatura,   il  trucco,  l'abito siano diversi.  E là,  per la prova,  erano tutte   conciate  in  strani  modi.   Come  spiegare  del  resto   il   fatto,   inesplicabile,  che Laide, se era veramente lei, non lo avesse degnato   di uno sguardo, come se lui non ci fosse neppure? Come spiegare che la   compagna avvicinatasi alla presunta Laide la avesse chiamata col  nome   Mazza  mentre  Laide  si  chiamava Anfossi?  Come spiegare che,  se la   signora Ermelina aveva detto la  verità,  la  Laide  era  andata  alle   quattro dalla Ermelina proprio quel giorno che c'era la prova, proprio   mentre  lui  l'aveva vista o aveva creduto di vederla sul palcoscenico   ballare il girotondo  dei  folletti?  Un  altro  ricordo  ancora:  dal   fotografo della Scala,  dopo la rappresentazione, si era fatto dare la   foto dei nove folletti in costume ma non era riuscito a riconoscere la   Laide: certo con quel costume, col trucco, non era facile capire.  Che   potessero  essere  Laide ce n'erano almeno due.  Il bello è che quando   lui, parecchio tempo dopo,  avrà fatto vedere la fotografia alla Laide   domandandole:  ma me lo sai dire quale sei?,  lei farà quasi mostra di   offendersi dicendo: "Ah è questo il bene che mi vuoi?  Manco buono  di   riconoscermi?.   Queste stranezze, che Laide aveva giustificate a tambur battente senza   il minimo imbarazzo ma con storie abbastanza assurde,  ora risaltavano   come altre prove che la ragazza non era più alla Scala. Un solo enigma   rimaneva insoluto: come mai,  dopo la andata in  scena  del  balletto,   avendo  Antonio telefonato alla signora Ermelina per ritrovarsi con la   Laide, la Ermelina, scherzosa, gli aveva detto: "Complimenti, la Laide   mi ha detto di averla vista in palco,  proprio sopra il  palcoscenico,   mi  ha  detto  che  era  solo  soletto".  E  questo era verissimo,  il   sovrintendente gli aveva dato il permesso di andare nel suo palco dove   non c'era nessun altro.  D'altra parte  era  da  escludere  che  Laide   avesse  assistito  allo  spettacolo  dalla platea o da un altro palco;   senza contare che lui,  sempre timido,  si era tenuto un po'  indietro   per  cui  solo  dal  palcoscenico  o  da  alcuni  palchi dirimpetto lo   potevano vedere.  O che la Laide avesse fra le ballerine  della  Scala   una  amica che la teneva informata di tutto?  Per cavarsi la curiosità   Antonio avrebbe potuto chiedere informazioni direttamente alla  scuola   di ballo,  certamente non gli avrebbero detto di no.  Ma ormai, finite   le  repliche  del  balletto,   lui  non  aveva  più  alcun  motivo  di   frequentare  il  palcoscenico e la scuola di ballo.  Andare lì apposta   sarebbe parso abbastanza strano;  e  in  cuor  suo  conosceva  già  la   risposta:  gli  avrebbero  detto  che  la  Anfossi Adelaide non c'era.   Magari avrebbero aggiunto: stia attento sa  con  quel  tipo,  è  stata   messa  fuori  tre  anni  fa  per motivi che è meglio tacere.  Sì,  gli   avrebbero detto qualcosa del  genere,  garantito.  E  per  lui  Dorigo   sarebbe stato peggio. No, meglio non indagare, meglio mettersi l'animo   in  pace.  Tanto,  la Laide avrebbe di sicuro escogitato qualche nuova   bagola, con la Laide non si poteva mai venire a capo.   Raccontava di essere stata in tournée, con la Scala,  in Germania,  in   Inghilterra,  nel Sud Africa,  in Egitto,  in Messico, a New York dove   aveva partecipato a un film. Ma se si chiedono particolari non ricorda   niente, se si chiede dove alloggiava non ricorda niente.  Sa invece un   mucchio  di  cose  sui  grandi  alberghi  in Italia,  in ogni città ha   frequentato esclusivamente gli alberghi più di  lusso.  Come  mai?  La   Scala vi alloggiava così bene?  "Ah no di certo ma io me ne andavo per   mio conto e pagavo la differenza." Conosce anche  gli  alberghi  della   Riviera.  Dice che al Bristol di Santa Margherita,  o nome analogo, ci   sono delle camere così simpatiche,  tutte con  bagno  naturalmente.  A   due,  a due,  comunicanti.  Lui naturalmente non le chiede con chi c'è   stata.  Risponderebbe,  come sempre,  d'esserci stata in villeggiatura   con la mamma, o con il nonno, o con altri attempati e innocui parenti.   Antonio  pensa invece a piccanti "week-ends" con figli di miliardari o   con anziani industriali un po' appesantiti dagli anni  e  dal  lavoro,   che   si   vestono  da  Caraceni,   molto  "soignés",   aggiornati  da   elettrocardiogrammi settimanali  ma  con  le  mani  piuttosto  grasse,   pelose e sudaticce, le quali, al respiro affannoso del tipo durante la   congiunzione, premono avidamente le sue infantili tettine.   Subito  dopo  che Laide aveva litigato con la signora Ermelina,  erano   andati  da  un'amica  della  Laide,  una  certa  Flora  che  aveva  un   appartamentino  dalle  parti  di piazza Napoli.  Antonio la conosceva,   questa Flora,  c'era stato due o tre volte insieme,  era  una  ragazza   svelta,  peccato  che avesse una faccia troppo oblunga,  il corpo però   era magnifico, diceva di essere studentessa di legge. Quando Antonio e   Laide erano andati a far l'amore in casa sua la Flora  non  c'era.  Si   erano messi a parlare di lei. La Laide sapeva benissimo che Antonio la   conosceva ma non gliene importava niente.  Raccontava che questa Flora   aveva uno che la manteneva  all'albergo  Gallia  e  le  passava  mezzo   milione  al  mese;  eppure  lei,  per  una stupidaggine da nulla aveva   "fatto marrone",  per un capriccio aveva mandato tutto quanto a  farsi   benedire.  "Ah se mi capitasse una situazione simile, me la tengo bene   stretta, io, non me la lascio scappare di sicuro." "Perché?  s'è fatta   pescare  in letto con un altro?" "Ma neanche.  Non credo.  Deve essere   stata una stupidaggine,  un ripicco,  adesso non mi ricordo."  "E  chi   era?  un  vecchio?"  Lei  ride:  "Mica avrà avuto vent'anni se le dava   mezzo milione a quella lì".  "E se uno così  ti  offrisse  altrettanto   accetteresti?" "Be', adesso tu subito... non mi vorrai mica metter con   quella  puttana,  spero...  non ho mai visto nessuno smarchettare come   lei." Intanto toglieva la sovracoperta del letto, piegandola con cura,   si capiva che ci teneva a fare le cose  bene,  per  tenersi  buona  la   Flora,  anzi  metteva  ordine rimettendo nella rastrelliera dei dischi   ammucchiati sopra una sedia,  appendendo una vestaglia  scivolata  per   terra,  vuotando  i  portacenere.  Antonio:  "Ma se mi ha detto che fa   l'università." "Sì,  l'università del coito...  E' una tale porca.  Le   piacciono anche le donne." "Perché? Ha cercato anche con te?" "Be', io   credevo  che  facesse  per  la mostra,  voi uomini vi eccitate a certe   scene,  e invece..." "Eravate andate in due  con  un  uomo?"  "L'unica   volta, te lo giuro, la signora Ermelina aveva tanto insistito." "E chi   era  lui?" "Lui?  manco me lo ricordo." "E la Flora faceva sul serio?"   "Tu avessi visto come si è messa a baciarmi, sembrava diventasse matta   dal gusto." "E tu ci stavi?" "Figurati, a me faceva schifo." Teneva il   discorso sul tono dello scherzo,  ma ad ogni frase un groppo  orribile   nel cuore di Antonio,  profanazione, vergogna, gelosia tanto più amare   per il candore dispettoso con cui Laide  raccontava  le  prodezze.  "E   quanto riuscirà a guadagnare la Flora?" "Di soldi ne fa di sicuro.  Ma   ha da pensare alla famiglia, la succhiano da tutte le parti.  E così è   sempre al verde. Intanto a me mi deve ancora quindicimila lire." "Come   mai? ti ha procurato qualcuno? fa anche la ruffiana allora?" "Una roba   vecchia.  Non  ci  conoscevamo neanche,  noi due.  Del resto niente di   male. E' stato per una gita." "Una gita che sarà finita in letto, no?"   "Tu subito.  Neanche per idea.  Semplicemente una gita  e  basta.  Lei   aveva  preso  un  impegno  e  poi non aveva potuto venire,  così mi ha   pregato me." "Be',  se era uno che pagava non l'avrà  mica  fatto  per   niente,  immagino."  "Non  sei  mica gentile sai...  tu,  almeno,  per   offendere..." "Ma scusa,  mi pare che non occorra essere  maligni  per   immaginare..." "Immaginare un corno...  Credi che siano tutti come te?   C'è il Furio Sebasti per esempio..." "Chi è questo Sebasti?"  "L'avrai   sentito  nominare  no?  quello delle rubinetterie." "Ricco?" "Avercene   come lui.  Ha uno "yacht" a Portofino che ci stanno trenta  invitati."   "E tu ci sei stata a bordo?" "Io no. Ma lui ogni tanto mi telefona, mi   porta  a pranzo e poi magari a teatro,  e ogni volta mi dà ventimila."   "Così? solo per portarti a spasso?" "Be', io perdo una sera no?" "E ti   telefona spesso?" "Saranno dei mesi che non lo vedo. E' sempre in giro   per il mondo." "E come mai lui ti  telefona  e  io  invece  non  posso   telefonarti?"  "Lui  è  amico di mio fratello.  Ma tu sei anche un bel   noioso sai con tutte queste domande. Cosa vuoi sapere ancora?"   Lui tace.  Chissà  che  gita.  Le  presentazioni  quando  lei  compare   all'appuntamento. Garantito due uomini e due donne. "Ah sei tu l'amica   della Flora?  Mica male.  Complimenti." Salgono in macchina. "Be', sai   che son contento che la Flora non ha potuto?  Sei proprio il  tipo  di   pupa che mi va.  Io le tettone non le posso soffrire.  Mentre tu... fa   sentire...  Eh diamine,  lascia un momento...  non farai mica  storie,   spero...  se sei amica della Flora...  tanto qui nessuno ci vede... Oh   brava,  così...  e adesso,  mentre guido,  metti qui la  tua  manina."   Un'ira,  una  rabbiosa impotenza in Antonio mentre con l'immaginazione   ricostruisce la scena. Ma Laide lo riscuote: "Si può sapere perché fai   quella faccia? A cosa pensi?".   La prima volta che Antonio la aveva portata in casa di Corsini,  Laide   gli  aveva fatto vedere dei lividi sulle braccia e sulle cosce.  "Come   te li sei fatti?" "A fare il numero al "Due""  risponde  lei  con  una   punta di orgoglio. "Lui il ballerino a un certo punto mi dà una spinta   e  io  rotolo per terra.  Si prendono certe pacche a fare il "blues"."   "Anche ieri sera ci sei stata?" "Sì, perché? Anzi, mi dovresti fare un   piacere. Quando usciamo accompagnami alla Fiera Campionaria, tanto, di   qui sono due passi." "A che fare?" "C'è un amico,  uno di  quelli  che   vengono giù sempre al "Due",  che ieri sera mi ha accompagnato a casa,   e nella macchina ho dimenticato il braccialetto e  l'orologio."  "Come   mai?" "Nella fretta di vestirmi e di uscire.  Li ho presi in mano e li   ho messi sul sedile." "Mi pare  un  po'  strano."  "Tu  almeno  sempre   pronto  a  pensar male.  E' soltanto un buon amico e quando dico amico   vuol dire che di altro non  c'è  niente."  Lui  non  insiste,  non  ne   parlano  più  ma quando escono lui non resiste al desiderio di restare   ancora un poco con lei,  non importa se è tardi per l'ufficio.  Né  lo   trattiene la vergogna di accompagnarla da un uomo che probabilmente la   sera prima,  al buio,  in automobile...  ("No, tesoro, qui no, stasera   no... in macchina non mi piace...  Fa adagio che mi sciupi la gonna...   Be',  allora  aspetta  che  mi  tolgo  il braccialetto...") Lo trovano   seduto a uno stand degli elettrodomestici, si alza, viene incontro,  è   un tipo sui trent'anni abbastanza insignificante. "Ma la macchina l'ho   lasciata  all'ingresso di via Domodossola,  è un po' lontana." Laide a   Antonio: "E allora, vieni anche tu?". "No è tardi, è meglio che vada."   "Ciao, allora, forse dopo passo a salutarti in studio. Ciao,  ciao.  E   grazie."  L'uomo  e  Laide  si  allontanano.  Lui  se ne va solo,  già   l'affanno e l'esasperazione risalgono impetuosi,  come l'acqua  da  un   tombino  tenuto  improvvisamente chiuso ma adesso il coperchio non c'è   più e la pressione del fondo si scatena.  Ma perché la Laide lo espone   a situazioni così umilianti?  Lo fa apposta? Si diverte a tormentarlo?   O lo fa innocentemente perché le sembra che non ci sia niente di male?   Intanto egli si sente precipitare sempre più giù,  gli viene in  mente   il  professore  Unrath dell'"Angelo azzurro".  Oh come era vera quella   storia.   Quando  aveva  visto  il  film,   ai  bei  tempi  giovani  e   spensierati,  gli era sembrato inverosimile. Uno stimato professore di   ginnasio degradarsi a  quel  punto.  Oggi  capisce.  L'amore?  E'  una   maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile.   Gli raccontava che la mamma non le aveva mai voluto bene.  Da bambina,   le faceva dei vestiti bellissimi,  le regalava giocattoli magnifici ma   soltanto per far bella figura agli occhi dei vicini.  Ma non le voleva   bene.  Per dei niente la pestava in testa con  le  nocche  delle  dita   facendole  un  male  terribile  e  da  quel  tempo  Laide aveva sempre   sofferto di atroci mali di testa. La mamma non le voleva bene, anzi la   odiava.  E odiava anche un  ragazzo  che  era  il  suo  fidanzato,  un   bravissimo  figliolo.  E  il  giorno  che  questo  ragazzo morì per un   incidente di moto,  la mamma lo seppe per prima e telefonò subito alla   Laide  che era alla Scala.  "Una buona notizia" le disse "se Dio vuole   il tuo amore si è  sfracellato  in  motocicletta.  Morto  secco.  Sono   proprio  contenta."  Allora  lei  era  andata  in  gabinetto  e con un   temperino si era tagliata le vene dei polsi,  poi perché gli altri non   se  ne  accorgessero  se li era bendati ed era uscita di corsa.  Ma il   sangue usciva a fiotti e in mezzo alla Galleria era  caduta  in  terra   svenuta.  L'avevano  allora  portata  all'ospedale  e all'ospedale era   rimasta per dei mesi.  "Possibile?"  diceva  lui.  "Perché  ti  doveva   odiare  così?  Non  aveva  mai  un  gesto  di  bontà?" "Sai quando era   gentile?  quando portavo a casa soldi." "E non chiedeva come li  avevi   guadagnati?" "Ah lei non guardava per il sottile. Che venissero da una   parte o dall'altra per lei era uguale, bastava che i soldi ci fossero.   Allora sì che era affettuosa.  Laidina qua Laidina là. Che schifo." "E   non avrà sospettato la vita che facevi?" "Lo sapeva meglio di  me,  lo   sapeva.  Ma  che  gliene  fregava  di me?  Purché arrivasse in casa il   grano."   Raccontava che,  siccome la sorella sposata aspettava un bambino,  lei   adesso  doveva  cercarsi  casa  per conto suo.  E naturalmente,  senza   dirlo, faceva assegnamento su di lui,  Antonio.  Antonio aveva chiesto   in  giro  e  un  collega  gli  aveva  offerto un appartamentino,  tipo   "gar‡onnière, che il mese successivo avrebbe dovuto lasciare.  Antonio   e Laide erano andati a vederlo ma subito lei era fuggita. "Per carità,   neanche  da  pensarci.  La conosco fin troppo questa casa.  Sai chi ci   abita al piano di sopra? La Matilde."   "E chi è 'sta Matilde?" "Ma sì che te ne ho già  parlato  (invece  non   era vero).  Una casa di quelle." "E tu ci sei andata parecchie volte?"   "Quella lì aveva una specialità.  I clienti venivano tutti di mattina,   alle dieci,  alle undici." "Come mai?  Mercanti che venivano giù dalla   provincia?" "No no erano dei veri signori,  dei tipi  che  lèvati.  Ce   n'era uno mi ricordo,  un giovanotto neanche male,  che aveva preso la   fissa per me. Tutte le mattine, capisci? per dieci giorni consecutivi.   Poi io ne ho avuto abbastanza." C'è perfino una candida  vanità  nelle   parole  di  Laide,  come  una  ragazzina  che  racconti i suoi trionfi   scolastici.  "E figurati" aggiunge "l'ultima volta sono uscita  di  là   mezz'ora prima che arrivasse la polizia. Figurati, minorenne com'ero."   "E cosa è successo?" "A me niente. Lei, la Matilde, è stata dentro sei   sette mesi, ne han parlato tutti i giornali." "E abita ancora lì?" "Di   preciso  non  so  perché  non  ho  più  avuto rapporti ma credo di sì.   Immagina se vado ad abitare nella stessa casa."   Un giorno che erano in macchina, Laide gli aveva chiesto di fermarsi a   un'edicola e di comprare un giornale di moda.  Come ha la  rivista  in   mano,  gli  fa  vedere  la  copertina:  due  ragazze in costume su una   spiaggia, una in piedi e una sdraiata sulla sabbia.  "Ma come?  Non mi   riconosci?"  "Quale?  questa qui in piedi?" "Certo,  non vedi che sono   io?" Antonio resta perplesso: il tipo le assomiglia, non c'è dubbio ma   Laide ha il naso più pronunciato e la bocca più sottile. "Non vedi che   labbra rotonde?  Non sono mica le tue." "Bravo,  ma tu non sai come ci   truccano  prima  della posa.  Poi bisogna mettere la bocca in un certo   modo.  Si capisce che dopo si stenta a  riconoscermi."  "Sarà."  "Come   sarà?  Chi  vuoi che sia se non sono io?" Più tardi ancora,  quando si   lasciano dinanzi alla casa di  lei,  Laide  raccoglie  dal  sedile  di   dietro  la  rivista,  gli  fa  vedere  ancora  la  copertina,  esclama   raggiante: "Dio che bel topolino che hai". Lui giurerebbe che la bella   bagnante non è lei,  guardando meglio si è accorto che anche la  forma   delle orecchie è diversa ma non osa più insistere.  Anzi,  pure lui ci   crede. No,  è impossibile che sia una bugia,  se fosse una bugia Laide   avrebbe avuto un altro tono di voce,  non potrebbe essere così ferma e   perentoria.  O che Laide stessa,  pur non avendo mai posato per quella   foto,  abbia  finito  per  persuadersi che la bella bagnante è proprio   lei? Gli ha raccontato un giorno che Fabrizio Asnenghi, il più giovane   dei conti Asnenghi, aveva un debole per lei. Ricchissimo, dice,  ha un   delizioso  appartamentino  dalle  parti  di via XX Settembre.  Un tipo   molto distinto,  molto gentile,  anche  un  bell'uomo,  certo  un  po'   noioso.  Quando  va da lui,  prima di venire al dunque bisogna star lì   per più di un'ora ad ascoltare dischi mentre lui fuma la pipa  e  beve   whisky. E poi ogni volta l'accompagna a casa con la sua Flaminia Sport   e  le  mette  in  borsetta  un  assegno da cinquanta.  Certe volte poi   Fabrizio dà  delle  feste,  un  sacco  di  gente,  tutti  sbronzi,  ne   succedono di ogni colore.  "Ah ti dài anche alle orge?" fa Antonio che   si sente mancare il fiato.  "Eh,  "de matt!"" "Le ragazze tutte  nude,   immagino."  "Ah  sì,  ce  n'è  di  quelle  che  si  mettono  a fare lo   spogliarello,  ragazze della alta società,  tu vedessi.  Ma io no sai?   Sai  cosa  faccio  io?  Io  mi  metto  al  bar  e sto lì a preparare i   beveraggi.  In quei casini lì io non mi azzardo neanche a ballare.  Mi   metto al bar e di là nessuno mi muove,  anche se mi prendono in giro."   Erano gli sparsi brandelli di un ritratto che Antonio non  riusciva  a   decifrare. Cose tristi, miserabili, abbiette forse. Pensandoci, non ne   usciva che una figura squallida,  meschina, aggrappata avidamente alle   più  povere  illusioni  dei  rotocalchi  deteriori.  Era  buona?   Era   generosa? Aveva luce? No. Più Antonio ci si consumava col pensiero più   Laide  risultava un problema disperato.  Disteso in letto,  per lunghe   ore Antonio fissava sul  soffitto  due  screpolature  dell'intonaco  a   forma  di  7,  stranamente  simili.  In  queste  fessure irregolari si   concentrava la sua ossessione e patimento.  Le  parole,  i  gesti,  le   facce  di  lei  gli ritornavano dinanzi mentre egli contemplava le due   sottili crepe immobili sopra  di  lui,  beffarde,  maligne,  piene  di   filosofia.  Si  ripeteva,  parola  per  parola,  ciò che lei gli aveva   detto, esclamazioni,  cose stupide e banali,  barzellette,  ricordi di   quando  era  bambina.  Tutto  sembrava  congiurare  nel  definirla una   ragazzetta sciagurata,  perduta nel potente  flusso  della  città  che   trascina via uomini e donne,  di giorno in giorno,  e li divora.  Dio,   perché la amava così?  Perché non ne poteva fare a meno?  Che cosa gli   poteva  dare?  tutto sembrava rispondere di no,  che Laide per lui non   poteva essere altro che umiliazione e rabbia,  che da quella parte  si   spalancava la rovina.   Eppure,  in  quella  svergognata  e puntigliosa ragazzina una bellezza   risplendeva ch'egli non riusciva a definire per  cui  era  diversa  da   tutte le altre ragazze come lei,  pronte a rispondere al telefono.  Le   altre,   al   paragone,   erano   morte.   In   lei,   Laide,   viveva   meravigliosamente  la città,  dura,  decisa,  presuntuosa,  sfacciata,   orgogliosa,  insolente.  Nella degradazione degli animi e delle  cose,   fra  suoni  e  luci equivoci,  all'ombra tetra dei condominii,  fra le   muraglie di cemento e  di  gesso,  nella  frenetica  desolazione,  una   specie di fiore.

 

23.

   Pomeriggio in casa di Corsini.  Laide,  tutta nuda, è seduta sul bordo   del letto e,  guardandosi in uno  specchio  da  lei  sistemato  su  un   tavolino,  si regola le sopracciglia con una pinzetta.  Lo spogliarsi,   il girare nuda per la casa  non  le  costano  alcuna  fatica.  La  sua   inverecondia  è  così  categorica da perdere qualsiasi malizia.  Anche   Antonio è nudo.  Accoccolato sul  letto  alle  sue  spalle,  segue  il   lavoro,  impaziente.  E'  da almeno mezz'ora che Laide ha cominciato a   curarsi. Partendo dal centro verso i lati, strappa i peli uno per uno,   cosicché le sopracciglia restino bene distanziate;  e poi ne rettifica   i bordi,  rendendole sottili. Chi glielo ha insegnato? Certo, così, la   fronte risulta più larga.   Lei è completamente concentrata nel lavoro, non si cura di Antonio che   soffre.  Non è che lui smanii per lussuria,  è l'indifferenza  che  lo   esaspera.   "Laide, ne hai ancora per un pezzo?"   "Dio che furia,  se ho appena cominciato. Cosa succede? Oggi ti scappa   di far l'amore?"   Lui sta accoccolato alle sue spalle,  contempla affascinato la  faccia   di  lei  nello specchio,  la precisione delle mani,  i movimenti delle   labbra e della lingua negli sforzi dell'attenzione. Benché Laide tenga   la schiena un poco curva, le tettine stanno su belle diritte e attente   e il ventre non fa pieghe.   Antonio deve dominarsi per resistere. Non è il desiderio, è la rabbia.   Pensa: ma lo fa apposta?  Si diverte a  eccitarmi  e  a  umiliarmi?  O   semplicemente se ne frega di me?  O tutte le due cose insieme? Sarebbe   così naturale che in questa  posizione,  io  la  abbracciassi  dal  di   dietro,  prendendole  i  seni  in  mano.  Meglio di no.  Figurarsi che   storie. E io che me ne sto qui come un cretino a guardarla. Andassi di   là, mi mettessi a leggere un libro, se non altro lei non si sentirebbe   più tanto interessante,  magari  verrebbe  a  cercarmi.  Non  ne  sono   capace.   "Ne ho quasi finita una" lei dice.   "Una cosa?"   "Una sopracciglia. Sarai contento spero. E quella destra la faccio più   presto."   "Perché più presto?"   "Non so, da questa parte ci lavoro meglio."   Lui pensa: ma che cosa ho fatto di male perché mi sia capitato questo?   In tutta la vita non si è mai trovato in una situazione simile. Non si   è  mai  trovato  nudo  su  un  letto  con  gli occhi spalancati su una   maschietta  di  trent'anni  più  giovane  di   lui,   una   puttanella   strafottente  che  per  lui  non ha ombra di sentimento.  Non si è mai   trovato a spasimare per una ragazzina che se  ne  infischia  tanto  di   lui,  che  non  ha  neppure  bisogno  di  lui perché come lui potrebbe   trovarne a decine,  che viene con lui solo perché  temporaneamente  la   cosa  le  fa comodo.  Lui raffinato intellettuale perdersi dietro a un   tipo simile.  Eppure non è così semplice.  Eppure la  strafottente  ha   qualcosa che in nessun'altra egli ha trovato.  Ancora non è riuscito a   capirlo.  C'è qualcosa,  nella ragazzuola invereconda,  di pulito,  di   sano e di bello.  Cosa? Non è tutta una fantasia letteraria? La nuda e   triste verità non è invece che lui sta ormai per diventare  vecchio  e   si aggrappa a Laide come l'ultima possibile occasione della giovinezza   perduta?  Questa  cosa bella,  sana e pulita non sono forse soltanto i   suoi vent'anni,  i capelli lunghi neri,  i seni da bambina,  i fianchi   stretti  alla  Degas,  le cosce lunghe da ballerina?  Non mentiva a se   stesso?   Maledizione, uno mi ha raccontato un giorno di aver perso la testa per   una ragazza che si divertiva a sfotterlo,  e lui  era  diventato  come   pazzo senonché un mattino, risvegliandosi, si è accorto che non gliene   importava più un corno di lei, dalla sera alla mattina completamente e   definitivamente guarito. Oh capitasse anche a me. E lei mi telefonasse   e  io  le dicessi scusa ma oggi non posso e il giorno dopo idem e così   via.  Chissà che rabbia,  la giovanottella.  Vorrei vedere  se  allora   starebbe  delle  ore  a strapparsi i peli mentre io sono impaziente di   fare l'amore.   "Ecco.  Finito.  Ti piaccio?" fece Laide,  voltando la faccia verso di   lui.  Poi si alzò,  rimise a posto l'armadietto, riattaccò lo specchio   in bagno,  ripose nella borsa  la  pinzetta.  Perché  aveva  la  mania   dell'ordine.  Poi,  anziché  tornare  al letto (Antonio si era disteso   supino,  aspettando di riceverla fra le braccia) trasferì il telefono,   che era di là nel soggiorno,  sul comodino da notte, innestò la spina,   andò ancora di là, tornò con in mano il "Corriere" lo aprì alla pagina   degli annunci economici,  lo piegò con cura,  cominciò a consultare le   offerte di locali.   "E adesso si può sapere che cosa fai?"   "Niente.  Bisogna  pure  che  mi dia le mani attorno se voglio trovare   casa. Ci sono qui due tre indirizzi. Lascia che provi."   "E non puoi fare dopo?"   "No, dopo magari è troppo tardi e non risponde più nessuno."   "Dài, è già un'ora che aspetto."   "Per carità non cascherà il mondo se arriverai in studio con  mezz'ora   di ritardo!"   "Non è per questo."   "E per cosa allora?"   "Tu almeno..."   "Tu  almeno  sei  una  cretina vuoi dire e va bene io sono una cretina   certo che l'intelligenza tua io non ce l'ho. Ma a quest'ora, invece di   discutere, avrei già fatto due telefonate."   Perché era  carogna  così?  Lo  sfiorò  il  pensiero  di  alzarsi,  di   rivestirsi  e  di  andarsene senza dire una parola,  sarebbe stata una   magnifica e salutare lezione. Ma fu solo un'ombra di pensiero.  Mai ne   avrebbe  avuto la forza.  Restò là disteso sul letto,  cingendo con un   braccio la vita di lei;  e lei,  bontà sua,  lasciò fare,  cominciando   l'inchiesta    telefonica.    "Pronto?    Sì,    io    telefono    per   quell'inserzione...  ah sì?...  molto gentile...  E dove  si  trova...   Terzo  piano dice?...  Sì potrei venire anche fra poco...  la trovo in   ufficio,  avvocato?"  Faceva  la  voce  compita  e  gentile,   con  un   sottofondo di provocazione e civetteria.  "Pronto?  Sì io telefono per   quell'inserzione sul  giornale,  desidererei  sapere.  Come?...  sì...   sì...  e  il  ragioniere  Tamburini  è lei?...  No a me basterebbe per   luglio... tre più i servizi?... forse per me, sa, ragioniere,  sarebbe   un  po'  troppo  grande...  No  no,  non  si sa mai...  vengo a vedere   volentieri... no, no,  io sola...  No,  io lavoro alla Scala...  sì al   teatro...  ballerina...  oh  per  carità..." una lunga risata "...  sì   verrei domani mattina... d'accordo, ragioniere, e grazie mille."   Lui cretino: "E che cosa ti diceva quello là di tanto divertente?"   "Niente, lo sai come sono idioti gli uomini...  perché sentono che una   è  ballerina subito si immaginano...  Figurarsi se quello là domani mi   vede!"   "Perché? non ci vai?"   "Io ci ho naso. Quei tipi così complimentosi non mi piacciono. E poi è   un terrone. Però aveva una bella voce, devo dire."   Antonio la guardò supplichevole.  "Su  adesso  basta,  Laide,  non  fa   neanche caldo oggi. Io qui nudo mi prendo un accidente."   "E aspetta!" fece lei indispettita. E fece un terzo numero.   Telefonò a un terzo recapito,  a un quarto,  a un quinto, la vocettina   si faceva flautata con l'erre ancora  più  accentuato  del  solito:  e   dall'altra  parte  sembrava  che  ci  fossero  tutti  uomini  giovani,   spiritosi,  galanti,  che avevano fatto l'inserzione sul  giornale  al   solo  scopo  di  appostare  le  belle  ragazzine ingenue senza tetto e   bisognose di protezione. Era evidente,  ormai,  che lei continuava per   il  gusto  di  sfottere  lui  Antonio,   di  punzecchiarlo,  di  farlo   ingelosire con quelle assurde moine telefoniche.   A un tratto,  lui stesso non se ne  rese  bene  conto,  la  rabbia  lo   travolse.  Con  ira  strappò,  lacerandolo,  il giornale di mano dalla   Laide e lo scaraventò per terra. "E piantala, una buona volta!"   Laide reagì come una povera bambina offesa e  perseguitata.  Balzò  in   piedi. Si affrettò alla sedia dove aveva deposto vestiti e biancheria,   prese  il  reggipetto e fece atto di indossarlo: "E va bene" gridò con   voce quasi di pianto. "Io me ne vado. E non mi vedi più.  Non importa.   Vuol  dire  che  andrò a dormire sotto i ponti!" Riuscì ad allacciarsi   sulla schiena il  nastro  del  reggipetto.  Raccolse  dalla  sedia  il   reggicalze. "Me ne vado me ne vado me ne vado capisci?"   Antonio restò sbaragliato.  La paura che lei se ne andasse sul serio e   se ne andasse forse per sempre,  superò  ogni  superstite  ricordo  di   dignità.  Saltò dal letto, la raggiunse, l'abbracciò stretta, cominciò   a supplicarla,  la voce gli tremava: "Per carità non fare così,  Laide   ascoltami Laide, ti supplico non fare così".   Lei  si fece pregare per un po',  poi,  mortificata,  si risedette sul   bordo del letto,  risollevò il microfono e riprese  le  telefonate.  A   raccogliere il giornale da terra era stato naturalmente Antonio.

