mercoledì 12 maggio 2021

UNA PASSEGGIATA NEI BOSCHI Bill Bryson




UNA PASSEGGIATA NEI BOSCHI

                    Bill Bryson 


    Il più lungo sentiero del mondo, l'Appalachian Trail, corre per 2.200 miglia lungo la costa orientale degli Stati Uniti, dalla Georgia al Maine, attraverso uno dei più stupefacenti paesaggi americani. All'età di 44 anni l'autore, in compagnia di un amico obeso, decide di affrontarlo, pur essendo del tutto inpreparato all'impresa. Tra incontri con animali selvatici, deviazioni catastrofiche, scomodità e privazioni di ogni tipo (e qualche rischio), il viaggio si svolge così all'insegna di una divertita incoscienza e di una sincera fascinazione per la natura.

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Un giorno, non molto tempo dopo il mio trasferimento con la famiglia in una cittadina del New Hampshire, mi ritrovai su un sentiero che spariva in un bosco ai margini dell’abitato.

Un cartello annunciava che non si trattava di un sentiero qualunque, ma del famoso Appalachian Trail. Con un’estensione di oltre 3400 chilometri lungo la costa orientale degli Stati Uniti, attraverso la catena placida e invitante dei monti Appalachi, l’Appalachian Trail è il capostipite di tutti i sentieri a lungo percorso. Solo la parte che si trova in Virginia è lunga il doppio del Pennine Way. Dalla Georgia al Maine taglia quattordici stati, attraverso morbide e piacevoli colline i cui nomi stessi - Blue Ridge, Smokies, Cumberlands, Catskills, Green Mountains -sembrano altrettanti inviti al viaggio. Chi potrebbe pronunciare le parole «Great Smoky Mountains» o «Shenandoah Valley» senza sentire un impulso insopprimibile, per usare le parole una volta impiegate dal naturalista John Muir, di «ficcare una pagnotta e un po’ di tè in una bisaccia e scavalcare lo steccato»?

E ora, inaspettatamente, eccolo snodarsi davanti a me, in curve pericolosamente seducenti, attraverso la placida cittadina del New England in cui mi ero da poco trasferito. Il fatto che potessi uscire di casa e camminare per tremila chilometri fino alla Georgia, oppure prendere la direzione opposta e arrampicarmi sulle aspre e sassose White Mountains fino alla fiabesca prua del Mount Katahdin, sospeso su un letto di foresta a settecento chilometri a nord e immerso in uno scenario naturale che pochissimi esseri umani hanno avuto l’occasione di contemplare, mi pareva un’idea straordinaria. Al punto che una vocina nella mia testa cominciò a sussurrare con una certa insistenza: «Figata! Andiamo!»

Mi sforzai di considerare la questione razionalmente. L’impresa avrebbe avuto innanzitutto il pregio di rimettermi in forma dopo anni di ciondolante pigrizia. In secondo luogo, apprendere le tecniche di sopravvivenza nella natura mi sarebbe stato oltremodo utile. Non sapevo bene perché, ma per qualche ragione ne ero sicuro. La prossima volta che dei tizi in tuta mimetica e cappellaccio da cacciatore seduti a un tavolo del Four Aces Diner si fossero messi a parlare di spaventevoli imprese all’aperto, non mi sarei dovuto sentire la solita mammoletta. Desideravo almeno un po’ di quella sbruffoneria che viene dal poter scrutare l’orizzonte con occhi che sembrano frammenti di granito, e dire in un unico respiro lento e virile: «Ebbene sì, anch’io ho cagato a cielo aperto».

C’erano in realtà ragioni più impellenti che mi spingevano a tentare l’impresa. Gli Appalachi sono dimora naturale di una delle più fantastiche foreste del mondo, e rappresentano ciò che resta della più ricca e diversificata area boschiva che abbia mai occupato la zona temperata del globo. E si tratta di una foresta in serio pericolo di sopravvivenza. Se nei prossimi cinquant’anni la temperatura del pianeta salirà di oltre quattro gradi centigradi, come non pare impossibile che avvenga, l’intero paesaggio naturale degli Appalachi al di sotto del New England potrebbe trasformarsi in una savana. Gli alberi stanno già morendo in quantità enigmatica e inquietante. Gli olmi e i castagni sono spariti da tempo, gli imponenti abeti canadesi e le sanguinelle in fiore stanno dileguandosi, e gli abeti rossi, gli abeti di Fraser, i noci americani, i frassini di montagna e gli aceri potrebbero presto seguire la stessa sorte. Se c’era un momento per fare la conoscenza di un paesaggio tanto singolare, era quello.

Decisi dunque di cimentarmi nell’impresa. Un po’ avventatamente, forse, annunciai le mie intenzioni ad amici, vicini, in via del tutto confidenziale al mio editore, e a tutti coloro che mi conoscevano. Mi procurai poi alcuni libri e parlai con svariate persone che in passato avevano percorso il sentiero o alcune sue parti, e compresi ben presto che si trattava di un’impresa superiore - decisamente superiore - a qualunque altra avessi mai tentato in precedenza.

Quasi tutti coloro con i quali parlavo si sentirono puntualmente in dovere di riferirmi qualche orrendo aneddoto relativo a un ingenuo conoscente che si era incamminato sul sentiero con grandi speranze nel cuore e un paio di scarponcini nuovi fiammanti ai piedi, e che aveva fatto ritorno due giorni dopo barcollante, con un gatto selvatico attaccato alla testa o un ruscello di sangue al posto del braccio, riuscendo solo a sussurrare con un filo di voce la parola «orso!» prima di cadere in uno stato di agitata incoscienza.

I boschi erano pieni di pericoli: serpenti a sonagli, mocassini acquatici e teste di rame,1gatti selvatici, orsi, coyote, lupi e cinghiali, devianti di origine rurale alterati da smodate quantità di liquore di mais fermentato e da innumeri generazioni di pratiche sessuali severamente interdette dal Vecchio Testamento, puzzole, procioni e scoiattoli con la rabbia, formiche rosse spietate e mosche parassite, ortiche, sommacco velenoso, salamandre urticanti e persino, per quel che ne sapevo, branchi sparsi di alci tarati da un verme parassita che si annida nel cervello e spinge le bestie disgraziate a inseguire escursionisti inermi per prati e declivi solitari inondati di sole e da lì direttamente dentro laghetti glaciali.

Potevano accadere cose letteralmente inimmaginabili, là fuori. Avevo sentito di un uomo che, uscito dalla sua canadese per farsi una placida pisciatina notturna, era stato artigliato da un gufo miope e tutto quello che era riuscito a vedere del proprio scalpo per l’ultima volta in vita sua dondolava graziosamente dai rostri del rapace disegnati contro la luce lunare; avevo sentito di una giovane donna che, svegliata da uno strano solletico lungo la pancia, aveva dato un’occhiata nel suo sacco a pelo e vi aveva scorto un testa di rame che le si stava accoccolando al calduccio tra le gambe. Avevo udito svariate storie (ma invariabilmente riferite con la medesima risatina) di escursionisti costretti per pochi ma estremamente confusi momenti a condividere la propria tenda con un orso, di gente colta di sorpresa da temporali sulla cima di crinali e vaporizzata in un secondo da un fulmine («manco le orme ne erano rimaste»), di tende schiantate da tronchi d’albero, o spinte giù per burroni su cuscinétti a sfera di piòggia battente fino in remote vallate, o in alternativa travolte dalle acque di una piena imprevista, e di innumerevoli sventurati la cui ultima esperienza del mondo era consistita in un gran tremare di terra e nel non meglio chiarito pensiero: «E adesso che cazz…?»

Bastava del resto solo qualche rapida lettura di libri di settore e doti anche minime di immaginazione per prevedere la possibilità di ritrovarmi preso in un cerchio di lupi resi audaci dalla fame, o attaccato con tecnica a tenaglia da un branco inferocito di formiche rosse, tremebondo e coi vestiti a brandelli, o, ancora, raggelato di fronte a un sottobosco che avrebbe preso improvvisamente vita per proiettarmisi addosso come un siluro a pelo d’acqua nelle forme di un cinghiale delle dimensioni di un sofà dagli occhi piccoli e cattivi, dal grugnito potente e dal feroce, impellente appetito di carne rosea, grassoccia e infrollita dalla vita cittadina.

Ovviamente occorreva anche tener conto del fatto che nel fitto della foresta si celava in agguato una gamma amplissima di malattie: giardiasi, encefalite equina orientale, febbre delle Montagne Rocciose, malattia di Lyme, Helicobacter pylori, Ehrlichia chaffeenis,schistosomiasi, brucellosi, shigella, per nominarne solo alcune. L’encefalite equina orientale, causata dalla puntura di un certo tipo di zanzara, intacca il cervello e il sistema nervoso centrale. Se si ha una fortuna sfacciata si può sperare di finire i propri giorni accasciati in una carrozzella con un bavaglino di spugna attorno al collo, ma generalmente si crepa e basta. La malattia di Lyme, provocata invece dal morso di una pulce che infesta i cervi non più grande di una capocchia di spillo, non è d’altra parte meno interessante. Se non diagnosticata in tempo, può rimanere in incubazione anche per anni, prima di esplodere in un vero e proprio festival della patologia. Si tratta di una malattia creata per coloro che nella vita vogliono provarle tutte. I sintomi sono all’inizio mal di testa, affaticamento, febbre, brividi, fiato corto, senso di vertigine e fitte dolorose alle estremità, seguiti da irregolarità cardiaca, paralisi facciale, spasmi muscolari, grave ritardo mentale, perdita progressiva del controllo delle funzioni corporali e, fatto che non può certo sorprendere date le circostanze, depressione cronica.

C’è poi la meno nota famigliola degli organismi conosciuti come hantavirus, i quali sciamano nell’aria che circonda gli escrementi di topi e ratti per poi venire incanalati nel sistema respiratorio di qualunque sfigato abbia la ventura di mettergli vicino un qualunque orifizio respiratorio, ad esempio stendendosi su una branda su cui dei topi abbiano deposto le loro feci. Nel 1993 una sola epidemia di hantavirus uccise ben trentadue persone nel Sud-Est degli Stati Uniti, e l’anno seguente la malattia fece la sua prima vittima sull’Appalachian Trail, quando un escursionista contrasse la malattia dopo aver dormito in un «rifugio infestato da roditori» (definizione che si attaglia del resto perfettamente a tutti i rifugi lungo l’Appalachian Trail). Tra i vari virus, solo rabbia, Ebola e AIDSsono più letali di questo. Va da sé che non esiste cura.

Infine, dato che in fondo stiamo parlando dell’America, esiste la concreta possibilità di essere ammazzati. Dal 1974, almeno nove escursionisti - il numero reale dipende dalla fonte consultata e dalla definizione del termine «escursionista» -sono stati uccisi lungo il sentiero. E due giovani donne sarebbero morte proprio nello stesso periodo in cui io mi trovavo sulla pista.

Per varie ragioni di ordine pratico e che hanno a che fare soprattutto con i lunghi e proibitivi inverni del New England settentrionale, sono ben pochi i mesi all’anno in cui è possibile percorrere il sentiero. Se si comincia all’estremità nord, ossia presso il Mount Katahdin nel Maine, occorre attendere che le nevi si sciolgano, il che accade alla fine di maggio o anche ai primi di giugno. Se invece si inizia nella Georgia diretti verso nord, bisogna fare in modo di concludere il percorso prima della metà di ottobre, periodo in cui ricominciano le nevicate. La maggior parte della gente percorre il sentiero da sud a nord in primavera, tenendosi idealmente sempre un passo prima della stagione calda e degli insetti più fastidiosi e infettivi.

Era mia intenzione perciò iniziare il mio viaggio da sud agli inizi di marzo e mi riservai sei settimane per la prima tratta.

La lunghezza dell’Appalachian Trail è un dato che colpisce per la sua approssimazione. Il National Park Service, che ha la peculiarità di distinguersi sempre in modi perlomeno inquietanti, riesce a fornire nel medesimo dépliant le misure di 3405 e 3542 chilometri. Le guide ufficiali dell’Appalachian Trail, una serie di undici libri, ognuno relativo a un particolare stato o un tratto del sentiero, registra invece di volta in volta le lunghezze di 3541, 3546, 3476 e «più di 3461» chilometri. L’Appalachian Trail Conference, organismo che gestisce il sentiero, nel 1993 ha fissato la lunghezza ufficiale in 3456,187 chilometri, successivamente cambiata per un paio d’anni in un’esitante «più di 3461 chilometri», ma di recente è ritornata a un’ammirevole precisione, con una lunghezza di 3477,92 chilometri. Sempre nel 1993 tre persone hanno misurato la pista manualmente e sono arrivati a un dato finale di 3485,489 chilometri. All’incirca nello stesso periodo un’accurata misurazione basata su una serie di mappe del Centro americano per le ricerche geologiche ha fissato la lunghezza nell’ordine di 3410,463 chilometri.

