martedì 18 maggio 2021

L'ECO DEL PARADISO Kenzaburo Oe

 


L'ECO DEL PARADISO 


Kenzaburo Oe 

PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 1994 

Nello studio di K., il famoso scrittore, si sente solo il veloce ticchettare della macchina da scrivere. A un tratto, il silenzio. Le sue dita si sono fermate, adagiate sulle lettere che compongono il nome di una donna. Marie. K. ricorda ancora quando sono diventati amici, tanti anni fa. In particolare un giorno di primavera, durante una manifestazione. Improvvisamente, tra le decine di persone giunte fin lì per aiutare, era apparsa lei, i capelli neri un po’ scomposti, lo sguardo spensierato e il sorriso pieno di sole. K. aveva capito di trovarsi davanti a una donna speciale, una donna che calamitava le attenzioni di tutti con la sua semplicità e innocenza. Molti anni sono passati, e gli occhi gioiosi di Marie si sono velati di un dolore impossibile da superare. Per questo è fuggita. Tra le impervie alture messicane ha cercato la pace, aiutando le donne e i bambini del luogo, a cui si è dedicata con totale abnegazione. Adesso coloro che lei ha aiutato vogliono renderle omaggio, dedicandole un film. E nessuno meglio di K. può farlo, solo lui può scrivere la sceneggiatura. Ma accettare questo compito significa anche riaprire il vaso del dolore, ridestare ricordi nascosti tra le pieghe del tempo. Quando un sorriso radioso poteva turbare il cuore di chiunque ne fosse illuminato. Kenzaburō Ōe, premio Nobel per la letteratura, ci offre il meraviglioso ritratto di una grande donna. Un romanzo che si interroga sull’amore universale, sul ritrovare la strada donando sé stessi, anche se per farlo servono sacrificio e coraggio.

AVVERTENZA

Per la trascrizione dei termini giapponesi è stato adottato il sistema Hepburn, secondo il quale le vocali sono pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. Si noti inoltre che:

– ch è un’affricata come la c nell’italiano cera

– g è sempre velare come in gatto

– h è sempre aspirata

– s è sorda come in sandalo

– sh è una fricativa come sc nell’italiano scena

– tch si pronuncia come una doppia c dolce (quindi Satchan va letto come se fosse scritto Sacciàn).

– w si pronuncia come una u molto rapida

– y è consonantico e si pronuncia come la iitaliana

Il segno diacritico ¯ sulle vocali indica l’allungamento delle medesime.

Secondo l’uso giapponese, il cognome precede sempre il nome (fa qui eccezione il nome dell’autore).

Tutti i termini giapponesi sono resi al maschile in italiano.

Per le citazioni contenute nel testo si è fatto riferimento ai seguenti volumi:

– Andrej Belyj, Il colombo d’argento, trad. it. di Maria Olsoúfieva, BUR, Milano 1994.

– Sant’Agostino, Le confessioni, a cura di Carlo Carena, Città Nuova Editrice, Roma 1971.

– Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, trad. it. di Alfredo Polledro, Einaudi, Torino 1981.

– Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, trad. it. di Ottavio Fatica, Minimum Fax, Roma 2002.

– Brantôme, Le dame galanti, trad. it. di Alberto Savinio, Adelphi, Milano 1994.

– George Sand, Storia della mia vita, trad. it. di Marina Piazza e Paola Spazzali Forti, La Tartaruga, Milano 1981.

– William B. Yeats, Quaranta poesie, trad. it. di Giorgio Melchiori, Einaudi, Torino 1983.

– Mario Vargas Llosa, La guerra della fine del mondo, trad. it. di Angelo Morino, Einaudi, Torino 1983.

– William Shakespeare, Macbeth, trad. it. di Cino Chiarini, Sansoni, Firenze 1937.

1.

Ho ricevuto questa lettera da un amico più giovane di me:

Mi è capitato di leggere una frase di un poeta irlandese che recitava: «Ci sono stati uomini che amavano il futuro come un’amante». Qui, «uomini che amavano il futuro» rappresenta l’asserzione principale, mentre «come un’amante» è una semplice metafora utilizzata per chiarire il significato. A ogni modo, leggendo queste parole, sia l’amante sia gli uomini che amavano il futurohanno evocato in me il ricordo dei giorni in cui lavoravo insieme ai miei due inseparabili compagni presso quella tenda nel parco di Sukiyabashi. Eravamo moltogiovani allora, e c’era quell’unica donna più grande di noi, che nessuno tentò di far solo sua. Eravamo pazzi di lei, la veneravamo, amandola così come amavamo il nostro futuro. Sì, ne sono più certo che mai, soprattutto adesso che penso con nostalgia al passato. Venendo al nostro film, è ovvio che dovrà iniziare mostrando una bellissima donna, e subito a seguire tre giovani uomini che nutrono per lei un amore limpido e sincero. Mentre sono lì, impegnati nel loro lavoro, quei tre giovani non smettono mai di sorridere. Sorridono spontaneamente, perché lavorano a stretto contatto con quella donna di infinita bellezza, e sono al contempo innamorati del loro futuro, il che fa sì che quei sorrisi non sbiadiscano mai. Sarebbe stupendo riuscire a mostrare tutto ciò in una singola scena. Il tepore del sole, che sembrava librarsi tutt’intorno a lei come una farfalla mentre era con noi accanto a quella tenda, ha conferito armonia ed energia ai documentari che da allora in poi ho girato con Asao. Mi auguro che le cose non cambieranno nemmeno stavolta, anche se il soggetto in questione e la situazione attuale rendono tutto molto difficile.

La lettera veniva da Guadalajara, in Messico. Spedendomela qualche giorno fa, evidentemente Kōichi ha voluto darmi alcuni suggerimenti per il libro che ho accettato di scrivere e dal quale dovrà essere tratta la sceneggiatura del film incentrato sulla donna menzionata nella lettera. Kōichi, tecnico del suono, e i suoi amici e colleghi di lunga data sono impegnati nella realizzazione del loro primo lungometraggio, dopo una serie di produzioni televisive.

Il titolo non è stato ancora deciso, ma Kōichi vorrebbe che fosse: Come un’amante. Tuttavia il principale artefice e promotore del progetto ha un’idea ben differente. E io stesso ho in mente qualcosa di mio, anche se preferisco non rivelare nulla, almeno per adesso. Come un’amante non è male, solo che non rivela a sufficienza l’immagine che ho di quella donna, di gran lunga più complessa di tutto ciò che la parola «amante» può evocare. Lei è riuscita a piantare le sue radici dentro di me, radici che si insinuano in profondità, tanto da mettermi a disagio.

Il titolo che ha proposto Sergio Matsuno, quando è venuto apposta dal Messico per chiedermi di scrivere la storia della vita di Kuraki Marie, è ancor più eloquente: L’ultima donna del mondo. È mia intenzione trascrivere accuratamente la nostra conversazione verso la fine di questo racconto. Per il momento, mi limiterò a illustrare – o almeno tenterò di farlo – quanto fossero serie le sue intenzioni, malgrado un titolo all’apparenza così strampalato.

Kuraki Marie ha trascorso gli ultimi anni della sua esistenza partecipando alla conduzione di un’azienda agricola nelle campagne messicane, in particolare dedicandosi alla cura della salute degli indios e dei meticci che vi lavoravano. Tutti la veneravano come una santa, e non solo presso il villaggio dove sorgeva la fattoria, dominato dalle rovine di una piramide azteca che si ergevano sulla vetta di una collina, ma anche nei villaggi limitrofi, dai quali provenivano alcuni di quei poveri braccianti. Naturalmente, non trovandomi sul posto, non posso confermare appieno la veridicità della storia, e ritengo opportuno precisare che mi sto limitando a riportare ciò che ho avuto modo di ascoltare da Sergio Matsuno, il gestore della fattoria. Tuttavia credo sia altrettanto giusto aggiungere che finora non mi sono pervenute notizie in grado di mettere in dubbio l’attendibilità del suo racconto, né da parte di Kōichi, né dagli altri membri della piccola troupe cinematografica, attualmente sul posto per le riprese.

Matsuno ha in mente di mostrare il film di Marie proiettandolo a ripetizione su un telone da qualche parte nella fattoria o nella piazza principale di uno dei villaggi della zona, magari in concomitanza con una festività cittadina. Dapprincipio ci saranno anche altri film, soprattutto quelli di Kurosawa Akira, ma alla fine prevarrà solo quello sulla vita di Marie, proposto più e più volte, senza interruzione.

Quel giorno, quando è venuto da me e abbiamo bevuto insieme, Matsuno si è lasciato prendere dai fumi dell’alcol e i suoi discorsi hanno assunto una piega molto sentimentale e visionaria.

«La fine del mondo è prossima», mi ha detto a un certo punto. «È una sensazione che non mi abbandona mai, in America, e che ho provato allo stesso identico modo anche venendo qui in Giappone. Da noi, in Messico, c’è una povertà devastante, non possiamo fare nulla per invertire la corrente. Intanto che la fine si avvicina, la gente che Marie amava, alla fattoria e nel villaggio, si siederà in religioso silenzio di fronte alla ripida altura su cui troneggia la piramide azteca, dando le spalle al deserto roccioso che si estende oltre una piccola porzione di terreno pianeggiante. E tutti costoro trascorreranno gli ultimi giorni della loro esistenza a guardare e riguardare il film sulla vita di Marie, proiettato senza sosta su uno schermo all’aperto. Il primo piano di Marie, che d’un tratto si materializzerà su quel grande telo bianco, scosso rumorosamente dal vento, costituirà l’immagine dell’ultima donna del mondo. Lei sarà interpretata da un’attrice, è ovvio, ma per l’ultima scena abbiamo stabilito di ricorrere a una fotografia originale, un’immagine fissa che rimanga scolpita in eterno sullo schermo.»

Queste parole risalgono per l’appunto alla succitata visita di Sergio Matsuno, quando è venuto a Tokyo per chiedere a me, ad Asao e Kōichi di aiutarlo nella realizzazione del film, nonché per metterci al corrente della grave malattia di Marie. Incapace di evitare di sorridere nell’ascoltare il tono del suo racconto acquisire sfumature via via più enfatiche – ma mai contraddittorie rispetto alla gravità dell’argomento – a mano a mano che l’alcol prendeva a circolargli nelle vene, ho sentito al contempo una commozione lacerante farsi strada dentro di me. Mi è ritornato alla mente il villaggio di Malinalco, anch’esso ai piedi di un’altura con in cima i resti di una piramide azteca, che ebbi modo di visitare mentre ero a Città del Messico diverso tempo fa, inerpicandomi fin sulla vetta per poi ritornare a valle lungo il tragitto in discesa che, come all’andata, sembrava non finire mai.

Quella notte ho sognato un gruppo di messicani, tutti con lo sguardo rivolto all’insù, che ammiravano la fotografia di una donna giapponese proiettata su un grande telo bianco sospeso nel mezzo di una distesa pianeggiante, dove le lucertole con la pelle annerita si arrampicavano leste sui tronchi e sui rami ricurvi dei salici. A Malinalco c’era un posto caratterizzato da una notevole pendenza, dalla piramide sulla collina fin giù a valle, dove era possibile imbattersi pressoché in ogni tipo di alberi e piante tipici del Messico. Con quel verde sullo sfondo, in un mondo dove tutto stava per estinguersi, l’immagine di una donna giapponese sulla quarantina dal viso scarno giganteggiava in un deserto roccioso e senza vita. Poi il sole si levava sopra le montagne, investendo lo schermo di una luce bianca e abbacinante, ma di nuovo, col passare delle ore, l’astro di fuoco affondava dietro l’orizzonte desertico lasciando riapparire la fotografia di quella donna. E senza nessuno a riavvolgere la bobina, quell’ultima scena era destinata a rimanere lì molto a lungo, immobile e fissa...

Anch’io mi ricordo perfettamente di Marie, così come Kōichi ne parla nella sua lettera, impegnata a lavorare senza tregua al nostro fianco nel parco di Sukiyabashi. Lei mi apparve, dal posto in cui ero seduto nella tenda, investita dalla luce splendente del sole, nitida e tersa, come un’immagine vista attraverso occhiali di straordinaria potenza. Arrivò spostandosi rapidamente da destra verso sinistra, permettendomi di ammirare la sua fronte ampia, piatta fino all’attaccatura dei capelli e in perfetta armonia col naso dritto e ben delineato, e il suo sorriso sagace, scolpito in quello sguardo un po’ spensierato. I contorni di quella figura che osservai lateralmente erano netti e distinti fino all’inverosimile, e anche i colori possedevano uguale nitidezza, dal momento che io ero nell’ombra, all’interno della tenda, mentre Marie era all’esterno, in prossimità dell’ingresso e sotto una luce intensa.

Malgrado fossimo separati da una breve distanza, non pensai minimamente di alzarmi e porgerle aiuto nel vederla trasportare qualcosa di pesante. Me ne rimasi lì, fermo, limitandomi a guardarla muoversi non lontano dal posto in cui stavo seduto. Mi trovavo in quella tenda per partecipare a uno sciopero della fame, e lei, Marie, era una dei volontari venuti a offrirci supporto. Ora, sforzandomi di mettere meglio a fuoco questo ricordo, riesco a scorgere tre giovani uomini sorridere genuinamente in direzione della luce del sole, là dove in quel momento stava passando Marie, anch’ella col sorriso in volto.

Sono trascorsi dieci anni da allora. Circondato da numerosi compagni, me ne stavo seduto in quella tenda impegnato nello sciopero della fame, il viso reso ispido da una misera barba incolta. All’esterno la brezza leggera di giugno faceva tremolare le poche foglie verdi degli alberi smunti ai lati della strada.

Un giovane poeta sudcoreano era stato arrestato e condannato a morte per aver violato la legge anticomunista. Al che un gruppo di intellettuali, che condivideva le idee e l’attività politica di questo poeta ed era in contatto con lui, aveva organizzato uno sciopero della fame in segno di protesta contro il governo coreano. Nella tenda erano presenti esperti della questione coreana, storici del pensiero sociale, attivisti pacifisti legati al movimento per i diritti umani in Asia e poeti e scrittori coreani residenti in Giappone.

Più di ogni altra cosa, era stato lo spessore letterario delle opere di quel poeta a spingermi a partecipare all’iniziativa. Perciò, in un certo senso, mi sentivo come l’intruso della situazione. Molto probabilmente avrei potuto discutere in merito alla poesia di quest’uomo, per il quale ci stavamo battendo pur sapendo di avere scarse possibilità di successo, con Yi, lo scrittore coreano seduto al mio fianco nella tenda, grazie alle cui traduzioni in giapponese mi era stato possibile conoscere il poeta suo connazionale. Il problema era che lui, al pari di tutti gli altri, era assorbito dal dibattito a dir poco incandescente sul significato del nostro messaggio politico e della nostra azione. In un’atmosfera del genere, sarebbe stato alquanto ostico mettersi a parlare per esempio del confronto tra il filosofo e critico letterario russo Michail Bachtin, le cui teorie mi affascinavano molto in quello stesso periodo, e il sistema delle immagini nelle opere del poeta sudcoreano.

Mentre perseveravamo con coraggio nello sciopero della fame, alcuni attivisti più giovani, all’esterno della tenda, raccoglievano firme per una petizione e fondi per la nostra causa, e inoltre distribuivano volantini firmati da alcuni intellettuali esperti della questione asiatica appartenenti alla cosiddetta nuova sinistra. Quei volantini cominciavano con la seguente domanda, scritta in un tono che denunciava al contempo rabbia e sgomento: «Perché qui in Giappone non abbiamo veri scrittori degni di questo poeta coreano?» e quindi proseguivano analizzando la situazione del movimento democratico in Corea del Sud. Uno degli slogan che sentivamo urlare più di frequente, durante i comizi là fuori, recitava: «Perché un poeta deve essere condannato alla pena di morte solo per aver scritto delle poesie?». Un interrogativo più che ragionevole, assolutamente legittimo. Io stesso avevo deciso di prendere parte allo sciopero per protestare contro il regime dittatoriale responsabile di un tale atto, eppure, intanto che ascoltavo quei giovani ripetere i loro slogan con tanta confidenza, mi ritrovai a pensare: “Sì, d’accordo, però in fondo per un poeta non è più logico essere condannato a morte per aver scritto delle poesie, piuttosto che per qualsiasi altro motivo?”.

Nel pieno di quella febbrile atmosfera di attivismo politico, la presenza di Marie, la quale di tanto in tanto faceva capolino nella tenda per accertarsi che stessi bene e non smetteva mai di occuparsi di tutto ciò di cui c’era bisogno all’esterno, mi trasmetteva un senso di intimo conforto. Si chinava agilmente e dava un’occhiata all’interno, catturando il mio sguardo con quella sua espressione briosa e spensierata, che allo stesso tempo possedeva la serietà tipica di una brava studentessa. Era soprattutto in quei momenti che sognavo di essere uno di quei ragazzi là fuori che la seguivano dappertutto, desiderosi di prestarle aiuto. Allora mi sentivo davvero come Asao e gli altri, mi sentivo uno di loro. Si trattava di una sensazione molto simile a un dolce ricordo, quasi che mi illudessi di essere ancora un giovane studente alle prese con una bellissima donna di qualche anno più grande, magari una mia parente, pronta a trattarmi con estrema attenzione.

Ma naturalmente era lei a essere di qualche anno più giovane di me, avendo all’epoca trentasei o trentasette anni. Ogniqualvolta penso a lei, in quei giorni nel parco di Sukiyabashi, il primo aggettivo che mi viene in mente è: «spensierata», che non a caso ho fin qui utilizzato già più di una volta. Eppure la sua famiglia era pervasa da un’immane sofferenza, di cui lei subiva certamente le conseguenze. Potevi leggerglielo negli occhi, sempre in ombra sotto quelle lunghe ciglia folte e quelle belle sopracciglia perfettamente dritte, che intensificavano l’impressione di eccezionale serietà. Di tutto ciò non poteva accorgersi un normale osservatore, visto che lei era in continuo movimento, impegnata a fare del suo meglio. Agli occhi degli altri volontari doveva apparire come una gran lavoratrice, in possesso di una naturale radiosità femminile ma di poche parole.

Ero al corrente dei problemi della famiglia di Marie perché costituivano la ragione precisa per cui ci eravamo conosciuti. Per lei, il movimento democratico in Corea e il poeta che lo guidava non rappresentavano una questione di primaria importanza. Era venuta a lavorare presso la nostra tenda in segno di riguardo e solidarietà nei confronti di mia moglie, la quale condivideva un problema molto simile al suo che la tratteneva quasi sempre in casa.

All’epoca, il mio figlio maggiore andava al liceo della Scuola per disabili Seichō, dalle parti di Sangenjaya. Ora, quando il figlio primogenito di Marie aveva cominciato a frequentare la scuola media dello stesso istituto, uno degli insegnanti, notando che il loro handicap era simile e che i due avevano in comune il medesimo interesse per la musica classica, aveva pensato che potessero andare d’accordo e aveva fatto sì che si conoscessero. E l’amicizia tra i due ragazzi, come era lecito attendersi, aveva permesso che si stabilisse una certa confidenza anche tra le rispettive madri. Una volta, poiché mia moglie aveva avuto un contrattempo, toccò a me accompagnare nostro figlio a un’esecuzione della Passione di San Giovanni di Bach diretta da un noto organista tedesco, per cui eravamo riusciti a procurarci i biglietti grazie all’associazione delle madri della scuola per disabili. Ci andò anche Marie con suo figlio, e fu in quell’occasione che ci conoscemmo.

Non appena si furono scorti a vicenda, nell’affollato, angusto e buio andito d’accesso, i ragazzi si scambiarono un’occhiata tranquilla eppure colma di affettuosa complicità, dopo di che si salutarono con voce troppo bassa perché potessi udirli. Mi resi subito conto che quello era Mūsan e che la donna al suo fianco, con indosso un abito di seta munito di una cintura decorativa che le pendeva all’altezza del sedere, doveva essere sua madre Marie. Me ne accorsi sia in virtù del suo aspetto, sia per via del portamento, caratterizzato da continui e piccoli scatti, impercettibili movimenti che la madre di un ragazzo disabile è costretta a fare a sostegno del figlio, specialmente in luoghi affollati, anche quando in apparenza sembra stare ferma e tranquilla. In un posto come quello, così pieno di gente, ero più che mai certo che quella donna era la Marie di cui mia moglie mi aveva parlato spesso.

Mi sorrise senza guardarmi direttamente negli occhi, dandomi l’idea che non le sarebbe affatto dispiaciuto se per caso l’avessi ignorata, e si lasciò trascinare avanti dal moto della folla, evitando di fermarsi e porsi il problema di salutarmi. Affidandosi a sua madre, che lo tirava a sé tenendolo per mano, Mūsan si voltò indietro e rimase a lungo a fissare mio figlio, malgrado la sua vista, al pari di quella di Hikari, fosse limitata al punto da poter essere corretta solo parzialmente pur con l’uso di lenti prismatiche speciali.

Il concerto si teneva in una cattedrale sulla collina di Ichigaya. Dopo aver lasciato i cappotti su uno dei banchi nelle prime file, all’estrema sinistra del corridoio centrale – lo spazio tra una fila di posti e l’altra era inferiore rispetto a una normale sala da concerti –, mio figlio e io uscimmo fuori sotto la fitta pioggerella che nel frattempo aveva preso a cadere. Le toilette erano ubicate a una certa distanza, perciò dovemmo camminare per diversi metri nell’oscurità più assoluta. Al ritorno, Marie e Mūsan, evidentemente recatisi anche loro al bagno, erano seduti giusto davanti a noi. I genitori di figli disabili prestano molta attenzione nello scegliere i posti in prossimità di un’uscita, sapendo bene che la necessità di dovere andare al bagno durante il concerto è tutt’altro che rara, o anche nell’ipotesi che possa capitare qualcosa di imprevisto. Le spalle della giacca blu navy di Mūsan, che si confaceva molto al suo collo pingue e bianco, erano cosparse di minute gocce di pioggia. La testa di Marie, ben dritta e ferma dinanzi a me, con la sua esile nuca punteggiata da qualche neo, e i lobi delle orecchie perfetti e simili a cera indurita, mi facevano sentire colpevole di stare là dietro a osservarla.

Verso la fine della prima parte della lunga Passione di San Giovanni, Hikari e Mūsan sembravano parecchio spazientiti. Non appena l’intervallo ebbe inizio, mi sporsi in avanti e chiesi a Mūsan se aveva bisogno di venire al bagno con noi – serviva la forza di un uomo per farsi largo tra la folla e raggiungere le piccole toilette della cattedrale sotto la pioggia e al buio, a maggior ragione se si aveva al seguito un ragazzo portatore di handicap. Marie, nel suo abito dall’ampio scollo, si voltò – possedeva un’eleganza sopraffina e un sorriso schietto e solare per nulla inferiori a quelli del soprano solista – e, pur non avendomi minimamente rivolto la parola, incoraggiò il figlio a seguirmi con una naturalezza incredibile, quasi che fossimo una sola famiglia. Entusiasta nel vedersi in un certo senso affidare un compagno di scuola più piccolo, Hikari prese a muoversi con un’agilità di gran lunga superiore a quella mostrata in precedenza, e Mūsan lo seguì con altrettanta gioia e solerzia.

Gran parte del pubblico presente quel giorno alla cattedrale era evidentemente coinvolta in attività di volontariato a favore della chiesa cristiana ed era pertanto estremamente sensibile alle problematiche delle persone disabili, per cui alla fine il nostro viaggio alle toilette si rivelò molto meno arduo del previsto. Quando riportai Mūsan a Marie, lei mi ringraziò con un cenno del capo e abbozzando un sorriso. Poco dopo si girò di nuovo indietro e, con il suo fazzoletto delicatamente profumato, che sfiorò il programma del concerto che ero intento a leggere, mi asciugò con garbo e senza esitazione i capelli umidi di pioggia. Probabilmente compì quel gesto allo stesso modo in cui si era appena prodigata in favore di suo figlio. Difatti, subito dopo, si volse verso Hikari, al che presi il fazzoletto dalle sue mani producendomi in un’espressione colma di riconoscenza. Ma prima che avessi modo di ringraziarla a viva voce, la musica ricominciò. E alla fine, non appena la seconda parte del concerto fu giunta al termine, ci avviammo rapidamente verso l’uscita senza dirci nulla, impazienti di riportare al più presto i nostri figli a casa, esistendo il pericolo che potessero avere una crisi se tenuti svegli fino a tarda ora. In ogni caso, fu così che ebbi modo di conoscere di persona Kuraki Marie.

Non ci fu tra noi una regolare conversazione fino a un mese dopo. Nella mia veste di padre di un figlio disabile, nonché di scrittore, il preside della scuola di Hikari mi chiese un intervento nel corso di un incontro dedicato all’educazione dei bambini portatori di handicap. Mia moglie invitò anche Marie. Da noi c’era mia suocera, venuta a Tokyo a trovarci, e per fortuna potemmo affidare a lei i ragazzi.

Appresi direttamente dalla voce di Marie, a bordo del taxi che prendemmo tutti insieme per dirigerci al luogo della conferenza, che era divorziata e aveva due figli. Lei viveva con Mūsan e si occupava di lui, mentre l’altro figlio, Michio, più piccolo e iscritto a una prestigiosa scuola elementare privata, stava con il padre. Grazie alla presenza di sua madre in casa, la quale provvedeva a Mūsan durante il giorno, Marie riusciva a insegnare in un’università femminile a Yokohama. Tuttavia, di recente, l’anziana donna aveva cominciato a dare chiari segni di senilità, e ciò la preoccupava non poco, come suggeriva l’espressione triste nei suoi occhi, in ombra sotto le folte e lunghe ciglia, malgrado fosse riuscita a mantenere inalterato il suo sorriso tranquillo. Mia moglie, è ovvio, doveva essere già al corrente di tutto questo. Perciò era evidente che Marie lo stesse ripetendo a mio esclusivo vantaggio, come a volersi presentare.

Dopo la mia conferenza, andammo in un caffè nei pressi della stazione ferroviaria più vicina al centro ricreativo municipale del distretto di Kōtō, sede del meeting. Il locale era diviso in due: una parte con un bancone dove era possibile acquistare pane, tramezzini e cose del genere, e una zona con dei tavolini dove servivano tè, caffè e altre bevande, separata dalla prima da un leggero dislivello del pavimento e da una serie di piante in vaso. In pratica l’area rialzata in cui prendemmo posto era un ampio spazio aperto, per la verità non molto intimo. Subito dopo aver parlato dinanzi a una folta platea, il mio stato emotivo era ancora alterato, nel senso che ero piuttosto disinibito e su di giri, e mi costava non poca fatica, mentre eravamo lì a chiacchierare in quel caffè, ridimensionare le mie emozioni e ricacciarle a forza dentro di me. A farla breve, mi lanciavo in discorsi infervorati, alzando oltremodo la voce, e poi, d’un tratto, abbassavo il tono e mi zittivo.

Le labbra di Marie erano ben evidenziate da un rossetto di un rosso intenso. Durante una delle mie fasi di silenzio, lei fece la seguente affermazione in merito all’argomento di cui stavamo disquisendo, con quella sua bocca rosso fuoco a spiccare più che mai: «Ultimamente le mie studentesse si presentano in aula con quaderni e articoli da cancelleria un po’ rétro, dedicati soprattutto a personaggi come Betty Boop. In effetti pare che abbiano cominciato a chiamarmi proprio “Betty”, a mo’ di nomignolo. Sono sicura che nessuna di loro ha mai visto un cartone animato di Betty Boop... e nemmeno io, se è per questo».

Nel sentirglielo dire – pronunciò quelle parole in tono scherzoso, per occultare un certo imbarazzo –, pensai subito che le sue labbra avevano davvero un che di Betty Boop, cosa che del resto veniva messa in risalto dai ciuffi sbarazzini, che le scendevano sulla fronte molto aggraziata, e dagli occhi che tutt’a un tratto, dopo essere rimasti a lungo in ombra, avevano preso a sfolgorare a più non posso.

«È ovvio che per le tue studentesse un personaggio come Betty Boop possegga un fascino rétro», intervenne mia moglie. «Ma io, diversamente da te, Marie, sono più o meno una contemporanea di Betty Boop. E poi mio padre lavorava nel cinema, perciò ho avuto la possibilità di vedere alcuni cartoni animati di Betty Boop durante la guerra. Questo dimostra che c’è una certa differenza di età tra noi due.»

«Io invece sono nato e cresciuto in una piccola valle circondata dalla foresta», dissi, «e sono stato per la prima volta in un vero cinema dopo la guerra, nella cittadina vicina. Conoscevo Betty Boop solo grazie alle strisce a fumetti pubblicate in vecchie riviste. Questa è la mia unica esperienza come suo contemporaneo...»

«Vuoi dire che non avevi mai visto un film prima di allora, durante la guerra?» mi chiese mia moglie. «Nel tuo villaggio non c’era nemmeno uno di quei cinema improvvisati, in qualche spazio comune? Scusami, eh, se ti faccio una domanda del genere, al livello delle studentesse di Marie...»

«A volte proiettavano dei film educativi in una sala al primo piano della cooperativa agricola.» Non appena pronunciai quella risposta, Marie e mia moglie risero di gusto, come se facessero parte della stessa generazione, ben diversa dalla mia. «Ricordo che ci sedevamo su stuoie di paglia, con gli insetti che si arrampicavano fin sopra le nostre ginocchia – dovevano essere delle calandre del mais, una specie di coleotteri.»

Intanto, da qualche minuto, avevo notato tre giovani donne in piedi al confine tra la panetteria e la zona caffè, ognuna con in mano un sacchetto di carta col pane. La mia conferenza si era tenuta al mattino, mentre nel pomeriggio era in programma una serie di relazioni di insegnanti e addetti all’educazione e all’istruzione dei ragazzi disabili. I partecipanti si trovavano più o meno tutti nei dintorni per un pranzo veloce, in attesa della sessione pomeridiana. Le tre donne in questione possedevano un fisico decisamente solido, con il baricentro basso e gambe forti, fasciate da blue jeans scoloriti che avevano tutta l’aria di essere la loro uniforme, come se quello fosse il loro unico modo di vestirsi, valido tanto per tutti i giorni quanto per le occasioni speciali. A un certo punto si scambiarono un cenno d’intesa e puntarono dritte verso di noi.

«Ci scusi, potremmo chiederle un attimo una cosa?» mi domandò una di loro, chinandosi al pari delle altre due. Stavano lì fianco a fianco, accanto al nostro tavolino, le loro spalle robuste quasi a toccarsi. Poiché non c’era assolutamente spazio per invitarle a sedersi con noi, mi alzai in piedi per ascoltare ciò che avevano da dire.

Stavano partecipando al meeting in qualità di insegnanti di una scuola per disabili di Tokyo. Negli ultimi due o tre anni – con ogni probabilità da quando quelle tre giovani donne avevano cominciato a lavorare – il consueto viaggio annuale per gli studenti delle superiori si era svolto nel Kansai e nel Kyūshū, inclusa una visita al Museo della Bomba Atomica di Hiroshima. Mi dissero che la visita al museo costituiva un’esperienza molto importante sia per gli studenti sia per gli insegnanti che li accompagnavano. Tuttavia, nel programma dell’anno in corso, la giornata dedicata al Museo della Bomba Atomica era stata sostituita da una gita a Miyajima. Il preside e il suo vice avevano riferito che il cambiamento era dovuto a una precisa richiesta della maggioranza dei genitori degli studenti dell’ultimo anno, per cui non avevano potuto avanzare alcuna obiezione. Ma più che andare a vedere i cervi a Miyajima, le tre giovani ed energiche professoresse erano fermamente intenzionate a condurre gli allievi al Museo della Bomba Atomica e a mostrare loro gli oggetti appartenuti ai bambini morti carbonizzati in seguito alla prima catastrofe nucleare della storia dell’umanità. Stando al loro racconto, i ragazzi che avevano avuto occasione di visitare il museo erano stati profondamente cambiati da quell’esperienza.