 

24.

   "E allora ci vediamo questa sera?"   "Sì.  ma farò tardi,  stasera torna mia sorella dalla casa di salute e   devo pulire la casa, ci tengo che la trovi in ordine."   "Va be', ma ci hai tutto il pomeriggio."   "Scusami ma io le cose le faccio bene,  e poi questo  pomeriggio  devo   uscire, ho appuntamento col medico dei piedi."   "Morale, a che ora? Alle otto e mezza, otto e tre quarti?"   "Fa' come vuoi ma guarda che prima delle nove e mezza..."   "Va be', verrò alle nove e mezza."   Alle  nove  e  mezza  la  via  è  ormai quasi deserta,  soltanto poche   macchine ferme, per lo più di piccola cilindrata. Lui si ferma in modo   da poter osservare, dal posto di guida,  le finestre di lei.  Sono due   porte-finestre che danno su un grande balcone.  E' una casa moderna, a   cinque piani. Lei sta al quarto piano.   Benché l'ora sia relativamente tarda c'è abbastanza  gente  che  va  e   viene  attraverso  il  cancello  d'ingresso.  All'interno  la  casa si   sviluppa  in  una  specie  di  gigantesco  casermone,  devono  esserci   parecchie decine di famiglie.   Antonio  si  ferma,  guarda  in  su,  una  delle  due  finestre  ha le   tapparelle chiuse, l'altra è illuminata. Fa caldo.  Dopo cinque minuti   scende  di macchina e fumando passeggia su e giù lungo il marciapiedi.   Qui incontra poca gente. Il marciapiedi costeggia una lunga cancellata   e di là c'è un vasto cortile circondato da capannoni.  Deve essere  il   deposito o il magazzino di una ditta. In fondo al cortile a destra c'è   una colonnetta privata di benzina e,  vicino,  una tettoia,  con sotto   una lampadina azzurra come quelle che si usavano  durante  la  guerra.   Sotto la tettoia c'è una panca. Sulla panca sta seduto un uomo, che si   direbbe addormentato. Non c'è altra anima viva.   Le nove e quaranta.  Antonio sente che comincia la solita tensione. E'   un'inquietudine che gli entra in ogni parte del corpo,  un affanno che   monta,  monta.  Ogni volta questa infelicità insopportabile si ripete,   nonostante lui si dica: la Laide è sempre venuta,  la Laide non ha mai   mancato  di  parola,  la  Laide magari è venuta dopo venti minuti ma è   sempre venuta.  Basterebbe avere la certezza che  lei  viene,  sarebbe   dispostissimo ad aspettare delle ore,  se ne fosse assolutamente certo   l'attesa stessa sarebbe  una  delizia.  Ma  la  certezza  non  c'è.  I   precedenti non bastano.  Ogni volta, quando sono passati dieci minuti,   incalza l'ossessione: la Laide stasera non viene la Laide non verrà la   Laide non verrà e domani non telefonerà  la  Laide  non  verrà  e  non   telefonerà  mai  più  la Laide non verrà perché è partita da Milano la   Laide ha trovato uno meglio di te più giovane  più  divertente  e  più   ricco e se ne è andata per sempre.  Oppure: sono passati dodici minuti   l'ultima volta era in ritardo di dieci,  al massimo è stata in ritardo   di sedici minuti,  quindi c'è ancora un margine disponibile,  facciamo   così: solo dopo venti minuti mi rassegnerò che lei stasera  non  venga   del  resto  ha  detto  che  aveva da fare le pulizie può darsi che non   abbia calcolato il tempo giusto lei è così  meticolosa  nelle  pulizie   capace  di  lustrare  e  rilustrare un vetro per sei sette volte forse   stasera mi farà aspettare anche più  di  venti  minuti  ma  per  me  è   spaventoso  lei  non ci metterà malanimo lei lo farà sovrappensiero ma   per me è spaventoso ogni volta è così  ammetto  che  la  colpa  è  mia   ammetto  che  io  sono un fissato che è una specie di forma mentale ma   non ne posso più. No così è impossibile andare avanti non vivo più non   lavoro più non mangio più non dormo più la gente mi parla e io non  la   ascolto  sto  lì  come  un  automa non sono più me stesso io mi rovino   bisogna che la pianti su su uomo togliti questo maledetto dente va via   per qualche mese cercati un'altra ragazza prendine altre due altre tre   butta via quei pochi soldi che hai  da  parte  non  ci  saranno  soldi   meglio spesi basta io non ne posso più.   Basta,  basta,  prendere il coraggio a due mani e almeno andarsene. Se   non sei capace di più,  aspettare ancora quindici minuti al massimo  e   poi  andarsene,  chissà  lei come resterebbe sbalordita,  sì tutti gli   amici a cui mi sono confidato, ormai sono troppi io se sto con uno più   di un quarto d'ora non resisto e comincio a raccontargli tutto  quanto   e  loro  mi  ascoltano loro mi ascoltano perché deve essere divertente   constatare che uno si è rimbecillito a tal punto i  miei  guai  devono   essere  di grande conforto per chi ascolta solo per questo mi stanno a   sentire anzi sembrano così interessati, bene tutti gli amici a una sol   voce mi danno sempre il medesimo consiglio  fingere  strafottenza  far   mostra  di non darle tanto peso agli appuntamenti aspettare non più di   dieci minuti e poi andarsene è una  tattica  infallibile  il  mondo  è   sempre  stato  così  per  aver  partita  vinta  con  le  donne bisogna   mostrarsi indifferenti ma sì ma sì fate presto voi a dire ma se poi io   me ne vado e quella là non si fa mai più viva se non mi  telefona  più   non  è  una  pecorella  la  Laide è una tipa stagna ha un orgoglio che   levati figurarsi se mi corre dietro no è meglio che  aspetti  ma  sono   passati  altri  sedici  minuti  io ne ho piene le scatole e c'è una al   pianterreno che sbircia mica che si sia messa sul davanzale a  guardar   fuori  no  sta  dentro  e  tiene la luce spenta ma io la vedo che ogni   tanto si  avvicina  alla  finestra  quel  tanto  che  le  permette  di   sbirciare  e  sbircia  sbircia  proprio dalla mia parte chissà come si   diverte e niente di più facile che abbia chiamato a vedere anche altra   gente e che insieme ridacchino un uomo di  cinquant'anni  passati  che   aspetta  quella,  quella  cosa?  insomma  meglio  sorvolare  quella là   insomma del quarto piano che a vent'anni ne  ha  ormai  fatte  più  di   Bertoldo in Francia,  a cinquant'anni? in fin dei conti se mi paragono   ai miei coetanei posso consolarmi intanto non  ho  ancora  pancia  poi   sono  agile  certo la faccia la maledetta faccia certi giorni ha certe   rughe ma non sono tanto le rughe è quel complessivo  afflosciamento  è   una  faccia  magra eppure in certi giorni riesce ad afflosciarsi non è   mica detto che sole le facce grasse si affloscino però in  genere  più   di  quarantacinque  quarantasei non mi danno e poi all'inferno sono in   grado di fecondare o no?  e allora?  se sono  in  grado  di  fecondare   nessuno  può avere niente a ridire neppure se andassi in letto con una   quattordicenne quanta ipocrisia quanta schifosa ipocrisia demonio sono   già le dieci meno dieci,  venti minuti cominciano a essere troppi e se   andassi dal portinaio e lo pregassi di citofonare di sopra?  sì un po'   curioso sarebbe,  lui di sicuro mangerebbe il fogliame chi se ne frega   come se non sapesse che la Laide va a spasso con dei maschi? Comunque,   aspettiamo  ancora  cinque  minuti  più di cinque minuti no altrimenti   quello là chiude il cancello almeno so se  lei  è  veramente  in  casa   potrebbe  darsi  benissimo che tutta quella faccenda della sorella che   torna  dalla  casa  di  salute  sia  una   storia   per   giustificare   eventualmente  il suo forfait ma in realtà magari lei è fuori a pranzo   con un altro magari con quel conte che il diavolo se lo porti,  quello   là che le fa sentire i dischi di Bach prima di scopare sì accidenti le   dieci meno cinque se non mi decido poi quello là chiude il cancello.   Estrae  un biglietto da cinquecento,  cinquecento di mancia in sé sono   abbastanza esagerate ma è meglio largheggiare non si  sa  mai,  allora   entra dal cancello sale i quattro scalini che portano al padiglioncino   del portiere,  batte una nocca sulla vetrata perché dentro non si vede   nessuno, compare un uomo sui cinquanta: "Mi scusi potrei dare un colpo   di citofono alla signorina Anfossi?" e gli allunga i cinquecento.  Lui   fa  un  po'  di storie e poi li prende e subito cerca la comunicazione   ecco è  lei  sente  subito  la  sua  voce  quel  "pronto"  strascicato   menefreghista  e  pieno  di  mistero.  "E allora vieni?" Lei subito si   incavola: "Be',  insomma io non ho finito." "E quanto ci vorrà ancora?   Potrai  dirmi quanto tempo ci metti." "Non lo so non lo posso sapere."   "Ma insomma io devo aspettare o devo andarmene?" "Tu  fa'  quello  che   vuoi se vuoi aspettare aspetta" e mette giù il microfono.   Lui  esce,  di nuovo su e giù per il marciapiedi opposto,  strano quel   tipo sotto la tettoia ancora addormentato ma è  proprio  addormentato?   guardando  meglio Antonio constata che non è un uomo è un trespolo una   faccenda di legno un'ombra scura che aveva la forma di  uomo  ma  uomo   non era,  il cortile è completamente deserto anche la strada è deserta   anche la finestra di quella che  sbirciava  ha  calato  le  tapparelle   nella casa di fronte di acceso restano solo due finestre al primo e al   quarto  la finestra di lei.  Accende una sigaretta e poi un'altra sono   già le dieci e dieci ma la Laide sarà poi dietro a pulire  la  casa  o   magari  sta con un altro uomo?  può darsi benissimo che la sorella sia   via ma può anche darsi che lei ne abbia approfittato per farsi  venire   in  casa  qualche fusto chissà anzi come si diverte pensando a lui che   aspetta per la strada magari i due sono lì dietro la tapparella che lo   spiano, nudi,  e lui se la tiene ben stretta e lei magari gli racconta   che  quello  là  che aspetta per la strada ha perso la testa per lei e   lei ci va insieme perché sgancia dei bei bigliettoni, tanto lei non ci   rimette niente perché a lui non gli tira e si accontenta  di  condurla   fuori a pranzo e al cinema ma si può essere più coglioni di così? ecco   ricominciano  le  pestilenziali  immaginazioni  del  cervello  che gli   avvelenano la vita gli rendono la vita un inferno sì sì gli  sta  bene   lui  l'intellettuale  lui  che  si  meravigliava come i romanzieri non   parlassero che d'amore e così le canzoni e tutto quanto,  lui ipocrita   si  meravigliava  diceva che non era vero nel mondo ci sono tante cose   più importanti delle donne vero?  ipocrita che non era altro mica  che   non  lo  potesse capire benissimo lo capiva certamente ma non aveva il   coraggio di ammetterlo,  lui tartufo come tutti gli altri e adesso  si   accorge  che  cosa  è  la  donna  di  importante per un uomo adesso si   accorge come una bella ragazza può essere desiderata dai maschi adesso   pensa e ripensa a quanto è  falso  il  mondo  che  fa  finta  che  non   esistano  i  desideri  carnali e non ne parla mentre in realtà ciascun   uomo basta che sia sincero se incontra una ragazza anche per la strada   una  ragazza  sconosciuta  immediatamente  pensa  una  cosa  sola:   è   desiderabile?  mi  piacerebbe andarci a letto?  Anzi si fa due domande   perché la seconda domanda immancabile è: e ci sarebbe  modo  di  farci   l'amore  per caso?  E subito,  anche nella più alta società,  anche in   chiesa,  quando un uomo vede una donna giovane  e  graziosa,  anche  i   preti garantito lo stesso, subito pensa a come sarà sotto i vestiti se   le  tette  stanno  su  da  sole  se  la vita è stretta lui per esempio   Antonio pensa subito se e depilata o no una delle cose che lo eccitano   di più sono appunto le ascelle senza peli soprattutto se  giovanissime   carnose  e  piene  la ragazza che alza le braccia offre appunto con le   ascelle spalancate la prospettiva più appetitosa del suo corpo  e  poi   naturalmente  tutti  si domandano come sono fatte le cosce e il sedere   ci sono di quelli anzi che prediligono sopra ogni altra cosa il sedere   e tutti tutti quando vedono una ragazza o  magari  anche  una  bambina   pensano  immediatamente alla stessa cosa ma nessuno lo dice nessuno ha   il coraggio di dirlo nessuno osa  ammetterlo  perché  sono  tutti  una   massa di ipocriti da vomitare e tutti vivono e parlano e si comportano   come se sopra ogni cosa amassero il guadagno la posizione in società i   figli  la  propria casa e pensare che tutto,  tutti gli sforzi tutti i   segreti pensieri si concentrano su quella cosa sola ma è una cosa tabù   e nessuno ne osa parlare e così quando uno fa un  regalo  a  un  amico   anche  se  generoso  gli regala magari un oggetto d'arte un'automobile   uno "yacht"  ma  non  gli  offre  mai  l'occasione  di  possedere  una   bellissima  puttana no la cosa che sarebbe più gradita da tutti non si   offre mai e anche i miliardari che invitano gli amici nei loro palazzi   e nelle loro ville gli offrono cibi squisiti liquori  e  champagne  in   quantità  spendono  centinaia  di  migliaia di lire per rallegrarli ma   mica che si sognino di fargli arrivare in  camera  una  bella  pupetta   pronta  ai  comandi  eppure  quello  è  il  massimo desiderio di tutti   soprattutto verso sera tutti pensano  a  quello  ma  nessuno  lo  deve   sapere  si  nasce  si cresce e si invecchia e si muore come se l'amore   fisico fosse sì una cosa piacevole ma non  tanto  importante  anzi,  e   invece è la più importantissima di tutto e lui idiota e ipocrita a non   averlo  riconosciuto  fino adesso ma adesso sì se ne accorge perché ne   resta scottato perché si accorge quanto una maschietta come  la  Laide   viene  guardata  per  la  strada  e come anche le fischino dietro,  un   giorno era venuta al suo studio con un vestitino da  ninfetta  con  la   gonna  a  pallone  cortissima  e si era fatta su i capelli neri in una   sola treccia compatta e  col  suo  faccino  impertinente  da  sminfera   poteva  dimostrare  quindici  sedici  anni al massimo e loro due erano   usciti e i garzoni muratori seduti per  terra  a  mangiare  dall'altra   parte  della  strada mandavano lunghi sibili e lei ancheggiava in modo   abbastanza indecente completamente divertita e a lui  stesso  la  cosa   aveva  fatto  piacere  perdio  a cinquant'anni disporre di una bambina   simile chi se ne frega se per i soldi o non i soldi il fatto è che lei   viene in letto con lui e gli altri crepano di invidia. Lo invidiano lo   invidiano e adesso è lui a scontare questo gusto perché in questo caso   l'invidia è soltanto il desiderio di possedere Laide, anche agli altri   piace e perché mai non dovrebbe piacere anzi è  un  tipo  estremamente   provocante  non  un  tipo  sensuale  intendiamoci,  provocante  che  è   un'altra cosa, naturalmente continua a guardare l'orologio sono già le   dieci e venti sono cinquanta minuti che aspetta ma neppure quando  era   studente  ha  mai  aspettato  tanto  se  adesso  se ne andasse lei non   potrebbe protestare anzi sarebbe mio elementare dovere di decenza,  se   l'aspetto  ancora è assolutamente ignobile adesso garantito lei non ci   fa più assegnamento lei garantito è convinta che io me ne  sia  andato   per quanto innamorato cotto uno non passa certi limiti e se lei invece   poi venisse?   Lo  struggimento era tale che gli sembrava che gli venissero succhiati   fuori anni e anni di vita. Ormai era un automa,  un istupidito automa,   lei all'improvviso uscì imperterrita col suo passo fermo imperioso che   erano le dieci e tre quarti.  "Sai che mi hai fatto aspettare un'ora e   un quarto?" "Be',  se lo vuoi sapere" fece lei sorridendo  "una  volta   Marcello in piazza San Babila l'ho fatto aspettare un'ora e tre quarti   e dovevi vedere come pioveva".   Purtroppo  lui  non  riusciva  a prendere queste cose sul ridere,  era   innamorato e perciò mancava di ogni senso di umorismo,  se ne  rendeva   conto ma era più forte di lui.   "Allora ammetti che l'hai fatto apposta."   "Apposta? Se c'è ancora tutta l'anticamera da fare!"   "E  allora  perché  sei  stata  lì  a  vedere  la televisione?" "Io la   televisione?"   "Sì,  da qui ho visto benissimo.  Si è spenta la luce nella stanza  ma   poi  si  è  subito accesa in basso a sinistra una piccola luce azzurra   proprio il riflesso del televisore."   "Tu ti sogni. Figurati se io stavo a vedere la tribuna politica."   "E come fai a sapere allora che c'era la tribuna politica?"   "Perché  lo  hanno  annunciato  fin  da  ieri.   Doveva   esserci   il   "Musichiere" ma l'hanno rimandato alle dieci e tre quarti."   "Accidenti, allora niente, stasera, "Musichiere"."   "Perché?"   "Dove trovi un ristorante che ha il televisore?"   "Non  importa,  andiamo qua vicino.  C'è una latteria.  Ci sono andata   anche altre volte."   "Una latteria?"   "Sì, perché? avresti vergogna per caso?"   "E mangiare?"   "Be', si va a mangiare dopo."

 

25.

   "Senti" lei disse,  erano in macchina percorrevano i bastioni di porta   Venezia in direzione della casa di Corsini era una giornata di sole ma   ormai  flaccido  e  grumoso  come  per lo più sono le estati di Milano   "senti ti devo chiedere un piacere te lo chiedo con il cuore non  devi   dirmi di no."   "Se posso volentieri."   "Sì  che  puoi  ci  tengo  proprio,  lo  sai che adesso vado un po' in   vacanza ne ho proprio bisogno l'aria di  Milano  mi  ha  sempre  fatto   male."   "Dalle parti di Sassuolo mi hai detto, no?"   "Sì a Rocca di Fonterana."   "Ci sei già stata?"   "Ci  sarò  stata  almeno  quattro  anni  di  fila mi portava sempre la   mamma."   "E che cos'è questo piacere?"   "Senti dovresti accompagnarmi se no non so come fare con le  valige  e   tutto il resto e il cagnolino."   "E là ci sarà naturalmente Marcello, il tuo amato bene."   "E  piantala di chiamarlo amato bene lo sai meglio di me che è come un   fratello e poi lui lavora giù al cantiere a dieci chilometri da Modena   sarà tanto se in quindici giorni verrà a trovarmi due o tre volte."   "Be' ammetterai che la faccenda è un po'  curiosa  un  giovanotto  che   avrà  venticinque  anni  se  ti sta dietro non sarà per leggerti delle   poesie, immagino non sarà mica impotente."   "Curiosa un corno,  se non vuoi credere fa' a  meno  non  c'è  neanche   gusto  con  te  a  essere  oneste da quando ci vediamo se proprio vuoi   sapere io dalla Ermelina non ci sono più stata e anche l'altro ieri mi   ha telefonato c'era un signore tedesco che da mesi vorrebbe venire con   me e lei mi ha dato appuntamento per la sera e io non ci sono  neanche   andata."   "Appuntamento dove?"   "Dovevo trovarmi al Contibar."   "E non hai neanche avvertito?"   "E chi se ne frega del resto se non vuoi accompagnarmi fa' pure a meno   cercherò di trovare qualcuno più gentile di te."   "E chi ti ha detto niente? Va bene. Ti accompagnerò."   "No  perché  tu  con quella storia di Marcello mi fai sempre incazzare   dovresti invece essermi grato se mi  trovo  con  uno  che  non  faccio   niente di male."   "E quando vuoi partire?"   "Lunedì."   "E perché proprio lunedì? non sarebbe più comodo domenica?"   "No domenica c'è in giro uno di quei casini."   "Cosa vai, in albergo?"   "Sì  è  un  albergo nuovo,  mi hanno detto che si sta bene e si spende   poco."   C'erano il lunedì mattina delle nubi grige  e  Laide  aveva  senso  di   vomito  diceva  di  non  aver chiuso occhio e fino a Lodi se ne stette   mezza addormentata a Lodi chiede di fermarsi a un bar prende il  caffè   con tre brioches verso levante il cielo si schiariva.   E  a  un tratto dopo Parma la Laide incominciò a cantare si era levato   il sole lei si era messa un fazzoletto  che  la  faceva  sembrare  una   contadinella prese a cantare ma non cantava canzoni di moda attaccò il   repertorio  delle  canzoni  uscite  dalle  lontanissime profondità del   popolo rozze e volgari forse senza nostalgie  e  languori,  storie  da   caserma e da osteria cariche di doppi sensi ma secche e autentiche.   Cantava non sguaiata ma libera non maliziosa ma furba piccola teppista   che  all'improvviso  ritrovava in sé l'aria delle strade e dei cortili   di quando era bambina e faceva la lotta  coi  compagni  pestandosi  di   santa ragione di quando per gioco addentava i polpacci delle attempate   sedute  ai giardini di quando scendeva in cantina in cerca degli amici   topi e una volta ne aveva portato uno in casa che avrà  pesato  almeno   mezzo  chilo  che  le  stava in braccio tutto contento e le leccava le   manine.   Si ricordò Antonio che una notte a Milano,  sarà stato verso  le  due,   era  stato  risvegliato da un canto ritmato e protervo,  doveva essere   una compagnia di ragazzi in bicicletta che andavano e venivano per  il   viale sempre cantando e da principio Antonio non aveva capito che cosa   fosse  poi  riconobbe  la vecchia canzone dello spazzacamino,  l'aveva   udita cento volte anche i contadini  la  cantavano  in  campagna  dove   andava da bambino,  lui stesso forse l'aveva cantata in montagna e gli   era parsa sempre  volgare  ma  quella  notte  gli  ignoti  ragazzi  la   trasformavano  in  una  cosa bellissima e potente una ballata piena di   rabbia e rimpianto che sorgeva dalle viscere di Milano non erano certo   dei coristi educati erano dei ragazzi del  popolo  che  avevano  fatto   tardi  e chissà forse erano anche ubriachi ma non si sentiva tanta era   la  precisione  la  forza  la  misura  tanto   era   perfetto   quello   strafottente abbandono.  Sì, cantata in questo modo la antica triviale   arguzia diventava un inno un giuramento segreto una misteriosa sfida.   Con stupore  Antonio  constatò  che  Laide  la  cantava  nello  stesso   identico modo,  il medesimo ritmo a martello,  l'uguale impeto come se   vi ritrovasse il meglio di se stessa il senso genuino della vita.   Continuando a voltarsi per guardarla mai l'aveva vista così bella  una   purezza commovente una gioia di essere al mondo e Antonio stupidamente   ne  fu  orgoglioso  no  non  era una delle tante ragazzette smaniose e   svergognate quella là era una creatura umana in tutta  l'ampiezza  del   termine era una faccenda importante.   "Ti prego cantala ancora."   Lei rise e ricominciò e poi senza intervallo passò ad altre canzonacce   proprio  da  coscritti  o da postribolo ma ancora lei le mutava chissà   come in cose nobili e antiche riecheggiate,  attraverso le pagine  del   Manzoni, dai bivacchi dei lanzichenecchi.   Poi  all'improvviso  tacque  ripresa  da quella sua frequente tensione   ansiosa come  di  bestiola  minacciata.  E  quando  lui  la  pregò  di   continuare  "Urca  uei"  disse  "ma  lo sai che sei ben noioso." In un   attimo sembrava diventata un'altra.   Ma  intanto  erano  usciti  dall'autostrada  del  Sole  e  la   strada   serpeggiando si avvicinava alle colline fra prati e alberi molto belli   e abbastanza solitari.   "Mica  male  'sti  posti"  disse  lui  tanto  per dire qualcosa con lo   stupido imbarazzo che provava sempre quando era  solo  con  una  donna   conosciuta  da  poco.  "Tu  non  c'eri mai stato?" "E' la prima volta"   disse lui "e probabilmente è anche l'ultima." "Perché?" chiese lei con   fulminea intuizione voltandosi a guardarlo.  "Perché,  cara Laide,  lo   capisco  benissimo,  tu  sei  una ragazza graziosissima e io ti voglio   molto bene ma la nostra è una storia disgraziata,  più vado avanti più   lo capisco,  a parte l'aiuto che ti dò che cosa posso essere per te? A   un certo punto bisogna avere il coraggio  di  guardare  in  faccia  le   cose. Ci pensi soltanto alla differenza di età?"   Dove  aveva  trovato  la  forza di dirle queste cose,  che cento volte   aveva deciso di dirle ma non aveva trovato mai  il  coraggio?  E  dove   voleva  andare  a  finire?  A che conclusione intendeva arrivare?  Lui   stesso non lo avrebbe saputo dire,  anzi non aveva finito  di  parlare   che  già se ne era pentito,  magari era un passo falso,  magari lei lo   prendeva sulla parola.  Se lei avesse risposto di  sì,  che  gli  dava   ragione,  che  capiva benissimo che era meglio lasciarsi?  Al pensiero   sentì  quella  cosa  terribile  come  un  risucchio  di   spasimo   in   corrispondenza dello stomaco.   Ma  Laide non rispose di sì.  Continuando a guardare la strada,  disse   tranquillamente: "No, sai, senza di me tu non sei capace di vivere".   In quel momento Antonio capì che tutto  era  inutile  e  che  lui  era   perduto.  Lei  guardava  dinanzi a sé la strada che girava gentilmente   fra i prati non guardava me che le sedevo al fianco e che  guidavo  la   macchina,  modesta  seicento  di cilindrata,  povera meschina macchina   inadeguata a lei che era vestita male,  senza rossetto e mal pettinata   ma  per  lei in quel momento ci volevano delle Ferrari e delle Daimler   coi paraurti d'argento e d'oro così  ben  lucidati  che  si  vedessero   risplendere e scintillare di lontano, di collina in collina. Nella sua   consapevolezza  di donna,  stupefacente a quell'età,  lei aveva detto:   No,  senza di me tu non sei capace di  vivere.  E  io  non  riuscii  a   rispondere  niente  avrei  potuto  ribattere  con  cento  frasi altere   sferzanti o spiritose invece non risposi niente ancora una  volta  ero   fallito,  lei  mi  aveva sconfitto,  la ragazzina mi teneva nelle mani   piccole delicate gentili terribili mani ma non stringeva,  aveva fatto   appena  una  minuscola  contrazione tanto per farmi capire,  se avesse   stretto mi avrebbe scavezzato in due invece non strinse non  sorrideva   neppure  era così semplice naturale per lei,  non era neppure un gioco   una scherma,  per lei era la cosa più  naturale  di  questo  mondo  un   momento  qualsiasi  della vita sua che in quel mentre ascendeva con la   irresistibile potenza della femmina.   Certo era una bella e piacevole giornata di sole,  la campagna verde e   ridente oltreché solitaria le nubi anche bellissime sarebbe stato così   facile al suo fianco essere felici invece lei aveva detto: No senza di   me  tu  non  sei  capace  di  vivere  ed era vero sacrosanta e crudele   verità. Perciò avevo taciuto. Sì ero vecchio un vecchietto tenuto, con   tutto il mio mondo smisurato,  entro il caldo e  tenero  cavo  di  una   delle  sue  manine assai graziose e curate e ciononostante una energia   grande mi teneva su benché fossi vecchio,  ero vecchio di anni  questo   sì  ma  in  fatto  di animo ero giovane per lo meno come probabilmente   anzi più di lei, questa energia inoltre non era cattiva non era sporca   anche se per esplicarsi si serviva dei soldi,  era  una  cosa  un  po'   stupida  disinteressata  e  pazza  che  chissà  come  scaturiva da uno   schifoso borghese  come  me  era  uno  squillo  lungo  di  tromba  era   un'antenna  di  luce  era  forse  il  volo  fischiante e selvaggio del   macigno che piomba giù a picco nell'abisso e là in fondo si spappolerà   ma intanto vive vive, misericordia di Dio era l'amore.   Ma si giunse all'albergo era un albergo nuovo e abbastanza grazioso un   po' tipo "bungalow"  coloniale.  Antonio  la  aiutò  a  portare  su  i   bagagli,  le avevano data una camera d'angolo a due letti.  "Io sempre   prendo una camera a due letti alle volte sento bisogno di  cambiare  e   poi  ormai è un'abitudine." "Può anche essere una comodità" disse lui,   sapeva benissimo che lei si sarebbe rivoltata ma non seppe  resistere.   "Comodità di cosa? Ricominci da capo adesso? In ogni modo sappi che io   non ho mai dormito una notte con un uomo anche per questo non mi va di   sposarmi."   Capì che,  mentre sistemava le sue cose nell'armadio, la Laide avrebbe   preferito che lui la aspettasse dabbasso,  non era affatto disposta  a   riconoscergli  la  parte  dell'amante,  ma  lei  stessa  capì  che era   pretendere un po' troppo. Allora,  per dimostrare al personale che fra   lei  e  lo zio non c'era niente,  tenne spalancata la porta.  Vestiti,   biancheria,  scarpe  erano  sistemati  nelle  valige,  con  precisione   geometrica,  ciascuna  cosa nella sua busta di cellofane.  Dal "beauty   case" trasse fuori una  batteria  di  barattoli  e  bottigliette  come   neanche  una  diva.  Li  schierò meticolosamente sulla toilette in due   file semicircolari. Poi sistemò il tappetino per il cane,  la scodella   in  plastica  per l'acqua e un altro recipiente speciale per la pappa.   Sembrava che ci trovasse gusto a tirare l'operazione  per  le  lunghe,   non finiva mai di lisciare e piegare la biancheria, di trasportarla da   un cassetto all'altro, si sarebbe detto che in quell'albergo intendeva   starci  degli  anni.  Lui  guardava l'orologio avrebbe voluto essere a   Milano prima delle cinque.   Ogni tanto Laide si affacciava sul  balcone  a  guardar  fuori,  forse   aspettava  che  arrivasse  Marcello.  Invece  Marcello  non  si  vide.   Finalmente all'una  e  mezza  lei  fu  pronta,  discesero,  disse  che   preferiva andare a far colazione a Modena, Antonio pensò: mi ha l'aria   che  qui  all'albergo  voglia  farsi  vedere con me il meno possibile.   Perché?  Si vergogna della differenza d'età?  Ma se mi fa passare  per   suo zio. O vuol tenersi per dir così il campo vergine per la venuta di   Marcello?  E Marcello,  ufficialmente,  che parte dovrà sostenere? Del   cugino?  del fidanzato?  Questa faccenda dello zio era per Antonio una   continua  fonte  di  dispetto  e  umiliazione,  ma  non aveva avuto il   coraggio di ribellarsi.  Sarebbe bastato che lui le avesse detto:  "Ti   avverto  che  se  mi  chiami  zio alla presenza di estranei,  chiunque   siano, io dico ad alta voce che non sono mai stato tuo zio". Sì, forse   lei si sarebbe adattata ma chissà con quale rabbia.  E valeva la  pena   di  contrariarla  così,  di  sconvolgere  le sue ingenue diplomazie di   ragazza sola che vuol salvare la faccia ad ogni costo?   Andarono a mangiare a Modena,  fu una colazione  squallida  con  poche   parole.  Ora  che  si avvicinava il distacco Antonio sentiva risorgere   l'inquietudine e si moltiplicavano i sospetti gelosi.   Erano quasi le tre quando uscirono dal ristorante,  faceva caldo.  "Io   allora  andrei"  disse  Antonio.  "Accompagnami  fino  a un cinema qui   vicino" disse lei.  "Al cinema a quest'ora?" "Si così tiro le  cinque.   Alle  cinque  e  mezza  mi  trovo con Marcello in piazza." Salirono in   macchina  Antonio  fremeva,   il  cagnolino  gli  si  appollaiò  sulle   ginocchia e rosicchiava i bottoni della giacca.   A  metà strada Laide cambiò idea,  o forse non è che cambiasse idea ci   pensava fin da prima ma non aveva osato chiederlo.  "Senti,  fammi  il   piacere  va'  giù  per  questa  via a sinistra." "A fare che?" "Adesso   ferma qui all'angolo." "Vuoi scendere?" "No  senti,  sii  gentile,  la   prima o la seconda strada a destra è la via Cipressi,  al numero 6 c'è   la pensione dove sta Marcello.  Ti farebbe niente andare a chiedere se   per  combinazione  è in casa.  Sai,  è in pensione da una signora,  io   preferisco non farmi vedere." "E devo andarci proprio io?"  "Che  male   c'è? Saranno neanche cinquanta metri."   Ecco  le  occasioni per far vedere che sei un uomo e non un burattino,   pensò Antonio, ribellati, dille che ti chieda qualsiasi cosa ma non di   farle da ruffiano.  Ma la Laide era  inquieta,  se  lui  avesse  fatto   storie,  capace di piantarlo in asso e di andarsene magari per sempre.   Scese di macchina e raggiunse a piedi via Cipressi. Al numero 6 chiese   di Marcello.  Si affacciò un giovanotto,  disse che  Marcello  era  al   cantiere: "Chi lo cercava?". "C'è la signorina Anfossi qui fuori." "La   Laide?"   "Sì."  "Allora  vengo."  Il  giovanotto  uscì  con  Antonio,   raggiunse l'automobile,  scambiò con Laide allegri saluti.  Si  davano   del  tu.  Poi  la Laide fece le presentazioni.  "Peppino,  scusa ma il   cognome non lo ricordo... mio zio." Si strinsero la mano.  Poi Peppino   tornò in casa.   Di là al cinema la strada era breve. Antonio non riuscì a trattenersi,   gli sembrava di aver pazientato anche troppo.   "Senti,  Laide,  non  riesco  a  capire come tu non ti renda conto che   certe cose, come minimo, sono di pessimo gusto, per non dire che..."   "Per non dire che cosa?"   "Per non dire cafonate se proprio  vuoi  saperlo.  Proprio  me  dovevi   mandare a cercare in casa il tuo..."   "Il mio cosa?"   "Be', lasciamo perdere."   "Lasciamo  perdere un corno" lei si mise a urlare "possibile che tu mi   debba sempre considerare una puttana?  Ne ho una borsa ormai" e con il   braccio  destro piegato fece un gesto oscillante come per tagliarsi la   barba.  "C'è da uscir pazzi,  quello là che non mi tocca neanche e  tu   che  fai l'amore con me ogni volta che vuoi e sei tu ad essere geloso!   Te l'ho già detto tante volte, tu con tutti i tuoi bei modi da persona   educata,  tu almeno per offendere...!  Tu  vuoi  sporcare  i  migliori   sentimenti,  tu non ammetti che fra uno e una ci possa essere del bene   senza che ci sia bisogno di scopare,  in queste cose tu  sei  meschino   sai,  si  vede proprio che non hai mai incontrato una ragazza a posto,   tu non hai avuto a che fare che con le puttane si vede, e per te tutte   sono puttane e non esistono altro che puttane."   Aveva fermato in un vasto spiazzo. Due donne che passavano,  udendo la   voce  inviperita si voltarono a guardare.  "Parla più adagio,  almeno,   vuoi farti sentire da tutti?"   "Che mi sentano pure,  me ne sbatto,  se vuoi  sapere,  io  di  questa   storia sono stufa."   Antonio tacque, ancora una volta battuto. Anche lei aveva finito. Dopo   qualche secondo,  cercando di mostrarsi freddo, lui disse: "Be' allora   io vado, è già tardi."   "Ciao,  ti telefonerò,  probabilmente dopodomani devo venire a Milano,   se vengo a Milano passo a trovarti in studio."   "Fa' come vuoi" lui disse e ingranò la prima, carico di veleno.