Ciò che è certo è che si tratta di un sentiero dannatamente lungo, e per nulla facile, da un estremo all’altro. Le cime che l’Appalachian Trail attraversa non sono particolarmente alte -la più elevata, Clingmans Dome, nel Tennessee, arriva appena a duemila metri - ma sono comunque piuttosto imponenti e, soprattutto, una di seguito all’altra. Lungo il sentiero vi sono infatti più di trecentocinquanta vette oltre i 1500 metri, e forse un altro migliaio intorno a quell’altitudine. In una settimana si possono attraversare fino a cinquanta cime. Per percorrere il sentiero dall’inizio alla fine occorrono in totale all’incirca cinque mesi e cinque milioni di passi.

Non occorre aggiungere che sull’Appalachian Trail ci si deve caricare tutto l’occorrente sulle spalle. Può sembrare un’osservazione del tutto ovvia, ma per me fu un vero e proprio trauma, quando mi resi conto che si sarebbe trattato di un’impresa del tutto differente da una passeggiata nel Lake District, con lo zainetto della merenda e una cartina, che si conclude felicemente in un confortevole alberghetto. Sono pochi quelli in grado di portare con sé un equipaggiamento inferiore ai diciotto chili, e quando si trasporta quel genere di peso, potete credermi, non si può smettere di farci caso nemmeno per un minuto. Un conto è camminare per 3500 chilometri; altro è camminare per 3500 chilometri con un armadio sulla schiena.

La prima vaga idea di che razza di avventura sarebbe stata si fece strada in me nel momento in cui mi recai da un rivenditore specializzato, la Dartmouth Co-Op, per acquistare il necessario equipaggiamento. Mio figlio aveva da poco cominciato a lavorare lì dopo la scuola, per cui mi erano state date istruzioni ben precise di buon comportamento. Più specificamente, mi era stato proibito di dire o fare qualunque stupidaggine, in particolare di dire «Mi sta prendendo per il culo?» nel momento in cui fossi stato informato del prezzo di un prodotto, di provare qualunque capo mi avesse obbligato a esporre al pubblico la pancia, di mostrarmi evidentemente poco interessato alle spiegazioni fornitemi dal commesso sulla corretta cura e manutenzione di un dato articolo e soprattutto di fare pagliacciate tipo indossare un cappello da sci per signora tanto per fare lo spiritoso.

Mi era stato detto di chiedere di Dave Mengle, che aveva percorso personalmente svariate sezioni del sentiero ed era una sorta di enciclopedia ambulante di vita all’aria aperta. Gentile e deferente, Mengle era il tipo di persona in grado di parlare per quattro giorni, e sempre con vivo interesse, di equipaggiamento da campeggio.

Non mi era mai capitato di sentirmi al tempo stesso così affascinato e smarrito. Passammo un intero pomeriggio a visionare tutto lo stock disponibile in negozio. Mi diceva cose del tipo: «Ecco, questa è una cerniera a 70 fili ad alta densità, antiabrasione e con cucitura antistrappo. D’altra parte voglio essere franco con lei…» e si chinava verso di me abbassando la voce con un tono sommesso e allo stesso tempo candido, come se stesse per rivelarmi di essere stato arrestato una volta in un gabinetto pubblico assieme a un marinaio «… le cuciture sono solo ribattute invece che cucite in diagonale, e il vestibolo è un po’ angusto».

Forse per il fatto di aver menzionato qualche mia precedente esperienza di campeggio in Inghilterra, Dave dava per scontata una certa qual competenza in materia da parte mia. Io non volevo deluderlo, per cui a domande del tipo «Cosa ne pensa delle bacchette in fibra di carbonio?», io mi limitavo a scuotere la testa con una risatina saputa, come a riconoscere la notoria variabilità di opinioni in merito a quell’annosa e controversa questione, e alla fine dicevo: «Sa che le dico, Dave? Non sono ancora riuscito a farmi un’idea precisa sulla questione. Lei cosa ne pensa?»

Disquisimmo a lungo, soppesandone con gravità meriti e difetti, di cinghie di compressione laterale, cappucci antispiffero, rampini, distribuzione differenziale del peso, canaletti di aerazione, retine e di una cosa misteriosa chiamata Rapporto di Esposizione Occipitale. Persino un set di pentolame in alluminio poteva dare luogo a considerazioni relative a peso, densità, termodinamica e generico impiego, tali da occupare la mente per ore. Tra un approfondimento e l’altro facemmo anche un gran discettare di escursionismo in generale, con digressioni relative soprattutto a inconvenienti come la caduta massi, gli incontri con orsi, l’esplosione di fornelli da campo e i morsi di serpente, che Dave descriveva con occhi velati di passione, prima di tornare all’argomento principale di conversazione.

A parte tutto ciò, Dave pareva dannatamente interessato alla questione peso. Francamente a me pareva del tutto trascurabile la scelta di un certo sacco a pelo rispetto a un altro per il semplice fatto che pesava due etti di meno, ma nel momento in cui i vari oggetti andavano accumulandosi, cominciai a farmi un’idea di come gli etti ben presto si trasformino in chili. Non credevo che avrei comprato così tanta roba. In fondo possedevo già un paio di scarponcini, un coltello svizzero e una busta di plastica trasparente per carte topografiche con tanto di laccio da collo, per cui mi sentivo piuttosto a buon punto. Invece, più parlavo con Dave più mi rendevo conto che stavo facendo gli acquisti per una vera e propria spedizione.

I due shock più profondi mi vennero dallo scoprire prima di tutto i prezzi terrificanti di ogni singolo articolo (ogni volta che Dave si assentava un secondo per andare in magazzino o confermare un dato tecnico, lanciavo fugaci occhiate ai cartellini del prezzo, che mi lasciavano sistematicamente stecchito) e poi il fatto che ogni oggetto - chissà perché - sembrava richiederne un altro, ovviamente da comprare a parte. Se si compra un sacco a pelo, ad esempio, bisogna comprare una sacca che lo contenga, prezzo 29 dollari. Questo fu un concetto che feci davvero fatica a interiorizzare.

Quando, dopo seria e profonda riflessione, mi decisi per uno zaino marca Gregory, costosissimo, il top nella sua categoria, del tipo inutile-girarci-intorno, Dave mi chiese: «E che tipo di cinghie vorrebbe abbinarci?»

«Scusi?» feci io, rendendomi improvvisamente conto di essere sull’orlo di quella pericolosissima condizione nota come «esaurimento nervoso dell’acquirente al dettaglio». Da quel momento in poi niente più «Faccia pure una mezza dozzina di quelli li, Dave; e otto di quegli altri. Che diavolo, si vive una volta sola, no?» Il mucchietto di salmerie che fino a un minuto prima mi era sembrato così piacevolmente consistente ed eccitante - tutto nuovo! e tutto mio! - improvvisamente mi parve greve ed estraneo.

«Le cinghie» mi spiegò paziente Dave, «per allacciare il sacco a pelo e fissare lo zaino in vita.»

«Perché, non sono incluse?»

«Certo che no» fece lui, indicandone una parete piena. Poi, toccandosi la punta del naso con un dito aggiunse: «Ovviamente avrà bisogno anche di una copertura antipioggia». Spalancai gli occhi: «Una copertura anti… Perché?»

«Per riparare lo zaino dalla pioggia, ovvio.»

«Perché, non è impermeabile?»

Fece una smorfia come a indicare che stavo spaccando il capello in quattro: «Be’, non proprio al cento per cento…»

La cosa mi parve straordinaria. «Ma davvero? E non è venuto in mente al tizio che fabbrica questa roba che la gente avrebbe piacere di portare i propri zaini all’aria aperta, di tanto in tanto, e persino di portarseli in campeggio? E quanto costerebbe questo zaino?»

«Duecentocinquanta dollari.»

«Duecentocinquanta dollari? Mi sta prende…» Feci una pausa e abbassai il tono di voce. «Dave, lei mi sta dicendo che pago duecentocinquanta dollari per uno zaino senza cinghie e non impermeabile?»

Annuì.

«Ce l’ha il fondo, almeno?»

Fece un sorriso sforzato. Non era evidentemente nel suo carattere fare dell’ironia o dare segni di insofferenza riguardo al mondo vario e gravido di promesse dell’escursionismo.. «Le cinghie sono disponibili in un assortimento di sei colori» aggiunse difatti servizievole.

Finii con l’acquistare un equipaggiamento sufficiente a dare lavoro a una carovana di sherpa: tenda tre stagioni, materassino autogonfiabile, pentolame a incastro, posate ripiegabili, piatti e tazze di plastica, un complicato sistema a pompa per purificare l’acqua, sacche portaoggetti in una rutilante gamma di colori, kit per la riparazione forature, sacco a pelo, corde elastiche, borracce, poncho impermeabile, fiammiferi idrorepellenti, coprizaino, portachiavi-bussola-termometro effettivamente piuttosto bello, cucinetta da campo ribaltabile dall’aria decisamente inquietante, bomboletta di gas con relativa ricarica, una torcia elettrica da posizionare sulla testa tipo casco da minatore (e che a dire il vero mi piaceva un sacco), un grosso coltello per uccidere orsi e scherzi genetici di varia natura, mutandoni termici e gilè, quattro bandane e un sacco di altre cose, alcune delle quali non capivo cos’erano, ragion per cui dovetti tornare al negozio e chiedere delucidazioni. Riuscii a fermarmi appena prima di comprare un telone tecnico a 59,95 dollari, rendendomi conto che avrei potuto tranquillamente comprare un pezzo di cerata in qualunque grande magazzino a non più di cinque dollari. Riuscii anche a non comprare un kit da pronto soccorso, un altro per cucire, un altro ancora contro i morsi di vipera, un fischietto da emergenza da dodici dollari e una paletta in plastica arancione per sotterrare la cacca, motivando la mia decisione con il fatto che si trattava di accessori superflui, troppo cari, o semplicemente ridicoli. In particolare, la palettina arancione sembrava praticamente gridarmi in faccia: «Pivello! Mammoletta! Fate largo a Mollaccione!»

Uscito di lì, per fare tutto per bene e in una volta, mi diressi alla locale libreria e acquistai alcuni libri, tra cui Il manuale dell’escursionista, A piedi sull’Appalachian Trail, parecchi volumi di argomento naturalistico-scientifico, una storia geologica dell’Appalachian Trail a opera di tal V. Collins Chew, nonché il set completo delle sunnominate guide ufficiali dell’Appalachian Trail, per un totale di undici libretti brossurati e cinquantacinque mappe differenti per grandezza, stile e scala, rappresentanti l’intero sentiero dalla Springer Mountain al Mount Katahdin, per il prezzo non indifferente di 233,45 dollari. Uscendo dalla libreria notai infine un volume intitolato Attacchi degli orsi: cause e metodi di prevenzione.Dopo averlo aperto a caso e avervi trovato la frase «questo è il tipico caso di incidente in cui un orso bruno individua una persona e tenta di ucciderla e divorarla», lo buttai assieme agli altri nella borsa della spesa.

Portai il tutto a casa e lo sistemai in cantina. Gran parte di quella roba, che mi era perlopiù tecnologicamente estranea, mi suscitava un sentimento misto di eccitazione e timore, ma più di timore. Tanto per fare qualcosa, mi misi in testa la torcia da minatore, tirai fuori la tenda dalla custodia in plastica e la montai sul pavimento. Srotolai poi il materassino autogonfiante e ce lo sistemai dentro, assieme al morbido sacco a pelo. Quindi strisciai all’interno e me ne stetti lì per un bel pezzo, saggiando le misure di quello spazio angusto e costoso, dallo strano odore di nuovo. Cercai di immaginarmi disteso non in un seminterrato, accanto al rassicurante e domestico ronzio della caldaia, ma all’aperto, su un passo d’alta montagna, in ascolto del rumore del vento e degli alberi, del lamento di misteriose creature caniformi, del sibilo fioco di un accento dell’alta Georgia che diceva: «Virgil, ne ho trovato un altro. Ce l’hai tu la corda?» Ma invano.

Non mi ero trovato in uno spazio simile da quando avevo smesso di costruire capanne con le coperte e i cartoni, intorno ai nove anni. In ogni modo era piuttosto accogliente, là dentro, e quando mi fossi abituato all’odore, che ingenuamente presumevo si sarebbe attenuato col tempo, e al fatto che il materiale della tenda conferiva a ogni cosa al suo interno un colore verdognolo malaticcio, simile all’alone di luce di uno schermo radar, non sarebbe stato affatto male. Magari era un po’ claustrofobico e maleodorante, ma confortevole e dall’aria persino protettiva.

Non sarebbe stato male, ripetevo a me stesso. Ma dentro di me sapevo che mi stavo sbagliando di grosso.


