STORIA, MISURA DEL MONDO
Fernand Braudel
il Mulino, Bologna 2002.
Traduzione di Graziella Zattoni Nesi
In questo volume sono raccolte più di venti conferenze tenute dall’agosto all’ottobre 1941, all’Oflag XIII di Magonza.
[...]"Come non percepire con chiarezza i grandi problemi, i problemi del futuro? Problemi di porte spalancate, di grandi ventate d’aria aperta destinate a scuotere le nostre case.
Basta con le vecchie scartoffie, voglio dire con i vecchi metodi, le idee superate, le società decrepite, con le civiltà e gli Stati del passato.
Collaborare con tutti gli uomini di buona volontà: come non lasciarsi cullare per un istante da questo bel sogno di Natale? Collaborazione, aiuto reciproco, fraternità, fiducia in una umanità migliore e pacificata."[...]
Capitolo primo Tre definizioni: l’avvenimento, il caso, il sociale
Lo storico non è colui che sa, è colui che cerca (Lucien Febvre) Ho la pretesa di spiegarvi il tempo presente, al di là dei fatti contingenti e dei mutamenti della vita attuale.
Non solo, ma di spiegarvi, almeno in parte, persino le circostanze che lo caratterizzano e i rivolgimenti che porta con sé.
Grande pretesa, voi penserete, e grande presunzione da parte mia.
Grande pretesa perché mi trovo in una posizione sfavorevole – riconoscetelo con me – per avere una buona visione del mondo.
Se almeno fossi libero o se occupassi un posto privilegiato! Grande pretesa anche perché il mondo è vasto, è alquanto complicato e, a dirla schietta, non sempre facile da capire.
Per bene che vada, l’impresa a cui vi associo sarà lunga e difficile.
Ma la mia pretesa, di fatto, si fonda su una grande fiducia e inoltre il viaggio al quale vi invito non è per nulla nuovo; questo lo rende meno attraente, ma anche meno rischioso, in quanto molte tappe del nostro tragitto sono già state individuate con precisione. Ho parlato di grande fiducia.
Ma quale fiducia? Quella che io ripongo nella storia, strumento di conoscenza e di misura delle cose.
Forse non la storia dei vostri ricordi di scuola, visto che da allora tutto è cambiato – e molto più di quanto pensiate: voi stessi, per incominciare, e la storia con voi.
La storia che io auspico è una storia nuova, imperialista e anche rivoluzionaria, capace, per rinnovarsi e compiersi, di saccheggiare le ricchezze delle vicine scienze sociali; una storia, ripeto, che è te cambiata, che ha fatto notevoli passi avanti, lo si voglia o no, nella conoscenza degli uomini e del mondo: in una parola, nell’intelligenza stessa della vita. La definirei una grande storia, una storia profonda. Una grande storia vuol dire una storia che punta al generale, capace di estrapolare i particolari, di superare l’erudizione e di cogliere tutto ciò che è vita, seguendo a proprio rischio e pericolo le sue strade maestre di verità. Ogni epoca ha forse la storia che merita, la fonte di luce che conviene alla sua vista e che le permette di procedere.
Alle epoche felici, troppo pacifiche, bastano lampade minuscole. Ma perché la grande storia possa proiettare le sue luci, rese necessarie dalle circostanze e quasi certamente benefiche, occorre che avvengano grandi cataclismi, sciagure in cui l’uomo e i popoli percepiscono istintivamente la tragicità del destino.
Grande storia, ma anche storia profonda; una espressione che presto vi sarà familiare, seguendo il filo delle mie riflessioni.
definizione, unitamente ad alcuni storici di oggi e di ieri, intendo una storia degli uomini vista nelle sue realtà collettive, nell’evoluzione lenta delle strutture, parola che assumo nel significato di moda: strutture degli Stati, delle economie, delle società e delle civiltà…10.
Dunque fiducia nella storia. Così mi trovo in obbligo, prima di procedere oltre, se non di proporvi una definizione esatta della storia, almeno di presentarvela il più nitidamente possibile, senza tuttavia perdermi in discussioni sterili o avventurarmi nei sentieri tortuosi della filosofia e dell’erudizione, in cui rischierei non solo di trovarmi isolato disavventura di poco conto – ma anche di non chiarire un bel nulla.
Procederò diversamente e nel modo più semplice.
Preciserò la mia definizione della storia soltanto quando saremo giunti al termine del viaggio.
Per ora, come in un lungo preambolo, parlerò di tre realtà che alla storia attengono da vicino. Che cosa è un avvenimento? Che cosa è il caso? Che cosa è il sociale? Rispondere a queste domande mi permetterà di illuminare la nostra strada, evitando così il rischio di smarrirla.
Incandescenti, gli eventi ci assalgono, ci avvolgono da ogni parte e sembrano tessere al momento, valga quel che valga, la storia che si sta compiendo.
Mai erano stati così incalzanti e così minacciosi: gli anni felici sono senza storia, cioè senza avvenimenti incombenti, ma noi non viviamo più anni felici.
Abbiamo ritrovato, da e per lungo tempo, il sentimento tragico della storia. Tuttavia la peggior politica, come sapete, sarebbe ignorare del tutto gli eventi oppure accettarli quali si presentano, cedere ai loro urti reiterati e soprattutto credere alla loro minaccia, alla loro schiacciante e regolare insistenza. É buona politica, è atteggiamento virile reagire e far fronte agli avvenimenti in primo luogo sopportarli con pazienza e soprattutto giudicarli secondo il loro valore, a volte davvero irrisorio, poiché i grandi eventi svaniscono rapidamente, spesso senza provocare le importanti conseguenze che parevano annunciare. Si pensi a come sono finite tante vittorie strepitose o tanti discorsi politici altisonanti.
Che cosa ne restava, passati due o tre mesi? E la storia, fra cinquant’anni, cosa avrà registrato, a conti fatti, di questo nostro tempo così irrequieto ed esageratamente preoccupato di se stesso? Un avvenimento è un fatto storico; misera definizione, direte. É un fatto qualsiasi? «No, è un fatto degno di nota», almeno così afferma Anatole France.
Per parte mia preferisco definirlo un fatto annotato, segnalato alla nostra attenzione, registrato, reso visibile ai nostri occhi da una luce talvolta soltanto casuale nella massa dei fatti innumerevoli che, ad ogni istante, costituiscono la storia ideale e completa del mondo.
Questo non ci induca a credere al fatto puro, materiale da costruzione della storia, ieri e ancora oggi oggetto di una sorta di idolatria. «Quei signori non si accorgono scrive Lucien Febvre – che il loro famoso fatto è il risultato di una complessa elaborazione, è una astrazione in cui il fattore soggettivo è già intervenuto».
E proprio questo io vorrei, a modo mio, affermare sul piano dell’attualità.
L’origine del fatto, dell’avvenimento, come preferiamo dire riferendoci al presente (l’avvenimento di oggi è il fatto storico di domani), l’origine del fatto, così intesa, non implica necessariamente che si tratti sempre di un fatto rilevante.
D’altra parte come potremmo saperlo nell’istante in cui avviene? A decidere della sua importanza non è il rumore che suscita intorno a sé sul momento, sono invece le conseguenze che produrrà o non produrrà in seguito.
Ma tali conseguenze sono figlie del tempo.
I fatti segnalati come importanti nel presente, lo sono dunque a titolo provvisorio, con riserva di revisione.
Certo, lo sapevamo…
Ed è una buona ragione in più per non sopravvalutarli tutti, per non credere ciecamente alla loro indiscutibile importanza.
Notiamo anche che gli eventi ci investono e svaniscono con grande rapidità.
Futili o gravi, sono drammi estremamente brevi, drammi-lampo come provano alcuni avvenimenti tipici, presi a caso, a titolo di esempio, fra le informazioni di oggi e i ricordi di ieri.
Una manciata di eventi che, domani, sembreranno del tutto privi di interesse, a conferma e riprova del nostro punto di vista.
Tuttavia riteniamo opportuno insistere.
In questa sede vale la pena osservare più da vicino i casi particolari.
Vogliamo parlare di avvenimenti? Bene: Winston Churchill pronuncia un discorso alla Camera dei Comuni; Roosevelt, seduto accanto al caminetto, parla per l’ennesima volta dalla Casa Bianca; Goebbels ha appena vergato un lungo articolo obbiettivo, pieno zeppo di precisazioni e di ammissioni sul proprio operato, che apparirà sul «Reich», il grande settimanale tedesco. Un giornale di fresca data annuncia l’arrivo ad Algeri del generale americano Doolittle, l’uomo che aveva guidato nel 1942 la prima incursione aerea su Tokyo.
Ad Algeri – ci informano – arriva anche l’arcivescovo di New York, monsignor Spellman, la cui presenza, sempre avvolta in un alone di mistero, è già stata successivamente segnalata a Londra, a Roma, ad Ankara…
Accadimenti forse degni di nota sono alcune voci provenienti proprio da Ankara, che pongono ancora una volta sul tappeto, in tutta la sua urgenza, ma senza arrivare a un vero chiarimento, la questione turca che si è trascinata troppo a lungo.
Altro avvenimento è il comunicato di un corrispondente di guerra tedesco, dal titolo P. K. Bericht apparso sulla «Frankfurter Zeitung» di ieri a proposito di un combattimento in Ucraina – incidente anonimo a dire il vero, sperduto lungo l’interminabile fronte dell’Est e forse per questo tanto più significativo. Ed eventi, grandi eventi, eventi-tipo, per così dire, situati laddove pulsa la vita del mondo, sono anche gli incontri sensazionali del passato recente: uno sulla Potomac, l’altro nella «storica» stazione del Brennero, e poi a Firenze, a Casablanca, al Cairo e ad Adana, e così via, in attesa di quelli che seguiranno.
Il gran fascio di luce delle notizie illumina a piacimento quei momenti emozionanti e si concentra in pieno, per un istante, sui padroni del mondo.
Ce li mostrerà ancora – siamone certi – a scadenze fisse, per proporci ogni volta, secondo le regole del gioco, le loro conversazioni come fossero enigmi e per segnalarci con la massima serietà che quegli incontri sono i drammi nel corso dei quali si decide il nostro destino e il destino del mondo.
Chi avrebbe il coraggio di dubitarne? D’altra parte, senza padroni, senza lampi al magnesio ci sarebbero ancora i grandi eventi? E i giornali potrebbero esistere altrimenti? Certo io non ignoro che la settimana appena finita non abbonda di peripezie militari, che la guerra sul fronte orientale è bloccata nel fango e nelle acque del disgelo.
Ma non è curioso constatare quanta importanza assumano, in compenso, gli avvenimenti lontani dalla prima linea? E i giornali dovrebbero smettere di parlare solo perché la guerra è stata messa a tacere? Siamo alla solita vecchia ricetta: la stampa ci propina ogni giorno un nuovo spezzatino, sminuzzato in brevi istanti.
L’arco di un giorno è l’unità di misura obbligatoria dell’informazione, questa fabbrica di avvenimenti sempre in attività.
Persino le operazioni militari obbediscono molto spesso, malgrado la continuità che le caratterizza, alla legge inflessibile dell’articolo quotidiano; infatti vengono frammentate in episodi, suddivise in battaglie locali, ammanite con le frasi fatte dei comunicati del giorno: il lettore pretende la sua razione giornaliera.
Ma a che pro allungare la lista degli esempi, andare a cercarli nelle varie categorie di avvenimenti? Oppure chiedersi se l’evento, istante di storia, possa corrispondere alla brevità organica dei nostri ricordi, a quel tracciato puntiforme che è il lavoro della nostra memoria? In ogni caso una cosa mi sembra dimostrata o facile da dimostrare: la sua durata.
Provate a cronometrare un avvenimento preso a caso e sarete sempre colpiti dalla sua brevità.
Qualsiasi accadimento vi darà sempre la medesima, esatta impressione di un trailer, di quegli spezzoni di film in programmazione per la settimana seguente, che si proiettano nelle sale fra una proiezione e l’altra.
Per quanto siano coinvolgenti, non ci raccontano mai un film completo, tutta una storia.
L’annunciano e la suggeriscono: sta a noi pensarci, fantasticare. Un avvenimento, nel tempo, è assai spesso ben poca cosa; anche se è grandissimo: cento o duecento metri di pellicola; pochi scenari più intuiti che visti: la stazione del Brennero, due treni speciali, alcuni personaggi; persino i protagonisti sono colti fugacemente nell’istante di una stretta di mano.
Anche qui, come nei buoni romanzi, l’essenziale non ci viene mostrato. Ma «l’essenziale» è poi sempre così importante? Altro problema, altro serio interrogativo che si riproporrà più avanti.
Quei grandi uomini hanno davvero in mano il destino del mondo e il loro stesso destino? Sì e no.
Molto spesso no, poiché, nel migliore dei casi, la loro funzione si limita a deviare il destino dal suo corso normale per un solo istante, un breve istante se misurato col metro della storia e non con quello della nostra impazienza.
Ricordo di avere visto, in America, un film che faceva sensazione, mentre era soltanto un insieme di pezzi di vecchi cinegiornali, di pellicole consunte, girate in un’epoca in cui gli operatori non riuscivano a riprendere i movimenti senza alterarli in modo sgradevole.
Eppure la gente si accalcava e faceva a gomitate davanti alle casse dei cinematografi.
Tutto sommato, uno strano film sul lungo dramma della prima guerra mondiale.
Non si vedeva un soldato vero e le poche esplosioni che si udivano erano state prodotte negli studi a film ultimato.
Nessun soldato vero, dicevamo, e nessuno scontro a fuoco. Ma gli ufficiali recitavano se stessi al naturale, con diligenza e compunzione e, questa volta, soli, senza il frastuono e i trucchi della prima parte: se non sbaglio re Giorgio V appariva cinque o sei volte; Poincaré passava di sfuggita in carrozza; anche Guglielmo II lo si vedeva solo tre o quattro volte.
I generali decoravano, sfilavano. E così di seguito, sino alla fine.
L’attualità, vista a distanza, non vi sembra in molti casi una sorta di caricatura, più triste che risibile, della storia? Molto spesso, troppo spesso vediamo dei presunti grandi uomini incarnare abusivamente il destino e, in apparenza, deciderlo. E noi contemporanei siamo soggiogati dalla loro grandezza che possiamo toccare con mano, dal loro potere sociale.
Ma quanto grandi sono in realtà? Non illudiamoci tuttavia di aver risolto in quattro parole il problema dell’individuo nella storia.
No di certo: lo ritroveremo a tempo debito, con tutte le sue difficoltà… per il momento vi chiedo solo di fidarvi di me.
Gli avvenimenti sono gli uomini, questi o quelli, non importa: uno parla, un altro arriva, un terzo scrive ecc.
Uomini che distinguiamo dagli altri, anche se, senza gli altri, gli uomini che riteniamo speciali valgono spesso ben poco.
Il carattere umano o, più esattamente, individuale dell’avvenimento non sempre ne accresce l’importanza.
Ma per il momento, su questo punto, non voglio andare oltre.
Ciò non significa che simili eventi, trailers pittoreschi, avvincenti, talvolta invece fastidiosi, non costituiscano, Immagini istantanee, imperfette – occorre sottolinearlo? – abbozzate troppo in fretta, alcune esasperate in ogni senso, altre assemblate malamente e, per giunta, tutte, senza eccezioni, soggette all’illuminazione arbitraria e capricciosa della propaganda o dei reportage.
Quando il mondo è libero (ma in tal caso la sua storia è meno drammatica) avviene che serie opposte di immagini si incontrino e si aggreghino come possono.
Tanto peggio per lo spettatore se ci capisce poco. Ha avuto le immagini che voleva? e allora sfogli il suo album o la sua rivista!
Senza dubbio questa storia allo stato iniziale è piena di errori; è fallace e si mostra come la superficie fosforescente, discontinua della vita del mondo senza pretendere niente di più; certo mescola gli avvenimenti di rilievo ai fatti di cronaca spicciola senza fare la minima distinzione, come sarebbe auspicabile; ma è pur sempre una storia al suo primo stadio, già consolidata, con la forza e la potenza di chi – per primo – ha occupato il territorio.
Menzogna, sì, ma una menzogna impregnata di verità e di sortilegi.
L’uomo – e qui sta il fascino segreto di questa storia – da principio ci si trova bene e si riconosce in essa, scritta giorno per giorno, perché è una storia a misura delle sue passioni, delle sue illusioni e perciò carica di umanità e di poesia; c’è forse illusione più tenace, per chi vive una storia, che credersene l’autore responsabile anziché la vittima?
Uno dei punti di forza della storia evenemenziale consiste nel permetterci di pensare che il destino dipenda dalla nostra volontà, che siamo noi a fare la nostra storia, modesta o illustre non importa.
Essa stessa ci aiuta a crederlo, se non altro perché esalta i dominatori del momento, eroi hegeliani, superuomini nietzschiani, demiurghi, esemplari grandiosi e riusciti dell’uomo, coniati tuttavia a nostra immagine, modellati nella nostra stessa argilla.
Che fonte inesauribile di fierezza e di sicurezza! Lo ripeto e ne sono certo: da qui nasce l’indubbio fascino di questa prima storia a grandi titoli, sempre ricca di imprevisti, di peripezie e di emozioni. La vita, di solito irrimediabilmente grigia, vi assume i toni teneri e crudeli di un romanzo vissuto.
Come restare indifferenti di fronte a tanti episodi toccanti, a tante esistenze umane da rivivere a nostro piacimento? E, per giunta, sia nel presente che nel passato.
Basti un esempio: credete forse che un avvenimento della vita di Napoleone, raccontato come si deve, non susciti, presso un normale uditorio, un interesse umano molto maggiore delle considerazioni più penetranti sulla storia profonda del Primo Impero? Pensate al successo e alla diffusione delle biografie romanzate e paragonateli alla tiratura e al numero dei lettori dei veri libri di storia. Potenza e magia degli avvenimenti! Eppure, per quanto avvincenti, essi non rappresentano l’intera storia del tempo che passa, ma ne rispecchiano soltanto la superficie.
La storia non è narrazione di avvenimenti puri e semplici; non è soltanto misura dell’uomo, dell’individuo, bensì di tutti gli uomini e delle realtà della loro vita collettiva. Su questo punto mi soffermerò ripetutamente nel corso del libro.
Non tutti gli storici lo sanno Si tenga presente che alla base di qualsiasi trattazione storica c’è una documentazione attinente sia agli eventi, sia ad una aneddotica, sia alla vita vissuta. Il primo lavoro dello storico inizia con l’inventario e con la critica di questa documentazione. É vero che la nostra ricerca si riferisce ad avvenimenti privi dell’alone che circonda l’attualità, disposti secondo prospettive spesso mutevoli, ma pur sempre definibili come tali.
Il secondo lavoro consisterebbe nel cercare, accanto ai primi, dei fatti minori che non riguardino le azioni straordinarie o i personaggi illustri, ma gli atti della vita quotidiana.
A questo scopo, «il prezzo del ferro o il tasso di rendita o il prezzo del pane ci fanno capire molte più cose della descrizione di una battaglia o dell’incontro di due sovrani», notava Anatole France in una rubrica che teneva ne «La Vie littéraire». Questi piccoli fatti ci permettono di cogliere la realtà della storia collettiva, della storia profonda.
Ma, mi duole ripeterlo, non tutti gli storici si impongono queste ricerche supplementari e determinanti. La storia evenemenziale, che non ritengo in alcun modo trascurabile (mi limito a considerarla una categoria della storia ma non la storia tutta intera) esercita su di loro, come del resto sui contemporanei, un fascino esclusivo.
Questo genere di storici, e con essi i contemporanei, non si chiedono se al di fuori di quella scena si rappresentino o si siano rappresentate altre storie, drammi ancora in parte immersi nell’oscurità, ma non per questo meno reali.
Costoro non si chiedono se, sotto la superficie, esista una profondità della storia.
Capita tutti i giorni: uno storico registra un avvenimento, bello e pronto, a portata di mano, e ce lo consegna, tale e quale, come una merce garantita. Ieri lo ha trovato sui giornali, l’altro ieri negli scritti di quei giornalisti ante litteram che sono i cronisti e i memorialisti del passato. É il caso del ponderoso libro di Pierre de la Gorce sul Secondo Impero che annovera fra voi numerosi lettori.
Un libro analogo, che circola in questa sede, è il François I di Charles Terrasse.
C’è anche un sottotitolo: Le roi et le règne. Lavoro non privo di interesse né di meriti – non ho difficoltà ad ammetterlo – ma fatto di avvenimenti giustapposti, allineati uno di seguito all’altro, anche se in un contesto narrativo piacevole e vivace.
Si tratta in sostanza di una serie di reportage trasferiti nel passato: uno sull’infanzia e l’adolescenza del re, un altro sulla sua giovinezza, un terzo su Marignan e così via.
Il primo paragrafo, dedicato alla rivalità fra Francesco I e Carlo V, ha un titolo tutto in maiuscolo che suona – scusate se dico poco – «la scintilla e la vampata». Quanto alla Francia su cui poggia quel regno, alla Francia come realtà collettiva, come «persona», quanto all’Europa che la circonda, alla civiltà del Rinascimento e della Riforma che la pervade come una linfa tumultuosa e decisiva, all’economia mondiale di un’epoca già volta alla tirannide, non chiediamo all’autore di parlarcene seriamente malgrado faccia qualche sporadico sforzo. Egli punta a ciò che brilla, stupisce, diverte. Per nulla al mondo, siatene certi, rinuncerà a soffermarsi sull’incontro del Campo del Drappo d’oro.
Che bell’incontro! Come è ovvio, gli sarà dedicato il lungo capitolo che merita…
Tuttavia la storia non è soltanto racconto, sia pure di grandi eventi, la storia è spiegazione – e anche i grandi eventi ne richiedono una, poiché la storia è pur sempre, entro i suoi limiti, una scienza congetturale.
Di fatto i grandi avvenimenti indicano – al di là della propria configurazione storica – delle realtà, delle linee di forza spesso decisive che ne sono forse l’aspetto più importante.
Una sera mentre mi trovavo nell’interno dello Stato di Bahia, mi è accaduto di trovarmi improvvisamente al centro di un nugolo prodigioso di lucciole fosforescenti. Scoppiavano da ogni parte, senza sosta, innumerevoli, ad altezze diverse, dai bordi dei boschetti e dei fossati, come sprazzi luminosi, come razzi, ma troppo brevi per rivelare nitidamente il paesaggio. Tali sono gli avvenimenti, tanti punti luminosi.
Al di là del loro splendore, più o meno vivido, al di là della loro singola storia, resta da ricostruire il paesaggio che hanno fatto balenare ai nostri occhi: la strada, la macchia, il bosco ceduo, l’argilla rossastra del Nord brasiliano friabile e polverosa, i declivi del suolo, i rari veicoli e, ben più numerosi, i somarelli coi loro grossi carichi di carbone di legna e infine le case addossate e i terreni coltivati.
Di qui la necessità di andare oltre l’alone luminoso degli avvenimenti, che è soltanto un primo stadio e spesso, preso a sé stante, una storia poco degna di nota.
Non vi sarà difficile capire la necessità di cui parlo e che analizzo come posso; anzi la capirete meglio di altri, proprio perché passate il tempo a criticare le notizie, a leggere fra le righe, a cercare, oltre ciò che ci viene proposto, ciò che ci viene nascosto.
Voi non vi accontentate dell’avvenimento. A modo vostro siete alla ricerca di una verità, di una storia «altra», reale e profonda, spinti da un semplice desiderio di informazione personale, dall’esigenza di sapere a che punto siamo.