 

26.

   Quindici  giorni  di lontananza.  Per quindici giorni Antonio continuò   senza respiro a ruminare dentro di sé la malattia che lo teneva. Sì il   non dover spasimare tutti i giorni aspettando la telefonata  di  Laide   rappresentava  una  specie  di  sollievo.  Ma  in compenso la distanza   moltiplicava le immaginazioni funeste. La sera, disteso sul letto, gli   occhi fissi alle due crepe sul soffitto a forma di 7,  per lunghe  ore   girava e rigirava infaticabilmente intorno al proprio dolore.  Lei gli   telefona ogni due tre giorni, per la verità è sempre puntuale,  questa   era una piccola consolazione ma ci voleva altro.   Pregava Dio che gli togliesse quell'inferno da dosso. Chissà, forse un   mattino si sarebbe svegliato completamente diverso,  libero,  leggero,   che cosa meravigliosa.  Sono quasi le due di notte domattina  dovrebbe   telefonarmi in studio.  Lo farà? Questo marasma orrendo. Il fuoco alla   bocca dello stomaco. Con chi sarà adesso? Sarà sola? Sarà a ballare in   qualche posto?  Ma non è questo che importa.  Da lunedì a oggi venerdì   molte  cose possono essere accadute,  un nuovo interesse entrato nella   sua vita. Di me, può darsi, non si ricorda neppure se non per l'attesa   dei soldi.  Sto malissimo.  I tranquillanti sono acqua.  Non riesco  a   stare seduto non riesco a stare disteso in letto. Dov'è? Il tremendo è   che  non  ci può essere speranza,  anche se mi telefona anche se verrà   ancora con me.  Ma perché non dovrebbe venire ancora con me almeno una   volta? Ho deciso di dirle tutto. Che almeno sappia. Che non ci possano   essere malintesi.  Poi faccia quello che crede. Ho deciso di scriverle   tutto.  Meglio un no definitivo con lo strappo,  il dolore,  la  lunga   malinconia  piuttosto  che  questo  orgasmo  insopportabile.  Dormire,   dormire; ecco l'unica tregua.   Ma poi al risveglio,  svaniti gli ultimi brandelli del sogno in corso,   quel senso di angoscia, di condanna. Il pensiero cerca subito intorno:   perché?  perché?  Lei! E allora il cuore prende a battere, il cervello   si riempie di quel pensiero ossessionante, fisso, profondo, che invade   tutta la coscienza e la chiude senza lasciare scampo. A qualsiasi cosa   pensi, o meglio cerchi di pensare, c'è sempre lei di mezzo, che sbarra   la strada. Egli si dice: è assurdo, non vale la pena,  non merita,  sì   sì,  tutti  ottimi  argomenti.  Ma il giorno che rinunciasse,  che non   insistesse più,  che trasformasse  l'ansia  in  dolore  cocente,  quel   giorno  che  cosa  gli  resterebbe?   Il  vuoto,   la  solitudine,  la   prospettiva di un futuro sempre più squallido e morto. Dio, aiutami!   Pensò a una lettera da mandarle,  un trattato  di  pace  non  era  mai   costato  tanto lavorio mentale: Essere semplice adoperare parole terra   terra se no magari lei non capiva,  farle capire che lui era deciso ma   non  andare troppo in là,  dirle le cose dure che andavano dette senza   offenderla senza toccare quella strana dignità a cui lei teneva tanto,   nello stesso tempo mostrarsi comprensivo  e  affettuoso.  Ne  uscì  il   giorno dopo la lettera seguente:

   "Cara  Laide,  non  spaventarti  di questa lettera.  Leggila con tutta   calma,  magari sdraiata al sole o stasera prima di addormentarti,  non   c'è  nessuna  fretta.  Ma  sono  cose che ti riguardano e che sento il   dovere di dirti.  La  tranquillità  delle  vacanze  ti  permetterà  di   pensarci su bene. Ecco di che cosa si tratta.   "Non so se te ne sia accorta ma io, pur volendoti sempre più bene, non   sono affatto contento. Inutile dirti che cosa va e che cosa non va tra   noi. Tu sei abbastanza donna per indovinarlo e abbastanza intelligente   per  capire  come certe freddezze e certi sgarbi possono fare più male   di un vero e proprio tradimento.   "A me sembra che tu mi abbia chiesto molto,  e  non  parlo  di  soldi.   Lasciamo stare la difficoltà di telefonarti,  di trovarti, di vederti,   di stare insieme qualche ora e Dio  solo  sa  quanto  ho  sofferto  in   passato per questo. Io alludo a tante altre cose che tu sai benissimo,   come la antipatica parte che mi fai recitare con Marcello, e non entro   in  discussione  su  quello che sono i veri tuoi rapporti con lui.  Mi   sembra che qualche volta tu esageri.  Dopo tre mesi in cui  hai  avuto   tutto  il  tempo  di accorgerti del bene che ti voglio e dei sacrifici   che faccio per dimostrarti questo bene,  tu ricambi con  atteggiamenti   quasi sempre di freddezza, di noia, di stanchezza. Tu mi hai detto più   di  una  volta  che  tra  una donna e un uomo c'è sempre bisogno di un   periodo di rodaggio.  Ma questo è un rodaggio di centomila chilometri,   mi  sembra.  Sì,  tu  sei  precisa nei piccoli impegni quotidiani,  di   telefonare, di venire, eccetera. Mai però uno slancio,  mai un palpito   di affetto o di bontà!   "Il  grave  è  che se dovessi continuare di questo passo,  finirei per   trovarmi in uno stato di mortificante umiliazione che  io  non  potrei   sopportare.   "Non  vorrei,  cara  Laide,  che  tu  abbia scambiato il mio amore per   debolezza senza limiti. A un certo punto un uomo deve saper aprire gli   occhi, anche se è innamorato, e affrontare la realtà, costi quello che   costi.   "Io mi auguro di non arrivare a questo.  Ma per non arrivarci dobbiamo   essere  in  due  a non volerlo.  Ecco,  Laide cara,  perché ti scrivo.   Perché tu ti renda conto che la nostra situazione così com'è  non  può   durare.   "Tu  mi  domanderai  che  cosa voglio.  Voglio semplicemente che tu mi   rispetti come uomo e non mi faccia più recitare la parte esclusiva  di   zio pagatore, di una specie di comodissimo zio-squillo. E che tu abbia   con  me quei modi che tutte le donne hanno verso la persona a cui sono   attaccate, o per affetto o anche per interesse.   "In fondo non ti chiedo molto, dopo tutto quello che ho fatto e faccio   per te.  E che vorrei poter fare anche in  futuro.  Ma  questo,  cara,   dipenderà solo da te.   "Ora  tu  continua  in  pace  la tua vacanza.  Ma vedi se ti riesce di   pensare un po'  a  questa  nostra  storia  cominciata  come  una  cosa   semplice e diventata via via una cosa dolorosa per me.   "Io  non  so  come  questa faccenda finirà.  Guarda tu se si riesce ad   accomodarla. L'amore, o l'affetto, o anche solo l'abitudine di vedersi   di due persone,  anche quando non è passione,  deve essere  almeno  un   sentimento umano di bontà e di dolcezza.   "Non  sorprenderti  di questa mia improvvisa lettera.  Ho voluto dirti   tutto quello che c'è dentro di me.  Anche perché tu non abbia,  in  un   domani, a meravigliarti di nulla.   "Ma adesso basta,  divertiti,  diventa bella nera e ricordati di farti   viva. Ti abbraccio stretta."

   Questa era la terza versione dopo un paio di tentativi. La scrisse con   una biro,  la trascrisse a macchina poi pensò che  sarebbe  stato  più   gentile  e  anche  più  efficace scriverla a mano e la copiò in chiara   calligrafia con la stilografica.  La lesse,  la rilesse,  la chiuse in   una busta,  mise l'indirizzo. Poi ci pensò ancora su, riaprì la busta,   rilesse  ancora  una  volta  e  si  accorse  che   era   una   lettera   complessivamente   odiosa,   piena  di  unzione,   di  ipocrisia,   di   vigliaccheria anche, peggio ancora: una cosa ridicola. Quel supplicare   un po' di dolcezza di  bontà  perché  le  mollava  un  cinquanta  alla   settimana!  Altro  che commendatore,  un commendatore avrebbe fatto di   meglio.  Decise quindi di non spedire la lettera,  quelle cose  gliele   avrebbe dette a voce quando sarebbe tornato a Fonterana a riprenderla.   Sì,  a voce molte cose facilmente si smussano e ci si può regolare via   via a seconda degli umori e delle reazioni di lei.  Ma quando  andò  a   riprenderla a Fonterana,  quindici giorni dopo, non poté parlarle come   voleva perché c'era anche Marcello.   Lei lo aspettava dinanzi all'albergo,  gli venne subito incontro  alla   macchina:   "Uffa"  disse subito "tu ti arrabbierai ma la colpa non è mia.  Quello   scocciatore. Comincia a diventare una di quelle lagne!"   "Chi? Marcello?"   "E chi vuoi che sia?  Ha saputo che  partivo  e  ha  voluto  venire  a   salutarmi e adesso non so come liquidarlo."   "Come sarebbe a dire? che verrà a mangiare con noi?"   "Io  non so niente.  D'altra parte non posso essere villana.  Con me è   sempre stato gentile. Be' adesso vieni su un momento che avrai bisogno   di rinfrescarti un poco, con questo caldo."   Evidentemente lui Antonio doveva avere fatto una faccia scocciata. Con   quel "vieni di sopra" Laide voleva rabbonirlo:  una  dimostrazione  di   intimità proprio sotto gli occhi di Marcello che aspettava nell'atrio.   Una premura senza precedenti.   Antonio non aveva nessuna voglia di rinfrescarsi ma la seguì di sopra.   I bagagli erano già pronti. Tutto era in perfetto ordine.   "Be'   ammetterai   che  questa  faccenda  di  Marcello  è  abbastanza   antipatica."   "Perché è venuto, dici?"   "Eh già, direi."   "Te l'ho detto io per la prima no? Ma dopo tutto... se fra me e lui ci   fosse qualcosa capirei."   "E tu l'hai visto ogni giorno?"   "Macché ogni giorno,  figurati,  in due settimane ci siamo  visti  tre   volte, lui poi ha un mucchio di lavoro... Ah ne vuoi sapere una bella?   Ma se te lo dico dopo non arrabbiarti,  solo per dirti quanto la gente   è pettegola...  Sai qui in albergo cosa credono che tu sia?  Solo  per   averti visto un momento quel giorno... Credono che tu sia suo padre."   "Suo padre di chi?"   "Padre di Marcello."   "Ah benissimo! e Marcello allora chi credono che sia? tuo marito?"   "Scherzi.  A  quei  pochi  a  cui  l'ho  presentato  ho detto ch'è mio   cugino."   Antonio guardò i due letti,  accostati  benché  ciascuno  con  proprie   lenzuola  e coperte.  Uno dei due era intatto come se nessuno ci fosse   neanche seduto sopra.  Nello stesso tempo si ricordò  come  la  Laide,   prima che egli la portasse a Fonterana,  lo avesse pregato di scrivere   mettendo signora anziché signorina.  "Se sanno che una è sposata negli   alberghi hanno molto più rispetto.  Tanto,  io porto sempre la vera di   mia povera mamma." Al momento non ci aveva  fatto  caso:  uno  stupido   capriccio  di  ragazzina.  E  se  invece fosse stata un'astuzia?  Così   Marcello poteva andare a dormire con lei in albergo senza che  nessuno   trovasse  nulla  a  ridire.  Se  le  cose  stanno  così  -  pensò - il   pernottamento di lui dovrebbe però essere segnato sul conto. E.  senza   dubbio il conto lo avrebbe già pagato lei.  Voglio proprio vedere. (Ma   il conto non era stato ancora pagato,  e lo pagò lui e sul  conto  non   trovò  niente  di  sospetto.  Ciò  che  lo  tranquillizzò un poco.  Da   escludere che in albergo chiudessero un occhio su queste cose.  O  per   caso nella pensione di lei era compresa la disponibilità di entrambi i   letti?)   Scesero.  Marcello  salutò Antonio con mite deferenza,  più Antonio lo   considerava  più  gli  si  calmavano  i  sospetti,   era  un   ragazzo   fisicamente ben messo ma dal volto torpido,  quasi ottuso, senza vita,   diceva cose usuali senza  spirito.  Quando  si  trattò  di  partire  -   sarebbero   andati  a  fare  colazione  a  Modena  -  lui  non  chiese   spiegazioni. Come se fra lei e lui tutto fosse stato già combinato.   Marcello andò avanti  in  motoretta.  Antonio  e  Laide  seguivano  in   macchina. All'ingresso della città trovarono Marcello appiedato, aveva   bucato una gomma. Lasciò la motoretta in un garage e salì anche lui in   macchina  sistemandosi  alla bell'e meglio sul sedile posteriore fra i   molti bagagli.   La pena di quella colazione a tre. Lui voleva mostrarsi di spirito,  a   costo di far la figura del becco contento. Non era facile però trovare   argomenti plausibili.   Fu Laide che a un certo punto, probabilmente per recitare una commedia   che rassicurasse Antonio, cominciò a stuzzicare Marcello.   "E  ieri sera che era sabato che cosa hai fatto?  Sarai andato a donne   come al solito."   "Eh, naturale" rispose Marcello in tono di scherzo.   "Dimmi dimmi,  chi era?  Quella bionda con  cui  ti  ho  visto  quella   volta?"   "Macché bionda."   "Bruna allora? Chi era? Vuoi vedere che indovino?"   "E chi sarebbe?"   "Mi dài mille lire se indovino?"   "Ti dò mille lire."   "La commessa del negozio di borsette sotto i portici."   "Acqua acquissima."   "E  allora vuol dire che sei andato con la Sabina.  Altre mi hai detto   che non ne conosci."   "Per carità, quella mezza calzetta sarà un mese che non la vedo."   "Cosa sarebbe allora, una nuova conquista?"   "Be' potrebbe magari anche essere."   "Carina?"   "Non come te" e sorrise sfottente "ma abbastanza."   "Non sarà stata mica una putta..."   Marcello, lesto, le portò una mano dinanzi alla bocca.   "Stop Censura" e si guardò intorno se mai qualcuno dei  tavoli  vicini   avesse udito.  Ma non si vide nessuno voltarsi.  Antonio assisteva con   malessere crescente.  Non vedeva l'ora che quella maledetta  colazione   finisse.   Ma,  dopo  colazione,  Laide  piantò  uno dei suoi capricci.  Prima di   partire per Milano,  voleva andare a vedere un film di un certo comico   americano.  L'aveva  già  visto  una volta a Milano ma era bellissimo.   Quando un film era bello lei era capace di vederlo anche dieci  dodici   volte.   Purtroppo era domenica.  Non c'era nessuna necessità,  per Antonio, di   essere a Milano per le  cinque.  E  anche  Marcello  naturalmente  era   libero.   Salirono  di  nuovo in macchina,  diretti al cinematografo indicato da   Laide. Durante il tragitto, in uno spiazzo,  lei intravide là in fondo   i  manifesti  di  un  altro cine.  "Aspetta,  aspetta," disse "là cosa   danno?" "No" disse Marcello "quello è un cinema fetente, sarà pieno di   coscritti." Antonio riprese la marcia.   "Ma che cosa danno?"   "Non so" disse Marcello "mi par di aver visto la parola bacio."   "Bacio come?"   "Eh  immagino  sulla  bocca"  e  fece  un  antipatico  sorriso  "o  tu   preferiresti in altri posti?"   "Piantala"  fece  la Laide dura "lo sai che questi scherzi mi danno ai   nervi."   Arrivarono al cinema giusto.  Lasciarono la macchina all'ombra  perché   il  cagnolino  non  avesse troppo caldo ed entrarono.  Non c'era quasi   anima viva. Si sedettero, in galleria, la Laide nel mezzo. Era un film   a colori,  per Antonio di una  insopportabile  idiozia.  Ma  anche  un   capolavoro, in quella situazione, sarebbe stato per lui tanto veleno.   La  Laide  invece  era  beata.  Rideva  di  tutto,  in modo esagerato,   sembravano risate quasi isteriche. A un certo punto Antonio si accorse   che Laide, con la sinistra aveva preso la mano destra di Marcello e la   stringeva, come fanno gli innamorati.  Poteva supporre che Antonio non   vedesse?  Intanto  guardava  lo schermo,  con continue risate.  Era la   storia  di  un  giovanotto  che  si  trova  costretto  a  curare   tre   pestilenziali marmocchi non suoi, e a far loro da balia, un repertorio   di  cretinerie  da  asilo.  Le due mani congiunte ora si trovavano nel   grembo di lei.  Di più: Laide lentamente si spostò così da appoggiarsi   alla spalla di Marcello.   La  sfrontatezza della manovra era tale che Antonio restò paralizzato.   Sarebbe stato così semplice: dire buon divertimento, uscire, scaricare   i bagagli di lei e andarsene per sempre.  Capiva che  qualsiasi  altro   uomo   non  poteva  fare  altro.   Lui  no,   quanto  più  atroce  era   l'umiliazione,  tanto più insopportabile gli era l'idea di perdere  la   Laide.   Ora  la  fissava  in  continuazione,  la faccia ostentatamente voltata   verso di lei. Ma Laide non pareva accorgersene.  Senonché a un tratto,   senza guardare, allungò la destra cercando una mano di Antonio. Lui le   sussurrò in un orecchio: "Non ne hai abbastanza?".   "Oh  no"  rispose  Laide fingendo di non aver capito "io mi diverto un   mondo, lo trovo così spiritoso."

 

27.