2

Il pomeriggio del 5 luglio 1983, tre adulti e un gruppo di ragazzini decisero di accamparsi in una zona piuttosto rinomata nei pressi del Canimina Lake, nelle foreste profumate di pino del Québec occidentale, a circa centotrenta chilometri a nord di Ottawa, in un parco chiamato La Vérendrye Provincial Reserve. Dopo aver preparato la cena, sistemarono le cibarie avanzate in una borsa che, secondo le regole, portarono a una distanza di una trentina di metri nel bosco e sospesero poi tra due alberi al di fuori della portata degli orsi.

Verso mezzanotte, un orso bruno giunse nei paraggi dell’accampamento, scorse la borsa e se ne impadronì con facilità, arrampicandosi su un albero e spezzandone un ramo. Dopo averne divorato il contenuto si dileguò, per rifarsi vivo però un’ora dopo, questa volta direttamente all’interno dell’accampamento, attirato dall’odore di cibo emanante dagli abiti e dai capelli, e di conseguenza dalle tende e dai sacchi a pelo. Fu una lunga notte, per il gruppo di gitanti del Canimina. Tra mezzanotte e le tre e mezzo del mattino, l’orso si fece vivo per ben tre volte.

Provate a figurarvi al buio, da soli, all’interno di una minuscola tenda di nylon dello spessore di pochi micron, unica barriera tra voi e la notte gelida, con fuori un orso di due quintali. Provate a figurarvi i suoi placidi grugniti e il suo misterioso tramestio, il clangore di pentolame rovesciato e il suono delle sue fauci masticanti, il tonfo delle sue grosse zampe, il suo respiro pesante, il frusciare della sua immensa schiena contro la tenda. Immaginate la scarica di adrenalina nel vostro corpo, lo spiacevole formicolio lungo le braccia all’urto improvviso del suo grugno contro la base della tenda, l’allarmante beccheggio del vostro fragile guscio nel momento in cui l’animale comincia a farsi strada nello zaino che avete così imprudentemente lasciato aperto all’entrata - contenente, vi ricordate improvvisamente con un tuffo al cuore, uno Snickers nella tasca davanti. Gli orsi adorano lo Snickers, avete sentito dire.

E poi vi attraversa il pensiero improvviso che forse, mioddio, lo Snickers in realtà è all’interno della tenda, anzi forse proprio ai vostri piedi, o sotto di voi, o… cazzo, eccolo lì. Ecco però un altro urto del testone grufolante contro la tenda, questa volta pericolosamente vicina alle vostre spalle. Il beccheggio si fa più forte. Poi, improvvisamente, il silenzio. Un lungo, lunghissimo silenzio e - un momento… shhhh… oooh, sì! - l’indescrivibile sollievo nel constatare che l’orso si è allontanato dall’altra parte della tenda, o si è rintanato nel fitto del bosco. Be’, lo dico fin da ora. Io non potrei mai reggere.

Immaginatevi perciò cosa deve aver provato il povero David Anderson, di anni dodici, quando alle tre e mezzo del mattino, alla terza incursione, vide la propria tenda aperta in due da un’artigliata e un orso, spinto fin là da un denso, inestinguibile, onnipresente aroma di hamburger, gli affondò le fauci in una gambina e lo trascinò urlante e scalciante attraverso l’accampamento e di lì nel bosco. Nei pochi istanti che occorsero agli amici dello sventurato ragazzino per aprire la lampo dei loro sacchi a pelo - e immaginatevi, se ci riuscite, di tentare di uscire da un sacco a pelo improvvisamente troppo voluminoso, di brancolare nel buio alla frenetica ricerca di una torcia elettrica e del vostro bastone da passeggio, di aprire la cerniera della vostra tenda con dita inevitabilmente incerte e di mettervi all’inseguimento - be’, in quei pochi momenti il povero piccolo David Anderson era morto.

Immaginate ora di leggere un saggio zeppo di aneddoti come questo - storie vere, riportate con sobrietà - immediatamente prima di partire da soli per un’escursione nella natura selvaggia del Nord America. Il libro a cui alludo è Attacchi degli orsi: cause e metodi di prevenzione, a opera di un accademico canadese di nome Stephen Herrero. Se non è esattamente l’ultima parola sull’argomento, be’, allora l’ultima parola non voglio proprio sentirla. Per molte, lunghe notti d’inverno nel New Hampshire, mentre la neve fuori si accumulava e mia moglie se ne stava placidamente appisolata al mio fianco, giacqui a occhi sbarrati nel letto leggendo resoconti dalla precisione clinica relativi a individui scrupolosamente masticati senza neanche essere stati tirati fuori dal sacco a pelo, o colti come frutti tremebondi da qualche ramo d’albero su cui avevano inutilmente cercato scampo, o ancora silenziosamente aggrediti (questa poi non me la immaginavo proprio!) mentre bighellonavano ignari lungo sentieri ricoperti di foglie o si rinfrescavano i piedi in un torrente. Era tutta gente il cui tragico errore di volta in volta era stato quello di mettersi sui capelli una dose eccessiva di gel aromatico, di mangiare carne sugosa, di infilarsi una barretta di cioccolato in tasca per la merenda pomeridiana, di aver avuto rapporti sessuali o di avere le mestruazioni, di avere insomma solleticato con un segnale olfattivo particolare le delicatissime nari di un orso bruno. Altre volte invece si era trattato semplicemente di avere la sfortuna nera di svoltare e trovare il sentiero bloccato da un maschio irascibile col testone dondolante, o di capitare incautamente nel territorio di un esemplare troppo vecchio o troppo malato per tentare di catturare prede più veloci.

È importante a questo punto sottolineare che la possibilità di un attacco vero e proprio da parte di un orso sull’Appalachian Trail è piuttosto remota. Prima di tutto il vero mostro tra gli orsi, ossia il grizzly, o Ursus horribilis, come opportunamente lo descrive la sua nomenclatura scientifica, non esiste a est del Mississippi, e questa notizia non può che giunger lieta, dal momento che i grizzly sono grossi, forti e dannatamente scorbutici. Quando Lewis e Clark si inoltrarono nella foresta selvaggia si resero ben presto conto che nulla aveva il potere di spaventare gli indiani quanto il grizzly. Il che non deve stupire, dal momento che si può infilzare un orso di frecce fino a trasformarlo in un porcospino e vederlo ancora sgambettare che è un piacere. Anche Lewis e Clark con i loro fuciloni rimasero allibiti e turbati dalla capacità del grizzly di assorbire scariche e scariche di piombo senza quasi vacillare.

Herrero riferisce un incidente che dà conto con sufficiente chiarezza della quasi totale invulnerabilità del grizzly, e che riguarda un cacciatore di professione dell’Alaska di nome Alexei Pitka, il quale, dopo aver tallonato a lungo un grosso esemplare maschio nella neve, riuscì ad abbatterlo con una pallottola ben assestata in mezzo al cuore dalla sua carabina di grosso calibro. Pitka probabilmente avrebbe dovuto portare sempre con sé un promemoria con su scritto: «Prima di deporre il fucile assicurarsi che l’orso sia morto». Invece si fece avanti con circospezione e osservò attentamente l’animale per un paio di minuti, onde assicurarsi che non si muovesse più, e quando si sentì sufficientemente sicuro appoggiò il fucile a un tronco - tragico errore - per dirigersi senza più esitazione verso la sua preda. Non appena fu a tiro, però, l’orso balzò su, agguantò con le sue fauci enormi la faccia del cacciatore, come per dargli un sonoro baciotto, e con un solo strattone gliela strappò via.

Miracolosamente, Pitka sopravvisse. «Non so proprio perché diavolo abbia appoggiato quel dannato fucile all’albero» disse poi, riflettendo sull’accaduto. A dire il vero le sue esatte parole furono: «Mrffff mmmpg nnnmmm mffffffn», dato che non disponeva più né di labbra, né di denti, né di naso, lingua o qualunque organo fonatorio.

Se però fosse capitato a me di essere agguantato e masticato - e più leggevo più mi pareva un’evenienza non del tutto improbabile - sarebbe accaduto a opera di un orso bruno, noto anche come Ursus americanus. Ci sono almeno 500.000 orsi bruni nel Nord America, e forse il numero arriva anche a 700.000 esemplari. Sono animali oltremodo comuni sulle colline che contornano l’Appalachian Trail (e a dire il vero, pare che per loro comodità si servano del sentiero spesso e volentieri). E sono cifre che vanno aumentando. I grizzly, al contrario, non sono più di 35.000 in tutto il Nord America, e solo un migliaio si trova negli Stati Uniti, perlopiù nell’area dello Yellowstone National Park. Delle due specie, l’orso bruno è generalmente più piccolo (sebbene si tratti di una questione del tutto relativa: un maschio di orso bruno può pur sempre arrivare a pesare intorno ai tre quintali) e decisamente più timido.

Gli orsi bruni raramente sono aggressivi. Ma qui sta il punto. A volte lo sono. Gli orsi sono animali agili e fortissimi, a parte il fatto ovviamente di essere perennemente affamati. Se un orso avesse l’intenzione di uccidervi e mangiarvi, potrebbe farlo in qualunque momento e in assoluta comodità. Ciò non accade di frequente, ma - ed è proprio questo il punto che mi preme sottolineare - una volta è più che sufficiente.

Herrero tiene a sottolineare che le aggressioni da parte degli orsi bruni sono rare, in rapporto al loro numero. Andando indietro nei decenni fino al 1890, riferisce solo di ventitré attacchi confermati (circa la metà di quelli perpetrati da grizzly), e in gran parte si sono verificati nell’Ovest o in Canada. Nel New Hampshire non sono stati registrati attacchi mortali all’uomo da parte di un orso dal 1784. Nel Vermont, pare che non se ne siano mai verificati.

In virtù di questa serie di dati rassicuranti avevo buoni motivi per sentirmi tranquillo, e tuttavia non riuscivo a compiere il necessario atto di fede. Dopo aver indicato che soltanto 500 persone sono state aggredite e ferite da orsi bruni tra il 1960 e il 1980 - il che fa 25 aggressioni all’anno, per una popolazione di orsi di almeno 500.000 esemplari - Herrero aggiunge che perlopiù si trattava di ferite non gravi. «I postumi tipici dell’aggressione da orso sono per solito di scarsa gravità» scrive Herrero con ostentata pacatezza «e si riducono a qualche graffio e segni da leggera morsicatura.»

Scusate, ma cosa significa esattamente «leggera morsicatura»? Stiamo parlando di lotte per gioco e morsi per finta? Non credo proprio. E 500 aggressioni accertate sono poi una cifra così modesta, considerato lo scarso numero di persone che si aggirano nelle foreste del Nord America? E quanto scemi si deve essere per sentirsi rassicurati dall’informazione che nessun orso ha ucciso un uomo nel New Hampshire o nel Vermont in due secoli? Non è che gli orsi abbiano firmato un trattato, giusto? Non c’è nulla che gli impedisca di cominciare anche domani.

Immaginiamoci dunque che un orso ci stia inseguendo in una foresta. Che cosa c’è da fare? Mi pare piuttosto interessante sottolineare il fatto che i suggerimenti in materia divergono totalmente a seconda che si tratti di un grizzly o di un orso bruno. Nel primo caso occorre arrampicarsi sull’albero più vicino, dato che i grizzly con gli alberi non se la cavano granché. Se invece non ci sono alberi a disposizione, allora la cosa da fare è indietreggiare lentamente, evitando di incrociare lo sguardo dell’animale. Tutti i libri sono categorici nel dire che se un grizzly ci corre incontro, non si deve mai cercare di scappare. Questo è il genere di consiglio che può venire solo da una persona che, nel momento in cui lo dà, si trova comodamente seduta davanti alla tastiera del suo computer. Datemi retta: se siete all’aperto, senz’armi, e un grizzly vi si fa incontro, correte. Correte senza problemi. Se non altro, occuperete produttivamente gli ultimi sette secondi della vostra vita. In ogni modo, quando il grizzly vi raggiunge, ricordate di fingervi morti. Al grizzly ovviamente potrebbe venire in mente di masticarvi un arto per un paio di minuti, ma in linea di massima dovrebbe perdere interesse nei vostri riguardi e allontanarsi. Con gli orsi bruni, invece, fingere di essere morti è inutile, dal momento che continuerebbero a masticarvi ben oltre il momento in cui non sareste più in grado di preoccuparvi di alcunché. Anche arrampicarsi su un albero si rivelerebbe una fesseria, dal momento che gli orsi bruni sono agili arrampicatori: come Herrero non manca sagacemente di far notare, vi ritrovereste a fronteggiare un orso bruno in cima a un albero.