Tanto l’insegnante eletta con ogni evidenza a portavoce quanto le sue due silenziose colleghe erano ben attrezzate per essere responsabili di una classe di studenti disabili, sia dal punto di vista mentale sia da quello fisico, ed era chiaro che stavano facendo del loro meglio per sfruttare al massimo le proprie capacità. Rimasi particolarmente impressionato dalla portavoce, il cui volto mostrava una determinazione tale da evocare una forza combattiva d’altri tempi. La pelle delle braccia e quella che la scollatura della camicetta semplice e a maniche corte lasciava scoperta era secca e ruvida a causa dell’eccessiva esposizione al sole, rivelando segni di lavoro fisico che poco si addicevano a una ragazza della sua età. Lei e le sue colleghe, col sedere e le cosce che riempivano i blue jeans fino al limite, trasmettevano un senso di voluminosità estrema, di enormità, eppure mia moglie e Marie, piuttosto che esserne infastidite, sembravano incantate. Riuscivo a percepirlo chiaramente, pur se me ne stavo là in piedi, intento ad ascoltare e chinando di tanto in tanto lo sguardo verso loro due. Mia moglie appariva sopraffatta dalla forza vitale di quelle tre donne, di gran lunga più giovani di lei; mentre Marie, che in quanto a forza di carattere e combattività non era da meno, sembrava riconoscere quel loro vigore speciale esibendo un tenue sorriso.

Durante il mio discorso pubblico, al mattino, avevo espresso la mia opinione come padre di un ragazzo portatore di handicap. Inoltre, in passato, ho scritto un libro sul bombardamento atomico di Hiroshima. Consapevoli che le due questioni mi stavano molto a cuore, le tre giovani insegnanti speravano di ottenere il mio sostegno a favore del loro tentativo di ripristinare la visita al Museo della Bomba Atomica. Ma la mia prima reazione fu di immaginare Hikari, vestito nei suoi abiti da viaggio, al cospetto degli oggetti esposti nel museo. Mi sembrò quasi di vedermelo davanti agli occhi, in stato di shock mentre ascoltava T., direttore del museo e mio vecchio amico, esposto in prima persona alle radiazioni atomiche, spiegare accuratamente quante migliaia di persone avevano perso la vita e quante continuavano a vivere nell’agonia più totale.

«In tutta onestà», riuscii a rispondere alla fine, «credo dobbiate rispettare la volontà della maggioranza dei genitori dei vostri studenti, cercando in qualche modo di tenere in considerazione anche l’opinione della minoranza.»

Manifestando apertamente la loro delusione, le tre donne si guardarono negli occhi, come per cercare un’intesa e compiere un ulteriore tentativo. A quel punto intervenne Marie, sopprimendo ogni traccia di sorriso dal suo viso radioso alla Betty Boop e rimpiazzandola con un’espressione turbata.

«Lei prima ha affermato che la visita al Museo della Bomba Atomica», disse, «ha cambiato profondamente i vostri studenti, ma io mi chiedo in che modo. Trattandosi di ragazzi in grado di viaggiare, è chiaro che sono dotati di discrete facoltà intellettive. Suppongo non si riferisse all’orrore provato nel vedere certe cose e alla reazione degli studenti, rimasti con ogni probabilità impietriti e dunque più facilmente controllabili, no? Mio figlio va nel panico al solo pensiero della morte, per cui sono sicura che una visita al museo di Hiroshima rischierebbe di farlo precipitare in uno stato di depressione assoluta. Questo significherebbe cambiarlo? Come madre, le assicuro che mi preoccuperei prima di tutto dello shock che la vista di certi oggetti e di certe immagini potrebbe provocare in mio figlio... uno shock dal quale un ragazzo ipersensibile rischierebbe di non riprendersi mai più, rimanendo segnato a vita.»

Ascoltando questo commento, in particolare l’ultima parte, che di certo Marie era riuscita a estrinsecare dal suo profondo, con viva emozione, mia moglie annuì più volte col capo, forse immaginando anche lei Hikari a Hiroshima. L’estate in cui il nostro primogenito venne alla luce con una grave malformazione al cranio, prima che ci comunicassero in via definitiva se fosse operabile o meno – i medici non si erano ancora espressi sulle probabilità di sopravvivenza, e io non ero affatto pronto a prendere una decisione –, spiegai pacatamente la situazione a mia moglie, da poco tornata a casa dall’ospedale, e partii alla volta di Hiroshima. Mi avevano chiesto di scrivere un reportage su una conferenza internazionale riguardante l’abolizione degli armamenti nucleari, conferenza che degenerò in un vero putiferio. In quell’occasione mi recai in visita all’Ospedale della Bomba Atomica. E, dai medici e dai pazienti che ebbi modo di incontrare, ottenni quel tipo di straordinario incoraggiamento che solo le persone sopravvissute a un’immane tragedia sono in grado di offrire. Allora riuscii ad accettare sotto una nuova luce positiva il bambino appena nato. Ed ecco che, diversi anni dopo, mi trovavo lì a osservare mia moglie seduta a quel tavolino, mentre si chiedeva se e come Hikari si sarebbe ripreso dopo essere «precipitato in uno stato di depressione assoluta»...

«Se ci tiene a sapere in che modo Hiroshima ha cambiato i nostri studenti, possiamo mostrarle i temi che hanno scritto dopo la visita al museo.»

«Sì, molto volentieri, anche perché sarebbe inutile fare supposizioni senza averli letti. Però mi permetta di dire che anche un ragazzino normale tornerebbe trasformato dopo aver visitato un posto del genere. E credo che questa sia una cosa tutt’altro che di poco conto.»

«Certo, è così. Ma noi crediamo che l’essere disabili renda i ragazzi molto più sensibili verso le cose importanti.»

«È bello sapere che esistono insegnanti che la pensano in questo modo. Se non ho capito male, a Hiroshima, i ragazzi sono seguiti costantemente da persone come voi, preparate e pronte a guidare le loro reazioni in una certa direzione, giusto?»

«Però, senza constatare noi stessi e in concreto come i ragazzi vengono trasformati», intervenni, «non credo sia possibile azzardare nulla di preciso. Mi pare di capire che in fondo lei, Marie, non sia molto favorevole a mostrare in maniera troppo diretta gli effetti della bomba atomica ai bambini in generale e ai ragazzi disabili, o sbaglio?»

«Molte madri la pensano così», disse l’insegnante, senza dare a Marie il tempo di rispondermi, «ma noi vorremmo che cominciassero a vedere le cose in maniera differente.»

«Ma io non la penso affatto come le tante madri di cui parla lei», replicò Marie. «Una scrittrice americana che amo fin da quando ero una studentessa e che cito spesso durante le mie lezioni, adesso che insegno all’università, dice che tutto ciò che è accaduto nel mondo dopo il bombardamento atomico di Hiroshima ha a che fare con esso, e io sono assolutamente d’accordo. Per esempio sono convinta che mio figlio sia nato con dei problemi perché è venuto al mondo dopo la tragedia di Hiroshima... Scusatemi, mi sono lasciata prendere troppo dal discorso, ho esagerato.»

«No, no, nient’affatto. Noi la pensiamo esattamente così. Ed è per questo che desideriamo mostrare ai ragazzi ciò che è accaduto a Hiroshima.»

«Sì, però non credete che ci siano molte cose atroci, sgradevoli e tragiche già nelle scuole e nelle case di quei ragazzi? E non sono forse quelle le cose che i giovani insegnanti come voi, per non parlare degli stessi ragazzi, devono fronteggiare giorno per giorno? Una volta che abbiamo accettato il fatto che questo mondo del post Hiroshima è la nostra realtà, non ci resta altro da fare che rialzarci e andare avanti, con tutte le nostre forze. Va bene portare i ragazzi disabili al Museo della Bomba Atomica, è fondamentale conoscere la tragedia di Hiroshima. E se in qualche modo si riuscisse a mettere in relazione quella tragedia e ciò che succede a scuola e nelle loro case – non come semplice idea preconfezionata e smussata a dovere prima di essere svelata, bensì a livello di esperienza diretta e quotidiana –, allora credo proprio che si potrebbe ottenere qualcosa di importante. Ma se continuerete a sentirvi soddisfatte e appagate nell’individuare una traccia di quell’idea da voi trasmessa ai vostri allievi nei temi scritti dopo la visita a Hiroshima, allora devo dire che i vostri sforzi seguiteranno a essere piuttosto inutili, soprattutto se penso a mio figlio, come madre.»

Le tre donne sembravano aver smarrito la volontà di continuare a discutere con Marie, nonché di parlare con me, ancora là in piedi in totale silenzio. Le loro facce abbronzate, che d’un tratto sembravano più gonfie e grassocce di prima, avevano assunto un rossore che affiorava di prepotenza in superficie. Si inchinarono simultaneamente e si avviarono verso l’uscita, attraverso l’angusto passaggio che dava nella zona panetteria, il loro grosso sedere fasciato stretto nei blue jeans che ondeggiava ritmicamente sopra le cosce simili a possenti colonne.

«Che splendide insegnanti», commentò mia moglie sospirando, mentre le seguiva con lo sguardo. «Non solo lavorano sodo, ogni giorno, ma si danno anche tanto da fare nella speranza di migliorare la vita dei loro giovani allievi.»

Mia moglie aveva pienamente ragione, come darle torto?

«Certo, puoi dirlo forte. Quelle ragazze rispecchiano esattamente il tipo di insegnante che vorrei per Mūsan», aggiunse Marie, guardandole andar via con gli occhi spalancati alla Betty Boop, mostrando un certo rammarico e facendomi sentire un po’ in colpa per non aver fatto nulla di particolare per aiutarle.

Fu da quel giorno che si stabilì una certa intesa, per non dire un’amicizia, tra me e Marie, che in seguito venne al parco di Sukiyabashi in occasione dello sciopero della fame al preciso scopo di assistermi personalmente, e non tanto perché nutrisse uno specifico interesse per questioni relative alla politica o ai diritti umani. Lei e i suoi tre giovani aiutanti non si unirono agli attivisti nella raccolta delle firme e dei fondi, effettuata come di consueto urlando slogan e con una tavoletta da disegno appesa al collo sulla quale erano fissati i fogli da firmare, ma svolsero molti altri lavori utili, tipo fare le pulizie o ritirare le scarpe dei visitatori all’ingresso della tenda, situato sul fronte strada, e risistemarle ordinatamente nello spazio retrostante, di modo che non ingombrassero il passaggio e fosse facile riprenderne possesso.

Una volta, di ritorno dalla pausa pranzo, Marie si prodigò in un’azione davvero apprezzabile. Entrò nella tenda e venne subito al mio fianco, il che era già di per sé un fatto insolito, stringendo in mano un thermos e una pila di bicchieri di polistirolo. Afferrò un bicchiere, vi versò parte del contenuto del thermos e me lo porse. Ne presi un sorso pensando fosse tè freddo, ma in realtà si trattava di una bevanda a base di miele e limone, arricchita da una miscela piuttosto complessa di vari aromi: era densa, quasi come uno sciroppo, e probabilmente anche molto più nutriente di un comune alimento solido! A dire il vero, in quell’occasione, non era stato fissato un regolamento ferreo, ma mi ero unito allo sciopero determinato a fare uso esclusivo di acqua, limitandomi al minimo indispensabile, per cui ero in dubbio se continuare a bere quell’intruglio. Senonché S., al mio fianco, esperto di storia delle occupazioni militari e uomo dotato di gran senso pratico grazie agli anni trascorsi come studente negli Stati Uniti, mi sollevò dall’imbarazzo appropriandosi del bicchiere appoggiato davanti alle mie ginocchia e bevendone il contenuto tutto d’un fiato, con il suo pomo d’Adamo che faceva su e giù mentre ingurgitava la bevanda. Dopo di che ne decantò con vivo entusiasmo la bontà, facendo sì che il thermos e la pila di bicchieri, la cui altezza diminuiva a vista d’occhio, compissero il giro completo della tenda, passando rapidamente di mano in mano.

Quello stesso giorno, all’imbrunire, Marie venne una seconda volta, chinandosi all’ingresso della tenda, piuttosto basso, e inoltrandosi all’interno per recuperare il thermos. Sorrideva allegramente, come sempre, mostrando il suo mento appena un po’ squadrato. Fuori, in piedi nello spazio che riuscivo a intravedere dal posto in cui stavo seduto, c’era una donna anziana dalla corporatura imponente che le assomigliava parecchio. Mi sorrideva placidamente, in segno di saluto, e teneva per mano Mūsan, altrettanto sereno e tranquillo. Ora che aveva terminato la sua giornata di lavoro, Marie si era riunita con sua madre e suo figlio e insieme si preparavano ad andare da qualche parte, forse a un concerto di musica classica. La calma assoluta che regnava sul viso del ragazzo e il contegno estremamente garbato della sua anziana nonna, combinati con la generosità che Marie aveva palesato nei nostri confronti fin dall’inizio, sembrò trasformare quello sciopero della fame in qualcosa di molto raffinato e composto, il che mi diede una nuova dose di coraggio e piacere.

Nel corso dell’ultima notte di sciopero, ci fu un violento temporale. A un certo punto ci accorgemmo che il tetto della tenda, appesantito dall’acqua e dal quale pendeva un’unica lampadina, si faceva via via più basso, ma le nostre facoltà mentali erano così annebbiate dalla carenza di sonno (più che dalla fame) che nessuno, malgrado la consapevolezza del rischio che stavamo correndo, si prese la briga di uscire fuori a dare un’occhiata. Quella stessa notte, quando mi alzai per scambiare due parole con S., appena tornato dalla sede di un giornale dopo aver scritto un articolo, persi inaspettatamente il mio posto per dormire, in quanto vi si distese lui stesso mentre ero al bagno. Dopo qualche minuto, vedendomi in piedi, Ko, un poeta coreano residente in Giappone, ebbe pietà di me e mi lasciò un po’ di spazio al suo fianco. Giusto in quel momento, una parte del tetto si gonfiò di colpo verso il basso, simile a una strana protuberanza sulla superficie di un palloncino. Era evidente che ci fossero dei problemi, eppure tutti continuarono a starsene fermi, sopraffatti dal tambureggiare della pioggia battente. Subito dopo, tre giovani uomini avvolti in impermeabili di plastica entrarono nella tenda con molta cautela. Attenti a non fare danni, spinsero pian piano verso un lato l’enorme sacca creatasi nel tetto, facendo ricadere all’esterno l’acqua accumulatasi. Poi puntellarono accuratamente quella parte del tetto, scongiurando il pericolo che l’acqua piovana potesse riammassarsi nello stesso posto. L’indomani mattina, quando provai a chiedere al leader dei giovani attivisti notizie sul conto di quei tre ragazzi, i quali erano rimasti con ogni probabilità lì tutta la notte per controllare che non si verificassero altri inconvenienti, lui mi disse: «Sono venuti con quella professoressa dell’università femminile, ma adesso se ne sono andati. Non mi sembravano molto interessati a unirsi stabilmente al movimento, però posso assicurarle che stanotte hanno lavorato sodo».

Nel pomeriggio, i tre giorni di sciopero della fame giunsero al termine e ci radunammo tutti nei pressi della tenda in via di rimozione, per discutere come affrontare l’imminente conferenza stampa. Marie si insinuò di colpo al mio fianco, come se fosse sbucata fuori dal nulla. Mi riferì che stava per andare alla sua casa di villeggiatura a Izukōgen, dove si sarebbe fermata per un paio di notti, in compagnia di Mūsan e di quei tre giovani. Non essendoci posto per parcheggiare, gli altri stavano facendo il giro dell’isolato in macchina e lei era venuta a consegnarmi l’occorrente per radermi. Mi disse che avevo un aspetto trasandato, se non addirittura impresentabile, fin dalla sera precedente. A ogni modo, alla conferenza stampa – le cui immagini furono trasmesse quella sera stessa nel corso dei telegiornali –, pulito e rasato in mezzo ai miei compagni stravolti dalla fatica e con la barba lunga, ero l’unico ad apparire rinvigorito e decisamente fuori posto.

«Davi l’idea di uno che durante lo sciopero della fame se l’era svignata, nascondendosi chissà dove, per poi riapparire astutamente alla conferenza stampa!» commentò più tardi mia moglie, ridendo. «Marie è fatta così, evidentemente pensa che se un gruppo di persone si riunisce per fare qualcosa occorre sfruttare l’occasione per trascorrere dei bei momenti insieme. Anche nel caso di uno sciopero della fame, nulla vieta di ripulirsi e rimettersi in sesto una volta che si è giunti alla fine.»

Il veicolo che apparve alla nostra vista dopo aver vagato per un po’ per le vie di Ginza era una specie di jeep. I giovani uomini al suo interno, di colpo tramutatisi da seri volontari in ragazzi normali e spensierati come mille altri, sembravano pronti a partecipare a una grande festa, possibilmente in riva al mare e con tanto di sport acquatici. Gli altri volontari, occupati a smontare la tenda e ancora uniti nel proposito di diffondere un certo messaggio politico in favore dei diritti umani, avevano tutti la medesima espressione stremata e un aspetto sciatto e trascurato, al pari di noialtri. Marie si diresse in fretta verso la jeep, con i tacchi alti che picchiettavano sull’asfalto, senza degnare di sguardi particolarmente solidali le persone ancora impegnate a lavorare. E prima che la macchina sparisse dalla mia vista, riuscii a cogliere appena in tempo, di sfuggita, il sorriso raggiante di Mūsan, seduto sul sedile posteriore accanto al finestrino.

2.

C’era qualcosa di estremamente suggestivo in una donna sulla trentina, bella, divorziata, impegnata nel lavoro e amante della vita malgrado un figlio disabile e un’anziana madre ai quali badare (in realtà, era proprio l’anziana madre a rendere possibile il suo stile di vita). Faceva venire subito alla mente l’espressione: “una vedova allegra”. Intanto era sopraggiunto il periodo degli eventi e delle manifestazioni scolastiche, e mia moglie, che aveva accumulato stanchezza giorno dopo giorno, sembrava trascinarsi a fatica quando uscì di casa per andare alla scuola di nostro figlio e prestare aiuto nei preparativi in vista dell’imminente vendita di beneficenza organizzata dall’associazione delle madri. Nel vederla allontanarsi mi venne spontaneo pensare che forse, influenzata dallo stile di vita di Marie, sarebbe riuscita a trascorrere almeno mezza giornata spensieratamente. Pur se l’idea molto speciale che la sua amica aveva delle cose del mondo e il modo altrettanto speciale di esprimere le sue opinioni, come dimostrato nel corso del nostro fortuito incontro con le tre giovani insegnanti in quel caffè con panetteria annessa, erano piuttosto contrastanti rispetto a quelli delle altre madri.

Un giorno, poco prima della vendita di beneficenza, con mia moglie occupata quasi tutto il giorno a scuola, andai io a prendere Hikari e, davanti al cancello d’ingresso, scambiai un cenno di saluto con la madre di Marie, lì in attesa di Mūsan. A conferma della mia prima impressione al parco di Sukiyabashi, aveva un aspetto tutt’altro che senile e sembrava una donna molto intelligente, assennata, abituata a far lavorare la mente sulle questioni serie. Aveva però un brutto colorito, tanto da farmi venire il sospetto che fosse malata.

Mia moglie rincasò molto tardi, visibilmente esausta e di pessimo umore. Piuttosto che trascinarsi in camera da letto e struccarsi, preferì prima di tutto sedersi al tavolo della cucina e sfogarsi rivelandomi ciò che era successo a scuola. Non appena le ebbi portato una tazza di tè, cominciò a raccontarmi che era scoppiata un’accesa discussione riguardo a una certa affermazione di Marie e che lei, nonostante concordasse con il «gruppo anti Marie», aveva scelto di starsene zitta per non lasciarla completamente sola. Sottolineò che non era stato per nulla facile rimanersene in silenzio per tutto il tempo, sopprimendo ciò che avrebbe voluto dire all’amica, la quale era riuscita a mantenere inalterato il suo consueto sorriso radioso e appariscente, rifiutando di cedere anche di una sola virgola, da vera testarda.

Qualche tempo prima, una ragazzina delle medie, Sanae, era morta improvvisamente. Affetta dalla sindrome di Down e da una disfunzione cardiaca, Sanae era una fanciulla deliziosa, scelta puntualmente per il ruolo della principessa o della regina in tutte le recite scolastiche, dove non deludeva mai né gli insegnanti e i compagni di classe né i genitori venuti ad assistere. Non ho mai avuto occasione di parlarle, ma la sua dolcezza e la sua straordinaria bontà d’animo si trasmettevano come per contagio, in via del tutto naturale, persino a noi che ci limitavamo ad ammirarla da lontano. Quando il suo cuore aveva smesso di battere, tutti quelli che la conoscevano avevano pianto fiumi di lacrime. Poi, dopo un po’, una delle sue insegnanti aveva proposto di fare un libro per ricordarla, includendo sue fotografie durante le recite e le gite, insieme a una serie di brani scritti dai compagni di classe, dagli insegnanti e dai genitori che avevano avuto modo di conoscerla. C’erano anche alcune composizioni della stessa Sanae e alcuni stralci del suo diario, e il giornalista che si stava impegnando nella ricerca di un editore, il quale aveva scritto un articolo sulla morte della bambina, aveva assicurato che il libro aveva tutte le carte in regola per essere lanciato con successo sul mercato.

Si trattava di un progetto accolto da tutti con grande entusiasmo, da tutti fuorché da Marie. Mia moglie mi disse che la sua opposizione si era dimostrata così tenace e ostinata che alla fine le insegnanti, già al lavoro da tempo sull’iniziativa, non avevano retto e si erano messe addirittura a piangere. Sforzandosi di sopprimere i suoi sentimenti avversi e rimanere il più neutrale possibile, andò avanti riferendomi per filo e per segno il contenuto della disputa avvenuta quel pomeriggio a scuola.

«Anch’io volevo bene a Sanae», aveva affermato a un certo punto Marie, «era una bambina molto dolce e gentile. Si era affezionata a me, così come a tutte le persone che le stavano intorno. Al funerale una delle insegnanti, sorella T., si è chiesta perché una così splendida bambina, fonte inesauribile di conforto e coraggio non solo per i suoi compagni di classe e i membri della sua famiglia, ma anche per gli stessi insegnanti, abbia dovuto lasciarci tanto presto. “Dobbiamo cercare di comprendere perché Dio ha permesso una cosa del genere”, ha detto precisamente. Al che tutti i presenti hanno annuito con piena convinzione, commossi. Se la morte di Sanae è stata frutto della volontà di Dio, allora mi sembra evidente che quello stesso Dio doveva aver deciso che una bambina così unica e adorabile soffrisse della sindrome di Down. E allora, vi domando, perché non ci siamo già poste in precedenza quello stesso interrogativo? Come mai, quando abbiamo conosciuto per la prima volta Sanae, non ci siamo chieste: “Perché Dio ha permesso una cosa del genere?”. Tutte noi viviamo a stretto contatto con bambini e ragazzi disabili. Ognuna di noi riceve una forza speciale da quel particolare tipo di bellezza, di incanto e di bontà che i nostri figli posseggono. Eppure ciascuno di loro è allo stesso tempo gravato da quella inevitabile bruttezza che deriva dall’essere portatori di handicap. E non ditemi che di tanto in tanto non notate qualcosa di anomalo e distorto anche nei loro cuori, qualcosa che sembra combaciare con la loro deformità fisica. La bruttezza esteriore, la mancanza di grazia, è qualcosa che non può sfuggirci: la percepiamo chiaramente nel modo in cui gli altri osservano i nostri figli quando li accompagniamo a scuola, o ancor di più quando percorrono in gruppo il tratto di strada fino alla fermata dell’autobus. Gli sguardi della gente sono come uno specchio, un crudele specchio rivelatore. L’anormalità interiore, invece, possiamo percepirla solo noi, vivendo tutti i giorni al loro fianco. Ora, se dobbiamo fare un libro per mostrare a tutti la verità sui ragazzi disabili, credo sia assolutamente necessario concentrarsi sul secondo tipo di bruttezza, ovvero su quelle anomalie e quelle distorsioni insite nel cuore dei nostri figli, altrimenti sarà solo fatica sprecata. Dobbiamo impegnarci a fondo perché la società accetti la verità nella sua interezza, dobbiamo svelare a tutti il lato interiore dei nostri ragazzi, solo così quel libro potrà avere un senso...»

«Di solito, il modo di parlare rude e schietto di Marie è molto convincente», continuò mia moglie, «ma oggi mi ha irritato, e non poco. Dopo averci ridotte al silenzio, non contenta, ha assunto un atteggiamento ancor più insolente. Era come se volesse provocarci, sfidarci. Poi ha detto: “Sanae era incantevole, dolcissima, aveva persino il senso dell’umorismo anche se era solo una bambina, e perciò tutte noi l’abbiamo pianta e vogliamo commemorare la sua morte. Tuttavia l’idea alla base del vostro modo di agire mi fa rendere conto una volta di più che ciò che aveva detto una scrittrice americana, che amo molto e leggo fin dai tempi dell’università, è assolutamente giusto. Vedere i ragazzi disabili attraverso un velo di lacrime sentimentali, anziché affrontare la realtà faccia a faccia, in ogni suo aspetto, li riduce a dei graziosi e poveri idioti. Questo, alla fine, riconduce dritto ai campi di lavoro forzato, al fumo che si leva dalle camere a gas...”. Quando Marie ha finito di pronunciare queste parole, le altre donne si sono lasciate sfuggire un’esclamazione di vivo stupore, in preda allo shock. Erano così esterrefatte che alla fine stavano quasi per escluderla dal progetto.»

«Credo di aver capito chi è la scrittrice americana alla quale faceva riferimento», dissi. «Fu colpita da una malattia incurabile quando era ancora giovane, ma continuò a scrivere fino alla fine. Era una cattolica convinta, oltre che una persona dotata di una forza straordinaria. Però dubito che il suo modo di pensare possa fare presa qui in Giappone, e se Marie insisterà nel volerlo imporre così com’è, non incontrerà altro che resistenza, e non solo presso l’associazione delle madri di una scuola per ragazzi disabili. Per inciso, la scrittrice in questione sostiene che la gentilezza – tenderness è il termine inglese da lei usato – può generare cose terribili, se si finisce con l’allontanarsi dal suo significato originario. Quando sentiamo qualcuno parlare di “poveri e sfortunati ragazzi disabili”, riteniamo giustamente che si tratti di una persona gentile, di buon cuore. A volte, però, può accadere che tra queste persone gentili e di buon cuore ve ne possa essere qualcuna che si spinge oltre e decide di isolare quei poveri ragazzi dal resto della società, allo scopo di sottrarre quelle sfortunate creature agli sguardi curiosi della gente. E tutto questo rischia di condurre a un sistema in cui un atteggiamento del genere diventa la regola. Adesso, e soprattutto in futuro, a destare molte preoccupazioni è il fatto che le donne potrebbero essere spinte ad abortire nel caso in cui le indagini prenatali rivelino delle anomalie. Si tratta di una cosa che potrebbe essere, ahimè, molto gradita a quelle persone “particolarmente” gentili e di buon cuore. Credo che la scrittrice americana si riferisse proprio a questo nel parlare di “gentilezza separata dal suo significato originario”. E alla radice di quella pura gentilezza, secondo lei, c’è Dio. Un Dio che ha assunto le sembianze umane di Cristo, facendosi carne, persona, per redimere i peccati del mondo. Non essendo un credente, non posso dire di aver compreso questo concetto fino in fondo, ma forse è proprio per questo che ci ho riflettuto spesso e me ne ricordo molto bene.»

«Se Marie si fosse spiegata meglio, così come hai fatto tu adesso, forse sarebbe riuscita a convincerci. E invece eravamo tutte così arrabbiate... Non riuscivamo a capire cosa c’entrassero il libro su Sanae e la nostra compassione con le camere a gas! Adesso è tutto chiaro, finalmente ho capito...» Mia moglie fece una pausa, impegnata a meditare brevemente sull’accaduto. Dall’espressione soddisfatta emersa sul suo viso era facile evincere che aveva cancellato ogni forma di risentimento nei confronti dell’amica. Quindi aggiunse: «Ricordo che una volta Marie mi ha detto di non essere cristiana, né di nessun’altra religione, ma sono sicura che deve aver riflettuto parecchio sulla fede e su questioni simili».

Il successivo disastro abbattutosi su Marie fu di natura del tutto differente rispetto alla piccola querelle sorta in seno all’associazione delle madri della scuola di Hikari e Mūsan. Se lasciato libero di fare il suo corso, questo nuovo problema avrebbe rischiato seriamente di trasformarsi in uno scandalo da rotocalchi patinati. All’epoca, settimanali giapponesi come «Focus», dominati da fotografie corredate da articoli brevi e sterili, non esistevano ancora, altrimenti Marie sarebbe stata una loro potenziale preda, con le sue fattezze appariscenti e i modi raffinati, accompagnati dalla sua tipica determinazione nel combattere a difesa delle idee in cui credeva. Se le riviste di un certo tipo si fossero accanite contro di lei, professoressa di un’università femminile, avrebbe rischiato di dover rassegnare le dimissioni. In quel periodo feci del mio meglio per evitare che un’eventualità del genere potesse verificarsi, ripagandola per l’aiuto che mi aveva offerto in occasione dello sciopero della fame a Ginza.

Furono i tre giovani che le facevano da assistenti presso la tenda nel parco di Sukiyabashi a mettermi al corrente di ciò che stava accadendo. Uno di loro mi telefonò e disse che desiderava incontrarmi con una certa urgenza insieme ai suoi due compagni, al che proposi di vederci da me nel pomeriggio. Ma lui replicò che non si trattava di una cosa di cui discutere nel mio studio, e aggiunse che sarebbe stato persino peggio parlarne in salotto, poiché la mia famiglia avrebbe potuto ascoltare la conversazione facendomi sentire molto a disagio. Era molto cauto, poco disposto a sbilanciarsi e, chissà perché, sembrava volermi evitare qualsiasi difficoltà. Alla fine decidemmo che sarebbero venuti a prendermi a casa e mi avrebbero dato uno strappo con la loro jeep fino alla piscina che ero solito frequentare cinque o sei giorni alla settimana, in modo da poter parlare al sicuro durante il percorso.

Ci vedemmo davanti casa mia e partimmo subito alla volta della piscina. Presi posto sul sedile accanto a quello di guida, con Asao, che aveva fatto la telefonata, al volante e gli altri due dietro. Incapaci di nascondere il loro disgusto nei confronti di ciò che si presupponeva dovessero riferirmi, rimasero a lungo in silenzio, con un’espressione cupa e imbronciata sulle facce abbronzate. Essendo cresciuto in un’epoca in cui le auto private erano una vera rarità, non potei esimermi dal ribadire che apprezzavo molto la loro gentilezza nel concedermi quel passaggio. Come «quell’uomo che, sedutosi a tavola, prende a parlare subito dopo essersi lavato le mani», parafrasando un antico detto greco con il quale si intendeva esprimere disprezzo per le persone sfacciatamente adulatrici, cavai fuori un argomento dopo l’altro nel tentativo di instaurare una conversazione, ma finii col sentirmi tristemente sconfitto dal loro ostinato tacere.