Grave preoccupazione, mi rendo conto… Eppure cercate di immaginare con quanto ardore affrontereste questo lavoro se si trattasse, anziché di dar forma alle riflessioni del momento, di scrivere un libro, di impegnare sino in fondo in questa impresa il vostro pensiero e, più ancora, di tendere a farne un’opera viva, uno strumento efficace per i nostri contemporanei, di elaborare una politica reale che andrebbe sbarazzata, come tutte le politiche, dalla polvere delle notizie e dei piccoli accadimenti quotidiani.
Ma perché le «politiche»? Perché mi riferisco alle scelte reiterate, non sempre felici o lucide, che dobbiamo operare fra l’accessorio e il sostanziale, fra la storia evenemenziale, troppo spesso senza futuro, e la storia profonda cui appartiene l’avvenire.
Ma come distinguere l’ una dall’altra? In questa domanda è racchiuso il problema centrale del mio libro.
Il ruolo del caso Spiegare.
Non credo fosse la parola imperante nel campo degli studi storici, alla Sorbona, verso il 1920, quando io ero giovane: c’era allora troppa diffidenza per la grande storia.
La filosofia dominante era contenuta nel manuale di Ch.-V. Langlois e di Ch. Seignobos, la nota Introduction à la méthode des sciences historiques, un inno alla prudenza scientifica, un’opera unicamente volta alla critica dei documenti, anziché intesa a proporre una vera metodologia.
Oh! certo, si imparava benissimo a leggere e a criticare un testo, ma senza sospettare minimamente che i documenti scritti non fossero i soli materiali della storia. E quanti storici la pensano così ancor oggi! Allora, invece, si era appena usciti da un periodo in cui l’autore di una tesi nuova e ragguardevole sui mercanti nell’Italia meridionale del XIII secolo si sentiva dire, ex cathedra, che sarebbe stato preferibile, per lui, pubblicare i documenti puri e semplici.
A che scopo commentarli, dal momento che l’ideale, per gli storici del tempo, era offrire dei materiali di buona qualità senza alterarli con inutili chiose, cogliere la storia allo stato puro, possibilmente allo stato nascente? La più piccola tentazione di imperialismo era bandita; e con essa ogni ricerca appassionata riguardante la storia profonda.
Si collezionavano fatti, avvenimenti…
Un giorno, nel tal posto, un certo personaggio… ecc.
Di tanto in tanto qualcuno provava a spiegare alcuni fatti ma, in quei tentativi, la curiosità non oltrepassava mai la storia biografica, politica e istituzionale.
Nella maggior parte dei casi ci si limitava alla biografia dei grandi personaggi, in quanto forniva il quadro di riferimento ideale per una ricerca…
D’accordo, ma come riuscire a vedere il mondo in simili condizioni? Il mondo? Ma esisteva per davvero il mondo? Per Charles Seignobos, era pura incoerenza, un succedersi di casi, di capricci, di assurdi movimenti browniani – per dirla in termini attuali – assurdi e incomprensibili perché troppo numerosi e tremendamente complessi…
Prudenza, ci sentivamo ripetere, prudenza, tutto è così complicato… e così preponderante è la parte riservata al caso! Ma su questo tema dovete leggere le conclusioni della preziosa Histoire politique de l’Europe contemporaine di Seignobos, del suo splendore.
Ma il rappresentante più completo, più brillante, più significativo della storiografia francese e certamente il più consapevole, non è stato il maestro di villa Said, bensì l’ellenista Maurice Holleaux. Bastava conoscerlo per esserne ammaliati…
Quando si trattava di spiegare gli avvenimenti, la sua diffidenza si scatenava. Gli storici, diceva, passano il tempo a inventare delle cause.
Per loro, più gli avvenimenti sono importanti, più sono importanti, numerose e sottili le cause…
Ahimè! Cosa non riescono a far dire e fare ai signori del mondo questi storici della spiegazione: progetti, politiche coerenti, calcoli a lunga scadenza e tanti brutti pensieri! E che fretta a concatenare i fatti, a saldarli gli uni agli altri, a escogitare ogni sorta di buone ragioni per spiegare quello che è accaduto e che sarebbe anche potuto non accadere. Un avvenimento è un fatto noto, e perché mai si dovrebbe avere il diritto di spiegarlo con un altro fatto noto, con un altro fatto storico? E se la causa, per una volta, fosse un piccolo fatto non storico, sepolto nella notte dei tempi? Che ne sappiamo noi? Volete sentirvi raccontare ancora una volta il famoso aneddoto di Walter Raleigh, prigioniero nella torre di Londra, dove scriveva – scusate se è poco – una storia generale del mondo per svagarsi nei suoi ozi forzati e intanto non era riuscito ad accertare la vera ragione di un diverbio sorto fra i suoi domestici al quale peraltro aveva assistito? «Pensate a Mommsen – ci diceva un giorno Maurice Holleaux – che ha riversato l’economia politica nella storia antica e Dio sa con quali conseguenze».
Per lui il vero padrone del mondo era il Caso; diciamo, scherzosamente, il Padre Caso…
Il suo intervento era visibile dovunque. Guai a certi maestri del passato, ai grandi calcolatori.
Il Padre Caso li teneva d’occhio; con agile balzo li raggiungeva nel momento critico e gli spezzava letteralmente le reni. Per Maurice Holleaux, infatti, il Caso era spesso l’implacabile destino antico.
Quanta tenerezza manifestava invece nei confronti dei deboli, degli indolenti, dei ciechi, di coloro che il destino ignora regolarmente e la vita non smette mai di confondere…
In ogni circostanza dolorosa il Padre Caso li vezzeggiava, li prendeva nelle sue calde e morbide braccia, salvo portarli direttamente al successo con mano protettiva e sicura.
Ma pensiamo alla splendida tesi di Holleaux, Rome et les monarchies Hellénistiques au III siècle; credo di non conoscere un’opera così avvincente né scritta con altrettanta maestria…
In procinto di conquistare l’Oriente, i Romani, come Holleaux si compiace di farci sapere, sono tutti, compresi i senatori, un branco di rozzi contadini assolutamente ignari sia della geografia dei paesi orientali sia dei loro sottili intrighi.
Si eviti dunque, per favore, di attribuire ai Romani progetti troppo lungimiranti: agiscono alla giornata, senza rendersi ben conto di quello che fanno, né di dove andranno a parare, ma il Caso li guida benevolmente.
Quegli ignoranti sono i prediletti del Padre Caso.
E questa è in sostanza la visione del mondo di Maurice Holleaux, anche se io l’ho troppo semplificata.
Lui soleva esporla con intelligenza smagliante, con un acuto senso della messa in scena.
Orientava ostinatamente la sua ricerca verso le congiunture del caso, con una spiccata preferenza per le sorprese e le catastrofi imprevedibili.
Prendiamo l’esempio di Pericle: il grande ateniese ha messo a punto il proprio piano di guerra – si veda il testo di Tucidide – ed ecco, a far saltare i suoi calcoli, l’imprevedibile peste che nel 429, colpisce improvvisamente Atene.
Oppure la spedizione in Sicilia, nel 415, caldeggiata da Alcibiade e voluta, con ardore appassionato, dall’intero popolo ateniese: ad ostacolare la grande impresa, proprio il giorno in cui la flotta si accinge a salpare, avviene la mutilazione delle erme, che costringe Alcibiade, compromesso nel fattaccio, a fuggire e ad abbandonare un esercito che forse lui solo avrebbe saputo condurre alla vittoria. E via di questo passo…
In seguito – e per lungo tempo – mi è capitato di giocare al gioco della storia e del caso.
Un esempio: la conquista dell’Algeria, sotto Luigi Filippo, non è stata forse dovuta tanto agli errori quanto ai calcoli giusti dei militari? E costoro non hanno forse creato, senza validi motivi, la potenza di Abd-el-Kader nell’Algeria occidentale e poi in quella orientale? Ma se così non fosse stato, non avremmo rischiato di finire definitivamente schiacciati contro la zona costiera? O almeno di restarvi un bel po’ di tempo? É stato l’emiro a renderne necessaria la conquista e, aggiungiamo senza ironia, a imporcela…
O ancora: nella campagna di Russia Napoleone calcola tutto, proprio tutto («Contavo di rimanere a Mosca come in una nave imprigionata nei ghiacci», dichiarerà nel Mémorial): senza dubbio aveva previsto ogni cosa, salvo l’incendio della città santa e la precocità di un inverno eccezionalmente duro. Sorprendente e pericolosa, tutto sommato, questa filosofia molto made in…. France! Con la scusa di mettere fine alle spiegazioni pretestuose degli storici e di criticarli a dovere (proprio questo fu il suo maggior merito) essa forniva loro una filosofia sostitutiva e per di più applicabile in qualsiasi circostanza.
Una parola, un segno, una difficoltà e subito il Padre Caso era lì, accanto allo storico, pronto a mettere tutto sottosopra, a bloccare ogni cosa, giustiziere oppure complice e, comunque, sempre a disposizione.
Comodo, vi pare?
Ma è proprio vero che il mondo degli uomini è proprietà esclusiva del caso, della sua inesauribile inventiva?
Certamente sì, se consideriamo isolatamente ciascun avvenimento o piccolo destino individuale.
Un numero inverosimile di dadi, sempre in movimento, dominano e decidono di ogni singola esistenza.
Lo sappiamo benissimo e non possiamo farci quasi nulla. Tutti crediamo alla sorte e al Caso oppure alla Provvidenza, all’uno o all’altra non cambia molto.
Andrò o non andrò a passare la domenica sulle rive dell’Oise? Domandina innocente, che resta in sospeso, legata a una quantità di minimi particolari della mia vita: e chi mai può soppesarli tutti? Ma agli sportelli della Gare du Nord il numero dei biglietti per l’Isle-Adam è esattamente prevedibile, salvo un margine di errore di poche unità.
Incertezza dunque nel campo della storia individuale; ma nell’altro, in quello della storia collettiva, semplicità e coerenza quasi totali.
La storia è sì «una povera piccola scienza congetturale» quando ha per oggetto individui isolati dal gruppo, quando tratta di avvenimenti, ma è molto meno congetturale e ben più razionale sia nei procedimenti sia nei risultati, quando prende in esame i gruppi e il ripetersi di avvenimenti.
La storia profonda, la storia su cui si può costruire è la storia sociale.
É sicuramente un abuso voler riassumere un intero movimento o tutto un settore di storia in una persona eccezionale; in tal modo si sostituisce una storia insicura, perché incentrata sugli individui, a una storia molto più semplice e chiara, in quanto indagata nelle realtà sociali su cui poggia. Per tutta la mattina della battaglia di Sadowa, i Prussiani sembrano avere la peggio, finché la Seconda Armata, il cui avvicinamento è stato rallentato nel territorio dei Sudeti, non avrà raggiunto la sua posizione nel campo di battaglia. Bismarck, presente alle operazioni, ha deciso, perduta ogni speranza, di trovare la morte nell’ultima carica di cavalleria. Egli del resto ha sempre affermato di non appartenere alla schiera di coloro che sanno stare con le mani in mano quando scorre il sangue dei soldati.
Come può non disperarsi, non sentirsi schiacciato dalle responsabilità? Accende un sigaro e promette a se stesso, quando lo avrà finito, di spronare a fondo il suo cavallo.
Unica soluzione, morire caricando il nemico…
Infatti se quegli uomini si stanno scannando, di chi è la colpa se non sua, chi lo ha voluto se non lui stesso? Niente affatto, dice Julien Benda, che ha riflettuto anch’egli sull’aneddoto.
Se Bismarck si trova su quel campo di battaglia una ragione c’è ed è che, da almeno un secolo, milioni di tedeschi hanno sognato l’unità della Germania facendo schioccare i boccali di birra sui loro Stammtische, o conversando sotto i tigli o arrampicandosi sul Brocken…
Un vasto movimento romantico di speranze e di sogni è preso nel vortice dell’azione di una età divenuta a un tratto realista, l’età che include i grandi proprietari terrieri delle Marche e gli industriali della Ruhr…
La Germania, assai prima di Bismarck, esisteva già, come gruppo di interessi economici, dal giorno in cui era stato realizzato lo Zollverein (1832) e, da secoli, come entità storica.
Se Bismarck è a Sadowa, roso da dubbi mortali, finché non sarà sopraggiunto l’esercito salvatore di Federico Carlo, lo si deve soltanto alla forza delle cose, alla volontà degli uomini tedeschi. Egli è solo e soltanto il loro delegato.
Non si studi dunque Bismarck indipendentemente dal popolo che egli guida e che lo guida…
No, non è il Cancelliere l’unico personaggio da capire e interpretare nel dramma dell’unificazione tedesca.
Non è il più importante e neppure il più semplice.
Il più importante è il popolo tedesco, il personaggio che dura, la viva sostanza della storia tedesca.
Ma volete un altro esempio che ha il vantaggio di essere oltre che attuale anche più didattico? La storia di un campo di prigionia è un coacervo di storie individuali non molto interessanti, storie di ognuno e di ogni giorno, esili fili d’acqua, un succedersi di atti e di pensieri difficili da ricostruire, anche se c’è chi tiene un giornale di bordo. É anche la storia di piccoli eventi «pubblici»: un’evasione, una disputa, una diceria.
Anche in questo caso sarà difficile fare veramente luce sui fatti: tante teste tanti pareri, tanti testimoni tante versioni.
Provate a immaginare le difficoltà per stabilire il giorno, l’ora, e il luogo, le precise responsabilità.
Facilissimo, invece, ricostruirne la storia collettiva, le condizioni di vita materiali, i diversi periodi della vita morale del gruppo: periodi che si susseguono e, come tutti sappiamo, non si assomigliano. Per ottenere una ricostruzione perfetta basterebbero una dozzina di testimonianze, un serio sopralluogo, due o tre corrispondenze ben fatte, alcune statistiche affidabili. Al di là dell’evenemenziale, al di là dell’individuale, è la storia dei gruppi ad offrirci un solido terreno di ricerca.
In questa direzione dobbiamo convogliare i nostri sforzi. Così potremo far luce anche sull’altra storia, sia in ordine alla narrazione degli avvenimenti, sia in ordine ai soliti particolari biografici.
Storia e scienze sociali Ho vissuto con letterati che hanno scritto la storia senza prendere parte alcuna alle attività pubbliche e con uomini politici impegnati unicamente a produrre avvenimenti senza preoccuparsi di descriverli, Ho sempre notato che i primi vedevano ovunque cause generali, mentre gli altri, vivendo immersi nell’incoerenza dei fatti quotidiani, tendono a immaginare che qualsiasi avvenimento debba essere attribuito a singoli fatti accidentali e che le piccole leve che manovrano continuamente siano le stesse che fanno muovere il mondo.
Alexis de Tocqueville
Non costruiremo una storia completa, se non coglieremo i fatti sociali in tutto il loro spessore, se non affronteremo i fenomeni umani di massa, cercando gli uomini laddove, ostinatamente, si vuole vedere soltanto l’uomo, soprattutto se non utilizzeremo i risultati e gli strumenti delle altre scienze sociali attigue ai cantieri della storia. Paradossalmente è proprio al recente sviluppo delle scienze sociali che si deve l’attuale – e grave – crisi della storia, almeno in Francia, dove gli sforzi della «Revue de sànthèse», stretta intorno al suo decano Henri Berr, e delle «Annales d’histoire économique et sociale», con Marc Bloch e Lucien Febvre, tendono a creare una forma di storia nuova e rivoluzionaria. Se vogliamo studiare i fatti sociali, così complessi nel loro insieme, non serviamoci dunque di una sola fonte di luce, per quanto interessante essa sia; mi riferisco, ad esempio, al proiettore della storia politica, utilizzato per tanto tempo a scapito di tutti gli altri; esso infatti illumina un solo settore del passato e non sempre il più importante…
Politique d’abord! Gran bel principio; se fosse sempre valido ma così non è – la nostra fatica ne sarebbe più che dimezzata.
Lo stesso accadrebbe se lo storico scegliesse di limitarsi ad altre sfere di attività del passato: a fatti intellettuali, economici o culturali.
Punti di vista certo significativi, ma pur sempre parziali.
Il nostro intento, invece, è accendere tutte le luci contemporaneamente. Programma ambizioso, per nulla ragionevole; d’altra parte come potrebbe esistere un imperialismo storico sufficientemente dinamico senza il sostegno di grandi speranze?
Ma c’è di più: ricordiamoci sempre che non siamo soli nella nostra ricerca: ci spalleggiano le scienze sociali, di recente costituzione, ma anch’esse imperialiste, vigorose piene di voglia di fare e tese – in modo più scientifico e più chiaro di noi – a realizzare gli scopi che si sono prefisse. Più scientifiche della storia, meglio articolate rispetto alla massa dei fatti sociali, esse sono inoltre – altra differenza sostanziale – deliberatamente incentrate sull’attualità, cioè sulla vita – e lavorano tutte su ciò che si può vedere, misurare, toccare con mano.
Che grande superiorità! I geografi studiano la società nei suoi rapporti con lo spazio.
Gli etnologi e gli etnografi hanno il compito di indagarla nelle forme di vita che presenta ai suoi albori o di coglierne i balbettii; i primi senza mai perdere di vista le leggi generali della disciplina, i secondi sempre attenti all’esattezza delle descrizioni.
Lo statistico studia la società dal punto di vista dei numeri. Agli economisti spetta considerarla sotto il profilo del dare e dell’avere, partendo dal principio, come dice uno di loro, dell’«atto come onere» (François Perroux).
I giuristi studiano sia gli aspetti teorici del diritto sia le sue leggi pratiche, senza le quali la società non potrebbe esistere.
Ai sociologi infine spetta individuare i meccanismi sociali considerati in se stessi e, di conseguenza, formulare le prospezioni più profonde e più incerte.
Non pretendo, con questo, di avere definito, nei modi e con l’esattezza auspicabili, le scienze altamente complesse dell’uomo che vive nella società.
Ma altro è il tema da trattare.
Qui infatti vogliamo soltanto segnalare il contributo che quelle scienze portano alla storia.
Abbiamo detto che operano sull’attualità, anche se ciascuna di esse ha un proprio settore riservato al passato.
D’altra parte il nostro lavoro, incentrato sul passato, comprende dei compiti analoghi ai loro.
Uno storico infatti non può non essere, pur restando nel proprio ambito, anche geografo, economista, giurista.
Quando studiamo le società di ieri, dobbiamo mutamenti, per numerosi o gravi che siano, di ciò che persiste al di là di un fatto accidentale o di un periodo determinato e al di là di una singola esistenza a misura del mondo e del tempo in cui vive, piccolissima cosa in se stessa, ma profondamente rivelatrice.
Ribadiamolo ancora una volta: tenuto conto di uno scarto cronologico che certo complica molto le cose, senza tuttavia alterarne del tutto la natura, noi abbiamo gli stessi compiti dei nostri vicini.
I nostri metodi non sono i loro, ma i problemi sono comuni. Di qui la necessità di arrivare al loro presente, così come essi si immergono nel nostro passato, di tenere conto delle loro analisi e delle loro ricerche, delle loro spiegazioni e, se occorre, delle loro leggi.
Ci accade continuamente di utilizzare e di mettere alla prova gli strumenti delle scienze sociali.
Lescure, in un bel libro sulle crisi economiche, mette in risalto il ruolo di guida che un’industria esercita regolarmente nelle riprese economiche.
Questa industria-leader non è mai la stessa; una volta è l’automobilistica, un’altra è quella delle costruzioni navali ecc.
Ma non è soltanto Lescure a segnalare il fatto.
Eccovi un caso che attiene specificamente alla storia: durante gli ultimi vent’anni del XVI secolo ha luogo in Italia una netta ripresa economica in cui, elemento degno di rilievo, la prosperità è dovuta essenzialmente all’industria della seta.
Possiamo definirla una industria-leader? Per lo storico è inevitabile porsi almeno il problema.
Certo è un piccolo esempio, ma possiamo immaginarne mille altri dello stesso tenore.
Ciò significa che ci sentiamo di casa sia nei laboratori, sia nei libri delle nostre vicine, le scienze sociali.
Se lo studio unico e unitario della società è spezzettato in tante diverse branche, compresa quella venerabile della storia, ciò è dovuto soltanto alle nostre carenze intellettuali, al trionfo utile ma pericoloso degli specialisti. Alcuni storici francesi hanno avuto il grande merito di ricostituire quella unità, di abbattere le barriere inutili e di restituire in tal modo alla storia la sua dignità; di rifare della storia, certo mai ignorata, ma non sempre considerata nel suo giusto valore, una delle misure essenziali del mondo e anche una delle più efficaci, in quanto in grado di mettere in causa, più di altre discipline, una coordinata essenziale, sensibile e onnipresente: il tempo; e, per di più, il tempo in tutte le sue forme reali, il tempo come tessuto connettivo, realtà di base di ogni fenomeno sociale. Ma su questo argomento intendo tornare e soffermarmi.
Certo, di quanto accade nel mondo, non tutto va capito alla luce della storia e dei così detti precedenti (come non registrare, accanto ai ricorsi della storia, una serie di sorprendenti e forti innovazioni?), ma nessuno può negarle di essere uno strumento insostituibile per pesare la realtà. La storia ci permette di ricollocare i grandi fatti nella giusta prospettiva.
Essa è senza alcun dubbio una delle grandi spiegazioni del mondo e della vita. E se esiste per lo storico un rapporto di dipendenza – e di dipendenza proficua rispetto alle altre scienze sociali, egli conserva nondimeno una posizione a sé stante.
Lo storico dunque, proprio perché si situa ai margini dell’attuale, può e deve, molto più facilmente degli altri, spogliarsi delle proprie passioni, liberarsi dai pregiudizi, dalle speranze e dai risentimenti che ci pesano sul cuore. É persino meglio informato di noi.
Le notizie di cui noi disponiamo sono soltanto quelle che ci vengono fornite. Lo storico invece può crearsele laddove gli sono necessarie.
Poniamo che io abbia bisogno di sapere cosa accade a Livorno nel 1580: apro gli ottimi Annali di Tivoli, consulto gli archivi locali, i manoscritti dell’Archivio Mediceo, a Firenze, e, sempre a Firenze, i documenti delle grandi famiglie mercantili che, come quella dei Capponi ed altre, hanno delle succursali a Livorno.
Naturalmente non creo gli avvenimenti a modo mio, ma assai spesso li moltiplico e li vedo meglio dei contemporanei.
Il mio vantaggio consiste nel disporre dei documenti decisivi. Ma c’è di più: meglio di qualsiasi giornalista (anche del più avvertito) io so quali sono i grandi e i piccoli avvenimenti. Che cosa è infatti un grande evento Non certo quello che fa più scalpore sul momento, come dicevo or ora, ma quello che provoca le conseguenze più importanti e numerose. Le conseguenze non si manifestano al momento, sono figlie del tempo.
Di qui i molteplici vantaggi che derivano dalla possibilità di osservare un’epoca a distanza. É infatti un gran vantaggio poter cogliere i fatti in una successione coerente, non come punti, ma come linee di luce.
Per chi studia un dramma, è importante conoscerne la conclusione. Henri Pirenne, nell’ultimo volume dell’Histoire de Belgique, esprimeva il proprio rammarico per aver dovuto lavorare su una storia troppo vicina, non ancora decantata, per essere stato avvolto in un pulviscolo di fatti in cui non riusciva a distinguerne alcuno con sicurezza. Émile Bourgeois mi confidava di avere esitato a lungo prima di affrontare l’ultimo tomo del suo Manuel de politique étrangère, fermo, già da tempo, alla fatidica data del 1878, e di essersi finalmente deciso a riprenderlo soltanto dopo la guerra del 1914-18.