Per allontanare un orso bruno con cattive intenzioni, Herrero suggerisce di fare un gran baccano, come ad esempio sbattere delle pentole l’una contro l’altra, lanciare dei bastoni o dei sassi e, cito, «correre incontro all’orso» (ma certo, come no: dopo di lei, professore). D’altra parte, aggiunge giudiziosamente poco più avanti, queste tattiche potrebbero avere l’effetto «semplicemente di provocare l’orso». Tante grazie. Altrove dice invece che gli escursionisti dovrebbero di tanto in tanto fare rumore, come ad esempio cantare una canzone, per segnalare agli orsi la loro presenza, dal momento che un orso preso alla sprovvista si trasforma più facilmente in un orso infuriato. Poche pagine dopo, però, veniamo anche avvisati che «produrre rumore potrebbe rivelarsi pericoloso»: potrebbe attirare un orso affamato che altrimenti non avrebbe saputo nemmeno della vostra esistenza.

Il fatto è che nessuno può dirvi in realtà cosa fare, in una simile evenienza. Gli orsi sono creature imprevedibili, e quello che può funzionare in una data circostanza può rivelarsi fallimentare in un’altra. Nel 1973 due adolescenti, Mark Seeley e Michael Whitten, erano in gita nello Yellowstone National Park, quando inavvertitamente si interposero tra una madre e i suoi cuccioli. Niente preoccupa e innervosisce una femmina d’orso quanto avere un estraneo tra sé e i propri piccoli. Infuriata, la bestia si mise a inseguire i due malcapitati - a dispetto della sua goffa andatura, un orso può arrivare a una velocità di cinquanta chilometri all’ora - e i due ragazzi si rifugiarono ognuno su un albero. L’orso seguì Whitten sull’albero, agguantò tra le fauci il piede destro del poveretto e lentamente, con pazienza, lo tirò giù dal suo rifugio (riuscite anche voi a sentire il raspare delle unghie sulla corteccia del tronco?), quindi cominciò ad azzannarlo generosamente. Nel tentativo di distrarre l’orso dal suo amico, Seeley si mise a gridare, col risultato che l’orso si arrampicò sul suo albero e tirò giù pure lui. A quel punto entrambi finsero di essere morti - stando ai manuali, esattamente la cosa da non fare - e l’orso dopo un po’ si allontanò.

Non voglio dire che questo genere di pensieri fossero diventati la mia ossessione, ma certamente mi tennero alquanto occupata la mente nei mesi in cui attendevo l’arrivo della primavera. La mia paura più grossa - la reale possibilità che mi lasciò per tante notti con gli occhi fissi alle ombre degli alberi proiettate sul soffitto della mia stanza - era di ritrovarmi da solo, in una notte d’inchiostro, accucciato nella mia tendina, con fuori un orso in cerca di cibo, domandandomi che intenzioni avesse. Rimasi particolarmente colpito da una fotografia amatoriale contenuta nel libro di Herrero, scattata di notte da un campeggiatore che si trovava in una località imprecisata dell’Ovest, e che ritraeva quattro orsi bruni in piedi sotto una borsa piena di cibo appesa a un ramo. I bestioni apparivano evidentemente colti di sorpresa, ma neanche lontanamente allarmati dalla luce del flash.

Non era la taglia o l’atteggiamento degli orsi a preoccuparmi - a dire la verità avevano tutta l’aria di quattro innocui ragazzoni che hanno perso un frisbee tra i rami di un albero - quanto il loro numero. Fino a quel momento non mi aveva nemmeno sfiorato l’idea che gli orsi potessero muoversi in gruppo. Che diavolo avrei fatto se mi si fossero presentati davanti non uno ma quattro orsi?

A parte morire, intendo dire. Cagandomi letteralmente addosso a morte. Espellendo i miei sfinteri come una di quelle trombette da carnevale, forse, chissà, anche riuscendo a produrre uno squillo altrettanto gaio, prima di esalare il mio ultimo respiro nel sacco a pelo, in un profluvio di sangue e fluidi corporei.

Il libro di Herrero fu scritto nel 1985. Da allora, secondo un articolo del «New York Times», nel Nord America le aggressioni da parte degli orsi sono aumentate del venticinque per cento. L’articolo inoltre fa notare che gli orsi sono più inclini ad attaccare gli esseri umani nelle primavere che seguono una cattiva stagione di frutti di bosco. L’anno prima era stata una pessima annata, per i frutti di bosco. Tutta quella faccenda degli orsi cominciava decisamente a non piacermi.

C’era poi il fatto di essere completamente da solo. Io, ad esempio, possiedo un’appendice e un numero imprecisato di altri organi che per una ragione o per l’altra avrebbero potuto benissimo esplodere nel bel mezzo della foresta. Che cosa avrei fatto, allora? Che avrei potuto fare se ad esempio fossi caduto da una sporgenza rocciosa e mi fossi spezzato la schiena? E se avessi perso il sentiero a causa di una tempesta di neve o di una nebbia improvvisa, o fossi stato attaccato alla gola da un serpente velenoso, o fossi scivolato su dei sassi viscidi di muschio durante il guado di un torrente e mi fossi procurato una commozione cerebrale? Si può annegare anche in dieci centimetri d’acqua, sapete? Si può morire anche per una caviglia slogata, se è per quello. No, decisamente tutto ciò non mi rassicurava.

A Natale, assieme alle cartoline d’auguri, acclusi per i miei amici un invito a unirsi a me in questo viaggio, almeno per un tratto. Ovviamente nessuno si degnò nemmeno di rispondermi.

Un giorno verso la fine di febbraio, però, con la partenza ormai imminente, arrivò una telefonata. Era un vecchio compagno di scuola di nome Stephen Katz. Io e Katz eravamo cresciuti insieme nello Iowa, ma da tempo ormai avevo perso le sue tracce. Coloro di voi che hanno avuto occasione di leggere Neither Here Nor There si ricorderanno di Katz come il mio compagno di viaggi di gioventù, su e giù per l’Europa. Nei venticinque anni trascorsi da allora, lo avevo rincontrato tre o quattro volte, quando mi era capitato di tornare da quelle parti, e questo era tutto.

«Ho esitato un po’ a chiamarti» mi disse lentamente. Sembrava alla ricerca delle parole giuste. «Questa faccenda dell’Appalachian Trail… Insomma, credi che potrei venire con te?»

Non potevo crederci. «Vuoi venire con me?»

«Be’, se è un problema, capisco benissimo…»

«No, no figurati. È un piacere. Un vero piacere.»

«Sul serio?» Sembrò improvvisamente illuminarsi.

«Ma certo.» Davvero faticavo a crederci. Non avrei fatto tutta quella strada da solo. Cominciai a canterellare dentro di me: «Non farò tutto quel dannato sentiero da solo» mentre ripetevo: «Non so nemmeno spiegarti quanto piacere mi faccia».

«Be’, fantàstico» disse lui con un sospiro di sollievo, aggiungendo poi in tono confidenziale: «Sai, pensavo che magari non mi volevi con te».

«E perché mai?» chiesi.

«Perché ti devo ancora seicento dollari dal viaggio in Europa.»

«Ma va’, figurati… Seicento dollari, hai detto?»

«Ovviamente intendo restituirteli.»

«Ehi, ehi, ehi» dissi. Non avevo memoria alcuna di quei seicento dollari, ma in vita mia non avevo mai condonato a essere vivente un debito di simile entità, per cui feci fatica a trovare immediatamente le parole. Alla fine però, mettendoci un grande impegno, ce la feci e dissi: «Ascolta, non è un problema, basta che tu venga con me. Sei sicuro di sentirtela?»

«Sicurissimo.»

«Quanto sei in forma?»

«Sono in forma smagliante. Cammino molto tutti i giorni.»

«Davvero?» chiesi incredulo, dato che si tratta di un’abitudine davvero rara in America.

«Be’, sai, mi hanno sequestrato l’auto.»

«Ah, ecco.»

Parlammo ancora un po’ del più e del meno, di sua madre, di mia madre, di Des Moines. Io gli raccontai quel poco che sapevo della pista e della vita che ci attendeva. Stabilimmo che sarebbe arrivato nel New Hampshire il mercoledì successivo, e che saremmo partiti alla volta del sentiero dopo due giorni di preparativi. Per la prima volta da parecchi mesi mi sentii ottimista, riguardo a questa impresa. Katz mi sembrava alquanto entusiasta, per essere uno che non era costretto a intraprendere un simile viaggio.

Le mie ultime parole al telefono furono: «E dimmi un po’, come te la cavi con gli orsi?»

«Be’» fece lui, «ancora non mi hanno beccato.»

Questo è lo spirito giusto, pensai. Buon vecchio Katz. Buon vecchio chiunque dotato di battito cardiaco e intenzionato a fare quel viaggio con me. Quando riagganciò, mi venne in mente che non gli avevo nemmeno chiesto perché diavolo volesse venire. Katz era il genere di persona che di tanto in tanto poteva avere l’esigenza di rendersi irreperibile da tizi con nomi tipo Julio o Mister Big. In ogni modo non mi interessava. L’importante era che non avrei dovuto camminare da solo.

Trovai mia moglie in cucina e le annunciai la buona notizia. Si dimostrò di un entusiasmo più contenuto di quanto avrei sperato.

«Stai per andare per settimane e settimane nella foresta con una persona che hai visto solo un paio di volte negli ultimi venticinque anni. Sei sicuro di averci pensato bene?» Come se io in vita mia avessi mai pensato bene ad alcunché. E aggiunse: «Mi pareva di ricordare che avevate concluso il vostro viaggio in Europa detestandovi cordialmente».

«Non è vero.» Le cose non stavano così, in effetti. «Abbiamo cominciato detestandoci e abbiamo finito col disprezzarci cordialmente. Ma è stato parecchio tempo fa.»

Mi guardò come per dire: «Raccontalo a qualcun altro». E ribatté: «Voi due non avete niente in comune».

«E invece abbiamo tutto in comune. Abbiamo tutti e due quarantaquattro anni. Ci diremo tutto sulle nostre emorroidi e i nostri dolori lombari, e di come non ci ricordiamo più dove mettiamo le cose, e ogni mattina puntualmente gli chiederò: ’Ti ho mai parlato dei miei problemi di schiena?’ e lui risponderà: ’No, non mi pare’, e così ricominceremo tutto da capo. Andrà benone.»

«Sarà un inferno.»

«Sì, hai ragione.»

E così mi ritrovai, sei giorni dopo, nel piccolo aeroporto locale, intento a scrutare l’orizzonte in attesa dell’aeroplanino di latta contenente Katz, che alla fine arrivò, atterrò rollando e si fermò sulla pista d’asfalto a venti metri dal terminal. Il ronzio dei propulsori si intensificò per un attimo, per poi acquietarsi del tutto, mentre la porta basculante si apriva per rilasciare la scaletta di sbarco. Cercai di ricordarmi l’ultima volta che avevo visto Katz. Dopo la nostra estate europea, Katz era tornato a Des Moines e si era dedicato con fervore alla missione di promuovere e incrementare la cultura degli stupefacenti nello Iowa. Aveva sfarfallato di festa in festa per svariati anni, finché non era rimasto più nessuno con cui festeggiare: aveva finito così col festeggiare da solo, in mutande e canottiera, con una bottiglia in una mano e un pacchettino d’erba nell’altra di fronte a una tivù a cui aveva applicato un paio di orecchie da coniglio. Ricordai a quel punto che l’avevo visto l’ultima volta all’incirca cinque anni prima, in un fast food dove avevo portato mia madre per colazione. Era seduto a un tavolo con un tizio che stava sferrando un attacco frontale a un piattone di frittelle e suggeva di tanto in tanto da una bottiglia equivocamente mimetizzata in un sacchetto di carta. Erano le otto del mattino, e aveva l’aria felice. Katz era sempre felice quando era sbronzo. Ed era sempre sbronzo.

Un paio di settimane dopo avevo sentito dire che la polizia l’aveva trovato in un campo dalle parti di Mingo all’interno di un’auto ribaltata, appeso a testa in giù alla cintura di sicurezza, con le mani ancora serrate al volante. Pare anche che le sue prime parole siano state: «Qualche problema, agente?» Gli avevano trovato una piccola quantità di cocaina nel vano portaoggetti e l’avevano spedito in una prigione di minima sicurezza per diciotto mesi. Durante il suo soggiorno là, aveva cominciato a frequentare con una certa assiduità gli incontri della Alcolisti Anonimi. E, con sorpresa di tutti quelli che lo conoscevano, da allora non aveva più toccato né alcol né sostanze illegali di alcun genere.

Dopo il suo rilascio si era trovato un lavoretto, aveva ripreso l’università come studente part time e si era sistemato per qualche tempo con una parrucchiera di nome Patty. Negli ultimi tre anni si era dedicato a una vita retta e - cosa che notai immediatamente, nell’attimo stesso in cui fece capolino fuori dall’aereo - a farsi crescere la pancia. Era sempre stato un tipo piuttosto ben messo, ma l’uomo che vidi ricordava in modo inquietante Orson Welles dopo una nottataccia. Zoppicava un po’, persino, e aveva il respiro decisamente troppo pesante per essere uno che aveva percorso appena venti metri.