Poi, finalmente, con ogni probabilità aiutato dall’essere alla guida e non dovermi guardare negli occhi, Asao cominciò a svelarmi il motivo per cui avevano voluto vedermi. Fu subito chiaro che erano furibondi a causa della volgarità estrema di un fatto accaduto di recente, e inoltre che riponevano in me la speranza di risolvere il problema che ne era scaturito.

A partire dal periodo dello sciopero della fame, i tre erano diventati un po’ come le guardie del corpo di Marie, e ogniqualvolta lei era libera organizzavano qualcosa insieme, a volte portando anche Mūsan, altre volte no. Spesso Marie li aveva invitati alla sua villa di Izukōgen, in precedenza appartenuta al defunto padre, proprietario dell’azienda di famiglia, e durante l’ultimo inverno erano andati a sciare tutti insieme tre o quattro volte, lei a fare loro da maestra, rivelando un ottimo stato di forma e un’indole da vera atleta.

C’era un coffee bar, a Harajuku, che Marie e il giovane terzetto usavano a mo’ di base (posti del genere avevano appena cominciato a fare la loro comparsa a Tokyo e non godevano ancora della popolarità che si sarebbero guadagnati in seguito). Un giorno, mentre si trovavano lì tutti e quattro, Marie aveva conosciuto un ingegnere del suono che lavorava per un’emittente televisiva. I due avevano preso a frequentarsi, da soli, senza le tre guardie del corpo. Ora, considerato che i tre giovani erano per l’appunto solo le sue guardie del corpo, del tutto esenti da un amore carnale, e che Marie era una donna adulta e vaccinata nonché divorziata, nessuno di loro aveva osato interferire nella faccenda. Tuttavia, abbastanza presto, lei aveva cominciato a evitare di proposito quell’uomo, al che Asao e compagni non avevano potuto fare a meno di ipotizzare che fosse accaduto qualcosa di irreparabile.

Ed è qui che si entra nel vivo della storia. Marie, caduta in un preoccupante stato di depressione, scoppiava sovente in lacrime e balbettava frasi del tipo: «Povera me, sono distrutta, non ce la faccio più!». Supponendo si trattasse di qualcosa che aveva a che fare con l’ingegnere del suono, Asao e gli altri le avevano chiesto di confidarsi con loro, al che lei non aveva esitato e aveva raccontato tutto per filo e per segno. Erano andati a letto insieme diverse volte, poi, quando Marie si era stufata e aveva smesso di rispondere ai suoi inviti, lui era andato su tutte le furie e aveva preso a ricattarla. Ricorrendo alle sue competenze professionali, il tizio aveva nascosto un microfono in camera da letto e aveva registrato tutto (nel corso della relazione, Marie era andata da lui una sola volta, e adesso, con il senno di poi, riconosceva di aver commesso una grave leggerezza). Dunque le aveva giurato che, se avesse insistito nel voler troncare il rapporto, avrebbe inviato una copia della registrazione al rettore dell’università dove lavorava e a un bel po’ di genitori delle sue allieve. Marie, una mattina, aveva trovato il nastro originale nella cassetta della posta di casa sua.

Detto così, in poche parole, la richiesta dei tre ragazzi nei miei confronti era: se conosci qualcuno di una certa importanza in quell’emittente televisiva, ci faresti il favore di pregarlo di parlare con l’ingegnere innamorato pazzo in modo da farlo desistere dal suo folle intento? Questo sempre che – cosa per nulla scontata, al giorno d’oggi – si trattasse di una persona in possesso dei valori di appartenenza e lealtà all’azienda, nonché disposta ad ascoltare i suggerimenti di un collega più anziano.

A ogni modo, promisi loro che avrei fatto il possibile e che ne avrei parlato direttamente con Marie. Le avrei proposto di vederci l’indomani, grossomodo alla stessa ora, presso la reception del club sportivo dove ci stavamo dirigendo in quel preciso momento. Avremmo potuto fare due chiacchiere lì, nella sala riservata ai soci, in tutta calma.

Mentre pronunciavo quelle parole rassicuranti, l’espressione grave e arcigna che dominava i volti di Asao e dei suoi due compagni si sciolse in un sorriso. Con il morale risollevato, ridendo e scherzando come si conveniva a giovani studenti universitari della loro età, mi salutarono molto cordialmente e mi lasciarono davanti all’ingresso del club. Guardando la jeep amaranto allontanarsi in fretta, mi ritrovai ancora una volta a riflettere con ammirazione sul loro abbigliamento, modesto ma al contempo originale e uniforme. In passato, quando ero studente, molti di noi vestivano perlopiù a caso, passivamente, senza prestare particolare attenzione a ciò che indossavano. Invece, suppergiù a partire da quegli anni, i giovani avevano cominciato a scegliere i loro abiti con estrema cura, quasi che fossero interessati a imporre uno stile, più che il proprio sé interiore. Il fatto che un dettaglio del genere avesse colto la mia attenzione dimostrava quanto fossi poco al passo coi tempi, e in quel frangente mi resi anche conto che era un bel pezzo che non avevo uno scambio di idee, per non dire un minimo contatto, con le nuove generazioni.

Il giorno seguente, dopo essere uscito di casa con un entusiasmo tale da spingere mia moglie a prendermi in giro, raggiunsi il club sportivo abbastanza in anticipo rispetto all’ora concordata e, quando provai a guardarmi intorno, constatai che non c’era traccia di Marie tra le giovani madri che avevano accompagnato i figli in piscina o a lezione di danza. Mostrai il mio tesserino al banco della reception e chiesi all’addetto di avvertirmi nel caso una signora fosse venuta a cercarmi. Per inciso, l’addetto era uno studente di educazione fisica che lavorava lì part-time, un’autentica montagna di muscoli. Dal punto di vista intellettivo, però, non sembrava altrettanto ben dotato, dal momento che dava puntualmente risposte caratterizzate da una gentilezza fredda e meccanica. Stavolta, al contrario del solito, replicò assumendo una certa espressione, rivelatrice del fatto che Marie era arrivata e aveva ignorato le regole del club: «La signora che evidentemente sta aspettando è già qui, signore. La può trovare nella sala riservata ai soci del club».

La scorsi subito, da lontano, dopo aver finito di salire la rampa di scale che portava al piano superiore. Stava seduta comodamente, con lo sguardo alto e le gambe accavallate, l’orlo inferiore del suo abito intero, caratterizzato da un bel motivo di girasoli, tutto tirato su. Inoltre stringeva al petto un cappello di paglia a tesa stretta, tipo copricapo militare, che agitò nella mia direzione nel momento preciso in cui mi vide. Dava l’impressione di una persona appena uscita da un albergo di un’elegante località balneare. Quell’immagine così allegra e solare si accordava ben poco con la sua aria imbarazzata, per altro combinata con un chiaro tentativo di voler fare di tutto pur di apparire forte e audace. Quando il mio secondogenito, diversi anni più tardi, tornò a casa e mi riferì di non aver superato l’esame di ammissione all’università, aveva un’espressione che mi ricordò all’istante quella di Marie quel giorno al club sportivo...

«Hai portato anche l’occorrente per nuotare? Aspettami qui, vado a pagare per un ingresso giornaliero», le dissi notando la borsa di plastica trasparente poggiata al suo fianco, con dentro il costume da bagno e altri accessori.

«Ho pensato convenisse portare un po’ di questa roba per avere accesso a un posto del genere», mi rispose prontamente. «Quando mi ha visto sfilarmi le scarpe, il ragazzo all’entrata è rimasto imbambolato, non sapeva cosa fare.»

Dopo aver acquistato il ticket per l’ingresso giornaliero riservato ai non soci e averlo consegnato alla reception, tornai subito da Marie. Stavolta la trovai intenta a fumare una sigaretta, il volto abbastanza disteso, con quei suoi occhi in ombra a fissare un punto lontano. Le spiegai dov’erano gli spogliatoi per le donne e le dissi che, prima di entrare in piscina, poteva trascorrere qualche minuto nella sauna, in modo da evitare gli esercizi di riscaldamento. Una volta ascoltate quelle mie indicazioni di ordine pratico, sembrava già pronta a schizzare in piedi e correre a cambiarsi.

«A proposito di quella faccenda che mi hanno riferito Asao e gli altri», le dissi, come per ricordarle la vera ragione per cui era venuta, «cosa vogliamo fare?»

«Ti riferisci alla cassetta? Ce l’ho qui con me», replicò, mentre la tirava fuori dalla borsa producendo un rumore secco, di plastica che sbatacchia. La custodia, a differenza di quella delle comuni audiocassette da registrare e di quelle già incise in vendita presso i negozi di dischi, era completamente bordata di carta bianca.

«Non c’è altro, vero? Voglio dire altri oggetti compromettenti in possesso di quel tizio, tipo lettere, fotografie...»

«Non mi sarei mai sognata di scrivere un solo rigo a un essere miserabile come quello! E non crederai mica che sono il tipo di donna da mettersi in posa e farsi fotografare con l’autoscatto!»

«La cassetta... hai provato ad ascoltarla?»

«E perché mai avrei dovuto farlo? Immagino già cosa contiene: io che mugugno e sussurro qualche parolina proibita e lui che continua a incitarmi per tutto il tempo, non c’è altro.»

Riposi la cassetta nel mio armadietto insieme alle altre cose, indossai il costume e rimasi in attesa di Marie. In base alle regole del club, si era dovuta struccare completamente, compreso il suo spesso strato di rossetto, rivelando dei lineamenti morbidi e gentili, quasi da adolescente. Mi venne incontro a grandi passi, fasciata nel suo costume olimpionico blu a strisce bianche. Aveva un fisico asciutto e flessuoso, ma non per questo privo delle giuste rotondità. E mentre, fianco a fianco, procedevamo verso la sauna e poi sudavamo insieme al suo interno, notai con sorpresa che aveva anche una buona massa muscolare alle spalle e alle braccia.

«A scuola, in America», mi disse, mentre facevamo gli esercizi di stretching prima di entrare in acqua, «mi consigliarono di fare atletica leggera, e i miei muscoli non sono cambiati molto da allora.» La sua voce suonava rilassata, pur se teneva la schiena piegata e mi guardava con la testa all’ingiù, attraverso lo spazio tra le sue gambe leggermente divaricate, simili a due fusi ben fermi al di sotto delle natiche sode.

Tuttavia, sebbene fosse in possesso di un’attitudine da atleta consumata, con il sudore che le imperlava già la pelle e la folta chioma fasciata da una cuffia che lasciava la nuca e parte delle orecchie scoperte (conferendole, a dire il vero, un’aria innocente che ricordava Olivia di Braccio di Ferro più che Betty Boop), si rivelò inaspettatamente lenta e impacciata mentre scendeva la scala a chiocciola che portava dalla sauna alla piscina. Mi disse di essersi tolta le lenti a contatto, come per giustificarsi, e in quel momento, per la prima volta, colsi in lei l’immagine della giovane professoressa universitaria, esperta di una certa scrittrice americana.

Marie era una nuotatrice formidabile. Quando le dissi che solitamente riuscivo a fare un migliaio di metri a stile libero, lei replicò: «Allora permettimi di partire davanti, sennò rischio di rimanere indietro. E se sarò troppo lenta, mi raccomando, dammi un bella spinta». Si trattava di pura ironia, mi fu subito chiaro: per quanto provassi a dare il meglio di me, dopo appena quattro o cinque vasche ero già così indietro che Marie mi incrociò a circa metà piscina. Mentre mi passava accanto, la mia tendenza a nuotare un po’ troppo al di sotto della superficie dell’acqua mi diede la strana sensazione di trovarmi quasi sul fondo, ad ammirare lei che, molto più in alto, filava col corpo perfettamente dritto, bracciata dopo bracciata, battendo le gambe con straordinario ritmo e vigore. Nel constatare che dopo i primi cinquecento metri ero stremato, lì a dibattermi nel vano tentativo di tenerle testa, Marie accelerò ulteriormente e nuotò altri duecento metri alla massima velocità, virando ogni volta con impeto incredibile, quasi che si trovasse nel bel mezzo di una gara. Dopo di che saltò fuori dall’acqua e sostò per qualche decina di secondi a bordo vasca, senza essere affannata più di tanto.

Poi si eclissò negli spogliatoi e vi rimase a lungo, come se quello fosse l’unico posto al mondo dove poteva essere più lenta di me. Inserii la cassetta che mi aveva portato nel walkman che utilizzavo solitamente per studiare le lingue straniere, in treno durante il percorso da casa al club sportivo e viceversa, e mi sistemai le cuffie sulle orecchie. Confesso di aver provato un certo disagio nei confronti delle altre persone sedute tranquillamente nella sala riservata ai soci.

Feci partire il nastro. Prima di tutto udii un uomo e una donna scambiarsi due o tre parole prive di particolare importanza. La qualità del suono era eccellente, tanto che si poteva cogliere persino il fruscio delle lenzuola, cancellando ogni mio possibile pregiudizio sulle registrazioni effettuate mediante microfoni nascosti. I due passarono in fretta al sesso, per poi tornare a una nuova e breve conversazione. Quindi, poco prima di avere un altro rapporto, la donna diceva all’uomo, con la tipica tranquillità d’animo di una donna matura nei confronti di un uomo più giovane: «Stavolta facciamolo da dietro». Subito a seguire, dopo un intenso stropiccio di lenzuola: «Aspetta, aspetta, fammi aprire meglio le gambe». L’uomo, che evidentemente in principio si era limitato e seguire buono buono le istruzioni, a un certo punto sembrava aver acquisito una certa confidenza, stimolato dai mugolii via via più intensi della donna, e diceva: «Guarda qua, non sembra proprio che sono venuto già due volte!». Al che lei replicava, con voce arrochita e spontanea, per nulla artefatta: «Sì, è enorme! Si vede che hai ventitré anni!».

L’uomo, soprattutto all’inizio, faceva pensare a una combinazione di egocentrismo giovanile e una certa cautela dovuta all’inesperienza. Poi, a cominciare dal secondo rapporto, si era mostrato decisamente più spavaldo e sicuro di sé. Questo cambio di atteggiamento, improvviso e naturale, colse in modo particolare la mia attenzione, ma notai un certo mutamento anche nel comportamento della donna. All’inizio era lei a condurre il gioco e stava attenta a rassicurare il partner dicendogli che prendeva regolarmente la pillola e altre cose del genere, dando fondo alla sua esperienza. Tuttavia, dopo la seconda volta, sembrava aver ceduto il comando all’uomo, docile e ammansita tra le sue braccia. Questo particolare mi trasmise una sensazione di estrema dolcezza, facendomi provare una forte simpatia per lei. A ogni modo, nonostante la fedeltà della registrazione, tecnicamente perfetta, non riuscivo ad associare quella voce femminile ora così dolce e mansueta a Marie. In essa c’era certamente qualcosa della sua tipica spensieratezza e bontà, ma non sembrava per nulla quella di una donna in possesso di un alto grado di istruzione e di un notevole bagaglio culturale.

«Ti sei messo ad ascoltarla qui? Da te non me lo sarei mai aspettato!» mi rimproverò Marie, apparsa di colpo al mio fianco. Dava l’impressione di essersi rinvigorita, dopo l’attività fisica, con quei suoi capelli corvini ancora umidi, folti e gonfi, e le labbra illuminate dal rossetto carminio alla Betty Boop.

Colto di sorpresa, sentii il cuore martellarmi in petto. Ma ormai, a quel punto dell’ascolto, mi ero completamente persuaso che la voce femminile registrata nella cassetta non apparteneva a Marie.

«Vuoi provare ad ascoltarla anche tu?»

«Per carità, non ci penso proprio!»

«Secondo me, potrebbe essere stata registrata ovunque. Forse l’ha comprata da qualche parte, magari in uno di quei posti dove vendono giocattoli per adulti...»

«Guarda che pure io posso cambiare la mia voce come mi pare, a seconda del momento e della situazione...»

Lasciai il walkman, con il nastro che continuava a girare, e le cuffie al posto dove stavo seduto e mi diressi al distributore automatico in un angolo della sala per comprare due birre in lattina.

«Non è possibile!» esclamò Marie al mio ritorno, stringendo il walkman in mano, «la voce di questa donna suona così... stupida e tonta! Sembra una persona di buon cuore, niente da dire», aggiunse ridacchiando, «ma la sua testa non mi sembra tanto a posto!»

Feci anch’io una risata, per mostrarle che concordavo pienamente. A quel punto, sollevato, pensai che il problema poteva considerarsi per una buona metà già risolto. Era tutto chiaro: il giovane ingegnere del suono, in virtù della sua professione, doveva aver fantasticato di registrare sé stesso e la sua bellissima amante a letto. Ma il suo timore di vederla stancarsi di lui, che a confronto di Marie era poco più che un adolescente, doveva preoccuparlo non poco. Così quando lei, da un giorno all’altro, gli aveva dato il benservito, era impazzito e si era lasciato andare a propositi di vendetta, pentendosi amaramente di non aver registrato una cassetta con un microfono nascosto. Dunque si era procurato quella registrazione chissà dove e come, con le voci di due amanti, lei una donna matura e lui un ragazzo giovane... «Sì, è enorme! Si vede che hai ventitré anni!». In fin dei conti doveva essere stata la sua folle e incontenibile passione per Marie a spingerlo a un tentativo di ricatto così squallido, da bambino viziato. Doveva essere andata per forza così, non poteva esserci sotto nulla di più complicato.

Suggerii di mandare Asao e i suoi amici dal tizio in questione per fargli dire qualcosa tipo: «Senti, abbiamo ascoltato la tua cassetta, ma sappiamo bene che non ha nulla a che fare con Marie, perciò è inutile che continui a ricattarla. Se non la smetterai, riferiremo tutto a un tuo superiore di nostra conoscenza». Così fu fatto e, in modo persino più semplice del previsto, il giovane ingegnere del suono si rassegnò e non si fece mai più vivo.

Nel corso di quella conversazione con Marie, mentre sorseggiavamo placidamente le nostre birre nella sala del club sportivo, toccammo una serie di altri argomenti rimasti bene impressi nella mia memoria. La prima questione che affrontammo era talmente insolita e particolare che, vuoi anche per effetto della birra, ci condusse verso lidi inaspettati e finimmo col confidarci a vicenda alcuni dei nostri pensieri più intimi. Ma fu Marie a tenere il bandolo del discorso e a parlare molto più di me.

L’avvio fu dato dalla scrittrice americana che costituiva il suo principale interesse di ricerca. Con la cautela e la discrezione tipiche degli studiosi di letteratura, fino ad allora Marie non aveva mai menzionato il nome dell’autrice, ma quando provai a chiederle se le cose che aveva detto nel corso della riunione dell’associazione delle madri della scuola di Hikari e Mūsan e che le avevano causato tanti problemi fossero in qualche modo legate ai suoi studi, lei prese senza indugio l’iniziativa e iniziò a parlare come un fiume in piena.

«Dopo quanto è successo, ho riflettuto a lungo e credo di aver capito perché le altre mamme si sono arrabbiate tanto. Ho parlato con eccessiva foga e ho citato un passaggio molto complesso che forse io stessa non avevo compreso fino in fondo. All’incontro successivo, maldisposta e di cattivo umore, mi sono presentata con notevole ritardo, ma nessuna mi ha fatto notare nulla, si sono comportate tutte come se niente fosse accaduto. Ho capito subito che doveva essere intervenuta tua moglie Oyū, spiegando alle altre l’essenza delle mie parole sulla base di quanto tu le avevi detto. Ed è stato così che sono venuta a sapere che hai letto e conosci Flannery O’Connor.

«Ciò che ho sempre trovato molto convincente negli scritti della O’Connor è quello che dice a proposito del concetto di sentimentalità – sentimentality, per citare il termine inglese –, anche perché c’è un forte nesso con il mio Mūsan. Mio figlio è una creatura sensibile e innocente, questo è certo, e sono sicura che lo stesso vale anche per il tuo Hikari. Sanae, la bambina che è morta, era una fanciulla dolce, carina e precoce, ma lo era entro i limiti consueti della sua età, come tante altre ragazzine sue coetanee. Non voglio affermare che non fosse anche lei una persona sensibile e innocente, tutt’altro, sto solo cercando di dire che non era una rarità assoluta. Insomma, non credi che spesso i genitori dei ragazzi disabili tendano a sopravvalutare la loro innocenza, magari senza nemmeno accorgersene? I ragazzi non hanno nessuna colpa, siamo noi genitori gli unici e soli responsabili. Mi piacciono molto i tuoi romanzi su Hikari e sul tuo rapporto con lui, ma mi permetto di farti notare che anche tu poni eccessiva enfasi sull’innocenza. Nel tuo caso, quando parlo di enfasi, non intendo assolutamente dire che ti spingi agli stessi estremi, a volte persino contorti, della O’Connor, per carità. Comunque sia, non ritieni che in qualche modo noi stessi ci aggrappiamo, o addirittura dipendiamo dall’innocenza dei nostri figli?

«La O’Connor sostiene che, quando viene enfatizzata oltre il dovuto, l’innocenza tende a trasformarsi nel suo esatto contrario. Il punto è che tutti noi l’abbiamo perduta, fin dall’inizio. Secondo quanto scrive, ritorniamo verso l’innocenza attraverso la redenzione di Cristo, ma non tutt’a un tratto, bensì lentamente, nell’arco di un lunghissimo periodo di tempo. Ora, quando questo processo di per sé molto lungo e lento si estende alla vita reale, noi, troppo prematuramente e illusoriamente, raggiungiamo uno stato di falsa innocenza, ovvero ciò che lei definisce sentimentality... e che io detesto più di ogni altra cosa. Se a volte uso tutto questo come una sorta di pretesto per fare cose “non innocenti” nella vita di tutti i giorni, è proprio perché vorrei che la si smettesse di eccedere con la sentimentalità fine a sé stessa.»

«A proposito, lo hai notato anche tu il cambio di atteggiamento nella donna della cassetta? All’inizio sembrava quasi dare istruzioni al ragazzo, con una certa presunzione, poi, a poco a poco, è emerso il suo lato dolce e gentile. Anche una relazione sessuale è un processo che riguarda la vita reale, la vita di tutti i giorni, no? Evidentemente quella donna, lungo un certo arco di tempo, con estrema calma, si è avvicinata pian piano all’innocenza.»

«Prima mi hai detto di esserti accorto subito che quella donna non potevo essere io. Forse perché la sua voce era molto più innocente della mia?... Flannery O’Connor ha scritto una cosa sull’argomento di cui ti stavo parlando in un brano sul rapporto tra il sentimentale e l’osceno.»

Reso audace e disinibito dalla birra, mi affiorò alla mente un altro pensiero. Di sicuro la donna della cassetta non era Marie, tuttavia, malgrado le evidenti differenze in fatto di età e livello di istruzione, percepibili chiaramente in base alla voce e al modo di parlare, non era impossibile che l’ingegnere del suono avesse percepito, in quel senso di innocenza, qualcosa che gli ricordava l’affetto e il vivo desiderio provato nei confronti di Marie mentre facevano sesso. Pertanto nell’inviarle la cassetta – un tentativo di ricatto decisamente fiacco e destinato a fallire già in partenza, in quanto molto difficilmente Marie ci sarebbe cascata senza nemmeno provare ad ascoltare la registrazione – aveva forse voluto tentare di supplicarla alla maniera di un bambino lagnoso e disperato, come a dirle: “Come puoi lasciarmi adesso che hai trovato, grazie al sesso con me, questo modo così dolce e innocente di provare gioia?”.

Ma invece di rivelare a Marie questo mio pensiero, le chiesi tutt’altra cosa: «Tu sei cattolica?».

«Assolutamente no! Voglio essere libera di godermi i miei peccati e divertirmi», rispose, una luce intensa a brillarle nelle iridi color miele, sormontate da quelle sue lunghe e folte ciglia, assumendo un’espressione di pura ribellione nonostante il suo consueto sorriso. «La O’Connor è una scrittrice cattolica, ma non credo che i suoi lettori debbano esserlo per forza per comprendere al meglio le sue opere. Del resto lei stessa ha affermato di volere a tutti i costi superare l’ostilità dei lettori non cattolici e di voler dare ai suoi scritti una forza interiore in grado di renderli compiuti, inoppugnabili e indipendenti da ogni fattore esterno.» Controllando la sua irruenza, Marie fece una pausa e si calmò, accordandomi il permesso di andare a prendere altre due birre al distributore. «Ultimamente, mia madre non sta molto bene», continuò, cambiando argomento e passando alla sua difficile situazione familiare, «perciò non può accompagnare e andare a prendere Mūsan a scuola quando sono all’università. È da un po’ che mio figlio non sta frequentando le lezioni, purtroppo. Se le mie care amiche dell’associazione delle madri avessero scoperto che mi ero cacciata in un pasticcio del genere, mentre Mūsan era a casa con me, me ne avrebbero dette di tutti i colori. Per fortuna Oyū è una donna molto discreta e sa come mantenere un segreto.»

«Allora oggi Mūsan è rimasto da solo in casa con tua madre?» le chiesi, lanciando un’occhiata allo sfarzoso orologio a muro del club e notando che erano già le sette passate.

«Il mio ex marito lavora un sabato sì e uno no. Oggi è libero ed è venuto da noi con Michio, il fratellino di Mūsan, e fortunatamente si tratterranno fino a domani. Proprio ora che mia madre non se la passa granché bene, il secondo matrimonio del mio ex sta andando a rotoli, e perciò lui è libero di portare Michio da noi quando vuole. Ottimo tempismo: non tutto il male viene per nuocere, no?»

La faccenda della cassetta mi aveva concesso l’opportunità di apprendere diverse notizie sul passato di Marie e della sua famiglia da mia moglie, la quale solitamente non scendeva molto nei dettagli a proposito delle madri dei compagni di scuola di nostro figlio. Marie aveva sposato un suo coetaneo che frequentava gli stessi corsi di letteratura inglese all’università, prima della laurea, godendo del supporto finanziario della famiglia Kuraki, proprietaria di un’azienda. Poi lei aveva iniziato il dottorato, mentre lui, bocciato al test di ammissione, aveva trovato lavoro come redattore di materiale didattico per lo studio delle lingue straniere presso una casa editrice scolastica. Quando avevano avuto il primo figlio, Mūsan, Marie era ancora al primo anno di dottorato, dopo di che, a breve distanza, era arrivato anche l’altro, Michio. Pertanto lei aveva dovuto abbandonare gli studi per un bel pezzo ed era riuscita a rimettere piede all’università solo alcuni mesi dopo la nascita del secondogenito. Nel momento in cui lo sviluppo intellettivo di Michio aveva superato quello di Mūsan, Marie e suo marito erano stati costretti a riconoscere in via definitiva che quest’ultimo aveva dei problemi di disabilità mentale, oltre che fisica.

A quel punto, Marie aveva preso una decisione alquanto singolare. Mia moglie, a tale proposito, mi aveva detto queste precise parole: «Il marito di Marie era calmo e gentile, non era uno di quei tipi che vogliono decidere tutto, all’esatto contrario di lei, che invece continuava a essere trattata dalla famiglia come una principessa e ad averla sempre vinta. Se fosse stata solo una bambina, poteva anche andare bene, ma ormai era una donna sposata!». Marie aveva deciso di divorziare e di lasciare Michio al marito e tenere Mūsan con sé. Parlando con mia moglie, le aveva confidato di essere convinta che la nascita di Mūsan l’avrebbe condotta verso una sorta di espiazione, e inoltre che la gioia provata nell’affrontare quel cammino poteva essere riservata solo a lei e a nessun altro. Ci aveva tenuto a precisare che non c’era alcun bisogno di coinvolgere suo marito e Michio, un bambino sano che godeva di ottima salute, in una vita consacrata al sacrificio.

La volontà di Marie non era stata assecondata precisamente all’istante, ma il divorzio era stato portato a termine senza particolari problemi. La vita esclusiva con sua madre e Mūsan aveva dunque avuto inizio, e pian piano lei era anche riuscita a finire il dottorato, dopo di che erano andati tutti e tre insieme negli Stati Uniti, nel Midwest, dove Marie aveva avuto l’opportunità di studiare per un certo periodo in un college. Infine erano tornati in Giappone e lei era stata assunta dall’università femminile dove lavorava tuttora. Una buona parte del loro sostentamento economico era assicurato dalle entrate provenienti dagli utili delle azioni dell’azienda di famiglia. E così la loro vita in tre era andata avanti ed erano passati diversi anni.

«Naturalmente con me c’era mia madre», disse a un certo punto Marie, continuando la nostra lunga conversazione, «ma all’epoca ero molto giovane e fortemente decisa a crescere Mūsan da sola. Ero convinta di potergli dare tutto il supporto di cui aveva bisogno, sia riguardo alla sua disabilità sia, è ovvio, riguardo alla parte di sé uguale a tutti gli altri bambini. Oltretutto, credo che il mio più grande desiderio fosse stabilire un legame speciale tra noi, dove non ci fosse spazio per nessun altro. Volevo che ci fossimo solo lui e io, senza suo padre né il suo fratellino. Ma adesso, col senno di poi, mi rendo conto che tutto ciò è stato possibile solo ed esclusivamente grazie alla presenza di mia madre. Se non ci fosse stata lei, il mio bel progetto sarebbe naufragato molto presto.

«Ora, che devo badare a mio figlio veramente da sola e mi sono resa conto che non si tratta di una passeggiata, mio marito ha rotto definitivamente con la sua seconda moglie ed è venuto a chiedermi di tornare a vivere tutti insieme. Quando viene da noi il sabato, una settimana sì e una no, con Michio, fa un sacco di cose in casa e, soprattutto nelle giornate come quella di oggi, si rivela un autentico salvatore. Volevo provare a me stessa e al mondo intero di potercela fare da sola, di essere in grado di prendermi cura di Mūsan – e credo di poter dire di esserci riuscita piuttosto bene, almeno finora –, ma devo ammettere, ancora una volta, che ho avuto la fortuna di poter contare sull’aiuto fondamentale di altre persone.»

«Mia moglie dice che sarebbe bello se Mūsan e Michio potessero vivere insieme, visto che vanno tanto d’accordo. Mi ha anche raccontato che tu e tuo marito non vi siete separati perché tra voi c’era odio, ma per il fatto che tu consideravi il divorzio come l’unico modo possibile per assumerti la piena responsabilità di Mūsan. E so anche che a volte ci ripensi e concludi di essere giunta a una decisione alquanto particolare, per non dire unica.»

«Se deciderò di tornare con lui, almeno eviterò di imbattermi in certa gente che si prende la briga di piazzare microfoni in camera da letto...» rispose Marie, ormai un po’ brilla per effetto della birra, così simile a Betty Boop in uno dei suoi primi cartoni animati, nella scena in cui un vecchio vagabondo tenta di assalirla, il viso stravolto da un’espressione che poco si addiceva alle sue incantevoli fattezze.

3.

Quella sera, quando parlai a mia moglie dell’incontro con Marie, evitai di scendere troppo nei particolari in merito alla cassetta. Mi limitai a dirle che si trattava di una registrazione decisamente ridicola e la rassicurai aggiungendo che le cose si sarebbero risolte per il meglio, anche perché Marie e il suo ex marito erano pronti a tornare insieme. Tuttavia lei non ne sembrava molto convinta...

«Marie è sempre stata molto determinata a occuparsi di Mūsan da sola, perciò si è separata dal marito... Anche se poi ha avuto bisogno dell’aiuto di sua madre. Lei è fatta così, è il suo carattere. Adesso lui ha rotto definitivamente con la seconda moglie, e allora Marie ha pensato che poteva fare qualcosa in suo favore, come per ricompensarlo del torto subìto in passato. Sta usando la malattia della madre come un semplice pretesto. Ma così rischia di farsi del male da sola, sta pretendendo troppo da sé. Ormai la conosco abbastanza bene.»