La guerra illuminava – a ritroso – gli anni intercorsi fra i fasti e i colpi di scena del Congresso di Berlino e la fine del conflitto, che erano apparsi, sino ad allora, particolarmente confusi.
Affinché un’epoca possa rivelare la sua struttura profonda, occorre che sia sufficientemente distante dalla nostra, sciolta dai legami di una bruciante attualità e, come certe preparazioni anatomiche, immersa e mantenuta per il tempo necessario in una soluzione che ne garantisca l’integrità.
Leggendo i Mémoires di Caillaux (soprattutto il secondo volume) si ha l’impressione che si avvicini l’ ora in cui sarà finalmente possibile avere una storia della Terza Repubblica, almeno fino al 1914: Raàmond Poincaré, Briand, Clemenceau, Caillaux stesso si avviano lentamente, in punta di piedi, ad occupare il loro posto nella storia.
Il grande vantaggio di cui gode lo storico rispetto agli altri studiosi è la distanza, un privilegio che gli permette di raggiungere l’essenziale con un margine di errore assai più ridotto.
Ci duole che in questa battaglia, iniziata da più di vent’anni, per una storia di più ampio respiro, non ci sia venuto alcun aiuto dai filosofi, neppure dai filosofi della scienza. Di fatto, essi trascurano le scienze sociali – considerate minori – a vantaggio delle scienze esatte che difendono perché provocano battaglie innocue, vinte in partenza, perché permettono di riproporre, in uno stile aggiornato, più o meno efficace, il vecchio Discours sur la méthode.
In questa situazione, alle scienze sociali non resta che difendersi da sole nella lotta per la sopravvivenza! Quando si saranno finalmente sistemate, come ogni borghese che si rispetta, nella casa di loro proprietà, allora avranno forse diritto alla protezione dei filosofi.
Ma non ne siamo del tutto sicuri. Questa carenza da parte dei filosofi, specialisti della non-specialità, non vi suona, tutto sommato, come una prova della crisi dell’umanesimo contemporaneo, dell’attuale impossibilità dello spirito di abbracciare l’intero campo del pensiero? Il Rinascimento non è più, né potrebbe essere, l’epoca nostra. Oggi siamo schiacciati dal peso di conoscenze precise e particolari.
Ne è prova ulteriore che i filosofi, nella battaglia per il pensiero, abbiano scelto di stare alla retroguardia, senza che noi ce ne rendiamo sempre conto, senza che essi stessi ne siano consapevoli.
Il nostro secolo manca di veri filosofi, liberati dagli indottrinamenti e dai giochi di appartenenza a una scuola, attenti alla vita che li circonda, felici di affrontarne i veri problemi, mettendo a repentaglio se stessi.
Capitolo secondo La storia alla ricerca del mondo
La storia è una scienza e non potrebbe essere altro Louis Bourdeau Posizione della storia e dello storico Se accettiamo le nuove tendenze della storia dobbiamo definirci in modo diverso che per il passato: non più soli, isolati, bensì uniti alle scienze che ci circondano, che confinano e interagiscono con la nostra, e, proprio per questo, anche con un intento di rivincita.
Di fronte a noi c’è il mondo sociale, l’intero mondo sociale, presente e passato; cioè, in concreto, cantieri, inchieste, una enorme letteratura in cui spiccano un centinaio di ottimi libri, una vasta disponibilità di strumenti, regole pragmatiche, scienze giovani e imperialiste, con il loro corredo di ambizioni e di illusioni – entrambe ugualmente necessarie – animate dalla speranza che lo studio del sociale, come quello del mondo fisico, porterà un giorno a scoprire delle sequenze di fatti e ad offrire ampie possibilità di spiegazioni. Tutto ciò ci induce a pensare che il mondo sociale sia, almeno in larga misura, coerente, così come ogni scienza fisica presuppone una coerenza del mondo materiale. mai riflettuto su questo? Prendiamo Paul Valérà. Ne L’idée fixe il suo interlocutore gli chiede: «Ma esiste una prova che c’è unità nella natura? – Anch’io ho fatto questa domanda ad Albert Einstein e lui mi ha risposto: è un atto di fede». Certo è una ipotesi che fa molto riflettere, anche se, a mio parere, la coerenza del nostro oggetto lascia spazio a prove affatto convincenti.
Non credo che tutto ci induca a confondere il nostro desiderio e la nostra interna necessità con la realtà: non possiamo lavorare su un mondo sociale che manchi di coerenza. «Dove andrebbe a finire la storia – diceva pressapoco Pirenne in una conferenza – se l’uomo cambiasse in continuazione i moventi del suo agire e un bel giorno rinunciasse a considerare la vita un bene prezioso e preferisse l’interesse del vicino al proprio?». Questo è il punto: dove andrebbe a finire la storia senza certe costanti sociali indispensabili, senza certe corrispondenze, senza gli stili di vita di cui parla Lucien Febvre, senza tante armonie evidenti che appartengono intrinsecamente all’uomo e alla società? É ovvio che il mondo può essere spiegato solo in quanto è spiegabile, riducibile alle nostre norme, permeabile ai lumi del nostro raziocinio, rispondente a una finalità imprecisata, ma in certo modo simile, non esito ad ammetterlo, alla Provvidenza di Bossuet.
Lo afferma anche, dal suo punto di vista, Gaston Roupnel. Ma, secondo lui, tutto è già stato scritto, dalla prima all’ultima riga; il destino infatti, da sempre, ha fissato alla nostra storia, come a tutte le altre, i suoi appuntamenti ineludibili.
Noi non arriviamo a tanto né altrettanto in fretta. Ma certe coerenze della vita siamo indotti a riconoscerle non solo in nome della scienza e del finalismo, ma anche in forza della fede.
Altrimenti si ritorna alla libertà secondo Anatole France, in un luogo dove nulla è scritto, dove il caso regna sovrano e, come solo viatico, ci aspettano le sue parole: «Il dubbio sarà la nostra certezza» («La Vie littéraire», II).
Tuttavia è singolare avere incontrato, proprio di recente, all’estremità opposta delle discipline sociali, un geografo, André Cholleà, che esprime una preoccupazione simile alla nostra. Egli ci dice che non è possibile concepire una geografia se non incorporata in una organizzazione del mondo finalistica e razionale.
Ed eccoci daccapo al problema della coerenza. gli Ma sorvoliamo su un problema per noi troppo vasto.
Il mondo degli uomini sul quale opera la storia deve essere studiato alla stregua delle realtà fisiche.
Dobbiamo osservarlo, procedere a deduzioni, collegare i risultati per mezzo di ipotesi provvisorie, avanzare per tentativi, sperimentare, cercare delle leggi.
Come i fisici, anche noi storici dobbiamo adottare un atteggiamento scientifico; osservare con distacco, concludere senza preconcetti, prescindere dalle passioni, dai calcoli personali, dalle singole posizioni morali e sociali.
Lo storico non deve giudicare, deve spiegare e capire. Non vogliamo più sentir parlare di un Tribunale della storia con la T maiuscola.
Scrive Aldous Huxleà: «Quasi tutte le discussioni in materia di storia, non dimentichiamolo, sono discussioni di fatti personali.
Così, tanto Findlers Petri quanto Spengler credono ai ricorsi ciclici della storia e, sia detto tra parentesi, ci crediamo anche noi.
Ma i loro cicli non sono gli stessi, perché diverse sono per loro le norme che caratterizzano la civiltà e la barbarie o, in altri termini, i loro gusti in fatto di letteratura».
Riprendendo, più avanti, lo stesso discorso, scrie: «Ahimè, scrive, non esiste una verità storica – riguardo al passato non vi sono che opinioni più o meno accettabili che variano di generazione in generazione.
La storia è una funzione, in senso matematico, dell’ignoranza e dei pregiudizi personali degli storici».
Anche se in questa invettiva c’è una parte di verità, sono persuaso che non tutto sia giusto.
Personalmente sarei incline a mettere in bilancio, oltre all’ignoranza e ai pregiudizi, ciò che chiamerei (altro modo di esplicitare il termine pregiudizio) la posizione di vita degli storici ovvero la somma dei loro opportunismi, dei partiti presi politici, religiosi e sociali. Pregiudizi di cui ci si deve sbarazzare senza esitazione.
Urge che lo storico, nell’atto stesso di iniziare un libro o un discorso, si spogli di se stesso, eserciti su di sé una sorveglianza continua, indichi esplicitamente la propria posizione personale. I calcoli dei fisici tengono conto della posizione dell’osservatore in quanto essa condiziona e determina la sua verità.
Lo stesso vale per lo storico, per lo studioso di scienze sociali. Ogni scienza storica del sociale postula queste condizioni generali. Tralascio invece le condizioni che riguardano gli aspetti specificamente tecnici del mestiere.
Ma come potremo assolvere fino in fondo a tali obblighi? Liberandoci dei nostri pregiudizi? E se fosse una pretesa infantile?
Ascoltiamo allora Georges Duhamel: «L’imparzialità storica è un inganno. Il vero storico non è un notaio, è un poeta.
Si innamora di Anna Bolena, odia Jane Seàmour. Resuscita Filippo II col fermo proposito di punirlo.
Rappresentare, ritrarre non significa forse soddisfare una passione?».
Con queste premesse, dove andrebbe a finire una storia fondata sulla ragionevolezza? Si ha un bel dire che la storia di cui parla Duhamel concerne soltanto l’individuale e l’evenemenziale: questi tipi di approccio hanno trovato già da un pezzo degli strenui e zelanti difensori.
Lo stesso Anatole France diceva a L. Bourdeau (1888): «Create pure la scienza della storia: avrete il nostro plauso.
Ma lasciateci la grande seducente arte di Tucidide e di Augustin Thierrà. La storia narrativa è, per sua essenza, inesatta. L’ho affermato e non lo ritratto, ma essa è ancora, insieme alla poesia, l’immagine più fedele che l’uomo abbia tracciato di se stesso. É un ritratto.
La vostra storia statistica (quella di Bourdeau)
sarà sempre e soltanto una autopsia». Montaigne ha detto la stessa cosa della storia quale si praticava ai suoi tempi, una storia puramente narrativa: «Gli storici sono la vera riserva di caccia del mio studio… sono… divertenti e scorrevoli…; l’uomo in generale, di cui perseguo la conoscenza, vi appare, più che in qualsiasi altro luogo, in tutta la sua vitalità e interezza».
Questi argomenti letterari non riescono a persuadermi, e anche voi conoscete benissimo il pericolo che presentano. Senza contare gli altri rischi.
La nostra visione imperialista della storia non piace a tutti. Nel 1935 il filosofo Emile Bréhier mi diceva: «Compito dello storico è raccogliere i fatti più singolari, quelli che non si ripeteranno mai». In tal modo veniamo esclusi dal permanente, dai cosiddetti eterni ricorsi della storia. É soltanto di ieri, del 1941, l’affermazione dello storico Karl Brandi, l’erudito autore della Reformation e della Gegenreformation, che faceva propria una definizione pronunciata da Leopold von Ranke intorno al 1850: «La storia è un racconto».
Ma sarà soprattutto la nostra fisica sociale, la nostra fisica storica, la coerenza che cogliamo e descriviamo nel sociale a far torcere sdegnosamente il naso ai critici.
Così ci sentiremo dire dai puristi: «Ma vi rendete conto? In materia sociale, la parola legge è un abuso bello e buono».
Altri storici puri ci negheranno il diritto di parlare di esperienze, o di sperimentazione, di ipotesi di lavoro. Se dessimo loro ascolto, negheremmo a noi stessi il diritto di parlare di scienze sociali. Infatti conosciamo sin troppo bene l’esclusivismo e il reazionarismo spontaneo delle scienze e dei loro autorevoli rappresentanti. Manteniamo dunque le nostre posizioni e rassicuriamo i pavidi. Le parole legge, esperienza e sperimentazione, noi le usiamo unicamente nel nostro campo, a nostro rischio e pericolo, secondo le nostre possibilità e per i nostri usi.
Usi intesi a fissare, nel campo di ricerca che ci pertiene, i contenuti reali di quelle parole.
Se ci oppongono troppa resistenza, se costituiscono un ostacolo, ne cercheremo altre.
Per esperienza intendo la possibilità, in ordine a un dato problema sociale, di riunire una serie di documentazioni su casi analoghi, presenti e passati.
Questo modo di procedere ci permette di scomporre il problema nei suoi singoli elementi e di osservarne le variazioni, sempre in relazione all’ambiente; una operazione del genere presenta, come è ovvio, più difficoltà che fare una iniezione in un orecchio a una cavia…
Per sperimentazione vorrei si potesse intendere l’esperienza esercitata sull’attualità, in vivo. Evidentemente il nostro approccio non può avvalersi delle facilitazioni proprie delle scienze esatte.
Ma la scienza, in senso etimologico, è una conoscenza, un’indagine razionale, niente di più.
Come la parola scienza, così uso senza alcun timore la parola legge.
L’economia politica non teme ormai più di formulare le proprie osservazioni in forma di legge.
Inutile citarvi la legge di Gresham, o la legge dell’utilità marginale, la legge della domanda e dell’offerta; le conoscete benissimo… e nel campo del sociale, perché non si dovrebbe riconoscere che esiste una legge dei tre stadi, dovuta ad Auguste Comte? Ma facciamo un passo avanti, prendiamo il limpidissimo studio di Pirenne sulle Étapes sociales du capitalisme: come definirlo se non una legge sociale approssimata?
E la regola secondo la quale ad ogni epoca corrisponde una particolare classe di ricchi, di audaci avventurieri pronti ad ogni rischio, mentre, nel periodo successivo, la «congiuntura» favorisce l’arricchirsi di altri temerari e i ricchi che li hanno preceduti si riorientano molto borghesemente sui valori sicuri? Leggi, ancora leggi: lo sono le fasi di Simiand, le modulazioni del passato che ricorrono con insistenza, i flussi, i riflussi, i cicli scanditi al ritmo delle generazioni e degli uomini che passano.
Jacob Burckhardt, nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen, parlava apertamente (e, si noti, intorno al 1870) della sua legge delle compensazioni. Forse è venuta l’ora, nel campo della storia, di rifiutare le esitazioni e le incertezze del pensiero dominante nell’ultimo decennio dell’800, negli anni della «presociologia».
Senza dubbio è giunto il momento degli specialisti del campo sociale. E quanti e quali sforzi sono in atto per potenziare il campo delle previsioni! Basti pensare agli istituti creati, almeno dal 1939 in poi, per lo studio della congiuntura economica.
Certo non si tratta di leggi rigorosamente scientifiche; ma fin da ora studi e ricerche hanno inciso profondamente il terreno del sociale, lo hanno mondato, vi hanno aperto nuove vie.
Le scienze sociali producono un gran numero di regole, di constatazioni importanti teoriche e pratiche; hanno acquisito un grande patrimonio scientifico, indipendentemente dai termini con cui si vogliano designare i loro procedimenti o i loro risultati.
Ed è l’insieme di tali acquisizioni che cercheremo di applicare nel corso della nostra ricerca.
La storia non può prescinderne.
Durante queste conferenze ci imbatteremo sia in economisti, in sociologi o in geografi, sia in veri e propri storici, in Durkheim, Lévà-Bruhl, Marcel Mauss o in François Simiand, Vidal de la Blache o Jules Sion, come in Michelet, Henri Pirenne o nel mio maestro Henri Hauser.
Così quando parliamo di storia profonda, non ne desumiamo il concetto e l’espressione dagli storici puri, bensì da un etnografo, Leo Frobenius, che consiglia: «Mai fermarsi alla superficie dei fatti»; o da un economista, Ferdinand Fried, che raccomanda «di cercare il senso profondo degli avvenimenti»; o da un sociologo, François Simiand, al quale penso, salvo errore, si debba il termine «storia evenemenziale». Pochi gli storici capaci di darci simili suggerimenti.
Fra loro cito Gaston Roupnel, attento ad opporre alla storia fine a se stessa, che è superficie, il destino che è profondità, e inoltre Lucien Febvre, Marc Bloch.
Altri ne troveremo risalendo alle epoche che hanno avuto una grande storia. Rileggiamo un breve passo di Jules Michelet, tratto dall’Introduction à l’Histoire de France, abbondantemente citato, ma mai sino in fondo: «Ancora più complesso, più spaventoso era il mio problema che poneva la storia come resurrezione della vita integrale, non nelle sue manifestazioni superficiali, ma nei suoi organismi interni e profondi».
La stessa cosa aveva detto, a suo modo, Bossuet nel Discours sur l’Histoire universelle: «La vera scienza della storia consiste nel far risaltare, in ogni tempo, le segrete tendenze che hanno preparato i grandi mutamenti e le importanti congiunture che li hanno provocati». É per me di grande incoraggiamento constatare come certe affermazioni coincidano con i miei intenti.
Questo tipo di storia è lo strumento con cui cercheremo di misurare il mondo e la vita.
Divisioni della storia, divisioni del mondo?
I numeri non sono una qualità delle cose. Alain Per incominciare, chiederemo un favore alla storia: fornirci una immagine preliminare del mondo, che ci serva come un primo abbozzo, un progetto di itinerario per il nostro viaggio. La storia ha dovuto modellarsi sul suo oggetto, adattare le proprie divisioni alle categorie della vita. Per questa ragione è diventata una immagine della vita.
Fino ad ora abbiamo distinto nella storia due strati orizzontali: una storia evenemenziale (di cui abbiamo denunciato la fragilità) e, sotto questa superficie, una massa poderosa, ben altrimenti consistente: la storia profonda; l’ una sostiene l’altra un po’ come accade per le maree, il cui moto regge il movimento delle onde. Ma non basta avere stabilito la presenza dei due diversi livelli; da molto tempo gli storici hanno imparato a distinguere varie categorie di fatti sociali settori differenziati tra loro: tutti approcci di uso ormai corrente, atti a sezionare verticalmente la storia: i fatti geografici innanzi tutto, ovvero i legami fra il sociale e lo spazio; i fatti culturali, inerenti la civiltà; i fatti etnici; i fatti di struttura sociale; i fatti economici e, per finire, i fatti politici.
Altrettante divisioni della storia praticate in verticale e, lo ribadisco, non sovrapposte, ma giustapposte.
Naturalmente si possono concepire altre divisioni con relative innumerevoli suddivisioni, ma le sezioni da noi indicate ci basteranno per disegnare una immagine del mondo.
Prima sezione: i fatti geografici, che sarei incline a definire col termine di geopolitica o, ancor meglio, di geostoria.
Queste parole sottolineano la presenza di un dinamismo (come meccanismo frenante o complicità) dei fattori fisici e biologici che si trasmette alla vita sociale, un dinamismo presente in tutte le epoche.
Il difetto della geopolitica, secondo noi, è di studiare questa azione esterna unicamente sul piano delle realtà politiche e di assumere come oggetto lo Stato anziché la Società considerata nelle sue varie forme di attività.
Di qui l’utilità del termine più largamente comprensivo di geostoria. Andrebbe bene anche geografia storica, se i manuali scolastici non avessero usato il termine in senso troppo riduttivo, limitandolo di fatto allo studio dei confini politici e delle ripartizioni amministrative.
In questo campo vedo una sola eccezione, il bel libro di Wilhelm Goetz, Historiche Geographie.
Beispiele und Grundlinien, uscito nel 1904, la cui novità e il cui valore non mi sembra siano stati sempre riconosciuti.
L’eccezione conferma la regola.
La parola geostoria non è senza difetti: è del tutto nuova e perciò me ne assumo l’intera responsabilità; inoltre è poco armoniosa.
Tuttavia ha il merito di segnalare con forza un punto di vista scarsamente riconosciuto.
Troppi storici ritengono più che sufficiente premettere ai propri libri una introduzione geografica.
Dopodiché non si parlerà più di ambiente naturale, di environment umano, come dicono i geografi americani; più precisamente, si continuerà a dissertare come se questo environment non contasse nulla e non contribuisse a determinare, a reggere (e su questo punto si insiste con monotonia) una parte importante della nostra storia, della nostra vita. «L’Irlanda – ha scritto Vidal de la Blache – troppo vicina all’Inghilterra per evitarla, troppo vasta per esserle assimilata, è vittima della propria situazione geografica“. Formula eccellente ma incompleta, poiché l’Irlanda è vittima di questa realtà in ogni istante del suo destino.
Lo stesso si può dire della Francia, che subisce momento per momento la propria geostoria, somma di vantaggi e di rischi ormai universalmente noti.
Una eccellente definizione della «mia» geostoria l’ha data Karl Haushofer: «Lo spazio è più importante del tempo».
Si può dire meglio? Gli anni e i secoli passano – spiega Haushofer – ma la scena su cui si svolge l’interminabile e incessantemente ripetuta commedia dell’umanità resta sempre la stessa.
Tutti riconoscono che la commedia della storia, su quella scena, non si svolge in piena libertà.
La scena è costituita da possibilità, da costanti imperiose: clima, stagioni, rilievo, sono altrettanti fattori di storia.
Durante questa seconda guerra mondiale si è parlato del generale Inverno, del generale Primavera.
Un intero stato-maggiore di fattori fisici comanda alla nostra vita… o almeno ci prova.
Nel suo libro, brillante e lucido (che offre al lettore un vivido ricordo di Emile-Félix Gautier), libro dal titolo molto indovinato di Méharées, Théodore Monod rintraccia, nell’ambito della vita sahariana ai giorni nostri, l’esatta ambientazione di moltissimi passi della Bibbia.
Esempio mirabile di come leggere un testo.
La verità è che un deserto è un deserto, dai tempi di Abramo e di Davide ad oggi.
O, per lo meno, fino a che il Sahara non sarà invaso da aerei e automobili.
Perciò la geostoria è ricca di invarianze, di immobilità, diciamo pure di ripetizioni: è una storia che sta ferma o che si muove ben poco.
Gli storici attenti alle variazioni, intenti a seguire il film della vita degli uomini, in generale non ne coglieranno le manifestazioni.
Non crediate tuttavia che le ricerche in questo campo siano assolutamente nuove. Se nuova è la parola, non lo è la cosa. Basti pensare a un libro tanto bello quanto poco noto, Les Céréales dans l’Antiquité grecque di Auguste Jardé.
E chi non conosce le ricerche di Victor Bérard sui paesaggi dell’Odissea e, nello stesso ordine di idee, i notevoli lavori di Hennig? Penso anche a studi come quelli di Hettner o di Philippson, entrambi geografi, o a certi articoli di Kulturgeographie…
Ma nell’ambito di questa tendenza i libri più suggestivi restano le opere che Emile-Felix Gautier ha dedicato all’Islam e, segnatamente, ai Siècles obscurs du Magreb médiéval.
Sullo sfondo di quei secoli privi di una storia ben definita, nascosti al nostro sguardo dal filtro opaco delle cronache arabe, egli ha saputo evocare con maestria gli ambienti naturali, gli opposti modi di vita dei nomadi e degli stanziali, i loro conflitti per difendere i pascoli o le città.
Gautier ha avuto il merito di riportare la geografia al centro del dibattito.
Geographia oculus historiae: così scriveva in uno dei suoi ultimi lavori.
Con lui siamo lontanissimi dai cenni geografici relegati nell’introduzione dei libri di storia, come una porta che viene aperta e subito definitivamente richiusa. A conferma di questa similitudine, basterà ricordare le descrizioni geografiche nelle classiche opere di storia dell’Antichità, dove ci è concesso di veder fiorire gli anemoni e verdeggiare gli ulivi solo in apertura di volume. Dopodiché di anemoni non c’è più traccia e di ulivi resta soltanto qualche sparuto esemplare.