«Dio, che fame» disse senza preamboli, dandomi da portare il suo bagaglio a mano che quasi mi staccò il braccio.

«Che diavolo ci hai messo, qui dentro?»

«Niente, qualche cassetta e cazzate varie per il viaggio. C’è mica un caffè qui intorno? È da Boston che non mangio.»

«Da Boston? Ma sei appena arrivato da Boston.»

«Infatti. Devo mangiare ogni ora, altrimenti mi vengono le comesichiama… le convulsioni.»

«Le convulsioni?» L’incontro non si profilava esattamente come l’allegra rimpatriata che mi ero figurato. Chissà perché, mi ero immaginato un Katz saltellante sull’Appalachian Trail come uno di quei pupazzetti a molla quando cadono sulla schiena.

«Da quando ho assunto feniltiamina adulterata, una decina di anni fa. Se però mi faccio un paio di merendine o qualcosa del genere, di solito va tutto a posto.»

«Stephen, fra tre giorni ci ficcheremo nella foresta. Non ci saranno negozi per acquistare merendine.»

Ebbe un lampo d’orgoglio. «Ci ho già pensato» disse indicandomi il suo bagaglio sul nastro trasportatore, uno zaino di tela verde militare, che ovviamente fece prendere a me. Pesava almeno trenta chili. Vide la mia aria sorpresa e spiegò: «Snickers. Una bella zainata di Snickers».

Montammo in macchina e andammo verso casa, non senza concederci una bella sosta per fare colazione. Io e mia moglie lo osservammo, una volta giunti a casa, sedersi al tavolo della cucina e divorarsi cinque bomboloni al cioccolato, che sciacquò via dall’esofago con un paio di bicchierate di latte. Dopodiché chiese se poteva andare a stendersi per un po’. Gli ci volle qualche minuto per salire le scale.

Mia moglie mi rivolse uno sguardo pieno di un inesprimibile vuoto.

«Per favore, non dire nulla» la pregai.

Nel pomeriggio, dopo che Katz si era fatto il suo riposino, facemmo visita al buon Dave Mengle, che lo equipaggiò di uno zaino, una tenda e tutto il resto, quindi ci dirigemmo ai grandi magazzini per comprare telo impermeabile, mutande termiche e qualche altra sciocchezza. Dopodiché Katz decise che aveva bisogno di riposare un altro po’.

Il giorno dopo andammo al supermercato per comprare le provviste necessarie alla nostra prima settimana sul sentiero. Io sapevo poco o nulla di cucina, ma Katz aveva alle spalle anni e anni di celibato e aveva un buon repertorio di ricette che prevedevano l’impiego soprattutto di burro d’arachidi, tonno e spaghettini cinesi, sapientemente mescolati in una ciotola, e che si diceva certo di poter tranquillamente adattare a un contesto di vita all’aria aperta, anche se poi acquistò un sacco di altre schifezze, tipo quattro salsiccioni piccanti, due chili di riso, scatole di biscotti assortiti, crema d’avena, uva passa, confezioni varie di M&M, paté di carne spalmabile, altri Snickers, semi di girasole, gallette, purè liofilizzato, due grandi confezioni di zucchero di canna - che definì con tono da intenditore «assolutamente necessarie» - parecchie strisce di carne secca salata, un paio di mattonelle di formaggio duro, del prosciutto in scatola e la serie completa di merendine e tortine appiccicose e dalle date di scadenza infinite, prodotte dalla ditta Little Debbie.

«Sai, non credo proprio che ce la faremo a portare tutta questa roba» azzardai, mentre Katz deponeva nel carrello una mortadella delle dimensioni di un giogo da cavallo.

Katz soppesò rapidamente con lo sguardo il contenuto del carrello. «Mi sa che hai ragione» disse. «Ricominciamo da capo.»

Abbandonò il carrello e andò a procurarsene un altro. Percorremmo nuovamente le varie corsie, cercando questa volta di essere più selettivi, ma finimmo di nuovo con il caricare troppa roba.

Decidemmo alla fine di fare la spesa, andare a casa e tentare di fare i bagagli dopo esserci divisi il tutto. Katz andò in camera da letto, dove c’era tutta la sua roba, e io mi diressi nel mio quartier generale giù in cantina. Mi ci misi d’impegno per un paio d’ore, ma non riuscii assolutamente a mettere via tutto. Misi da parte quaderni, libri e quasi tutti gli abiti, e tentai le più svariate combinazioni, ma senza successo. Ogni volta andava a finire che avevo lasciato fuori dal bagaglio qualcosa di importante e di voluminoso. A un certo punto decisi di andare di sopra a vedere come se la cavava Katz. Lo trovai steso a letto che ascoltava musica in cuffia. La sua roba era sparsa ovunque sul pavimento e il suo zaino giaceva in un canto, floscio e ignorato. Tenui pulsazioni musicali uscivano sibilanti dalle orecchie di Katz.

«Ma non stai facendo i bagagli?»

«Aha.»

Attesi un minuto, pensando che si sarebbe tirato su. Invece niente. Non una mossa. «Stephen, scusami, ma dai decisamente l’impressione di uno che se ne sta lì disteso.»

«Aha.»

«Puoi starmi a sentire?»

«Sì, tra un minuto.»

Sospirai e mi rimbucai in cantina.

Katz disse ben poco durante la cena, e ben presto sparì nuovamente in camera. Non lo vedemmo più per tutta la serata, ma verso la mezzanotte, quando ormai eravamo tutti a letto, cominciarono ad arrivarci dal piano di sopra degli strani rumori, seguiti da lunghe pause di silenzio: borbottii, rumore di passi, strascichio di mobili da una parte all’altra della stanza, imprecazioni rabbiose. Non sapendo esattamente che dire, presi la mano di mia moglie e la strinsi forte.

Il mattino seguente, bussai alla porta di Katz. Non avendo ottenuto risposta mi decisi a mettere la testa dentro. Giaceva addormentato con i vestiti indosso, in cima a un mucchio informe di lenzuola e coperte. Il materasso era in parte scivolato dalla rete, come se durante la notte Katz avesse ingaggiato una rissa con degli intrusi. Il suo zaino era pieno ma non chiuso, ed effetti personali di varia natura si trovavano ancora sparsi in abbondanza per la stanza. Gli dissi che dovevamo partire entro un’ora per riuscire a prendere l’aereo.

«Aha» rispose.

Venti minuti dopo scese al piano di sotto, dandosi un gran daffare e masticando imprecazioni di ogni sorta. Non c’era neanche bisogno di vederlo per capire che stava scendendo le scale girato di fianco e con la cura che si prende nello scendere dei gradini ricoperti da una spessa crosta di ghiaccio. Sulle spalle portava lo zaino, cui aveva attaccato ogni sorta di oggetto: un paio di scarpe da tennis fetide, un altro paio di calzature, che grossomodo assomigliavano a degli stivaletti da città, pentole e tegami, e una borsetta da viaggio marca Laura Ashley, appositamente trafugata dal guardaroba di mia moglie e adesso zeppa di chissà cosa. «È il massimo che posso fare» disse. «Ho dovuto lasciare fuori un po’ di roba.»

Annuii. Anch’io in fondo avevo eliminato qualcosa - specificamente, la crema d’avena, che peraltro ho sempre detestato, e le più ripugnanti tra le tortine Little Debbie, il che vale poi a dire tutte.

Mia moglie ci diede un passaggio fino all’aeroporto di Manchester nel mezzo di una nevicata, in quel genere di goffo silenzio che precede le separazioni a lungo termine, mentre Katz sedeva nel sedile posteriore e divorava ciambelline. All’aeroporto mi diede un bastone da passeggio che mi avevano comprato i miei figli. Sarei voluto scoppiare in lacrime o, meglio ancora, saltare in macchina e battermela mentre Katz era concentrato sul corredo di cinghie e tiranti del suo zaino. Invece mia moglie mi rivolse un debole sorriso, mi strinse un braccio e se ne andò.

La osservai mentre si allontanava, quindi mi diressi verso il terminal assieme a Katz. L’uomo al check-in osservò per un istante i nostri biglietti per Atlanta e i nostri zaini, e disse poi, con tono fin troppo zelante per essere uno che se ne stava in maniche di camicia in pieno inverno: «Siete diretti all’Appalachian Trail?»

«Ci può scommettere» rispose Katz pieno d’orgoglio.

«Stanno avendo un sacco di guai con i lupi, di questi tempi, laggiù.»

«Davvero?» chiese Katz, improvvisamente tutt’orecchi.

«Eh, sì. Un paio di tizi sono stati aggrediti recentemente. E ne sono usciti parecchio malconci, a quanto ho saputo» disse, e si diede da fare per un paio di minuti con i nostri biglietti e le targhette dei bagagli. «Spero per voi che abbiate portato delle mutande di lana.»

«Per i lupi

«Ma no, per il tempo. Pare che ci sarà un freddo record, da quelle parti, nei prossimi quattro o cinque giorni. Stanotte è andato sotto lo zero di un bel po’, ad Atlanta.»

«Fantastico» disse Katz, prorompendo in un irrefrenabile e sconsolato sospirone. Rivolgendosi poi all’uomo con un’aria di sfida negli occhi disse: «Nessun’altra buona notizia per noi? Che ne so, una chiamata dall’ospedale per comunicarci che abbiamo il cancro o qualcosa del genere?»

L’altro sorrise e ci schiaffò i biglietti sul bancone: «No, questo è quanto, e fate buon viaggio. Ah, un’ultima cosa» aggiunse, abbassando il tono della voce e rivolgendosi direttamente a Katz. «Stai all’occhio con quei lupi, ragazzo mio, perché, detto tra noi, tu hai tutta l’aria di essere un gran bel pranzetto.» E gli strizzò l’occhio.

«Cristo» fece Katz a bassa voce, e assunse un’aria profondamente triste.

Prendemmo la scala mobile che conduceva alla nostra uscita. «E per giunta su questo volo non danno nemmeno da mangiare» esclamò infine, conferendo alla sua voce un tono di amara inevitabilità.

3

Tutto ebbe inizio con Benton MacKaye, un pacato, gentile, estremamente ben intenzionato sognatore il quale, nell’estate del 1921, palesò al suo caro amico Charles Harris Whitaker, responsabile editoriale di un’importante rivista di architettura, un ambizioso progetto relativo a una pista per escursioni. Dire che in quel momento la vita di MacKaye non stesse andando esattamente a mille significherebbe peccare di impietoso understatement. Nel corso del decennio precedente il nostro aveva perso il suo lavoro alla Harvard University, era stato rimosso da un incarico al National Forest Service, per finire poi, giusto perché bisognava trovargli un posto dove ficcarlo, in un ufficio federale del ministero del Lavoro, con l’alquanto vago compito di trovare idee per incrementare l’efficienza e la moralità della nazione. Fu lì che, con encomiabile senso del dovere, si mise ad approntare una serie di complicati e improponibili progetti, accolti con benevola e divertita tolleranza e prontamente cestinati. Nell’aprile del 1921, poi, sua moglie, ben nota pacifista e suffragetta di nome Jessie Hardy Stubbs, pensò bene di gettarsi da un ponte sull’East River a New York e annegare.

Questo era più o meno lo sfondo esistenziale in cui veniva a collocarsi la proposta a Whitaker di realizzare l’Appalachian Trail, proposta che venne pubblicata nell’ambito di un alquanto improbabile forum sul «Journal of thè American Institute of Architects» nell’ottobre seguente. Il sentiero era in verità solo una parte del grandioso progetto di MacKaye, il quale vedeva nell’Appalachian Trail il trait d’union tra una serie di campi di lavoro montani in cui migliaia di pallidi e indigenti operai provenienti dalle aree urbane depresse si sarebbero potuti finalmente impegnare in attività benefiche per la salute, con rinnovato spirito di dedizione e traendo benefici incalcolabili dal contatto prolungato con la natura. Nel piano di sviluppo erano compresi ostelli, case d’accoglienza e centri di studio stagionali, nell’intento di arrivare alla creazione di una rete di comunità montane permanenti «autogestite», i cui abitanti si sarebbero sostentati mediante cooperative dedite ad «attività non industriali» basate su silvicoltura, coltivazioni e artigianato. L’intera impresa avrebbe funzionato, per usare le parole di MacKaye, come «luogo di ritiro spirituale dal profitto», un’idea che alcuni interpretarono come una vera e propria «botta di bolscevismo», per usare le parole di un suo biografo.