«Sì, però almeno per Mūsan sarà una cosa positiva... Potrà stare di più con suo padre e soprattutto con Michio, suo fratello.»

«Marie non ti ha detto nulla a proposito di Michio? È davvero una donna molto particolare, ecco perché prima ti ho detto: “È fatta così, è il suo carattere”. C’è stato un incidente, quando il suo ex viveva ancora con la seconda moglie, e Michio è rimasto paralizzato, finendo su una sedia a rotelle. Con te ha preferito non farne parola, è ovvio. Credo abbia in mente di aiutare l’ex marito a venir fuori dagli impicci assumendosi tutto il peso della situazione, facendosi carico dei due figli disabili e di tutto il resto.»

La notizia dell’orribile tragedia che, all’incirca un anno più tardi, avrebbe sconvolto la famiglia di Marie fu riportata dai quotidiani e dalle riviste di ogni genere, oltre che dai telegiornali. Se dovessi ricostruire l’accaduto basandomi sulle informazioni apparse sulla stampa, la parte in cui dovrei parlare dello stato mentale di Marie risulterebbe inevitabilmente alterata dalle mie idee e dai miei giudizi personali. D’altra parte sono convinto che nessuno sia in grado di penetrare a fondo nella mente di una madre che ha subìto un’esperienza di quel tipo. Perciò, piuttosto che lanciarmi nel tentativo di fornire un resoconto oggettivo dei fatti, preferisco affidare questo gravoso compito alle lettere che ricevetti a suo tempo dallo sfortunato marito che, dopo essere riuscito a ricostruire la sua vita con Marie, rimase nuovamente e terribilmente solo.

Non so se sia corretto definirlo un déjà vu, perché oltretutto non sono un esperto in questioni del genere, ma ho sempre avuto la sensazione che il primo incidente di Michio facesse parte di una scena alla quale avevo già assistito in passato, dal principio alla fine. Non mi sono mai preoccupato più di tanto di comunicare i miei sentimenti agli altri, né quando ero uno studente né tanto meno dopo aver cominciato a lavorare come redattore di testi scolastici, e la mia sensibilità è pressoché nulla se paragonata a quella di uno scrittore del suo calibro. Tuttavia, dopo l’incidente, è stato come se qualcosa di duro e compatto, simile a uno spesso strato di tartaro, fosse stato asportato tutto in una volta dalle fondamenta delle mie emozioni, occultate da qualche parte dentro di me.

Questa è la scena che era già ben vivida nella mia mente, una scena che conoscevo perfettamente, come fosse reale. Un bambino, piccolo e indifeso, si appresta a prendere l’autobus per andare a scuola. Getta un’occhiata all’interno del veicolo, controlla che non vi sia nessuno alle sue spalle e, tutto tranquillo, sale a bordo. Proprio allora, esibendo un ghigno beffardo alla Mr Magoo dei cartoni animati, un ragazzino delle medie, nascosto sul sedile dietro al posto di guida, sporge la testa oltre lo schienale, di scatto. Al che il bambino fa un balzo all’indietro, cade dalla scaletta dell’autobus e viene urtato violentemente da un camion che transita giusto in quel momento...

C’era una ragione ben precisa per la quale lo sguardo di quel piccolo Mr Magoo era così vivo e penetrante, come se lo avessi visto in un sogno a occhi aperti: dopo l’incidente, alla stessa fermata dell’autobus, riconobbi il ragazzino che per lungo tempo aveva continuato a infastidire Michio, senza mai dargli tregua. Adesso potrei tentare di giustificarmi dicendo che non ne sapevo nulla, ma la sola verità è che avrei dovuto accorgermene e fare qualcosa per impedire che mio figlio fosse costretto a subire le sue angherie. D’altronde, non sospettando io nulla e non avendo egli fatto niente più che sporgere la testa oltre lo schienale del suo posto, non potevo in nessun modo ritenerlo responsabile di ciò che accadde. Quel giorno, quando mi vide alla fermata, doveva essere ben consapevole che non mi sarei mai sognato di accusarlo per l’incidente capitato a Michio, né a maggior ragione per i lunghi mesi di tormento che gli aveva inflitto. Come faccio a esserne tanto sicuro? Be’, perché mi fissò con quel suo sguardo beffardo e agghiacciante alla Mr Magoo.

Michio ricevette un brutto colpo alla schiena, ma non si fece nemmeno un graffio. Le gambe sembravano a posto, non erano rotte, e non c’era la minima traccia di tagli o escoriazioni. Nemmeno una goccia di sangue, in nessuna parte del corpo. Non appena raggiunsi l’ospedale dove l’avevano portato e lo vidi disteso supino a letto, la prima cosa che mi venne da chiedere ai medici fu se avesse subìto danni al cervello. Quando mi assicurarono che, malgrado fossero necessari una elettroencefalografia e altri accertamenti, non sembravano esserci traumi cerebrali significativi, informai immediatamente Marie, prima ancora di mettermi in contatto con la mia seconda moglie, con la quale vivevo all’epoca. Poi però, durante il ricovero, ci venne detto che Michio non avrebbe mai più recuperato l’uso delle gambe. Fu trasferito presso un ospedale universitario, dove lo sottoposero a una nuova serie di esami specifici, e lì, prima di dimetterlo e fargli proseguire la terapia a casa, i medici lo misero al corrente del danno permanente che il suo corpo aveva subìto. Sulle prime reagì con una certa indifferenza, non sembrava importargli più di tanto che la paralisi sarebbe stata un peso con il quale avrebbe dovuto convivere per tutta la vita. Ma c’era dell’altro, qualcosa di molto più complesso, oltre al fatto che, com’era prevedibile, aveva smesso di svolgere il ruolo del geniale e divertente piccolo intrattenitore sempre pronto ad allietare tutti coloro che gli si trovavano intorno. Detto così, in poche parole, sembrava aver acquisito l’atteggiamento di uno spettatore intento a guardare un attore sul palcoscenico, ed era questo attore, adesso paralizzato dalla vita in giù, a dover apprendere un nuovo modo di fare le cose. Era diventato estremamente tranquillo, stranamente silenzioso. Non mostrava alcuna reazione emotiva nei miei confronti, e non rivelava nessun segno di affetto nemmeno quando venivano a trovarlo Marie e Mūsan.

Rispetto al nuovo cambiamento che sarebbe occorso in lui più tardi, Michio sembrava in ogni caso aver accettato la sua condizione. Ci rivelò alcune cose di cui non aveva mai parlato prima, ad esempio del ragazzino che andava a scuola con il suo stesso autobus e lo aveva preso di mira, oppure di una mattina in cui si era recato a scuola molto presto per evitarlo e il vicepreside lo aveva visto tutto solo in cortile, con le braccia conserte, a fissare un liriodendro. Ci disse anche, con un certo sollievo, che, quando sarebbe stato in grado di tornare a scuola, quel ragazzino delle medie sarebbe stato promosso al liceo e non avrebbe più potuto dargli fastidio, per cui si sarebbe potuto recare senza problemi e all’ora più idonea alla fermata dell’autobus. In realtà, in quel periodo, aveva cominciato già da un po’ a fare pratica con la sedia a rotelle che gli avevamo comprato, segno evidente del fatto che doveva essersi reso conto che era quello il modo in cui si sarebbe recato a scuola non appena si fosse rimesso in salute e che l’ipotesi di andarci in autobus era assolutamente fuori questione.

Tuttavia, non appena ebbe iniziato la riabilitazione vera e propria, esercitando i muscoli che, con l’aiuto del fisioterapista, riusciva ancora a controllare, cominciò a insistere che la sua paralisi era solo temporanea e non c’era alcun bisogno di imparare a usare la sedia a rotelle, perché un bel giorno si sarebbe svegliato e sarebbe stato in grado di rialzarsi e camminare. Allora il fisioterapista, per non alimentare le sue false illusioni, gli disse schiettamente che si sbagliava e che il danno era permanente, per cui doveva accettare la realtà e conviverci pacificamente, perché quello era il solo modo di condurre un’esistenza dignitosa. Ma tutto questo era difficile da capire, se non impossibile, per un ragazzino della sua età, tanto che passò diversi giorni a letto, sepolto sotto le coperte e rifiutando di parlare, in particolare con la mia seconda moglie. A dire il vero, non si erano mai potuti sopportare, ma adesso era anche peggio. Su quella donna preferisco non esprimermi, ma a volte, soprattutto quando avevo qualche riunione in ufficio e rientravo a casa molto tardi, udivo un pianto sommesso provenire dalla stanza di Michio.

Quell’estate, Marie mi propose di far stare i ragazzi di nuovo insieme per un po’, dopo tanto tempo, e così portai Michio alla villa dei Kuraki a Izukōgen, dove lei e Mūsan ci stavano aspettando. Affidandosi a una società di costruzioni gestita da parenti, la madre di Marie aveva fatto ristrutturare la casa in modo che Michio potesse spostarsi e andare al bagno con la sua sedia a rotelle senza difficoltà. Michio ero depresso e irascibile ormai da lungo tempo, ma a Izukōgen, dove aveva maggiore libertà di movimento e soprattutto poteva godere della presenza di sua madre e del fratello maggiore, sembrava essere tornato quello di una volta, ovvero il simpatico e geniale giocherellone che amava essere sempre al centro dell’attenzione e far divertire il prossimo.

Ricordo con vivo piacere l’escursione sulla «montagna calva», così come Michio aveva argutamente indicato quell’altura ricoperta solo di erba, dalle pendici fino alla vetta – noi ci eravamo spinti fino a circa mezza costa. Quella montagna era effettivamente unica, in mezzo a tutti gli altri rilievi ricchi di vegetazione fino alla cima, tanto che Michio commentò che si aveva quasi l’impressione che fosse stata ridotta in quel modo di proposito, a mo’ di burla. E poi mi ricordo le lunghe passeggiate tra i villini e gli alberi di Myrica rubra, e infine quel sentiero che a un certo punto prendeva a degradare e scendeva giù fino a una grande scogliera, in prossimità del mare, attraverso un bosco di shii,* camelie e Daphniphyllum, dove il cammino della sedia a rotelle era reso difficoltoso dalle radici e dai sassi che sporgevano dal sottile strato di terra. Michio sembrava particolarmente entusiasta del tratto di strada che seguiva l’andamento molto frastagliato della costa, con le sue spettacolari sporgenze rocciose, e conduceva verso Jōgasaki.

Dal punto di vista dello sviluppo fisico, Mūsan era più alto e robusto rispetto alla media dei suoi coetanei, e dunque era lui stesso in grado di spingere la sedia a rotelle di Michio nei tratti del percorso lastricati e con minore pendenza. Era ovviamente molto orgoglioso di poter essere d’aiuto al fratello. Il sentiero, lungo la cresta di quella scogliera a strapiombo, era stato realizzato diverso tempo addietro, all’epoca in cui quel meraviglioso tratto di costa aveva cominciato a svilupparsi e ad attrarre i turisti. Poi, col passare degli anni, gli interventi di manutenzione si erano evidentemente rarefatti e, anche se la pavimentazione era molto ben fatta, si trattava di un posto abbastanza pericoloso. Il cammino era tortuoso e c’erano curve improvvise ovunque, assolutamente prive di protezioni; le onde che si infrangevano là sotto producevano un frastuono assordante.

Era per questo che continuavo a suggerire di andare in spiaggia e non lassù, sopra la scogliera, ma Michio non voleva sentire ragioni. In effetti era comprensibile che non volesse mostrarsi in costume da bagno, lasciando scoperte le sue gambe magre e quasi del tutto prive di muscolatura. Ma addirittura si rifiutava di andarci anche solo per pochi minuti, giusto per guardare l’oceano da vicino. A ogni modo, durante quella vacanza a Izukōgen, ebbe l’opportunità di trascorrere momenti abbastanza sereni, e il suo umore era di gran lunga migliore rispetto a quando era a casa, in città. Quelle giornate fecero indubbiamente molto bene anche e soprattutto a Mūsan, il quale, sapendo che dal punto di vista mentale Michio era ben più avanti di lui, fu felice di poter mettere a disposizione la sua forza fisica per aiutarlo.

Eppure fu proprio quella vacanza a Izukōgen a far nascere le premesse della successiva e irreparabile tragedia. Di ritorno a Tokyo, scoprii che mia moglie mi aveva lasciato. Michio restò solo con me per un po’, poi ci trasferimmo di nuovo nella casa dove abitavano Marie e Mūsan. Durante la nostra prima serata insieme, a cena, mia suocera chiese: «Michio, come vanno le tue gambe?». Le sue parole erano colme di affetto e incoraggiamento, dette con buone intenzioni, ma in fin dei conti si trattava di una domanda infelice, alla quale Michio reagì con evidente disprezzo. Poi, esibendo un ghigno sinistro e facendo riferimento al sistema scolastico vigente, nonché alle problematiche legate alla frequenza delle lezioni, cominciò a lamentarsi del fatto che le sue possibilità di scelta riguardo alla scuola media dove iscriversi, dalla qual cosa dipendeva una buona parte del suo futuro, erano praticamente ridotte a zero. Subito dopo, tirando in ballo il ragazzino che lo aveva perseguitato – cosa che, fino a quel momento, aveva fatto molto raramente –, disse che il suo sogno era studiare legge all’università, diventare avvocato e scovare quel piccolo delinquente per fargliela pagare. E quando Marie commentò: «Ma forse per allora lo avrai perdonato, no?», lui afferrò il coltellino svizzero ricevuto in regalo dalla nonna (era appartenuto a suo marito, lo aveva comprato negli Stati Uniti) e glielo lanciò contro, sfiorandole un orecchio – fortunatamente la lama era ritratta.

Poco tempo dopo questo episodio, la madre di Marie passò a miglior vita. Poverina, lei che, fino all’ultimo istante, si era prodigata per i due nipoti molto più che per sé stessa. E poi quest’estate, nell’anno successivo alla nostra riunificazione familiare, è accaduta quella cosa terribile, assurda, quella cosa che lei e tante altre persone avete molto probabilmente appreso dalla televisione e dai giornali. Era la prima settimana delle vacanze scolastiche. Quel giorno non dovevo andare in ufficio e, quando mi sono svegliato, sul tardi perché la sera prima avevo bevuto parecchio, Marie era nel panico totale: Mūsan, Michio e la sedia a rotelle erano spariti. Aveva già fatto il giro intorno alla casa diverse volte, senza alcun risultato, e stava sudando a più non posso nonostante facesse fresco, con ciuffi di capelli bagnati attaccati alla fronte pallida e ampia e le labbra insolitamente smorte.

Da qualche tempo avevamo concesso a Mūsan il permesso di spingere Michio e la sua sedia a rotelle nei dintorni della nostra abitazione, a patto che non attraversasse mai l’incrocio. Di solito Marie andava con loro, anche se Michio era perfettamente in grado di guidare Mūsan, lui che sapeva interloquire con il fratello come nessun altro in famiglia. Una delle rare volte che lei non c’era, Mūsan aveva avuto un lieve attacco epilettico. «All’improvviso Mūsan è rimasto zitto e si è fermato», ci raccontò Michio. «Ho avuto molta paura, perché ho pensato che se lui fosse crollato sarebbe stato un bel guaio. Poi ho capito che si stava appoggiando con tutto il peso allo schienale della sedia per evitare di cadere, stringendo forte le maniglie e spingendo pian piano in avanti. Ho aspettato per un po’ senza fiatare e, quando sembrava essersi ripreso, gli ho detto: “Dai, Mūsan, adesso torniamo a casa”. E lui mi ha risposto: “Scusa per averti fatto aspettare, andiamo!”. Durante il tragitto di ritorno, è stato addirittura più attento del solito, procedendo in linea retta lungo il bordo della strada.»

Mentre continuavamo a cercarli, setacciando freneticamente ogni angolo del vicinato, Marie mi ha detto di aver notato che negli ultimi tempi Michio stava sempre attaccato al fratello e gli parlava come se gli stesse confidando qualcosa di molto importante. Un giorno lei aveva anche provato a chiedergli cosa avesse tanto da confabulare con Mūsan e se ci fossero problemi, ma Michio era rimasto a bocca chiusa. Evidentemente doveva trattarsi di qualcosa che Mūsan non gradiva più di tanto, visto che da un certo momento in poi, mentre il fratello gli parlava, lui si premeva le dita nelle orecchie per non ascoltare. Questa cosa mandava Michio in bestia, ma non al punto da farlo desistere. Seguitava a starsene lì, accanto al fratello, a dirgli chissà che cosa con infinita pazienza, ostinatamente, il viso rosso di rabbia. Poi, quando si accorgeva che Marie li stava osservando, si ammutoliva all’istante.

Subito dopo, Marie mi ha riferito anche che Michio, nel corso di una delle sue sedute di fisioterapia settimanali all’ospedale, era stato duramente rimproverato. Vedendolo apatico e svogliato, un giovane fisioterapista ci era andato giù pesante – naturalmente nel tentativo di incoraggiarlo – ripetendo il solito messaggio di sempre: chi è invalido a vita deve trovare la forza di accettare la sua condizione e andare avanti con dignità. Scioccato, più che impermalito, Michio era rimasto a testa bassa durante l’intero percorso dall’ospedale fino a casa.

Mentre ascoltavo il racconto di Marie, la quale era in preda alla disperazione e aveva le lacrime agli occhi, mi sono reso conto per la prima volta che la situazione era arrivata a un punto che lei, da sola, non riusciva a tenere sotto controllo. In altre parole, da quando eravamo tornati insieme, avevo continuato ad affidare tutto a lei, comprese le questioni di grande importanza.

Quando abbiamo finito di controllare tutta l’area nei dintorni della casa, ho preso la bicicletta e ho cominciato a spingermi più lontano, descrivendo cerchi concentrici via via più ampi (ripensandoci adesso, è assurdo che una soluzione del genere non mi fosse venuta in mente più presto). Intanto Marie è corsa alla polizia per denunciare l’accaduto. Lì non hanno saputo darle alcuna notizia, ma alla stazione della linea ferroviaria privata non lontana da casa nostra, dove è andata subito dopo, le hanno detto di aver notato Mūsan e Michio in prossimità dei binari, al mattino presto.

In precedenza, ricorrendo all’assistenza di studenti volontari, i quali si prestavano soprattutto ad aiutarlo a salire e scendere le scale con la sedia a rotelle, Michio aveva già preso il treno da solo. Ma quella mattina, lui che dopo l’incidente era spesso arrendevole e poco socievole, si era evidentemente mostrato risoluto al punto da chiedere a dei perfetti estranei di dare una mano a Mūsan per trasportare la sedia e farsi mettere a bordo di un treno. Aveva acquistato due biglietti di sola andata per Izukōgen via Odawara, uno per sé e l’altro per Mūsan, presso la biglietteria riservata alle tratte a lunga percorrenza.

Utilizzando uno dei telefoni pubblici della stazione, Marie ha contattato immediatamente il custode delle villette di Izukōgen, pregandolo di trattenere i due ragazzi nel caso si fossero fatti vedere da quelle parti. Mentre passavo davanti alla stazione in bicicletta, l’ho vista scendere di corsa le scale che davano sulla strada. Voleva telefonare subito al posto di polizia di Izukōgen e chiedere di bloccare e prendere in custodia «un ragazzino in sedia a rotelle e il fratello maggiore disabile». Ma io, e non mi pentirò mai abbastanza per questo, l’ho fermata. «Secondo te», le ho detto, stupidamente, «è così strano che un ragazzo incapace di camminare e il fratello, che spinge la sedia a rotelle, abbiano avuto voglia di tornare nel posto dove si erano divertiti tanto durante le vacanze estive? Non è mica contro la legge, o sbaglio? E poi non vedo cosa possa farci la polizia, rischieremmo solo di creare problemi.» La verità è che il solo pensiero di Michio rinchiuso in una stanzetta del commissariato mi dava terribilmente sui nervi: tre o quattro poliziotti a prenderlo in giro, ferendolo nell’orgoglio, e Mūsan al suo fianco, incapace di comprendere fino in fondo la gravità della situazione, la sua confusione che suscitava l’ulteriore ilarità dei poliziotti.

Prima di dirigerci a Odawara con un treno della linea Odakyū e poi a Izukōgen con un rapido della linea Izu kyūkō, abbiamo pregato la nostra giovane vicina di stare a casa nostra, nel caso Michio e Mūsan si fossero decisi a telefonare. Ma quando siamo arrivati a destinazione e ci siamo precipitati al posto di polizia per avere notizie, tutto era purtroppo già avvenuto. Ci hanno fatti salire in una macchina e ci hanno accompagnati al commissariato di Itō, dove erano stati trasportati i corpi senza vita dei nostri ragazzi.

Un agente ci ha riferito l’accaduto in base al resoconto di alcuni testimoni, che tenterò di riassumere qui di seguito.

Michio e Mūsan avevano preso un taxi dalla stazione fino alla fine della stradina asfaltata in prossimità delle villette, e da lì si erano inoltrati a piedi nel bosco di shii e camelie. Erano in compagnia di alcuni studenti, i quali si erano gentilmente offerti di aiutarli a spingere e sollevare la sedia a rotelle lungo lo stretto sentiero, reso impervio dal dislivello notevole e dai numerosi ostacoli, che conduceva fino al percorso lastricato sulla scogliera a strapiombo sul mare. Michio, prima dell’incidente, era un ragazzino molto simpatico e dotato di un certo carisma: grazie al suo sorriso e ai modi affabili, non doveva aver avuto grandi difficoltà a reclutare due o tre volontari.

Quegli stessi studenti avevano addirittura promesso che sarebbero tornati a prenderli un’ora più tardi, in modo da riportarli indietro. Michio, con Mūsan stabilmente posizionato alle sue spalle, aveva dato l’impressione di non attendere altro che quei ragazzi li lasciassero soli, così da mettere in atto il suo terribile piano. Tuttavia, quando aveva fatto segno al fratello di cominciare a spingere, non si era reso conto che, pur se protetti dalla fitta coltre di camelie, Daphniphyllum ed enormi shii, non erano precisamente soli.

Come ho scritto in precedenza, in quella zona la costa è estremamente aspra e frastagliata, costituita da una serie interminabile di sporgenze aguzze simili ai denti di una gigantesca sega. Le ore del primo mattino ormai alle spalle, i pescatori erano già andati via, ma erano stati sostituiti da un gruppo di turisti, in sosta nei pressi di uno sperone roccioso, situato un po’ più in alto, ad ammirare il panorama. Ebbene tutte quelle persone, dal punto esatto in cui si trovavano, avevano scorto già da un po’ di tempo la sedia a rotelle avanzare facendosi strada lungo il percorso lastricato, scomparendo e riapparendo di continuo a seconda della struttura della costa e della presenza degli alberi. Si erano anche accorti di un tratto dove il terreno che fungeva da parapetto sembrava aver ceduto, subito dopo una curva, lasciando la scogliera pericolosamente aperta in prossimità dell’orlo del precipizio. Rendendosi conto di quanto potesse essere pericoloso, quei turisti si erano avvicinati il più possibile al limite estremo del posto dove si trovavano e avevano cominciato a sbracciarsi e a urlare ai due ragazzi di fermarsi. Il fragore delle onde attutiva molto le loro grida, eppure Michio, seduto imperterrito sulla sedia a rotelle, aveva reagito sollevando leggermente il capo nella loro direzione, come a tendere l’orecchio per ascoltare meglio...

Tutt’a un tratto la sedia a rotelle si ferma; con ogni probabilità Michio aveva azionato il freno. Mūsan, che fino ad allora aveva continuato a spingere, colto di sorpresa, va a cozzare contro lo schienale della sedia e fa di tutto, pur se goffamente, per non venir meno al suo compito, seguitando a spingere con tutte le sue forze. Poi desiste, lascia le maniglie e avanza oltre la sedia a rotelle, con estrema calma. Adesso le urla provenienti dall’alto risuonavano ancor più forti, accompagnate da quelle di Michio, forse impegnato a chiamare il fratello supplicandolo di tornare indietro. Come a voler cancellare in un colpo solo tutte quelle voci, Mūsan si tappa le orecchie con le dita e continua ad avanzare placidamente, con i gomiti all’infuori, finché il primo dei suoi piedi resta sospeso nel vuoto, oltre l’orlo della scogliera, seguito subito dall’altro... Un tonfo pesante, poi il silenzio. I turisti, sbigottiti, osservano Michio muovere energicamente le ruote della sedia a rotelle e spingersi nella stessa direzione. Giunto sull’orlo del precipizio, si blocca di colpo, con le ruote forse frenate da una piccola gobba del terreno, al che si sporge col corpo in avanti, sempre più, fino a che il peso della testa e del busto lo fa precipitare nel vuoto insieme alla sedia, giù, là dove le onde si infrangono contro la roccia nera schiumando...

Da quel giorno, nei momenti in cui è sveglio, il mio cervello è preso unicamente da Michio e Mūsan, e in particolare dal loro ultimo viaggio a Izukōgen e dal periodo subito precedente, quando hanno messo a punto il loro piano segreto. Ho smesso di andare al lavoro e ho preso a passare le mie giornate abbandonato sul divano, con lo sguardo a fissare il nulla, respirando lentamente e rimuginando dal mattino fino a tarda notte. A volte passo giornate intere non facendo altro che pensare, per esempio, al modo in cui Mūsan si è tappato le orecchie prima di saltare giù dalla scogliera.

Uno dei turisti presenti a Izukōgen aveva con sé una macchina fotografica professionale e ha scattato una sequenza di immagini apparsa nei giorni successivi sulle pagine di un settimanale. L’atteggiamento di Mūsan mi ha ricordato all’istante la celebre fotografia di un ragazzino con entrambe le mani levate al cielo, in un gruppo di ebrei portati via dal ghetto di Varsavia...

In quei primi giorni dopo la tragedia facevo sogni atroci, eppure i miei figli non c’erano mai, nemmeno nel più orrendo di quegli incubi. Forse una qualche forza misteriosa mi impediva di essere testimone di quell’evento ormai irreparabile persino nel mondo dei sogni, mentre ero addormentato e avevo scarsi poteri sulla mia coscienza. Di notte, prima di mettermi a dormire, ciò che mi terrorizzava più di ogni altra cosa era l’idea che, nel mezzo di un incubo, avrei potuto perdere la ragione senza accorgermene e risvegliarmi preda di un’eterna e insanabile follia. Ogni volta, dopo un brutto sogno, riaprivo gli occhi prima dell’alba con la testa colma degli stessi pensieri, e allora, nel tentativo di resistere, mi avvicinavo con fatica alla scrivania. Mi sedevo e mi mettevo a lavorare fino a dopo mezzogiorno, senza preoccuparmi né della colazione né del pranzo.

Avendo lasciato la casa editrice di testi scolastici, mi sono messo a lavorare privatamente per un noto traduttore, preparando la prima stesura che poi lui rivede e perfeziona. Mi occupo contemporaneamente di vari testi e, per puro caso, mentre come al solito andavo con la mente a quell’evento, mi è capitato di imbattermi in due passaggi che mi hanno aiutato a comprendere le cose. Il primo era contenuto in un libro che affrontava il tema della nevrosi da diverse angolazioni. Si trattava, nello specifico, di una citazione dalla Divina Commedia di Dante, ovvero dei primi versi del quarto canto del Purgatorio.*

Quando per dilettanze o ver per doglie
che alcuna virtù nostra comprenda
l’anima bene ad essa si raccoglie,
par ch’a nulla potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda.

Nelle note esplicative dell’edizione tascabile della Iwanami, a proposito di questi versi è scritto: «Quando l’anima è fortemente stimolata, da un evento gioioso o da uno doloroso, i suoi poteri si concentrano tutti in una sola attività (ad esempio, la capacità di provare gioia o dolore), ed è come se tutte le altre smettessero di funzionare. Dunque è errato affermare, come fanno i platonisti, che noi esseri umani abbiamo più anime. Se difatti ciò fosse vero, nel momento in cui una delle molteplici anime venisse a concentrarsi su una singola questione, tutte le altre dovrebbero essere libere di ignorare la situazione e continuare a svolgere altre attività».

“Sì, non potrebbe esserci nulla di più giusto!” ho pensato mentre leggevo quelle parole. Sarebbe insopportabile se, pur avendo molte anime, una sola di esse acquistasse il predominio costringendomi ad angosciarmi senza sosta circa la morte dei miei figli. E intanto che continuavo a leggere quella citazione dal Purgatorio e il brano che seguiva, sebbene fossi ancora conscio della disgrazia accaduta a Izukōgen, che lampeggiava in un angolo della mia mente come una luce a intermittenza (non solo in quel momento, ma forse per sempre, fino all’ultimo dei miei giorni), sono stato finalmente capace di dire a me stesso: ora, in questo preciso istante, la mia anima è assorta nel lavoro che ho qui, davanti a me.

Il secondo brano nel quale mi sono imbattuto era citato in un libro di storia della musica: un passaggio tratto dall’autobiografia di George Sand, contenuto nel capitolo relativo alla sua relazione sentimentale con Chopin, alla quale l’autore di quel libro riservava un comune trattamento da «tragica storia d’amore». George Sand e i suoi figli vivevano con Chopin in un remoto monastero sull’isola di Maiorca. Un giorno, lei si recò con i figli al centro abitato più vicino per svolgere alcune commissioni, percorrendo come al solito la ripida stradina in discesa che veniva giù dalla montagna. Sulla via del ritorno, furono colti da una violenta tempesta, e la carrozza sulla quale viaggiavano dovette fermarsi costringendoli a rincasare a piedi, sotto la pioggia. Rientrarono a tarda sera, inzuppati fino all’osso. Siccome il testo era menzionato nella versione originale in francese, una lingua che non conosco bene, preferisco riportare qui la stessa citazione tratta da un altro libro di storia della musica, in traduzione. Eccola:

Ci affrettavamo proprio perché sapevamo la sua inquietudine. In effetti l’inquietudine era stata tremenda, ma si era come fissata in una sorta di tranquilla disperazione e lo trovammo che suonava piangendo il suo magnifico preludio. Vedendoci entrare, si alzò, lanciando un urlo, poi ci disse con aria spersa e con un tono stranissimo: «Ah, lo sapevo che eravate morti!».
Quando si fu ripreso e vide lo stato in cui eravamo, stette male al pensiero retrospettivo dei pericoli che avevamo corso, ma mi confessò in seguito che, aspettandoci, aveva visto tutto come in sogno e, non distinguendo più il sogno dalla realtà, si era calmato e come assopito suonando il piano, persuaso di esser morto anche lui. Si vedeva annegato in un lago...

Io sono morto. Mūsan spinge la sedia a rotelle sulla quale è seduto Michio – anche loro sono morti. Protendendo il corpo in avanti, afferrando entrambi i braccioli della sedia, precipito al loro seguito, su quelle rocce luride di sangue che ho visto con i miei stessi occhi. È questa la scena che attendevo, stretto in una morsa di gelida e pacifica disperazione. Riesco a vedere tutto chiaramente, anche me stesso, annegato, in piedi sul fondo di un lago...

Ho ricopiato fin qui diverse lettere che ho ricevuto dal padre di Mūsan e Michio, adattandole in modo da farne un unico brano. E ce n’è un’altra, in particolare, con la quale mi piacerebbe concludere questo insolito resoconto epistolare.

Cos’era quella forza scatenante alla base di quell’ultimo balzo che ha portato via i miei due figli da questo mondo? Era odio? Oppure amore? Ho sempre saputo, fin dall’inizio, che era questo il nocciolo della questione, eppure, ogniqualvolta i miei pensieri sembravano muoversi in quella direzione, esitavo e mi tiravo da parte, come se avessi sfiorato qualcosa di rovente.