   Sì una mattina il grande momento  venne,  alla  fine.  Successe  così:   appena  sveglio immediatamente come al solito cominciò a pensare a lei   Laide e notò di non provare dolore,  toccava la piaga e la  piaga  non   gli faceva più male,  provò due tre volte ancora a pensare a Laide, la   pensò con determinazione e perfino con sfida ma l'angoscia non veniva.   Fu una sensazione indicibile. Il miracolo.  Avevano ragione quelli che   gli  avevano  detto  che...  Scese dal letto e si mise a saltare nella   camera,  faceva assolutamente dei salti di gioia come impazzito.  Dato   il suo temperamento sempre apprensivo stava tuttavia in guardia.  E si   lavò e si vestì con le orecchie dritte se mai il  nemico  ricomparisse   ma  durante  la notte il nemico aveva misteriosamente levato il campo.   Pensava a Laide, immaginava che in quello stesso preciso momento fosse   in letto con un tizio qualunque e stesse facendo quelle cose, immaginò   perfino che stesse facendo una cosa  ancora  peggio  e  ci  pensò  con   perfidia  in tutti i possibili particolari.  Ma l'angoscia non veniva.   Allora uscì di casa e camminava come ormai aveva perso l'abitudine  di   camminare,  camminava  come  un  uomo  libero  e civile,  prima invece   camminava come un, no non camminava era più giusto dire che strisciava   che fuggiva che precipitava sempre con quel tremito dentro. Allora gli   venne voglia di fare una cosa che da molti mesi  non  faceva  più  una   cosa  cretinissima  che  tuttavia  denotava  la  guarigione,  pensò di   attraversare a piedi i giardini benché fosse molto  caldo,  era  ormai   passata quasi un'ora dal risveglio oramai poteva starsene sicuro aveva   ansia  di  andare in studio pregustava la soddisfazione di guardare il   telefono con indifferenza e disprezzo suonasse pure fin che voleva lui   l'avrebbe lasciato  suonare  sette  otto  volte  prima  di  alzare  il   microfono  e magari non l'avrebbe neanche alzato e fare questo non gli   sarebbe costata nessuna fatica aveva voglia di parlare di  lavoro  coi   colleghi aveva voglia di ridere ah che cosa meravigliosa la vita.   Ma  come  stava  attraversando lo spiazzo dove c'è la pista di cemento   per i pattini a rotelle,  pista a  quell'ora  ancora  deserta,  mentre   marciava a magnifici passi illuminato in pieno dal sole, sentì la cosa   che accennava a salire dal di dentro.  No,  si disse,  è un'ultima eco   della malattia, inevitabile, una finta, una cosa da niente.  Garantito   che  adesso penso di nuovo a Laide distesa nuda in letto che abbraccia   un fusto e gli tiene l'intera lingua sprofondata nella bocca  e  anche   cose  peggio  sono capace di pensare e sarà come pensare al bollettino   di borsa e al problema dei posteggi.   Non fece tuttavia in tempo a ricostruire nella mente  la  sozza  scena   perché   quell'onda   pestifera   anziché  dileguarsi  gli  si  gonfiò   nell'interno delle viscere,  e di  colpo,  senza  nessuna  particolare   ragione al mondo,  Antonio fu completamente infelice.  Cercava,  cercò   due tre volte,  di tornare indietro con la mente e di riportarsi  allo   stato di pochi minuti prima,  il sublime senso di libertà era svanito,   era un miraggio incredibile di quelli che si leggono in certi libri ma   non possono essere veri.  Anzi quel salto brutale,  dalla libertà alla   galera,  gli  fece  sentire  ancora  più  dolorosa  la malattia che lo   teneva.  Non camminava più,  quindi,  di nuovo  arrancava  col  solito   tremito attraverso la giornata che stava per cominciare.  Il giogo gli   era ripiombato addosso infossandosi  ancora  più  profondamente  nelle   carni.  Allora  per la prima volta ebbe una sensazione di paura.  Egli   diventava  sempre  più  meschino  e  vile,   certe  volte  addirittura   abbietto,  una specie di sbigottito coniglio,  quel poco di lavoro che   riusciva ancora a fare gli costava sforzi grandissimi  e  teneva  duro   solo  perché se fosse crollato sul lavoro non avrebbe più potuto avere   i soldi per Laide.   Tante volte aveva sentito  dire  di  uomini  rovinati,  personaggi  da   romanzi,  esseri incredibili per lui solido borghese. Si ricordava del   conte Muffat ridotto al fango e alla miseria da Nana.  Favole.  Comode   invenzioni  di scrittori,  casi di stoltezza assurda,  mai nel suo ben   protetto mondo crolli simili potevano avvenire.  Così pensava.  Eppure   adesso  Antonio  si chiedeva se per lui quella famosa rovina non fosse   cominciata. E intravedeva il desolato futuro. Un vecchio "delabré" che   si trascinava nei ritrovi  e  nei  ristoranti  intellettuali  sperando   nelle  cinquemila  lire del collega infastidito,  ridotto a una camera   ammobiliata,  tenuto alla larga,  solo come un cane,  mentre la Laide,   protetta da un grosso industriale, gli passerà accanto, con la Jaguar,   ingrassata,  coperta  di  brillanti,  in  una  gigantesca pelliccia di   visone.   Come poteva resistere?  Di soldi ne occorrevano sempre di più.  Adesso   Laide  aveva preso in affitto un appartamentino veramente mica male in   una casa moderna in via Schiasseri,  dalle  parti  della  Città  degli   Studi.   Erano  seguite  lunghe  discussioni  perché  lei  non  voleva   concedergli le chiavi di casa e per avere partita vinta,  in una crisi   di collera, Antonio aveva dovuto minacciare di non farsi più vivo. Lei   naturalmente  non  ci aveva creduto ma in fondo che cosa ci rimetteva?   Anche quando lui avesse avuto le chiavi, Laide poteva sempre chiudersi   dentro e, se lui suonava,  poteva far finta di non udire il campanello   o di essere fuori.   Confusamente  anche Antonio capiva che quanto più si sviluppavano e si   facevano più intimi i rapporti con Laide,  tanto più  sarebbero  state   frequenti le occasioni di inquietudine e sospetto,  tanto più in fondo   egli veniva trascinato verso una sorte che non riusciva a  immaginare.   Anche  gli  amici  a  cui  sentiva  il disperato bisogno di confidarsi   avevano ormai rinunciato a trattenerlo,  se gli era dato di  volta  il   cervello si rovinasse pure con le sue mani.   La sera,  per esempio, quando tornavano dal cinematografo o da teatro,   invece di lasciarla dinanzi a  casa,  Antonio  la  avrebbe  volentieri   accompagnata su,  magari anche senza fare niente, solo per il gusto di   vederla spogliarsi e mettersi in letto. Ma lei niente, su questo punto   era irremovibile. A tenerle compagnia di notte c'era un'amica, diceva,   una certa Fausta, un tipo di piccola barbona meridionale che un giorno   Laide gli aveva presentato per strada.  Si vedevano  infatti  le  luci   accese.   Perfino  fare  l'amore  con  lei  -  e  Antonio non aveva certo grandi   pretese - era diventato difficile.  Fin troppo chiaro che Laide non ne   aveva voglia.  Ogni volta cercava di rimandare. O aveva le sue cose, o   aveva mal di gola,  o aveva  mal  di  testa.  E  le  poche  volte  che   acconsentiva  lo  faceva  con  una  tale malagrazia che ogni gusto era   perduto.   Di passare una notte con lei neanche parlarne.  "Io non ho mai dormito   con un uomo,  io se non sono sola in letto non sono capace di dormire"   era il suo ritornello. Solo dopo incredibili insistenze Antonio riuscì   a strapparle  la  promessa  di  farlo  dormire  con  lei  la  sera  di   ferragosto.  Quando  venne  ferragosto,  la Laide tenne la parola,  ma   prima che entrassero in casa lo avvertì che  quella  sera  non  voleva   essere toccata,  non ne aveva proprio voglia.  E per tutta notte dormì   sull'altro bordo del  letto  voltandogli  la  schiena.  E  questo  era   l'amore?  Contro  questo  muro  di  indifferenza si rompeva l'onda dei   sogni, il divino fuoco!   Di quando in quando Antonio si meravigliava di  se  stesso.  Come  era   possibile   che   tollerasse  tanto?   Una  volta  gli  sarebbe  parso   inconcepibile.  Per fortuna anche agli schiaffi si fa  l'assuefazione.   Per  fortuna  o  purtroppo?  Non era il segno di una degradazione?  Ma   ribellarsi era impossibile.  L'idea di perdere la  Laide  gli  metteva   addosso  il  solito  sgomento.  Uomo,  orgoglioso uomo,  intelligente,   riuscito e già sicuro di sé,  trascinato per terra  da  una  infernale   ragazzina senza cattiveria così senza volerlo solo perché lui ha perso   la  testa e questo a lungo andare le dà un terribile fastidio.  Oppure   soltanto per colpa di lui che non ci sa fare che è rimbecillito  e  fa   uno sbaglio dopo l'altro?  Fin quando e fin dove la storia continuerà?   Verrà la sospirata stanchezza?  o almeno  la  rassegnazione?  Ormai  è   solo,  deve cavarsela da sé, non c'è più nessuno che lo possa aiutare,   a poco a poco è venuto a cessare lo sfogo  delle  confidenze  con  gli   amici,  dovrebbe  confessare delle tali vergognose viltà che gli amici   si rifiuterebbero  di  credere  e  lui  non  ha  più  il  coraggio  di   confessare.   Ecco.  Una  domenica  hanno stabilito di trovarsi,  andranno a fare un   giro in macchina,  lui al mattino va in studio apposta per  telefonare   in piena libertà.  "Ah mi dispiace sai" fa lei "mi dispiace proprio ma   oggi non ci possiamo vedere, sai viene a trovarmi Marcello, poveraccio   i suoi sono ancora in campagna e lui è solo come faccio a  piantarlo?"   "Non  avevi combinato con me?" "Ma noi ci vediamo tutti i giorni,  non   essere egoista,  l'unico amico che ho ed è così un bravo  ragazzo,  te   l'ho  detto  che per me è come un fratello." "E va be' fa' come vuoi."   (Gli torna alla mente quella frase dinanzi al cinematografo di Modena:   "Un bacio sulla  bocca  direi.  O  tu  preferisci  in  altri  posti?".   Purtroppo è una situazione già accettata.  In un certo senso se lui si   impuntasse avrebbe ragione lei di protestare.)   Ma quando sono le una e mezza la Laide gli telefona: "Senti, caro,  tu   esci  adesso?".  "Io  no,  perché?" "Dovresti farmi un grande piacere.   Sono rimasta senza carne per il Picchi.  Dovresti fare un salto da  un   ristorante e farti dare due etti di carne tritata, oggi è domenica e i   negozi sono chiusi."   E'  orribile,  è obbrobrioso,  però la sola idea di poterla vedere per   qualche minuto lo solleva. "Va bene vado subito."   Non sono ancora le due quando Antonio suona alla porta della Laide col   cartoccio della carne in mano. Prima che la porta si apra ode,  di là,   una voce di uomo. Lei si affaccia, inquieta:   "Scusami  sai,  mi  dispiace  proprio  ma  non sapevo che venisse così   presto."   Deve entrare.  Marcello,  seduto sul "sommier" in cucina,  si  alza  e   saluta  rispettoso,  ha  sempre quella sua aria dinoccolata e insulsa,   dopo tutto non è neanche assurdo che con la Laide sia soltanto un buon   amico.  "Be',  adesso devo scappare" dice Antonio.  "Non vuoi  proprio   fermarti  un  momento?" "No,  no,  mi aspettano.  E tu cosa fai?" "Be'   adesso usciamo,  appena il cagnolino ha mangiato.  Andremo a un cine."   La Laide lo accompagna all'ascensore.  "Almeno a pranzo verrai con me,   spero." "Ma sì, magari a pranzo." "Perché magari?" "Senti, tu oggi vai   in studio?" "Oggi è domenica ma se vuoi..."  "Si,  facciamo  così,  io   alle sei e mezza ti telefono in studio."   Se  ne va con una curiosa sensazione di sporco,  di ingiustizia.  Loro   due soli in casa.  Parleranno del più  e  del  meno,  giocheranno  col   cagnolino,  rideranno nel modo più innocente,  che altro dovrebbe fare   una bella figliola di vent'anni  e  un  giovanottone  di  venticinque?   Eppure   lui   sinceramente   ci   crede.   Se  non  ci  credesse  non   sopporterebbe.  Questa sua fiducia  lo  salva.  Certo,  gli  altri,  i   soliti, che non capiscono certe cose, si spaccherebbero dalle risate.   Alle  sei  e  mezza  in  punto  lei  telefona.  "Senti  ti  prego  non   arrabbiarti ma proprio non so come fare,  poveraccio adesso parte  per   la Francia e starà via dei mesi come faccio a piantarlo,  il suo treno   parte alle undici e  mezza."  "Ma  te  l'avevo  pur  detto."  "Oh  non   cominciare, ti prego, lo sai bene che non c'è niente di male. E poi ti   ripeto lui va all'estero."   Estero estero, una rabbia di fuoco che lo inebetisce, come un automa a   pranzo  con  gli  amici  i  quali  ormai  non  ci fanno più caso e poi   l'incubo  della  solitaria  notte  con  gli  sguardi  tesi  alle   due   screpolature  del  soffitto  e fuori le automobili che passano le voci   delle prostitute,  dove sono quei due?  lui sarà partito  veramente  o   invece  nel  letto  a due piazze di via Schiasseri sta concedendosi un   supplemento dell'amore pomeridiano?  Alle otto  non  ha  ancora  preso   sonno. Stralunato si alza, si veste, si precipita al garage.   Stavolta,  al  primo colpo di campanello,  la Laide subito apre.  "Che   cosa c'è?"   "C'e che io ne ho abbastanza di essere trattato a pesci in faccia. Non   ti rendi conto che..."   "Basta,  basta,  non è il  caso  di  far  prediche,  dovresti  essermi   riconoscente invece." "Riconoscente?"   "Sì, perché iersera l'ho liquidato. L'ho mandato con rispetto parlando   a dare via l'anima."   "Il tuo amato bene?"   "Che amato bene del lella,  un maiale come tutti gli altri ecco cos'è,   e io cretina che lo credevo un ragazzo a posto."   "Perché? Cos'è successo?" .   "E' successo semplicemente che dopo pranzo mi ha accompagnato a  casa,   io  gli  ho  detto  se  voleva venir su un momento e quando è stato su   pretendeva  che  ci  andassi  in  letto  insieme."  "Perché?   ti   ha   abbracciato? ti ha baciato?"   "Eh  "de  matt!"  Da  principio credevo che scherzasse,  poi quando ha   fatto per mettermi le mani addosso gli ho menato una sberla ma una  di   quelle  sberle  che  se  la  ricorda vita natural durante.  E poi l'ho   spedito fuori per direttissima. E tu, invece di essere contento, vieni   qui a fare un ciocco.  Ma ti vuoi  convincere  una  volta  o  l'altra,   cristo, che io non ti dico bugie?"

 

 

28.

   E'  ancora  là con la cornetta del telefono in mano,  indeciso se,  la   faccia scavata e tesa,  la faccia invecchiata,  sono  passati  quattro   mesi, oggi è il primo dell'anno ma lui è là ancora con la cornetta del   telefono in mano indeciso se telefonare o no, il fiume lo trascina via   allo  stesso  identico modo selvaggio,  non riesce ad aggrapparsi alla   riva anzi si trova sempre nel centro dove la precipitazione è  massima   e  più  grossi  pietroni  sporgono dal fondo e lui ci pesta contro con   colpi terribili che lo devastano dentro e vorrebbe raggiungere la riva   ma  ha  paura  perché  se  raggiungesse  la  riva  il  fiume  non   lo   trascinerebbe più e nel fiume,  poco più avanti, fugge la Laide ma lei   scivola lieve sulle acque e lei non pesta dentro nei pietroni,  lei li   vede in tempo o per lo meno è come se li vedesse e ci scivolasse sopra   apposta  affinché  Antonio che la insegue ci pesti contro malamente ma   può darsi invece che lei non ci pensi neanche lei non è  cattiva  solo   che  è  come  un riccio con gli aculei sempre tesi,  un giorno infatti   durante un litigio poiché lui le rinfacciava le umiliazioni patite  la   Laide  disse  dovresti capirmi nessuno mi ha mai voluto veramente bene   io ho l'impressione che tutti siano dei nemici che vogliono fregarmi e   approfittare di me non è colpa mia  se  la  vita  mi  ha  insegnato  a   diffidare di tutti sì io sono sempre in allarme io sono tutta spine io   cerco  di  difendermi  e  così  può  essere che con te sono stata poco   gentile ma dovresti capirmi no è tutta colpa mia. Da ragazzo una volta   su un  piccolo  nevaio  delle  Dolomiti  era  scivolato  provando  una   sensazione  strana.  La superficie infatti non era liscia ma,  forse a   motivo del disgelo,  tutta  a  piccole  concavità.  Scivolando  giù  a   velocità  sempre più forte Antonio urtava via via contro i bordi delle   infossature e ne restava sballottato  malamente:  era  come  se  -  lo   ricordava benissimo - come se un gigante smisurato lo stesse prendendo   a scapaccioni con le sue smisurate mani, e lui non potesse minimamente   reagire  o difendersi,  solo la speranza che il pendio si quietasse in   una conca o in un pianoro  come  infatti  era  avvenuto  per  fortuna,   altrimenti  rischiava di sfracellarsi contro i macigni della morena in   fondo. La sensazione insomma di essere in balia di una forza selvaggia   infinitamente più forte di lui per cui egli tornava bambino fragile  e   indifeso.   Ebbene   la  medesima  sensazione  gliela  faceva  provare   l'avventura con Laide solo che stavolta non era un gigante  invisibile   scaturito  dalla  montagna questa volta era una ragazzina di carne che   trascinandoselo dietro lo faceva sbattere di qua e di là contro i muri   e lei correva con la ansiosa frenesia dei vent'anni e magari non se ne   accorgeva neanche non si curava se l'uomo  aggrappato  alla  coda  dei   suoi lunghi capelli neri si lordasse tutto quanto strascicando il muso   a  bocca  spalancata  per  l'affanno  sui  sassi sulla polvere o nella   merda,  era forse colpa sua se lui  si  teneva  aggrappato  con  tanto   accanimento?  Le  dava  forse  una  noia  insopportabile  il  peso  di   quell'uomo grande e grosso dai capelli grigi attaccato dietro, chissà,   se lui avesse mollato,  poteva darsi che lei si fermasse,  si voltasse   indietro  e  andasse  ad  aiutarlo  ma  fin che lui la teneva così era   impossibile.   Erano passati quattro mesi ma in questi  mesi  lei  non  era  cambiata   sempre  puntuale  sì con le telefonate e gli incontri,  gentile anzi e   perfino premurosa, alla sua maniera, tuttavia sempre con quel fondo di   indifferenza totale.  Marcello era sì scomparso dall'orizzonte  e  non   c'era  motivo  di  sospettare  che la Laide continuasse la vita di una   volta.  C'era stata anzi una specie di lungo intermezzo perché lei  si   era ammalata di una infezione intestinale con complicazioni di cuore e   per  quasi  due  mesi  era  dovuta  stare in clinica.  Certo in queste   condizioni non c'era più quella sua ansia assolutamente  irragionevole   come  se  la  Laide  da  un'ora  all'altra avesse potuto dileguare per   sempre e rendersi introvabile.  Ma anche in clinica la ragazzina aveva   trovato  modo  di  tenerlo  continuamente  sulle spine e di umiliarlo,   intanto quella odiosa faccenda  di  chiamarlo  zio  alla  presenza  di   medici e infermiere,  poi quel suo civettare coi dottori, specialmente   nei giorni di crisi,  lui per esempio se ne stava in piedi a capo  del   letto  e  lei,  presa  da  affanno,  stringeva  le  mani di un giovane   grazioso medico come se da lui solo potesse sperare aiuto e affetto, e   una sera che era andato a portarle una vestaglia  -  naturalmente  era   andato  a  comperarla nel primo negozio di Milano - e la camera era in   penombra,  prima di andarsene - la infermiera presente stava  leggendo   in un angolo alla luce di una piccola lampada - lui si era chinato per   baciarla  e  la  Laide  l'aveva respinto con impeto inviperita come se   avesse voluto violentarla e nessuno là alla  clinica  non  avesse  già   capito da un pezzo che razza di zio egli fosse veramente.   Per  di  più  c'era  stata  la sua abbastanza misteriosa ostinazione a   prolungare la degenza al massimo.  Proprio quando stava già bene  e  i   medici  parlavano  di  dimetterla entro un paio di giorni,  ogni volta   c'era una nuova crisi cardiaca con  tale  puntualità  che  Antonio  si   persuase   fosse  lei  stessa  a  provocarsela:  con  certe  pastiglie   eccitanti che si era fatta comprare da lui,  la Laide gli aveva  detto   che  servivano  alla  sua  amica  Fausta che non aveva soldi e lui non   sapeva che razza di medicina fosse, ma proprio il giorno dopo la Laide   aveva avuto il primo violentissimo attacco e la Fausta interrogata  da   lui  era  cascata  dalle  nubi  mai aveva pregato la Laide di comprare   quelle  pastiglie  non  sapeva  neppure   cosa   fossero.   Cosi   fra   ininterrotte  inquietudini  altre settimane erano passate e finalmente   lei era uscita di clinica ma adesso per paura  di  nuovi  attacchi  si   teneva tutte le notti una infermiera.   Alla  presenza  dell'infermiera  appunto  Antonio ha passato con Laide   l'ultima notte  dell'anno,  una  faccenda  tristissima,  la  Laide  in   vestaglia  col  mal  di  testa,  la  infermiera  apatica  e  muta,  la   sensazione  di  una  cosa  forzata  a  cui  Laide  si  assoggettava  a   malincuore, lui aveva portato dei pasticcini di uno dei meglio salumai   e  due  bottiglie  di  champagne  ma  la sera era passata dinanzi alla   televisione e quando era venuta mezzanotte la Laide  ha  continuato  a   guardare  la  televisione  che trasmetteva una festa da qualche grande   albergo e ha appena assaggiato lo champagne,  diceva che non ne  aveva   voglia lei che sullo champagne ostentava una speciale competenza e gli   raccontava  che in casa di questi e di quelli,  amici di famiglia,  si   pasteggiava sempre a Dom Perignon o Monopole.   Ma pazienza ieri sera,  ieri  sera  Laide  non  si  sentiva  bene,  la   speranza  di  Antonio - a tali fatue e false gioie si attaccava pur di   stare con lei - era di uscire a pranzo oggi che è capodanno. Ieri sera   infatti lei gli aveva detto di sì e per  questa  promessa  Antonio  ha   passato  una mattinata discreta ormai non si chiedeva più come sarebbe   andata a finire quella storia,  il domani il dopodomani erano  i  suoi   più  lontani termini,  oltre dopodomani non era il caso di pensarci la   Laide magari poteva all'ultimo momento cambiare idea.   Ha infatti cambiato idea anche oggi,  alle due gli ha telefonato,  era   dispiaciutissima,  ieri  sera  era  andata  via  con la testa,  non si   ricordava più che oggi era il primo dell'anno e il primo dell'anno lei   era sempre stata a pranzo in famiglia,  oltre  a  sua  sorella  e  suo   cognato  ci  sarebbero  stati  anche gli zii insomma era assolutamente   impossibile che lei mancasse.   Lui che cosa poteva rispondere? In fondo ne era rimasto quasi contento   perché stasera la sapeva in famiglia cioè  in  un  ambiente  sicuro  e   all'indomani  era certo,  dato il rinvio,  che sarebbe uscita a pranzo   con lui. Ma poi il cervello ha cominciato a lavorare, non è strano che   Laide, sempre così precisa negli impegni, con una memoria sorprendente   almeno per tutti i piccoli particolari della vita,  ieri sera  non  si   ricordasse che oggi era il primo dell'anno?  Non può essere invece una   scusa per uscire con altri?   Tutte le volte che gli vengono sospetti del genere, l'idea di mettersi   in azione e di indagare gli mette una specie di nausea. Gli sembra una   cosa vile, sleale, sporca.  Ma forse non è questa la vera ragione.  La   vera ragione per cui lui non si muove è probabilmente la paura,  paura   di prenderla in castagna,  di constatare la menzogna e il  tradimento,   di  vedersi  costretto a piantarla.  Per quanto si senta ridotto male,   quest'ultima sicurezza lo difende: se avesse la prova che Laide gli fa   le corna, di certo lui romperebbe per sempre.   Ma in fondo questa volta la cosa è semplice.  Basta telefonare con  un   pretesto  qualsiasi alla casa della sorella verso l'ora di pranzo.  La   sorella,  o il  cognato,  certo  non  sono  stati  messi  sull'avviso,   senz'altro gli diranno se aspettano o no a pranzo la Laide.   Ce  n'è voluto per prendere questa decisione.  Tutto il pomeriggio nel   suo studio a  ruminare  tutte  le  ipotesi  possibili,  i  rischi,  le   possibilità  di  complicazioni.  No,  non c'è proprio nessun pericolo.   Verso le sei,  come quasi sempre,  lei gli ha telefonato  in  ufficio,   pregandolo  ancora di scusarla,  promettendo di uscire con lui domani,   diceva  che  si  sentiva   meglio,   sembrava   allegra,   addirittura   affettuosa.  "Ciao,  tesoro"  gli  ha detto salutandolo "mi raccomando   stasera non fare il farfallino."   Ma come è lungo da passare un pomeriggio. Prima delle otto e un quarto   otto e mezza lui decentemente non  potrà  telefonare.  E  le  ore  non   passano  mai,  continuamente guarda l'orologio e non è una lentezza di   noia è una lentezza rabbiosa come se  quel  frenetico  precipitare  di   tutte  le  cose  che  lo  accompagna da mesi facesse marcia indietro e   sotto i minuti che non passano mai ci fosse  un  rotolio  compatto  di   ruote  che  vanno  in  senso  inverso uncinando il tempo che ristagni,   tutto perché lui possa impazzire.   E' già snervato quando l'orologio dello studio  scatta  con  quel  suo   clec nevrastenico segnando le otto meno dieci. Si rende conto che deve   avere una faccia stralunata. Esce di corsa. Non troverà mica una gomma   a terra per caso? No, le gomme sono in ordine. Via verso la casa della   mamma.  Arriva  alle  otto  e  cinque.  Dio,  ancora  dieci  minuti da   aspettare.   Il pranzo è pronto ma chi ha voglia di mangiare?  Con  sforzo,  perché   gli altri non si accorgano,  riesce a inghiottire qualche cucchiaio di   minestra.  Non dice parola.  La mamma lo guarda con una tristezza  che   ormai è diventata una abitudine. Sempre l'occhio all'orologio. Le otto   e dieci.  "Come non mangi la cotoletta? Le cotolette alla milanese una   volta erano la tua passione." "Be', ne prendo un pezzetto, non so come   ma stasera non ho voglia." Le otto e tredici.   Ha la forza di aspettare fino alle otto e diciassette.  In fondo anche   se  telefonasse alle nove non sarebbe lo stesso?  Anzi sarebbe meglio.   Magari la Laide arriva tardi. Ma resistere oltre non è possibile.   "Scusa,  mi sono dimenticato,  devo fare un colpo di telefono." Va  di   là,  fa il numero, la linea per fortuna è libera. Ma nessuno risponde.   Possibile che non ci sia nessuno.  La Laide gli aveva detto un  giorno   che il telefono era in camera da letto della sorella. E se dal tinello   non  sentissero?  Chissà,  forse sarebbe meglio così,  se non risponde   nessuno non gli resta altro da fare. Una tregua se non altro.  Esclusa   la  possibilità,   per  questa  sera,  di  dover  prendere  la  fatale   decisione.   No, qualcuno risponde. La voce di un uomo, deve essere il cognato. "Mi   perdoni,  sono Dorigo,  mi potrebbe per favore chiamare un momento  la   Laide?"  "Ma  la  Laide  non  c'è." "Ah,  non è a pranzo da voi?" "No,   stasera  non  l'aspettiamo."  "Mi  scusi   allora,   buonasera."   "Si   immagini."   Quella   cosa   infernale   dentro   nel  petto,   batticuore  affanno   devastazione vanghe infuocate che scavano.  Perdio se aveva ragione di   sospettare.   E  se  provasse  a  telefonare  alla  Laide?  Se fosse ancora in casa?   Provare che cosa costa?   Quel  "pronto"  con  l'erre,  quella  voce  come  stanca,  diffidente,   impassibile, che a lui piace tanto.   "Pronto  sono io.  Mi hai detto che andavi a mangiare da tua sorella e   invece non è vero."   "Come non è vero? sto in questo momento per uscire di casa."   "Ho telefonato da tua sorella e mi ha detto che non ti aspetta."   "Perché ho cambiato idea."   "E dove vai allora?"   "Vado a mangiare da sola.  Ma adesso ti prego lasciami perché  c'è  il   tassì sotto che aspetta." "Allora esci con me."   "No." Un no fermo e duro.   "E perché?"   "Perché non mi va. E poi non ho voglia di discutere, mica il tassì sta   ad aspettare i miei comodi."   "Ti dico di uscire con me."   "E io ti dico di no."   "Allora vado ad aspettarti a casa."   "No non voglio." Un'ombra di apprensione. E mette giù la cornetta.   E'  impazzita?  Mai ha fatto e parlato così.  Deve esserci qualcosa di   nuovo.  Stavolta deve esserci un altro.  E per  quest'altro  è  pronta   perfino a rischiare la rottura.  E' disposta a perdere, fra una cosa e   l'altra, quasi mezzo milione di lire al mese.   Meglio così, si dice Antonio stupidamente, tanto,  una volta o l'altra   doveva succedere.  Ma è strano.  Lei sempre così precisa e preoccupata   dei soldi. Deve essersi presa una cotta.  O si tratta di uno molto più   ricco  di  lui?  L'inquietudine  e  il  nervosismo  di  prima  si sono   trasformati in un  curioso  sentimento  nuovo,  tumultuoso,  dinamico,   deciso.  Come chi per la prima volta, dopo averci tanto pensato su, si   stacca dal terrazzino dove è ancorata la corda doppia e  si  abbandona   al vuoto.  Come quando la battaglia comincia e si riesce a non pensare   ad altro e nella febbre scompare anche la paura della morte.  Che cosa   succederà dopo? Non importa, qualsiasi cosa succederà, non si può fare   altro. Dopo tanti maneggi, diplomazie e inganni, finalmente il gioco a   carte  scoperte.   Per  adesso,   comunque,  Antonio  si  sente  quasi   sollevato.   Arriva alla casa  di  Laide  verso  le  dieci  meno  dieci.  Suona  il   campanello. "Chi è?" la voce dell'infermiera. "Sono Antonio." La porta   si apre. Meno male   L'infermiera,  Teresa,  non  sembra  meravigliata,  è  una  ragazza di   montagna sui trent'anni, che si direbbe indifferente a tutto.   "Senta signore" dice "la prego però  di  non  mettermi  nei  guai.  La   signora Laide mi aveva raccomandato di non rispondere al telefono e di   non aprire la porta a nessuno. Lei adesso si ferma?"   "Io la aspetto."   "Non le fa niente se io guardo la televisione?"   "Si immagini."   Va  in  cucina,  siede  sul  "sommier" e cerca di leggere un numero di   "Topolino" trovato nella scansia.  Ce n'è un mucchio Ma ci vuol  altro   che Paperon dei Paperoni. Queste sono le ore gigantesche. Il fatto che   una  ragazzina  sia  uscita  a  pranzo  con  un  uomo in uno dei tanti   ristoranti di Milano la sera di capodanno non ha la minima  importanza   per il mondo ma per lui Antonio potrebbe essere la fine di tutto.   Chissà come, gli viene in mente di telefonare dalla mamma.   "Scusa, mamma, ha telefonato qualcuno?"   "Si poco fa, deve essere... insomma mi hai capito."   "Ah va bene, non importa. Ciao mamma"   Ha telefonato. Sperava forse che non venissi a casa sua. Evidentemente   è inquieta. Fra poco, garantito, telefonerà qui per sapere.   Difatti, dopo neanche dieci minuti lei telefona. Due colpi di suoneria   e poi silenzio. Formula convenzionale per far sapere che è lei. Teresa   va  rispondere  in vestaglia.  Lui le bisbiglia: non dica che ci sono.   Infatti Teresa dice: no signora,  finora  no,  no  non  ha  telefonato   nessuno: Benché la casa sia silenziosa,  Antonio non afferra le parole   dentro nel microfono.   "Che cosa ha detto?"   "Niente, mi ha chiesto se lei era venuto."   "E nient'altro?"   "No, mi ha ripetuto di non aprire a nessuno."   Ah carogna,  alla porta lo vuol mettere adesso?  dopo tutto quello che   ha  fatto  per  lei.  Sì,  sì questa è l'ultima volta.  Ma almeno vuol   dirgliene quattro come si merita,  la  aspetterà  se  occorre  fino  a   domani mattina.   E'  l'ultima  volta.  La  sveglia  sull'"étagère" segna le undici meno   cinque.  Seduto  sul  divano  del  tinello.  La  luce  accesa.   Sopra   l'"étagère" il grande paperino di stoffa che Antonio le comperò quando   lei  era  all'ospedale.   Silenzio.   Auto  che  passano.   Di  là  la   televisione,  danno "La bottega del caffè" di Goldoni,  Teresa assiste   passiva.  Passano  lenti i minuti.  Ogni minuto è uno schiaffo in più,   uno svillaneggiamento in più.  Adesso il  frigorifero  si  è  messo  a   ronzare.  Sono  le  undici  e  cinque.  Antonio  guarda intensamente i   mobili,  i bambolotti,  queste piccole cose di bambina che  non  vedrà   più.  Sul  tavolo  c'è  una  candelina natalizia con un piedestallo di   pigne e nastri. E lei non viene. Sul frigo un cestello di paglia scura   con dentro un cagnolino che lui le portò  all'ospedale.  Tutto  questo   amore buttato per niente. Lei scherza. Lei non ha capito niente. Sopra   la porta un vischio natalizio dorato. A che ora tornerà?   Il  telefono.  Questa  volta  senza  suonate convenzionali.  La Teresa   risponde, non deve essere lei. "No, la signora è fuori. No,  credo che   domani non ne abbia bisogno."   "Chi è?"   "E'  uno  dei  telefoni,  quello  che  fa  il  servizio della sveglia,   domandava se domani mattina deve svegliare la signora."   "E come mai?"   "Ma, non so. Credo che sia uno che la signora conosce."   Anche con quelli della Stipel fa la civetta, magari ha combinato anche   con lui. Torna in cucina, riprende in mano "Topolino". Sente che di là   Teresa spegne la  televisione.  "Signore"  dice  senza  mostrarsi  "io   allora andrei a letto."   Mezzanotte, mezzanotte e tre quarti. Dove sarà? Se è andata al cinema,   come è la sua mania,  a quest'ora dovrebbe ritornare.  Ingenuo.  Altro   che cinema. Magari starà via la intera notte. Non importa,  a costo di   crepare lui resterà qui finché quella puttana torna.  O Laide,  o amor   mio,  perché mi hai fatto questo?  Ma alle una e un quarto  ancora  il   telefono. E' lei.   "No,  signora" fa la Teresa, che stranamente non si è ancora spogliata   "... e va be', ma cosa potevo fare?... Va bene, buonanotte signora."   Lui subito: "Che cosa ha detto?".   "Ha detto che è venuta per tornare a casa ma ha visto la sua  macchina   qui sotto."   "E allora non viene?"   "No, ha detto che va a dormire all'albergo."   Che  imbecille.  Non poteva pensarci?  Subito scende,  va a mettere la   macchina in una strada laterale,  quindi torna  di  sopra.  Aspetterà,   perdio se aspetterà. Ma cosa serve aspettare se lei è andata a dormire   all'albergo? Ha tanto fastidio di lui che pur di evitarlo va a dormire   all'albergo senza neanche un pezzo di sapone? O è soltanto paura?   Teresa lo guarda, atona.   "Ma lei,  Teresa,  mi scusi, dopo tanto tempo non ha ancora capito chi   sono?"   "Come?"   "Sì, dico, la signora le ha detto che io ero chi?"   "Mi ha sempre detto che lei era suo zio."   "Che zio del cavolo! Ci voleva poco a capirlo, direi."   La disperazione.  Chi è quella Teresa?  Che  cosa  può  dirgli  quella   Teresa? Niente. Ma lui ha bisogno di sfogarsi.   "E io...  e io... tutto quello che ho fatto per lei... mi vede lei che   disgraziato sono?... Perdere la testa per una... una..."   E' un bambino,  un bambino ingiustamente bastonato.  Si butta  bocconi   sul letto di lei, scuotendosi nei singhiozzi.   "Be', signore, si calmi."   Si alza. Misura la miserabilità della scena.   "Mi scusi, sa, ma alle volte."   "Oh signore, a tutti può capitare."   "Su, vada a letto lei."   "E lei aspetta ancora?"   "No, ma voglio scriverle due righe."   In  cucina  trova  un  foglio  di  carta da lettere,  va a scrivere in   salotto, dove c'è un tavolino col piano di vetro.   "Laide" scrive "dopo quello che è successo,  è fin troppo  chiaro  che   tutto fra noi due è finito.   "Credo di essermi mostrato con te sempre gentile e paziente.  Ma oltre   a un certo limite non si può andare. "Ti auguro di trovare qual..."   In questo preciso punto il telefono.  Sono le una e  mezza.  Come  una   belva. Toglie a Teresa il cornetto del telefono.   "Pronto sono io."   Gli risponde uno scatto. La Laide ha troncato la comunicazione.   Se  telefona,  vuol  dire che è ancora incerta.  Non sa che cosa fare.   Forse non ha neanche i soldi per l'albergo.   Quasi subito il telefono risuona.  Risponde la Teresa  ma  Antonio  le   strappa il microfono di mano. Dall'altra parte un voce quasi allegra.   "Be', adess mi torni a ca!"   "Va bene, allora ti aspetto."   Le  due,  le  due  e un quarto.  La Teresa è a dormire,  le automobili   passano sempre più rare. Antonio non ha finito la lettera,  non ce n'è   più bisogno,  le dirà tutto a voce.  Sì, lo capisce, sarebbe molto più   efficace se lui ora se ne andasse,  senza lasciare neanche  una  riga.   Esserne capace.  Lui ha bisogno di rivederla,  fosse per mezzo minuto,   rivederla ancora una volta!   Alle tre meno dieci una macchina si ferma di sotto.  Poi,  nella  casa   addormentata,   il   colpo   del   cancello,   il   clac  della  porta   dell'ascensore, l'ansito dell'ascensore che sale.   Lui è in piedi dinanzi alla porta.  Sa  ciò  che  è  suo  dovere.  Due   sberle. Il minimo.   E  se poi quella fa una scenata,  se si fa venire un attacco di cuore,   se poi bisogna chiamare un medico?   Lei entra, pallida,  gli occhi rotondi e spalancati,  l'espressione di   bestiola ansiosa e inseguita.   "Ciao" gli dice.   Ed  ecco  su di lui una mortale stanchezza.  Gli hanno spezzato dentro   qualcosa, uno sfinimento, una disperata indifferenza.   "Con chi sei stata?"   "Con una mia amica."   "E fino a quest'ora dove sei stata?"   "In casa della mia amica."   "E io dovrei essere tanto cretino da crederci."   "Fai pure come ti pare. La Teresa dov'è?"   "Che ne so io? Dormirà, immagino."   L'incapacità di  trovare  le  parole  giuste,  le  minime  parole  per   salvarsi  la  faccia.  Un  vuoto,  uno scavamento,  rassegnazione alla   sconfitta.   Lei entra in salotto subito  vede  il  foglio  scritto  a  metà  senza   leggerlo lo afferra e ne fa una pallottola che va a buttare in cucina.   "Leggi, leggi, faresti bene a leggere."   Senza rispondere lei entra in gabinetto e lasciando aperta la porta si   mette a fare pipì.   Che cosa aspetta Antonio ancora?  Che sia lei adesso per caso a dargli   un paio di sberle?  Come se non gliene avesse già date  abbastanza.  O   aspetta  da  lei una parola di pentimento?  aspetta che lei gli chieda   perdono?   Perdono di che?  E' stata fuori con un'amica,  non ha fatto niente  di   male.  Lui,  piuttosto.  Quale  donna  resisterebbe  con  un tipo cosi   noioso?   Ha detto addio invece che ciao. Figurarsi se la Laide se ne preoccupa.   La  Laide  ha  sonno.  E  domattina  alle  nove  ha  appuntamento  col   parrucchiere.