All’epoca del progetto di MacKaye c’erano già parecchie associazioni di escursionisti, negli Stati Uniti orientali, tra cui il Green Mountain Club, il Dartmouth Outing Club, il venerabile Appalachian Mountain Club, organizzazioni di côté perlopiù patrizio che già possedevano e attendevano alla conservazione di centinaia di chilometri di montagne e sentieri tra i boschi, soprattutto nel New England. Nel 1925 i rappresentanti dei club principali tennero un convegno a Washington e fondarono un’associazione, l’Appalachian Trail Conference, con l’idea di costruire un sentiero di duemila chilometri che unisse le due cime più elevate della costa orientale, ossia il Mount Mitchell, nel North Carolina, alto 2037 metri, e il Mount Washington, lievemente più basso (esattamente di 120 metri), nel New Hampshire. Per la verità nei cinque anni successivi non accadde proprio nulla, soprattutto per il fatto che MacKaye si impegnò a fondo a ingrandire e ridefinire il proprio sogno, scollegando gradualmente dal mondo reale sia il sogno sia se stesso.

Questo stato di cose durò fino al 1930, quando lo sviluppo del progetto passò a un giovane avvocato di Washington, nonché appassionato escursionista, di nome Myron Avery, e finalmente ebbero inizio i lavori, anche se furono interrotti quasi subito. Per usare le parole di un suo contemporaneo, Avery lasciò non uno, ma due sentieri dietro di sé: uno lastricato di sentimenti feriti ed ego devastati; l’altro, quello effettivamente denominato Appalachian Trail. Lui infatti non dimostrò fin dall’inizio alcuna pazienza con MacKaye e i suoi «epigrammi misticheggianti», e i due sostanzialmente non andarono mai d’accordo. Nel 1935 scoppiò tra loro una lite furibonda relativa allo sviluppo del sentiero attraverso lo Shenandoah National Park. Avery era propenso a far passare una strada panoramica in mezzo alle montagne, mentre MacKaye riteneva quell’idea un tradimento dei principi alla base del progetto. E non si parlarono mai più.

MacKaye è da sempre ritenuto il fondatore del sentiero, ma ciò si spiega soprattutto per il fatto che ebbe la ventura di vivere per novantasette anni, di disporre di un gran bel testone di capelli bianchi e di essere sempre stato disponibile a spendere due parole in occasione di cerimonie organizzate sulle pendici di morbide colline soleggiate. Avery morì invece nel 1952, un buon quarto di secolo prima di MacKaye, e in un momento in cui il sentiero era ancora assai poco noto. Ma in realtà l’Appalachian Trail era opera sua. Fu lui a tracciarlo, fu lui a cooptare e spingere le varie associazioni a procurare squadre di volontari, fu lui a supervisionare personalmente la costruzione di centinaia di chilometri del sentiero. Fu lui infine a estenderne la lunghezza totale dai duemila chilometri concepiti originariamente agli oltre tremila finali, e prima che fosse completato lo aveva percorso in lungo e in largo. Ci sono interi eserciti che si sono dati da fare assai meno.

L’Appalachian Trail fu portato a termine formalmente il 14 agosto 1937, con il disboscamento di oltre tre chilometri di foresta in una remota area del Maine. Incredibilmente, la costruzione della pista più lunga del mondo non suscitò quasi alcuna attenzione. Avery non era tipo da pubbliche relazioni e a quel tempo MacKaye si era ritirato dalla scena in rotta assoluta con lo sviluppo del progetto. Nessun giornale registrò l’avvenimento e non ci furono neppure cerimonie per celebrare l’occasione.

Il sentiero in effetti non aveva alcuna base storica. Non seguiva antiche piste indiane né tracciati dell’epoca postcoloniale. Non raggiungeva le cime più elevate, panorami spettacolari o siti storici di importanza particolare. Alla fin fine non terminava nemmeno vicino al Mount Mitchell, sebbene portasse al Mount Washington e di lì si estendesse per altri 560 chilometri fino al Mount Katahdin nel Maine (Avery, che era cresciuto nel Maine e conosceva a fondo quella zona, aveva insistito parecchio su questo punto), il sentiero aveva finito con lo snodarsi essenzialmente là dove ci si poteva fare strada, perlopiù su e giù per colline, lungo crinali e depressioni che nessuno aveva mai percorso e ai quali nessuno prima di allora si era mai nemmeno dato la briga di dare un nome. Alla conclusione dei lavori, il sentiero terminava 240 chilometri prima dell’estremità meridionale degli Appalachi e quasi 1127 prima di quella settentrionale. Chalet, campi di lavoro, scuole e centri di studio non vennero mai realizzati.

E tuttavia, ancora oggi sopravvive parecchio dell’impulso alla base del sogno di MacKaye. I tremila e rotti chilometri della pista, proprio come i sentieri laterali, i ponti, i segnali e i rifugi, sono mantenuti in maniera impeccabile da volontari. Di fatto si dice che l’Appalachian Trail sia la più vasta opera del mondo portata avanti esclusivamente su base volontaria, e tutt’oggi resta un’area favolosamente libera da qualunque forma di commercializzazione. L’Appalachian Trail Conference non ha assunto impiegati stipendiati praticamente fino al 1968, e conserva tuttora gli originari tratti amichevoli e informali. Oggi l’Appalachian Trail non è più il sentiero per escursioni più lungo del mondo. Il Pacific Crest e il Continental Divide sono entrambi più lunghi, sebbene di pochissimo. Eppure rimarrà sempre il primo, quello con la storia più eroica, e con gli amici più affezionati. E se li merita.

Praticamente fin dal giorno della sua apertura la pista dovette subire degli aggiustamenti. Dapprima furono deviati 190 chilometri in Virginia per far spazio alla costruzione dell’autostrada Skyline, che attraversa lo Shenandoah National Park. Nel 1958 lo sviluppo edile nei dintorni e sulla cima del Mount Oglethorpe, nella Georgia, costrinse invece a deviare quasi trentacinque chilometri dell’estremità sud e a trasferire così l’inizio della pista nei pressi di Springer Mountain, nell’area protetta della Chattahoochee National Forest. Dieci anni dopo, l’Appalachian Trail Club del Maine ricollocò invece la bellezza di 425 chilometri - praticamente metà della sua lunghezza totale all’interno dello stato - spostandola dalle aree di disboscamento e ricollocandola nel cuore della foresta. Ancora oggi, da un anno all’altro la pista non è mai la stessa.

La cosa più difficile, per chi voglia percorrere l’Appalachian Trail, è raggiungerlo, specialmente all’una o all’altra delle sue estremità. Springer Mountain, il punto d’avvio a sud, è situata a una dozzina di chilometri dalla strada più vicina, in una località di nome Amicalola Falls State Park, che a sua volta è decisamente remota da tutto. Da Atlanta, che rappresenta il più vicino collegamento della pista al mondo, si può scegliere fra un treno o due autobus al giorno per Gainesville, dopodiché mancano ancora sessantacinque chilometri a là dove mancano ancora dodici chilometri all’inizio della pista (dal Mount Katahdin nel Maine è ancora peggio, se è possibile). Fortunatamente, c’è gente che raccoglie gli escursionisti ad Atlanta e li scarica ad Amicalola in cambio di qualche soldo. E fu così che io e Katz ci consegnammo nelle manone di un tizio grande e grosso dall’aria amichevole e con un berretto da baseball calcato in testa, di nome Wes Wisson, il quale aveva accettato di portarci per sessanta dollari dall’aeroporto di Atlanta all’albergo di Amicalola Falls, il nostro punto di partenza alla volta di Springer.

Ogni anno, tra l’inizio di marzo e la fine di aprile, partono da Springer circa duemila escursionisti, la maggior parte dei quali con la ferma intenzione di percorrere tutta la pista fino al Mount Katahdin. In realtà solo il dieci per cento scarso ce la fa. Un quarto non arriva oltre il North Carolina, il primo stato che si incontra. Un altro dieci per cento rinuncia dopo la prima settimana. Wisson ne aveva viste di tutti i colori.

«L’anno scorso ho scaricato un tizio all’inizio della pista» ci raccontò mentre ci dirigevamo verso nord, attraverso scure foreste di pini, alla volta delle scabre colline della Georgia settentrionale.

«Tre giorni dopo mi chiama da un telefono pubblico di Woody Gap, che è poi il primo che si incontra. Mi dice che vuole tornare a casa, che la pista non è come se l’era immaginata. Vado a prenderlo e lo porto di nuovo all’aeroporto. Due giorni dopo mi chiama di nuovo da Atlanta. Dice che sua moglie lo ha rispedito indietro perché ora che aveva speso tutti quei soldi in equipaggiamento se lo poteva scordare di mollare così facilmente. Lo riporto all’inizio del sentiero, e dopo tre giorni mi telefona di nuovo da Woody Gap. Vuole tornare un’altra volta all’aeroporto. ’E tua moglie?’ faccio io. E lui: ’Questa volta mica ci tomo, a casa’.»

«Quanto è lontano Woody Gap?»

«Trentaquattro chilometri da Springer. Non sembra granché, vero? Voglio dire, per uno che veniva dall’Ohio.»

«E perché ha mollato così presto?»

«Mah, diceva che non era come se l’era immaginato. Dicono tutti così, del resto. Giusto la scorsa settimana avevo in macchina tre signore californiane - mezza età, tanto gentili e carine, proprio simpatiche. Le ho scaricate e le ho lasciate tutte col morale alle stelle. Dopo quattro ore mi hanno chiamato per dirmi che volevano tornare a casa. Erano venute fin qui dalla California, capite, spendendo Dio solo sa quanti soldi in biglietti aerei ed equipaggiamento. E credetemi, avevano davvero bella roba, di quella cara sul serio, nuova di zecca e di qualità super. E hanno mollato dopo forse un paio di chilometri. Anche loro hanno detto che non era come se l’aspettavano.»

«Ma che cosa si aspettano?»

«E che ne so? Scale mobili, forse. Lì è tutto rocce, colline e boschi, con in mezzo una pista. Non occorre un granché di ricerca scientifica per arrivarci. Ma non ci credereste quanta gente abbandona. E poi c’era quell’altro tizio, circa sei settimane fa… quello sì che avrebbe dovuto rinunciare. Se l’era fatta tutta da solo dal Maine e ci aveva impiegato ben otto mesi, che è più di quello che di solito ci mette la gente. Quando ne è uscito era un rottame traballante. Con me c’era sua moglie, che era venuta a prenderlo, e le si è letteralmente gettato tra le braccia scoppiando a piangere come un disperato. Non riusciva nemmeno a parlare. Giuro, non ho mai visto uno così contento di essere riuscito a portare a termine qualcosa, e mentre guidavo avrei voluto dirgli: ’Be’, caro signore, l’Appalachian Trail è una faccenda volontaria, sa?’ Ma ovviamente ho tenuto la bocca chiusa.»

«E mentre porti la gente all’inizio del sentiero riesci a capire se sono di quelli che ce la faranno о no?»

«In genere sì.»

«Che ne dici? Ce la faremo, noi?» chiese Katz.

Ci diede un’occhiata. «Sono sicuro che ve la caverete ottimamente» rispose, ma la sua faccia diceva chiaramente il contrario.

L’albergo di Amicalola Falls era sostanzialmente un nido d’aquila abbarbicato sul fianco di una montagna, raggiungibile attraverso un’interminabile e tortuosa straduzza che si snodava per i boschi. Il tizio all’aeroporto di Manchester aveva azzeccato in pieno le previsioni del tempo. Quando mettemmo piede fuori dall’auto ci accolsero un freddo pungente che ci lasciò senza fiato e un vento rabbioso e gelato che si insinuava come una lingua d’acciaio nelle maniche e su per i pantaloni.

«Crisssss-to!» gemette Katz incredulo, come se qualcuno gli avesse appena scaraventato una secchiata di ghiaccio giù per la collottola.

Pagai il passaggio ed entrammo.

L’albergo era moderno, accogliente e soprattutto ottimamente riscaldato, con un ampio atrio in cui troneggiava un grande caminetto di pietra e camere anonimamente accoglienti alla Holiday Inn. Ci dirigemmo nelle nostre stanze, dandoci appuntamento per le sette. Mi presi una Coca-Cola da un distributore automatico e mi feci un’abbondante doccia bollente che comportò l’impiego di innumerevoli asciugamani di spugna, dopodiché mi infilai nelle lenzuola fresche di bucato - quanto tempo ci sarebbe voluto prima di poter tornare a godere di simili comodità? - e guardai per qualche minuto delle sconfortantissime previsioni del tempo alla tivù per bocca di gioviali presentatori del Weather Channel. Non chiusi praticamente occhio per tutta la notte.