Come ho già avuto modo di scrivere in precedenza, Michio ha coinvolto Mūsan nel suo piano a poco a poco. Dopo l’incidente, non parlava quasi più con nessuno, si teneva tutto dentro. Adducendo il pretesto di fare pratica con la sedia a rotelle in casa, Michio andava spesso nella stanza del fratello e passava ore e ore con lui. Poi, a un certo punto, hanno cominciato a uscire anche in strada, Mūsan ben capace di spingere e Michio perfettamente in grado di guidarlo. All’inizio Marie e io eravamo convinti che il loro ritrovato affiatamento potesse fungere da importante forza di compensazione sia per la recente sofferenza di Michio, sia per l’angoscia che a suo tempo aveva accompagnato la nascita di Mūsan. E invece, a nostra completa insaputa, quei giorni non erano altro che il principio di un tragico epilogo.

C’è una domanda che continua a frullarmi nel cervello: come avrà fatto Michio a persuadere Mūsan a suicidarsi? Probabilmente avrà cominciato col dire che voleva tornare a Izukōgen, dove avevano trascorso dei giorni felici insieme. Solo lui e Mūsan, inseparabili, come fosse una magnifica avventura. La presenza di Mūsan era fondamentale, senza il suo aiuto Michio non sarebbe potuto andare da nessuna parte. Ecco perché stava con lui per ore e ore, spiegandogli ogni cosa con estrema pazienza, lentamente: se Mūsan avesse compreso tutto fin nei minimi particolari, sarebbe stato certamente disposto a collaborare, fiero di poter aiutare il fratellino per il quale nutriva una vera e propria adorazione.

Il giorno in cui ci è stata consegnata la nuova sedia a rotelle, acquistata con una parte del denaro lasciato in eredità da mia suocera, Mūsan sembrava non stare più nella pelle, era così su di giri e continuava a gridare: «Che bella sedia! Che bella sedia!», accarezzando le ruote come fossero un tesoro. Ormai aveva capito che sarebbe toccato principalmente a lui spingerla, e perciò era incapace di nascondere la sua gioia, sebbene facesse il possibile per controllarsi e non rischiare di indispettire il fratello. Era ovvio che fosse estremamente eccitato al pensiero di essere il timoniere della splendida avventura a Izukōgen, dove aveva trascorso tanti bei momenti al fianco di Michio, il suo ingegnoso e formidabile capitano.

Ma il suicidio era tutt’altra cosa. Eppure Michio deve essere stato così abile e convincente da inculcare l’idea nella testa del fratello, al punto che quando la sedia a rotelle si è fermata, perché all’ultimo istante lui stesso aveva azionato il freno, è stato Mūsan, da solo e di sua completa iniziativa, ad avanzare e rispettare il piano originale, malgrado le grida dei turisti e di Michio. E solamente allora, sentendosi in colpa per aver condotto il fratello a quel gesto estremo, Michio si è spinto fino all’orlo della scogliera e si è lanciato nel vuoto.

Questa scena si è ripetuta nella mia testa almeno una volta ogni cinque minuti, da quando riapro gli occhi all’alba fino a quando li richiudo a notte fonda, il che fa circa duecento volte al giorno, migliaia e migliaia di volte in tutto, troppe per essere contate con precisione. E adesso, giunto a questo punto, il pensiero con il quale mi trovo più spesso a confrontarmi riguarda il modo in cui Michio deve avere impresso nella mente del fratello il disgusto di vivere in questo mondo per due ragazzi come loro, l’uno paralizzato dalla vita in giù e l’altro mentalmente disabile.

Mūsan aveva paura della morte molto più di ogni altro ragazzo della sua età. Ogni volta che aveva una semplice febbre o la diarrea – agli attacchi epilettici aveva fatto l’abitudine, ripetendosi con una certa frequenza, anche se lo lasciavano in uno stato confusionale per un po’ –, se ne restava immobile a letto, senza muovere un dito. Se gli capitava di farsi un taglio con un coltello o qualche altro arnese, correva ad allungare la mano sanguinante sotto il naso di Marie e perdeva quasi completamente i sensi. Eppure, nonostante ciò, Michio è stato capace di instillare nella mente di questo ragazzo indifeso una rabbia e un odio verso il mondo tali da vincere la sua incommensurabile paura della morte.

“Mūsan, questo mondo è orrendo e spaventoso!... Li senti i cani che ululano? La gente ti guarda, e ride di te!... E poi ci sono i tuoi attacchi, sempre più forti!...” A volte ho l’impressione di udire la voce di Michio sussurrare parole come queste all’orecchio di Mūsan, parole che mi rimbombano nella testa quasi fossero reali. Chissà, forse mi succede perché qualche volta le avrò sentite pronunciare per davvero da Michio, senza quasi accorgermene, di sfuggita e magari in un ordine diverso, mentre eravamo in salotto o nella sala da pranzo. Anche prima che Marie e io tornassimo insieme, Michio era molto premuroso e faceva sempre il possibile per essere d’aiuto al fratello, tutte le volte che avevano modo di passare del tempo insieme. Inoltre Mūsan non sopportava i cani quando abbaiavano. Se un cane gli latrava contro da dietro un cancello o una siepe, lui dapprima aveva una reazione di puro terrore, ma poi, subito dopo, assumeva un’espressione rabbiosa. Divaricava le gambe, stringeva forte i pugni e si poneva nella direzione esatta da cui proveniva il latrato, gridando a pieni polmoni: «Smettila, bestiaccia, o ti faccio a pezzi con un coltello!».

A volte, a bordo del treno diretto a Shinjuku, capitava che qualcuno si mettesse a fissare Mūsan come se avesse visto una creatura mostruosa, al che Michio ricambiava lo sguardo con occhi iniettati di astio, anche se il fratello non sembrava esserne per nulla infastidito.

Quando Mūsan aveva uno dei suoi attacchi, non potevamo fare altro che aiutarlo a distendersi sul divano per evitare che cadesse di peso al suolo e attendere che passasse. E Michio, come a voler condividere la sua sofferenza fisica, si metteva seduto al suo fianco per tutto il tempo, come se desiderasse a tutti i costi trovare un modo per aiutarlo.

Questi piccoli episodi mi inducono a pensare che forse Michio, avendo deciso di togliersi la vita e non riuscendo a sopportare l’idea di abbandonare Mūsan, lo avesse convinto a morire con lui. Se questa mia ipotesi corrisponde al vero, significa che Michio ardeva di odio verso il mondo e di amore per il fratello quando, quel giorno, ha deciso di recarsi a Izukōgen... sebbene in ultimo sia stato lui a rimanere solo su quella scogliera a strapiombo sul mare, anche se per pochissimo, abbandonato da Mūsan lanciatosi per primo nel vuoto. Questo particolare, per nulla trascurabile, mi spinge a concludere che l’odio e il disgusto di Michio nei confronti del mondo non fossero in ogni caso sufficienti per persuadere Mūsan a decidere di morire. Quando questi è avanzato oltre la sedia a rotelle, teneva le dita infilate con forza nelle orecchie, i gomiti in alto, a voler sopprimere la voce del fratello, il quale, avendo avuto un ripensamento, gli urlava disperatamente di fermarsi. Ormai, a quel punto, desiderava continuare ad ascoltare una sola voce, ovvero il messaggio salvifico che Michio gli aveva ripetuto infinite volte, fino a che gli si era scolpito nella mente. Un messaggio che, con ogni probabilità, si riferiva alla vita eterna insieme in un altro mondo, dove i loro handicap sarebbero svaniti come d’incanto. Per Michio, tutto ciò avrebbe significato un ritorno alla vita prima dell’incidente stradale, il che non era affatto difficile da immaginare. E Mūsan? Come avrebbe potuto concepire sé stesso senza l’invalidità che lo accompagnava fin dalla nascita? Di nuovo, in questo preciso momento, mi viene alla mente come Michio, ogni volta che il fratello aveva un attacco epilettico, sembrava patire il dolore insieme a lui. Michio era ben consapevole del fatto che Mūsan aveva intuito che il disagio e tutti i suoi problemi dipendevano dal suo handicap mentale, ed era molto probabilmente questo il punto sul quale aveva insistito, assicurandogli che nell’altro mondo si sarebbe liberato facilmente di ogni peso.

Questo è il quadro che immagino Michio possa aver ideato apposta per il fratello, parlandogli della loro nuova vita: lui, Michio, in piedi e con le gambe perfettamente funzionanti, e Mūsan senza nessuna traccia della sua disabilità fisica e mentale, lì a conversare allegramente, felici di stare insieme. Mūsan finalmente in possesso della giusta autorità di fratello maggiore e Michio felice di sentirsi protetto e accudito, come si conviene al più piccolo. In realtà, a pensarci bene, questa inversione dei ruoli in base alla loro effettiva età è avvenuta sul serio, un attimo prima che si lanciassero dall’alto della scogliera, quando Mūsan si è lasciato cadere per primo e Michio lo ha seguito.

Venendo adesso a Marie, credo di poter affermare in tutta certezza che, a brevissima distanza dalla tragedia, aveva già fatto le sue scelte: mi avrebbe lasciato, avrebbe venduto la casa ereditata da sua madre e se ne sarebbe andata chissà dove, da sola, il più lontano possibile. Dopo aver sistemato le fotografie dei nostri ragazzi sull’altarino domestico – guardandole, l’una accanto all’altra, era possibile rilevare quanto il fratello intelligente e quello disabile si assomigliassero –, senza concedersi nemmeno un solo giorno di riposo all’indomani della cerimonia funebre, ha cominciato a radunare le sue cose. Sulle prime sembrava che quel suo lavoro non dovesse avere mai fine, ma poi è venuto il giorno in cui tutto era pronto, rinchiuso in un gran numero di scatole impilate nel soggiorno, in attesa degli addetti al trasloco, alle quali si sono presto aggiunti anche alcuni pezzi di mobilio che aveva deciso di portare con sé.

Eravamo ancora in piedi, a notte fonda. I suoi lineamenti marcati rendevano più evidente che mai la fatica sul suo volto. Ma gli occhi, come sempre, non avevano smesso di brillare. Dopo un pezzo che non apriva bocca, con voce bassa e fioca, mi ha detto: «Satchan, la nostra vita è stata un fallimento... non ci è rimasto più nulla, abbiamo perso tutte le cose belle che avevamo. D’ora in poi, continuando a stare insieme, tutte le volte che ci capiterebbe di vedere qualcosa di raro e bello, ci sentiremmo ancor più depressi, sapendo che Mūsan e Michio non sono più qui ad ammirarlo con noi... Non sono mai stata un’affezionata lettrice di Dostoevskij, ma un po’ di tempo fa mi è venuta in mente una frase pronunciata da un personaggio di un suo famoso romanzo e ho continuato a rimuginarci su. Ieri mi è capitato il libro tra le mani – eccolo, ce l’ho qui con me – e ho dato un’occhiata a quel passaggio. Si tratta della scena di Delitto e castigo in cui la povera Katerina Ivanovna, strillando e piangendo, porta i suoi figli in piazza a ballare e chiedere l’elemosina... Poco dopo, prima di morire, dice: “T’abbiamo spremuta, Sonja... (...) Fatemi andar giù, lasciatemi almeno morir tranquilla... (...) Dio mi deve perdonare lo stesso... Lo sa anche lui come ho sofferto!”. Ecco, anche io ho sofferto tanto ma, sebbene non mi resti nulla, non posso morire. Se io morissi, tu saresti l’unica persona al mondo in grado di ricordare veramente quanto Mūsan e Michio hanno sofferto, scegliendo di morire perché non vedevano intorno a loro altre vie d’uscita. E così ho deciso che vivrò fino alla fine dei miei giorni. Le parole di Katerina Ivanovna sono per me come una spina nel cuore, eppure riescono a darmi al contempo un certo coraggio...»

Ripensandoci adesso, mi viene quasi da ridere, ma in quel momento ero pressoché certo che Marie mi avrebbe guardato negli occhi e mi avrebbe detto: «Ti ho spremuto, Satchan...», facendomi trasecolare per lo stupore, e invece non ha aggiunto altro e ha riposto il tascabile di Dostoevskij nello scatolone dal quale lo aveva preso poco prima, restando per un po’ col capo inclinato da un lato.

«Devi proprio andare via?» le ho chiesto, con un filo di speranza nel cuore. «Capisco che tu voglia mettere in vendita questa casa, così piena di ricordi, ma non vedo perché dobbiamo separarci. Potremmo partire insieme e trovare un nuovo posto tutto per noi...»

«Mi dispiace, voglio stare da sola e provare a fare qualcosa che non ho mai fatto prima. E dopo che l’avrò fatto e saranno passati dieci anni o giù di lì, potrò finalmente “morir tranquilla”.»

«Se una donna come te, una donna che sa come tirar su dei figli e mette sempre tutta sé stessa in ogni cosa che fa... Sono serio, devi credermi... Se una donna così, ti dicevo, decide di imbarcarsi in un nuovo progetto, da sola, allora è evidente che si tratterà di qualcosa di straordinario e importante... Una grande opera... sì, un’opera umana, nel vero senso della parola.»

«Un’opera umana...»

Marie non ha proferito altra parola. È rimasta muta, e allora ho capito che non mi restava altro da fare che ritirarmi nella mia stanza (dormivamo separatamente) e mettermi a letto. L’indomani mattina, poco prima di partire, mi ha chiesto: «Come è potuto accadere? Come è possibile che Michio sia riuscito a parlare con Mūsan tanto da riuscire a convincerlo? I miei poveri bambini...». Ha emesso un gemito acuto ed è scoppiata in lacrime. Ma si è ripresa immediatamente e ha chiamato l’agente immobiliare per prendere un appuntamento. In quell’attimo preciso, ho avuto la netta sensazione che nella sua mente, da un momento all’altro, si fosse eretto un muro invalicabile tra la sua vita precedente e quella a venire.

4.

Mentre ricopiavo le lettere dell’ex marito di Marie, riordinandole e legandole in qualche modo insieme, provai a immaginare quell’uomo impegolato in una situazione senza sbocchi, impegnato per ore e ore a scrivermi «così da non diventare pazzo» – e prendo qui in prestito, distorcendone il significato, un verso del Macbeth. Gli scrittori, a volte, ricevono lettere del genere da persone che a stento conoscono. Tuttavia quelle di Satchan, ricorrendo al nomignolo utilizzato da Marie, non erano affatto lettere qualsiasi. Per un certo periodo, più o meno come afferma lo stesso Satchan a proposito della sua situazione, quando mi mettevo a riflettere su qualcosa, sovente mi ritrovavo a pensare al contenuto di quelle missive e allo scopo per cui probabilmente il suo autore le scriveva, senza volerlo.

D’altra parte, in quello stesso periodo, stavo attraversando anch’io un momento alquanto deprimente, da solo a Città del Messico. Fu esattamente mentre ero là che appresi, in un modo decisamente insolito, la notizia della tragedia di Mūsan e Michio. Facevo lezione una volta a settimana, così come da contratto, presso il Colegio de México, e il mio assistente, un rifugiato argentino, mi riferì che aveva ascoltato alla radio, in macchina, una notizia riguardante il Giappone: due fratelli, il maggiore affetto da un handicap mentale e il minore in sedia a rotelle, si erano suicidati in una località della penisola di Izu. Mi disse che non era stato menzionato alcun nome ma, sopraffatto da un dolore improvviso, giunsi immediatamente alla conclusione che doveva trattarsi dei figli di Marie.

La settimana seguente, mia moglie mi scrisse e mi mise al corrente dell’accaduto, e subito dopo, prima che avessi tempo e modo di inviare a Marie le mie condoglianze, mi spedì le lettere dell’ex marito. Tutt’a un tratto mi affiorò alla mente l’immagine di Mūsan in compagnia di sua nonna, all’ingresso della tenda nel parco di Sukiyabashi durante lo sciopero della fame, quella volta in cui erano venuti a prendere Marie per andare chissà dove. Lui era là, sorridente e tranquillo, come inondato da una pioggia di luce, in netto contrasto con la penombra del posto dove ero seduto io.

Mi sentii stringere in una morsa di terrore, mentre pensavo a quel ragazzo dall’aspetto calmo e composto che si suicidava insieme al fratello, paralizzato su una sedia a rotelle; nonché alla loro nonna, quell’anziana e raffinata signora che li aveva preceduti nella morte e si era angustiata per entrambi fino all’ultimo soffio di vita. Il terrore del tempo che scorre senza lasciarti scampo, di questo mondo che sembra sussurrarti: «Ricordati che non sei qui perché qualcuno ti ci ha mandato, nessuno ha davvero bisogno di te!» e che, dopo averti cancellato dalla faccia della terra in un solo colpo, continua ad andare avanti come se niente fosse. Le sensazioni e i pensieri ossessivi e opprimenti che spesse volte mi avevano assalito in gioventù erano tornati a terrorizzarmi, adesso che ero un uomo di mezza età in un paese straniero.

Il suicidio di quel ragazzo disabile mi riportò di colpo alla mente un ricordo spiacevole legato a mio figlio. Poco prima della mia partenza per il Messico, mia moglie, di solito sempre tutta d’un pezzo, aveva fatto ritorno quasi in lacrime dal check-up semestrale di Hikari. Nostro figlio se ne stava imbambolato in prossimità dell’ingresso, docile come un animale domestico. Stando alle parole di mia moglie, durante le visite all’ospedale, Hikari si era comportato malissimo, da vero demonio. Aveva opposto resistenza contro l’infermiera che aveva tentato di fargli il prelievo del sangue, tirando calci e pugni a destra e a manca. E quando poi avevano provato a fissargli gli elettrodi sul cranio per l’esame elettroencefalografico, si era dimenato come un ossesso e se li era strappati via. Alla fine, i medici erano stati costretti a desistere e a rinviare il check-up.

Negli ospedali, i bambini con un handicap mentale all’inizio vengono accolti molto calorosamente, eppure talvolta, per via di paure che non riescono a dominare, fanno di tutto per opporsi alle visite e alla terapia. In alcuni casi, la situazione risulta aggravata dal fatto che certi ragazzini sono dotati di un’energia fisica notevole, in grado di esprimere la forza di un ragazzo di diciotto o diciannove anni in piena salute. A quel punto, è ovvio, l’atteggiamento dei medici e degli infermieri cambia. E mentre il bambino è troppo occupato a combattere contro le sue paure per accorgersene, la povera madre, che guarda senza poter intervenire, è costretta a vivere momenti di pura agonia. Quella volta, come se non bastasse, dopo che il medico responsabile aveva deciso di sospendere il check-up, Hikari, sulla via del ritorno verso casa, era stato colto da uno dei suoi attacchi epilettici. Infine, quando mia moglie lo aveva aiutato a scendere dal treno passandogli il braccio intorno alla vita, lui, evidentemente ancora molto debole, era finito con un piede nello spazio tra il treno e la banchina, ed era stato necessario l’intervento di diversi passeggeri per tirarlo su.

Ancora in piedi all’ingresso, ad ascoltare rattristato il racconto di sua madre, Hikari chiamò disperatamente a raccolta tutte le sue forze e, facendo un solo passo in avanti, mormorò lentamente la parola: «Suicidio?...», quasi si fosse sentito schiacciato dalla vergogna al pensiero della futilità della sua esistenza. Quella parola inaspettata dovette suonare come un grave campanello d’allarme per mia moglie, la quale dimenticò in quattro e quattr’otto la prostrazione del momento e si avvicinò a Hikari per tirargli su il morale. Entro quella stessa sera, nostro figlio aveva ripreso ad ascoltare la sua adorata musica classica e a ridere e scherzare con sua sorella, più o meno come sempre.

Anche un ragazzino mentalmente disabile può avere una certa cognizione del suicidio, una cognizione tutt’altro che approssimativa. Nel rendermene conto, quel giorno in Messico si trasformò in uno dei ricordi più tristi e avvilenti della mia vita. Quando venni a sapere della morte di Mūsan, mi apparve subito in mente l’immagine di Hikari nell’attimo in cui aveva pronunciato la parola «suicidio», i suoi lineamenti e i suoi gesti sovrapposti a quelli dell’amico.

Prima di scrivere una dovuta lettera di condoglianze a Marie, provai a buttar giù con scarso successo una risposta alle missive del suo ex marito: un foglio bianco riempito solo parzialmente rimase a lungo sulla scrivania del mio appartamento a Città del Messico. Intanto, dopo aver riflettuto a lungo, giunsi alla seguente conclusione: la prima ragione per cui Satchan aveva deciso di scrivere proprio a me quelle lettere, ovvero a uno scrittore di professione (così come mi era già capitato altre volte in precedenza), giaceva nella volontà di dare una forma precisa a una serie di pensieri intricati come ciuffi di artemisia. Oltre a questo, però, doveva esserci anche qualcosa di più concreto, un intento nascosto che stava tentando di comunicarmi disperatamente. Essendo stato costretto a separarsi per la seconda volta dalla sua Marie, violentemente, per effetto del contraccolpo di quel tragico evento, forse stavolta Satchan non avrebbe avuto mai più la possibilità di tornare al suo fianco. Ciononostante, come era ovvio che fosse, aveva continuato a riflettere sulla morte dei loro figli e, con ogni probabilità, avrebbe voluto svelare a lei, più che a ogni altra persona al mondo, i suoi pensieri. Mandandomi tutte quelle lettere, non covava forse il desiderio segreto di farle leggere anche a Marie?

Rispedii l’intera corrispondenza di Satchan a mia moglie, per via aerea – viaggiando avanti e indietro, quelle pagine cariche di dolore e afflizione coprirono una distanza forse pari a circa un terzo del globo terrestre. Leggendole, mia moglie comprese al volo la situazione e in seguito mi scrisse che, quando Marie era andata a trovarla, le aveva tirate fuori e gliele aveva mostrate. Sulle prime Marie era apparsa esitante, ma alla fine le aveva lette tutte, una dopo l’altra, determinata a fronteggiare a testa alta il loro contenuto. Mia moglie precisò che, malgrado l’aspetto ancora stanco e stravolto, Marie mostrava già qualche segno di ripresa, soprattutto nella sua nuova volontà, quasi aggressiva, di prendere le cose come venivano e affrontarle di petto.

«Quando stavamo ancora insieme, verso la fine», le aveva confessato Marie, «è venuto un momento in cui mi sono sentita improvvisamente libera da tutti quei pensieri terribili, mi pareva di essere così leggera da essere sul punto di levitare e fluttuare nell’aria. Allora mi sono accorta ancor di più quanto Satchan stesse soffrendo, anche se in fondo stavamo attraversando una fase assai simile. Pensavo fosse inutile continuare a rimuginare sulle medesime cose e lasciarsi torturare dagli stessi pensieri, in quanto non sarebbe servito a trovare una via d’uscita. Ma d’altra parte, di fronte a una disgrazia del genere, il rimpianto e il dolore sono quasi tutto ciò che ti resta... Un “albero del veleno”: ecco in cosa si è trasformato tutto questo rimorso.»

Al Colegio de México avevo un collega inglese – un economista di mezza età abbastanza corpulento, dal viso rubicondo e gli occhi di un azzurro malinconico – il quale aveva trascorso gli ultimi venti anni nel Nord e nel Sud America ma era molto ferrato nella letteratura del suo paese d’origine. Non appena ebbi occasione di menzionargli l’«albero del veleno», lui mi citò a memoria alcuni versi di un dramma di Coleridge, Rimorso, colpendomi molto per la sua straordinaria erudizione. Rimasi però molto incerto riguardo al tipo di tristezza che quest’uomo, lì per insegnare storia del pensiero economico classico a studenti stranieri del dottorato (si trattava perlopiù di giovani rifugiati politici), aveva voluto esprimere mentre citava i foschi versi di Coleridge. E allora preferii non indagare oltre e interrompere la nostra conversazione nella mensa dell’università, altrimenti avrei rischiato di riportare a galla chissà quale altra miseria umana, in un periodo in cui ero già afflitto dalla vicenda della povera Marie...

Il rimorso è come il cuore, in cui cresce:
se quello è gentile, stillerà una dolce rugiada
di vero pentimento; ma se è cupo e superbo,
sarà un albero del veleno, che trafitto nell’intimo
piangerà solo lacrime velenose!

“Deve esserci un albero del veleno enorme, cresciuto a più non posso, nel cuore di Marie e anche in quello di Satchan”, pensai quel giorno, mentre facevo ritorno al mio alloggio, passando accanto ad alcune costruzioni dai cui muri grondavano cascate di buganvillea in fiore, sotto la luce pallida e dorata del tramonto di Città del Messico. Quella sera, prima di accorgermi che l’albero del veleno stava estendendo i suoi rami nel mio cuore, e intanto che traducevo i versi di Coleridge, mi consolai bevendo oltre il dovuto un buon vino rosso della Baja California.

In quel periodo, Marie passava diverso tempo in compagnia di mia moglie, da sola a Tokyo con i nostri figli. Nelle sue lettere, la mia consorte si dichiarava spesso incapace di offrire il giusto conforto a Marie, la quale invece, a suo dire, le dava sempre una mano aiutandola nelle faccende domestiche e in altre piccole cose. Inoltre, quando Hikari aveva cominciato ad avere una nuova serie di attacchi epilettici, più gravi che in precedenza, era stata lei, Marie, ad accompagnarlo più volte in macchina all’ospedale universitario per le visite necessarie.

E così, insieme alla lettera di condoglianze, adesso dovevo esprimerle anche i miei più sentiti ringraziamenti per l’aiuto che stava dando alla mia famiglia. Il pensiero di quel compito tutt’altro che agevole mi ossessionò per diversi giorni, finché, per puro caso, mi imbattei in una bellissima lettera che Francis Scott Fitzgerald scrisse a una coppia che aveva conosciuto in gioventù nel Sud della Francia, due cari amici che da poco avevano perduto due dei loro figli, a un paio di anni di distanza l’uno dall’altro. Tradussi la lettera per Marie – non che fosse necessario, dal momento che il suo inglese era di gran lunga migliore del mio, ma semplicemente perché in quel modo sentivo che almeno in parte le stavo scrivendo anche una mia lettera.

Carissimi Gerald e Sara,

oggi mi è arrivato il telegramma e sono stato triste per tutto il pomeriggio, pensando a voi, al passato e ai momenti felici trascorsi insieme. Un altro vincolo che vi teneva legati a questa vita è stato spezzato, con una crudeltà talmente insensata che risulta difficile dire quale dei due colpi sia stato concepito con maggiore malizia. Riesco a percepire il silenzio che incombe su di voi dopo questi sette anni di dura lotta, e sarebbero necessarie parole come quelle di Lincoln nella lettera a quella madre che aveva perduto quattro figli in battaglia per scrivervi qualcosa di adeguato a questo momento. La compassione che riuscirete a ottenere sarà quella che avete già ottenuto l’uno dall’altra, e per molto e molto tempo ancora sarete inconsolabili.

Tuttavia riesco a vedere un’altra generazione crescere grazie a Honoria e ai suoi amici, e una nuova e definitiva pace stabilirsi in qualche posto, chissà dove, mentre alla fine noialtri salperemo verso la morte. Il destino non può più avere nella sua faretra frecce in grado di ferirvi come queste. Qualcuno ha detto che è sbalorditivo come anche i dolori più profondi della vita possono col tempo tramutarsi in una sorta di gioia. Sì, la coppa d’oro si è rotta, ma era d’oro, innegabilmente. E adesso niente e nessuno potrà mai portare quei ragazzi lontano da voi.

Scott

Riscrissi la lettera in bella copia (ora ho qui davanti a me la brutta della mia traduzione) e, dopo aver aggiunto un breve messaggio, a mo’ di nota a fondo pagina, la spedii a mia moglie pregandola di consegnarla a Marie. Mi ricordo di averle scritto che non credevo affatto che ciò che Fitzgerald aveva menzionato a proposito della sofferenza, che può «col tempo tramutarsi in una sorta di gioia», potesse considerarsi valido anche per lei e Satchan. Nemmeno se fossero passati cento anni, perché per loro non era una questione di «dolori più profondi della vita»... C’era quell’albero, l’«albero del veleno», che aveva messo le sue radici nei loro cuori.

Aggiunsi anche le seguenti parole:

Trovandomi qui in Messico, da solo, sono rimasto sconvolto nel ricevere una telefonata da Tokyo in cui mi si diceva che Hikari aveva avuto l’ennesimo attacco e aveva perduto temporaneamente la vista. In quell’attimo preciso, il mio cuore è volato subito da lui, e anche se non gli sarà facile dover sopportare questo ulteriore fardello, saperlo vivo basta a rassicurarmi e a darmi la forza di andare avanti. Mi dispiace infinitamente che anche tu non possa beneficiare di una simile consolazione, avendo perso Michio e Mūsan.

In una sua lettera, mia moglie mi informò che Marie era passata da lei proprio quando si accingeva a spedirle la mia missiva per posta e pertanto era riuscita a consegnargliela a mano. Come già in precedenza, sulle prime Marie si era mostrata titubante, poi l’aveva aperta davanti a lei e l’aveva letta. Infine aveva commentato, in tono schietto e sincero: «Se non fosse stato per quell’ultima frase, non sarei mai riuscita a comprendere cosa stava tentando di dirmi. Poverino, tuo marito si sta angustiando molto per quello che ci è capitato, tutto solo in Messico. Peccato, è così lontano, e non può fare nulla di concreto per farci sentire il suo appoggio morale».

Leggendo queste parole nella lettera di mia moglie, mi resi conto che ciò che Marie voleva dire coincideva con alcuni dei miei pensieri, anche se in generale non sembravamo pensarla esattamente allo stesso modo. Andavo al Colegio una sola volta alla settimana, e trascorrevo i restanti sei giorni nel mio appartamento, ascoltando i vicini parlare sempre e soltanto in spagnolo e riuscendo a captare il significato di appena un paio di parole, di tanto in tanto, senza mai incontrare nessuno. La notizia del grave attacco epilettico occorso a mio figlio, giunta proprio mentre passavo le mie giornate come un eremita, non fece altro che acuire il mio dolore. Lontano da Tokyo, a Città del Messico, non potevo fare nulla per lui, e i miei pensieri non smettevano mai di angosciarmi, soprattutto nel cuore della notte, quando venivo colto da un’insonnia invincibile. Eppure, quasi fosse un sogno a occhi aperti, talvolta riuscivo a intravedere un bagliore di speranza e pensavo: “Se solo questo immenso dolore che non mi concede tregua potesse almeno, grazie a una sorta di potere empatico, dargli il coraggio di andare avanti...”.

Un giorno mi recai in una libreria specializzata in testi stranieri nella zona centrale di Città del Messico, dalle parti dell’incrocio tra il Paseo de la Reforma e l’Avenida de los Insurgentes (quest’ultimo lunghissimo viale percorre buona parte della città; il mio appartamento era situato in prossimità della sua estremità settentrionale), per comprare tutto ciò che era disponibile di e su Flannery O’Connor, la scrittrice di cui Marie era esperta: romanzi, antologie di racconti, raccolte epistolari, monografie critiche e quant’altro. La commessa, una messicana altezzosa dai capelli biondi che dava l’impressione di non avere molto sangue del nuovo mondo nelle sue vene, si mostrò abbastanza contrariata dalla mia richiesta, dicendomi, in un inglese dall’accento molto forte e in tono quasi di rimprovero: «Solitamente di questa scrittrice vendiamo poco o nulla. Però, una volta ogni tanto, arriva qualcuno come lei, señor, e compra tutto quello che abbiamo. Ora saremo costretti a fare un riordino. Nessuno può sapere quando si presenterà il prossimo cliente in cerca dei suoi libri, dobbiamo tenerci sempre pronti, perché abbiamo una reputazione da difendere!».