 

29.

   Ha aspettato un giorno, certo la Laide si farà viva a costo di crepare   lui  non  le  telefonerà  giura  che  non  telefonerà sarebbe l'ultima   degradazione sarebbe proprio come dirle guarda che  sono  qui  sputami   addosso  del  resto  lei  certamente ha letto la lettera che lui aveva   cominciata e lasciata sul tavolo,  in  sua  presenza  Laide  ha  fatto   l'atto  di  buttarla  nella  spazzatura  senza leggere ma figurarsi se   appena lui è uscito lei non è corsa a leggerla mica che le lettere  di   Antonio la interessino ma stavolta doveva avere una certa paura in fin   dei conti si renderà pur conto di averla fatta un po' troppo grossa.   Ha aspettato due giorni, lei evidentemente fa l'offesa come se Antonio   andando ad aspettarla a casa le avesse mancato di rispetto e poi si sa   la tattica migliore quando si è in torto è quella di mostrarsi offesi.   Si intende,  il fatto che la Laide non gli abbia telefonato ancora gli   dà inquietudine.  E' ovvio che si tratta soltanto di una  schermaglia,   nella  coscienza  di  lui  il  pensiero  che  questa sia una autentica   rottura non si è affacciato neppure come ipotesi.  E se la lettera  di   Antonio lei invece la avesse presa sul serio,  se riconoscesse di aver   tirato eccessivamente la corda,  se si fosse convinta che Antonio  per   quanto debole per quanto innamorato non può far altro che piantarla? E   chi gli dice in fondo che Laide abbia paura?  Magari ormai se ne frega   completamente di lui.  Storie,  dove lo va a trovare mezzo milione  al   mese?   Ha aspettato tre giorni,  comincia a stare male,  è sempre sicurissimo   che lei si farà viva non già che  gli  domandi  scusa  e  si  dimostri   pentita,  ricomparirà  con  la  sua  piccola  aria da teppista come se   niente fosse,  certamente ricomparirà,  non c'è nulla  di  meglio  per   farsi   cercare   dalle   donne  che  tagliare  la  corda  e  mostrare   indifferenza però è strano anche se adesso è ben fornita di soldi  per   via  di  un  lascito  di  mezzo  milione  lasciato  dalla  mamma,   la   liquidazione della ditta dove la mamma lavorava,  che ha riscosso  nei   giorni scorsi.   Ha  aspettato  quattro  giorni ormai in ufficio il trillo del telefono   ogni volta gli sprofonda uno spiedo elettrizzato a metà della  schiena   e una scossa si propaga togliendogli il respiro.  Sì,  egli pensa, con   tutti i quattrini di cui ora dispone terrà duro  lungamente,  tanto  è   sicura  di  averlo sempre ai propri ordini,  lei sta ridendo garantito   pensa ai patimenti di lui,  a qualsiasi ora della notte si sveglia lei   si  dice  ecco  quello là in questo istante preciso sta pensando a me,   che soddisfazione dev'essere per lei.  Chissà come si frega le mani  e   magari  sghignazza  con  le amiche no forse questo no perché di amiche   non frequenta che la Fausta e sa benissimo che figliola  scombinata  e   balenga  sia  la Fausta e se ne fida fino a un certo punto ma fregarsi   le mani sì dicendo: quello là vuol  far  l'offeso  eh?  adesso  glielo   imparo  io: non gli telefono per almeno un mese tanto di soldi ce n'ho   e così alla fine del mese me lo trovo buono buono ai miei  piedi  come   un cagnolino più di prima. Questa è la cura adatta: lui forse si crede   che  per quelle poche lire io debba stare giorno e notte in adorazione   davanti a lui? Ma io ho vent'anni, io ho necessità di respirare, io ho   bisogno di una certa libertà, non vuol metterselo in testa ah no? e io   allora lo faccio diventar matto dalla gelosia,  lo  so  già  cosa  sta   immaginando,  il  mio zietto mi immagina che passo in continuazione da   un maschio all'altro e diventa pallido e accende  una  sigaretta  dopo   l'altra  e  magari  per la smania va in cerca di ragazzine sperando di   trovarci gusto e di poter almeno per qualche ora dimenticare la  Laide   e  invece  per lui sarà ancora peggio oh oh prima di tutto perché come   la Laide ce ne sono poche in giro e poi ammesso anche  che  trovi  una   più  bella  della  Laide ma è difficile,  proprio la sua bellezza,  la   faccia la bocca le gambe le  tettine,  non  farà  che  ricordargli  la   faccia  la  bocca  le  gambe le tettine della Laide le quali non è che   siano molto più belle ma sono uniche al  mondo  e  proprio  di  quella   faccia,  di  quella  bocca,  di quelle gambe lui ha bisogno e tutte le   altre anche se altrettanto belle ma è difficile gli danno  addirittura   il voltastomaco. Così Antonio ricostruisce i pensieri della Laide e la   odia  perché  sa  che è tutto vero,  anzi è peggio perché la Laide nei   suoi calcoli strategici fa grande assegnamento sulle  proprie  risorse   fisiche  e non misura abbastanza che cosa sono per Antonio il suo modo   di muoversi, di camminare, di parlare, di muovere la bocca, di ridere,   di fare le  smorfie,  di  baciare  la  sua  deliziosa  pronuncia  così   milanese con quello strano erre aristocratico.   Ha  aspettato  cinque  giorni  e quella niente,  è ormai chiaro che la   Laide ha deciso di fare  il  gioco  grosso  tanto  non  ha  niente  da   perdere,  tanto, anche se si farà viva dopo un mese non farà lo stesso   la figura di arrendersi anzi sarà la regina impietosita che alla  fine   concede  la sospirata grazia ridando allo schiavo impertinente la vita   e la luce. Ma se fra un mese quando lei telefonerà lui mettesse giù la   cornetta? se fra un mese la malattia gli sarà passata?  se fra un mese   la  Laide per lui non fosse più che uno sgradevole ricordo?  Se fra un   mese egli avesse trovato  una  ragazza  altrettanto  graziosa  ma  più   gentile, dolce, premurosa e magari più brava nei giochi d amore? Sogno   meraviglioso, Antonio sa come sia una utopia un inverosimile miracolo,   per  lui  non  ci può essere che la Laide,  solo la Laide anche fra un   anno fra due anni potrà dargli la pace.   Ha aspettato sei giorni.  Questa mattina  non  ha  resistito  più,  ha   troppo  bisogno di sapere per lo meno se lei sia a Milano o alle volte   non sia in giro insieme con qualcuno allora ha pregato un  collega  di   chiamare  il  numero  della  Laide chiedendo dell'avvocato Romani.  Ha   risposto una voce di donna.  "E com'era la voce?"  "Era  una  voce  di   donna." "Giovane?" "Direi di sì." "Aveva per caso l'erre?" "Ah sì,  mi   sembra proprio che parlasse con l'erre." "E com'era?  una voce allegra   o  scocciata?"  "No  no  mi  sembrava abbastanza allegra." "Ma come ha   detto precisamente?" "Niente.  Guardi che lei ha sbagliato  numero.  E   cosa mai vuoi che dicesse?"   Così sta coprendosi sempre più di ridicolo,  come se questa storia non   fosse già diventata abbastanza una favola fra i suoi conoscenti. E poi   si dà del cretino.  Figurarsi se la Laide  non  ha  subito  indovinato   ch'era  una  telefonata combinata da lui per saggiare il terreno.  Che   trionfo per lei.  Sapere che Antonio ormai non ce la fa più e non  osa   ancora   telefonare   direttamente   ma   è  al  limite,   la  rabbia,   l'inquietudine e la gelosia lo hanno messo "groggy",  ancora  due  tre   giorni  e  poi  si  getterà  ai suoi piedi facendo le bave e chiedendo   perdono. Che idiota.  Adesso lei si sente ancora più sicura,  non avrà   più alcuna fretta di farsi viva,  magari rimanderà la telefonata sua a   chissà quando.   Ha aspettato sette giorni.  Nella speranza di sapere qualcosa è andato   dalla  signora  Ermelina  cercando  di  mostrarsi indifferente,  le ha   chiesto se aveva da presentargli qualche ragazza in gamba.  Ma  quella   ha immediatamente intuito, gli ha chiesto subito notizie della Laide.   "Ah non la vedo più da un pezzo. E lei?"   "Niente.  Da aprile non l'ho più vista. Le avevo telefonato una volta,   allora non sapevo ancora,  giuro,  che si fosse messa con lei,  volevo   presentarle un signore come si deve,  e lei mi ha dato appuntamento ma   non si è fatta vedere.  Io poi non  ho  insistito,  nel  frattempo  mi   avevano  detto  che lei dottore si interessava di lei,  sa,  in questi   casi io mi tiro in disparte."   "Chi glielo ha detto?"   "Non ricordo,  ma queste  cose  si  fanno  presto  a  sapere,  sa,  le   amiche... non so più se sia stata la Flora o la Titti. Ma come mai lei   non la vede più?"   "Niente. Faceva un po' troppo i suoi comodi."   "Il  solito.  Lei l'avrà viziata e quella là si sarà montata la testa.   Sono delle ragazzine stupide, quando trovano la fortuna fanno di tutto   per  lasciarsela  scappare.  Un  uomo  come  lei!  Non  per  farle  un   complimento  ma  qualsiasi  ragazza  anche  meglio  della  Laide se lo   terrebbe ben stretto, un uomo come lei. Mica che sia cattiva sa...  Io   per  me  devo dire che è una brava ragazza ma sa come succede?  Magari   avrà qualche amica invidiosa che le dà dei pessimi consigli...  sicura   di  sé questo sì un po' troppo sicura di sé...  con lei dottore poi...   se sapesse..."   "Cosa?"   "Be' non c'è niente di male a raccontargliela...  Un giorno che  aveva   qui  appuntamento  con lei,  guardi sarà stata la terza o quarta volta   mica di più,  dopo che lei se ne era andato è nata una  discussione...   sciocchezze...  per  un  tailleur  che aveva preso qui da me,  no anzi   adesso ricordo non era un tailleur era una princesse di  maglia  color   tortora."   "Sì mi ricordo."   "Oh  bravo vede se conto delle storie?...  Insomma io ero ancora fuori   per quindicimila lire... e la Laide pretendeva... be' ma questo non ha   nessuna importanza, vero?... c'era presente mi ricordo benissimo anche   la mia cognata che anche  lei  conosce,  be'  a  un  certo  punto  per   tagliarla  corta  io  le  dico  a  mia  cognata: "Vuol dire che quando   telefona il dottor Dorigo chiameremo qualcun'altra, tanto i suoi gusti   li conosciamo oramai...".  Be' vuol credere,  la Laide  ha  alzato  un   pugno così e ha detto: "Il dottor Dorigo?  Mi fate ridere.  Il dottore   io ormai lo tengo così, io al dottore gli faccio fare tutto quello che   voglio!". Tanto che noi siamo rimaste... Capisce? l'aveva vista appena   tre quattro volte e già si era montata la testa!"   "Ma in questi ultimi giorni si è fatta viva con lei?"   "Che io sappia no... se non ha telefonato quando qui in casa non c'era   nessuno... Ma stia tranquillo... Quella lì non se la toglierà di dosso   tanto facilmente...  io le conosco...  si credono chissà  chi  e  poi,   quando hanno bisogno...  Lei però deve tener duro sa? Non le passi per   la mente di telefonarle. Tenga duro. Vedrà se quella lì non tornerà ai   suoi piedi strisciando come un verme."   Ha aspettato otto  giorni.  Un  barlume  di  speranza.  Stamattina  in   ufficio  ha  suonato il telefono,  lui ha risposto pronto ma di là non   parlava nessuno,  si sentiva però che qualcuno stava  ascoltando;  poi   dall'altra  parte è stata messa giù la cornetta.  Allora ha chiesto al   telefonista se chi l'aveva chiamato poco  prima  era  un  uomo  o  una   donna:  era  una donna.  Probabilmente era lei.  Credeva forse che lui   avrebbe ceduto, il sondaggio telefonico dell'altro ieri le aveva fatto   credere di avere la vittoria in pugno.  Ma  erano  passati  altri  due   giorni, comincia a essere inquieta pure lei.   Ha aspettato nove giorni.  Ancora niente. Senza interruzione possibile   il pensiero è costantemente fisso su Laide,  più passa  il  tempo  più   acerba è l'umiliazione. Dopo tutto l'amore da lui dimostrato! E cresce   la  rabbia di non essersi comportato più da uomo.  Perché quella notte   di capodanno, quando lei è rincasata poco prima delle tre,  lui non ha   trovato  il  coraggio  di  menarle  un  paio  di  sberle?  Ma  non due   schiaffetti,  doveva proprio pestarle sul muso due manrovesci da farla   andare in terra lunga distesa,  facesse poi tutte le scene che voleva.   Si sentirebbe un altro uomo,  oggi,  se le avesse dato una lezione.  A   costo che lei non si facesse mai più viva.  Mentre adesso lo sconfitto   è lui e se lei non ritorna Antonio dovrà per anni e anni smangiarsi il   fegato,  lei avrà diritto di disprezzarlo,  di coprirlo di ridicolo di   fronte a tutti, di preferirgli i robusti tangheri sicuri di sé i quali   all'occorrenza  sanno  gonfiare  la  faccia delle ragazzette carogna a   suon di ceffoni.   Ha  aspettato  dieci  giorni.   Ha  fissato  per  il   pomeriggio   un   appuntamento  dalla  signora  Ermelina.   La  signora  Ermelina  tutta   contenta gli ha promesso di fargli conoscere una morettina "che sembra   la sorella della Laide".  In realtà Antonio ci va per la  speranza  di   sapere  qualcosa.  Attraverso la rete delle sue ragazze la Ermelina ha   sempre un mucchio di informazioni. La "sorella della Laide", una certa   Luisella,  era un tipetto  alquanto  squallido  e  dimesso,  anche  se   abbastanza grazioso,  e piuttosto insipida in letto.  Quando Antonio è   ricomparso in salotto, la Ermelina gli ha detto:   "Ho saputo che l'altra sera la Laide era giù al "Due".  Mi hanno detto   che  era  molto graziosa.  Aveva un vestitino rosso.  Ha ballato tutta   sera. E' vero che ha un vestitino rosso?"   "Sì, l'ha comperato il mese scorso. E di altro ha saputo niente?"   "Niente altro... Ah aspetti un momento... Luisella! Luisella!"   "Vengo subito" risponde la ragazza dal bagno,  e poco  dopo  ricompare   vestita.   "Senti un po' una cosa,  Luisella. Tu non hai mica conosciuto per caso   una certa Laide?"   "Laide? una mora? coi capelli lunghi?"   "Sì, proprio lei. Sei sua amica?"   "Per carità. L'ho conosciuta dalla Iris."   "Quella che stava in via Moscova? che poi l'hanno messa dentro?"   "Sì, proprio da quella."   "Ma come è possibile,  Luisella,  una ragazza come  te,  andavi  dalla   Iris?  Quella  non  era  una casa come si deve.  Mi hanno detto...  Mi   dicevano che quello era  un  casotto  in  piena  regola...  sfido  che   l'hanno messa dentro."   "Ah  io  ci sono andata un paio di volte soltanto,  poi ho capito come   giravano le cose, e chi si è visto si è visto. Ha ragione lei signora,   sa,  là dentro era peggio di un casino.  Uno  andava  uno  veniva,  un   continuo movimento."   "E là c'era questa Laide?"   "Quella  lì  era  in  pianta stabile,  dalla una del pomeriggio fino a   sera."   "E di' un po': quanti ne faceva?"   "Che ne so io? A giudicare dal movimento, almeno nove dieci al giorno.   E poi c'era il figliolo della Iris mi ricordo che ci  aveva  fatto  un   capriccio,  e  ogni giorno prima che arrivassero i clienti,  si doveva   lasciar fare anche da lui,  a titolo di aperitivo.  Ah si dava da fare   quella lì...  Ma perché mi domanda?" E la Luisella guardò Antonio. Era   pallido Antonio, erano per lui notizie spaventose.   "E di dov'era questa Laide?" chiese con una superstite speranza.   "Non so se di Napoli o della Calabria" fa la Luisella  "la  Terroncina   la chiamavamo."   "Be' meno male" dice Antonio "mi sembrava impossibile che..."   "No  non poteva essere lei" fa la signora Ermelina,  che ci tiene alla   qualità della sua merce "ho subito capito che non era lei.  Del  resto   io l'avrei saputo. La Laide non è tipo da buttarsi via così."   Ha  aspettato  undici  giorni.  In  fin  dei conti ha ormai dimostrato   abbastanza di  saper  tenere  duro,  a  questo  punto  potrebbe  anche   telefonare,  non  ci  perderebbe  la faccia: così Antonio è tentato di   pensare. Poi capisce che invece è sempre peggio.  Più passano le ore e   i  giorni,  più grave e catastrofica sarebbe la sua capitolazione,  se   fosse lui a cedere per primo.  Perché buttare via così  il  frutto  di   così lungo tormento? Anche la signora Ermelina che è pratica di queste   cose lo consiglia a tener duro.  Ma è terribile.  Il telefono è lì,  a   meno di mezzo metro.  Basterebbe alzare la  cornetta,  far  girare  il   cerchio con i numeri.  Risponderebbe la sua voce. "Pronto." Gli sembra   di riudire la parola pronunciata da lei con quel misto di  diffidenza,   di neghittosità,  di noia,  di strafottenza,  cara voce,  meraviglioso   suono, lo potrà mai udire ancora?   Ha aspettato dodici giorni.  A quest'ora lei avrebbe dovuto farsi viva   se  non altro per i soldi.  Ormai non c'è dubbio.  La Laide ha trovato   qualcun altro che magari le dà anche più quattrini e che magari  abita   fuori  di Milano e viene a trovarla una o due volte alla settimana per   il  resto  lasciandola  completamente  libera.   Altrimenti   non   si   spiegherebbe.  Uno  di  questi giorni lui la incontrerà tutta elegante   magari al volante  di  una  Giulietta  Sprint,  lo  guarderà,  non  lo   saluterà nemmeno.   Ha aspettato tredici giorni e ancora niente.  E' tornato dalla signora   Ermelina,  qui ha la sensazione di essere  più  vicino  al  fronte  di   battaglia,  di  poter  avere  notizie  di prima mano.  Gli hanno fatto   trovare una ragazzina ciociara,  splendida e magnificamente addestrata   ma sembra un animale da tanto rozza e incolta.  Terminata la cerimonia   ha trovato in salotto un'altra ragazza, una giovane signora sposata da   poco.  "Vero che assomiglia un po' alla Laide?" Lui risponde di sì per   compiacenza  ma  non  è  vero  niente.  Accucciata sul divano con aria   malinconica e tediata la ragazza fa vedere le  belle  polpute  e  sode   gambe   sproporzionate   alla   sua  corporatura,   e  lo  guarda  con   indifferenza: tanto,  quel signore oggi non è  per  lei.  Poi  le  due   ragazze se ne vanno.   "Dica, signora, ha saputo qualcosa, alle volte?"   "Della Laide?"   "Precisamente."   "No non ho saputo niente."   "Be', signora, vorrei da lei una promessa."   "Se posso ben volentieri."   "Ecco,  se  per  caso  la  Laide le telefona,  dovrebbe subito farmelo   sapere."   "S'immagini, l'avverto subito, ma vedrà che non telefona."   "Sarebbe mica male combinare un incontro come  se  io  fossi  una  sua   nuova conoscenza. E che io la trovi già spogliata a letto, si immagina   che salto farebbe?"   "No  questo  no,  sa.  Se la Laide mi telefona io la avverto subito ma   basta. Lei è un mio amico. Dopo quello che è successo,  io la Laide in   casa mia non ce la voglio."   "Però  era  una  di  quelle  che incontravano no?" Antonio ha il gusto   perverso di ferirsi, di rimestare nella piaga.   "Non posso dire di no. Con lei, con la Flora e con la Cristina abbiamo   fatto una bella stagione l'anno scorso."   "E mi dica, l'ultima volta che è venuta è stata con me?"   "Precisamente."   "Quel giorno che è partita per Roma?"   "Vede come si ricorda.  Precisamente quel giorno.  Ma Dio sa se poi  è   andata a Roma."   "L'ho accompagnata io alla stazione."   "E allora vuol sapere dove è andata dopo?"   "Dopo come?"   "Dopo che lei l'aveva accompagnata alla stazione."   "Perché, non ha preso il treno?"   "Ha  portato  le  valige  al  deposito bagagli ed è subito corsa dalla   Ersilia,  la mia amica,  lei la conosce no?  In  fretta  e  furia  una   marchetta."   "Ma lei come fa a saperlo?"   "Me  l'ha poi detto la Ersilia,  no?  Ma il bello non è ancora finito.   Saranno state le quattro le quattro e mezza e mi  telefona:  come  non   dovevi partire?  le dico.  Sì,  parto stasera, fa lei, ma adesso avrei   bisogno di venire da lei, sono in compagnia. Vieni pure, le dico, quel   giorno non aspettavo nessuno. Bene,  dopo neanche dieci minuti la vedo   arrivare con un tipo da fare spavento,  le dico un vecchio ributtante,   avrà avuto sessant'anni come minimo, una pancia così,  una bocca senza   denti,  Dio sa dove l'aveva pescato, magari in piazza Fontana dove c'è   il mercato. Mi ha fatto una tale pena che l'ho tirata in disparte.  Ma   Laide cosa fai?  le dico, sei diventata matta? Sì lo so, fa lei, è una   roba che fa schifo,  ma cosa vuole io ho bisogno di soldi.  Insomma le   giuro  signor Tonino,  se mi avessero detto ecco qui un milione se vai   in letto con quell'uomo le giuro che avrei detto di no.  E  quella  lì   magari per cinque, diecimila..."   Ha aspettato quattordici giorni.  Non bastano gli orrori appresi dalla   Ermelina per disamorarlo,  sono storie lontane di quando lui  non  era   per la Laide che un cliente qualsiasi,  anzi il fatto che da allora la   Laide non si è fatta più viva con la signora Ermelina dimostra che con   lui è stata leale. Chissà quante altre,  pur avendo un amico ricco che   le  mantiene di tutto punto,  frequentano poi le case d'appuntamenti e   se hanno la macchina di sera si mettono sul sentiero di guerra.  E poi   sapere  se  quelle  storie  sono  autentiche,  maestre  le  donne  per   inventare cattiverie.  E poi magari sono storie  vere,  solo  che  non   riguardano  la  Laide,  è  tanto facile trasferire la malignità da una   all'altra,  anche la signora Ermelina in fondo ha tutto l'interesse di   staccarlo  dalla Laide,  con quell'aria bonacciona probabilmente fa di   tutto per disamorarlo forse che la Laide non le ha  fatto  perdere  un   ottimo  cliente?  E lui cretino a bere quelle infamie.  Ma oramai sono   passati quattordici giorni,  lui non ce la fa più a lottare,  in certi   momenti  gli  sembra  di  vivere in un orribile sogno,  vaneggiamento,   appannato delirio, in certi momenti la Laide non esiste più, non è mai   esistita, non la vedrà mai più, eppure lui ne ha bisogno, senza di lei   non può vivere senza di lei il mondo è vuoto e privo di senso, come un   automa sale nel suo studio,  Dio solo sa se riuscirà a farcela con  il   lavoro,  un giorno o l'altro si renderanno pur conto che lui è un uomo   finito,  apre la porta,  stranamente la luce è  accesa,  vede  al  suo   scrittoio  seduta  lei  che  lo  aspetta  e  lo guarda con tondi occhi   spauriti. E' pallida, sbattuta, mal pettinata.   "Sono qua" dice.   "E come la va?" fa lui con quel poco fiato che gli resta.   "Come vuoi che vada? Male."

 

 

30.