Mi alzai prima dell’alba e rimasi seduto alla finestra a osservare un pallido sole che si alzava svogliato sul paesaggio circostante: un inospitale e apparentemente sconfinato susseguirsi di colline massicce, coperte da file di alberi nudi e da un sottile velo di neve. Ciò che avevo di fronte non aveva l’aria di qualcosa di assolutamente proibitivo - che non fossimo sull’Himalaya era piuttosto chiaro - ma d’altra parte non aveva nemmeno l’aspetto di un posto dove veniva la voglia di uscire a passeggio.

Mentre andavo a fare colazione fece capolino il sole, colmando il mondo circostante di un incoraggiante chiarore, e mi azzardai a mettere il naso fuori per sentire la temperatura. Il freddo mi colse come un ceffone in pieno viso, e il vento tirava con la rabbia consueta. Minuscole pallottole di neve, simili a sferette di polistirolo, si inseguivano vorticando. Il grande termometro all’ingresso dell’albergo segnava cinque gradi sotto zero.

«Dannatamente freddo per questa stagione, nella Georgia» mi disse un’impiegata con un ampio e compiaciuto sorriso, mentre correva dalla sua auto verso l’albergo. Poi si fermò un istante e mi chiese: «Va sulla pista?»

«Sì.»

«Be’, meglio lei che io. Buona fortuna! Brrrrrr!» E si sparò dentro.

Con mia sorpresa, avvertii dentro di me una certa qual alacrità primaverile. Attendevo da mesi quel momento, in fondo, anche se perlopiù con un inquietante presagio. Volevo vedere sul serio cosa c’era là fuori. In tutto il resto della nazione a quell’ora la gente si stava trascinando mestamente al lavoro, rimanendo imbottigliata nel traffico o intossicandosi di monossido di carbonio. Io invece stavo per inoltrarmi nel fitto della foresta. Mi sentivo più che pronto.

Nella sala da pranzo trovai Katz, anche lui con l’aria lodevolmente vivace. Il motivo della sua effervescenza, però, era che aveva fatto amicizia con una cameriera di nome Rayette, occupata proprio in quel momento a prendere la sua ordinazione. Rayette era alta almeno un metro e ottanta e aveva una faccia da far paura ai bambini, ma aveva tutta l’aria di essere una persona di buon cuore, e col caffè ci sapeva fare. Non avrebbe potuto manifestare la sua disponibilità a Katz più chiaramente nemmeno se si fosse sollevata la gonna fin sopra la testa e gli si fosse distesa direttamente sul menù turistico. Katz, dal canto suo, stava pompando testosterone a tutta forza.

«Oooh, mi piacciono gli uomini che apprezzano le frittelle» tubava Rayette.

«Be’, cara, di sicuro apprezzo queste» fece Katz di rimando, con gli angoli della bocca luccicanti di sciroppo d’acero e una felicità da uccello mattiniero in viso. Non si trattava precisamente di Katharine Hepburn e Spencer Tracy, ma era uno spettacolo tutto sommato toccante.

La ragazza si allontanò per servire un altro cliente e Katz la osservò con un’espressione di orgoglio quasi paterno. «Proprio brutta, eh?» mi disse con un largo e incongruo sorriso.

Optai per una risposta tattica: «Be’, solo se la confronti con altre donne».

Katz annuì pensoso, poi mi piantò in viso un paio di occhi improvvisamente preoccupati e mi disse: «Lo sai che cosa cerco al giorno d’oggi in una donna? Un battito cardiaco e un set completo di membra. Ecco tutto».

Assunsi un’espressione solidale.

«E non sono rigido, a dirti la verità. Se manca un pezzo sono anche disposto a passarci sopra. Credi che ci starebbe?»

«Penso che dovresti prendere un numero e metterti in coda.»

Annuì di nuovo con aria di virile consapevolezza. «Forse è meglio finire di mangiare e filarsela.»

Mi sentii sollevato. Scolai la mia tazza di caffè e andammo a prendere le nostre cose. Quando però ci rincontrammo dieci minuti dopo con tutta la nostra roba, pronti alla partenza, Katz aveva l’aria dell’uomo più infelice del mondo.

«Restiamo un’altra notte» implorò.

«Cosa? Stai scherzando?» Mi coglieva del tutto impreparato. «Ma perché?»

«Perché qui fa caldo e fuori fa un freddo dannato.»

«Dobbiamo andare.»

Lanciò un’occhiata ai boschi. «Creperemo di freddo.»

Anch’io rivolsi lo sguardo in quella direzione. «Sì, probabilmente. Ma dobbiamo andare lo stesso.»

Mi caricai lo zaino sulle spalle oscillando pericolosamente sotto il suo peso - mi ci sarebbero volute settimane perché riuscissi a farlo con un’aria anche solo lontanamente di abitudine - mi strinsi la cinghia in vita e uscii. Sul limitare della foresta diedi un’occhiata dietro di me per essere sicuro che Katz mi stesse seguendo. Di fronte a me si estendeva un vasto e inospitale mondo di nudi alberi invernali. Misi piede con solennità sul sentiero, frammento dell’Appalachian Trail ai tempi in cui la pista passava di lì per andare dal Mount Oglethorpe a Springer.

Era il nove marzo. Il nostro viaggio era cominciato.

La strada ci portò in una vallata boscosa solcata da un torrente chioccolante orlato di ghiaccio, che seguiva il sentiero per circa due chilometri prima di procedere in ripida salita addentrandosi nella foresta. Come capimmo ben presto, ci trovavamo ai piedi della prima cima, di nome Frosty Mountain, e fin da subito fu durissima. Il sole splendeva e il cielo era azzurrissimo, ma tutto intorno a noi era marrone: marroni gli alberi, marrone la terra, marroni le foglie congelate. E il freddo era terribile. Avanzai per una cinquantina di metri e poi mi fermai, con gli occhi fuori dalle orbite, il respiro pesante e il cuore che rimbombava in modo preoccupante. Katz era già rimasto indietro e sbuffava anche più di me. Continuai.

Era un inferno. I primi giorni di marcia, in questo genere di viaggi, sono sempre un inferno. Io ero fuori forma in modo indecoroso. Senza speranza. Lo zaino era troppo pesante. Ma davvero troppo. Ero assolutamente impreparato: non mi era mai capitato nulla di così difficile. Ogni passo mi costava uno sforzo enorme. La cosa più difficile, all’inizio, era rendersi conto che dopo ogni collina ce n’era sempre un’altra. La differenza tra essere su una collina e vederla da lontano è che nel primo caso non puoi mai prevedere che cosa ti aspetta. Tra le cortine di alberi che nascondono l’orizzonte a ogni lato, il limite del campo visivo che si allontana a ogni passo e la stanchezza che si accumula nel camminare, gradualmente si perde la nozione di quanta strada è stata fatta. Ogni volta che si raggiunge quella che si pensava fosse la cima, ci si rende conto invece che la collina continua, ben nascosta da un gradino naturale che la celava alla vista, e che ce ne sarà ancora, e poi ancora, ciascun declivio ancor più immoto e irraggiungibile del precedente, finché sembra impossibile che una sola collina possa essere tanto alta. A un certo punto si raggiunge un’altitudine da cui si riesce a scorgere la punta degli alberi più alti, e non c’è altro sopra la testa se non uno sconfinato cielo blu, e allora si pensa con sollievo: ecco, quasi ci siamo. Ma si tratta di uno spietato inganno. L’elusiva sommità si ritira sistematicamente da qualunque punto sia stato raggiunto, così che quando la volta verde si apre abbastanza per lasciar intravedere qualcosa, ci si accorge che gli ultimi alberi sono sempre lontani e irraggiungibili come prima. Eppure si va avanti. Che altro si può fare?

Quando alla fine, dopo un lasso di tempo che pare un’eternità, arrivi sul serio alla mitica quota alla quale l’aria frizzante profuma di resina di pino e la vegetazione tutt’intorno si fa aspra e contorta, provata com’è dalla violenza del vento, ormai sei a un punto in cui qualunque cosa importa ben poco. Ti getti bocconi su una lastra di gneiss, schiacciato a terra dal peso dello zaino, e giaci là per qualche minuto, meditando, in una fulminea esperienza extracorporea, sul fatto che mai prima di allora ti era capitato di osservare un lichene così da vicino, e a ben riflettere non ti era capitato di osservare così da vicino niente in assoluto, almeno dall’età della prima lente di ingrandimento, regalo dei quattro anni. Alla fine, con uno sbuffo affaticato, rotoli sulla pancia, ti sganci lo zaino, ti arrabatti a rimetterti in piedi, per renderti conto - sempre in modo distaccato, vago e curiosamente oltremondano - che il panorama è davvero eccezionale: chilometri e chilometri di montagne boscose a perdita d’occhio, senza traccia di intervento dell’uomo, che si estendono in ogni direzione. Potrebbe davvero essere il paradiso. Meraviglioso, senza dubbio. Ma il pensiero che non riesci a levarti dalla testa è che quel panorama te lo sei guadagnato passo dopo passo, e che si tratta solo di un’infinitesima frazione della strada che resta da percorrere prima di arrivare alla fine.

Quando confronti la cartina con il paesaggio circostante, ti rendi conto poi che la pista, più avanti, discende in una valle profonda, in realtà un vero e proprio canyon, del tipo di quelli senza fondo in cui precipita sempre Wilcoyote, e che porta alla base di una nuova, più alta e più scoscesa collina, e ciò proprio nel momento in cui comprendi che quando avrai scalato anche, quella cima, avrai percorso in tutto appena tre chilometri dal mattino, mentre i programmi (stilati incoscientemente a un tavolo di cucina e buttati giù dopo non più di tre secondi di riflessione) parlavano di tredici, quindici chilometri per l’ora di pranzo, venticinque o trenta entro l’ora del tè e ancora di più l’indomani.

A quel punto non è impossibile che si metta anche a piovere. Una pioggia gelata, impietosa, obliqua, con tanto di tuoni e fulmini che si inseguono tra le colline circostanti. Non è impossibile nemmeno che un drappello di boy-scout ti superi a un ritmo di trotto che ti getta nello sconforto più nero. Forse a quel punto sei anche affamato e infreddolito, e puzzolente al punto di non poter più respirare vicino a te stesso. Forse desidereresti essere un lichene, a quel punto. Non proprio morto, ma fermo, molto fermo, per tanto, tantissimo tempo.

Ma ovviamente tutto ciò doveva ancora accadere. Quel giorno in realtà non c’era altro da fare che attraversare quattro noiose montagne lungo dodici chilometri di pista ben tracciata in una giornata asciutta e tersa. Non sembrava di chiedere troppo a se stessi. Invece fu un inferno.

Non so esattamente quando persi Katz, ma fu certamente entro le prime due ore di cammino. All’inizio aspettavo che mi raggiungesse, imprecante a ritmo di marcia e fermandosi a ogni passo per detergersi la fronte e dare un’amara occhiata a ciò che gli riservava l’immediato futuro. Era uno spettacolo sotto ogni aspetto penoso. A un certo punto decisi di aspettare finché non l’avessi visto ricomparire, per essere almeno sicuro di averlo ancora dietro, che non fosse caduto sul sentiero in preda alle palpitazioni, o non avesse scaricato lo zaino per dirigersi alla ricerca di Wes Wisson. Così aspettavo, finché non lo vedevo comparire tra gli alberi con il fiatone, incredibilmente lento e impegnato in un rumoroso e amaro soliloquio. A metà strada della terza cima, di nome Black Mountain e alta circa mille metri, mi fermai per l’ennesima volta ad aspettare, e aspettai finché per un attimo pensai di tornare sui miei passi a vedere che fine aveva fatto il mio compagno. Ma poi cambiai idea e mi rimisi in cammino. Avevo le mie piccole angustie a cui pensare.

Dodici chilometri sembrano poca cosa, ma non lo sono, datemi retta, con uno zaino sulle spalle, anche se siete in forma. Avete presente la situazione in cui siete allo zoo o al luna park con un bambino che si rifiuta di muovere un altro passo? Ve lo sistemate sulle spalle per un po’ - quei due minuti, sperereste -ed è quasi divertente tenerselo appollaiato lì, facendo finta di tanto in tanto di buttarlo giù, o puntando a un ramo basso prima di cambiare bruscamente direzione. Ben presto però cominciate a sentirvi un po’ scomodi. Iniziate ad avvertire un certo stiramento alla base del collo, una contrazione tra, le scapole, e la sensazione si diffonde e si aggrava finché decidete che siete decisamente a disagio, momento in cui annunciate al piccolo Jimmy che dovete metterlo giù per un po’.

Naturalmente Jimmy frigna e si rifiuta di camminare, e la vostra compagna vi guarda con aria di spregio come a dire: avrei dovuto sposare quell’ala destra, invece di uno che non è in grado di tirare nemmeno per quattrocento metri. Ma ehi, fa male. Un male cane. Credetemi, avete tutta la mia solidarietà.