Lo diceva, a modo suo, anche Lucien Febvre, parlando di come si studiava il medioevo nelle nostre università: «Si frugava soltanto nei cartulari e le carte erano i soli strumenti di lavoro»11.
La seconda sezione comprende i fatti culturali, cioè la storia di stati più resistenti e più complessi degli stati veri e propri: le civiltà.
E su questo argomento in particolare dovremo abbandonare le nostre abitudini mentali di professionisti della storia; tuttavia, se vogliamo trovare una definizione pratica di civiltà, non dobbiamo cercarla nelle opere di A. Jardé, che alla parola riservò la sua predilezione. Le definizioni e i modi per affrontare questi problemi li chiederemo invece ai sociologi, agli etnografi e agli etnologi.
Quando è in gioco la Francia (ma anche quando non lo è), siamo certi di conoscere l’enorme differenza che passa fra la civiltà e le entità politiche? La civiltà della Francia non è la Francia-stato.
Ciò che conviene all’una non si attaglia all’altra.
Gli Stati dicono sì quando le civiltà dicono no e viceversa – e ciò per la lunga durata di un passato che non riusciremmo a conoscere appieno se non fossimo attenti a sottolinearne e a precisarne i valori culturali.
Gautier spiegava il Magreb del Medioevo col conflitto incessantemente rinnovato fra nomadi e stanziali: spiegazione geostorica.
Georges Marçais, nel corso del II Congresso nazionale di Scienze storiche ad Algeri (1930), ne dava una diversa interpretazione.
Secondo lui, in quei secoli, il Magreb oscilla ora verso l’Oriente, ora verso la Spagna e, a seconda di questi movimenti, l’Africa settentrionale si apre alternativamente all’una o all’altra civiltà. Il Magreb, poco creatore, è però un grande assimilatore. Quando dal VII al XI secolo, gravita verso l’Est, sarà indotto ad aprirsi agli uomini, alle cose e alle civiltà dell’Ovest egiziano, siriano e persiano, senza contare le influenze ancora e sempre attive del mondo bizantino (almeno in tema di architettura). In questa fase il Magreb, come la vicina Spagna, è invaso da avventurieri politici venuti dalla Siria, talvolta anche capi religiosi, da medici mesopotamici, per non dire di poeti persiani o di danzatrici egiziane vestite di rosso.
Ma, nell’XI secolo il blocco magrebino guarda verso l’Ovest e la Spagna. É una rivoluzione totale.
L’Africa del Nord si apre all’arte e al pensiero iberici, soprattutto nella sua parte occidentale dove sorgono e si espandono nuove città.
Ai frutteti e giardini delle città andaluse si aggiungono, a sud, al di là dello stretto, le stesse coltivazioni delle città-sorelle marocchine Rabat e Salé, Ceuta, Tetuan e molte altre, fra le quali emergeranno Fez e, più ancora, la Marrakesh degli Almoravidi: impeccabile sintesi questa che ci offre Georges Marçais, storico dell’arte musulmana particolarmente attento alle grandi correnti civilizzatrici: è la spiegazione culturale. Terza sezione: i fatti etnici.
Ma, in questo caso, la divisione risponde alla realtà? Esistono veramente le razze e, se così fosse, sarebbe lecito parlare di una storia del sangue, del nostro sangue? Una intera scuola di storici tedeschi ha puntato sull’idea di razza e crede alla sua realtà.
In Francia malgrado Gobineau, si tende a negarla, forse un po’ troppo sbrigativamente.
Si tratta di un problema molto rilevante sul quale dovremo soffermarci ancora a lungo.
In ogni caso oggi – ci troveremmo in grosse difficoltà, se, alla luce dei recenti studi antropologici, dovessimo scrivere una storia del sangue dell’Africa mediterranea.
Che possiamo dire, in questa situazione, del problema-chiave, la storia dei Berberi, genti autoctone, attualmente stretti nei loro angusti insediamenti arroccati, isole di montanari sovrapopolate, straripanti?
La quarta, la quinta e la sesta sezione richiederanno meno spiegazioni; esse vertono sui fatti di struttura sociale, sui fatti politici, economici, troppo conosciuti perché se ne debba sottolineare preliminarmente l’originalità.
I vasti insiemi che abbiamo elencato vi sono noti. Le nostre esistenze si svolgono tutte all’interno di una società, di una economia, di un sistema politico: fasci di forze condizionanti, dinamici, creatori.
Ricondurre tutto a una realtà sociale, economica o politica, porta a semplificazioni convenienti che tutti conosciamo.
Riconoscere una priorità assoluta alla società, all’economia o alla politica significa arrendersi a poteri ostili, come sappiamo altrettanto bene. Ma è stato il materialismo economico – assai più degli altri due – a proporsi come una spiegazione regolare.
Per offrirne un esempio calzante, torniamo all’Africa del Nord nei secoli oscuri.
Alla spiegazione geostorica di Gautier, alla spiegazione culturale di Georges Marçais aggiungiamo una spiegazione economica.
Il Magreb, come si è detto più volte con una immagine abbastanza fedele al vero, è un’isola fra il mare e il deserto, fra due diverse realtà economiche: quella del Sahara, del mare e delle carovane, da un lato, e quella dei pochi mercanti dall’altro. Il mediterraneo occidentale, diventato musulmano nell’VIII secolo, lo è rimasto fino all’XI. É il mare dominato dai Saraceni a dare impulso alle grandi città come Tripoli di Barberia, Tunisi, Bugia, Algeri e Orano, le due città nuove del X secolo, Ceuta, Tangeri.
Come vi ho già fatto notare, il mare collega le città all’Oriente e, con esse, tutto il paese.
Nell’XI secolo le città italiane aprono le ostilità e la loro vittoria segna la fine del lago saraceno: il Mediterraneo è di nuovo proprietà dei paladini di Cristo.
La Sicilia viene occupata dai Normanni; l’Africa del Nord e la Spagna, questi due far-west musulmani, sono ormai isolati dall’Est e costretti a fare fronte comune, a vivere e difendersi insieme.
Di qui la nascita degli imperi ispano-magrebini, sorti in fretta, prima ad opera degli Almoravidi e poi degli Almohadi, costruzioni di autodifesa e, in quanto tali, fragili, come l’Impero carolingio.
Così si spiega il rovesciamento di tendenza di cui parla Georges Marçais; il primo periodo è quello del Mediterraneo libero, il secondo è quello del Mediterraneo chiuso (ai musulmani).
Ci resta ancora un argomento da affrontare (anche se, come esempio, non va preso in blocco): che cosa l’Africa del Nord ha sempre dovuto al Sahara e, oltre il deserto, agli schiavi e all’oro del Sudan.
Storia tanto oscura quanto trascurata. É tuttavia all’oro sudanese che l’Ovest musulmano deve la sua prosperità, è con quell’oro che sono stati coniati i dinari di Spagna e d’Africa, le monete che hanno consentito sia lo splendore andaluso, sia la resistenza africana.
Ma nel secolo XV, in seguito alle scoperte portoghesi, l’oro del Sudan verrà dirottato a sud, verso il golfo di Guinea: sarà un duro colpo, destinato a provocare quello sgretolamento dell’insieme territoriale e politico nordafricano di cui gli storici non sempre hanno colto l’importanza.
Come vedete, diverse le storie, diversi i percorsi.
Li utilizzerò successivamente nel corso delle prossime spiegazioni, senza prendere in esame, nei diversi settori, lo strato evenemenziale che si estende in superficie.
Pur riconoscendo il suo valore relativo (penso anzi che una storia completa debba saper cogliere l’evenemenziale e l’ho dimostrato in un libro sul Mediterraneo nel XVI secolo dedicandone l’ultima parte a «Gli avvenimenti e gli uomini»), nel nostro studio prenderemo in considerazione i fatti profondi e non gli avvenimenti – avvenimenti geografici (una eruzione vulcanica, un maremoto, un inverno particolarmente rigido come quello che, nel 1590, bruciò gli uliveti della Provenza e della Toscana), o avvenimenti culturali, etnici, economici e politici.
Ci occuperemo di ciò che evolve lentamente, non subisce accelerazioni e si situa quindi al di là delle nostre azioni.
La storia profonda infatti ci travalica, eccede la nostra misura di esseri viventi.
A noi è riservata soltanto la funzione di trasmettere i destini che, per suo tramite, riceviamo dal passato; ed abbiamo appena il tempo di intervenire per modificarli, quando ci riusciamo.
Siamo trascinati da una corrente impetuosa che viene dal passato e non ci dà tregua.
Un saggista, Benedetto Croce, sostiene che secoli interi si incorporano nel più piccolo attimo di vita che ci sia dato scoprire e che in esso continuano a vivere.
Immensa è la parte dei morti e degli anni remoti. A Venezia, nel XVI secolo, i Cinque Savi facevano ancora copiare le loro deliberazioni su grossi registri dove i primi fogli risalivano al XII e al XIII secolo.
Nessuna decisione veniva presa senza aver prima richiamato e soppesato i venerabili precedenti. Non per questo stimeremo meno Venezia.
Diciamo soltanto che la vita della Serenissima, nel XVI secolo, tende a fermarsi e ad anchilosarsi prima che altrove.
D’altra parte, in ogni epoca, a tutte le latitudini, sempre e dovunque, il passato imprime duramente sul presente la propria impronta.
In tali condizioni penso che a nessuno sfugga il pericolo insito nel misurare la storia col metro etnologico delle nostre esistenze o dei nostri atti: un metro di una esiguità irrisoria.
Avrete certamente notato l’ordine della classificazione: geografia, civiltà, razza, struttura sociale, economia e politica. Tale classificazione si basa sulla velocità, più o meno grande, che caratterizza le diverse storie: all’inizio della serie, al massimo livello di profondità, le più lente, le meno condizionabili dall’intervento dell’uomo; alla fine, quelle che ne sono maggiormente influenzate, ovvero l’economia e la politica.
Classificazione alquanto approssimativa, beninteso, e che richiederebbe delle precisazioni abbastanza circostanziate.
Notiamo per inciso che l’uomo interviene con minore difficoltà sulle più mobili delle storie profonde, ovvero su quelle che considera giustamente più importanti perché più flessibili: politique d’abord, per alcuni, économie d’abord, per altri.
Caratterizzate dalla velocità e dalla vicinanza nel tempo, permeate dall’elemento umano, queste storie dal fluire agitato, disseminato di acque sorgive, presentano un corso al quale il nostro intervento può portare tante sensibili modificazioni. Forse è nel distinguere due strati di storia profonda – da un lato la geostoria, la storia culturale, la storia etnica e la storia delle strutture sociali, dall’altro la storia economica e la storia politica (due strati che non hanno né gli stessi ritmi né le stesse lunghezze d’onda) – forse è proprio in questa distinzione che risiede una delle prospettive più interessanti della storia.
Forse, mi preme sottolineare.
Dobbiamo infatti diffidare di immagini e di paragoni troppo chiari, troppo esplicativi e riconoscere che la vita è fatta di correnti che scorrono a velocità diverse: alcune (gli avvenimenti, le nostre esistenze) mutano di giorno in giorno, altre di anno in anno altre di secolo in secolo.
Ma stiamo attenti a non semplificare troppo. I nostri «piani» di storia, a onor del vero, non hanno le proprietà dei piani geometrici e la vita non è un volume di cui ogni piano rappresenta una sezione; tutt’altro, data l’enorme complessità della vita stessa.
Quando vogliamo spiegare una cosa, dobbiamo diffidare ad ogni istante della eccessiva semplicità delle nostre suddivisioni.
Non dimentichiamo che la vita è un tutto unico, che anche la storia deve esserlo e che non bisogna perdere di vista in nessuna occasione neppure per un attimo, l’intrecciarsi indefinito delle cause e delle conseguenze.
Non dimentichiamo soprattutto che siamo noi storici a creare le suddivisioni; e con noi altri studiosi di discipline diverse.
Infatti illuminiamo il sociale, il passato, la vita con proiettori di colori diversi: geostoria, storia della cultura ecc…
Ma, come dice Alain, «i numeri non sono una qualità delle cose bensì della nostra mente», altrettanto si può dire delle nostre suddivisioni a scopo costruttivo: il calco che la storia ci fornisce, per quanto fedele ed esatto, per quanto utile sia – e noi pensiamo che lo è resta pur sempre un calco.
Non stanchiamoci di ribadirlo per lealtà e per prudenza.
Qualsiasi discussione sui piani della storia implica un modo di vedere e di risolvere i problemi che si vogliono affrontare e perciò la difficoltà maggiore consiste nel fissare un programma e nell’indicarne preliminarmente le grandi linee.
Sono riuscito in questo intento? Bastano poche parole per introdurre una conferenza.
Una conferenza è come una passeggiata.
Ma per una serie di conferenze – oggi, un libro – l’impresa è molto più impegnativa: spiegare la storia, spiegare il mondo non è cosa da nulla.
Il mio primo compito, la prima luce da accendere sul nostro cammino, era mostrarvi la vastità, la ricchezza di una storia sostanzialmente nuova, rivoluzionaria, imperialista, e darvi fiducia nei suoi mezzi.
Ed è quanto ho cercato di fare. La storia non è solamente un racconto e neppure una mera collezione di fatti eccezionali e irripetibili.
La storia fa presa sulla vita e, al limite, è e deve essere la vita stessa. La storia fa appello
Insisto su questo punto.
Il vero fine della storia non è tanto il passato – un mezzo più che uno scopo – quanto la conoscenza degli uomini, compito collettivo, punto di incontro e di convergenza delle scienze sociali e anche di chi, come noi, le pratica.
Potremo infatti spiegare la storia soltanto se spiegheremo anche il mondo.
Alcuni diranno che il merito di questa storia sociologica è di farsi essa stessa vita, utilità, riprendendo così una delle formule più dense di Nietzsche, posta all’inizio delle sue considerazioni, non sempre benevole, sulla storia.
Voler fare della storia una «scienza» – impresa ad alto rischio, lo sappiamo – significa dare all’uomo meno spazio, aumentare le probabilità di errore e persino, come sostengono alcuni, tenere in minor conto la poesia; affermazione, quest’ultima, che mi lascia fortemente dubbioso. Ma allora che cos’è la poesia? Qualunque cosa sia, io sono persuaso che non significhi dimenticare la vita né privarsi della grande gioia di capirla, di capirla meglio e di più.
Capitolo terzo Geostoria: la società, lo spazio, il tempo
…lo spazio è più importante del tempo.
Karl Haushofer
…sotto la superficie agitata degli avvenimenti circola in profondità la grande corrente tiepida che ci muove senza renderci inquieti né indifferenti. Noi siamo assai più le onde di quel movimento gli istanti di quel percorso impossibile, che non l’argilla della terra…
Gaston Roupnel
La geografia, una scienza incompiuta La geografia non si limita allo studio della terra, ma si estende a tutto ciò che vive sulla terra, e specificamente all’uomo, alla vita economica, sociale, politica dell’uomo.
André Siegfried
Rinunciamo a considerare gli uomini come individui.
Albert Demangeon
I geografi lo sanno benissimo: la geografia è una scienza incompiuta. Malgrado il dinamismo del suo insegnamento, vera e propria rivoluzione di recentissima data; malgrado la qualità e la quantità dei lavori realizzati: tesi, testi, riviste, collane, atlanti, manuali scolastici; malgrado i metodi eccellenti di cui si avvale; malgrado tutte le sue ricchezze, la geografia è ancora in larga misura incompiuta.
Come tutte le scienze dell’uomo? Come tutte, certamente; ma ancora più delle altre, perché è la più complessa e di gran lunga la più antica, eccettuata la storia: in verità è una vecchissima avventura intellettuale le cui origini si confondono con i primi passi mossi con sicurezza dal pensiero e dalla riflessione umani.
Un’avventura che non incomincia, piaccia o non piaccia, con Humboldt o con Ritter o con Ratzel, oppure, da noi, con Vidal de la Blache.
Erodoto non è soltanto il padre della storia, ma anche della geografia, una geografia profondamente mutata rispetto ai suoi tempi e insieme sempre simile a se stessa, ricca di esperienze e di compiti appassionanti ma forse troppo numerosi, spesso impastoiata nelle proprie tradizioni, in molti falsi problemi, resa ancor più complicata dalle recenti importanti acquisizioni che l’hanno portata, negli ultimi cinquant’anni, ad estendere a largo raggio e in tempi brevi, in senso orizzontale, il campo della sua attività, sconfinando nei territori delle altre scienze e più ancora nelle scienze della natura che in quelle dell’uomo.
Ma, come si sa, l’imperialismo appesantisce. Infatti siamo portati a credere che, nell’ambito delle scienze umane, non esista un campo più vasto e più eterogeneo del suo.
Per queste ragioni, a volte, la geografia non sembra abbastanza libera nei suoi movimenti né abbastanza flessibile per puntare decisamente sul reale o, cosa pressappoco analoga, per definire se stessa con sicurezza, per saper scegliere fra i suoi possibili compiti e per classificarli in un ordine di importanza sempre riferito all’uomo. É in atto una crisi della geografia.
Rendersene conto significa far luce anche sulla nostra crisi, la crisi della storia.
Come la storia, così la geografia: il suo passato non sempre le è di aiuto, anzi la schiaccia o almeno l’intralcia.
Nel 1942 si presenta ancora (si veda il prezioso Guide de l’étudiant en géographie di André Cholleà) come descrizione della terra; potenza dell’etimologia! Come la storia nel 1942, anche la geografia – giova ripeterlo – si presenta come racconto, come scienza dell’evenemenziale, ma senza esserne sempre consapevole, il che peggiora ulteriormente la situazione.
E con gli stessi risultati: da un lato gli avvenimenti, le peripezie, i gesti dei grandi uomini o pretesi tali, una storia tutta di superficie; dall’altro, simmetricamente, le descrizioni e i viaggi, una geografia anch’essa tutta di superficie.
Da un lato l’arte del narratore, dall’altro, inevitabilmente, gli appunti, i ricordi del viaggiatore e, poco prima, quelli, ancora più affascinanti, dell’esploratore.
Occorre riconoscere che, in questi ambiti, si è spesso assai lontani dalla Scienza con la S maiuscola. Descrivere vuol dire vedere il particolare, cogliere la vita nella sua immediatezza e, in verità, il pubblico chiede proprio questo; la storia e la geografia, infatti, continuano ad essere strumenti noti e collaudati per soddisfare il gusto dell’avventura e per evadere dal grigiore della vita quotidiana, per tentare le strade dell’ignoto e del sogno.
Spesso ci si limita soltanto a questo, ma è già molto.
Chi se ne sta fermo (a tutti invece piacerebbe muoversi) trova a portata di mano tanti paesi che non visiterà mai, ma dove, se vuole, può viaggiare con la mente.
Chiedetevi per un momento che cosa desidera il lettore: vedere i luoghi il più possibile da vicino, avere l’impressione di esserci.
Che tentazione salpare a vele spiegate verso paesi sconosciuti ed esotici ai quali abbiamo sempre pensato con nostalgia! Tutto dipende dalla letteratura e dalla pubblicità, dall’epoca in cui viviamo.
Allo stesso modo, salpando a vele spiegate, potremo intraprendere un altro viaggio che ci farà approdare ai paesi del passato.
Prima possibilità: la letteratura di viaggio: grandi strade, stazioni ferroviarie, vagoniletto, piroscafi.
Seconda possibilità: vite romanzate e cronache del passato. Identica situazione per il geografo e per lo storico: agli inizi del mestiere entrambi provano la grande tentazione di fermarsi a queste attività preliminari, tradizionali, facili e piene di interesse umano.
Essere letto, farsi leggere non significa forse agire?
D’altra parte descrivere è un mezzo per conoscere: vedere e vedere bene è il primo compito del geografo.
Inoltre, la sua materia è inesauribile (un gran numero di regioni del mondo ci sono pressoché ignote dal punto di vista geografico).
Per non parlare di un lavoro che, anche quando sembra finito, prima o poi è quasi sempre da ricominciare, perché le parole che usiamo per descrivere invecchiano rapidamente – come le immagini stesse, come le attrezzature per viaggiare o per dipingere.
Bisogna cambiarle, rimetterle a nuovo a scadenze ravvicinate, tanto più che anche la terra si trasforma, i popoli si evolvono e perciò richiedono, da parte nostra, visite sempre più frequenti.
Il giro del mondo in ottanta giorni di Phileas Fogg è del 1872. Come è fuori moda! Ho forti dubbi che possa ancora divertire i ragazzi di domani e persino quelli di oggi.
Queste considerazioni mi suggeriscono un esempio: il Marocco di cui voi mi parlate è il paese del 1935, ma non è più – siatene certi – il Marocco del 1942.
Quanto all’America meridionale, che ho visitato nel 1935-37, temo fortemente che, frattanto, sia svanita, radicalmente modificata nella sua identità profonda durante gli anni della grande prova. Sono altrettanto certo che la Piccardia di Albert Demangeon (vista nel 1905), un paese robusto, solidamente impiantato nelle sue valli profonde e attaccato alle sue pianure argillose, ai suoi vasti campi coperti di limo, un mondo ricco di valori sicuri, oggi non corrisponde più all’antico ritratto. Del mondo colto nel presente non possiamo tracciare che uno schizzo fragile e inadeguato.
I colori sono ancora freschi e già il modello non assomiglia più al ritratto. Scoprire, riscoprire, descrivere, ridescrivere: un lavoro senza fine.
«La scuola geografica francese», frutto del vigoroso magistero di Vidal de la Blache, ha affrontato arditamente l’impresa, ha voluto e saputo vedere, ha persino raggiunto una sua perfezione in questa arte di descrivere la terra: un risultato che, per quanto ne so, non è mai stato eguagliato all’estero e al quale, in casa nostra, non è stato dato il giusto rilievo.
E pensare che si tratta di una prova letteraria delle più riuscite! «L’école française» ha saputo fare della descrizione un arte esatta, sobria, evocatrice, di incontestabile bellezza, un’arte di rappresentare secondo la migliore tradizione nostrana. Nello stesso tempo ha fatto del mestiere di geografo un mestiere aperto a tutti i venti e a tutte le esperienze: dai viaggi all’osservazione della realtà, persino, in qualche modo, alla coltivazione dei campi. Ma i suoi grandi meriti non si fermano qui.
A dare l’esempio, anche se non il primo in assoluto, è stato Vidal de la Blache nel suo bellissimo Tableau de la géographie de la France.
Il suolo, il rilievo, gli specchi d’acqua, il cielo, la vegetazione (sia nelle linee sia nelle masse), il toccante aspetto umano della Francia, tutto è stato colto e reso da Vidal de la Blache con straordinaria intelligenza, con una tenerezza assai vicina, anche se meno romantica, a quella di Michelet, in una descrizione intensa, nervosa, fatta di notazioni brevi, con un segno netto, incisivo, con colori schietti con un acuto senso dell’armonia dei piani.
E con la sobrietà di un classico: nessun abbellimento nella scrittura compatta, sin troppo serrata di questo maestro.
Tutti gli allievi di Vidal hanno assimilato il suo modo di descrivere intensamente evocatore e ciascuno lo ha adattato al proprio temperamento, creando uno stile e una scrittura originali.