Tornai subito al mio alloggio e cominciai a leggere uno dei libri appena acquistati, ma rimasi molto colpito da un passaggio dell’introduzione e mi fermai a riflettere. In quel brano si faceva riferimento al lupus, la malattia incurabile che la O’Connor aveva contratto in gioventù (solo dopo il mio ritorno in Giappone fui capace di tradurre quel termine esotico nella mia lingua e apprendere il nome della malattia per esteso: lupus eritematoso sistemico). Questo triste particolare della biografia dell’autrice, in aggiunta a un’energia insolita che trasudava dalle sue opere, evocava in me un’immagine troppo crudele e toccante della povera Marie, immersa da anni nello studio di quel mondo emotivamente molto coinvolgente che non offriva vie di scampo. Senza la protezione dell’incrollabile fede cristiana della O’Connor, Marie era nuda e indifesa, completamente esposta al mondo della scrittrice, caratterizzato da una profonda e furiosa inquietudine.

A giudicare dalle sue lettere, Flannery O’Connor era una donna molto saggia che aveva saputo accettare la sofferenza fisica con freddo distacco. Un senso dello humour franco e diretto, con ogni probabilità scaturito da un lato del suo carattere che aveva ben poco a che fare con la fede religiosa, rendeva la sua corrispondenza allegra e brillante, perlomeno a tratti. Eppure pensai che perfino quell’elemento faceto, simile a un sole troppo forte e abbagliante, avrebbe fatto tutt’altro che bene a Marie in quel periodo oscuro della sua vita. Volendo paragonare la disgrazia di Izukōgen al lupus, le sue vittime dirette erano indubbiamente Mūsan e Michio. Ora, considerando che per fronteggiare nel migliore dei modi il lupus occorreva reagire con grande coraggio, cosa poteva fare Marie per porsi nella giusta direzione?

Alla fine decisi di abbandonare la lettura dei libri della O’Connor, almeno per il momento, e dedicarmi a Il colombo d’argento di Andrej Belyj, volume facente parte di una serie dedicata agli autori russi del primo Novecento che avevo acquistato in quella stessa libreria nel centro di Città del Messico. Venni assorbito immediatamente dalla lettura di quel romanzo. Russia: alla vigilia della rivoluzione, l’energia esplosiva delle masse contadine, sebbene ancora priva di una direzione precisa, scuote pericolosamente le fondamenta della fede ortodossa; nel pieno di questa crisi il giovane protagonista, animato da grandi sogni e passioni, si sposta dalla città alla campagna; Matrjona, rozza e sensuale serva dal viso butterato, lo seduce e lo attira nella setta di cui fa parte. Il fascino che questa donna esercitava su di me, intanto che leggevo avidamente una pagina dopo l’altra, era così forte da colpirmi in profondità, dritto allo stomaco.

Quando mi addormentai, dopo aver letto praticamente fino all’alba e sotto l’influenza evidente del romanzo di Belyj, feci un sogno incredibilmente erotico, al punto che sarebbe stato molto difficile trascriverlo integralmente nel diario, molto essenziale, che tenevo in quei giorni in Messico. All’epoca avevo passato i quarant’anni, ma era la prima volta che mi allontanavo da casa per un periodo di oltre tre mesi dopo il matrimonio. La protagonista del sogno era Marie: aveva i capelli ancora bagnati dopo aver nuotato nella piscina del club sportivo. Il suo viso, dai lineamenti troppo marcati per essere quelli di una giovane donna, era vistosamente butterato – particolare, quest’ultimo, che non appariva affatto fuori posto. Senza una ragione precisa, sapevo che quelle piccole cicatrici erano un segno lasciato dalla perdita di Mūsan e Michio. Le conferivano una sensualità oscena molto ruvida e primitiva, rara a vedersi. E i suoi occhi brillavano intensamente, evidenziando una volontà ferrea, davvero fuori del comune. Belyj aveva scritto (rilessi attentamente il romanzo nella traduzione giapponese di Kawabata Kaori, dopo il mio rientro in patria) che il viso butterato di Matrjona, sensuale fino al punto da essere volgare, sembrava piangere al pari di «lamentose cornamuse» ed emanare una «luce come di limpido zaffiro», ogniqualvolta sussurrava parole d’amore al giovane protagonista.

Nel sogno, il suono del nome di Marie era stranamente simile a quello di Matrjona. Era seduta su una sedia pieghevole di plastica nera, con le cosce accavallate, completamente nuda dalla vita in giù e con una veste di un tessuto sottile appoggiata sulle spalle che lasciava scoperti i seni alla Betty Boop. Io ero lì, in piedi davanti a lei, ma a un livello più basso, così che la mia testa era grossomodo all’altezza delle sue ginocchia. Mi guardava dall’alto, come fossi un bambino. Doveva dirmi qualcosa, e io dovevo limitarmi ad ascoltarla tranquillo e in silenzio. Anche volendo, il suo sorriso sprezzante mi impediva di parlare, perché sembrava manifestare a priori la consapevolezza che ogni mia eventuale replica sarebbe stata sciocca e puerile.

La coscia accavallata era posta così in alto che sarebbe stato ovvio intravedere il sesso, se non fosse stato per una sorta di coda luciferina che occultava l’intera parte – in realtà si trattava di una folta peluria pubica, madida e nera come l’inchiostro, arricciata tutt’intorno. Era stata indubbiamente Matrjona, la tentatrice, a inculcare in me quell’immagine. Ma allo stesso tempo c’entrava qualcosa anche Marie, quella volta in cui ci eravamo incrociati in piscina nuotando e io, guardando le sue gambe muoversi ritmicamente sott’acqua, avevo scorto i suoi peli pubici nerissimi spuntare fuori dal costume...

«Dio, o se preferisci la “volontà cosmica”», mi diceva Marie nel sogno, aprendo e chiudendo le sue labbra appariscenti alla Betty Boop, «mi ha portato via i miei due poveri figli. E lo ha fatto nel peggiore dei modi, atrocemente. Ha lasciato accadere tutto come se fossero stati loro a decidere di morire, di propria spontanea volontà. Ma erano così giovani, come avrebbero potuto stabilire di andarsene all’altro mondo da soli, senza essere istigati? Dio ha pianificato tutto fin nei minimi particolari, decidendo la loro sorte, e perciò voglio fargliela pagare! Tutti dicono che lui agisce sempre nel nome del “Bene”, no? E allora io farò il suo esatto opposto e agirò solo e unicamente nel nome del “Male”. Ecco perché mi sono vestita così, quest’oggi, tanto per cominciare... Eppure, sfortunatamente, le cose non sembrano andare troppo bene.

«Non ho mai pensato, nemmeno una sola volta, all’handicap di Mūsan come a qualcosa di cattivo inflitto alla mia persona. L’ho sempre considerato un “incidente”, una pura e semplice casualità. Mūsan ascoltava spesso Mozart disteso sul tappeto del soggiorno, e io mi sedevo lì sul divano a osservarlo in silenzio. Era soprattutto in momenti come quelli che riflettevo e mi dicevo che forse, a poco a poco, ci stavamo riprendendo dall’“incidente”. Inoltre, quando Michio ha avuto il suo incidente ed è tornato da noi sulla sedia a rotelle, si è sempre mostrato molto gentile nei miei confronti. Anche quando era giù di morale e la disperazione si impadroniva di lui rendendolo irascibile, bastava che rimanessimo un po’ da soli, noi due, e si rimetteva subito in sesto. Credo che ormai anche Michio e io ci stavamo riprendendo dal suo terribile incidente.

«Poi, però, mi sono stati portati via, entrambi. Non c’è modo di riprendersi da una disgrazia del genere. È il male, il male nella sua pura essenza, e io sono quella che lo ha subìto. Potrebbe sembrare che siano stati solo loro, i miei figli, a subirlo, ma in realtà nessuno lo ha patito come me, la loro madre, sopravvissuta e costretta a soffrire. Ecco perché ho deciso di fare qualcosa di mio, una grande “opera”, una cosa che sia abbastanza eclatante da consentirmi di mettere in atto la mia vendetta contro il male che mi è stato inflitto. Il problema è che il mondo in cui viviamo fisicamente» (Marie, nel sogno, dava l’impressione di aver già varcato la soglia tra questo e l’altro mondo, malgrado l’estrema sensualità che la sua figura emanava: sembrava una strega travestita da Betty Boop!) «non offre molte possibilità per realizzare un’opera davvero malvagia. Potrei, ad esempio, sedurre un paio di uomini e poi piantarli in asso, spezzando loro il cuore fino a farli crepare, sebbene al giorno d’oggi non sia una cosa facile da immaginare. Soffrirebbero da morire anche i loro familiari, questo è ovvio, ma non potrei fare nulla di più, non ci sarebbe alcun modo per spingermi oltre.

«Il peggior male che noi esseri umani possiamo commettere è un crimine per il quale saremmo arrestati e ci darebbero la pena di morte, no? Mettiamo per esempio che io facessi una certa quantità di male, che chiameremo a, e che mi condannassero alla pena capitale, che chiameremo a1. Ora, se a e a1 risultassero pressoché equivalenti, la gente dovrebbe essere più o meno soddisfatta, o almeno credo. Come la mettiamo, però, se la mia quantità di male dovesse risultare di gran lunga superiore al peso della pena capitale, ovvero se a1? Il giudice e il boia, in un caso del genere, potrebbero dichiararsi addirittura poco propensi ad ammazzarmi. E d’altra parte non potrebbero di certo infliggermi la pena di morte a ripetizione e uccidermi svariate volte, fino a che la nostra equazione non assumesse il giusto verso, ossia: a1 + a2 + a3... Quello che sto cercando di dire è che, se anche facessi le cose più terribili di cui potrei essere capace, la quantità di male da me commessa non sarebbe mai uguale a quella generata dal modo orribile in cui i miei due figli mi sono stati portati via.

«Cosa potrei fare, dunque, nella mia condizione attuale, per restituire a Dio, o a chi per esso, il male che mi è stato inflitto? Il solo immaginare un male che possa essere abbastanza grande è come andare a caccia di nuvole... Ma non voglio rassegnarmi, andrò avanti, finché non troverò la soluzione più adeguata. Per il momento mi accontenterò di provare, pian piano, elaborando a poco a poco la mia grande “opera”. Quanto a te, mio caro K., fino a quando te ne starai nascosto qui, in Messico? Faresti meglio a tornare e ad affrontare i tuoi problemi. Se vuoi, potrei stuzzicarti un po’ con il mio forcone, credo ti piacerebbe, sai?»

Dopo aver terminato il suo lungo discorso, restando seduta, Marie si era girata fino a darmi le spalle, stringendo lo schienale della sedia con le cosce spalancate e, sollevando il sedere all’insù, a mostrare la coda scura di peli pubici allungarsi sulla sua pelle immacolata, candida fino al sesso. Poi si era librata a mezz’aria, molto adagio, ed era volata via scomparendo tra le mille luci del cielo notturno della città.

Quando riaprii gli occhi, oltre le tende da quattro soldi del mio appartamento, il mattino messicano, fosco e malinconico, era già cominciato: mi sentivo preda di una tristezza indicibile, e avevo un’erezione tremenda, come se di colpo fossi tornato diciottenne, ma non sapevo assolutamente cosa fare. Senonché, giusto in quel momento, mi parve di sentire un grido dal cielo dove la strega del sogno era svanita, il grido sovrumano che Marie aveva emesso al commissariato di Itō alla vista dei corpi senza vita di Mūsan e Michio, così come descritto in una delle lettere del suo ex marito, «potente e straziante al punto da far vibrare tutto l’edificio». E fu così che, appena un attimo dopo, l’immagine erotica di Betty Boop si dissolse all’istante dalla mia mente.

5.

Marie venne da noi una domenica di fine anno, subito dopo il mio ritorno dal Messico. Quando, poco prima, avevo sentito mia moglie spiegarle al telefono che ero arrivato da appena due giorni ed ero molto stanco per via del fuso orario, avevo insistito perché venisse lo stesso. Ultimamente veniva a casa nostra quasi ogni domenica, per dare lezioni di piano e composizione a Hikari. Nostro figlio studiava musica da circa tre anni, con la moglie di un redattore di una casa editrice (un mio vecchio amico), la quale però l’estate precedente aveva dovuto recarsi a Vienna per frequentare un corso di aggiornamento, al che Marie l’aveva sostituita seguendo suppergiù lo stesso metodo d’insegnamento.

Dopo la disgrazia, Marie aveva lasciato il suo incarico all’università femminile. Pensando che un’incombenza più o meno regolare l’avrebbe aiutata a distrarsi, mia moglie le aveva dapprima chiesto di insegnare un po’ di inglese a nostra figlia e al nostro figlio più piccolo, i quali purtroppo avevano mostrato scarso impegno e interesse. A quel punto, poverina, mia moglie si era sentita abbastanza avvilita, avendo coinvolto Marie e non sapendo più cos’altro fare, ben consapevole del suo pessimo stato fisico e mentale. Fortunatamente, mentre osservava i suoi fratelli monopolizzare l’attenzione della loro bella insegnante nelle ore dedicate allo studio dell’inglese, Hikari aveva sviluppato un particolare senso di competizione e pur di farsi notare si impegnava come non mai nei suoi esercizi musicali. Quanto a Marie, colpita dalla sua straordinaria diligenza soprattutto in materia di armonia e composizione, a un certo punto si era offerta di aiutarlo.

Marie aveva frequentato una scuola media privata ben nota per l’istruzione musicale e avrebbe voluto continuare a studiare musica anche al liceo. Tuttavia, quando a suo nonno era venuto in mente di estendere il giro di affari della sua azienda negli Stati Uniti e aveva dato al figlio l’incarico di dirigere le operazioni, lei era stata costretta a trasferirsi in un liceo di New York, e così aveva dovuto dedicare molto tempo all’apprendimento della lingua e non aveva potuto proseguire nello studio del pianoforte. Memore di questa esperienza, non appena era venuta a sapere che Hikari sarebbe stato obbligato a sospendere le lezioni di musica per qualche tempo, aveva fatto in modo di incontrare la sua insegnante, già molto occupata con i preparativi in vista del viaggio all’estero, e aveva preso accordi per sostituirla durante la sua assenza. Così Hikari aveva potuto continuare le lezioni di musica, che costituivano la principale fonte di gioia della sua vita, e al tempo stesso i suoi fratelli erano riusciti a sottrarsi al peso dell’inglese.

Marie era dolcissima e gli parlava per tutto il tempo con infinita pazienza, mentre lui scriveva le sue semplici melodie e aggiungeva le armonie segnando adagio le note sul pentagramma, sottili e allungate, così simili a germogli di soia. Le dita di Hikari, per via del suo handicap, erano prive della scioltezza necessaria per suonare abilmente il piano, e dunque era lei che si incaricava di fargli ascoltare le nuove melodie che scriveva, non smettendo mai di incoraggiarlo.

Quella domenica, quando mi svegliai sul tardi e scesi al piano di sotto, Marie e Hikari erano concentrati nella loro lezione di musica. Senza dire una sola parola a Marie, mi diressi subito verso i bagagli che avevo portato dal Messico – avevo cominciato a disfarli fin dal mio ritorno, un po’ per volta, ma non avevo ancora finito. Dopo tutto quello che era successo, sentivo che nessuna parola di saluto sarebbe stata appropriata.

I miei studenti messicani mi avevano regalato uno di quei quadri di filo su legno degli indiani Huichol. Per farlo entrare in valigia ero riuscito in qualche modo a piegarlo in due, e adesso stavo provando a riportarlo allo stato originale. Mentre ero lì a tentare di risistemare al meglio i fili che si erano allentati nella piegatura, la lezione di musica giunse al termine e Marie, evitando gli imbarazzanti saluti preliminari esattamente come avevo fatto io, mi si avvicinò e disse: «Che bei colori, sono molto... psichedelici, usando una parola che era in voga qualche anno fa. Ai nostri occhi queste cose appaiono assolutamente nuove e originali, ma in realtà in Messico e in altri posti del Sud America esistono da un pezzo, fin dai tempi antichi».

«Ho sentito dire che se si osservano questi quadri dopo aver assunto una droga leggera, tipo quelle psichedeliche degli hippies, questi gialli, questi verdi e questi rossi ti permettono di avere delle visioni incredibili.»

«Se non sbaglio, gli Huichol sono soliti andare su certe alture per procurarsi una specie di cactus in grado di generare effetti del genere. Si tratta di una sorta di viaggio iniziatico. Una volta, alla televisione, ho visto un documentario che ne parlava. A proposito, K., in Messico hai perso un bel po’ di chili, o sbaglio? Il tuo viaggio iniziatico deve averti segnato in profondità.»

«L’altro giorno Hikari ha esclamato: “Papà, sei diventato uno scheletro!”» si inserì mia moglie. Al che nostro figlio – si accorge sempre quando si parla di lui – mi rivolse un ampio sorriso mentre era accanto al pianoforte, intento a riordinare i suoi spartiti e gli altri oggetti che utilizzava durante le lezioni di musica.

Poi, per la prima volta, mi soffermai a osservare Marie e notai che anche lei era dimagrita moltissimo, come se la «maschera butterata» di quel sogno che avevo fatto in Messico le fosse stata rimossa di colpo dal volto, lasciando spiccare i suoi occhi limpidi e brillanti di sempre, ma rivelando al contempo un viso scurito dal sole e oltremodo teso. Senza fare la minima allusione alla tragedia di Izukōgen, cominciò a rivolgermi una serie di domande sul mio soggiorno in Messico. Mi disse che aveva sempre sognato di andarci, fin da quando frequentava il liceo a New York e aveva scelto di studiare lo spagnolo. La sola cosa che mi rivelò sulla sua vita presente riguardava il fatto che si era unita a un piccolo gruppo di studio presso una chiesa cattolica. In realtà c’erano due gruppi, uno riservato alle persone anziane e l’altro ai giovani, e lei, avendo un’età grossomodo intermedia, aveva optato per il secondo. A confronto con le altre donne coinvolte, il cui scopo era avvicinarsi alla fede – studiare, in altre parole, per confermare l’esistenza di Dio –, Marie era decisamente diversa, lì per tutt’altra ragione, anche se in apparenza poteva sembrare non esserci una grande differenza...

«Ho continuato a leggere e studiare Flannery O’Connor per tutti questi anni, senza mai prendere in considerazione il problema dell’esistenza di Dio. D’altra parte i suoi romanzi si prestano anche a una lettura laica, completamente scevra da implicazioni relative alla fede. Ma adesso è diverso, e sento il bisogno di esperire in prima persona il “mistero”, voglio sapere com’è, cosa si prova. Non pretendo di andare chissà quanto in profondità, mi basterà anche solo sfiorarlo, in modo da poter dire: “Ah, dunque era questo il ‘mistero’, finalmente so anch’io di cosa si tratta”, per poi tornare dove sono sempre stata. Resterò di là soltanto quel che serve per acquisire una minima consapevolezza in materia. Sono molto curiosa, mi sento quasi come un’intrusa, una spia. Povero prete, costretto a guidare un’atea, una indomabile ribelle.»

«Al tuo posto non mi preoccuperei più di tanto, i preti sono abituati a persone come te. Quando qui in Giappone, al principio del periodo Meiji,*furono costruite diverse chiese e la religione cristiana era ancora proibita, una certa percentuale dei fedeli era costituita da “spie” buddhiste della scuola Nichiren. Certo, era oltre un secolo fa...»

«Però a volte», si inserì di nuovo mia moglie, «ci sono persone che cominciano in questo modo e poi, dopo aver seguito il prete di turno per un po’, diventano credenti, o sbaglio?»

«Se una cosa del genere dovesse accadere a me», commentò Marie, «ho paura che tutto si farebbe ancor più complicato. Dovrò stare molto attenta a non abbassare troppo la guardia.»

L’espressione emersa sul suo volto, mentre era lì in piedi a fissare il quadro degli indiani Huichol, lasciava intendere che non aveva più alcuna voglia di continuare la conversazione. Sembrava essersi persa in qualche sentiero oscuro e intricato dentro di sé. Quando si girò e si diresse verso la porta, né mia moglie né io potemmo fare molto di più che guardarla andar via in silenzio. Solo Hikari fu capace di rivolgerle poche affettuose parole di arrivederci, forse nel tentativo di alleggerire l’atmosfera cupa che tutt’a un tratto aveva preso il sopravvento su di noi.

Mi ero fatto alcune idee su ciò che Marie aveva voluto dire facendo riferimento alla parola «mistero», poiché in Messico, qualche tempo dopo quello strano sogno, avevo riletto, e in certi casi letto ex novo, alcuni saggi della O’Connor sull’argomento. Purtroppo la mia copia di Mistery and Manners,* insieme a gran parte dei libri acquistati laggiù, stava in quel momento attraversando il Pacifico, e perciò non ebbi modo di salire nel mio studio al piano di sopra e controllare i punti dubbiosi. Tuttavia, il concetto del romanzo come descrizione concreta di maniere e convenzioni attraverso le quali vengono rivelati momenti di una visione trascendente era per fortuna uno di quelli che mi erano ben chiari e non necessitavano di un’ulteriore verifica.

Flannery O’Connor asseriva che soltanto se si è in grado di riconoscere il bene si può essere capaci di riconoscere chiaramente anche il male. E il pensiero di questa giovane scrittrice, abbandonata dal bene e impegnata nella dura lotta contro una malattia spietata, aveva subito suscitato in me uno straordinario rispetto nei suoi confronti. Forse Marie aveva difficoltà a capire dov’era il male proprio perché aveva perduto il bene più grande della sua vita, ovvero i suoi figli. E probabilmente non poteva esserle d’aiuto nemmeno l’eventuale e disperato tentativo di percepire il «mistero» nell’immagine di Mūsan lanciatosi dalla scogliera assumendo la medesima posizione di un ragazzino condotto dal ghetto di Varsavia verso una camera a gas, con Michio alle sue spalle in sedia a rotelle pronto a seguirlo. Si trattava solo di pensieri sparsi, che mi attraversavano la mente senza alcun nesso logico, l’uno dopo l’altro. E con la mia scarsa conoscenza ed esperienza in campo religioso, ero ancora lì a brancolare nel buio. Diciamo che avevo semplicemente iniziato a cogliere qualche piccolo e vago suggerimento dalla scrittrice preferita di Marie.

La domenica successiva, grazie alla mediazione concessa dal mio lavoro di scrittore, ebbi la possibilità di parlare con Marie di ciò che era accaduto ai suoi figli, dopo la lezione di musica di Hikari. Quella stessa mattina, un tizio sulla trentina, da lei definito un «giornalista freelance», si era presentato a casa sua e le aveva dato non poco filo da torcere. Come Marie riferì a me e a mia moglie, in un tono che denunciava ancora una certa agitazione, la cosa aveva preso subito una brutta piega. Senza rivelare con quale testata collaborava, il giornalista si era limitato a dirle che stava preparando un articolo sulla disgrazia della penisola di Izu – a proposito, Marie vi si riferiva usando solo le espressioni «il mio fatto» o «quel fatto» – e che voleva intervistarla. Tutto questo aveva dato vita a ciò che, soprattutto dal punto di vista di Marie, poteva definirsi come un deprimente e lungo battibecco sull’uscio di casa (fortunatamente, la porta era stata aperta senza togliere la catenella di sicurezza).

Marie aveva cominciato col dirgli che stava attraversando un brutto periodo, ancora sotto shock per «quel fatto». Aveva evitato di dire che non voleva parlarne perché stava cercando di dimenticarsene – si trattava di qualcosa che le sarebbe rimasto impresso a fuoco nella memoria per tutta la vita – e aveva preferito palesargli la pura verità: non voleva discuterne con qualcuno che non aveva mai visto prima e per giunta rischiare di dover rileggere le sue stesse parole in qualche rivista. Aveva protestato dicendo che non avrebbe potuto ricavare alcun bene dall’ennesimo articolo sulla vicenda. Ignorando le sue parole, il giornalista aveva continuato a insistere suscitando ancor di più la sua indignazione, affermando che le fotografie pubblicate nei settimanali all’indomani della tragedia erano «molto tetre» e sarebbe stato il caso di dargliene qualcuna che raffigurava lei e i suoi figli nei «giorni in cui erano felici».

Quando Marie aveva opposto un netto rifiuto (intanto il tizio stava registrando tutto, senza aver chiesto il permesso), lui aveva replicato in tono allarmato, avvertendola che i lettori, leggendo un pezzo basato unicamente su quella breve conversazione, ne avrebbero ricavato l’impressione di «una madre emotivamente instabile e prepotente». E aveva anche aggiunto che, riguardo alle fotografie, avrebbe potuto procurarsene a iosa facendo semplicemente il giro delle case dei compagni di classe di Mūsan e Michio, per cui conveniva che fosse lei a offrirgli quelle che riteneva più adeguate.

Poi Marie gli aveva chiesto quale significato potesse mai avere un articolo del genere e se fosse davvero necessario, e il giornalista aveva risposto, sostenendo di essere un esperto in materia di problemi dell’educazione, che il suo scopo principale era mostrare l’inferno in cui i nostri ragazzi precipitavano mentre il sistema educativo giapponese continuava ad andare in rovina. Nel pomeriggio, uscendo per venire da noi, Marie aveva trovato un suo libro sull’argomento nella buca delle lettere.

«Non puoi fare niente», mi chiese mia moglie, non appena Marie ebbe terminato il suo racconto, «per evitare che l’articolo venga pubblicato?»

«Temo proprio di no», risposi, sentendomi deluso e impotente, «anche se si riuscisse a sapere qual è la rivista che ha in programma di pubblicarlo.»

«Invece di tutti questi articoli inutili», disse Marie, sospirando sconsolata, «mi piacerebbe leggere un buon romanzo con qualche personaggio che abbia avuto un’esperienza simile alla mia. È un po’ di tempo che ci penso, ma non mi è venuto in mente nulla. Tu hai qualche suggerimento?» mi chiese.

«Per quanto riguarda la letteratura inglese, naturalmente ne sai molto più di me, però c’è un romanzo francese che potrebbe fare al caso tuo: Il curato del villaggio di Balzac. In realtà ci avevo già pensato mentre ero in Messico...»

«In Messico hai riflettuto molto su “quel fatto”, vero? A ogni modo, se hai una traduzione in giapponese, mi farebbe piacere leggerla.»

Dopo essere tornato con il volume in questione, che faceva parte di una raccolta completa delle opere di Balzac, raccontai a Marie e a mia moglie la trama. A Città del Messico mi ero procurato un’edizione tascabile di quel romanzo e lo avevo riletto a distanza di circa vent’anni – la mia prima lettura risaliva all’epoca in cui ero ancora uno studente universitario –, per cui me ne ricordavo molto bene la storia.

Limoges, agli inizi del XIX secolo. Un uomo che ha fatto fortuna occupandosi della compravendita di rottami e scarti di ferro sposa una donna di basso ceto molto gagliarda e cafona, come dimostra il suo collo massiccio. Dal loro matrimonio nasce una bambina bella e bionda, conosciuta in tutto il vicinato come la «piccola Vergine». Sfortunatamente, all’età di undici anni, la ragazzina contrae il vaiolo e perde la sua bellezza. (Mentre raccontavo questa parte della trama, mi resi conto per la prima volta che il viso di Marie nel mio sogno in Messico, così simile a una maschera di gomma costellata di piccoli buchi, era stato evocato anche da Véronique, sfigurata a vita dalla malattia contratta durante l’infanzia, oltre che dalla faccia butterata di Matrjona, la strega del villaggio.) Anche con il viso devastato dal vaiolo, la piccola Véronique riesce a serbare una certa grazia ed eleganza, e Balzac sottolinea che il suo impeto religioso nel ricevere la santa Comunione è tale che la sua pelle bucherellata sembra quasi riacquisire la bellezza precedente.

Il padre le organizza un matrimonio con un ricco banchiere, di gran lunga più anziano di lei. La nuova vita di Véronique ruota tutta intorno ai piaceri intellettuali del suo salotto, dove si riuniscono le persone più in vista di Limoges, e a varie attività benefiche. Gli anni passano, e Véronique lascia i suoi amici e parenti stupefatti quando resta incinta del suo attempato marito. Suppergiù nello stesso periodo, nella stessa regione, un operaio di nome Tascheron viene processato e condannato a morte per aver assassinato il proprietario di un frutteto al quale aveva rubato un’ingente somma di denaro. La notizia, chissà perché, causa alla protagonista uno shock tremendo.

Più tardi, dopo la morte del marito, Véronique lascia Limoges e si trasferisce nel villaggio di Montignac, tra le colline circostanti. Grazie alla collaborazione del curato del luogo, Bonnet, il quale si dedica molto alle opere pie, e di un architetto fallito incapace di adeguarsi alla società altamente burocratica, si impegna in un’impresa pubblica su vasta scala, irrigando a dovere il suolo arido e roccioso della zona e trasformandolo in una ricca terra coltivabile. Nel corso dei lunghi anni in cui è occupata in questo estenuante progetto, Véronique si sottopone segretamente a numerose penitenze, indossando per esempio umili vesti e consumando solo pasti frugali. La salute ormai compromessa, sulla soglia della morte, supplica il curato di concederle il permesso di tenere una «pubblica confessione», in cui rivela il suo ruolo nel crimine di Tascheron e il fatto clamoroso che il figlio era nato da un amore clandestino con quest’ultimo. Finalmente, avendo confessato il suo grave peccato e avendo acquisito la consapevolezza di poter espiare le sue colpe, la sua radiosa bellezza torna a risplendere come un tempo...

«Sì, però, nel caso di Véronique, è stato commesso subito un grave peccato», protestò energicamente mia moglie, la cui reazione era senza dubbio rafforzata dal desiderio di difendere l’amica, «dopo di che lei ha consacrato tutta la sua vita al tentativo di porvi rimedio. Cosa c’entra questo con Marie? Quello che le è accaduto non ha nulla a che fare con il peccato!»

«No, aspetta un momento», si inserì Marie, non meno agguerrita, «io credo che tuo marito intendesse mettere in parallelo le due disgrazie, ossia il vaiolo di Véronique e il “mio fatto”. E molto probabilmente pensa che prima o poi commetterò anch’io un peccato mortale, al pari dell’adulterio di cui si macchia Véronique legandosi al giovane assassino.»

Intanto me ne stavo impietrito, incapace di rispondere al contrattacco di queste due formidabili donne.

«Comunque sia, non ho cambiato idea», continuò Marie, «prenderò in prestito Il curato del villaggio. Sono sicura che Balzac ha descritto con straordinaria passione la grande e laboriosa impresa pubblica di Véronique a Montignac, che poi è la parte che mi incuriosisce di più e non vedo l’ora di leggere. Se voglio sperare di sfuggire agli effetti disastrosi di “quel fatto”, credo non ci sia nulla di meglio che impegnarmi in una grande opera di utilità pubblica o in qualcosa di simile. Ammesso, è ovvio, che al giorno d’oggi una cosa del genere sia possibile e che una persona come me possa farsene carico.»

Detto ciò, Marie ripose il voluminoso libro di Balzac nella borsa in cui teneva gli spartiti musicali e tornò a casa. Dopo che se ne fu andata, mi soffermai a riflettere sulla nostra conversazione e mi resi conto di quanto fossi stato avventato nel mettere in parallelo la sua tragedia e Il curato del villaggio, mentre ero immerso nella lettura del romanzo nel mio appartamento di Città del Messico. Anche se devo ammettere che mi era venuto molto naturale nell’atmosfera solitaria di quel triste alloggio, dotato solo di una sedia di legno nera e di un letto, senza altra decorazione al di fuori di una maschera lignea oblunga raffigurante il volto di un adolescente che avevo comprato a Taxco e le solite pile di libri.