   Ripresero a trovarsi come se nulla fosse accaduto.  Lei caparbia a non   riconoscere  il  suo  torto  per  la  sera  di fine d'anno.  Era stata   veramente con un'amica,  ripeteva,  e se non aveva voluto  uscire  con   Antonio  era soltanto perché Antonio non aveva fiducia in lei,  questo   non lo poteva sopportare.  Non gli era  ancora  entrato  in  testa,  a   Antonio, che lei non gli aveva mai detto bugie?   Ripresero  a  trovarsi  come  prima,  anzi  più spesso ma dinanzi a sé   Antonio non riusciva a scorgere luce.  Anzi di giorno in  giorno,  con   l'abituale  inquietudine,  cresceva  un sentimento oscuro,  come se un   termine, una conclusione,  una catastrofe,  stesse avvicinandosi.  Più   che  mai  capiva  che  un  atto  di  forza,  una completa e definitiva   rinuncia sarebbe stata la salvezza.  Non se  ne  sentiva  capace.  Con   ossessione  dolorosa il suo pensiero era sempre concentrato su di lei,   che  cosa  faceva,   dov'era,   con  chi  era,   che  trucchi   stesse   complottando.   E  come  l'uomo  sulla  zattera nel mezzo dell'immenso fiume,  pur non   distinguendo le sagome delle rive nelle tenebre,  si  accorge  che  la   corrente  accelera trascinandolo verso un'ignota fossa,  così Antonio,   senza saperne spiegare il perché,  sentiva approssimarsi  la  scadenza   inevitabile   ch'egli   aveva  continuato  a  rinviare  con  insensata   ostinazione.  Quella specie di gorgo da cui si era lasciato agganciare   quasi un anno fa, serrava progressivamente il suo ritmo, la discesa si   convertiva  in precipizio.  Gli pareva perfino in certi momenti che la   Laide lo guardasse con una sorta di apprensione,  quasi  pensasse:  in   fondo  tu  Antonio  sei  un  brav'uomo,  quello  che  sta accadendo mi   dispiace, mi dispiace perdere il tuo aiuto, ma non può essere diverso,   la colpa non è mia.   Ora era intervenuta una complicazione nuova. Una zia di Laide, l'unica   persona  della  famiglia  che  le  volesse  bene,  diceva,  era  stata   ricoverata in ospedale,  malata di cancro.  Siccome stava molto male e   l'assistenza notturna all'ospedale  in  pratica  mancava,  a  turno  i   parenti  più vicini dovevano andare ad assisterla.  Ogni tre o quattro   notti toccava a lei Laide.  L'ospedale era  lontano,  dalle  parti  di   porta  Nuova,  più  che  un  vero  ospedale era un piccolo ospizio per   vecchie signore malate. La zia era stata sistemata in una cameretta ma   un altro letto non c'era.  Così bisognava contentarsi di una  poltrona   in  vimini.  Alle volte,  se la zia si acquietava,  verso le una una e   mezza,  la Laide se ne tornava a casa.  Altre volte  bisognava  starle   accanto fino all'alba.   Poteva  opporsi  Antonio?  Né  lo  sfiorò il sospetto che tutta questa   storia potesse essere un inganno.  Oltre al resto,  sarebbe stato così   facile,  per lui,  controllare.  E la Laide poi gli raccontava,  della   zia, particolari così precisi, i sintomi, l'operazione subita,  i nomi   dei  medici,  le raccomandazioni che le faceva,  i suoi desideri per i   funerali e per la tomba.  Non solo: dopo una di queste notti di veglia   la  Laide  era passata da Antonio in studio ed era proprio come chi ha   passato una notte in bianco;  infagottata  in  due  tre  vecchi  golf,   magra, pallida, due cupe occhiaie sotto gli occhi.   Ma  ci  fu  un  curioso  episodio.  Una  sera ch'erano usciti a pranzo   insieme,  contrariamente al solito la Laide propose di andare  a  casa   sua.  L'infermiera  da  una settimana era partita,  non c'era nessuno,   avrebbero potuto fare l'amore. Poi, verso le undici e mezza lei doveva   andare a prendere la sorella per  andare  insieme  all'ospedale  dalla   zia.  Però sperava di poter tornare a casa,  verso la una o le due. La   Laide era piuttosto giù di corda ma quella sera  in  letto  si  mostrò   affettuosa  come  non  accadeva  da  mesi.  Benché a pranzo non avesse   bevuto,  sembrava perfino eccitata.  Finalmente una serata simpatica e   allegra. Alle undici e un quarto si preparò per uscire.   "Come mai metti il vestito nuovo? Per passare una notte in ospedale?"   "  Sai  lo volevo far vedere a mia zia,  è ancora tanto curiosa,  vuol   sapere tutto di me, perfino cosa ho mangiato a colazione e a pranzo. E   poi ti ho detto,  stasera penso proprio di poter tagliare la  corda  e   tornarmene  a  dormire a casa.  Non te lo dico cos'è passare un'intera   notte su quella maledetta poltrona"   "Allora ti accompagno io da tua sorella?"   "Oh no Antonio, tu dovresti rimanere qui."   "A fare cosa?"   "Sai quella mia amica di Venezia?  deve venire a Milano e mi  ha  dato   appuntamento telefonico verso mezzanotte.  Può anche darsi che poi non   telefoni perché io ieri intanto le ho scritto.  Ma se telefona e  dopo   non trova nessuno?"   "Be', e io che ci posso fare?"   "Tu, se telefona, dovresti dirle che c'è questa mia zia all'ospedale e   in questi giorni sono molto impegnata.  Comunque,  se vuol venire,  ti   dica se devo fissarle una camera in albergo."   "Scusa, e non potresti aspettare qui fino a mezzanotte?"   "No che dopo arriviamo all'ospedale troppo tardi, già fanno un mucchio   di questioni se si entra dopo le dieci."   Lei se ne va, lui resta solo considerando la stranezza di tutta quella   storia.  Perché la Laide stanotte  deve  andare  all'ospedale  con  la   sorella? E perché deve andare a prenderla? E perché ha evitato che lui   l'accompagnasse?  Non  è poco convincente quella storia della chiamata   telefonica?   Nessuno infatti telefona. A mezzanotte e un quarto rincasa. All'una la   Laide lo chiama,  vuol sapere se l'amica ha telefonato,  gli dice  che   dall'ospedale  è  scesa un momento in un bar all'angolo,  che ha fatto   appena in tempo perché stavano per chiudere, che adesso torna su dalla   zia,  che la zia stanotte è abbastanza calma e che lei spera di  poter   tornare  a  casa  a dormire.  "Ti telefonerò domani mattina in studio.   Ciao."   E perché la Laide gli ha telefonato a casa?  Ce n'era proprio bisogno?   Curioso: è come se avesse voluto assicurarsi che Antonio era tornato a   casa sua.   Il dubbio.  Più Antonio ci pensa,  più il contegno della Laide risulta   poco persuasivo.  Troppe complicazioni,  troppi pretesti per andarsene   da  sola,  troppi  colpi  di  telefono.  Vediamo un po': se lei avesse   voluto essere libera per trovarsi con qualcuno e poi  tornare  a  casa   con costui,  che cosa avrebbe potuto architettare?  Esattamente quello   che ha fatto stasera.  Tranquillizzare Antonio con un insolito slancio   carnale,  che poi andasse a dormire in pace,  accampare la visita alla   zia per potersene andare prima di mezzanotte,  inventare la telefonata   da Venezia per evitare che lui la accompagnasse,  telefonare a casa di   Antonio verso l'una per essere sicura che lui era già in casa.   Antonio è disteso in letto,  con la lampada accanto al  letto  accesa,   irrigidito nella montante angoscia,  fissa enormemente,  sul soffitto,   le due crepe a  forma  di  7  che  ormai  gli  sembrano  diventate  un   enigmatico   ammonimento,   il   simbolo   grafico  della  sua  stessa   afflizione.  Sono le tre passate quando all'improvviso  la  trama  del   supposto  inganno gli si rivela con una chiarezza lampante.  Provare a   telefonarle?  Non può servire a niente  Lei  risponderebbe  di  essere   rientrata poco prima.  Andare direttamente a casa sua? Ma non è meglio   aspettare domattina?  Se c'è uno a casa sua,  domattina  alle  otto  e   mezza  è ancora in letto garantito,  dopo una notte d'amore.  E la sua   visita risulterà meno strana.  Escogiterà un pretesto.  Per esempio le   dirà che per motivi di lavoro deve andare alla Città degli Studi e che   passando è salito a darle un salutino. In fondo un pensiero gentile.   Che notte spaventosa con le ore che non passano mai e il sonno che non   viene.  Alle  sette  e mezza è già alzato,  alle otto è già in strada.   Benché sembri impossibile, tutto continua come al solito,  un flaccido   sole  sta  uscendo svogliatamente dalla bruma,  la gente entra ed esce   dalle case,  dai negozi,  dai caffè,  uomini e donne camminano con  le   solite   facce  tese  al  lavoro  e  alle  preoccupazioni  quotidiane,   sull'angolo due garzoni muratori scherzano fra  loro,  auto  e  camion   passano   frenetici,   non  si  nota  intorno  il  più  piccolo  segno   premonitore, nessuno evidentemente pensa alla Laide,  nessuno immagina   che forse tra pochi minuti il mondo sprofonderà.   Sono  le otto e un quarto,  quando ferma la macchina dinanzi alla casa   di Laide.  Guarda in su.  Le tapparelle sono chiuse.  Entra.  Dal  suo   sgabuzzino  la  portinaia  lo  vede  e  gli  fa uno svogliato cenno di   saluto.  Esce dall'ascensore al terzo piano.  Sul  pianerottolo  resta   qualche istante, se mai di là dell'uscio si odano delle voci. Ma tutto   è silenzio.   Finalmente  preme il bottone del campanello.  Potrebbe aprire la porta   con la chiave ma così gli sembra più corretto. Nessuno risponde.   Mentre nel petto l'inferno sale sale,  e il cuore martella,  suona una   seconda volta a lungo, a lunghissimo. Niente.   Allora  preme  il bottone a fondo,  protestino pure i coinquilini.  La   suoneria echeggia prepotente, si direbbe che l'intera casa ne vibri.   Quando finalmente ricorre alla chiave, sa già che è inutile Difatti la   Laide ha lasciato la chiave sua nella toppa.  La chiave di Antonio  fa   appena mezzo giro.   Suona  una quarta volta.  Gli pare,  nell'appartamento vicino di udire   voci di protesta.   Come un pazzo discende,  non chiede niente alla  portinaia,  incalzato   dal bestiale affanno corre a un bar vicino e si fa dare un gettone del   telefono. Poteva immaginarselo: la linea è libera ma nessuno risponde.   Se  la  Laide  rispondesse,  sarebbe costretta ad aprire,  e Antonio è   troppo vicino a casa;  l'uomo che c'è con lei non farebbe in  tempo  a   uscire,  probabilmente è ancora nudo in letto. Che può fare? Sconfitto   ancora una volta?  La Laide troverà la spiegazione più  innocente.  In   questo istante,  mentre egli esce dal caffè, lei magari lo sta spiando   da uno spiraglio delle tapparelle, vittoriosa.  (E una voce sonnolenta   dal letto.  "Be',  il vecchietto se ne è andato?... Su, da brava torna   qui al calduccio!".)   Facile previsione.  Quando Antonio dopo un quarto d'ora telefona dallo   studio, finalmente la Laide risponde.   "Ma  si  può  sapere perché non sei venuta ad aprire?  Avrò suonato il   campanello per almeno dieci minuti."   "Ah sì, mi pareva di aver sentito qualche cosa ma avevo un sonno tale.   Poi la porta della camera era chiusa e io ho creduto qualcuno suonasse   nell'appartamento vicino."   "Impossibile che tu non abbia sentito."   "Se avessi sentito sarei venuta a aprire  no?  Ti  giuro  che  non  ho   sentito niente.  Ho la testa che mi sembra un pallone.  Non so neppure   io  come  mai  adesso  ho  sentito  il  telefono.  Sono  imbottita  di   "gardenal".  Avevo  un  tal  mal  di  testa  questa  notte quando sono   tornata. Tre pastiglie in un colpo solo. Ma come mai sei venuto?"   "E poi che cos'è questa storia di chiuderti dentro a chiave? Allora le   chiavi che mi hai dato a cosa servono?"   "Senti,   tesoro,   devi  avere  pazienza.   Da  quando  non  c'è  più   l'infermiera, a star sola di notte in casa ho paura."   Sono spiegazioni sufficienti?  No.  Eppure a ogni parola di lei è come   se un miracoloso balsamo spegnesse la sua angoscia. La voce ha un tono   così sincero e autentico,  impossibile che  siano  bugie.  Neppure  un   demonio riuscirebbe a mentire così bene.   E  poi,  e  poi  è così dolce crederle.  Adorabile viltà.  Forse o non   forse, un giorno Antonio sarà costretto a non crederle più, a prendere   la terribile decisione.  Ma per adesso ancora no,  tutto formalmente è   ancora salvo, tutto può continuare come prima .

 

31.

   No,  sentì il bisogno di sapere.  Un amico gli fece conoscere un certo   Imbriani già tenente dei carabinieri, ora detective privato.  Imbriani   venne  nel  suo  studio,  è  un  uomo  sui trentacinque,  in apparenza   simpatico e aperto.   "Una specie di ospizio per vecchie signore?"  chiede  alla  fine.  "Sa   come si chiama esattamente?"   "Asilo  Elena,  mi  ha  detto.  In  via  Sormani,  dev'essere una cosa   modesta."   "Via Sormani via Sormani... non ricordo."   "Dev'essere dalle parti di porta Nuova, così almeno lei mi ha detto."   Imbriani ripone il taccuino.   "Be'" dice "a quanto pare, la cosa non dovrebbe essere difficile. Anzi   molto semplice,  direi.  Se non sorgono delle difficoltà.  Ma le  dico   subito, io ho troppa pratica di faccende come questa... le dico subito   che con ogni probabilità la ricerca sarà inutile..."   "Inutile perché?"   "Non  troveremo  niente.  Tutto sarà,  immagino,  precisamente come la   signorina dice."   "Lei come fa a saperlo?"   "Caro dottore,  in questo caso è troppo facile  un  controllo.  Se  ci   fosse qualcosa da nascondere,  mi sembra, la signorina avrebbe trovato   un alibi, diremo così, più sicuro, non ci vuol molto, e lo dico contro   il mio interesse,  per sapere se in una casa di  salute  c'è  un  dato   malato e per sapere chi lo va a trovare, soprattutto di notte."   "E quando lei pensa di poter sapermi dire qualcosa?"   "Entro domani,  dopodomani al massimo,  spero,  sempre che non sorgano   delle difficoltà."   "Difficoltà di che genere?"   "Non posso immaginarlo.  Ma è sempre bene,  nel mio  mestiere  almeno,   prospettarsi tutti gli ostacoli possibili."   Il  tenente  Imbriani se ne va.  Antonio resta solo.  E' tardi.  Nello   studio c'è uno sgradevole silenzio.  Il tenente Imbriani  ha  ragione:   sembra  impossibile  che  la  Laide,  per  mascherare  degli  incontri   notturni abbia inventato una storia così ingenua.  Eppure  Antonio  la   conosce.  Sa quanto la ragazzina faccia affidamento sulla ingenuità di   lui. Nel momento che il tenente Imbriani è uscito dall'ufficio Antonio   ha capito di avere aperto finalmente  la  porta  proibita.  Dietro  la   porta  non sa ancora che cosa ci sia precisamente,  ma è sicuro che ne   usciranno  nuove  angosce  e  umiliazioni,   che  ne  uscirà  l'ultima   menzogna,  lui  se  la  troverà  di fronte,  non potrà neanche volendo   guardare da un'altra parte fingendo di non  avere  visto  e  scoccherà   l'ora che da mesi e mesi lui teme come condanna irrimediabile .   Puntuale  alla  promessa  fra  cinque  minuti  la Laide gli telefonerà   rassicurandolo con precise informazioni come una premurosa e innocente   mogliettina. Eppure già egli sente che la Laide si sta allontanando da   lui, questa piccola creatura verde, spavalda, impertinente, autentica,   sta ormai trasformandosi in un ricordo inverosimile,  in una specie di   favola,  di  personaggio inventato.  Per un istante era uscita dal suo   mondo popolaresco,  dissipato e  misterioso,  lui  si  era  illuso  di   poterla  portare  dentro  nella  propria  vita,   borghese,  onesta  e   rispettabile,  la  vita  che  egli  in  fondo  disprezza  ma  che  gli   appartiene  per  la  forza del sangue.  No,  l'amore non è bastato.  I   soldi, il rispetto, la devozione, le premure, non sono bastati. A poco   a poco lei ora si stacca da lui, esce dalla sua casa e dalla sua vita,   col suo impavido passo ecco che si incammina verso l'enigmatico  cuore   della sua città che nessuno di solito vede, fra squallidi e fortissimi   scenari,  attraverso  gli  scrostati  fumigosi  cortili  stillanti  di   pioggia, fra i riverberi del lusso, negli antri degli antichi palazzi,   giù per gli interminabili corridoi di  linoleum,  negli  angoli  delle   catacombe del vizio,  fra cigolii di pneumatici,  frastorno di tornii,   urla,  pianti e risate,  andirivieni di uomini instancabili e stanchi,   affrettati  baci,  ombre  di avventurieri controluce,  camici verdi di   chirurghi, agguati telefonici, un folle rimescolio di desideri, sforzi   e illusioni che brucia confuso nella folla la quale arriva riparte  si   mescola  incalza si rompe e sparisce mentre un'altra identica folla si   avventa e sprofonda nel gorgo.   Di là degli edifici che circondavano il suo  studio  egli  la  sentiva   ritrarsi  in  sé,  questa  segreta  Milano  estranea alla cronaca e ai   Baedeker.  E le sue case,  i suoi ispidi tetti,  le sue strade  troppo   rapidamente  vissuti  si  rinchiudevano lentamente fra golfi di buio e   riflessi lividi da delitto, allontanandosi da lui Antonio e portandosi   via la sua Laide per sempre.   Ancora quella sensazione di essere entrato in un sogno sbagliato e non   adatto a lui,  e una forza di gran lunga superiore alla sua volontà  e   alle  sue  convinzioni  lo  trascina  via  quasi  egli fosse un povero   disgraziato qualsiasi e non un  uomo  di  cinquant'anni,  con  la  sua   rispettata  posizione  nel  mondo.  Come  l'altezzoso principe che per   ordine del re viene all'improvviso denudato,  frustato in  pubblico  e   incatenato  a un remo di galera;  e il re non spiega,  e lui non sa il   perché eppure confusamente capisce che un motivo giusto deve esistere.

 

32.

   Cerca sulla guida la via Sormani.  "Corso Garibaldi  terza  a  destra"   legge  "per  vicolo del Fossetto" strano,  proprio il budello dove due   anni prima quella sera aveva visto sparire la tipa  impressionante  di   stampo  spagnolo.  Che  poi credette essere la Laide.  Ma la Laide gli   aveva garantito di non esserci mai stata.   Sono le undici e un quarto.  E stasera Laide gli ha detto che verso le   dieci andava a trovare la zia.  Il bisogno di sapere, di vedere. Forse   ha bevuto troppo, non lo spaventa ciò che qualche ora prima lo avrebbe   sgomentato, l'idea di presentarsi di persona all'ospizio e di chiedere   di lei,  il rischio  di  trovarsi  in  una  situazione  esageratamente   imbarazzante, o di fare imbestialire la Laide, lui lo sa, sono proprio   le cose che la feriscono di più, quel voler mettere il naso nelle cose   sue private, di indagare, quel dimostrare una completa sfiducia.   Ha  deciso  d'andare,  tutta  la  rabbia  accumulata  in tanti mesi di   inquietudini e di attese, sì,  deve essere ubriaco,  perfino la strada   dove  abita gli sembra in certo modo deformata,  con case che in tanti   anni non ha mai visto,  anche la macchina si  muove  con  una  curiosa   "souplesse",  sembra che anticipi, nelle frenate e nelle curve, i suoi   desideri.   Lascia la macchina in piazza San Simpliciano e si avvia a piedi,  poca   gente,  si  accorge  di  camminare  con una fretta assurda.  Rallenta,   accende una sigaretta,  eccolo all'angolo.  Nero il vicolo  antico  si   addentra  fra  antiche  case con larghe brecce di mattoni che appaiono   dalle squamature dell'intonaco.   C'è un lampione dove il vicolo si allarga in una minuscola  piazzetta.   Un uomo è intento a chiudere il lucchetto di una saracinesca. Un altro   è fermo e fuma, appoggiato all'angolo di una casa.   Da una parte esce una donna vestita di scuro con una sporta, lui le va   incontro:   "Scusi signora per caso sa dove è l'asilo Elena?"   La donna si ferma a guardarlo scuote il capo.   "La pensione Elena? Non lo domandi a me, sa? A me non lo domandi."   E se ne va come irritata.   Che  significano  le parole della donna?  Che significa il suo modo di   fare?  Antonio si guarda intorno,  per fortuna l'alcool lo mantiene in   quella  convulsa  eccitazione.  Deve  essere  quella là a destra,  via   Sormani. E c'è la targa ma nella penombra non si legge.   "Scusi" domanda all'uomo fermo che fuma "lei sa dov'è la via Sormani?"   L'uomo è un giovanotto,  curioso poco fa  gli  sembrava  un  uomo  sui   cinquanta cinquantacinque anni,  invece è un giovanotto,  dalla faccia   ironica e bonaria.   "Cerca qualcuno?" è la risposta,  come se quello fosse un feudo suo  e   lui  avesse  diritto di sapere.  "Via Sormani" ripete Antonio "l'asilo   Elena."   "Ah l'asilo Elena!" sorride e getta una boccata di fumo.  "La pensione   Elena!"   "E' qui?" fa Antonio, un po' disorientato.   "Di  qua,  di  qua" fa il giovanotto facendo cenno con un pollice alla   stradetta "una  casa  gialla,  non  può  sbagliare,  c'è  una  lampada   all'ingresso."   "Tante grazie."   "Non c'è di che" e di nuovo sorride.   La piccola strada è malamente illuminata,  un gatto,  un suono lontano   di pianoforte, ma è pianoforte o la radio? A sinistra un androne mette   in un cortile buio,  Antonio si volta,  il giovanotto è  sempre  fermo   all'angolo e lo sta guardando.   Al riverbero dei lampioni rari e fiochi, avanza per una cinquantina di   metri  ma  la  casa  gialla  con la lampada all'ingresso non c'è,  ora   Antonio nota che dinanzi a un portone sta una prostituta in attesa che   fuma,  ha i capelli corvini a pallone,  lo guarda  con  un  dolciastro   sorriso, allora Antonio le chiede:   "Mi scusi signorina lei mi sa dire per caso l'asilo Elena?"   Si schiudono le rosse labbra, un dente d'oro luccica.   "A me lo chiedi bel signore, a me?" e fa una fiammeggiante risata. "Ma   là caro, dove c'è quella casa gialla."   Fa segno,  Antonio si volta perché la donna ha fatto segno alla strada   da dove lui viene,  adesso sì la vede poco più in là la casa gialla ha   una  piccola  porta d'ingresso e proprio sopra un lanternino acceso di   ferro battuto  coi  vetri  rossi  smerigliati  curioso  c'era  passato   proprio davanti senza vederla, addirittura incomprensibile.   "Grazie" fa Antonio e si avvicina alla casa gialla. La porta è chiusa.   Antonio guarda in su.  E' una casa a due piani,  abbastanza in ordine,   ma vecchia, le persiane sono tutte chiuse,  ma da un paio filtra luce.   Che strano ospizio, pensa, neanche una targa, poi Si decide a suonare.   Una serratura,  di là della porta,  che scatta, dei passi passi rapidi   come di sandali con tacchi. La porta si apre. E' una donna sui trenta,   gli occhi e le labbra carichi di trucco, intensamente volgare la bocca   così larga e sottile.   "Desidera?" domanda con un melenso sorriso   Non ha trent'anni, è una vecchia, ne avrà sessanta come minimo.   "E' qui l'asilo Elena?"   "Precisamente. Chi desidera?"   "Cercavo... cercavo la signorina Laide Anfossi."   "Ah la Laide" fa la vecchia,  e assente ripetutamente col capo come se   fosse  al  corrente di tutto.  "Allora si accomodi di sopra,  al primo   piano. Suoni, e troverà la sua Laide."   Una rampa di scale con una lurida passatoia rossa,  una tripla porta a   vetri  smerigliati,   una  etichetta  d'ottone:  "Elena  Pistoni".  La   tentazione di fuggire, ma il dito ha già premuto il campanello.   La luce che si accende,  dei passi,  un'ombra,  chi apre è una signora   magra, vestita di nero, assai distinta.   "Il signore?" chiede, si capisce che è in sospetto.   "E' qui l'asilo Elena?"   La signora ride: "Be' chiamiamolo pure così.  Lei,  scusi...  chi l'ha   mandato?"   "Mi perdoni"  fa  Antonio  "cercavo  della  signorina  Anfossi,  Laide   Anfossi...  mi  ha  detto  che  stasera  veniva  per  assistere la zia   malata..."   "Oh" e un compiaciuto stupore illumina la  simpatica  faccia  "è  così   allora?  Bene,  bene,  si accomodi... Ma la Laide, pardon la signorina   Anfossi credo sia un momento occupata."   "Potrebbe chiamarla?"   "Oh sì sì certo, dovrebbe però avere pazienza un momento, si accomodi,   la prego."   Lo fa entrare in un salottino, mobili moderni di gusto spaventoso,  un   tappetino  falso,  la  televisione,  un  servizio  da tè in porcellana   argentata, ai muri tre rozze copie di Millet.   "Si sieda, si sieda... Lei mi scuserà... se vuol fumare,  là in quella   scatola...  Cinque  minuti,  non  di  più...  Appena la Laide è pronta   gliela mando."   "Che significa pronta?" si chiede Antonio,  ora misura l'imprudenza di   essere venuto.   "E' di là dalla zia?" chiede, con una residua speranza.   La signora per un istante lo guarda, incredula. Poi:   "Sicuro"  e accenna di sì col capo a ogni parola,  come ripe tesse una   formula. "Naturalmente.  La zietta non sta tanto bene questa sera!" Se   ne va con una risatina.   Antonio  resta solo,  siede su una poltroncina in stile nove cento con   profilatura dorata, è solo,  uscendo la signora ha lasciato un profumo   nauseabondo di muschio,  ha tirato una tenda,  di là nel silenzio ogni   tanto sommesse voci una risata.   Nel breve intervallo rimasto fra lo stipite  e  la  tenda,  tacita  si   profila una figura. Qualcuno che occhieggia nel salotto.   Malessere,  voglia disperata di fuggire.  Antonio si alza in piedi. La   tenda lentamente viene scostata e compare una ragazza scarmigliata  in   vestaglia, bruna, bellissima la faccia stanca e apatica.   "Lei signore" dice,  con sorprendente lentezza "lei signore aspetta la   Laide?"   "Sì."   "E lei... chi è?"   "Io... io sono un amico."   In silenzio la ragazza lo osserva. Poi a voce bassa:   "Se fossi in lei...  io..." e con la  destra  fa  un  gesto  come  per   invitarlo ad andarsene.   "Perché? Sta male? stasera la zia?"   "Come?"   "Dico, la zia della Laide. E' qui ricoverata, no?"   "Già"  fa  la  ragazza  con la identica espressione della signora poco   prima "la zia... la zia."   Di nuovo tace,  di nuovo lo guarda come se volesse  decifrare  qualche   cosa. Finalmente:   "La zia... la zia... sapesse come sta male la zia stasera..."   "Sta male, dice..."   "La zietta... per fortuna c'è la Laide che la assiste... povera zia...   Venga,  venga...  su  venga  che  gliela  faccio vedere...  nessuno si   accorgerà di niente."   Lo prende per una manica, lo invita a uscire.   "Ma io..."   "Venga,  le dico...  Non vuol vedere la  Laide?  intenta  a  opere  di   bene?... venga allora... Ma faccia piano con le scarpe."   Allora Antonio si accorge che la ragazza ha i piedi nudi.   Dall'anticamera la ragazza lo introduce in uno stretto corridoio buio,   apre una porta, entrano in una stanza anch'essa buia. Ma a sinistra da   un uscio coi vetri smerigliati e coperti da una tendina a fiori filtra   la luce di una vicina stanza.   "Venga qui... e stia fermo... La sente?"   Nella  stanza  vicina,  una  voce  d'uomo,  e  poi  una voce di donna,   dall'accento milanese,  con un caratteristico  erre.  No,  no,  perché   questo supplizio? Antonio fa per ritirarsi ma la ragazza lo tiene.   "Ecco  la  Laide...  non  è  interessante?...  povera zia malata!" gli   sussurra.   Ora egli ascolta.  Attraverso la porta a vetri le voci  distintissime,   come se i due fossero là presenti.   Lui: "Mica male, complimenti. Piccine ma graziose... fa' sentire...".   "Dài... pensa a spogliarti piuttosto."   "Prima un bacino però."   Silenzio.   Poi l'uomo: "Senti una cosa, bellezza... Tu come vivi?".   "Come sarebbe a dire?"   "Dico. Tu vivi esclusivamente di questi... di questi capriccetti?"   "Io... io ci ho un amico."   "Ah? E sgancia?"   "Be', non posso lamentarmi..."   "Vecchio?"   "Vecchio no, certo non è mica un ragazzetto."   "E tu gli vuoi bene?"   "Che discorsi..."   "E ti lascia libera?"   "Per carità. Un geloso d'uno."   "E allora come fai? Per venire qui, per esempio come fai?"   "Se  è  per  questo.  Gli  dico  che ho una zia malata e di notte devo   andare a assisterla."   "Una zia malata! Magnifica! E lui l'ha bevuta?"   "Ah, lui beve tutto."   "Allora cavami una curiosità."   "Che cosa? Se tu ti spogliassi, intanto"   "Se ti dà abbastanza soldi, come mai vieni qui?"   "Di soldi, non ce n'è mai abbastanza, diceva mio nonno."   Una risata.   "Ma l'hai finita di spogliarti?...  Fa' presto,  ti prego,  che ci  ho   freddo."   Antonio sente la ragazza che gli sussurra:   "Adesso vuoi vedere?"   Lui fa di no con la testa.   "Dài  che  val  la  pena...  Guarda lassù c'è un bel buchino nel legno   della porta... aspetta che ti porto uno sgabello."   La voce dell'uomo: "Di', bellezza, chi c'è qui nella stanza vicina?".   "Nessuno c'è. Non vedi che è tutto spento? Su, dài,  che la signora mi   ha fatto premura."   "Perché? Dopo di me... C'è un'altra zietta da curare?"   "No, no, così, mi levi il respiro... Madonna come sei pesante..."   "E lascia... non avrai mica paura che ti sciupi..."   Antonio con prudenza si issa sopra lo sgabello,  aiutato dalla ragazza   ignota. Infatti là c'è un buco da cui si può vedere. La scena orrenda,   tante volte fantasticata,  come l'inferno,  la distruzione  della  sua   vita stessa,  eccola là.  Un corpo bianco e muscoloso di un giovane in   ginocchio sul letto,  a cavalcioni di lei supina.  Ma la faccia di lei   non  si  vede.  Lui  vede  solo  le  gambe nude divaricate.  Si stanno   baciando? All'improvviso lui si rialza, quasi lei lo respingesse. Ecco   lei che a sua volta si leva a sedere,  appoggiandosi ai cuscini.  Ecco   la faccia.  Ma non è lei.  E' la faccia della Flora, è la faccia della   sua segretaria di studio,  è la faccia tutta dipinta della vecchia che   gli ha aperto poco fa la porta. Ma non è lei. E' una donna orrenda. E'   una  faccia  larga e gonfia da mastino.  Schiudendo le schifose labbra   fissa l'occhio di Antonio attraverso il minuscolo foro della  porta  e   ride, ride, si spalanca in una selvaggia risata.   Si  riscuote Antonio,  sorpreso di essersi addormentato nella poltrona   della sua camera da letto. Dio che sogno.   Dunque non era vero, dunque la realtà è completamente diversa?   Ma l'ombra turpe dell'incubo è  dentro  di  lui,  riempie  la  stanza,   ristagna intorno sul mondo.

 

33.