Lo stile di Demangeon, quando tratteggia la grande pianura della sua Piccardia, procede per larghe campiture di colore trattate in modo semplice e rapido; Jules Sion, scrittore di alta classe, si avvale di un linguaggio personalissimo, fatto di nitide macchie di colore, di segni a penna che risaltano su vaste zone lasciate bianche; fitte, minute, innumerevoli macchie color della terra, delle piante, dei massicci boscosi, dei grandi prati, dei gruppi di case, dei versanti soleggiati, si affollano e ricoprono le pagine di Maximilien Sorre che ritrae i suoi Pirenei orientali, lasciando però, a mio avviso, troppo poco spazio alle zone d’ombra; lo stile di Emmanuel de Martonne consiste in una serie di schizzi tracciati con rapidità, molto espressivi anche se evitano le tinte crude, mentre quello di Emile-Felix Gautier, forse il più grande dei geografi e degli storici di lingua francese del periodo antecedente la seconda guerra mondiale, è un modo di rappresentare «comico», a volte quasi caricaturale e sempre così esuberante di vita che non finisce mai di stupirci.
A ben guardare, non credo che la letteratura vera e propria offra spesso l’equivalente, di scritture altrettanto intelligenti e aderenti al soggetto: un arte del paesaggio precisa e raffinata.
Nell’insieme, un’impresa di grande rilievo che talvolta fa risaltare ma in modo negativo, i lavori di geografi meno dotati dei loro maestri.
Del resto quale scuola di pittura non ha i suoi «minori»?
Un altro modo di descrivere e di descrivere meglio consiste nell’affrontare i problemi nel quadro della regione naturale.
Ciò significa scomporre uno spazio, variegato nel suo insieme, in piccoli spazi che, invece, presentano colorazioni quasi identiche e caratteri geografici molto simili: come spezzare una vetrata per scomporla nei suoi frammenti monocromi, come isolare le componenti di una difficoltà per meglio capirla.
E anche in questo caso la scuola francese, seguendo la via tracciata da Vidal de la Blache e da Albert Demangeon, ha prodotto un gran numero di ottimi lavori. Tutti risultati eccellenti, specialmente per quanto riguarda il territorio francese, a partire da un classico, lo studio di Demangeon sulla pianura della Piccardia (1905), sino all’importante tesi di Roger Dion sulla valle della Loira (1933), anche essa ormai annoverata fra i classici.
Gioverà ripetersi? Nella letteratura geografica internazionale nulla è paragonabile a questi libri di grande qualità in cui le nostre province geografiche sono ritratte e vivono in una luce nuova.
Diciamolo senza inorgoglirci: esiste al mondo un paese più adatto della Francia, con le sue province e i suoi paàs, a uno studio regionale così vasto e interessante? In paesi nuovi o meno vecchi del nostro, dove non ci sono uomini ancorati alla terra, da millenni dediti a uno stesso lavoro, attaccati ai campi e al villaggio, dove non abbondano «realtà» come i paàs, territori con una identità propria, caratterizzati da un lungo passato e da una poderosa esperienza umana, non c’è, non può esistere una materia così ricca e così adatta alla geografia regionale.
Questo spiega perché, in Francia, disponiamo di splendide raffigurazioni del nostro paese e, ricalcate sul loro modello grazie ai geografi francesi, di immagini del mondo altrettanto degne di ammirazione. Immagini da riconsiderare e da rivedere, presto o tardi, poiché così vuole, inevitabilmente, la legge che governa questa disciplina. Descrivere, dunque.
Ma non basta, bisogna anche spiegare.
La geografia è una «descrizione razionale» che si è affermata nel corso degli ultimi cinquant’anni – e forse anche prima – come scienza del paesaggio o, per dir meglio, come studio scientifico dell’ambiente naturale o geografico o, ancora più esattamente, dell’ambiente fisico e biologico; formule che, più o meno, si equivalgono per designare l’environment della vita umana di cui parlano i geografi americani.
D’altra parte è nello studio di questa realtà che sono stati realizzati, con straordinario dinamismo, i progressi più notevoli.
Una cosa è certa: ai geografi della Sorbona, dopo il 1920, non si potranno mai rimproverare le pavide incertezze e le critiche sterili proprie dei loro colleghi storici. Che abisso! Qui la storia secondo Anatole France, là invece la vita, l’aria aperta, i problemi umani di vasta portata… I veri maestri della nostra giovinezza sono stati i geografi. A mio parere, si può far loro un solo rimprovero: avere dedicato maggiore attenzione alla sfera della natura con le sue certezze, che non alla sfera umana con la sua sconcertante complessità.
Sappiamo che non esistono manuali perfetti, definitivi, bensì manuali preziosi che, se aggiornati con regolarità, riassumono tutte le conoscenze utili di cui disponiamo.
Citiamo, per la geografia fisica, il buon testo tedesco di Alfred Philippson.
In francese abbiamo l’ottimo Traité de géographie phàsique di E. de Martonne. Beati gli studenti di geografia, mi direte.
Nessun problema di tettonica, di climatologia, di idrografia li metterà in difficoltà.
Studenti forse esageratamente fortunati, in quanto troppo propensi a ricalcare le orme dei loro predecessori.
La vera vita dello spirito si paga con rischi e difficoltà sempre nuovi.
Guai agli intellettuali senza inquietudini! Guai ai discepoli che rinunciano alla propria indipendenza di giudizio!
Per fortuna, a patto che si voglia tenerne conto, le difficoltà proficue incominciano allorché si tratta dell’uomo, di metterlo in scena e in causa; sia indirettamente, ovvero ponendosi dal punto di vista della geografia economica, sia direttamente ovvero dal punto di vista della geografia umana; una scienza, quest’ultima, ancora da costituire, da delimitare, da consolidare, irta di ostacoli e di incognite.
In materia di economia, soprattutto di economia politica, noi disponiamo di buoni lavori, di ottimi strumenti e di approcci ai problemi sia sul piano teorico sia sul piano pratico, che spesso, come sappiamo, il geografo ignora, ma di cui, volendo, potrebbe disporre in qualsiasi momento. É quando ci si accosta direttamente all’uomo, quando si cerca di coglierlo nella sua interezza che scarseggiano le vere opere di riferimento.
Vidal de la Blache non ha avuto il tempo di finire il Traité de géographie humaine, fatto uscire incompiuto nel 1922, dopo la sua morte, avvenuta nel 1918, col titolo di Principes de géographie humaine: non un libro, soltanto un insieme di appunti, ma bellissimo.
La stessa dolorosa vicenda si è ripetuta con Albert Demangeon (morto nel 1940): dei Problèmes de géographie humaine, pubblicati due anni dopo la sua scomparsa, solo le prime dieci pagine sono nuove: una introduzione perfetta, ma niente di più, a un’opera didattica ancora – ahimè! – di là da venire.
Auguriamoci che le due vicende qui ricordate possano servire di avvertimento. Troppo tardi i grandi «scopritori» hanno raggiunto le terre ancora quasi inesplorate che sono i problemi specifici dell’uomo.
Ciò non significa che nulla sia stato fatto, da noi o all’estero, in un campo così appassionante.
Tutt’altro. Quanti studi sul popolamento, sull’habitat, sulle città, sui movimenti della popolazione! Quante opere eccellenti sui diversi problemi e casi particolari! Quante ricche acquisizioni, metodi efficaci o punti di vista ingegnosi per tracciare le carte o spiegare la sostanza mutevole e complessa della geografia umana! Ma neppure un libro troppo descrittivo, troppo semplicista e superficiale come La Géographie humaine di Jean Brunhes, si può dire sia del tutto inutile e meno che mai dopo la recente quarta edizione a cura del suo allievo Pierre Deffontaines, che ce ne offre un riassunto vivace, agile, ottimamente aggiornato.
Quante riflessioni sorprendenti e profonde in un libro appassionato in cui molti problemi sono stati anticipati e spesso formulati con grande precisione! Non dimentichiamo, per dovere di giustizia nei suoi confronti, che la prima edizione dell’opera risale al 1910: libro di un pioniere con tutti i meriti e le imperfezioni del caso, anche se, bisogna ammetterlo, non del tutto valido oggi, nel 1942.
Non c’è dubbio: l’oggetto della geografia umana presenta una straordinaria complessità.
Gioverà ripeterlo, dopo tanti altri studiosi, almeno per evitare di far loro torto. Agli inizi della scienza geografica, verso il 1890, negli anni di Ratzel, vero fondatore della scuola geografica tedesca, e anche prima, all’epoca di Taine, era lecito supporre uno stretto legame fra uomo e ambiente, affidarsi ai solidi ormeggi del determinismo geografico, quanto più robusti, tanto più facili da manovrare.
Ma quasi subito si è resa necessaria una pausa di riflessione. La scuola francese, nata poco dopo, non ha mai creduto sino in fondo a quel determinismo. Un ambiente geografico, per Vidal, è un insieme di possibilità.
Sta all’uomo quali scegliere, come se si trattasse di semi che egli può decidere di piantare o di lasciare dove sono; sta all’uomo «prendere partito»: questo, in due parole, il possibilismo vidaliano.
Possibilismo che permea anche la tesi de La Terre et l’évolution humaine (1924), il brillante studio di Lucien Febvre.
Un po’ troppo incline, secondo me, a porre l’accento, per reazione, sulla volontà e sulla libertà dell’uomo, egli ci ha dato tuttavia la sola opera metodologica di cui disponiamo per affrontare questi difficili problemi. Ma gli ambienti dei geografi hanno mai saputo riconoscere il peso, il significato del saggio di Febvre?
Sembra di no, sembra che il libro sia stato interpretato soltanto come un appello alla vigilanza, alla prudenza, ai dubbi, alle perplessità, alle riserve, a una sorta di distacco che mette tutto sullo stesso piano, atteggiamento proprio degli spiriti che non si lasciano facilmente convincere.
Si sarebbe invece dovuto forzargli la mano, portando le sue negazioni alle estreme conseguenze.
I geografi tedeschi, dal canto loro, non hanno mai creduto a questo «possibilismo» pieno di cautele e sono rimasti tutti decisamente «ratzeliani».
La scuola geopolitica di Monaco deriva in blocco dal pensiero di Ratzel. E il suo sforzo, malgrado quanto ne è stato detto, merita il nostro apprezzamento.
Alla persistente presenza di Ratzel dobbiamo la solidità, la semplicità dei libri e delle considerazioni dei geografi tedeschi.
Molto meno coinvolti, anzi meno scoraggiati di noi di fronte alla complessità umana. Potrebbe darsi che la verità stia a mezza strada fra i nostri dubbi e i loro ardimenti. I geografi tedeschi mi sembrano più propensi di noi a rischiare, più attenti a sviluppare le implicazioni di un’idea per esaurirne le possibilità, o di una tesi per sviscerarla in tutti i suoi aspetti.
Ma, al di là del loro caso, qui entra in gioco una vera e propria arte di pensare diversa dalla nostra. Argomento vasto, troppo vasto per affrontarlo in questa sede!
La geografia umana è esposta anche ad altri pericoli: uno è la tendenza a spiegare tutto con l’ambiente geografico e biologico, mentre, in tal modo, si può spiegare soltanto una parte delle realtà che costituiscono l’oggetto di questa disciplina.
Un altro pericolo è l’abitudine di parlare sempre dell’uomo: l’uomo e la foresta, l’uomo e le isole, l’uomo e la montagna, ecc.
Non l’uomo, ma gli uomini, si deve dire. So benissimo che, in queste formule ormai stereotipate, la parola è intesa nel senso di «umanità», di «tutti gli uomini» e anche io la userò con questo significato. Ma un dubbio può sussistere, e infatti resta. «Rinunciamo – scriveva Albert Demangeon – a considerare gli uomini come individui».
«É evidente: – diceva Jean Brunhes – l’individualismo deve essere proscritto anche dalla geografia».
Parole grandi.
L’oggetto, il cuore della geografia umana e forse della geografia tout court, della geografia «profonda» di cui rivendichiamo il diritto di occuparci, non è l’uomo, ma è la società, il vero ambiente umano dove l’uomo si muove come un pesce nell’acqua; è lo studio della società nello spazio o meglio per mezzo dello spazio, in armonia con la definizione che, nella precedente conferenza, davo della storia intesa come studio della società attraverso quel «mezzo» che è il passato. Anche lo spazio è un mezzo, un quadro di riferimento meno solido di quanto pensino gli storici, molto più importante di quanto ritengano i geografi.
Aggiungo che, in molti casi, si dovrebbe partire dalla società (e non soltanto da ciò che la circonda).
Comunque sia, è alla società che si deve arrivare. É molto strano che la geografia, specialmente da noi, dimentichi spesso l’uomo e perciò si fermi cammin facendo.
Non è, il mio, un attacco gratuito. Basta vedere quanto sono rari i libri di geografia che ci dicano che cosa mangia l’uomo, come si veste, che cosa canta, che lingua parla, che cosa pensa o in che cosa crede.
Dalla lettura di pagine e pagine esce, quasi casualmente, uno strano homo geographicus, fratello dell’homo oeconomicus di buona memoria e, come lui, totalmente avulso dalla vita.
Se, come dicevamo, si dimentica spesso l’uomo, i geografi francesi dimenticano regolarmente la società.
Un filosofo straniero vedrà in questo, con gran divertimento e intima soddisfazione, la prova del nostro individualismo.
Noi vogliamo essere soli di fronte allo Stato, soli di fronte alla Natura; un modo come un altro per resistere al grande movimento che agita il pensiero contemporaneo. Ieri scoprivamo l’uomo centro del mondo.
Oggi scopriamo un nuovo Dio, la società… Scoperta di cui non si è ancora preso atto in tutti i campi del pensiero.
Ed eccovi, dovuto a Pierre Monbeig12, un ottimo studio condotto con vivacità e immediatezza, sulla zona del cacao degli Ilheos, nello stato brasiliano di Bahia.
Tutti gli elementi del libro sono organizzati con esattezza e coerenza logica. Ma l’autore non ci dice, se non per vaghi accenni, qual è la società di questa zona di pionieri, da dove è venuta, come si è formata.
Fin dal 1840, nella foresta litorale degli Ilheos, che si estende lungo la costa, gruppi di coloni svizzeri e tedeschi hanno aperto le prime radure e creato le prime piantagioni di cacao.
Otto Quelle ci ha narrato la loro storia, modesta ed eroica a un tempo.
La seconda occupazione di questo territorio è un’onda lunga che, verso il 1890 viene dall’interno: cercatori d’oro, razza di brutali avventurieri, residenti all’estremità opposta della regione di Bahia, che, rovinati dalla concorrenza delle lontane miniere del
Transvaal, erano rifluiti verso la costa e, inseguiti, si erano gettati sulle terre degli Ihleos, appena disboscate.
Subito il resto del paese avvamperà, in preda a continue contese e la zona colonizzata vivrà, grazie a loro e malgrado loro, i suoi primi grandi momenti.
Gli avventurieri hanno ripreso e completato l’opera iniziata dai nordici, hanno creato il regno del cacao e del sudore, della fatica umana, cacau e suor come è benissimo detto nel bel romanzo populista di Jorge Amado. É questa la storia violenta che Monbeig ci nega e, con essa, il ruolo dei mercanti portoghesi di Bahia, amanti di suppellettili d’argento massiccio, trafficanti di schiavi, di barili di merluzzo, di carne essiccata al sole, dominatori e padroni, dall’alto delle loro grandi case, del mercato, del porto, della città bassa e, per finire, prestatori di denaro: figure, queste ultime, senza le quali nulla si sarebbe potuto fare nel Sud…
Strana lacuna, non pare anche a voi?
I nostri geografi trascurano dunque troppo spesso, nei loro studi, la realtà sociale; assai meno l’uomo. Forse perché concentrano di preferenza la loro attenzione sull’ambiente geografico e biologico e si esauriscono in indagini facili, ma numerose, sul suolo, il rilievo, il clima, le piante e gli animali. Per facili intendo rese tali grazie a un gran numero di lavori che forniscono un modello illuminante e si prestano ad essere trasposti quasi tali e quali.
In ogni caso, lasciatecelo dire, troppa geografia fisica, troppi livelli di erosione, troppe piatteforme litorali, troppa geologia. Tutto questo relega in secondo piano sia l’uomo sia il sociale. Non esiste geografo, alle prime armi o già affermato, che non abbia sentito parlare della boutonnière du paàs de Braà.
Ma quale geografo sarebbe invece in grado di dire la pur minima cosa sui contadini o sulle città di questa regione di acque sorgive? Mi piacerebbe molto che gli specialisti tentassero la prova.
Occupiamoci dell’uomo, degli uomini, «dell’ambiente umano», come dice André Cholleà.
Non dimentichiamo le realtà dei gruppi, delle comunità, la fraternità dei legami sociali, tutto ciò che unisce l’uomo all’uomo e fa della società estesa nello spazio un tessuto vivo, dalla trama più o meno fitta… É compito della geografia spiegare queste realtà sociali o almeno contribuire a spiegarle, proprio in quanto essa è, a mio modo di vedere, un metodo e insieme una scienza…
In realtà non esiste un problema sociale che non sia da inserire nel suo quadro geografico, in uno spazio in cui estendersi e con cui confrontarsi; non esiste sulla terra una realtà sociale che non occupi un suo posto specifico, ben determinato, e questo certo non facilita le cose.
Situare i fatti che si vogliono studiare: di qui deve partire ogni seria ricerca sociale.
Dovremo citare, a questo proposito, i noti studi di geografia politica, veri e propri classici, di André Siegfried sul Massiccio Armoricano (e il suo singolare confine politico orientale), sulla Francia in generale, sulla Inghilterra e sugli Stati Uniti? Oppure i lavori recenti ed estremamente interessanti che Gabriel Le Bras ha dedicato al cattolicesimo francese, basandosi sui documenti diocesani?
L’autore ha disegnato una carta delle regioni dal punto di vista della vita religiosa, partendo da quelle più profondamente osservanti per arrivare a quelle del tutto indifferenti; grazie a lui disponiamo ora di una geografia del cattolicesimo francese o, per lo meno, ne possediamo un abbozzo.
Guidati dall’autore, siamo in grado di seguire questi problemi leggendo una mappa che li proietta sul suolo, che ci mostra i fatti in funzione di un elemento molto importante: la localizzazione.
A questo proposito, i geometri parlerebbero di un tracciato di fatti sociali sul piano geografico.
Tali tracciati, in generale, ci forniscono una incredibile quantità di indicazioni.
Questi procedimenti equivalgono, per l’analogia che li accomuna, alla registrazione o, se si vuole, alla fotografia di un movimento in una ricerca di fisica meccanica, visto che la geografia ci offre, all’occorrenza, risultati assai superiori a quelli di una istantanea.
Per non dire dell’aiuto che la geografia può prestare alla storia.
Già ne avevo dato un esempio, che non ribadirò, citando gli studi di Emile-Félix Gautier; vi sono ben noti e inoltre continuano ad essere molto richiesti nelle biblioteche dei nostri campi di prigionia.
Distribuire i fatti storici nello spazio significa per forza capirli meglio e porre con maggior precisione i veri problemi.
Prendiamo la Lorena e il Barrois alla vigilia della Rivoluzione francese, poco dopo il loro ricongiungimento ufficiale alla Francia, avvenuto nel 1766, dopo la morte di Stanislao Leczinskà.
In verità l’annessione reale risaliva al 1738, con la pace di Vienna.
Teniamo presente, inoltre, che la Lorena era sempre stata alla mercé degli eserciti francesi, almeno a partire dal XVI secolo; e infine, dato ancora più importante, che l’intera regione era francese di lingua e di civiltà sino alla frontiera germanica al di là di Metz.
Ma come era la Lorena di allora?
Un povero paese arido, coperto di boschi, di paludi, di sassaie e, nelle zone più favorite, caratterizzato da vendemmie sempre minacciate, da agricoltori spesso miserabili.
Altrove, solo terra di braccianti privi di ogni risorsa e di vendemmiatori di uva acerba (che contrasto con i grandi vigneti e con i vini famosi di Bar-le-Duc o della regione di Metz!).
Nel XVIII secolo, in Lorena, avverranno numerosi cambiamenti, il paese sembrerà risvegliarsi; se si osservano con attenzione i suoi centri agricoli, ci si accorge che tutti o quasi hanno esteso la superficie delle loro terre coltivabili, allargato il confine del loro circondario.
I tipici villaggi lorenesi vi sono noti: al centro le case addossate le une alle altre, strette in duplice fila lungo la strada principale trasformata così in un cortile di fattoria e all’intorno il gran cerchio dei campi coltivati con le sue tre «stagioni» dai diversi colori: il frumento, l’avena e le versaines ovvero i maggesi; e, per finire, a partire dal perimetro del cerchio, si estende la foresta che, incappucciando le collinette calcaree e ricoprendo le terre ancor più lontane, disegna la lunga linea azzurro cupo dell’orizzonte.
Abitato, campi, boschi; tre zone, tre tipi di vita: il cibo, il lavoro di ogni giorno, le attività saltuarie dei boscaioli.
Al centro, nel chiuso delle case, si vive, si ama, si letica coi familiari per tutta la durata di una vita da cani – e se il vicino ti sente, peggio per lui, visto che gridi così forte anche perché ti ascolti.
Più lontano, in aperta campagna, si lavora: primo e secondo taglio del fieno, mietitura (con i paioli di minestra calda, a mezzogiorno), e poi altre due fatiche sfibranti: falciare e legare i covoni.
I disperati, se ce ne sono – e ce ne sono – si ritrovano nella foresta, mondo dei poveri e dei reprobi, ostile all’uomo, zona di rifugio (nel 1870 servì ancora per sfuggire al nemico), luogo che non ha mai cessato di incutere paura.
Nel XVIII secolo, il fronte dei boschi, immutato fin dal XIII secolo, viene attaccato e intaccato in numerosi punti e in questa circostanza sorgono grandi fattorie isolate, sui terreni per lo più scarsamente fertili delle aree disboscate.
Nel XIII secolo, i terreni conquistati erano stati occupati da paesi nuovi, Laneville o Neufville o Neuveville, centri che ancora oggi si ergono a guardia dei loro boschi, spesso siti in cupi valloni coperti di vegetazione o al confine fra la foresta e la valle. Le fattorie del XVIII secolo furono costruite, ad opera di grandi proprietari terrieri borghesi o nobili, molto lontano dagli agglomerati, in località isolate, all’interno di foreste ostili, su terreni spesso coperti di brughiere o di felceti.
Questi insediamenti hanno vissuto o vivacchiato fino ai nostri giorni.
Già negli anni precedenti il 1914 sopravvivevano soltanto grazie a una mano d’opera importata da altre regioni o nazioni: Lussemburgo, Alsazia, Germania. Come potete immaginare, sono stati e continuano ad essere oggetto di invidie, di sospetti e di pettegolezzi malevoli.
L’ampliamento dei terreni coltivabili di cui stiamo parlando è legato ad un aumento della popolazione lorenese e all’impiego di nuovi metodi resisi necessari in agricoltura. La Lorena trabocca letteralmente di contadini.
Numerosissimi sono i poveri e gli itineranti, fra questi ultimi figurano operai in cerca di lavoro, stagnini, calderai, cestai, ciabattini (ancor oggi noti quelli di Condé-en-Barrois), carrettieri (famosi fin dal XVI secolo quelli di Rembercourt-aux-Pots).
Una catena ininterrotta porta i tronchi d’albero dai Vosgi a Bar-le-Duc, a quei tempi porto del legname, dove le querce e gli abeti dei monti sono scaricati nell’Ornain e di là avviati – via acqua – fino alla Senna.