In seguito vennero a trovarmi Asao e i suoi due amici, e ciò che mi riferirono mi rese mestamente consapevole del grande divario tra le mie personali riflessioni e supposizioni e la reale sofferenza patita da Marie dopo «quel fatto».

I tre si erano laureati da poco, a marzo. Avevano deciso di non sciogliere il loro team e di lavorare insieme, potendo contare su una solida amicizia. Asao apparteneva a una famiglia di coreani residenti in Giappone – fu in quella occasione che venni a sapere che la prima parte del suo nome proprio si scriveva con il primo carattere utilizzato per Corea – e, in considerazione del fatto che avrebbe incontrato non pochi pregiudizi nella ricerca di un lavoro stabile, aveva deciso insieme ai suoi due inseparabili compagni di rinunciare in partenza al tentativo di farsi assumere presso un’azienda. Il loro sogno era entrare nel mondo del cinema, e si stavano dando molto da fare per questo, in stile guerriglia, sfruttando ogni minima occasione idonea a garantire esperienza nel settore. Erano alla ricerca di un modo di vivere alternativo, al pari di molti giovani della nuova generazione.

Col passare degli anni, come avviene per tutti, ciascuno avrebbe assunto i tratti e le caratteristiche propri delle rispettive famiglie di appartenenza, ma al momento conservavano ancora tutti e tre la faccia pulita della gioventù, con lineamenti morbidi e sereni che rivelavano un’infanzia priva di sofferenze. Eppure erano tremendamente seri circa la questione che desideravano discutere con me. Lo stato psicologico di Marie sembrava preoccuparli non poco.

Sintetizzando in poche parole ciò che mi riferirono – a dire il vero non si tratta di un’impresa molto complicata, in quanto non si dilungarono più di tanto –, dopo la perdita dei figli Marie si sforzava moltissimo, quando era in presenza altrui, di mostrarsi sempre gioviale e allegra (va da sé che quell’ombra di malinconia nella sua espressione, che avevo notato fin dall’inizio, non l’abbandonava mai). Ma a casa, nel suo appartamento nei pressi della stazione di Sengawa della linea Keiō, conduceva una vita alla stregua di una persona afflitta da una grave depressione clinica. Teneva le tende rigorosamente chiuse per impedire il passaggio della luce, e a volte trascorreva l’intera giornata abbandonata sul divano del soggiorno a fissare il vuoto, con gli occhi che sembravano rifulgere come se le iridi fossero contornate da una sostanza fosforescente. Le costava una fatica inaudita persino andare a ritirare la posta dalla buca delle lettere. Quando era costretta a farlo, soprattutto nel caso in cui il tempo era bello e il cielo era sereno, se ne stava con gli occhi bassi e lo sguardo lontano dalle foglie verdi illuminate dai raggi del sole... E pensare che prima le piante erano tra le cose che amava di più al mondo.

«Durante la notte, la si sente camminare avanti e indietro nella camera da letto», disse Asao, con gli occhi colmi di tristezza e perduti nel vuoto, che poco si addicevano alle sue gote rosse e ai baffi all’ultima moda.

C’era una ragione ben precisa alla base del fatto che quei tre giovani sapevano così tante cose sulla vita quotidiana di Marie, comprese le sue abitudini notturne. Lei aveva venduto la casa dove viveva con la famiglia e, utilizzando il denaro avanzato dopo aver pagato la tassa di successione sulla proprietà, che apparteneva alla madre, aveva comprato una parte di una piccola palazzina a Sengawa. Si trattava di una costruzione a due piani divisa in tre appartamenti indipendenti, e Marie ne aveva acquistati due, offrendone uno in affitto gratuito ad Asao e compagni perché potessero farne la base del loro lavoro, a patto di provvedere alle spese di manutenzione e al pagamento delle utenze. I tre giovani stavano lì tutti insieme solo durante il giorno, ma almeno uno di loro vi restava a turno anche di notte, accorgendosi bene o male di ciò che accadeva accanto, grazie a una parete in comune tra i due appartamenti.

«Dall’esterno», continuò Asao, «è impossibile rendersi conto dello shock subìto da Marie. Del resto, nessuno di noi tre è riuscito a capire fino in fondo quello che le sta accadendo.» A questo punto fece una pausa, lasciandomi intendere che molto probabilmente si trattava di qualcosa di cui avevano già discusso tra loro. Dopo di che continuò adagio, soppesando bene le parole: «Adesso stiamo scrivendo una sceneggiatura basata sulla sua drammatica esperienza, come modo per affrontare il problema da vicino e tentare di giungere a una piena comprensione. Siamo partiti dal periodo in cui viveva con Mūsan, passando poi all’incidente stradale di Michio e alla tragedia di Izukōgen. E qui ci siamo arenati, senza più riuscire ad andare avanti. Il fatto è che non siamo in grado di capire cosa le sta accadendo interiormente, qual è il danno psicologico che ha patito. Ed è ancora più difficile immaginare se e come potrà riuscire a rimettersi in sesto e riprendere una vita normale dopo un’esperienza così terribile. Sarà mai in grado di tornare a essere quella di una volta, di ricostruire il proprio sé? Ecco, in questo momento, la nostra sceneggiatura è come un vecchio film quando si spezza la pellicola: la proiezione si interrompe di colpo e non va più avanti, niente, buio assoluto in sala... L’unica cosa che so è che vogliamo fare tutto il possibile per aiutarla a venir fuori da questa depressione.

«A lei non abbiamo detto nulla, però ci siamo messi in contatto con una persona dell’amministrazione dell’azienda fondata da suo nonno per sistemare alcune piccole cose di carattere burocratico venute fuori da quando ha cominciato a vivere da sola, e grazie a questa stessa persona siamo venuti a sapere come se la sta passando il padre dei suoi figli, Satchan. Pare sia anche lui a pezzi. È diventato alcolizzato, e sembra non abbia la minima intenzione di riprendersi. Se Marie venisse a sapere una cosa del genere, ne soffrirebbe molto e peggiorerebbe ulteriormente. Perché quando lui le aveva chiesto di ricominciare a vivere insieme, portando con sé anche Michio, lei aveva accettato pur sapendo di non amarlo e di dover sopportare un peso psicologico non indifferente. Lo avevo fatto per il bene di tutti, aveva voluto sacrificarsi per la sua famiglia.

«Ora, forse non possiamo fare nulla per impedire che Satchan si autodistrugga, ma non vogliamo assolutamente che Marie segua la stessa strada. Cosa si potrebbe fare?»

Non avevo nessuna risposta a quella domanda.

«La sceneggiatura sulla vita di Marie di cui mi stavi parlando», gli chiesi a mia volta, «si interrompe all’improvviso e non va proprio più avanti? Insomma, il vostro schermo resta completamente bianco?»

«In realtà, nell’ultima scena, avevamo pensato di mostrare Marie un po’ più anziana, serena e tornata finalmente a una vita tranquilla», rispose Asao con voce rassegnata, quasi che non si aspettasse più alcun consiglio utile, «solo che non abbiamo la più pallida idea di come arrivare a una situazione del genere. È come se mancasse un pezzo fondamentale...»

Mia moglie, che fino ad allora se n’era rimasta in disparte ad ascoltare, ruppe il silenzio e mi disse: «Ti ricordi quel romanzo di Balzac che hai prestato a Marie? Le avevi detto che rileggendolo avevi trovato un legame con quanto è successo a Mūsan e Michio, no? Forse faresti bene a parlarne anche ad Asao e ai suoi amici... Marie potrebbe trarre dal romanzo di Balzac un suggerimento molto importante e decidere di iniziare una nuova vita. E se questo dovesse accadere, è meglio che loro siano preparati».

Nelle parole di mia moglie potevo percepire l’eco di un certo risentimento, quello della sua rabbiosa protesta quando avevo consigliato Il curato del villaggio a Marie e lei aveva obiettato che non vedeva alcuna relazione fra la tragedia della sua amica e le conseguenze del peccato di Véronique. Del resto io stesso avevo pensato di riferire ad Asao e compagni come, da solo e triste in quel deprimente alloggio di Città del Messico, avevo osato mettere in parallelo Marie e Véronique senza alcuna motivazione razionale; una motivazione di natura emotiva, però, forse ce l’avevo: il terrore incommensurabile che si era impadronito di me al solo pensiero che anche mio figlio potesse suicidarsi era devastante, ben più terribile di qualsiasi peccato di cui mi fossi macchiato in passato.

«Véronique, la protagonista del romanzo», cominciai a spiegare, «ha contratto il vaiolo da bambina e ha perduto la sua bellezza. Si tratta dunque di una persona che ha subìto una grave sciagura al principio della sua esistenza. Tuttavia, verso la fine della storia, quando è sul letto di morte e riceve il permesso di fare una “pubblica confessione”, viene descritta come una creatura pura e piena di vita, quasi che fosse tornata come per magia al tempo in cui la chiamavano “l’incantevole madame Graslin”. Era difatti questo il modo in cui tutti si riferivano a lei quando era una donna sposata, benvoluta da tutti coloro che frequentavano il suo salotto e devota alle opere di carità. L’appellativo attribuitole grazie a questa generosa attività e la descrizione di come, da bambina, riacquisiva una bellezza radiosa in alcuni momenti di estasi religiosa preannunciano la trasfigurazione definitiva nella scena della “pubblica confessione”.

«In altre parole, la bellezza di un viso distrutto viene ripristinata in tutto il suo splendore alla fine della vita, nell’attimo che precede la morte: l’impossibile diviene possibile, che poi è uno dei grandi temi della letteratura di Balzac. Casa desolata, romanzo di Charles Dickens scritto pressappoco nello stesso periodo del Curato del villaggio, affronta una tematica simile, per cui è presumibile che avere il volto deturpato dai segni del vaiolo dovesse essere una sciagura abbastanza comune per le ragazze dell’epoca. Comunque sia, soprassedendo su tale questione, è importante mettere in evidenza la piena consapevolezza da parte di Véronique di aver commesso un grave peccato. La protagonista si è macchiata di adulterio, e questo ha condotto a un omicidio. Difatti il suo amante, il giovane Tascheron, ha compiuto una rapina allo scopo di procurarsi il denaro necessario per la loro fuga d’amore nel Nuovo Mondo, ma ha finito con l’assassinare l’uomo che ha derubato. Véronique, presente sulla scena del delitto, ha deciso di non rivelare nulla sul suo coinvolgimento nella vicenda, privando tra l’altro in questo modo il suo amante della possibilità di godere delle attenuanti del caso. Il senso di colpa la spinge a indossare vesti ruvide e grezze al di sotto dei suoi abiti, nonché a cibarsi con frugalità estrema e a dedicarsi con tutte le sue energie a un progetto di risanamento di una terra aspra e incolta.

«A tutto questo si sovrappone il motivo tipicamente balzachiano della bellezza ritrovata in un volto sfigurato. Senza questo senso di colpa immenso, Véronique non sarebbe mai stata in grado di recuperare lo splendore che il vaiolo le aveva rubato da bambina. In poche parole, non avrebbe mai potuto far sì che l’impossibile diventasse possibile.

«Ora, nel caso specifico di Marie, dobbiamo considerare prima di tutto la presenza di un figlio disabile, poi l’incidente occorso al suo secondogenito, e infine il suicidio di entrambi. Mentre ero in Messico e ho saputo dell’accaduto, non ho potuto fare a meno di pensare che una serie così incredibile di disgrazie fosse paragonabile all’essere sfigurati dal vaiolo... ma mille volte peggio, è ovvio.

«Riuscire a riprendersi da un dolore così immenso sarà, per Marie, un’impresa ardua, ai limiti dell’assurdo, proprio come rendere possibile l’impossibile. È più o meno questo ciò che state tentando di fare con la vostra sceneggiatura, o sbaglio? Immaginare il processo di guarigione dell’anima. Solo che, tutt’a un tratto, vi siete ritrovati in un vicolo cieco, davanti a un muro insormontabile.

«Balzac potrebbe fornirvi lo spunto necessario per proseguire nel vostro progetto. Mi riferisco al suo modo di utilizzare il senso di colpa di Véronique come una sorta di leva per dare avvio al processo di guarigione. Marie, come ripete spesso mia moglie, non ha motivo per sentirsi responsabile dell’assurda morte dei suoi figli, eppure io temo che, insieme agli inevitabili rimorsi, lei possa sentirsi dilaniata da una specie di senso di colpa, come se avesse commesso un peccato. D’altra parte è esattamente questo ciò di cui anche voi tre vi state preoccupando, no? È una cosa molto triste, ma purtroppo è così. Ho avuto questa visione di Marie che usa il suo senso di colpa come una leva e si imbarca in una grande opera... E forse, nel corso di questo processo, l’impossibile potrebbe diventare possibile.»

«Una grande opera... Abbiamo sentito spesso Marie pronunciare queste parole», disse Asao voltandosi verso i suoi due compagni, in cerca di conferma. «Il romanzo di Balzac contiene una descrizione dettagliata del piano di risanamento agricolo?»

Andai a prendere un’edizione del romanzo contenente una carta topografica dei dintorni di Montignac e la mostrai loro. Quindi passai al racconto della parte in questione, dove si parlava di un vasto terreno incolto ai margini di una grande foresta attraversata da un fiume – il tutto descritto con la medesima passione con cui Balzac tratta i suoi personaggi principali, a cominciare da Véronique –, del progetto, concepito da un architetto che mi ricordava gli attivisti del movimento studentesco di fine anni Sessanta, e infine della sua realizzazione. Inoltre, a ben pensarci ma in fondo senza una ragione precisa, era riscontrabile una certa affinità anche tra l’architetto del romanzo e Asao e i suoi compagni.

«Caspita, si trattava di un progetto non da poco!» esclamò al termine della mia spiegazione Kōichi, interessato molto più degli altri due alla mappa di Montignac. «Però era fattibile, grazie al suolo roccioso in prossimità del fiume, che poteva essere opportunamente sfruttato a mo’ di canale per le acque in eccesso, soprattutto nei periodi di piogge abbondanti e di eventuali straripamenti. E poi c’erano tutti quei bravi contadini, che garantivano una forza lavoro non indifferente anche senza l’ausilio di macchinari, e non ultimo il sostegno economico di Véronique e dei suoi conoscenti.»

«Kōichi, all’università, ha seguito un seminario sulle dighe e sui sistemi di contenimento delle acque fluviali», precisò Asao. «Peccato che, adesso che ci siamo laureati, abbiamo scoperto che il Giappone è pieno di dighe per la produzione di energia elettrica e che persino quelle più grandi, dove un tempo trovavano lavoro decine e decine di persone, sono ormai controllate da due o tre tizi capaci di far funzionare un computer...»

«Forse all’estero è diverso», commentò Kōichi, «ma qui da noi nessuno si occupa più di progetti di riassetto topografico a fini agricoli. Se Marie ha intenzione di fare una cosa del genere, collaborando con dei contadini, credo proprio che non avrà vita facile. Forse è addirittura impossibile.»

«Sì, ma non è detto che debba essere per forza una grandeopera pubblica, potrebbe tranquillamente trattarsi di qualcosa su scala ridotta», si inserì Tōru, il più taciturno dei tre, il quale proferì per la prima volta la sua opinione. In effetti se ne stava sempre in silenzio, tanto che non avevo mai sentito bene la sua voce; evidentemente, come dimostravano i suoi occhi iniettati di fuoco, si era infervorato al punto da vincere la sua naturale ritrosia. «L’importante», aggiunse, «è aiutarla a trovare l’energia giusta per dedicarsi a qualcosa. Andrebbe bene tutto, purché si riprenda in fretta e la smetta di gemere e camminare tutta la notte nella sua stanza come una sonnambula.»

Dopo aver ringraziato molto cordialmente mia moglie per aver menzionato Il curato del villaggio, i tre ragazzi ci salutarono e andarono via.

In occasione della successiva lezione di musica di Hikari, Marie non ebbe modo di dirmi niente sulla lettura del romanzo di Balzac. Purtroppo, quando la lezione giunse al termine, ero impegnato con un ospite e non potemmo fare altro che scambiarci un rapido saluto. Di lì a poco la maestra di musica di Hikari rientrò in Giappone, mettendo fine alle visite settimanali di Marie.

Dopo aver provato a suonare il breve pezzo che mio figlio aveva composto sotto la guida di Marie, la maestra disse che, a differenza dei suoi brani precedenti, questo era pervaso da una tristezza profonda, e quando lo risuonò per noi, mia moglie e io concordammo appieno. Quella musica era verosimilmente nata dalla sofferenza di Marie, proiettatasi in breve nell’animo di Hikari. Tuttavia, dal punto di vista tecnico, lei si era limitata a correggere il suo allievo ogniqualvolta mancava di rispettare le regole fondamentali della composizione. La melodia e le armonie erano una creazione originale di nostro figlio.

Hikari era solito dare un titolo a ogni sua nuova composizione, così da poter tenere meglio in ordine la sua musica: dopo aver scritto le note in bella copia sul foglio pentagrammato, aggiungeva in alto il titolo prescelto. Fino ad allora c’erano stati molti ValzerSiciliana e altri titoli del genere, ma, che lui ne avesse discusso con Marie o no, sulla partitura di quell’ultimo brano, che mia moglie trovò nella solita cartellina con clip, c’era scritto: In memoria di Mūsan.

6.

I tre giovani che si presentarono da me quel giorno in cerca di consigli, animati da tanta buona volontà e dal desiderio di aiutare Marie a venir fuori dalla depressione, erano senza dubbio figli di una nuova epoca: in qualità di membro della vecchia generazione, non ero riuscito a fare altro che parlare di concetti astratti, mentre loro, nel giro di sei mesi, avevano già dato avvio a un progetto molto interessante, incentrato naturalmente su Marie.

Avevano invitato in Giappone una compagnia teatrale filippina per una serie di rappresentazioni, incluse alcune conferenze del regista e attore principale del gruppo, da tenersi non solo a Tokyo bensì in tutto il Paese. La tournée dei giovani attori filippini evitava i teatri e le grandi sale pubbliche, puntando esclusivamente su luoghi come le aule universitarie e le sale riunioni delle biblioteche con capacità tra i cento e i duecento posti.

Andai a una di queste performance, presso il campus di un’università la cui sede era stata spostata dalle zone centrali di Tokyo a una collina nell’area di Mitaka. Prima dell’inizio della rappresentazione, Marie e il leader della compagnia fecero il loro ingresso sul palcoscenico, caratterizzato da una scenografia essenziale, portando ognuno con sé una sedia. Piccolo di statura ma dotato di una notevole capacità espressiva, il leader cominciò a parlare adagio in un inglese dall’accento filippino, che Marie tradusse con chiarezza in giapponese. Si presentò dicendo che il suo nome di scena era costituito da una parola tagalog che significava «volontà cosmica», che purtroppo non riuscii a cogliere. Al party che si tenne dopo la rappresentazione, tutti lo chiamavano Coz – doveva trattarsi di una strana contrazione dell’inglese cosmic will –, per cui è questo il nome con il quale mi riferirò a lui d’ora in avanti.

A occhio e croce sulla trentina, Coz era alto suppergiù quanto Marie, seduta lì al suo fianco. Le sue movenze erano rapide e leggiadre, come se in passato avesse praticato uno di quegli sport che rendono estremamente forti e agili senza appesantire la massa muscolare. Spiegò che stava raccogliendo fondi per la sua compagnia mettendo in scena all’estero alcuni lavori ancora incompleti e tenendo delle conferenze. Mentre lo ascoltavo, pensai subito che il suo senso dello humour e le ottime capacità di eloquio gli sarebbero stati di grande aiuto per il raggiungimento dello scopo. Indossava dei blue jeans e una giacca dello stesso tessuto con ricami di seta sul petto e sulle maniche. La camicia color senape e un ciondolo costituito da una pietra di giada incastonata in una montatura d’argento quadrata completavano ad arte l’insieme, mettendo in risalto il suo bel viso e il lungo pizzetto, simile a quello che si lasciavano crescere un tempo i maestri confuciani in Corea.

Coz raccontò di essere nato in un remoto villaggio di contadini, a diverse ore di autobus da grandi città come Manila. Era cresciuto ascoltando avidamente i programmi radiofonici di Voice of America e raccogliendo rottami di metallo per il fabbro del luogo in prossimità delle postazioni di contraerea abbandonate dai giapponesi. E inoltre ci aveva tenuto a dire che aveva mostrato gran coraggio quando era stato circonciso dal medicastro del villaggio.

La rappresentazione, che iniziò non appena Marie si fu ritirata dietro le quinte lasciando Coz da solo in scena, era basata proprio sui ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza dell’artista filippino: l’intensa atmosfera cristiana, fortemente consolidata nelle Filippine; la vegetazione tropicale e subtropicale, con tanto di caschi di banane, raffigurata così vividamente sul fondale da farti quasi sentire l’aria umida e soffocante tipica di quei posti; Coz e i suoi amici, a vagare liberamente tra passato e presente, fino alla comparsa in scena dello Zio Sam, nelle vesti di un giovane volontario dei Peace Corps disposto ad aiutare Coz a recarsi negli Stati Uniti (l’attore americano che interpretava questo ruolo dava l’idea di un giovane Abramo Lincoln, col suo grosso cilindro decorato a stelle e strisce); quindi la svolta americana, con l’improvviso passaggio dai frammenti di vita quotidiana nel villaggio filippino al racconto grottesco dei giorni di Coz negli USA, alle prese con il primo incontro/scontro con una cultura straniera.

Dopo essersi sottratto a quella bizzarra esperienza, rientrato in patria, Coz aveva cominciato a mettere in scena i suoi drammi autobiografici nella zona universitaria di Manila, senza troppe pretese. Tuttavia, di lì a poco, fu notato da un regista americano impegnato nella lavorazione di un film sulla guerra del Vietnam con location nelle Filippine, al che lui e i suoi drammi furono esportati nuovamente negli Stati Uniti. La volontà cosmica era entrata in azione, non potevano esserci altre spiegazioni. Ed era stata di certo la stessa volontà cosmica a far sì che i funzionari della dogana statunitense scambiassero le attrezzature e il materiale scenico spedito via mare dalle Filippine per un mucchio di cianfrusaglie inutili e gettassero tutto nell’immondizia... «Perché fu quell’episodio in particolare a cambiare una volta per tutte lo stile delle nostre performance», recitava Coz sul finire della rappresentazione, prima che calasse il sipario.

Dopo, Asao e compagni aiutarono alcuni studenti dell’università che aveva ospitato l’evento a caricare il cyclorama e i pochi attrezzi e i proiettori di scena nella jeep sulla quale ero salito anch’io tempo addietro. Mentre i tre ragazzi erano al lavoro, Marie ne approfittò per presentarmi Coz, dopo di che scambiammo due chiacchiere lungo la via che portava al suo appartamento a Sengawa, dove con mia grande sorpresa giungemmo in meno di mezz’ora. Ammirato di fronte all’efficienza dell’organizzazione che aveva permesso alla sua compagnia di venire in tournée in Giappone, chiesi a Coz se tutto filasse così liscio anche quando si esibivano nelle università americane o nelle stesse Filippine. E lui mi rispose: «No, voi giapponesi siete unici, riuscite a fare tutto bene e in tempi molto rapidi. Persino la volontà cosmica, qui, sembra lavorare meglio, con una solerzia per l’appunto giapponese!». Nei suoi occhi, di un color ambra dotato di incredibile profondità, aleggiava un’espressione che rivelava sia ammirazione sia un certo smarrimento.

Il party di cui ho fatto cenno in precedenza si tenne nel soggiorno dell’appartamento di Marie, bevendo birra dalla lattina – alla maniera degli studenti americani – e gustando una salsa a base di avocado con patatine, preparata in tutta fretta dalla padrona di casa. Avendo ceduto temporaneamente l’altro alloggio alla compagnia della volontà cosmica, Asao e i suoi due amici stavano usando questa zona dell’appartamento di Marie a mo’ di ufficio e sala riunioni. Bevemmo e mangiammo seduti sul pavimento, tra il pianoforte, il televisore e diverse pile di videocassette.

Accanto al soggiorno, in prossimità della tavola da pranzo, c’era uno scaffale con sopra una specie di rana pescatrice di cartapesta dipinta di nero con inchiostro di china, dall’aspetto al contempo eccentrico e carino, lunga circa un metro, con vicino una mezza dozzina di tazze da tè esagonali. Alla parete di fianco, fissato con delle puntine da disegno, spiccava una sorta di runner lungo e stretto, fatto con matasse di filo bianco e indaco intrecciate tra loro. Mi ricordai di aver sentito dire che la rana pescatrice sullo scaffale era opera di Michio, mentre il runner era stato confezionato da Mūsan.

Asao e gli altri si stavano occupando di tutti gli aspetti organizzativi e logistici della tournée di Coz – ci avevano messo del tempo a parcheggiare la jeep e a sistemare le attrezzature, per cui erano arrivati in ritardo ed erano venuti a sedersi calmi e tranquilli con la schiena contro la parete –, ma era stata Marie a sentir parlare di lui da un amico americano e a suggerire di invitare la sua compagnia in Giappone prima del ritorno nelle Filippine.

«La volontà cosmica deve aver esercitato la sua influenza su Marie, facendole volgere l’attenzione su di noi», disse Coz, dandomi la sua versione dei fatti sul modo in cui era giunto in Giappone con il suo gruppo teatrale. «Manila-San Francisco-Tokyo: tutt’a un tratto è venuta a crearsi una specie di connessione astrale tra questi tre posti. Solo la volontà cosmica può essere capace di una cosa del genere.»

Marie annuì col capo, ma poi mi lanciò uno sguardo malinconico di rara intensità, come a dire: “Se tutto quello che sto passando da quando è successo ‘quel fatto’ è solo il risultato di un complotto ordito dalla volontà cosmica per farmi invitare questo gruppo di filippini in Giappone, credo proprio che uscirò di senno una volta per tutte!”. Subito dopo, quasi a voler scacciare dalla mente questi amari pensieri, parlò ad alta voce: il suo inglese era pressoché perfetto, fluente come quello del giovane attore americano che tutti chiamavano Zio Sam.

«Coz», esordì, «spero che la volontà cosmica continui ad agire in tuo favore, così che le autorità non si accorgano che tu e gli altri state lavorando con un semplice visto turistico. Asao ha tentato di procurarvi il visto adatto, ma non ha potuto fare niente, perché provenivate dagli Stati Uniti. Sarebbe molto spiacevole se vi accusassero di lavorare illegalmente e vi negassero il permesso di tornare in Giappone in futuro. Soprattutto in considerazione del fatto che la Japan Foundation sta valutando l’ipotesi di concedervi un aiuto finanziario...»

Giusto in quel momento, il telefono appoggiato sulla tavola da pranzo squillò. Marie andò a rispondere in tutta nonchalance e, quando tornò in soggiorno, diede alcune indicazioni ad Asao e compagni, conservando la sua consueta moderazione. In netto contrasto con la seraficità di Marie, i suoi tre giovani amici si alzarono in piedi di scatto e corsero fuori. Dopo di che lei mi spiegò cosa era successo. In pratica, il piccolo complesso di appartamenti era situato su un terreno di proprietà di un tempio buddhista, dove erano stati lasciati intatti alcuni alberi secolari, così da rendere molto piacevole e sereno il luogo. C’erano in tutto tre palazzine costruite a schiera, la seconda e la terza leggermente arretrate rispetto alla prima e l’una dall’altra. Il monaco responsabile del tempio, che fungeva anche da custode del complesso residenziale, viveva in una di esse con la sua famiglia, mentre le altre due erano state suddivise ciascuna in tre appartamenti a due piani. Marie aveva comprato due appartamenti della palazzina centrale; il terzo apparteneva allo stesso monaco, il quale lo aveva dato in affitto a un uomo d’affari canadese. Da quando la compagnia teatrale di Coz si era sistemata in uno degli appartamenti di Marie, il canadese aveva espresso una rimostranza dopo l’altra. Suonare il piano o ascoltare musica dopo le dieci di sera, ad esempio, era adesso assolutamente vietato; party e festicciole varie, inutile dirlo, dovevano terminare entro la medesima ora. Era stato lui a telefonare poco prima, lamentandosi che la jeep era stata parcheggiata male e aveva occupato più spazio del lecito.

«Se la sua richiesta è priva di fondamento», dissi a Marie, «perché non provi a parlarne con il monaco?»

«Purtroppo non credo che il nostro vicino abbia tutti i torti: la jeep è enorme e occupa un bel po’ di spazio. Senza contare che anche la mia macchina è nel parcheggio. Meglio non fare polemiche, no? Ho detto ai ragazzi di spostare la jeep da qualche parte in strada, almeno per un poco. Più tardi la rimetteranno dov’era, facendo attenzione a parcheggiare meglio. Ultimamente Coz e gli altri hanno fatto le prove fino a tardi, addirittura oltre le due o le tre del mattino, e anche i festeggiamenti non sono mancati. È chiaro che il povero canadese ne sia infastidito. E in ogni caso un monaco è pur sempre un monaco, e non saprebbe come agire in un caso del genere.» A quel punto, notai un pizzico di amarezza negli occhi di Marie, le cui palpebre avevano acquisito una piega prima assente, forse in conseguenza del fatto che era molto dimagrita. «In realtà», aggiunse, «c’è un’altra cosa che disturba il canadese e gli altri vicini, soprattutto quelli che abitano sul fronte strada, e si tratta di qualcosa che riguarda me in prima persona.»

Intanto Asao e gli altri due rientrarono in casa, senza mostrare traccia dell’urgenza con cui si erano precipitati fuori e riassumendo all’istante la precedente compostezza. Non solo avevano parcheggiato la jeep altrove, ma si erano anche ricordati di prendere il sacchetto di carta con certi ingredienti per la cena che avevano dimenticato accanto al posto di guida. Gli attori ospiti avevano in programma di cucinare pietanze filippine.

Poi Marie mi chiese di salire un attimo con lei al piano di sopra. Il suo studio si trovava di fronte alle scale: appesa a una delle pareti c’era una fotografia in cornice di Flannery O’Connor con le stampelle, lo sguardo indirizzato verso alcuni dei suoi pavoni, radunati intorno alla veranda della sua casa di legno. Sullo scaffale accanto alla fotografia, erano sistemati con estremo ordine i suoi libri e quelli scritti sul suo conto, insieme a un’intera collezione di tascabili in lingua inglese, molti dei quali risalivano probabilmente all’epoca in cui Marie studiava negli Stati Uniti.

Tra i pochi libri giapponesi c’era anche un mio romanzo sulla mia famiglia, nel quale tentavo di stabilire una relazione tra le metafore delle poesie e le incisioni di William Blake e la vita interiore di Hikari. Sulla scrivania, pulita e ben ordinata, c’era una stampa in cornice – mi sembrava di ottima fattura – di Orc, il personaggio che rappresenta la giovinezza nella complessa mitologia di Blake, con le sue lunghe braccia spiegate.

«Non ti ho fatto venire quassù solo per mostrarti lo studio di una pseudostudiosa che ormai non si dedica più alla ricerca... Va’ in camera da letto, senza accendere la luce. Entra e avvicinati alla finestra, poi guarda fuori, in basso verso sinistra. Dovresti riuscire a scorgere qualcuno sotto il platano accanto alla palazzina qui di fianco, all’angolo della strada principale.»

Il buio di quella stanza possedeva la fragranza morbida e intensa di un posto abitato da una donna matura sola. Raggiunsi la finestra, con le tende spalancate, e guardai in basso nella direzione suggeritami da Marie: accanto alla palazzina di fianco, vidi un uomo alto e magro, che oscillava lentamente e teneva lo sguardo puntato fisso verso di me. In una mano stringeva un sacchetto, che di tanto in tanto portava all’altezza della bocca, come se bevesse: per essere quasi sicuramente ubriaco, si comportava con una certa moderazione.