Bene, adesso immaginate, se potete, due piccoli Jimmy ficcati in uno zaino sulle vostre spalle o, meglio ancora, qualcosa di inerte ma pesantissimo, qualcosa che non vuole assolutamente essere sollevato, qualcosa che dal momento in cui lo tirate su vi fa capire che invece vuole starsene pesantemente a terra; che so, un sacco di cemento o una scatola piena di libri medici, o comunque vogliate figurarvi venti chili di devastante pesantezza. Immaginatevi lo strattone quando vi caricate il peso sulle spalle, simile alla spinta verticale di un ascensore in salita. Immaginate ora di portarvi quel peso per ore e ore, anzi per giorni, e non su levigate strade di asfalto disseminate di panche e chioschi di bibite e gelati posti a strategici intervalli, ma su una pista tracciata a malapena, irta di sassi, radici e salite mozzafiato che trasmette alle vostre cosce una mole enorme di trazione. Ecco, a questo punto sollevate ben bene la nuca - vi prego, è l’ultima cosa che vi chiedo - finché il collo non vi si stira, e puntate lo sguardo in direzione di un punto indefinito a circa tre chilometri di distanza. Eccovi alla vostra prima scalata. 4682 lunghi passi vi separano dalla cima, e dopo di quella ne avete ancora parecchi. E adesso non venite a dirmi che dodici chilometri non sono poi tanti.

Oh, dimenticavo un’altra cosa. Non è che qualcuno vi costringa a fare tutto ciò. Non siete nell’esercito. Potete rinunciare in qualunque momento. Andarvene a casa. Rivedere la vostra famiglia. Dormire in un letto vero. O in alternativa, poveri idioti che siete, potete camminare per 3500 chilometri attraverso i monti e la natura selvaggia fino nel Maine.

Arrancai così per delle ore, chiuso in un mio piccolo mondo di stanchezza e lamentele, su e giù per una serie inquietante di montagne, attraverso un’ininterrotta parata di alberi, pensando continuamente: «Ormai devo aver percorso un sacco di chilometri, ne sono sicuro». E la pista proseguiva, interminabile.

Alle tre e mezzo salii alcuni gradini naturali scavati nel granito e mi ritrovai su un belvedere di roccia. Ero sulla cima della Springer Mountain. Misi giù lo zaino e crollai seduto contro il tronco di un albero, stupito di quanto stanco mi sentissi. La vista era spettacolare: le linee curve delle Chutta Mountains, spennellate di una nebbiolina azzurrognola color fumo di sigaretta che si sperdeva all’orizzonte, il sole ormai basso. Mi riposai per una decina di minuti, quindi mi rialzai e mi guardai intorno. C’era una targa di bronzo inchiodata su un masso che annunciava ufficialmente l’inizio dell’Appalachian Trail, e accanto, appesa a un palo, c’era una scatola di legno contenente una penna a sfera attaccata a un laccio e un quaderno a spirale dalle pagine imbarcate per l’umidità. Era il registro della pista, che io francamente mi sarei aspettato rilegato in pelle e dall’aria un po’ tetra, e che invece era pieno di volenterose annotazioni, quasi tutte vergate in grafie giovanili. C’erano perlomeno venticinque pagine piene, dal primo di gennaio, e otto solo di quel giorno. Erano in gran parte frettolose e genericamente gaie, del tipo: «2 marzo. Be’, eccoci qui, e cavolo se fa freddo! Ci si vede a Katahdin! Jay e Spud». Per circa un terzo però erano più lunghe e pensose, con messaggi del genere: «Eccomi dunque a Springer, finalmente. Non so che cosa mi riserveranno le settimane a venire, ma la mia fede in Dio è grande, e so di avere dalla mia parte l’amore e il sostegno della mia famiglia. Mamma, Pookie, questo viaggio è dedicato a voi». E così via.

Aspettai Katz per tre quarti d’ora, quindi mi misi alla sua ricerca. La luce stava scemando e l’aria cominciava a farsi tagliente. Camminai e camminai giù per la collina fra alberi a perdita d’occhio, a ritroso su un terreno che avevo pensato, con il cuore gonfio di gratitudine, di essermi messo alle spalle per sempre. Chiamai ad alta voce più volte, mettendomi in ascolto, ma senza ottenere risposta. Camminai ancora scavalcando tronchi d’albero che avevo superato poco prima, giù per declivi che a stento ricordavo di aver percorso. Lì ci sarebbe arrivata anche mia nonna, pensavo incredulo. Alla fine, dietro una curva mi imbattei in Katz, coi capelli arruffati e un solo guanto, l’adulto più vicino a una crisi isterica che mi sia mai capitato di vedere.

Fu oltremodo difficoltoso farsi raccontare da lui la storia per filo e per segno in modo coerente, dato che era letteralmente furibondo, ma quello che compresi per certo fu che in un accesso di rabbia aveva scaraventato buona parte del contenuto del suo zaino giù da un burrone. Niente di ciò che penzolava festosamente dal suo zaino all’inizio del viaggio era più al suo posto, borraccia compresa.

«Che cosa hai buttato via, esattamente?» chiesi, cercando di non tradire il mio nervosismo.

«Un sacco di pesantissima merda, ecco cosa. La salsiccia, il riso, lo zucchero, la carne in scatola e non so che altro. Un sacco di roba. ’Fanculo.» Katz era quasi annientato dal dispiacere. Era come se la pista l’avesse tradito. Credo, ahimè, che non fosse come se l’era aspettato.

Vidi il suo guanto per terra, a una trentina di metri di distanza, e andai a recuperarlo.

«Dai, Katz, non manca molto.»

«Quanto?»

«Forse un chilometro e mezzo.»

«Merda.»

«Ti porto io lo zaino.» Lo presi e me lo misi in spalla. Non era propriamente vuoto, ma adesso il peso era decisamente modesto. Dio solo sapeva di cosa si era sbarazzato.

Arrancammo fino alla sommità della collina mentre il tramonto ci avvolgeva. A poche centinaia di metri dalla cima, in una radura erbosa sullo sfondo scuro di una serie di colline, c’era un’area di campeggio con un rifugio. C’era parecchia gente, molta più di quella che mi sarei aspettato in quella stagione. Il rifugio - in sostanza un affare a tre lati con un tetto spiovente - aveva tutta l’aria di essere parecchio affollato, e tutt’intorno c’era una buona dozzina di tende già montate. Nell’aria sibili di fornelli a gas, fili di fumo provenienti da pentole e un gran agitarsi di gente giovane e snella.

Trovai uno spazio per noi un po’ discosto dagli altri, ai margini della radura.

«Io non so montare la tenda» disse Katz in tono lamentoso.

«Non ti preoccupare, te la monto io.» Bambinone rammollito, pensai. Improvvisamente mi sentii molto, molto stanco.

Si sedette su un ceppo e mi osservò mentre montavo la tenda. Quando terminai buttò all’interno materassino e sacco a pelo e si infilò dentro immediatamente. Io montai la mia e mi diedi da fare per cercare di renderla, per quanto sommariamente, la mia casetta. Quando ebbi terminato e mi alzai in piedi, mi resi improvvisamente conto che dall’altra tenda non proveniva né un rumore né un movimento.

«Stai dormendo?» chiesi esterrefatto.

«Mmmsì.»

«Così, senza nemmeno cenare?»

«Mmmsì.»

Stetti lì un momento, ammutolito e contrariato, ma troppo stanco per indignarmi. Troppo stanco anche per mangiare, a dire la verità. Mi infilai a mia volta dentro la tenda, portando con me dell’acqua e un libro, mi misi accanto un coltello e una torcia elettrica per illuminazione e difesa notturna e infine mi accoccolai nel sacco a pelo, grato come non mai in vita mia del fatto di trovarmi in posizione orizzontale. Mi addormentai in pochi minuti. Non credo di aver mai dormito cosi bene.

Quando mi svegliai era già giorno. Le pareti interne della tenda erano ricoperte da una strana patina fioccosa, che poi era tutto il mio russare notturno condensato, congelato e appiccicatosi alla tela, in una sorta di albume di ricordi respiratori. La mia bottiglia d’acqua era dura come il marmo. Aveva un aspetto terribilmente virile e la esaminai con interesse, quasi fosse un minerale raro. Con mia sorpresa, mi sentivo piuttosto al calduccio nel sacco a pelo, e per niente allettato dall’idea di rimettermi nella stupida posizione di un tizio che va su e giù per le montagne. Dopo un po’ sentii Katz muoversi lì fuori emettendo dei flebili grugniti, o di sofferenza o come di uno intento a qualcosa di insolitamente complicato.

Dopo un paio di minuti si accosciò accanto alla mia tenda, la sua grossa sagoma che si disegnava scura contro il telo. Non mi chiese se ero sveglio, ma disse semplicemente a voce bassa: «Secondo te ieri sera sono stato… come dire… un perfetto testa di cazzo?»

«Effettivamente, Stephen.»

Pausa.

«Faccio il caffè.»

Interpretai la frase come un gesto di scuse.

«Gentile da parte tua.»

«Freddo del cazzo, qua fuori.»

«Perché, qui dentro no?»

«L’acqua mi si è congelata.»

«Anche a me.»

Aprii la cerniera del mio utero di nylon e ne uscii reggendomi sulle mie povere articolazioni scricchiolanti. Mi parve assai strano, direi bizzarro, essere in piedi all’aperto in un paio di mutandoni di lana. Katz era in ginocchio, intento a mettere un bollitore pieno d’acqua sul fornello da campo. A quanto pareva eravamo gli unici svegli. Faceva freddo ma forse era un filo più caldo del giorno prima, e un solicello basso che faceva capolino tra i rami degli alberi aveva un’aria promettente.

«Come stai?»

Mi piegai sulle gambe in via sperimentale. «A dire il vero non poi tanto male.»

«Anch’io.»

Versò dell’acqua nel filtro di carta. «Prometto di fare il bravo, oggi.»

«Benissimo.» Lanciai un’occhiata al di là della sua spalla. «Dimmi, Stephen» chiesi poi, «c’è una ragione precisa per cui stai filtrando il caffè con la carta igienica?»

«Be’, ecco, ho… ho buttato via i filtri del caffè.»

Proruppi in un versaccio che non assomigliava nemmeno un po’ a una risata. «Ma non saranno pesati nemmeno mezzo etto.»

«Lo so, ma sono fantastici da lanciare perché si aprono e svolazzano tutti qua e là.» Filtrò un altro po’ d’acqua. A dire il vero la carta igienica sembrava assolvere piuttosto bene alla funzione.

Osservammo il caffè che scendeva e ci sentimmo stranamente orgogliosi. Il nostro primo caffè all’aperto, nella natura selvaggia. Me ne passò una tazza. Era piena di fondo di caffè e di pezzettini di carta rosa, ma era ben caldo, il che ce lo rese squisito.

Katz mi guardò con l’aria di scusarsi. «Ho buttato via anche lo zucchero di canna, quindi non c’è zucchero per la crema d’avena.»

«A dire la verità non c’è nemmeno l’avena. L’ho lasciata nel New Hampshire» dissi io.

Si girò verso di me. «Davvero?» E poi aggiunse, come per chiarire le cose: «Io adoro la crema d’avena».

«Che ne diresti di un po’ di formaggio?»

Scosse la testa. «Volato via.»

«Arachidi?»

«Volate via.»

«Carne in scatola?»

«Volata via per prima.»

D tutto cominciava ad avere l’aria di una situazione vagamente preoccupante. «E la mortadella?»

«Be’, quella l’ho fatta fuori ad Amicalola» disse, come se stesse parlando di parecchie settimane prima. Poi aggiunse in tono conciliante: «Per quanto mi riguarda, io sono perfettamente a posto con una tazza di caffè e un paio di Little Debbie».

Feci una piccola smorfia. «Ho lasciato a casa le merendine.»

Il suo faccione divenne gigantesco. «Hai lasciato a casa le Little Debbie?»

Annuii colpevolmente.

«Tutte?»

Annuii di nuovo.

Fece un sospirane. A quel punto la situazione era proprio disperata, se non altro per il fatto che si poneva come una sfida capitale alla sua promessa di fare il bravo. Decidemmo che sarebbe stato il caso di fare un inventario di quanto possedevamo. Spianammo perciò a terra un telo e vi disponemmo sopra tutte le nostre vettovaglie. Il risultato fu decisamente austero: degli spaghettini cinesi, un pacco di riso, dell’uva passa, del caffè, un buon rifornimento di Snickers e carta igienica. Questo era più o meno tutto.

Facemmo colazione a base di Snickers e caffè, smontammo le tende, ci caricammo in spalla gli zaini oscillando pericolosamente a destra e a sinistra e ci rimettemmo in cammino.

«Non posso ancora credere che tu abbia lasciato le Little Debbie a casa» disse Katz. Dopodiché cominciò a perdere terreno.