Un forte incremento demografico ha portato all’aumento dei terreni coltivabili per poter nutrire la popolazione, così come, per darle la possibilità di sopravvivere, ha dovuto svilupparsi l’industria: tessiture nei Vosgi; fonderie e ferriere nelle valli della Meuse, dell’Ornain; produzione della birra nei futuri dipartimenti della Meuse e della Meurthe.
Tutto questo ci aiuta a capire, a grandi linee, come e perché la Rivoluzione costituirà un dramma per la Lorena.
Eccone la ragione principale: il suo proletariato agrario troverà uno sbocco negli eserciti della Repubblica e dell’Impero.
Per i contadini della Francia orientale sarà la grande avventura.
Riflettiamo un momento su questo problema: nel 1793, nel momento della folle insurrezione girondina, se la Lorena, territorio sul quale si estendeva la linea di retroguardia dell’esercito combattente, avesse seguito i «federalisti», sarebbe stata la fine sicura per la difesa nazionale e quindi per la Rivoluzione stessa. Ma la Lorena non si è mossa.
Certo, in quella circostanza, non è stata la sola regione di Francia a salvare il paese e la Repubblica, ma il suo contributo è stato importante e la sua partecipazione all’impresa militare l’ha veramente saldata alla nuova patria, la Francia.
Non c’è città, si potrebbe dire non c’è paese, nella nostra Lorena, che non abbia dato i suoi soldati, e di conseguenza anche gli ufficiali e persino i generali, da Neà [nato a Sarrelouis] ad Exelmans, a Oudinot, originari di Bar-le-Duc (all’altra estremità della regione) e così via…
Per citarli tutti, infatti, dovremmo strappare non poche pagine del Dictionnaire des généraux de la Révolution et de l’Empire di Six.
Si dice che la Lorena è una regione di frontiera e con questo si spiega una volta per tutte la sua psicologia; meglio precisare che è stata, dal 1792, un’area di riserva militare, paragonabile ai Cantoni Svizzeri. É stata e resta una terra di soldati, solo così è possibile spiegare la Lorena. Aggiungiamo che si può essere zona di confine senza essere un paese di soldati. La grande gesta militare della Lorena incomincia senza dubbio con la Rivoluzione.
Non dico che questo lungo periodo di storia delle nostre regioni orientali debba essere interpretato soltanto in base all’espansione delle terre coltivate: si tratta di un piccolo segno geografico, niente di più.
Ma è un esempio, scelto di proposito, che ci mostra efficacemente un aspetto geografico di un vasto movimento storico; in questo caso il fatto geografico è soltanto un anello della catena, ma non per questo meno importante, perché, nella catena dei fatti sociali, c’è sempre un anello geografico e a volte più di uno.
Gli storici e gli altri studiosi di cui si parlava dovrebbero ricordarsene.
Anche in questo caso, come in altri, la geografia non ci aiuta a vedere tutto, ma ci aiuta a vedere meglio.
A certi geografi non piacerebbe essere relegati in un ruolo secondario.
Ogni scienza dell’uomo sogna di bastare a se stessa; ma non vi sembra un sogno pericoloso e illusorio? Noi studiamo la società e al nostro studio, in quanto tale, non possono bastare i mezzi di ogni singola scienza presa separatamente.
Tocca a noi unire gli sforzi e unificare i risultati.
Credo anzi che la geografia cosiddetta umana farebbe dei progressi decisivi se avesse una precisa consapevolezza dei limiti del suo metodo, se riconoscesse la necessità di collegarsi alle altre scienze dell’uomo, come ha già fatto, allo scopo di rinsaldare le proprie basi fisiche e biologiche, con le scienze della natura, e traendone per giunta, grande vantaggio.
Farebbe inoltre notevoli progressi se rinunciando a partire unicamente dalla terra, prendesse le mosse anche dalla società e dai suoi problemi, da una società che deve essere ricollocata nella dimensione dello spazio.
Che grande sfida! Se appartenessimo alla schiera dei geografi, vorremmo muovere, persino in una trattazione sistematica, dalle realtà, dai problemi del sociale.
La natura non prevede l’uomo.
Partire dalla natura spesso significa smarrirsi, procedere alla cieca, non riuscire più a inquadrare e a identificare i problemi.
Quando Lucien Febvre polemizza contro il determinismo geografico, ovvero contro il cosiddetto legame che va dalla sfera fisica all’uomo, ciò è dovuto, se non mi inganno, al fatto che, nella nostra ricerca delle cause e degli effetti, partendo dalla natura per arrivare alla società, il filo si spezza mentre lo svolgiamo e perciò spieghiamo male o non spieghiamo nulla.
Quando Gaston Roupnel, partendo da un punto di vista inverso rispetto a quello di Karl Haushofer rivendica il primato del tempo, realtà delle realtà sociali e della vita, e ci dice: «Noi siamo assai più le onde di quel movimento [il moto della durata], gli istanti di quell’impossibile percorso, che non l’argilla della terra», anch’egli ci consiglia di rovesciare i termini del problema geografico.
Non partire dall’argilla, dunque, ma dall’uomo. Allo stesso modo Jean Brunhes, quando scrive la sua tesi sull’irrigazione nella Penisola iberica e nell’Africa settentrionale (1902), sfugge al rigido quadro regionale, va ben oltre l’esempio, il caso particolare e mette l’accento sul lavoro, sull’intervento umano…
Notevole innovazione per i suoi tempi, non meno che per i nostri.
Nel saggio Les Eléments biologiques de la géographie humaine.
Essai d’une écologie humaine (1942), mi sembra che, da un lato, Maximilien Sorre abbia portato la geografia biologica ad un assetto compiuto (per un numero limitato di anni, beninteso) e, dall’altro, che egli insista con forza sulla necessità di considerare l’ambiente fisico sempre in rapporto alla misura dell’uomo, anziché vederlo unicamente in se stesso: una vera rivoluzione, anche se ancora incompiuta. Sarebbe un progresso indiscutibile, un modo utile per riproporre l’eterno problema geografico, se alla misura dell’uomo sostituissimo, una volta per tutte, la misura degli uomini, dei gruppi, delle società.
Come auspico da tempo, la geografia potrebbe essere agganciata a una sociologia largamente intesa; per fare un esempio di casa nostra, alla sociologia di un Marcel Mauss o di un Maurice Halbwachs; o a quella cui si ispira un libro tanto discusso in Germania, ma altrettanto originale e ricco nella sua impostazione, scritto da Robert…13 sulle Alpi occidentali della Stiria. In questa sociologia vorrei cercare quadri di riferimento, veri problemi umani, pur riconoscendo l’utilità del percorso inverso, molto insidioso e molto criticato, che va dall’ambiente fisico a quello sociale.
In conclusione, due sono i poli: il sociale e lo spazio; occorrerà andare dall’uno all’altro, in una direzione e nell’altra.
La società si proietta nello spazio e ad esso aderisce; e parlare di società, in concreto, significa riferirsi a un pugno di uomini e a un pezzo di terra.
Alle vecchie e nuove risorse e potenzialità della geografia io chiedo di aiutarci a riconoscere, nell’aderenza della società allo spazio, un fattore che plasma la società stessa; il che significa anche capirla meglio. Un atteggiamento, il mio, condiviso da altri.
I grandi problemi, infatti, sorgono sempre sulla linea di confine tra i diversi campi scientifici: per quanto riguarda la geografia, fra il terreno delle ricerche, dei concetti, dei metodi che le sono propri e i vasti [cantieri] delle scienze umane.
Ho così abbozzato, male e troppo in fretta, il problema della geografia quale io lo intendo, ovvero come uno dei più grandi problemi «sociologici» e, di conseguenza, come un importante problema di storia: quello dei legami fra l’ambiente umano e lo spazio (dove la parola spazio deve essere intesa nel senso ricco di implicazioni che i geografi americani attribuiscono al termine environment).
Se ora aggiungiamo a questi elementi (lo spazio, il sociale) la coordinata determinante del tempo, potremo giungere a una definizione succinta ma chiara della geostoria e dell’oggetto stesso della nostra conferenza.
Il trinomio dei geografi tedeschi: «Raum, Wirtschaft, Gesellschaft» Accanto ai fattori geografici vi è dunque un fattore tempo.
André Siegfried Il geografo lavora sull’attuale – e qui sta la sua debolezza e insieme la sua forza – sul mondo come è; e se si richiama al passato, cosa che gli accade spesso, lo fa per spiegare il presente.
Cercare di trasferire nel passato il lavoro che compiamo sull’attualità; chiedersi, per esempio, quale sia stata la geografia umana sociale della Francia ai tempi di Luigi XIII, oppure di una parte qualsiasi dell’America precolombiana, eccovi, in poche parole, il programma della geostoria.
Tali interrogativi, d’altra parte, non sono meno ricchi di conseguenze, al fine di conoscere il sociale, di quanto lo siano – e assai spesso – numerosi esempi strettamente attuali. E non mi riferisco al fatto che essi ineriscano direttamente alla storia. Non limitarsi a vedere quanto c’è di grande e di grandioso nella politica di Richelíeu, ma far capire che la maledetta guerra dei Trent’anni ha devastato tutta la Francia orientale – trattata alla stregua di un qualsiasi compartimento della Germania – svuotando la Borgogna e la Lorena dei loro uomini, tagliando fuori l’intero paese dall’Europa centrale: tutto questo è compito sia del geografo sia dello storico.
Ma cerchiamo di affrontare il problema anche da un diverso punto di vista: la vita di una società dipende da fattori fisici e biologici, coi quali essa è in contatto e in simbiosi; tali fattori infatti ne plasmano, favoriscono o intralciano la vita e percid stesso la storia…
Non tutta la storia, ma una parte; e proprio a questa parte proponiamo di dare il nome di geostoria.
In un libro recente mi sono occupato della storia del Mediterraneo nel XVI secolo.
Sotto questo titolo non ho inteso comprendere soltanto la storia dei governi e delle flotte da guerra, delle economie, delle società e delle singole civiltà, tutto un passato denso di grandi eventi; ma anche la storia monotona, benché ricca e determinante, di quei fattori condizionanti e permanenti che sono i suoli, i climi e gli ambienti in cui si svolge la vita. Ho tentato di rivalutare il ruolo costante, organico della ripartizione delle terre e dei mari, la funzione storica della regolarità stagionale.
Nel XVI secolo infatti – ed oggi come allora – le stagioni, con i condizionamenti, gli effetti, le creazioni che impongono, sono fattori di storia.
Vi pare ragionevole dimenticare questa realtà in una storia che si vuole «resurrezione integrale» del passato? E se questi semplici movimenti del tempo, lo sbocciare della primavera, il ritorno dell’inverno, non scandissero solo la vita dei mondi contadini, come è naturale, ma anche il commercio e persino la «grande storia», quella dei principi e dei diplomatici? Si faceva forse la guerra d’inverno, nel XVI secolo? No, in generale.
Si va forse per mare, d’inverno? No, in generale.
D’inverno la vita procede al rallentatore, ci si dedica prevalentemente a lavori di interno.
D’inverno si danno un gran daffare soltanto gli stati maggiori politici: è la loro stagione, tempo di progetti e di negoziati.
Questo fatto ci aiuta a capire molte cose.
Le considerazioni ora esposte mi hanno indotto, al fine di arricchire i concetti troppo angusti della geografia storica, ad estendere l’impresa dei geopolitici tedeschi allo studio complessivo del passato, anziché limitarlo, seguendo il loro indirizzo, soltanto al passato degli Stati. La tendenza programmatica a ricondurre tutto alla politica, propria dei geopolitici di Monaco, la loro aspirazione a reinterpretare il materialismo economico per mezzo di un determinismo geografico, limitato perd al piano politico, mi sembra una posizione troppo riduttiva, anche se originale.
Per questa ragione introdurre nel problema geografico la coordinata del tempo significa considerare da storico la geografia umana, con la massa di problemi di vita, con i rapporti di causa e di effetto che essa implica; significa vederne variare gli elementi – una occasione per coglierne meglio i molteplici problemi, poiché il tempo è una misura, è una delle più grandi realtà del mondo e della vita.
Certo si tratta di una esperienza troppo vasta per pretendere di riassumerla; un’esperienza sulla quale, in questa sede, possiamo fornire soltanto alcuni ragguagli [… ] delle considerazioni generali. Per semplificare, sarà opportuno adottare, in partenza, le grandi classificazioni usate abitualmente dai geografi tedeschi.
Le loro opere, in generale, presentano una suddivisione in tre blocchi: Raum, lo spazio, l Wirtschaft, l’economia, Gesellschaft, la società.
Solo il primo termine Raum richiede una spiegazione.
Raum è, in complesso, l’environment dei geografi americani o, più esattamente, l’ambiente geografico (a un tempo fisico e biologico) dei nostri geografi; lo spazio, insomma, con tutti i suoi caratteri fisici (ovvero lo spazio terrestre, acquatico e aereo in cui consistono le tre dimensioni dell’uomo, con tutte le possibilità, le ricchezze, i condizionamenti che comportano).
A nessuno può sfuggire l’utilità di questa parola, oggi di gran moda negli studi tedeschi; essa riassume un insieme notevole di fattori e di agenti geografici; permette di designare, senza ricorrere ad altri termini, le innumerevoli forze che intervengono nel determinismo geografico e favorisce la tendenza a riunirle in un unico fascio.
Purtroppo, nelle nostre discussioni, tendiamo a spezzare questo insieme, a frammentarlo, per analizzarne le parti e minimizzarne l’influenza.
Sarebbe invece forse più importante valutarne il peso e la portata complessivi.
Rispetto allo spazio, l’economia (Wirtschaft) sarà l’insieme dei passi avanti compiuti dall’uomo, o meglio dal gruppo, il modo, più o meno attivo, per conquistarlo (non si deve dimenticare che l’economia è stretta, per posizione, fra il sociale e la natura).
Ultimo termine del trinomio è Gesellschaft la società: a me sembra ottimo, molto più ricco dell’espressione «geografia sociale», suggerita a più riprese. Propongo dunque di adottare, senza troppo discutere, la terminologia: spazio, economia, società. É mio intento mostrare (a grandi linee) come queste realtà tendano a variare venendo a contatto fra loro nel corso del tempo; come, negli anni e nei secoli, l’azione si sposti dall’uno all’altro di questi fattori, per poi tornare sui propri passi e quindi invertire di nuovo la direzione di marcia e così via…
Inutile ribadire che l’economia modella il sociale e lo spazio e che il sociale a sua volta si impone alle altre due realtà.
Il mondo di cui ci occupiamo è fatto di azioni, reazioni, interazioni; si è parlato, infatti di «una società di cui il geografo dovrebbe studiare l’azione sul suolo, dopo che essa ha già subito l’azione del suolo stesso». É stato detto e ripetuto:l’uomo è nello stesso tempo causa ed effetto.
Un sasso che rimbalza sull’acqua indefinitamente…14
Ma è ora di scegliere alcuni esempi semplici, abbozzati a grandi linee, per chiarire i problemi nei loro aspetti essenziali.
Se il numero dei membri di una società aumenta, l’economia si modifica di conseguenza e con essa lo spazio, almeno per la parte occupata e lavorata dall’uomo; lo dicevamo a proposito della Lorena nel 1789 e, citando un esempio ancora più convincente, lo si potrebbe affermare a fortiori per l’Europa dei secoli XII e XIII, sovrappopolata, tesa ad una febbrile ricerca di terre nuove da contendere alle foreste, alle paludi o al mare.
Ma da dove viene questo aumento demografico? Non potrebbe spiegarsi, a prescindere da ragioni tuttora misteriose (Marc Bloch), con una serie di cause economiche? In tal modo si chiuderebbe su se stessa come deve chiudersi nella realtà, la catena delle cause, delle conseguenze e delle concomitanze in cui non tutti gli anelli sono rappresentati da fatti sociali.
Ed ecco una prova a contrario: una società è in declino, un paese si spopola, un po’ dovunque le terre meno fertili vengono poco a poco abbandonate: è il ritratto della Francia rurale nel 1936.
Secondo Gaston Roupnel, buon osservatore ed esperto in materia, i segni dell’abbandono e dell’arretramento si notano intorno ai campi sterili, ai bordi delle foreste – un arretramento troppo visibile per poter esser negato.
Segni rivelatori che dicono molto sulle condizioni della società francese.
Ma occupiamoci ora di altre variazioni: quelle dell’economia. Le loro conseguenze sono chiare e immediate, in qualsiasi direzione avvengano e si manifestino, da un lato, con mutamenti dello spazio e, dall’altro, con alterazioni della società; pensate all’Inghilterra nei secoli XVII e XIX: sconvolto dalla Rivoluzione industriale, il paese si contrae, si riduce alle sue zone carbonifere e lascia quasi vuoto lo spazio che resta, abbandonandolo alla vegetazione selvatica, ai prati incolti, alle paludi, alle vaste brughiere popolate di volpi.
E pensate anche a tutti gli sconvolgimenti sociali che hanno colpito l’Inghilterra nello stesso periodo e di cui è inutile parlare in questa sede.
Verso il 1890, in Algeria, nell’Alto Atlante, l’introduzione dell’aratro e la sostituzione del bue con il mulo permisero di destinare vaste zone alla coltivazione del grano e quindi di accrescere il numero delle fattorie gestite da europei; per contraccolpo si ebbe una contrazione degli spazi riservati fino a quel momento alla vita pastorale degli indigeni.
Anche in questo caso, come accade dovunque e come si poteva facilmente prevedere, le conseguenze di una rivoluzione economica hanno contribuito a modificare sia lo spazio sia la società.
Molti scrittori tedeschi ritengono addirittura che la vita economica si organizzi spontaneamente in spazi più o meno ampi, in economie-mondi (Weltwirtschaften): così, nel passato, quell’economia-mondo che è stato l’antico bacino del Mediterraneo.
L’attuale economia mondiale sarebbe la somma, più o meno riuscita, più o meno bene integrata, di tante economie-mondi.
Altra imponente conferma della specificità spaziale dell’economia.
Le carte e le mappe registrano tutti questi rivolgimenti.
La società vive di spazio, utilizza lo spazio, lo sistema e persino lo consuma. Cerchiamo di vedere come funziona questa simbiosi: vi troveremo avanzate, ma anche arretramenti, sprechi, ma anche risparmi, momenti di arresto forse necessari, secondo ritmi che percepiamo a malapena, cui corrispondono situazioni di equilibrio: si pensi al poderoso equilibrio costituito, nel cuore dell’Europa Occidentale, dal mondo contadino (su questo argomento, si veda il bel libro di Gaston Roupnel, Histoire de la campagne française, di cui parleremo a lungo); si pensi, nell’Antichità, all’equilibrio del bacino del Mediterraneo; ma anche, in seguito, alle grandi rotture avvenute in Occidente nei secoli XIII, XVI, XVIII, cui sono succeduti altri equilibri e così via… Lo spazio è stato dominato, mangiato, digerito pezzo a pezzo. Nel corso di tale evoluzione si sono avute diverse forme di equilibrio economico fra spazio e società.
Certi paesaggi agrari, per esempio, sono paesaggi che esprimono un equilibrio. Altri invece, nel continente americano, sono paesaggi instabili, anarchici, incoerenti, in fase di rivoluzione.
In uno spazio ancora illimitato, la società americana, inconfrontabile con le misure umane dell’Europa, dilapida suoli e ricchezze. Come i corsi d’acqua, nei cicli di erosione, presentano fasi di giovinezza, di maturità e di senilità, così certi paesaggi sono prima giovani, poi adulti, infine vecchi e ciò accade quando l’uomo non sa più animarli né vivere con il loro aiuto…
Forse non esiste vera prosperità se non nella misura in cui lo spazio utile continua ad estendersi di fronte agli uomini.
Di questa realtà ci offre un esempio calzante la regione orientale dell’isola di Creta.
Un geografo-archeologo, A. Lehman, si è impegnato a localizzare i rari appezzamenti di terra fertile, minuscole isole all’interno di massicci calcarei o arenarici. Ma questa distribuzione può essere proiettata sull’intera superficie dell’isola, tutta disseminata di oasi, ed è facilissimo dimostrare che, dalle origini fino ai giorni nostri, la vita è stata imprigionata in questi isolotti di terra friabile.
I rifugi preistorici, i resti del periodo classico, le rovine dei piccoli centri di epoca veneziana, i paesi di oggi sono tutti inclusi in questi spazi ristretti, situati un po’ dovunque, verso il mare o verso le colline o alla base dei pendii scoscesi; ma sempre in vista degli uliveti e dei campi di cereali: bell’esempio di determinismo in materia di paesaggio, di spazi agricoli sempre ancorati allo stesso suolo. Ma Creta è prospera – come lo è stata in epoca [minoica] e più tardi nel XVI secolo – soltanto quando somma a queste ricchezze di base le risorse del mare.
L’isola dipende dai viaggi, dall’avventura, dal vasto mondo al di là del mare dall’ampliarsi degli spazi.
Diversamente, per Creta, non può esserci prosperità.
Ma basterà che le sue barche o i suoi velieri da carico solchino numerosi i mari, perché la ricchezza faccia la sua comparsa nelle città dell’isola: genesi, realtà di mille imperialismi che, in quel passato lontano, nascono dalla ricerca di un poco di pane, di olio o di pesce essiccato.
Una tendenza analoga si riscontra anche nella storia generale, su un piano ben altrimenti vasto e con poste altissime in gioco.
Al mondo dell’Antichità, chiuso entro il bacino del Mediterraneo, si aggiunge, nel Medioevo, lo spazio di una Europa barbarica, vero e proprio insieme di colonie alle porte dell’Impero romano, vero territorio «americano» con le sue zone di conquista pionieristica, le sue coltivazioni non stabilizzate, gli agricoltori seminomadi, le città nuove e i latzfundia.
Una similitudine, quest’ultima, che piaceva molto ad Henri Hauser.
A quel tempo l’Europa centrale aveva vent’anni…
Nel XVI secolo si ha una nuova espansione, quando le aree dominate dagli Europei si estendono al mondo intero e comprendono grandi spazi quasi incolti o, in ogni caso, mal sfruttati dall’uomo. Ad ogni situazione di prosperità corrisponde dunque un allargamento dello spazio.
Ma oggi, nel 1942, la prosperità è minacciata; ce lo dice anche – e non per primo – l’economista Ferdinand Fried.
E questo perché il globo è ormai interamente conosciuto: anzi, il mondo è finito, nell’accezione del termine usata in matematica e, come ama dire Paul Valérà, che la adotta, non è più elastico e deformabile.
Sulla scorta di queste considerazioni pessimistiche, si sarebbe tentati di non vedere altra soluzione che colonizzare un pianeta per aumentare ancora una volta lo spazio dell’umanità.
In realtà la situazione è tanto più grave in quanto un capitalismo spietato ha perseguito uno sfruttamento insano delle risorse, impoverendo gli spazi destinati a nutrire il mondo sino a comprometterne l’avvenire: e tutto questo in nome del profitto, di un profitto disumano.
Un avvenimento della grande storia da tenere ben presente è il disboscamento delle foreste. Storia già vecchia e monotona? Può darsi.
Ma prendiamo un esempio negli Stati Uniti, dove l’agricoltura delle terre del Middle West, la Prateria, ieri dominio incontrastato delle Calze di cuoio [Leather-Stocking] e degli eroi di Fenimore Cooper, oggi distese coltivate a frumento, a granturco e, verso il Sud a cotone, è minacciata dalle piene devastatrici del Mississippi dovute al disboscamento delle zone intorno alle sorgenti: abbattere le foreste equivale a rompere le dighe di serbatoi naturali.