   Tutto poi accade in un precipizio e senza colpi. Così come la sventura   da  lungo temuta si presenta improvvisamente all'uomo in forma scarna,   con formalità banali e l'animo stenta a concepirla.   Al mattino il tenente Imbriani gli telefona in ufficio. E quasi un po'   mortificato per le previsioni che la realtà smentisce.   L'ospizio c'è,  la zia malata c'è ma il capo  infermiere  esclude  nel   modo  più  deciso le veglie notturne da parte dei parenti.  Di notte i   parenti sono esclusi.  Una ragazza che risponde ai connotati è  venuta   in visita un paio di volte con una signora,  di pomeriggio,  nelle ore   consentite. Niente di più.  "Devo proseguire le ricerche?" "No grazie.   Adesso so quello che mi occorre."   Non  accade  dentro di lui lo schianto.  Anzi una esaltata tensione lo   sostiene.  Lo  sprigionamento  quasi  incredibile  che  dà  l'amore  e   specialmente  l'amore  sfortunato,  è così intenso da permettergli sul   primo momento di tener testa alla disgrazia con una specie  di  furia.   E'  quasi  una  liberazione.  Qualcosa  di  simile,  Antonio  ricorda,   succedeva in guerra  quando  lo  scatenamento  del  fuoco  rompeva  la   snervante  attesa  e  la  paura  si  trasformava  in una tesa e fredda   energia.   Laide gli telefona alle undici. Ha passato la notte dalla zia, dice, è   molto stanca, adesso cerca di riposare un paio d'ore. A colazione deve   andare dalla sorella.   "E così neanche oggi ci vediamo?"   "Non so. Potresti venire a prendermi in via Squarcia."   "A che ora?"   "Alle due e mezza."   "Ti prego però non farmi aspettare come al solito."   Quella  maledetta  via  Squarcia,   quel  tormentoso  su  e  giù   sul   marciapiedi opposto, se lo ricorderà fin che vive.   Intanto non le dice niente.  Antonio non vede l'ora di incontrarla, di   buttarle in faccia ciò che sa, di vederla smascherata, finalmente.  La   odia,  la vorrebbe morta,  la strangolerebbe volentieri, i due pollici   affondati nel bianco collo liscio,  lo spalancarsi nel  rantolo  della   piccola bocca, con tutti i suoi graziosi dentini.   Ma dopo un'ora Laide telefona di nuovo. Purtroppo alle due e mezza non   si  possono  vedere.  Deve  correre  di  nuovo all'ospedale,  la zia è   peggiorata. Antonio deve aver pazienza; il peggio, in fondo, è per lei   Laide, a me tocca fare giorno e notte una simile vita.   "Be', però mi sembra che tu adesso esageri."   "Esageri come? Vorrei vederti te solo in un ospedale come un cane."   "No, dico che esageri con me. Ormai mi sembra..."   "Oh Antonio non dirmi così.  Già che sono stanca morta Che un  mal  di   testa che mi spacca, se ti metti anche tu a darmi dispiaceri..."   "Insomma ho bell'e capito che neppure oggi ci si vede."   "No senti,  da bravo fammi un piacere.  Non potresti andare a casa mia   verso le tre e mezza? C'è il Picchi che da ieri non mangia.  Nel frigo   trovi  un  pacchetto  con  della  carne tritata.  Lì mi aspetti.  Alle   quattro o vengo o ti telefono."   "Figurarsi se vieni."   "Se appena posso, ti prometto che vengo... Come se dipendesse da me!"   Alle tre e mezza in casa di Laide. Il cagnolino sta mangiando.  E' una   delle  prime giornate miti,  non si può dire primavera perché a Milano   la primavera non esiste, e anche se fosse la più radiosa primavera per   Antonio non esisterebbe. Ma l'inverno è già finito.   Gira per l'appartamento guardando le tante stupide e gentili cose  che   ricordano  i giorni perduti per sempre,  le bamboline,  i pupazzi,  le   statuette, le bottiglie di profumi, il vestito giallo e arancione,  il   vestito verde a fiori, il vestito rosso.   Ha aperto l'armadio, solleva la manica del vestito giallo e arancione,   la tocca,  la annusa, le dà un bacio, tanto nessuno lo vede. Se questa   è proprio l'ultima volta, non può non essere l'ultima volta.   Allora gli viene in mente che in basso a sinistra  nell'armadio  Laide   tiene le fotografie e le lettere.  Indiscreto?  Questo scrupolo, nella   sua situazione, sarebbe il colmo dell'imbecillità.   Trova la scatola di cartone con tutti quei ricordi. Si siede sul bordo   del letto, comincia a esaminare e leggere.   C'è una strana lettera di lei lasciata a metà,  senza data,  diretta a   un  certo Stefano Doglia.  Si direbbe il tentativo di riagganciare una   vecchia relazione.  "Sì" è scritto "tu mi portavi a pranzo e in  gita,   ma  ogni  volta  era lo stesso.  Tu continuavi a parlare di lavoro coi   tuoi amici,  a me non mi rivolgevi neanche la parola  ma  guai  se  io   parlavo con qualcuno,  tu lo sai che io ero innamorata di te ma la tua   continua e assurda gelosia era un grande dolore per me.   "Fra  due  che  si  vogliono  bene"  continuava  con   un   improvviso   cambiamento di tono "la fiducia reciproca è l'elemento base. Tu invece   mi trattavi sempre come si trattano le puttane, si vede proprio che io   per te ero soltanto..." E qui lo scritto si interrompeva.   Ne  apre un'altra firmata da un certo Tani.  E' del tempo quando Laide   era in clinica.  Risponde a una lettera di Laide che evidentemente  lo   invocava.  "La tua lettera,  amore mio, mi ha messo addosso una febbre   mai provata.  Oh se avessi saputo prima che tu mi  vuoi  sempre  tanto   bene.  Sì,  incantevole  Laide,  appena  gli  impegni  di lavoro me lo   permetteranno,  e sarà fra breve spero,  volerò subito a Milano da te.   Ti  dò  intanto  tutti i miei baci,  tutto il mio corpo,  tutto il mio   amore!"   E poi trova le lettere di Marcello,  ce ne saranno una dozzina.  Ma ad   Antonio basta una.   Marcello le scrive da Modena,  annunciandole che ha fissato una camera   a due letti all'albergo di Fonterana "Guarda però,  te lo dico subito,   che  al  cantiere  adesso  facciamo  turni continuati e perciò mi sarà   impossibile dormire tutte le notti con te..." Poi  passa  al  registro   romantico: "Non ti so dire,  stellino, con quanta ansia e desiderio io   penso alle tue  ardenti  carezze,  al  fiume  nero  dei  tuoi  capelli   profumati,  ai  palpiti  del  tuo tenero petto,  allo spasimo dei tuoi   interminabili baci; ai tuoi amplessi senza respiro...".   Il telefono. "Ciao, da quanto tempo sei in casa?"   "Sarà mezz'ora."   "Hai dato da mangiare a Picchi?"   "Sì. Tu dove sei?"   "Sono qui al solito caffè vicino all'ospedale."   "E non vieni?"   "Purtroppo oggi non posso. Mia zia ha avuto una crisi."   "Allora senti: tu mi aspetti là al bar e io  in  un  quarto  d'ora  ti   raggiungo."   "No, mi dispiace. Devo tornare su subito."   "Un quarto d'ora, non ci metto di più."   "No, ti dico. Io devo andare."   "Allora  fammi  almeno  un  piacere che non ti costa niente.  Dimmi il   numero del telefono dove sei."   "Ma questo è un telefono pubblico."   "Non importa. Avrà un numero no? Leggi il cartellino."   "Non mi va. Che cosa significa?"   "Significa che tu non sei dove  dici.  Significa  che  sono  stufo  di   queste storie, significa che ne ho piene le scatole che tu mi meni per   il naso come l'ultimo degli imbecilli."   "Se sei stufo non so cosa farci.."   Laide mette giù la cornetta. La sua voce tremava un poco. Impertinente   come al solito e sicura di sé,  ma il terreno di sotto ormai frana. Da   parecchi giorni ormai non sa più manovrare, si direbbe che qualcosa la   trascini,  non ha più tempo di  organizzare  la  difesa,  non  ha  più   voglia,  frettolosamente cerca di tamponare le falle che si aprono qua   e là,  ma lei stessa non ci crede,  capisce che per lei questa  è  una   piccola o grande rovina, ma non sa cosa farci non è più la puntigliosa   e  fiera Laide che marciava dritta col suo passo spavaldo,  oggi è una   sdruscita e affamata ragazza che apaticamente si dibatte per restare a   galla e non ci crede. Ma che cosa l'ha cambiata così? Si è innamorata?   O è il mondo suo da cui ha tentato di evadere,  che imperiosamente  la   richiama?  Antonio è ira,  rabbia,  odio,  eccitazione della lotta. Un   disperato e drammatico vento lo porta.  E  la  vita,  lui  non  se  ne   accorge  eppure  mai  in  così  brevi  ore egli ha vissuto tanto così.   Sconfitto, svillaneggiato, ingannato,  tradito,  eppure vivo,  idiota,   ingenuo,  misero, vile sì ma vivo. Precipitando si dibatte, è la prima   volta che si mette a lottare così.  Esce,  va in studio,  lavora in un   impeto,  esce a pranzo con amici, da molti mesi non era così allegro e   sicuro, alle undici e mezza li saluta, via alla casa di Laide,  ma lei   non c'è,  non ci sono segni né messaggi.  Va di là,  lascia aperte sul   letto le lettere di Marcello e dell'altro.  Aggiunge un biglietto:  "A   te  la  scelta:  non  più dormire fuori,  permettermi di venire quando   voglio,  in qualsiasi ora del giorno e della  notte,  e  la  sera  non   uscire  se  non  con  me.  Altrimenti amici come prima".  Quella notte   dorme, sarà perché ci ha dato un po' dentro col whisky ma per la prima   notte dorme. E al mattino si sveglia con una misteriosa carica,  se ne   frega  è  furioso  è  imbestialito gliela farà vedere a quella carogna   alla  fine  ha  capito  come  bisogna  trattare  le  donne,  schifosa,   maledetta.  Senza  carità  cristiana,  la vorrà vedere sul marciapiedi   sotto la pioggia, stanca brutta e malata,  camminare per ore su e giù,   sotto i lazzi osceni dei giovanotti ubriachi,  anelando a un'occasione   da cinquemila.   Corre in casa di Laide,  guarda intorno,  forse  basterebbe  poco.  Un   segno. Ma il segno non c'è. Non è venuta, non si è fatta viva, intatte   le due lettere lasciate aperte sopra il letto.   Straccia  il  biglietto,  ne  scrive  un altro: "Ora veramente tutto è   finito tra noi.  Occorre forse spiegare il perché?  Lascio  le  chiavi   alla portinaia. Buona fortuna. Addio".   In camera da letto rivede le due lettere lasciate aperte.  Perché?  Se   ne vergogna. Le ripiega. Apre l'armadio e le rimette nella scatola.   Ma di nuovo,  fra quelle  carte,  il  desiderio  di  sapere.  Forse  è   nascosto  qui il segreto.  No,  è meglio non guardare.  Ciò che ha già   letto basta. Ma le dita ansiosamente.  Una busta di cellofane piena di   fotografie. Lei. Com'era? Dove fu? Con chi?   Esce  una  foto  formato cartolina.  Si vede una bambina di sette otto   anni infagottata in un vestito di lana  con  pretese  d'eleganza.  Che   strano. E' una bambina. E' lei?   E'  una  foto presa in una strada di città,  si scorge sullo sfondo un   pezzo di marciapiedi e la base della casa e in questo muro al  livello   del  suolo  c'è un'apertura per dare aria alla cantina ma l'apertura è   stata murata di fresco e si notano quei caratteristici  segni  bianchi   che  ai tempi della guerra indicavano I'uscita di sicurezza dei rifugi   antiaerei. Una foto di molti anni prima dunque,  è parecchio ormai che   sono sparite da Milano quelle ultime tracce della guerra.   La  foto  è stata presa molto da vicino e la bambina guarda in su alla   macchina del fotografo.  La bambina indossa un vestito pesante di lana   che la infagotta un poco ma con pretese di eleganza, fra le mani tiene   non si capisce bene se un orsacchiotto o una bambola, i lunghi capelli   neri, raccolti in alto a ciuffo da un nastro di seta chiara, le cadono   disordinati  da  una  parte  del  faccino  rotondo  e un poco gonfio e   intanto guarda in su all'obbiettivo con un piccolo disarmato e insieme   malizioso sorriso come per dire.  Per  dire  cosa?  Antonio  cerca  di   decifrarlo, è un sentimento preciso, dolce, puro e bellissimo tuttavia   inafferrabile nel suo "patos" misterioso.   Sì,  ecco, la bambina, la piccola Laide che non sa ancora niente della   vita,  guarda come se in quel momento fosse arrivato uno con un grande   pacco per lei e non volesse aprirlo subito per farla un poco sospirare   ma  lei  sa  che il pacco è pieno di regali,  non sa ancora che regali   siano ma pensa che siano regali bellissimi proprio  le  cose  che  lei   desidera di più.  Lui continua a stare là col pacco chiuso, la bambina   sa però che e tutto un gioco e perciò sorride in quel  modo  speciale.   Come è felice dunque, come è tranquilla e fiduciosa, che straordinario   momento da non dimenticare mai più.   La  vita  in  persona  ha  portato il grande pacco dei suoi doni e non   resta che da tagliare gli  spaghi  colorati  e  aprire  l'involto  per   sapere.  Certo per una bambina così graziosa e innocente devono essere   dei regali stupendi,  chissà,  una  giovinezza  spensierata,  eleganze   divertimenti e amori,  la celebrità forse, la ricchezza e una casa tra   il verde piena di sole, un marito bello bravo e innamorato,  una serie   interminabile  di  felici  stagioni,   giù  giù,   fino  all'orizzonte   lontanissimo, invisibile da tanto lontano. I doni della vita.   Eccoli, i doni della vita, nella camera da letto al terzo piano di via   Schiasseri,  quei banali mobili,  quell'affannamento  del  giorno  per   giorno  in  cerca  di chissà cosa,  quelle lettere miserabili,  quelle   boccette di creme e profumi, quegli abiti e scarpe nell'armadio,  quei   ricordi  di  cento  uomini  sconosciuti,  quello  sbandato dibattersi,   quelle corse in tassì da un capo all'altro di Milano quelle telefonate   quei  trucchi  bugie  appuntamenti  spogliarsi  rivestirsi  spogliarsi   quella  breve  giovinezza  che  tra poco tempo sfiorirà quella discesa   inavvertibile di gradino in gradino quel non accorgersi di essere sola   mentre invece è sola spaventosamente,  intorno non c'è per lei  dietro   ai  tanti  sorrisi  non  c'è che il desiderio del suo corpo,  gusto di   farsi belli del suo corpo smania di cavar soldi dal  suo  corpo  e  il   disprezzo che sale, e oggi si nasconde dietro ai complimenti perché la   maschietta  è  ancora  giovane e bella ma domani calando la freschezza   della carne si nasconderà un po' meno e  un  giorno  sarà  scoperto  e   totale e uno solo le vuol bene veramente ma quest'uno è inutile perché   lei  non lo può soffrire,  per lei è un incubo che non ne può più,  di   qui il gusto di tradirlo e umiliarlo,  lo sa anche lei che  un  giorno   l'inganno  non  potrà  durare  più  ma  è  più  forte di lei e così va   precipitando fra le mille luci risate  e  suoni  e  intorno,  che  con   deliziose  frustate  la  incita  a precipitare,  intorno la città nera   fredda caliginosa e nemica.   La bambina un giorno lontano guardò in su  con  un  piccolo  timido  e   perfin malizioso sorriso: il pacco è chiuso - voleva dire - ma io sono   furba, io so cosa c'è dentro, io le conosco tutte le belle cose che ci   sono dentro. E perciò sorrideva. Oh se avesse potuto sapere. Adesso la   bambina  non  esiste più da un pezzo non esiste più e al suo posto c'è   una apparente ragazzina che ragazzina  non  è  perché  troppo  pratica   d'amori,  una donna c'è dalla faccia tirata che si guarda intorno come   una bestiola braccata  e  intanto  fugge  testardamente  diretta  alla   rovina.   Ora  Antonio  è  di nuovo a casa sua,  ahimè il furore si è spento,  è   venuta la notte,  gli uomini hanno lavorato,  le luci  delle  case  si   spengono  a  una  a una e nessuno sa ciò che è successo.  Alle otto di   sera la Laide è comparsa nel suo studio,  non era ancora stata a casa,   non  aveva  visto  il  suo  biglietto,  diceva.  Ma era chiaro che era   l'ultima bugia.   "C'è qualcuno,  no?  c'è qualcuno dietro a tutto questo?" Lei  con  la   testa aveva fatto cenno di sì.  Lui era seduto allo scrittoio,  lei si   era fatta vicina,  gli si faceva  contro  addirittura  con  le  gambe.   "Senti  non  uscirò più,  farò tutto quello che vuoi,  se vuoi resterò   sempre chiusa in casa."   Disteso sul letto,  gli sguardi fissi alle maligne crepe del soffitto,   egli la rivede ancora, quel faccino pallido e spaurito. L'altare della   città,  miraggio della fanciullezza, costellazione di intime luci e di   carezze, si frantuma e sprofonda.   No, le ha detto Antonio,  sarebbe tutto inutile,  per due mesi penserò   ancora  a  te,  domani  ti manderò l'assegno,  ma lo capisci di avermi   fatto soffrire? Lei ha fatto segno di sì. Via, nel rossastro alone che   sovrasta l'immenso conglomerato  delle  case,  volano  nella  notte  i   torpidi fumi della nafta, sconvolte e dirupate bandiere, e un ritmo di   cupa  musica  a  martello  le trascina lentamente verso le caverne del   settentrione.   Vai adesso, ti prego, le ha detto, devo fare un lavoro urgente. Si era   decentemente dominato,  non aveva fatto  scene.  Lasciami,  ti  prego,   altrimenti  non  faccio in tempo.  Come se quello stupido lavoro fosse   più importante di lei,  come se quell'addio fosse  un  saluto  come  i   soliti  e  all'indomani  si  fossero  dovuti  rivedere e invece non la   rivedrà mai più, la nera Milano antica e tenebrosa sta per riprenderla   e inghiottirla,  lei sparirà nel labirinto,  per  un  istante  il  suo   sorriso  di  piccola teppista balenerà specchiato nella porta a vetri,   poi nella convulsa folla che si preme nell'andito il profilo della sua   nuca sparirà in un lontano frastuono di "rock",  fra lui  e  Laide  si   farà una distanza sterminata,  pianure mari e montagne di mezzo,  e il   sipario di silenzio e di buio.  Non c'è una cosa che non  gli  ricordi   lei:  le  stesse  crepe del soffitto,  il fascicolo di "Topolino",  la   poltrona,  la bottiglietta di lavanda,  la bestiola di legno sopra  la   libreria,  il profilo delle case di là della finestra,  tutto al mondo   si riferisce a lei,  senza di lei non c'è più  senso  nella  vita  nel   lavoro  nei  discorsi  nel  mangiare  nel vestirsi,  tutto è assurdo e   idiota senza lei e così si apre da qui fin qui uno  squarcio  orribile   dentro di lui, e dallo squarcio un convulso fiume di lacrime esce.   Sì  certo,  complessivamente  una  storia  ridicola,  una vicenda come   tante, banale, storta, comica,  meschina.  Era tanto semplice capirlo,   non poteva che finire così, su, coraggio, buonanotte, a domani, non ne   vorrà  fare  una  tragedia  spero,  raddrizzi  il  nodo della cravatta   piuttosto. Una doverosa risata. Buonanotte.   Eppure per lui è forse l'ora decisiva della vita, ed è un inferno.  Se   fosse  malato,  se  gli  capitasse una disgrazia,  se venisse messo in   carcere, parenti e amici gli porterebbero l'aiuto.  In questo caso no.   E'  proibito.  Anche  se  è  terribilmente  peggio.  Gettato  a terra,   calpestato,  devastato di dentro e di fuori,  abbandonato  nel  fango,   espulso  a  calci dalla sala.  Ciononostante non c'è pietà disponibile   per lui.   Hai voluto dimenticare i tuoi anni?  Hai sfidato con le tue sole forze   la cattiveria di una ragazzina che stava dando l'assalto alla vita? Ti   sei  ostinato  in  un  gioco  sconosciuto  che non era per te?  Ti sei   creduto di poter tornare bambino?  Ci voleva altra faccia che la  tua.   La  partita  è chiusa,  il conto torna.  Le porte che si chiudono,  la   solitudine,  il vuoto,  il deserto,  i muti singhiozzi  che  non  udrà   nessuno. Eccoti in porto, stupido uomo, che ti credevi chissà cosa.   L'angoscia  è un'onda nera che lo solleva e lo sprofonda a singhiozzi,   dove è lei in questo momento? le automobili passano di sotto.  Accanto   al letto il telefono sta, lui che ha ascoltato tante cose. Mai è stato   così nero, così immobile, inutile, taciturno, morto.

 

34.

   Ma  lui  Antonio  non è uno di quegli uomini che quando la sorte li ha   pestati tengono tutto dentro e a vederli non si direbbe neanche.  Dopo   l'addio  c'è stato naturalmente una nuova crisi di furore,  d'ira,  di   forza,  un amico un giorno gli aveva detto vedrai che all'atto pratico   è  molto  meno peggio di quello che si crede anch'io le volevo un bene   da matti a quella donna che sai e ci perdevo i giorni e le notti e più   le stavo dietro come un cagnolino e le baciavo i piedi,  più lei me ne   faceva  di  tutti  i  colori  e  io  diventavo  pazzo,  così gli aveva   raccontato l'amico ma assolutamente  non  ero  capace  di  staccarmene   senonché  un  giorno mi sono detto o oggi o mai più mica che lei me ne   avesse fatta una peggio delle solite anzi quel giorno era così gentile   ma io mi sono detto dài amico perché altrimenti ci rimetti gli annessi   e connessi e allora di punto in bianco ho detto basta e quando lei  ha   telefonato  ho  detto  basta  senza tante storie e lei naturalmente ha   insistito per parecchi giorni, ha fatto anche due tre scene di lacrime   ma io avevo detto basta e appena mi ero deciso di rompere pensavo  che   sarei  diventato  scemo  o matto e invece d'incanto nell'attimo stesso   che avevo deciso di rompere però intendiamoci avevo deciso  sul  serio   mica  una  mezza  idea tanto per dire,  in quell'attimo stesso mi sono   sentito un altro e si capisce che avevo un dispiacere ma un dispiacere   sopportabile esattamente come quando ci si  fa  cavare  un  dente  che   faceva  un  male  d'inferno,  vedi non sono parole a vanvera parlo per   esperienza personale dammi retta Dorigo fa anche tu lo stesso  e  dopo   ti  metterai  addirittura  a ridere pensando quanto veleno hai mandato   giù per niente, così gli aveva raccontato l'amico.   Ma Antonio dopo il commiato non si sente affatto un altro non si mette   a ridere anzi sta peggio prima almeno c'era la speranza  e  le  stesse   lotte   quotidiane  le  attese  i  palpiti  le  telefonate  riempivano   l'esistenza era una lotta insomma una manifestazione di energia  e  di   vita  adesso  non  c'è più niente da fare non resta che ruminare nella   testa sempre le stesse maledette cose senza scampo perché neppure  per   un attimo il pensiero si distacca da lei, da com'era come parlava come   camminava  come  rideva  ogni minuta particolarità della straordinaria   ragazzina che lo ha fatto dannare.  Nella infelicità così nera  l'uomo   Antonio  si  divincola  cercando  di aggrapparsi a tutti i concepibili   sostegni e per esempio gli viene in mente  di  cercare  la  Piera  una   amica  della  Laide che era andata a trovarla in clinica un giorno che   c'era là anche lui  e  allora  gli  era  parsa  una  ragazza  bella  e   spiritosa.  La  Laide gli aveva poi detto che la Piera aveva avuto per   anni un amico vecchio ma ricchissimo e che  lei  l'aveva  stupidamento   perduto facendosi sorprendere in letto con un altro. Chissà che questa   Piera  non gli possa essere d'aiuto,  se lei ci stesse per esempio,  e   lui ci provasse gusto,  se magari si rivelasse molto più divertente  e   chic della Laide, se gli servisse a dimenticare un poco, a procurargli   una tregua. Mesi prima anzi la Piera gli aveva telefonato offrendo una   pelliccia in vendita e gli aveva dato il numero di telefono.   Combina  di  andare  a  pranzo  fuori ma come la rivede immediatamente   capisce che pensare a una sostituzione è assurdo,  anzi lo riprende la   disperazione  più  di  prima.  Eccola  seduta  di  fronte  a lui in un   ristorante di moda,  in mezzo a un turbine di gente,  che  lo  osserva   divertita.   "Dunque  vediamo" gli ha dato subito del tu.  "Si può sapere perché mi   hai cercato?"   "Non so" fa lui,  ormai smontato "probabilmente perché sei un tipo che   mi piace."   "O non è invece per sapere?"   "Sapere cosa?"   "Per sapere della tua Laide. Ma non ti basta ancora aver fatto per più   di un anno la figura del coglione di fronte a tutta Milano?"   "Dici?"   "Perché?  Hai ancora qualche dubbio?" e ride. "Coglione, sì, coglione,   mi  verrebbe  la  voglia  di  ripetertelo  per  delle  ore,   coglione   coglione...  Be'  non  fare  quella  faccia...  lo sai che sei un tipo   straordinario...  il cervellone!...  quando ti ho visto in  clinica  e   nella  camera  c'era  anche il suo amico,  con quella faccia da pecora   come si chiama?"   "Marcello?"   "Sì Marcello,  e tu eri là  che  la  guardavi  imbambolato  e  lei  ti   chiamava zio,  non so, io mi sono detta, possibile che non si accorga,   possibile che sia tanto imbecille?"   "Be', ti giuro che..."   "Che ci credevi? Lo so bene che tu ci credevi.  Proprio per questo sei   un grossissimo coglione...  e sei tanto coglione che ancora adesso non   ti sei persuaso ancora e mi hai cercato sperando che io  ti  dica  che   no,  non  è  vero  niente,  che  la  Laide ti voleva bene,  che ti era   fedele... Guarda,  tu sei un brav'uomo lo so,  ma a una ingenuità come   la tua giuro che nessuno crederebbe."   Lui tace, sopraffatto da quella tortura.   "La  tua Laide.  Mi ricordo la prima volta che l'ho vista,  ero andata   giù al "Due" con un mio amico,  col mio  ruffo,  perché  io  sono  una   puttana,  lo sai no, e avevo il mio ruffo come tutte le puttane ed ero   io che lo mantenevo...  bene ti vedo  una  ragazzina  che  ballava  il   "rock-and-roll"  coi capelli neri giù per le spalle e delle magnifiche   gambe ah questo sì le avessi io delle gambe simili, quelle cosce belle   lunghe e aveva una sottanina a pallone e sotto niente capisci e quando   si girava e lei lo faceva apposta la sottana le saliva fin  qui  e  si   vedeva  tutto  e  ogni  volta nella sala c'era un urlo...  c'era anche   quella barbona d'una Fausta ricordo e la Fausta me l'ha presentata  ed   è  venuta  a  sedersi  al  nostro tavolo bene se lo vuoi sapere il mio   ruffo la sera stessa se l'è  portata  in  letto  e  non  ti  dico  che   porcherie le ha fatto...  ma tu soffri vero,  coglione...  tu ti senti   morire, lo vedo, a sentire queste cose... vuoi che smetta?"   "No no, forse è meglio. Continua."   "Così  siamo  diventate  amiche  per  simpatica  bisogna  dire  che  è   simpatica.  A  quel  tempo  lei ci aveva un vecchio,  ma brutto da far   paura,  uno che aveva un'agenzia sai di quelle  per  la  compravendita   d'immobili  ma  la teneva allo stecchetto le mollava ogni tanto quelle   cinque diecimila e bisognava vedere come lei filava dritta,  tutte  le   sere  alle  otto e mezza lei doveva passare nel suo ufficio e là su un   canapè... mi ricordo che noi le si diceva ma come fai ad andare con un   tipo simile ma non ti fa schifo e lei diceva  ma  no  sai  è  un  vero   signore ed è così gentile nel fare l'amore...  ma lui naturalmente non   bastava... non so come aveva sempre debiti da tutte le parti... e così   aveva anche lei i suoi giri...  mi ricordo che una sera mi ha detto lo   sai  Piera  che  questo  pomeriggio  ho speso seimila lire in tassì...   Seimila? dico io, e come hai fatto? Sai, dice,  mi sono capitate in un   pomeriggio  quattro  occasioni  e  per non perderle dovevo far presto,   abitavano poi da una parte e dall'altra della città..."   "Ma guadagnava bene, allora!"   "Macché.  Una volta mi  ha  detto  che  in  un  mese  aveva  messo  su   trecentomila  lire  ma  chissà  se  era vero.  E' una testa balenga la   Laide, una capricciosa. Capace di buttarsi via per niente. Una volta è   andata in tram fino a Lambrate e ritorno per un servizio  diremo  così   da duemilacinquecento lire.  A Lambrate.  Chissà da chi. Io non volevo   crederci.  E lei si è messa a ridere: sai,  dice,  tutto fa...  E  una   sera,  quella  volta  ero anch'io presente,  in casa di un mio amico e   c'era un mucchio di gente ragazzi e ragazze,  c'è stato uno che le  ha   promesso una presa di coca se lei faceva una penitenza."   "Che penitenza?"   "Qui  siamo  in  sette  uomini,  ha  detto quel porco,  tu ci devi far   divertire tutti e sette uno dopo l'altro.  Quella sera  la  Laide  era   bevuta.  Insomma  si  sono  seduti  in circolo e tu la avessi vista in   ginocchio... desideri una descrizione dettagliata?"   "Sei una bella carogna, tu."   "Coraggio, cervellone. Un po' di terzo grado ti fa bene."   "E di me cosa diceva?"   "Ci siamo. Di te diceva che eri noioso,  che non le davi respiro,  che   per  tenerti tranquillo doveva telefonarti venti volte al giorno,  che   quando doveva far l'amore con te si sentiva morire, che in casa sua di   notte non ti lasciava metter piede..."   "E' vero."   "Così di notte era libera di fare il diavolo che voleva.  Hai  proprio   da  essere orgoglioso.  Per un pezzo lo sai che ci dormivano la Fausta   col suo amico?"   "Sì me l'aveva detto."   "E ti ha anche detto che dormivano in tre nello stesso letto,  lui  in   mezzo  con  una ragazza per parte?  Credi alle volte che parlassero di   filosofia?... Ma cos'hai? Tu non stai bene...  sei pallido come...  La   colpa è mia...  su andiamo,  vieni a prendere un whisky da me e poi ti   mando a nanna."   La Piera abita in una casa nuova,  ha un appartamentino con  terrazza,   mobili  abbastanza  di gusto,  un grande armadio pieno di vestiti.  Ma   Antonio non ha curiosità di  guardare,  tutto  il  mondo  gli  turbina   dentro.   "Su siediti,  hai una faccia... ti sentivi morire no quando ti parlavo   del tuo amore? Sì, io sono cattiva, lo sai che sono cattiva?"   "No la faccia da cattiva non ce l'hai."   "Ma con te bisogna essere cattivi,  adesso capisco tante cose al posto   della Laide io te ne avrei fatte anche di peggio."   "Perché?"   "Perché con tutta la tua intelligenza tu sei l'uomo più stupido che io   abbia  mai  incontrato.  E  come  credevi  a  tutte  le  storie che ti   raccontava la Laide adesso credi a tutto quello che ti racconto io..."   "Allora non sono cose vere?"   "Che ne so.  Qualcuna vera qualcuna meno  vera,  tu  avevi  necessità,   stasera, di una doccia scozzese" e fa una bella risata.   "Certo che sono cose spaventose, lo capisci che per me..."   "Figurati se non capisco te le ho raccontate apposta.  Ma adesso, dopo   aver parlato della Laide, perché non parliamo un poco anche di te?"   "In che senso?"   "Dimmi un po' per esempio: tu la odi, adesso,  la disprezzi chissà che   accidenti le mandi, la strangoleresti non è vero?"   "Ammetterai che con me si è comportata da..."   "Da puttana vuoi dire? Ma credi tu di essere meglio di lei?"   "Io le volevo bene, io con lei sono sempre stato onesto."   "Sii sincero: tu l'avresti sposata?"   "Che  discorsi.  Basterebbe pensare alla differenza d'età,  lei stessa   avrebbe detto di no."   "La differenza d'età, non farmi ridere. Non ne eri innamorato?"   "Purtroppo."   "E allora: tu l'avresti sposata?"   "Ma pensa solo alla vita che ha fatto."   "Qui ti volevo,  caro il mio signore di buona famiglia.  Un  borghese,   sei,  ecco la questione, schifosamente borghese, con la testa piena di   pregiudizi borghesi,  orgoglioso della  tua  rispettabilità  borghese.   Cosa  vuoi  che  se  ne  facesse  la  Laide  della  tua rispettabilità   borghese? E tu che cos'eri per lei?"   "Io le ho voluto bene sul serio."   "Bene sul serio?  Semplicemente te ne eri ammalato,  ne avevi bisogno,   hai fatto di tutto per averla,  in modo bestiale ma l'hai fatto. Ma la   consideravi una  disgrazia,  è  vero  o  no  che  la  consideravi  una   disgrazia?"   "Era, una disgrazia."   "E  questo  lo  chiami  amore?  Ma l'hai fatta entrare nella tua vita?   L'hai ammessa in casa tua? l'hai fatta conoscere alla tua famiglia?"   "Queste sono assurdità."   "Assurdità,  lo so.  Anch'io sono andata a sbattere contro questo muro   maledetto.  Se vuoi saperlo,  io avevo un amico,  un ingegnere, un bel   ragazzo. Avrebbe voluto sposarmi.  Anche lui borghese,  ma un po' meno   borghese di te. Quando sua mamma l'ha saputo, è successo il finimondo,   se tu sposi quella lì,  ha detto,  io ti considero morto. Una donna di   rigidi principi, ah come mi piacciono a me i rigidi principi!"   "E ti ha lasciato?"   "No. Ci vediamo ancora. Ma io la puttana, capisci, per lui sarò sempre   la puttana. Ci considerate di una razza inferiore, voi borghesi, anche   se di noi avete bisogno, anche quando ci strisciate ai piedi.  E tu lo   chiami  amore  questo?  La posizione sociale,  la stima del mondo,  la   dignità,  il prestigio familiare,  bella roba,  chi ci ha  fatto  come   siamo? io ci sputo sopra, alla vostra dignità."   "Be', ci sono migliaia di ragazze che lavorano."   "Me l'aspettavo, da mezz'ora me l'aspettavo. L'immancabile domanda: ma   perché  non  andate a lavorare?  Lo vuoi sapere il perché?  Perché voi   borghesi,  coi vostri sporchi soldi,  ci avete impedito  di  andare  a   lavorare."   "Marxista per caso?"   "Macché marxista.  Sono fascista,  io. Che c'entra il marxismo? Se mai   c'entra la carità cristiana.  Te lo sei mai chiesto dove è nata Laide,   in che ambiente è cresciuta,  fra che gente è vissuta,  che educazione   ha avuto,  chi le ha voluto bene veramente quando era una bambina?  Di   lei ti ho raccontato delle cose orrende ma sai cosa ti dico?  E' molto   meno puttana di me, la Laide.  Lei non ha la smania che ci ho io,  lei   ci tiene al buon nome,  lei non ha il coraggio che ho io,  forse anche   perché - scusami sai - è meno intelligente.  Quella lì,  io magari no,   quella  lì  se  fosse  nata in una famiglia come la tua,  credi che si   sarebbe messa a fare la ragazza squillo? Una donna dai rigidi principi   sarebbe venuta su,  mi par di vederla,  inflessibile con le ragazze di   facili costumi.  Tal quale la mia mancata suocera che il diavolo se la   porti."   "Ma perché mi fai una predica?  Mi credi un moralista idiota?  In  fin   dei conti mi pare di essere abbastanza spregiudicato no?"   "Bella  forza.  Quando  ti fa comodo.  La tua spregiudicatezza però la   lasci in portineria quando torni a casa."   "Be'. Lei che cosa ha fatto per venirmi incontro?"   La Piera tace, lo guarda con un sorriso malinconico e buono.   "Dimmi un po', cervellone.  Hai mai provato a metterti nei suoi panni?   Sforza  un po' le meningi.  Tu sei una ragazzetta che tira avanti alla   meno peggio a colpi di marchette.  Tu incontri un uomo già anziano che   dice  di  essersi  innamorato  di te,  uno scapolo,  mica ricco ma che   guadagna bene. E quest'uomo non ti propone mica di sposarti no, perché   questo non starebbe né in cielo né in terra.  Le convenienze sociali e   balle del genere. Lui ti propone di diventare la sua amante fissa e ti   offre uno stipendio.  Chiede di comprarti,  in poche parole.  Tu fai i   tuoi calcoli,  valuti la convenienza e accetti.  Lui ti paga e  perché   lui ti paga tu devi uscire con lui, andare a spasso con lui, andare in   letto  con  lui.  Perché  ti paga.  Per di più è innamorato sul serio,   quindi è geloso, sospettoso, noioso.  Ma tu non sei la sua donna,  sei   soltanto  l'amichetta  clandestina,  la  piccola  mantenuta.  Non  sei   ammessa in casa sua, non frequenti le case dei suoi amici, lui conduce   una vita a parte,  nella sua vera vita,  quella che conta,  tu non  ci   metti il naso. Resa l'idea? E adesso mi sai dire come tu, ragazza, gli   puoi volere veramente bene."   "Sempre meglio di prima, per lei."   "Ne sei sicuro?  Meglio per la sicurezza della grana questo sì,  ma la   libertà dove la metti?  Venduta al migliore  offerente  con  l'obbligo   della esclusività."   "La libertà non gliel'ho mai negata."   "Hai una forza, tu! Sicché se tu avessi saputo che andava regolarmente   in letto con quella faccia di pecora, come si chiama?"   "Marcello?"   "Ecco,  se tu avessi saputo che andava in letto con Marcello,  tu cosa   avresti detto?"   "Mi pare sia pretendere un po' troppo."   "E allora che razza di libertà era?  Vacci adagio col  whisky,  amico,   anche se il cuore sanguina.  Mica che io sia avara.  Ma è il quarto se   non sbaglio e devi guidare fino a casa."   "Ancora un goccio. E' stata una serata tremenda."   "Scottano le verità? Vero che scottano, cervellone mio?"   "Ma allora, secondo te, io ho sbagliato tutto?"   "Guarda, non potevi sbagliare di più."   "E che cosa avrei dovuto fare, allora?"   "Niente. Non c'era niente da fare. Purtroppo il mondo è fatto così."   "Ammetterai che se avesse avuto un altro temperamento..."   "Se  avesse  avuto  un  altro  temperamento  tu  non  te  ne   saresti   innamorato, chiaro?"   "Nessuno le impediva di essere più leale con me."   "Eri  proprio tu che glielo impedivi.  Tu la comperavi a rate mensili.   Lei ti vendeva il corpo tu pretendevi anche l'anima.  Lo  capisci  che   per  una  ragazzina  non  ci può essere niente di peggio?  Fosse stata   anche uno stinco di santa,  per forza le sarebbe venuta la  voglia  di   metterti  le corna.  E se non capisci questo vuol proprio dire che sei   indietro un carro di fieno."   "Dopodiché io dovrei perdonarle?"   "Perdonarle?  Non  ti  passi  per  l'anticamera  del  cervello.   Vuoi   rovinarti completamente?  Dimenticarla,  non resta altro,  come se non   fosse mai esistita. E anche noi due, forse è meglio che non ci vediamo   più. Meglio per te, intendiamoci. Sei stato un incredibile coglione ma   sei un uomo molto simpatico tu,  un tipo molto distinto  non  c'è  che   dire,  te  l'hanno  mai  detto?" e fa una bella risata.  "Mi sei molto   simpatico,  se proprio vuoi sapere.  Mi fai tenerezza.  Mi  sembri  un   uccellino spaventato, con un'ala rotta."   "Puoi ben dirlo."   "Ma  forse  è  meglio  non vederci.  La Laide sono dei mesi che non la   vedo, mi hanno detto che ce l'ha su con me e ignoro il motivo. Ma sono   stata sua amica.  E se tu mi rivedi,  ogni volta,  capisci?...  per te   sarebbe più difficile guarire... del resto, se ti fa piacere..."   "In fondo, Piera, tu sei una gran buona ragazza..."   "Oh io... sono una sciagurata anch'io, ecco quello che sono... Io sono   una puttana, una puttana,... mio Dio!"   Si  è  lasciata  cadere bocconi sul sofà,  coprendosi la faccia con le   mani, le spalle si scuotono in silenziosi singhiozzi.