D’altra parte la scomparsa del manto erboso della pianura ha lasciato alla mercé del vento gli elementi friabili del suolo.
Le piene da un lato, le tempeste di sabbia dall’altro stanno assumendo l’aspetto di vere calamità che compromettono ogni fonte di ricchezza del Middle West.
Secondo Ferdinand Fried il risultato di questo pesante intervento umano è la trasformazione del bacino del Mississippi in [un vasto spazio, rovinato sia dalle inondazioni, sia dalla inutilizzabilità dei campi.
Da qui la necessità di affidare alla Tennessee Valleà Authorità l’incarico di riequilibrare tutto il sistema idrologico in vista di una utilizzazione efficace]15.
Ma anche altrove l’uomo ha scatenato contro se stesso delle forze avverse; praticando il disboscamento, ha aperto la strada del golfo di Guinea al deserto nigeriano che avanza di un chilometro all’anno.
Analogo dramma della siccità ha colpito l’Africa del Sud, questa volta nel territorio del Kalahari.
E così in Australia, dove l’uomo perde terreno a vantaggio di due nuovi venuti, il fico di Barberia (in verità di origine messicana, malgrado il nome) e il coniglio, un flagello ormai incontrollabile; tutti esempi di forze biologiche che si oppongono all’uomo.
Potremmo citarne molti altri, ma questi bastano. D’altra parte, gli esempi che vi ho dato or ora, li ho desunti da Fried, che ne è responsabile.
Più o meno fedeli al vero, credo che, in ogni caso, abbiano il merito di porre i problemi che ci angustiano in modo diretto, aderente alla realtà.
Ma Fried ha davvero ragione? Ecco un altro interrogativo. Alcuni di quegli esempi possono essere presi solo con beneficio di inventario. Io non accetto senza discutere che il mondo sia «finito» (il mondo come spazio di ciò che vive): tante terre non ancora utilizzate restano da conquistare.
Penso alle osservazioni di Saint-Exupérà sullo spaventoso vuoto della terra vista dal cielo sulla localizzazione dell’uomo in strette fasce lungo le carreggiate, lungo le linee che uniscono le sorgenti e le zone di terreno fertile. Ci sono tante terre da utilizzare meglio, tante estensioni difficilmente accessibili da colonizzare; e, nel campo importantissimo della biologia agricola, molte scoperte da fare o da sviluppare.
Certi geografi pensano che la terra potrebbe ancora sopportare un numero di abitanti – valutabile fra i cinque e i sette miliardi – superiore a quello odierno. Possiamo dunque stare tranquilli.
Diffido di Fried anche perché, come certi medici, ha già la soluzione o le soluzioni belle e pronte.
Ascoltiamo quello che ci dice: il mondo dovrà rinunciare al capitalismo; organizzarsi in spazi economici ben determinati: spazio europeo, russo, britannico, asiatico, americano; il pianeta insomma si spezzerà in sottopianeti; sarà il mondo a doversi adeguare alla misura dell’uomo e non l’uomo alla misura del mondo, cosa, quest’ultima, che andrebbe contro il più elementare buon senso. A nessuno sfugge da dove vengono questi rimedi che ritengo del tutto inefficaci.
La loro origine ci induce a diffidare sia delle premesse che li motivano sia delle conclusioni a cui portano.
Lo spazio può mutare in se stesso, indzpendentemente da altri fattori Ed è poi vero che soltanto l’uomo modifica questo spazio dato in origine dalla natura, assoggettandolo ai propri appetiti, ai propri metodi, alla propria organizzazione? Sicuramente no, se si considera il passato degli uomini in tutta la sua ampiezza, se si sommano i secoli di storia ai millenni della Preistoria (da 20 a 500 millenni, e forse si è più vicini ai 500 che ai 20).
Il tempo degli uomini è lungo; tanto lungo da essere stato segnato da grandi rivoluzioni geografiche; di alcune siamo a conoscenza, almeno di quelle che riguardano le grandi mutazioni climatiche.
L’uomo di Mauer è stato scoperto sulle rive del Weser16. Non occorre che vi descriva il clima né l’aspetto attuali di questi terreni fluviali. Ma il museo vicino all’edificio in cui ci troviamo contiene testimonianze incontestabili di un clima molto diverso.
Immaginiamo il Weser di allora sul modello del Niger di oggi. Vale la pena insistere? I drammi climatici della Preistoria sono noti: puntate improvvise di freddo intenso seguite da una imponente avanzata dei ghiacciai e dalla discesa verso il sud di parte della fauna e delle popolazioni nordiche e la prevedibile controffensiva delle regioni meridionali che tendono a riguadagnare il terreno perduto avanzando con piante, animali, uomini; seguono lunghi periodi secchi e caldi.
L’Europa attuale è frutto di una lotta lenta ma possente e inarrestabile fra il Nord e il Sud: un dramma della latitudine.
Il mondo delle piante e il mondo degli animali ne portano ancora i segni e, probabilmente, anche quello degli uomini.
Noi usciamo infatti da un lungo passato durante il quale abbiamo dovuto lottare non solo contro la natura, ma anche contro i suoi cambiamenti.
Oggi, grazie a studiosi come Camille Jullian e Gaston Roupnel, la grande era del Neolitico, per limitarci ad essa, non ci appare più tanto lontana dalla vita attuale quanto ci avevano fatto credere le congetture dei nostri predecessori. Nella Francia orientale abbiamo scoperto le tracce lasciate dagli agricoltori del Neolitico: i sentieri scavati, i caratteristici cespugli spinosi, i fossati di cui circondavano i boschi, un gran numero di vestigia: utensili, ossa, graffiti. Già da tempo, inoltre, Robert Gottmann ha segnalato l’esistenza di insediamenti neolitici nelle radure naturali delle foreste che si estendono nell’Europa centrale e occidentale, villaggi di terra antica (Atland) in opposizione a villaggi di terra nuova (Neuland), questi ultimi costruiti su terreni dissodati nel Medioevo.
Un paese come il nostro è neolitico per le basi della sua civiltà agricola e se non lo è per intero, lo è certamente nei vasti spazi che si estendono a Est.
Marc Bloch ci ricordava che la parola blé [grano, frumento], e con ogni probabilità anche la cosa, è un dono che ci viene dal fondo di oscuri millenni.
Questo sia detto perché si smetta di considerare la preistoria come una futile occupazione di eruditi dotati di scarso buon senso.
La lunga gestazione della Preistoria riguarda le radici, le più intime fibre del nostro essere e l’era neolitica, con la sua capacità di creare utensili e le sue civiltà ingegnose, ne costituisce il periodo di maggior splendore. A forza di psicanalizzare il doppio, triplo o quadruplo fondo delle nostre anime, forse un bel giorno vi ritroveremo tutti i furori, i brutali bisogni dell’uomo primitivo e le angosce di cui non è riuscito a darsi ragione.
Davvero straordinaria la geostoria di quei millenni, disseminata di grandi drammi: ghiacciai che avanzano, si ritirano, ritornano per poi allontanarsi di nuovo, mentre, altrove, assistiamo a un succedersi di vicende come quelle del Sahara: prima cosparso di laghi (i laghi Tchad, sostiene Théodore Monod) poi desertificato, quindi di nuovo coperto di laghi e infine tornato allo stato di deserto.
Per due volte una umanità, probabilmente nera, ha avanzato, si è accampata, si è sistemata stabilmente nello spazio del Sahara e per due volte ne è stata cacciata da un cataclisma, lasciando dietro di sé, nella sua tremenda ritirata, dei residui di popolazioni umane e un enorme materiale culturale che solo in anni recenti si è iniziato a raccogliere: utensili, ami, asce, seghe, raschietti, mole per macinare i semi…
Questi drammi geografici, prima di arrivare a compimento, hanno occupato archi di tempo di lunghezza inimmaginabile.
Il tempo storico, invece, è così breve (da quattro a cinque millenni per alcune ma rare, regioni privilegiate, come l’Egitto; da uno o due millenni per altre); è così breve, dicevamo, da non poter contenere i drammi geografici.
Lo spazio, per quanto riguarda le sue caratteristiche fisiche, è stato generalmente considerato, nel quadro della storia, come [invariabile], una sorta di scena fissa. E se fosse un giudizio troppo affrettato?
Le nostre misure, che risultano più esatte, ci rivelano dei mutamenti minimi, ma abbastanza costanti.
Evidentemente non rientra nelle nostre possibilità farci garanti di tutte le osservazioni compiute negli ultimi vent’anni in ordine a un problema così complesso.
Infatti risultano non poco inquietanti.
So benissimo che, leggendo gli storici della Antichità, scopriamo che il clima del Mediterraneo non è affatto cambiato da allora sia nel Sud della Tunisia e nelle isole dell’Egeo (A. Jardé), sia nella valle del Nilo (Fritz Jaeger, che ha inoltre esteso all’intera Africa le sue importanti constatazioni), sia a Palmira (Emile-Félíx Gautier).
Eppure il fatto che tali affermazioni concordino fra loro e con altre ancora non basta a risolvere il problema.
Abbiamo sotto gli occhi la prova che gli elementi naturali sono soggetti a variazioni: variazioni delle longitudini e delle latitudini (rilevate grazie alle teorie di Alfred Wlegener); New York si allontana dall’Europa all’impercettibile velocità di un centimetro all’anno; ciò nondimeno se ne allontana; allo stesso modo la
Corsica si sposta verso sud rispetto alle coste francesi ad una velocità annuale di alcuni millimetri17; anche un recente studio sulle Alpi ci segnala un movimento di 2 centimetri all’anno dell’intera massa montagnosa in direzione della Baviera, spostamento che provoca, in alcuni punti nevralgici, frane e scivolamenti del terreno constatati, a intervalli più o meno regolari, dalla storia, in quanto interessano la vita di alcuni centri abitati.
Esistono anche variazioni di tipo litoraneo: le coste del Mediterraneo ad esempio, ne hanno subite dall’Antichità fino ai giorni nostri (Philippson). E non solo variazioni in punti determinati, dovute anch’esse a perturbazioni locali (sismi o eruzioni vulcaniche); alcuni autori, fra i quali Dina Albani, ipotizzano fasi successive di una erosione o di una colmatura generalizzate, pensano a una sorta di modulazione dell’erosione marina che, qualora risultasse esatta, porrebbe dei problemi di fisica molto particolari. A partire dal 1900 il Mediterraneo sarebbe entrato in una fase di erosione che provocherebbe un arretramento delle coste dell’Africa settentrionale, del delta del Nilo e anche di certe spiagge.
L’interesse di questo movimento, ammesso che esista, consisterebbe nel mettere in risalto delle modulazioni in relazione a uno stato medio che invece si manterrebbe quasi del tutto inalterato.
Per finire, le variazioni del clima, argomento che merita una particolare attenzione.
Sono infatti di gran lunga le più importanti, in quanto sembrano esercitare sugli uomini un’azione abbastanza diretta (il che non significa rapida). Che gli elementi del clima siano mutevoli, lo sappiamo in virtù dell’esperienza e grazie alle serie di cifre che ci forniscono le nostre osservazioni.
Ma occorrerebbe anche stabilire il senso di tali variazioni e la loro periodicità, ammesso che ne abbiano una.
A questo proposito si sono persino ipotizzati dei cicli di dodici anni che sarebbero legati alle macchie solari.
Altre variazioni climatiche, molto lievi, ci sono note grazie agli straordinari studi degli scienziati americani sulla cronologia dei pueblos, i villaggi indiani del Sud e dell’Ovest degli Stati Uniti.
Si sa che gli alberi, in funzione della pioggia caduta nel corso di un anno, accrescono le loro dimensioni in anelli concentrici, anch’essi di spessore variabile.
Questo ne fa dei veri e propri registratori igrometrici.
Che simili rozzi documenti abbiano permesso di distinguere gli anni, di ricostruire delle sequenze cronologiche e infine di datare i pueblos (i più antichi risalgono al massimo all’epoca di Carlo Magno) in base al legname usato nella loro costruzione, costituisce certamente un risultato lusinghiero dovuto alla ingegnosità degli studiosi.
di una semplice curiosità scientifica o di qualcosa di più?
Potrebbe essere un modo per completare le scarne osservazioni dei nostri documenti scritti sul tempo, in senso climatico, di lunghi periodi del nostro passato, oppure, per fare un esempio, un mezzo per risolvere i problemi particolarissimi che presenta la storia climatica delle Alpi.
Le Alpi, come le altre montagne, sono infatti veri e propri amplificatori delle variazioni climatiche; si pensi all’avanzare e al ritrarsi dei ghiacciai, fenomeni dei quali la storia ha conservato il ricordo e spesso anche le esatte dimensioni.
Oggi assistiamo a un arretramento generale dei ghiacci che ha riportato alla luce, nelle Alpi orientali, grotte preistoriche di eccezionale interesse e miniere d’oro sfruttate nel Medioevo. Un’altra regione che presenta sensibili variazioni del clima e si presta a considerazioni analoghe è il bordo della banchisa artica.
Secondo le osservazioni dei russi, i ghiacci, in corrispondenza del meridiano di Arcangelo, si sarebbero ritirati, a partire dal 1880, nella misura di 85-90 km. Osservazioni discutibili, esplorazione insufficiente?
Tutte obiezioni certamente legittime, tuttavia sta di fatto che la politica relativa al popolamento e alla sistemazione territoriale delle regioni settentrionali dell’Unione Sovietica è stata fondata – e non certo alla leggera – sull’ipotesi di un riscaldamento dell’Artico. In ogni caso, un’avventura da seguire con attenzione anche perché farà parlare ancora di sé e potrà fornirci qualche lezione utile.
Ma, nel vasto campo delle modulazioni climatiche, prudenza vuole che si proceda a piccoli passi.
Mai compromettersi.
E aspettare, aspettare che le pubblicazioni scientifiche ci forniscano nuovi bilanci, unica risorsa a disposizione di chi deve andare per forza a rimorchio.
Il geografo italiano V. Monterin, tuttavia, non è di questo parere.
In un apprezzabile studio sulle Alpi18, egli avanza l’ipotesi che il clima vari di trecento in trecento anni, caratterizzati alternativamente da freddo e pioggia e da caldo e siccità.
Nel 1300 sarebbe iniziato un periodo secco destinato a durare fino al 1600, cui sarebbe succeduto un periodo piovoso durato sino al 1900; da quasi mezzo secolo noi saremmo entrati in un periodo secco.
Non so se questa legge sia esatta. Penso che abbia un valore di ipotesi e che dovrebbe essere attentamente verificata. In ogni caso sappiamo che nel 1300 degli agricoltori tedeschi si sono spinti sino alle alte pendici del Monte Rosa, approfittando dell’aumento della temperatura e dell’arretramento del limite della zona boschiva. É stato inoltre registrato un fatto curioso che, questa volta, noi stessi possiamo constatare: in corrispondenza col periodo secco che avrebbe avuto inizio nel 1900, avviene in Italia una colonizzazione delle zone alte delle Alpi, degli Appennini e, in particolare, delle Alpi Apuane. Ma torniamo al 1600: intorno a questa data si ha una sorprendente inversione di tendenza: la penisola è colpita da una fitta serie di inverni rigidi e di inondazioni disastrose nelle zone basse produttrici di grano.
Nei secoli XVII e XVIII si registra, in Italia, una forte crescita della malaria. A che cosa attribuire in realtà, questa tendenza, se non al naturale progredire di una malattia geografica destinata ad aumentare con l’estendersi delle acque stagnanti? Verso il 1600 – e non per la prima volta nel corso della storia – le acque malsane guadagnano terreno in Val di Chiana.
La vigile curiosità di Gaston Roupnel lo porta a chiedersi se i mutamenti dell’Europa occidentale durante i secoli XIV e XV non siano da attribuire alle trasformazioni del clima.
Semplici ipotesi e fragili, per giunta.
Le scarse informazioni di cui disponiamo non solo ci impediscono di arrivare a delle conclusioni ma persino di formulare correttamente i problemi.
Tuttavia dobbiamo diffidare ogniqualvolta ci venga proposto di accusare l’uomo dei cambiamenti dello spazio.
Non si tratta di assolverlo da ogni colpa. Si tratta più precisamente, di accusare, con lui, anche la natura.
Esaminiamo un altro caso: secondo Goetz, nel IX secolo, in Sicilia, le sorgenti di superficie si inaridiscono.
Ne attribuiremo la responsabilità ai disboscamenti e quindi all’uomo oppure alle eventuali modificazioni del clima? Problema di difficile soluzione.
In realtà saranno i musulmani a risolverlo, con le loro politiche di irrigazione e di dràfarming.
Si può pensare, fantasticare che quel popolo sia stato spinto, nell’827, ad attraversare il Canale di Sicilia proprio dal clima che si faceva sempre più secco.
Allo stesso modo quando Ferdinand Fried accusa l’uomo e il capitalismo dei grandi misfatti di cui egli denuncia le conseguenze, ieri per il Middle West, oggi per la valle del Mississippi e per le regioni ai margini del Kalahari o del Sahara, noi proviamo una fuggevole impressione: che forse si debba chiamare in causa anche la natura.
La natura, questa grande cosa, potrebbe non essere così immutabile come noi l’immaginiamo in base alla nostra troppo breve esperienza.
E poi esiste, in realtà, di fronte alla scienza, un solo fenomeno stabile nel mondo che ci circonda? Mentre noi uomini procediamo nel nostro cammino, le coordinate del mondo si modificano ad un ritmo di una lentezza difficile da concepire. Pensiamo alle rose di Fontenelle, a questi fiori cui egli attribuiva la dote dell’intelligenza e per i quali il giardiniere era immortale, costituiva una realtà immutabile.
I due significati della geostoria La discussione è ancora aperta e, quel che più conta, la ricerca continua.
Infatti non vogliamo limitare la nostra indagine a ciò che Jean Brunhes definisce con formula espressiva «la responsabilità dell’ambiente». Significherebbe vedere soltanto una faccia, un polo del problema: la natura. E l’uomo, ovvero, come io lo intendo, la società, dove li mettiamo? Ce lo suggerisce Jean Brunhes col garbo che gli è proprio: «In ogni caso, il vignaiolo deve essere considerato più importante della vigna, il pastore più importante del gregge…».
Poi si corregge, come è d’obbligo quando si affrontano questi temi: «ma, senza vigna non ci sarebbe vignaiolo, né pastore senza gregge…».
La geostoria è la storia che l’ambiente impone agli uomini condizionandoli con le sue costanti – ed è il caso più frequente – oppure con le sue leggere variazioni, se e quando arrivano ad esercitare una influenza sull’uomo; molte infatti non vengono neppure percepite e restano comunque irrilevanti rispetto alla misura umana così fragile e breve.
Ma la geostoria è anche la storia dell’uomo alle prese col suo spazio, spazio contro il quale lotta per tutta una vita di fatiche e di sforzi e che riesce a vincere – o meglio, a sopportare – grazie ad un lavoro continuo e incessantemente ricominciato.
La geostoria è lo studio di una duplice relazione che va dalla natura all’uomo e dall’uomo alla natura, lo studio di un’azione e di una reazione mescolate, confuse, ripetute senza fine nella realtà di ogni giorno.
Diciamo che è la qualità, la potenza stessa di questo sforzo a costringerci a rovesciare il punto di vista proprio del geografo.
Noi viviamo un’epoca, iniziata alla metà del XIX secolo e tuttora in corso, che è posta sotto il segno della scienza e della tecnica: l’epoca dell’ingegnere e della macchina, caratterizzata dall’affrancamento progressivo (e tutt’altro che compiuto) dell’uomo rispetto alla natura. Ma attenzione a non proclamarci troppo in fretta vincitori e signori della terra.
Anche se oggi, ben più di ieri, la volontà dell’uomo si rivela un grande fattore geografico.
Come del resto, in misura più o meno notevole, lo è stata in ogni tempo: volontà tenacissima di tutta la società degli uomini, non solo dei lavoratori della terra.
Nel XV secolo, come nei tempi antichi della legge Rodia, come all’epoca del viaggio da Cesarea a Roma dell’apostolo Paolo, ogni anno il Mediterraneo è chiuso alla navigazione da ottobre ad aprile.
In quel periodo le depressioni di origine atlantica lo mantengono in uno stato di continua, disordinata agitazione, spesso di violente tempeste.
Immaginate il mare sferzato dal maestrale, fortemente increspato, tutto bianco di schiuma, vasta pianura coperta di neve sollevata in ondate minacciose.
A volte, ancor oggi [occorre adoperarsi] un giorno o due per radunare tutte le imbarcazioni che lo solcano in porti mal riparati dal vento, invasi dal rumore delle sirene dei rimorchiatori agganciati ai cavi d’ormeggio delle navi in pericolo.
Secoli fa, dunque prima del XV secolo, ai tempi della vela, del remo e degli scafi di legno, le navi da carico e da guerra erano costrette a svernare in porti adatti alle lunghe soste, adatti ad hiemandum.
Questo sbarramento di mal tempo, di mare mosso, di ondate accecanti, ha costituito una sorta di difesa degli elementi che ha agito per secoli, una barriera così insistente e regolare da obbligare lo storico a tenerne conto. É una delle caratteristiche primarie del nostro mare interno, il Mediterraneo.
Ed è quindi un fatto geostorico importante, da ascriversi alla prima categoria (dalla natura all’uomo).
Ma, verso il 1450 un nuovo tipo di imbarcazione venuto dal Nord, la cocca (la «Kogge») viene introdotto nel Mediterraneo. É un grosso vascello panciuto e solido, la «nave» dei documenti italiani; le assi del suo fasciame, fortemente inchiodate, si sovrappongono l’ una all’altra come le tegole di un tetto.
Questa nave robusta è destinata a vincere l’inverno nel Mediterraneo, non senza fatica o incidenti o incerti del mare, e per ciò stesso ad aumentare – nell’epoca del Rinascimento di cui, a suo modo, è testimonianza – il traffico che ne solca le rotte.
Vittoria dell’uomo sulla natura? Sì, certamente: vittoria sullo spazio, sul mare domato e perciò fatto geostorico appartenente alla seconda categoria.
Questo caso ci permette inoltre di vedere come, nella realtà, le due categorie si congiungano e si fondano l’ una nell’altra.
Evidentemente non ci impegneremo qui in una descrizione particolareggiata della seconda categoria, avvalendoci di esempi o tentando delle classificazioni. La lotta contro la natura, così varia e complessa, porta sempre il segno dell’uomo, della sua misura e dei suoi mezzi; tutti fattori che variano a seconda delle epoche.
All’inizio, nel corso di millenni, l’uomo si è battuto con armi di limitata efficacia ed ha potuto farlo grazie alle tribù [di cacciatori] impegnate nella stessa lotta: i mezzi a sua disposizione sono cambiati ben poco dal Neolitico al Rinascimento e oltre.
Di fatto, il passaggio «dall’utensile alla macchina», per usare il linguaggio sempre chiaro e diretto di André Siegfried, è un avvenimento recentissimo. Riprendiamo una sua frase, icastica: «Cesare e Napoleone si spostano nello stesso modo. Napoleone non va molto più veloce di Cesare».
Georges Duhamel aveva detto: «il mondo è assai più cambiato da Pascal ad oggi, che dalle Piramidi a Pascal», un altro modo per fare la stessa importante constatazione.
Infatti il problema fondamentale dei nostri studi di geostoria è valutare accuratamente i mezzi umani e fissare una scala di priorità.
Altrimenti chi mai riuscirebbe a capire l’azione dell’uomo sull’ambiente fisico e biologico e quella dell’ambiente sull’uomo, dal momento che sono strettamente interdipendenti?