 

35.

   Una trama lenta di sogni,  un estenuato  torpore,  un  silenzio,  vago   rombo  di  vita lontana,  fuga dei pensieri abbandonati a sé giù per i   nascondigli del passato nella notte  calda  di  giugno.  Antonio  esce   lentamente  da  una  valle  senza  nome  popolata  da  guglie  a forma   d'albero, si ritrova nel suo letto, a poco a poco si ricorda, apre gli   occhi per vedere.  Dalle finestre spalancate il riverbero dei lampioni   al  neon  battono  e  si  allungano  in  strisce sghembe sul soffitto,   intercalandosi, e perciò si distinguono le cose.   Accanto a Antonio,  lei dorme.  Completamente nuda,  giace supina,  le   braccia  incrociate sul petto come la principessa dei faraoni,  da una   parte e dall'altra le mani gentili  seguendo  in  abbandono  la  lieve   curva  del  petto  e  i palpiti lenti del respiro.  E' un sonno totale   senza riserve come quello delle bestioline ma la perfezione della posa   e l'espressione della faccia serena e pura  danno  a  lui  un  sottile   struggimento per un motivo che non sa capire,  c'è dentro l'innocenza,   la giovinezza,  la fatalità,  il peccato,  il tempo che  passa  e  che   divora.   Quanti mesi sono passati?  Antonio la contempla. In quel corpicino può   stare chiuso l'inferno? No,  forse è una cosa molto più semplice,  era   lui  forse  che  l'aveva  fatta diventare una tragedia.  Adesso non si   dibatte più nei dubbi e  negli  scrupoli.  Ho  fatto  male  o  bene  a   richiamarla?  Sono vile?  Sono abbietto?  Ormai non ha importanza. Una   sera, dopo due mesi e mezzo di lotta, non aveva resistito,  si ricorda   benissimo   era  a  Roma  e  c'era  con  lui  la  Silvia  una  ragazza   intelligente e buona,  vedendolo così conciato  la  Silvia  gli  aveva   detto  ma  in  fin  dei  conti  perché non le telefoni?  cosa vuoi che   succeda?  vuoi rimetterci la salute?  che cosa risolvi con la dignità?   Tanto!  E dall'albergo di Roma Antonio ha provato a telefonarle, erano   quasi le otto di  sera  un'ora  non  molto  adatta  lei  di  solito  a   quell'ora era fuori.  Invece. E da principio non ha capito ch'era lui,   era una voce senza più baldanza.  "Anch'io uno di questi giorni volevo   telefonarti  per  sapere un po' dell'affitto." "Ne parleremo a Milano"   ha detto lui "quando torno ti telefono." E non ha  provato  rimorso  e   vergogna, semplicemente ha ricominciato a respirare e a vivere.   Poi  a  Milano Antonio è andato in macchina a casa sua,  lei è discesa   nella strada si è seduta nella automobile scoperta  e  con  la  destra   tormentava  la  maniglia  di  sicurezza  sul cruscotto.  Era pallida e   sciupata.  Era l'ombra della Laide classica,  anche il  naso  sembrava   diventato più grande, ma per lui era pur sempre l'amore.   Allora  lei  gli ha chiesto se lui poteva pagarle l'affitto ancora per   qualche mese.  "Perché dovrei pagarti l'affitto?" lui ha risposto "Che   obbligo ho? Tu che cosa mi dài in cambio?" e faceva così tanto per non   dargliela vinta al primo colpo ma sapeva benissimo come sarebbe andata   a finire.   "Io non ho niente da darti" gli ha risposto la Laide "l'unica cosa che   posso  darti  è  questa  mia  persona,  se non ti fa schifo." Ha detto   proprio persona e non corpo,  forse  senza  nemmeno  rendersene  conto   aveva   scelto   l'espressione  giusta.   E  non  ci  sono  più  state   discussioni,   né  gelosie  né  trucchi  né  menzogne,   la  storia  è   ricominciata  lentamente  e  di  quello che era successo né lui né lei   parlavano,  mai e poi mai Laide gli avrebbe raccontato la verità,  gli   inganni,  i trucchi,  gli intrighi,  le lussurie, era come se le bugie   fossero la sua disperata bandiera che non avrebbe rinnegata neanche  a   costo della vita, era la sola cosa che non si poteva chiederle, il suo   pudore stranamente stava là, nei suoi spudorati segreti. Eppure, nella   notte, tutto sembra essere diventato finalmente facile, pulito, giusto   e umano.   Si alzò a sedere sul letto, rare automobili passavano per la strada di   sotto,  dovevano  essere le due le tre fra poco la notte impallidirà e   un respiro di aria fresca cominciò a entrare nella stanza.  La osservò   ancora,  chissà  cosa  stava sognando,  minuscole vibrazioni nervose a   scatti muovono ogni tanto le dita delle mani perfettamente unite  come   nelle statue medievali. Felice? Per la prima volta dopo un tempo che a   pensarci  pare  sterminato  è  cessato quel tormento in corrispondenza   dello sterno,  non c'è più quel palo di ferro  rovente  confitto  poco   sotto  lo  stomaco,  proprio come quel mattino che al risveglio si era   illuso  di  essere  guarito  ma  poco  più  di  un'ora   dopo   mentre   attraversava  i giardini,  di colpo era ricominciato l'inferno.  Anche   stavolta  si  ripeterà  la  delusione?  No,  dal  sonno  di  lei  così   abbandonato e confidente viene a lui un senso di pietà e di pace,  una   specie di invisibile carezza.  Sempre supina,  la Laide  ha  un  breve   fremito,  mormora  dei  minuscoli lamenti,  rotte incomprensibili voci   come fanno i cagnolini che sognano.  Antonio le passa una  mano  sulla   fronte tutta bagnata di sudore.   Allora Laide apre gli occhi.   "Che  cosa  c'è?  Che  cosa  fai?"  balbetta con la bocca impastata di   sonno.   "Niente" lui risponde "ti guardavo."   La voce di lei,  stranamente quieta e riflessiva,  l'erre così marcato   dà un curioso suono nella notte.   "Senti, Antonio, devo dirti una cosa."   Tace un momento.  Mai, gli sembra, la casa è stata così addormentata e   silenziosa.   "Questo mese" dice Laide "non mi sono venute le mie cose."   "E allora?"   "Allora niente. Io voglio avere una bambina."   Sorride. Nella penombra il sorriso è un piccolo spiraglio bianco quasi   fosforescente.  In lui,  una sensazione nuova.  Anche se sapesse come,   non  farebbe in tempo a rispondere.  Il sorriso della Laide lentamente   si richiude. Anche le palpebre. Riassorbiti dal sonno.   Ma,  pur se c'è pochissima luce,  Antonio vede che di quel sorriso  un   barlume  minimo  è  rimasto  sugli  angoli  delle labbra e le dà luce:   "Allora niente allora io voglio una bambina".  L'eco  delle  parole  è   ancora  nell'aria  della  stanza  non  è  ancora  giunto sul fondo del   silenzio e dentro di lui rintocca tre  quattro  cinque  volte.  Eccola   dunque  la  ragazzina  tremenda e senza cuore che doveva portarlo alla   rovina.  Che cosa le è successo?  Chi l'ha cambiata?  Che cosa  le  ha   fatto nascere quel desiderio così diverso dal frastuono dei "nights" e   dagli amori a pagamento?   Nessuno l'ha cambiata,  è sempre stata così, i loschi miti fra cui era   andata marciando - ambigua e crudele selva  -  non  le  appartenevano.   Trasmessi per recondite vie da antiche vene di sangue,  in lei stavano   nel fondo dell'animo i desideri  per  le  gioie  semplici  ed  eterne,   domestiche, rassicuranti, banali forse, che sono il sale della terra.   D'improvviso  il  mondo  segreto  e peccaminoso e scellerato che stava   dietro alla Laide, da cui lei pareva uscita, non esiste più, non è mai   esistito?  Si dissolvono i biechi e affascinanti sipari?  I pericolosi   fantasmi  si  convertono  in  brava  gente qualunque,  o spariscono in   sbigottita frotta laggiù in fondo, riassorbiti dai vicoli umidi e neri   della vecchia città?  Perde  così  la  Laide  perde  così  l'alone  di   romanzo,  perde  l'enigma,  non  è più la irraggiungibile?  Oppure c'è   ancora più mistero nella ragazza sola e sperduta che a suo  rischio  e   pericolo,  dopo  averci  pensato  lungamente su,  decide di mettere al   mondo  una  creatura  benché  la  vita  in  cambio  le  prometta  solo   disprezzo, scherno e disonore?   Mentre avanza a fatica la caliginosa alba di Milano,  pacificata,  col   nasetto petulante in su,  dorme la piccola teppista.  Ha  vinto  o  ha   perso  la sua piccola guerra giorno per giorno giocata a denti stretti   con la  inverecondia,  la  giovinezza  e  le  bugie?  Ma  poteva  fare   altrimenti?  Lui  stesso  Antonio - come sosteneva la Piera - non l'ha   costretta a difendersi e a mentirgli?  E  lei  non  aveva  ragione  di   essere carogna? Che soltanto adesso lui Antonio capisca finalmente chi   è  la  Laide e come le sue miserie non siano venute fuori da lei ma vi   sia stata costretta giorno per giorno dalla città, dagli uomini, anche   da lui Antonio e non c'era colpa né cattiveria né vergogna  né  motivo   di disprezzo o punizione?   E  durerà  questa  pace,  questa tregua?  Potrà bastare la maternità a   spegnere in quella incomprensibile creatura lo  smanioso  gusto  della   finzione  e  del raggiro?  Dal suo strano cuore insieme imperterrito e   spaurito non rispunteranno fuori,  contro  di  lui,  le  inafferrabili   tortuose spine?  Come farà a rinunciare al suo mondo di inconfessabili   segreti,  alla corazza di fantastiche menzogne dentro  alla  quale  si   direbbe  lei  soltanto  possa vivere?  Nuove più tormentose angosce si   prepareranno per Antonio?   No,  adesso Antonio non vuole neanche chiederselo.  Così come  in  una   malattia  che si sa lunga e dolorosa l'uomo,  stanco,  si abbandona al   soave torpore della  morfina,  quasi  illudendosi  di  una  definitiva   guarigione.   Un lungo rabbioso cigolio di freni,  giù nel viale, seguito dalle voci   iraconde dell'alterco.  Poi di colpo  gli  improperi  cessano,  l'auto   accelera violentemente e si allontana.   Ora davvero la città dorme,  il sonno trasuda dalle centomila stanze e   cola giù per i muri si spande come invisibile sudario  per  le  strade   deserte   entra   nelle  macchine  stanche  che  giacciono  inerti  in   sterminate file lungo i marciapiedi,  marea che lievita lentamente  da   un capo all'altro di Milano mescolando in un solo fiato il respiro del   ricco  e del pezzente,  della prostituta e della suora,  dell'atleta e   del malato di cancro.  Solo  lui  Antonio  è  sveglio  immensamente  e   assapora quel po' di pace dell'animo. Come i rotti brandelli dei nembi   dopo la tempesta si dissolvono fuggendo verso il nord, così il recente   passato si allontana a precipizio da lui, gli sembra quasi una assurda   e  storta  favola.  A  remotissima  distanza  scompaiono il dolciastro   sorriso della signora Ermelina (guardi che è un tipetto  caldo  sa  le   piace  farsi  mordere le piace farsi maltrattare glielo dico perché si   sappia regolare),  gli squallidi appuntamenti al pomeriggio le maligne   insinuazioni delle amiche (la sai la sua specialità?  nel fare l'amore   no?  No meglio che tu non sai se tu sapessi ti  passerebbe  la  voglia   garantito  o  ne  avresti  ancora  più voglia siete dei tali porci voi   uomini), le atroci confessioni, le massacranti attese in via Squarcia,   i dubbi,  le telefonate che non vengono,  quel punteruolo infisso qui,   le  notti  bianche  l'infelicità  al  mattino  quando  al risveglio il   pensiero   annaspava   a   ritrovare   qualche   possibile   sostegno,   l'infelicità  che  lo  invadeva  con  velocità selvaggia in ogni parte   delle viscere,  immagini facce luci scenari di strade,  stanze,  scale   corridoi  voci musiche sussurri e tutto il mondo era soltanto lei,  sì   anche adesso mentre la Laide gli dorme al  fianco  anche  stanotte  il   mondo è soltanto lei ma prima era un continuo vortice un fisso delirio   una  morsa  che stringeva senza tregua e questo inferno gli sembra sia   finito.   Dopo tanto tempo ah. La tregua. Anche se è sconfitto. Per la seconda e   ultima volta sconfitto. Ma anche l'esercito sbaragliato respira quando   è finita la battaglia.  Silenzio,  il cuore  non  rimbomba  più,  solo   sfilacciamenti di fumo qua e là.   La guarda.  Si domanda: potrebbe ancora farmi impazzire? Gli sembra di   no.  Se per due tre giorni non si facesse più trovare impazzirei?  Gli   sembra  di  no.  Se  sapessi  che  è  stata  in  letto  con  un altro,   impazzirei? Gli sembra di no.   Ahimè,  guarito.   E  non  c'è  più  l'inferno.   Lei  è  qui  accanto   addormentata.  Ma  allora  dovrei  essere  felice.  Sono  felice?  No.   Stanchezza,  vuoto,  malinconia,  una di quelle malinconie gigantesche   che  lo  prendevano  da  ragazzo in sul far della sera solo che allora   nella malinconia era nascosto il pensiero del tempo  che  verrà,  anni   innumerevoli  che  si perdono lontano,  mentre adesso non c'è pensiero   degli anni che verranno adesso già la porta si può intravedere  laggiù   in  fondo,  altro che futuro,  la porta chiusa che si aprirà nel buio.   Ecco la spiegazione,  sono finiti l'affanno la gelosia la disperazione   ma  insieme si è esaurita la tempesta.  Furore rabbia frenesia galoppo   fiammeggiamento vita era,  giovinezza era anche,  e adesso esattamente   questa notte nel preciso momento che lei ha parlato,  che lei è uscita   un attimo dal sonno per parlare,  nel momento preciso la giovinezza  è   terminata   l'ultimo   lembo   l'ultima   striscia   della  giovinezza   stranamente prolungatasi senza volerlo fino  ai  cinquant'anni.  Fuoco   che  ha  finito  di bruciare,  nuvola che ha fatto pioggia e la nuvola   adesso non c'è più,  musica giunta all'ultima sua nota  e  dopo  altre   note non verranno, stanchezza vuoto solitudine.   E  le  donne,  questa  cosa  a  cui  per troppi anni Antonio non aveva   seriamente badato se non per il bisogno fisico? Che cosa è stata Laide   se non la concentrazione in una persona sola dei desideri cresciuti  e   fermentati  per  tanti anni e soddisfatti mai?  Non ne ha mai avuto la   forza.  Le incontrava,  gli sembravano creature  irraggiungibili,  era   inutile pensarci,  tanto non gli avrebbero badato.  Ma gli altri. Agli   altri,  ai suoi amici,  queste creature  irraggiungibili  sorridevano,   parlavano, dicevano di sì. Gli amici gli raccontano senza dar peso che   la  stupenda  fusta  del  bar,  l'"entra?neuse",  la "mannequin",  gli   raccontano di averle agganciate, portate a spasso, a pranzo,  a letto,   come  la  cosa  più  semplice  del  mondo.  Anche lui le ha viste,  le   conosce,  le ha desiderate ma ogni volta si è detto che idee  assurde,   mai e poi mai quella là ci starebbe. Così è passato loro accanto senza   osare, impettito nella sua dolente dignità e adesso è diventato troppo   tardi.   Una  cosa  tanto  facile.  Uno  scherzo.  Anche  ragazze  bellissime e   superbe,  che quando passano le case si  voltano  a  guardarle.  Basta   saperci fare.  Lui non ci ha saputo mai.  Solo che lui gli rivolga una   parola quelle sembrano  seccate,  i  suoi  stessi  sguardi  gli  danno   fastidio,  subito,  appena egli le fissa,  voltano la testa dall'altra   parte sempre così. Soprattutto quelle che gli piacevano di più.  Altre   magari erano gentili,  si mostravano disposte.  Mai le donne che a lui   piacevano di più. Mai le ragazzine proterve dal faccino rincagnato, le   puttanelle dalla grinta dura, le imperiose maschiette di periferia, le   subdole e assonnate fanciulle dagli sguardi sornioni  e  allusivi.  Le   vedeva con gli altri, a braccio degli altri, al tavolo degli altri, in   automobile  con gli altri e se lui le fissava,  infastidite voltano la   testa dall'altra parte sempre  così.  E  con  che  uomini  erano?  Dei   miliardari,  dei divi del cinema, degli apollo? No. Magari erano degli   scafessi qualsiasi senza arte né parte, o con la pancia,  o analfabeti   capaci  di  parlar  solo  di  calcio,  dei  volgari,  brutti  anche ma   evidentemente  avevano  il  piglio  giusto  conoscevano  le  due   tre   cretinate  che piacciono alle donne e pensandoci gli veniva una rabbia   un dispiacere un rimpianto ormai senza veleno,  tanto!  Ormai anche  a   saperci fare è troppo tardi.   Guardando  gli  uomini  della  sua stessa età - se ne rende conto solo   adesso - sempre gli veniva la domanda: con chi faranno l'amore?  Dalle   allusioni,  dalla  sicurezza  in  sé,  dall'implicito disprezzo per le   ragazze facili dovevano avere una quantità  di  magnifiche  occasioni.   Soprattutto lo colpiva come la maggioranza,  appena venuta in rapporto   con una donna desiderabile,  immediatamente la considerasse una preda,   non  già  una  creatura  uguale  a  loro  con un mondo di interessi di   desideri  e  di  preoccupazioni  importante  come  il   loro   ma   la   considerassero  soltanto  come  corpo  da  godere  e ritenessero quasi   doveroso da parte di lei accondiscendere e si meravigliassero come  di   un   illecito   capriccio   se   lei   recalcitrava.   Proprio  questo   convincimento dava loro una forza grandissima per cui  riuscivano  con   disinvoltura impressionante. E lo stupiva forse ancor più, lui che per   tutta  la  vita  aveva  di regola incontrato la indifferenza e le rare   volte che gli era venuto  il  coraggio  sempre  aveva  urtato  in  uno   sdegnoso  muro,  lo  stupiva  come,  con  gli  altri,  le stesse donne   acconsentissero a questa specie di  inferiorità  di  casta,  a  essere   considerate cioè degli oggetti carnali e a lasciarsi godere per un'ora   o  due,  come  fossero contente e orgogliose di sentirsi fare la corte   pur sapendo bene che lo scopo dell'uomo era  uno  solo,  raggiunto  il   quale sarebbero state buttate via come stracci,  pur sapendo benissimo   che con iniqua soperchieria  incoraggiata  da  una  antica  tradizione   l'uomo, esaurita la voglia, le avrebbe disprezzate e definite puttane.   Non  riusciva  a  capire - e qui il suo risentimento si confondeva con   l'invidia - perché mai  le  donne  tacitamente  ammettessero  così  di   appartenere  a una specie inferiore,  di dover lasciarsi trattare come   schiave. In compenso ora capiva come la donna,  se il caso capovolgeva   il normale ordine dei termini,  e lui si innamorava e perciò era lei a   dominare,  allora era  logico  e  inevitabile  l'istinto  che  lei  si   vendicasse  e gli facesse patire in breve tempo tutte le umiliazioni a   cui gli altri uomini per lunghi anni l'avevano costretta.  Ma non  era   strano  e  comico  che questi assilli gli venissero alla tenera età di   cinquant'anni?  Sì,  sì,  lo sapeva,  la grande maggioranza  dei  suoi   coetanei era ormai al di là,  non ci pensava più e se continuava a far   l'amore non ne faceva più un problema.  Mentre  lui  non  l'aveva  mai   preso troppo sul serio,  come uno che passa dinanzi a una meravigliosa   vetrina senza badarci e solo quando è già lontano capisce quante belle   cose c'erano e torna indietro di corsa ma quando  arriva  spengono  le   luci  e  tirano giù le saracinesche.  Non l'aveva preso mai troppo sul   serio e adesso col rimpianto, con l'invidia,  col cruccio di non avere   più tempo dinanzi, con la solitudine pagava amaramente.   Caduta  la  tensione,  in  quella  tregua,  mentre  lei supina le mani   incrociate sul petto continua il  sonno  puro  e  lui  seduto  accanto   sfiora  con la pelle la coscia di lei la lunga coscia di ballerina già   scatenata nei "rock-and-roll",  gambetta piena di arroganza che  si  è   intrecciata   con  chissà  quante  cosce  di  maschi  ma  adesso  ogni   turpitudine non esiste più se erano davvero turpitudini perché  ancora   non ha capito bene, ecco tornare il pensiero antico che per tanti mesi   la malattia gli aveva fatto dimenticare.   Perché lui era stato come una pietra legata a una corda e fatta girare   più  svelto  sempre  più  svelto  e a farla girare era il vento era la   bufera d'autunno era  la  disperazione,  l'amore.  E  così  follemente   girando  non  si  distingueva  più che forma aveva,  era diventato una   specie di anello fluido e palpitante.   Lui era un cavallo di giostra e a un tratto la giostra si era messa  a   girare  in  modo  pazzo  più svelta sempre più svelta e a farla girare   così era lei, era Laide, era autunno, era la disperazione, l'amore.  E   così  follemente  girando  lui cavallo aveva perso la forma di cavallo   non era più che un festone bianco vibrante,  una vibrante  cortina  di   colore  bianco  a  frange dorate,  non era più lui,  era un essere che   nessuno prima conosceva e col quale comunicare era impossibile  perché   lui  non  stava  ad  ascoltare  nessuno,  non  poteva ascoltare,  egli   ascoltava soltanto  se  stesso  sibilare  nel  vento,  per  lui  nulla   esisteva fuori che lei, Laide, quella spaventosa precipitazione, e nel   vortice  egli  non  poteva  neppure vedere il mondo intorno,  tutta la   restante vita anzi aveva cessato di esistere,  non esisteva  più,  non   era mai esistita,  il pensiero di Antonio era interamente succhiato da   lei, da quella vertigine,  ed era un patimento era una cosa terribile,   mai lui aveva girato con simile impeto, mai era stato così vivo.   Ma  ecco la giostra fermarsi ecco fermarsi il sasso legato alla corda,   il cavallo si è solidificato in forma di cavallo e  la  pietra  legata   alla corda adesso pende immobile e si riesce finalmente a distinguere,   è un sasso.  Antonio non gira più trascinato dalla tempesta, Antonio è   fermo è tornato ad essere Antonio e ricomincia a vedere il mondo  come   prima.   Nella notte si guarda intorno. Dio Dio che cos'è quella torre grande e   nera  che  sovrasta?  La  vecchia  torre  che  gli  era sempre rimasta   sprofondata nell'animo da quando era ragazzo.  Della  terribile  torre   però  poco  fa,  nel  turbine,  si  era completamente dimenticato,  la   velocità il precipizio gli avevano fatto dimenticare l'esistenza della   grande torre inesorabile nera.  Come aveva potuto dimenticare una cosa   così importante,  la più importante di tutte le cose? Adesso era là di   nuovo si ergeva terribile e  misteriosa  come  sempre,  anzi  sembrava   alquanto  più  grande  e  più  vicina.  Sì  l'amore  gli  aveva  fatto   completamente dimenticare che esisteva la morte.  Per quasi  due  anni   non ci aveva pensato neppure una volta,  sembrava una favola,  proprio   lui che ne aveva sempre avuto l'ossessione nel sangue.  Tanta  era  la   forza dell'amore.  E adesso all'improvviso gli era ricomparsa dinanzi,   dominava lui la casa il quartiere la città il mondo con la sua ombra e   avanzava lentamente.   Ma intanto lei,  portata via dal sonno,  inconsapevole del male che ha   fatto  e  che farà,  si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le   guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda,  è un tenero   e bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con   dentro  un adorato e impossibile sogno.  Attraverso la stratificazione   di caligini il riverbero  rossastro  dei  lampioni  ancora  accesi  la   illuminava dolcemente facendola risplendere con pietà e mistero. E' la   sua  ora,  senza  che  lei  lo sappia è venuta per Laide la grande ora   della vita e domani sarà forse  tutto  come  prima  e  ricomincerà  la   cattiveria e la vergogna, ma intanto lei per un attimo sta al di sopra   di tutti,  è la cosa più bella,  preziosa e importante della terra. Ma   la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno, neppure lui alzerà   gli occhi a guardarla.