Penso alla Francia delle guerre di religione.
Pensate anche voi al vantaggio che trarremmo se, per meglio capirne la realtà, riuscissimo a determinare con buona approssimazione il suo spazio materiale in funzione delle distanze.
Qual è il tempo che impiegano un viaggiatore o una lettera per superare una data distanza, da Rennes a Rouen o da Parigi a Bordeaux? In media, rispetto ai nostri tempi, da otto a dieci volte superiore.
Siamo dunque di fronte a una sorta di ingigantimento – non delle ricchezze di quello spazio, al contrario – ma dell’ostacolo, della pesantezza dei mezzi della paralisi dovuta alla distanza. In questo caso cercare una proporzione esatta fra passato e presente sarebbe certamente illusorio. Eppure, malgrado tutto, quando parliamo della Francia di Carlo IX o di Enrico III, possiamo raffigurarci un paese vasto come la Cina attuale (anche se non altrettanto popolato); e l’esempio è tanto più efficace e calzante in quanto la Cina ha anch’essa le guerre civili, le guerre esterne, con tutto il carico di miserie e di atrocità che questi flagelli portano con sé; come la Francia smembrata del XVI secolo, anche la Cina ha dei generali alla testa di eserciti – veri e propri sovrani – ha bande di mercenari dediti al saccheggio, ha un proletariato contadino, le campagne distrutte, inselvatichite e le città spaventate rinchiuse in se stesse, sempre in stato di allerta, come certe città cinte di mura e di fossati colmi di acqua della Piccardia di Condé, della Bretagna di Mercoeur o della Borgogna di Maàenne.
Vi sono racconti di inviati di guerra in Cina che evocano atmosfere analoghe a quelle delle nostre cronache del XVI secolo.
Che immenso paese questa Francia del XVI secolo e, più in generale, la Francia dell’Ancien Régime: nel 1619, il duca di Epernon, governatore di Metz, lascia la città accompagnato da una scorta poco numerosa e poco agguerrita; a piccole tappe raggiungerà Blois dove c’è ad attenderlo la regina madre Maria de’ Medici.
Dovremo stupirci che passi inosservato – come infatti avvenne – in quell’enorme paese e che riesca a infiltrarsi fra le scolte? Tanto varrebbe cercare un ago in un pagliaio o una compagnia cinese che sta marciando per trasferirsi in una parte imprecisata del bacino del Wei-Ho.
La varietà della Francia monarchica, e quindi la molteplicità delle sue libertà locali, dei privilegi accordati a province o città, non potrebbe spiegarsi con la lentezza delle carrozze da viaggio o delle diligenze e con tante altre simili cose? Certi storici puri si chiedono se lo scopo di Enrico IV sia stato fare una cosa oppure un’altra – storici che non sanno di quei viaggi senza orari, dei ritardi della corrispondenza, della difficoltà a trasmettere ordini che non siano a portata di voce, storici che non tengono conto delle cavalcate sfibranti, dell’eterna fretta di un abitante del Béarn, nomade incalzato dalle distanze, sia che corra a battersi contro il nemico, sia che si precipiti ad un appuntamento sempre troppo lontano.
La lotta contro la distanza è stata uno dei grandi drammi del passato degli uomini, uno dei maggiori, se non il maggiore.
Oggi il dramma continua.
Ma c’è una verità costante: alcune grandi rivoluzioni geografiche, fra quelle avvenute ad opera dell’uomo, hanno segnato altrettante tappe decisive della Storia: la comparsa del cavallo, verso il 2000 a.C., nel Vicino Oriente, di cui sconvolge la calma felice; l’apparire del cammello, verso il III secolo d.C. nel Sahara occidentale al di qua della rete di stazioni carovaniere tripolitane; la comparsa della «nave» (ne ho raccontato la storia or ora); e, molto più tardi, verso il 1850, nell’Atlantico settentrionale, la comparsa, sotto bandiera inglese, del piroscafo in ferro, mosso a vapore, che caccerà dall’oceano il suo rivale, il clipper, rapido veliero di legno, fino ad allora imbattibile sui mari.
Inutile parlarvi del motore a scoppio e delle sue diverse applicazioni nel tempo: l’automobile, il camion, il trattore e infine l’aereo; equivarrebbe a descrivervi la nostra epoca il cui processo rivoluzionario, tuttora in atto, non può certo sfuggirvi.
É chiaro che concentrare la nostra attenzione soltanto sulla lotta contro la distanza significherebbe limitare fortemente la battaglia dell’uomo contro le forze naturali ed anche introdurre, abusivamente, un controsenso nel significato della parola Raum.
Non ne ho la minima intenzione.
Mi guarderò bene dall’ignorare le altre battaglie dell’uomo per creare i terreni coltivabili, le foreste, per allevare il bestiame, per costruire le città, le case.
La lotta per i campi, per le colture arboree e ortofrutticole l’affronterò in seguito, utilizzando gli importanti studi di Gaston Roupnel: una campagna è una creazione dell’uomo, con i suoi strumenti e la sua fatica, una creazione degli uomini riuniti in comunità.
Per quanto riguarda le case, mi baserò largamente sui lavori del sociologo e storico Gilberto Freàre.
Ma, come è ovvio, non mi è possibile affrontare partitamente fin d’ora tanti problemi e così rilevanti. Se insisto, in questa sede, sulla lotta contro la distanza, è soltanto perché voglio mettere in evidenza uno dei settori più importanti e più direttamente accessibili fra quelli che riguardano l’azione dell’uomo sulle cose: lo spazio marino, spazio che Karl Haushofer, nella sua introduzione geopolitica alla storia, considera, nel presente come nel passato, più decisivo di qualsiasi altro.
Il mare è infatti la grande via di comunicazione il grande mezzo per superare le distanze, per trasportare uomini e merci.
Mai la strada ferrata o la via fluviale (e difficilmente la via aerea) avranno la sua dimensione decisiva.
Lo spazio marino è lo spazio della grande; della grandissima storia.
Nessuna strada da costruire, nessun animale da aggiogare, in questo mondo liquido, ideale, aperto a qualunque imbarcazione, dove conta solo l’uomo e soprattutto il vento, almeno sino all’arrivo del vapore e della nafta. Che l’essenziale della vita degli uomini si sia costruito sui mari è una realtà formidabile ed anche una grande conquista, poiché lo spazio per eccellenza la principale coordinata della vita è l’elemento terrestre e non quello acquatico. Mondo, quest’ultimo, conquistato con maggior sforzo del mondo aereo di cui oggi godiamo.
Gli storici lo hanno notato, ma non sempre hanno dato il giusto rilievo a questa realtà basilare. Infatti spesso non ci accorgiamo fino a che punto le scienze storiche restino aggrappate alla terra ferma, agli spazi solidi, al terreno compatto…
Quanti sono a pensare che senza paesi, senza campanili non può esserci Storia!
Eppure quanto ci sarebbe da dire sulla formidabile storia della navigazione! Molte antiche narrazioni di viaggi per mare ci permettono di misurare il tempo trascorso da allora ad oggi.
Nella memorialistica del XVI secolo, vi invito a leggere il viaggio per mare descritto con grande vivacità da Jean de Lérà19, un ginevrino di Borgogna, colono del Fort Colignà nella baia dove sorgerà più tardi Rio de Janeiro, che ci racconta le sue due traversate, dalla Francia al Brasile e viceversa, durante le quali naviga a pelo d’acqua, a contatto con la vita dell’oceano che tocca quasi con mano, mentre noi, oggi, la scorgiamo soltanto di lontano, dal ponte del più modesto dei nostri cargo: questione di altezza e di velocità… I banchi di pesci, le enormi zattere di uova di pesce, schiuma rossastra che divora la fauna marina – siamo mai riusciti a vedere dalle nostre confortevoli imbarcazioni questa vita che si svolge in superficie? Abbiamo mai rischiato di morire di fame, come accadeva spesso e inevitabilmente, durante la traversata o pochi giorni dopo lo sbarco?
Abbiamo detto di due geostorie: una degli uomini, l’altra della natura. In realtà, due correnti che scorrono a velocità diverse.
Lato natura: l’influenza dell’ambiente è, grosso modo, immutabile, e si esercita in termini naturali, sempre uguali o quasi, talché l’eccezione, se esiste storicamente, conferma la regola. É una storia immobile o quasi immobile, ovvero indefinitamente ripetuta nelle stesse condizioni e negli stessi periodi di tempo: le greggi scendono verso la pianura d’inverno e risalgono verso gli alti pascoli d’estate; nell’emisfero Nord i raccolti e le vendemmie avvengono sempre negli stessi periodi dell’anno; il fango, quinto elemento delle terre polacche e russe dopo il disgelo primaverile, trionfa anche oggi sulla volontà degli eserciti tedeschi e russi, dopo averli immobilizzati già due volte da marzo a giugno.
Théodore Monod arriva a spiegare alcuni fatti caratteristici della Bibbia in base ai suoi ricordi del Sahara, in quanto, nella zona da lui osservata, la storia non si è mossa. «Il saccheggio è stato sempre, in ogni tempo, un’industria fiorente nei paesi desertici ed è del tutto naturale ritrovare nell’Antico Testamento tante storie che non appartengono a un’epoca, bensì a un ambiente; storie fuori del tempo, che, tradotte in linguaggio moderno, sarebbero l’esatto equivalente di un episodio sahariano attuale20.
Ed ora la geostoria dalla parte degli uomini: l’azione che l’uomo esercita sulle cose varia con le epoche. Ma si esercita lentamente, molto più lentamente di quanto possiamo supporre.
Senza dubbio dalla parte degli uomini ci sono state rivoluzioni geografiche e noi stessi ne stiamo vivendo una, ma esse richiedono un tempo lunghissimo per compiersi. I primi scafi ricurvi appaiono nel Mediterraneo verso il 1450, l’ultimo «galeone» mediterraneo (vecchio tipo di vascello per le grandi distanze) approderà sulle coste inglesi nel 1587.
Lo stesso accade per l’automobile: non crediate che abbia conquistato l’intero pianeta (uso di proposito il verbo conquistare).
C’è voluta la guerra 1939-1943 perché l’automobile potesse finalmente impadronirsi del deserto, perché alle prodezze sporadiche delle piste di Bidon V o delle cacce alla gazzella nel Sahara, in Siria o altrove, si sostituissero le riuscitissime, reiterate prove su larga scala della guerra di Tripolitania.
Nel 1932, dopo l’esperimento di un attacco simulato all’oasi di Kufra, si era dovuta riconoscere l’impossibilità di utilizzare unità motorizzate: i meharisti avevano trionfato.
In conclusione, forzando un poco le cose, abbiamo due storie: una immobile e l’altra lentissima malgrado la spinta incalzante del progresso…
L’unità del mondo, aspetto geografico della Rivoluzione industriale Una conseguenza della vittoria dell’uomo sulla distanza e sulla natura è senza dubbio il rimpicciolimento del mondo e quindi la sua unità.
Soltanto ieri occorrevano quindici giorni per andare da Caracas a Bogotà, oggi bastano tre ore di aereo.
In Brasile raccontano che, fino a pochi anni fa, le urne elettorali di [certi villaggi del sertáo) arrivavano a Rio sei mesi dopo la data delle elezioni.
Oggi bastano pochi giorni.
Si sa che l’Atlantico è scavalcato dalla linea aerea New York-Lisbona via Azzorre (ventiquattro ore da una città all’altra), così come i cieli del continente africano, da Natal a Dakar, sono dominati dai Courriers sud.
Tutto ciò non può accadere senza gravi conseguenze, destinate, presto o tardi, a manifestarsi.
Argomento di riflessione quanto mai appropriato per concludere questa conferenza. Unità del mondo, abbiamo detto.
Non crediate sia una vuota formula o una immagine, un artificio, uno stereotipo da discorso politico. É una realtà pesante, una realtà di ingente portata. Per molti millenni l’umanità ha vissuto costretta entro i confini di ogni singolo continente, senza vie di uscita, come in altrettanti spazi chiusi, su altrettanti pianeti.
Ma da un pianeta ad un altro, da un’area di civiltà ad un’area vicina sono stati lanciati degli ormeggi, gettati dei ponti, moltiplicati i collegamenti utili, scambiati dei beni, dapprincipio goccia a goccia: una balla di seta, alcune monete d’argento con l’effigie di Nerone…
Poco a poco le diverse umanità si sono scoperte a vicenda.
Vecchia storia. Dopo quel lungo periodo la vita nel mondo ha subito un’accelerazione così intensa da portare gli uomini a scambiarsi l’abbigliamento, le culture, le civiltà.
André Siegfried ha notato che si stabiliscono «contatti esplosivi», veri e propri corticircuiti fra «civiltà degli utensili» e «civiltà delle macchine». E tanto peggio per i più deboli.
In una terra ogni giorno più piccola, più sovraccarica di uomini (1 miliardo e mezzo nel 1914, 2 miliardi nel 1939!), lo spazio si riduce progressivamente e vivere a contatto di gomito diventa la regola. «Il mondo è una borgata», ci dice Gaston Roupnel. Non viviamo più sul suolo dell’Europa, ma sull’intera superficie del mondo. La tappa europea è già stata bruciata da un bel po’ di tempo e per giunta è fallita in tre o quattro occasioni.
Noi viviamo dunque sul mondo e, piaccia o non piaccia, al di là delle battute d’arresto che ci nascondono provvisoriamente l’orizzonte, siamo cittadini del mondo.
Questo non è né un bene né un male.
Cosa ne sappiamo noi? Ma è un fatto. Id est quod est, come dice l’Ecclesiaste.
L’internazionale della cultura è già una realtà, in virtù della peculiare mobilità degli elementi che la compongono. La scienza è internazionale: lo leggiamo su qualsiasi testo scolastico.
E anche l’arte lo è, o almeno si sforza di esserlo.
L’architettura di Le Corbusier nuda, geometrica, cubica, triplice trionfo del ferro, del cemento, del vetro, questa architettura tutta aperta alla luce, attecchisce ovunque, anche laddove l’intensità del freddo e l’eccesso di luce potrebbero ragionevolmente sembrare – a priori – due gravi ostacoli.
Nel mondo, un po’ dappertutto, va affermandosi un tipo di letteratura, narrativa e teatrale, il cui tema dominante è la fatica di vivere degli uomini: una lunga melopea, una rivendicazione veemente, vasta, monotona, angosciata.
Basti pensare al numero impressionante di esseri umani che insorgono contro le loro miserie, di persone che vogliono essere se stesse, vivere una propria vita malgrado tutto, come se la vita ci appartenesse, fosse a nostra disposizione…
Mai scegliere, consigliava L’Immoraliste di Gide, preservare le nostre possibilità, salvaguardarle come un bene prezioso, tenerle strette in mano alte sull’acqua nel naufragio che ci minaccia ad ogni istante.
E il grande Saint-Exupérà, cos’altro ci dice? Vivere al meglio la propria esperienza di uomo, mentre un terzo ci suggerisce di vivere pericolosamente… Ma noi, siamo veramente liberi di scegliere, di fare questa scelta che, a ben pensare, potrebbe non essere tale? Il mondo si coagula intorno a noi, si solidifica come un cristallo, con una indifferenza impressionante per la nostra sorte, per il destino di tutto ciò che amiamo, secondo leggi che gli sono proprie e che, pur causate o condizionate dalla tecnica, noi non siamo in grado di controllare.
Il giorno in cui i folklori – grandi ricchezze peculiari di un luogo e di una popolazione – saranno stati cancellati dalle letterature a forti tirature e ad alto rendimento economico, si avrà, su tutta la terra, una pericolosa uniformità di pensiero e la letteratura, espressione dei sogni e dei patimenti umani, sarà dovunque uguale e monocorde.
Anche l’economia sarà internazionale: il capitalismo delle grandi imprese ha già iniziato la conquista del globo su larga scala e sta realizzando, a suo modo, l’unità del mondo. I biologi ci dicono che persino il popolamento microbico tende ad equilibrarsi da un continente all’altro. A niente e a nessuno si può negare di vivere… Avremo dunque anche l’internazionale delle malattie e delle profilassi.
Sotto la spinta di questa unità anche le guerre avvengono a livello mondiale. La grande guerra del 1914-1918 è chiamata correntemente la prima guerra mondiale ed ora siamo alla seconda, non meno mondiale della prima.
Ma quella del 1914-1918 è stata davvero la prima guerra mondiale? L’ingranaggio si era messo in moto molto tempo prima.
L’Europa intera è stata il teatro più spettacolare delle guerre collegate alla Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.
Ma, contemporaneamente, l’Inghilterra dominava le rotte del mondo e si impadroniva dell’India.
Questi avvenimenti sono forse meno importanti di quelli? Guerra mondiale è stato anche il conflitto che, nei nostri testi di storia, è diviso in capitoli successivi: guerra di Successione di Spagna, guerra di Successione d’Austria, guerra dei Sette Anni.
Ancora e sempre a livello mondiale si sono svolte le guerre, pur tanto diverse che, fin dal XVI secolo, furono scatenate contro l’enorme Impero spagnolo.
Fra Pavia e Rocroi, non limitiamoci a vedere soltanto l’Europa: c’era già il mondo in gioco.
Non appena il mondo fu, non dico conosciuto appieno e conquistato, ma soltanto intravisto, gli uomini se lo sono conteso.
E dal momento in cui, nel XVI secolo, fu abbattuto il grande sbarramento dell’Atlantico che così a lungo e assurdamente aveva diviso in due il consesso umano, vi è stato un unico mondo, fatto di parti collegate fra loro, condizionate da uno stretto rapporto di reciprocità e con esso si è avuta, di conseguenza, una Weltgeschichte.
Il Pacifico, ben altrimenti vasto, non ha avuto tuttavia, come l’Atlantico per l’Europa, una funzione di paratia stagna fra l’Asia e l’America (si pensi all’arrivo dei Malesi nell’isola di Pasqua e, secoli prima di Colombo, alle migrazioni dei Gialli verso l’America).
Con la conquista definitiva dell’America da parte dei Bianchi l’unità del mondo si è compiuta.
Come tante altre forze che fanno la storia e operano all’interno del mondo, la tendenza sempre,crescente all’unità non è un fenomeno a corrente continua. É una corrente modulata, alternata, in cui si susseguono avanzate e retrocessioni e che, alla fin fine, progredisce anche con fasi di arretramento.
Che senso attribuire, in questo contesto, a parole come retrocedere e avanzare? Pensiamo a due epoche a noi vicine, innanzitutto al 1914: un mondo aperto a scambi di ogni genere: merci, idee, uomini.
Un unico, vero mondo che si poteva girare da un capo all’altro col solo biglietto da visita in tasca… 1939: dobbiamo ammettere che, venti anni dopo, il mondo appare come barricato e frazionato in modo assurdo.
Coloro che non hanno vissuto questo arretramento insensato, ne troveranno la descrizione in un libro denso e breve di Henri Hauser, il cui titolo, che suona come un eufemismo, è: La Paix économique (1935).
Se si fosse svolto tra le due guerre, il viaggio di Phileas Fogg non sarebbe stato costellato, come nel 1872 ai tempi di Jules Verne, di incidenti tecnici, bensì di inestricabili difficoltà per ottenere visti e passaporti.
Alternanza fra un mondo aperto e un mondo a compartimenti stagni: il problema della guerra in corso non si inscrive forse in questa alternanza? Quale sarà il nostro avvenire? Il frazionamento della terra in spazi autonomi, in pianeti (spazio pantedesco, spazio panasiatico, spazi inglese, americano, russo) oppure il mantenimento – o la salvaguardia – dell’unità del mondo?
A me sembra probabile che quest’ultima tendenza finirà per prevalere.
Libero, chi lo voglia, di costruire col pensiero, per il futuro, frontiere sbarrate, economie pianificate autarchie mostruose! Dal 1919 al 1939 le forze contrarie all’unità del mondo hanno svolto un’azione sfibrante, soprattutto a causa dell’egoismo americano (si veda la legge del 1924 sull’immigrazione). L’Europa, anch’essa colpevole, vi ha trovato la giustificazione della propria debolezza e delle proprie follie.
Mai, né ieri né oggi, ci si può trasformare impunemente in un campo di battaglia.
Anche prescindendo da questa guerra, io penso non sia possibile continuare ad arginare e a comprimere il mondo.
Penso invece che il mondo, mentre si contrae, tenda ad aprire tutte le sue porte in tutte le direzioni.
E forse è venuto il momento che ciò accada.
Come non percepire con chiarezza i grandi problemi, i problemi del futuro? Problemi di porte spalancate, di grandi ventate d’aria aperta destinate a scuotere le nostre case.
Basta con le vecchie scartoffie, voglio dire con i vecchi metodi, le idee superate, le società decrepite, con le civiltà e gli Stati del passato.
Collaborare con tutti gli uomini di buona volontà: come non lasciarsi cullare per un istante da questo bel sogno di Natale? Collaborazione, aiuto reciproco, fraternità, fiducia in una umanità migliore e pacificata.
Tutti bei sogni, non realtà immediate, lo sappiamo benissimo. Aiuto reciproco, certo, ma anche lotte, lotte feroci che coinvolgono i grandi paesi, le razze di tutto il mondo, le idee, le economie e le follie del mondo intero con i suoi odi, i suoi egoismi, il suo cannibalismo, con i determinismi e i fatalismi che si porta dietro.
E tutte queste lotte ci appaiono unite da mostruosi legami che si propagano nello spazio.
Chi ci dice che il destino della nostra Francia, isola fra le isole dell’Occidente, non si stia decidendo fin d’ora in una zona della profonda Cina o in una qualsiasi altra parte del mondo? Tutti i paesi del globo vengono a contatto e si mescolano in un corpo a corpo tumultuoso.
Sono riuscito a mostrarvi con le mie spiegazioni, con gli esempi e soprattutto con l’esempio di più vasta portata l’unità del mondo – affrontato – ahimè! – troppo in fretta, sono riuscito – vi chiedo – a darvi un’idea di questo possente strato di storia e di vita, di questo insieme di realtà naturali e sociali percepibili sul piano delle relazioni geografiche che uniscono gli uomini e la terra che li porta? Riconosciamolo: la geografia investe con una luce rivelatrice i fili innumerevoli che si intrecciano nella complicatissima trama della vita umana.
In qualsiasi ricerca sul passato, in qualsiasi problema di attualità, ritroveremo sempre, costante, ma anche luminosa agli occhi di un osservatore veramente interessato, la zona che abbiamo designato col brutto nome di geostoria.
Trascurarla, come fanno gli storici o almeno la maggior parte di essi, come fanno tanti specialisti del sociale e dell’attualità, significa commettere, come sapete bene, un grosso errore, gravido di conseguenze inevitabili: visioni generali incomplete, problemi posti in modo errato, realtà male interpretate, uso di politiche sempre più assurde.
Non stanchiamoci di ripeterlo: il nostro destino è strettamente legato alla terra su cui viviamo.
Per quanto lentamente proceda, questa storia di base è una storia, una realtà della vita.
Ma esiste un pericolo non ancora sventato ed è il pericolo, opposto a quello corso da chi la nega, di vedere soltanto questo tipo di storia.
Diciamolo chiaramente: la geostoria non è e non può essere tutta la storia. Una debolezza riscontrabile nelle opere, per tanti aspetti ammirevoli, di Emile-Felix Gautier, consiste proprio nell’aver guardato molto spesso la storia unicamente con lo sguardo, pur penetrante e innovatore, del geografo.
In verità, per vedere tutto o almeno per tentare di vedere e capire tutto, occorrono ben altri occhi.
FINE