Quando tornai nello studio, camminando con maggiore disinvoltura ora che i miei occhi si erano abituati alla penombra, trovai Marie in piedi a fianco alla scrivania, con il capo chino, a giocherellare con la cornice della stampa di Blake.

«Sei riuscito a capire che si trattava di Satchan?» mi chiese in tono afflitto.

«Il padre di Mūsan e Michio? Certo che, specialmente per chi abita in quella palazzina, non è bello. Però non mi sembra possa dare tutto questo fastidio, insomma non mi pare uno di quegli ubriachi chiassosi e molesti che ti costringono a chiamare la polizia.»

«Stasera è particolarmente calmo, ma ti assicuro che non è sempre così. Una volta è venuto con una cassetta della Nona di Beethoven e si è messo a cantare l’Inno alla gioia a squarciagola. Anche se la polizia arriva e lo porta in commissariato, basta che gli passi la sbornia e torna quello di sempre, un uomo tranquillo che non dà fastidio a nessuno, nella media, e il giorno dopo è subito pronto a tornare qui.»

In silenzio, senza null’altro da dirci, tornammo al piano di sotto. Lo Zio Sam, seduto sul pavimento a bere una lattina di birra, con le sue lunghissime gambe flesse e divaricate così simili alle zampe di una cavalletta, mi lanciò uno sguardo penetrante con i suoi occhi azzurri.

Tre giovani attori filippini, due ragazzi e una ragazza, erano allegramente impegnati nei preparativi per la cena. Avevano sistemato gli ingredienti su un telo di plastica appoggiato sul pavimento, accanto alla tavola da pranzo, e si erano seduti in circolo tutt’intorno, cantando in coro mentre lavoravano e scoppiando di tanto in tanto in fragorose risate. Nel frattempo Asao e i suoi amici stavano mettendo a punto gli ultimi dettagli della tournée nel Kyūshū, in programma la settimana successiva, facendo varie telefonate interurbane usando l’apparecchio dell’appartamento accanto; e ogni volta, dopo ciascuna telefonata, non mancavano mai di avvicinarsi alla finestra per dare un’occhiata all’alcolizzato, che tentava di sbirciare all’interno della casa attraverso le tende di pizzo.

Coz mi confidò una sua idea per un nuovo dramma. E Marie era lì con noi, intenta ad ascoltare, finché lo Zio Sam la invitò ad avvicinarsi al suo fianco e cominciò a parlarle a raffica in inglese, a una velocità completamente diversa rispetto ai filippini. Sembrava parecchio nervoso, e Marie dovette fare del suo meglio per calmarlo.

Il nuovo progetto di Coz, che in tutta onestà mi pareva più adatto a un film che non a un dramma teatrale – al contempo mi chiesi anche se non fosse stata proprio questa sua propensione verso il cinema a favorire l’instaurarsi di un legame con il terzetto di Asao –, ruotava intorno a un jeepney, uno di quei minibus decorati e variopinti utilizzati per il trasporto pubblico nelle Filippine, che avevo avuto occasione di vedere io stesso una volta che ero stato a Manila. Il protagonista, interpretato ovviamente da Coz, era un uomo che aveva deciso di investire tutti i suoi risparmi in uno di quei caratteristici autoveicoli...

Siamo nel villaggio di Coz, nella valle dove è nato e cresciuto. Tutto inizia con la produzione di certi piccoli orsi di cartapesta, fatti con una tecnica artigianale tradizionale, allo scopo di esportarli in Europa in occasione dei giochi olimpici di Monaco. In breve il progetto si trasforma in una sorta di piccola industria, coinvolgendo l’intera popolazione del villaggio e dei dintorni e determinando la fortuna del suo ideatore, ovvero il protagonista della storia, il quale procede a testa bassa nel suo intento a dispetto della forte disapprovazione dell’anziana nonna, che custodisce i segreti di quell’arte tradizionale, furibonda perché la scriteriata e inadeguata produzione in massa costringe persino i bambini a lavorare fino a notte fonda. A ogni modo, l’uomo carica la merce e il suo jeepney in un container e parte alla volta di Monaco di Baviera per promuovere e vendere il suo nuovo prodotto, grazie al passaporto e al biglietto ottenuti con l’aiuto di una donna tedesca alta e bionda. Al termine delle Olimpiadi, viaggia con il suo jeepney da Francoforte a Parigi, procurandosi vari lavoretti lungo la strada. A un certo punto, viene ingaggiato da un suo connazionale in possesso di una concessione per la gestione di distributori automatici di gomme da masticare, ma in linea di massima continua a vivere alla giornata, spostandosi da un luogo all’altro.

Poi, grazie a una lettera fatta pervenire agli uffici dell’Air France, apprende che la nonna è morta. Insieme al suo jeep-ney, stavolta viene assunto presso un parco dei divertimenti a Parigi, e lì, una sera, sperimenta qualcosa di così fantastico da non poter dire se si tratta di un sogno o di realtà. Si ritrova a guidare il suo veicolo attraverso un incredibile labirinto dai mille colori, e alla fine raggiunge il paradiso, in cima a una collina nella foresta affacciata sul suo villaggio natio. La nonna e tutte le altre persone che credeva morte sono là, vive e vegete, e lo stampo di legno originale per il manufatto di cartapesta, tramandato di generazione in generazione tra gli abitanti del villaggio ma poi messo da parte e dimenticato in favore della produzione su vasta scala per le Olimpiadi, è stato conservato con cura ed è salvo. La nonna sale a bordo del jeepney e, insieme, si involano verso l’alto dei cieli...

Coz aggiunse che, nella scena del luna park a Parigi, una delle sue giovani attrici, Melinda – sembrava un’adolescente, ma aveva già due figli –, avrebbe suonato una delle composizioni di Hikari utilizzando un pianoforte multicolore posto accanto a una giostra deserta. Ormai, a quel punto, le pentole erano sui fornelli e Melinda, ora libera dalle incombenze culinarie, fu chiamata per eseguire al piano la Marcia dell’uccello azzurro, un brano che Hikari aveva scritto nell’anno in cui aveva cominciato a frequentare le superiori presso la scuola per disabili.

«Che meraviglia!» esclamò Marie, tornata da noi dopo essersi finalmente sbarazzata dello Zio Sam. «Questa esecuzione del brano di Hikari è davvero eccellente, per non dire perfetta, anche se Melinda l’ha interpretata a modo suo, mettendoci un ritmo diverso. A proposito, K.», disse rivolgendosi a me, in giapponese, «è ovvio che anche il villaggio natio di Coz abbia un suo proprio ritmo, ma non credi, avendo ascoltato la sua storia, che possano esserci delle affinità con il tuo villaggio nella foresta dello Shikoku?» Dopo di che ritornò all’inglese e disse a Coz: «Hai presente la reazione degli studenti oggi pomeriggio, durante la rappresentazione, al momento della comparsa in scena dello Zio Sam, con tutti quei fischi e quelle urla di disapprovazione? Secondo me è stato fantastico, un vero successo, però lui, lo Zio Sam, pare ci sia rimasto un po’ male. Mi ha detto che intendeva il suo ruolo e il modo di interpretarlo come una critica esclusiva di sé stesso in quanto americano a beneficio di un pubblico filippino, ma che non voleva assolutamente fornire ai giapponesi un pretesto per sganasciarsi dalle risate».

«Qui in Asia, i giapponesi sono come i secondi americani», commentò Coz.

«Sì, ma sono pur sempre giapponesi e non americani!» replicò polemico lo Zio Sam, avvicinandosi e mettendo il braccio sulle spalle brune e lucenti di Melinda.

«Sembra che stasera le cose si mettano male», mi sussurrò all’orecchio Marie, in giapponese. «Forse ti conviene andar via, prima che sia troppo tardi... Quanto ai manicaretti dei nostri amici filippini, ti assicuro che sono molto etnici e piccanti da morire. Non riesco a capire come possano mangiare roba del genere e bere birra a volontà senza farsi venire la diarrea.»

In ogni caso avevo in mente di tornare a casa per cena, da Sengawa avrei impiegato dieci minuti scarsi. Ringraziai Coz per avermi messo a parte della sua ultima idea e mi avviai verso la porta, accompagnato da Marie.

«Mentre ascoltavo Coz descrivere quell’ultima scena», mi disse sottovoce, davanti all’ingresso, «quando sale con il suo jeepney sulla collina nella foresta e incontra i suoi parenti e amici defunti, ho sognato di essere anche io lì con lui e di riabbracciare Mūsan e Michio. Il solo pensare una cosa del genere mi ha dato i brividi.»

Mentre camminavo in direzione della strada principale, tra gli alberi immersi nell’oscurità che ancora serbavano l’atmosfera solenne di un antico tempio, non potei evitare di lanciare uno sguardo verso il posto in cui avevo visto l’alcolizzato: non c’era più nessuno, malgrado fosse trascorso poco tempo da quando mi ero affacciato alla finestra del primo piano della casa di Marie. Dopo aver superato il cavalcavia pedonale della linea ferroviaria Keiō, mentre avanzavo lungo la via dei negozi diretto alla fermata dell’autobus e incrociavo una serie di vicoletti pieni di bar e bei localini dove un ubriaco si sarebbe rifugiato molto volentieri, pensai di fermarmi e di provare a cercare Satchan. Ma subito mi resi conto che sarebbe stata un’impresa ardua, se non impossibile, in quanto pur avendo letto tutte quelle sue lettere non avevo mai avuto modo di incontrarlo di persona.

La Compagnia della Volontà Cosmica, dopo essersi esibita in quattro campus universitari in altrettante città del Kyūshū, si diresse nuovamente verso est, facendo tappa a Hiroshima e a Himeji. Nelle città in cui non era stato possibile giungere a un accordo con le università, le rappresentazioni si tennero all’aperto, nei parchi e in luoghi del genere. A Kurayoshi, sulla costa del Mar del Giappone, fu allestito un piccolo palcoscenico simile a quelli dove sono soliti esibirsi i danzatori tradizionali, in un parco cittadino colmo di alberi, inclusi numerosi shii in piena fioritura. L’amministrazione locale sembrava dedicare particolare cura alla costruzione di imponenti e sfarzose toilette pubbliche, e Coz ne approfittò sfruttando quella in prossimità del palco come fondale scenografico, creando un gioco di luci tale da farla assomigliare a una chiesa. Quell’anno la stagione delle piogge si era prolungata oltre il consueto, costringendo lui e gli altri attori a presentarsi in scena con tanto di ombrello. Lo Zio Sam, ad esempio, ne esibì uno a stelle e strisce da lui personalmente decorato, al posto del solito cilindro.

Prima della performance a Kurayoshi, l’ente turistico cittadino aveva invitato Coz e compagni presso un noto onsen* di Hawai, in prossimità del lago Tōgō – Hawaii, aveva scritto erroneamente Marie in una sua lettera. In quella stessa missiva, Marie aveva incluso una fotografia che li ritraeva tutti insieme, in un magnifico rotenburo costruito direttamente sulla riva del lago, a mo’ di una piccola diga. A giudicare dalla bontà dello scatto, era evidente che già allora Asao fosse in possesso delle qualità di un operatore professionista, con tutte le carte in regola per farsi strada nel mondo del cinema: Marie, con il suo caratteristico sorriso spensierato, se ne stava abbandonata tra le braccia dell’altissimo Zio Sam, con una buona metà della parte superiore del corpo oltre la superficie dell’acqua, al punto che le si vedevano quasi del tutto i seni nudi; Coz, pressappoco al loro fianco, aveva i capelli e il pizzetto inumiditi dal vapore e aderenti alla pelle, dando l’impressione di essere molto giovane e ancor più minuto del solito; alle loro spalle, gli altri tre filippini, appartenenti alle nuove generazioni, se ne stavano in piedi sul bordo della vasca, completamente nudi. Sembrava una splendida foto ricordo, a colori, con la compagnia al gran completo insieme alla bella finanziatrice della tournée giapponese, tutti felici e contenti mentre godevano delle meraviglie di quel bagno termale promiscuo.

A quanto pareva, quel viaggio aveva assicurato a Marie un certo svago, e dunque il piano di Asao e compagni si stava dimostrando efficace. L’atmosfera di quella fotografia, in particolare, era così gaia e serena da farmi essere molto ottimista. Nella lettera, Marie scriveva che a Kurayoshi, dove la rappresentazione si era tenuta sotto la pioggia battente, avevano fatto un altro bagno tutti insieme il mattino stesso in cui avevano lasciato l’onsen di Hawai, precisando che solo lei si era buscata un brutto raffreddore, essendo rimasta per tutto il tempo all’aperto ad assistere allo spettacolo. Inoltre diceva che Coz e il resto della compagnia avrebbero preso un volo per lo Hokkaidō dall’aeroporto di Itami, a Osaka, e si sarebbero poi fermati, sulla via del ritorno, ad Aomori, Morioka e Sendai, dove avrebbero tenuto varie esibizioni. Mentre lei avrebbe fatto ritorno a casa anticipatamente, impossibilitata a seguirli. A immaginarmela da sola a Tokyo, con l’influenza, lì a mormorare tra sé e sé e a camminare avanti e indietro nella sua camera da letto a notte fonda, mi venne un magone tremendo e scossi forte la testa, più di una volta.

Al ritorno nella capitale, ai primi di agosto, il gruppo si esibì in una performance di commiato all’università femminile dove Marie aveva insegnato fino a poco tempo prima. Per quella occasione speciale furono aggiunti nuovi dettagli concepiti durante la tournée: ad esempio Melinda, incaricata di suonare alle tastiere alcune canzoni filippine, avrebbe eseguito anche una delle composizioni di Hikari per il pianoforte. Stavolta toccò a mia moglie andare in macchina con Marie.

Quella sera rientrò a casa molto tardi, esausta, più di quanto ci si potesse attendere dopo aver assistito a una semplice rappresentazione teatrale. Era stata costretta a prendere il treno da Yokohama, perché Marie aveva manifestato segni di evidente instabilità emotiva e non se l’era sentita di guidare. Mia moglie mi spiegò che la sua cara amica era tornata a casa in compagnia di Asao, ma non era stata in grado di capire se si era ripresa almeno un po’.

Tutto era cominciato in seguito a una nuova scena basata sulle osservazioni di Coz riguardo alla vita in Giappone. Nel monologo che apriva l’ultimo atto, in qualità di narratore, aveva parlato di quanto il Giappone fosse diventato un paese prospero e ricco, al punto che non c’era nulla che non fosse possibile trovare scavando tra le immondizie. Aveva raccontato che, quando era bambino, il fabbro ferraio del suo villaggio natale lo mandava nella giungla presso le postazioni militari nipponiche alla ricerca di pezzi e frammenti di metallo da riciclare, e aveva aggiunto, con sottile ironia, che nel Giappone odierno una cosa del genere sarebbe stata impensabile, in quanto sarebbe bastato alzarsi presto al mattino e andare a rovistare tra i rifiuti per recuperare tanta di quella merce da poter aprire un negozio di apparecchiature elettriche di ultima generazione. «Guardate cosa ho trovato giusto l’altro giorno», aveva esclamato a un certo punto, «una sedia a rotelle perfettamente funzionante!» Al che era effettivamente comparsa in scena una sedia a rotelle e il tragico numero aveva avuto inizio...

Due giovani attori filippini fanno il loro ingresso sul palcoscenico: uno nelle vesti di un ragazzino in sedia a rotelle, l’altro in quelle del fratello maggiore affetto da un ritardo mentale – in quel momento, anzi a dire il vero già alla precedente vista della sedia a rotelle, mia moglie aveva avuto una brutta premonizione, seguita a breve da pura sofferenza. I due sono diretti verso una scogliera, dove sono intenzionati a togliersi la vita: il loro intento viene rivelato attraverso un breve dialogo con Coz, ora impegnato nel ruolo di un abitante di un villaggio vicino, il quale sembra propenso solo a rimproverarli e schernirli, senza minimamente provare a farli desistere dal loro folle piano. «Le scogliere delle coste filippine», borbotta, «sono ricoperte da piante e arbusti spinosi, le ruote della sedia vi resteranno impigliate e rimarrete tutti e due bloccati da qualche parte ad agitarvi inutilmente, chissà quanto a lungo!» Per nulla intenzionato a venire in aiuto ai due ragazzi, continua a starsene alle loro calcagna, forse spinto dal desiderio di impossessarsi della sedia a rotelle. I due, però, riescono a liberarsi di lui e si inoltrano nella giungla, il fratello maggiore mentalmente disabile sempre occupato a spingere il fratello più piccolo paralitico. Entra in scena un prete, interpretato dallo Zio Sam. Segue un dialogo con l’abitante del villaggio, il quale ora afferma che il suicidio è contro la volontà del Signore e chiede l’aiuto del prete per fermare i due ragazzi. Quest’ultimo, come è ovvio che sia, è assolutamente d’accordo, solo che l’altro insiste nel porre una condizione: a differenza del prete, i cui mezzi di sussistenza sono garantiti dalla chiesa, lui dice di non avere entrate fisse e chiede di essere ricompensato per il duro lavoro che dovrà eseguire per aprire una strada nella giungla a forza di colpi di machete. La sua proposta, in altre parole, è lasciare alla chiesa le anime dei due ragazzi che si appresta a salvare e prendere per sé la sedia a rotelle. Ma il prete esprime forti riserve e obietta di non avere a disposizione il denaro per potersi permettere una cosa del genere.

Nel bel mezzo della discussione, Melinda, nel ruolo di una contadinella, emerge di colpo dalla giungla spingendo la sedia a rotelle, sulla quale ora è appoggiato il pupazzo di un maialino smunto. Con voce allegra dice al prete e all’abitante del villaggio: «Quei bravi ragazzi sono andati in paradiso. Io li ho aiutati, perciò loro mi hanno lasciato in cambio questa sedia a rotelle, e anche Dio ha voluto ricompensarmi offrendomi in dono questo bel maialino selvatico!».

«Notando lo stato di shock in cui era caduta Marie», mi disse mia moglie, «Coz ha fatto di tutto per consolarla. Era evidente che non sospettava minimamente che lei potesse reagire in quel modo, era molto sorpreso e costernato. Il tono delle sue parole e le movenze parlavano chiaro, si era scurito in volto da far paura. Ma quando Marie è andata via e gli ho chiesto come diamine gli fosse venuto in mente di aggiungere una scena del genere, mi ha risposto, in tutta calma, che era stata la volontà cosmica a suggerirglielo.»

«In effetti Coz mi aveva detto che aveva in mente di migliorare e ampliare il copione, aggiungendo un’ulteriore scena finale nella foresta, una sorta di ricongiungimento con i morti. È probabile che, avendo forse intenzione di fare apparire dei personaggi come Mūsan e Michio in quella stessa scena, mostrare il loro suicido fosse indispensabile, quasi una sorta di rito preparatorio. È ovvio che Marie si sarà sentita come forzata ad assistere a ciò che più di ogni altra cosa non avrebbe mai voluto vedere. Fatto sta che Coz, secondo me, aveva in mente un’immagine molto dolce ed emotivamente positiva quando ha concepito quella scena.»

«Forse è come dici tu, però l’attore che interpretava il fratello minore continuava a fare oscillare il busto e a sobbalzare, tanto da far scricchiolare paurosamente la sedia a rotelle. È molto probabile che lo facesse semplicemente per enfatizzare lo stato di paralisi degli arti inferiori, però a mio avviso ha esagerato. Le sue braccia sembravano lunghe oltre il normale, dal momento che non smetteva mai di agitarle in ogni direzione, a volte finendo pure col colpire l’attore alle sue spalle, quello che spingeva la sedia e impersonava il fratello maggiore. I due sembravano battibeccare senza sosta in tagalog, riscuotendo un successo enorme presso un gruppo di operai filippini, venuti da un vicino dormitorio di Yokohama. Ma io, in tutta sincerità, non ho potuto evitare di pensare a quei vecchi sketch comici che facevano leva sulle deformità fisiche e mentali delle persone per scatenare le risate del pubblico. Quando ho chiesto spiegazioni a Coz, tutto ciò che ha saputo dirmi è che in quella parte gli attori andavano avanti improvvisando a ruota libera.»

Qualche tempo dopo, venni a sapere che Coz e la sua compagnia erano tornati nelle Filippine. Tutti a eccezione dello Zio Sam, che continuava ad abitare nell’appartamento di proprietà di Marie. Aveva chiesto ad alcuni suoi giovani connazionali – studenti universitari e impiegati di note aziende giapponesi – di condividere l’alloggio, in base a uno stile di vita all’insegna della libertà. Fu Asao a riferirmi la notizia, un giorno che mi capitò di incontrarlo per puro caso, ma lui e i suoi amici erano ancora troppo occupati a risolvere alcune questioni in sospeso legate alla recente tournée della Compagnia della Volontà Cosmica e non diedero particolare peso alla cosa. D’altra parte, pur se continuavano a considerarsi gli angeli custodi di Marie, avevano deciso in via definita di non interferire con la sua vita privata, a meno che non fosse stata lei stessa a chiedere il loro aiuto.

Una mattina, la prima dall’aria spiccatamente autunnale, mia moglie emise un improvviso gemito di stupore mentre era intenta a leggere il giornale: in un trafiletto nelle pagine della cronaca locale, aveva scorto il nome di Marie. L’articolo diceva che in un appartamento a Sengawa, di proprietà di Kuraki Marie, l’inquilino D.S., un cittadino americano, aveva aggredito e ferito gravemente S.T., cittadino giapponese ed ex marito della proprietaria, in quanto quest’ultimo aveva tentato di introdursi senza permesso nello stesso appartamento. S.T. soffriva già da tempo di seri disturbi agli organi interni, causati dall’alcolismo, e le violente percosse alla regione addominale avevano peggiorato la situazione. Era stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso, dove versava in condizioni critiche. In base alla dichiarazione rilasciata alla polizia, D.S. non ne poteva più di sopportare la vista di S.T., il quale continuava ad aggirarsi da quelle parti, ubriaco, nel tentativo di forzare l’ex consorte a tornare insieme. Inoltre le autorità locali avevano ricevuto varie denunce circa l’uso presunto di marijuana da parte di D.S. e dei suoi coinquilini e stavano conducendo indagini in merito.

«Perché devono succedere tutte queste cose proprio a Marie, una dopo l’altra?» si chiese mia moglie a voce alta, dopo aver assorbito lo shock iniziale e sul punto di scoppiare in lacrime. «D’altra parte, man mano che tutto questo accade», continuò, «ti rendi conto che si tratta del tipo di cose che possono succedere soprattutto a una persona come lei. Eppure, nonostante tutto, è triste constatarlo.»

«Credo che il termine inglese vulnerability, che il famoso antropologo Y. ha tradotto con dei caratteri cinesi che letteralmente significano “tendenza a farsi aggredire”, si addica perfettamente alle condizioni di Marie in questo preciso momento. Certo, quella tragedia è stata frutto di una disgrazia del tutto imprevista, ma fin da allora lei è diventata estremamente vulnerabile, come se avesse una ferita sempre esposta all’aria aperta. Almeno è così che la vedo io.»

«Adesso quelle sue tre giovani “guardie del corpo” proveranno certamente a escogitare qualche altro stratagemma nel tentativo di aiutarla. Sono bravi ragazzi, davvero ammirevoli, però non trovi strano che non facciano nulla per evitare che succedano tutti questi disastri? Quello che voglio dire è che ogni volta, subito dopo che succede qualcosa, si danno da fare e si impegnano al massimo, ma prima non fanno nulla, nessuna prevenzione. Però forse è una cosa abbastanza normale per i giovani della loro generazione, che tendono a tenere una certa distanza anche nei confronti delle persone più intime.»

«Forse, in un certo senso, pensano che il loro intervento e tutto quello che fanno e organizzano sia necessario per distrarre Marie, per fare in modo che la sua mente sia occupata da altro. Non a caso, come hai detto tu stessa, dopo si danno sempre un gran da fare.»

Anche questa volta, senza smentirsi, Asao e gli altri lavorarono sodo per il bene di Marie. Testimoniarono in favore dello Zio Sam, contribuendo in maniera determinante a farlo scagionare dall’accusa di possesso e uso di marijuana, e aiutarono Marie a sistemare le sue cose in vista dell’inizio di una nuova vita. Subito dopo, Asao si presentò da me e mia moglie per farci il resoconto degli ultimi avvenimenti.

Il fegato di Satchan era rimasto gravemente danneggiato e, anche se il peggio era passato, l’ex marito di Marie era ancora in ospedale. Lei era rimasta al suo fianco finché non era stato dichiarato fuori pericolo e aveva provveduto a saldare tutte le spese mediche. Inoltre aveva deciso di vendere i due appartamenti di Sengawa, in modo da poter pagare i debiti accumulatisi in seguito alla tournée della Compagnia della Volontà Cosmica. Il resto del ricavato della vendita le avrebbe assicurato la possibilità di vivere di rendita per un bel pezzo. Tra l’altro, di recente, aveva cominciato a parlare della possibilità di unirsi a una piccola comunità religiosa, di cui era venuta a conoscenza dopo aver lasciato il gruppo di studio della chiesa cattolica. E nei confronti di Satchan, il quale cominciava a dare i primi segni di miglioramento, sentiva di aver fatto tutto il possibile.

«Quindi ancora oggi, qui in Giappone», proruppe mia moglie, «ci sono persone disposte a rinunciare a tutti i propri averi e a ritirarsi in un monastero, né più né meno come ai tempi dei romanzi di Balzac!»

«Marie non sta esattamente ponderando l’ipotesi di “ritirarsi in un monastero” come istituzione», rispose Asao, soppesando per bene le parole con il chiaro intento di non essere frainteso. «In realtà si tratta di un piccolo e tranquillo gruppo religioso, stretto intorno alla figura del leader. Per non correre il rischio di influenzarci, ci ha rivelato solo pochi dettagli, ma non credo sia una scelta negativa e sono sicuro che potrà trarne un gran giovamento.»

«Certo che tu e i tuoi amici siete molto bravi a immedesimarvi in Marie e a cercare di leggere i suoi pensieri, eh? Vi ammiro molto per questo, sul serio. Siete sempre così attenti a non dirle mai cosa fare e cosa non fare...»

«Non abbiamo quel tipo di potere su di lei», rispose Asao in tono piatto, rendendo impossibile capire se avesse colto l’ironia di cui era pregna l’osservazione di mia moglie. «Signor K.» aggiunse poi, rivolgendosi a me, «lei a volte utilizza il termine “maestro” nei suoi romanzi, no? Ecco, Marie è stata la nostra “maestra” fin da quando eravamo poco più che adolescenti. È riuscita a mostrarci molti lati della vita, come nessuno aveva mai fatto prima. Si è trattato di una vera e propria educazione.»

«Vi unirete anche voi a questo gruppo religioso? Continuerete a stare con lei?» gli chiese mia moglie, che stava certamente rimuginando su qualcosa.

«E perché? A quale scopo?» replicò Asao evasivamente, preso alla sprovvista. «Come ho già detto poco fa, Marie non vuole assolutamente influenzarci, soprattutto in materia religiosa, e poi sa bene che abbiamo molto lavoro da fare e tanti progetti, per cui non possiamo allontanarci da questo mondo...»

Sì, effettivamente avevano tanti progetti, in questo mondo. Uno dei motivi alla base della visita di Asao, quel giorno, risiedeva nella richiesta di scrivere una lettera di raccomandazione per Coz, il quale aveva fatto domanda alla Japan Foundation – individualmente e non a nome della Compagnia della Volontà Cosmica – per ricevere una sovvenzione. Ero già al corrente dei contenuti del progetto di Coz, ma chiesi ad Asao se fosse sicuro che Marie non aveva cambiato idea in proposito, dopo l’«incidente» di Yokohama. Al che lui confermò che quella rappresentazione era stata certamente uno shock terribile per lei, ma che non c’entrava nulla con la sua ferma volontà di aiutare Coz. «Marie è fatta così», concluse, «fa parte del suo atteggiamento verso le cose della vita.»

7.

Un giorno ricevetti questa lunga lettera da Marie:

Sono sicura che Asao ti avrà già parlato del fatto che, dopo aver lasciato il gruppo di studio per principianti presso quella chiesa cattolica, ho deciso di unirmi a un altro piccolo gruppo religioso. A dire il vero, non ho ancora le idee ben chiare su cosa sia veramente la fede. È tutto abbastanza vago, come prima.

Talvolta ho avuto modo di sperimentare fremiti emotivi molto intensi, forse prossimi a ciò che si è soliti definire fede, soprattutto mentre leggevo delle poesie. Il Secondo Avvento di Yeats, per esempio. Quando la leggo ad alta voce, verso dopo verso, riesco a sentire la mia parte interna – non so se sia lecito chiamarla anima – incresparsi in ogni singolo millimetro. Ma forse questa deve essere solo la sensazione che scaturisce nel momento in cui ci si avvicina al campo magnetico della fede, e non alla fede vera e propria.

La poesia comincia con la spirale del tempo, che continua a roteare allargandosi sempre più. E il falco la segue, volando in cerchio, incapace di udire la voce del falconiere. A quanto pare, questa metafora ha a che fare con il tuo amato Dante Alighieri, precisamente con la discesa negli abissi dell’inferno in groppa a Gerione:

Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Ohmè, tu cali!»,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;

Inoltre ho letto che la stessa poesia di Yeats ha anche qualche legame con Il viaggiatore mentaledi William Blake, il che forse la rende ancor più vicina ai tuoi sentimenti. Il leader del nuovo gruppo del quale faccio parte – a proposito, lo chiamiamo «Fratello Superiore» – sostiene che questa poesia di Yeats è basata sulla profezia del Secondo Avvento di Cristo contenuta nel Vangelo secondo Matteoed è legata alla bestia che apparirà alla fine del mondo così come descritta nell’Apocalisse di San Giovanni. Credo parlerò spesso del Fratello Superiore nelle mie lettere, e per cominciare ti dico subito che ti assomiglia moltissimo, tanto che, la prima volta che l’ho visto, non sono riuscita a trattenermi dal ridere. Anche la sua voce è molto simile alla tua, forse perché avete una struttura ossea pressoché identica. Se tu fossi più magro e non avessi gli occhiali, non sarebbe affatto facile distinguervi!

Tornando alla poesia, la metafora del falco che non riesce a udire la voce del falconiere allude naturalmente al fatto che la civiltà umana è sfuggita al controllo di Gesù Cristo, e che il Secondo Avvento profetizzato nell’Apocalisse si avvicina. I versi di apertura descrivono un mondo precipitato nel caos, dove tutto crolla perché il centro ha perduto la sua forza; e poi viene la parte che più di ogni altra mi fa venire i brividi: «La corrente torbida di sangue è scatenata, ovunque / Il rito dell’innocenza è sommerso».

Quando fummo costretti a scendere ai piedi della scogliera dove Mūsan e Michio erano precipitati, sulla superficie del mare scorgemmo dei piccoli vortici ancora tinti del loro sangue. Quella era indubbiamente l’ultima conseguenza visibile di un rito dell’innocenza che si era appena consumato. In un mondo del genere, i migliori sono destinati a smarrire ogni certezza, mentre i peggiori acquisiscono pieno ardore...

Sì, è proprio questa l’epoca in cui stiamo vivendo, un’epoca triste e buia. Posso gridarlo con tutta me stessa, perché ne ho avuto esperienza diretta. E a quelli che sostengono che l’esperienza personale non conta niente, rispondo che non ho intenzione di fare null’altro che seguitare a tormentarmi fino al giorno della mia morte, riflettendo su ciò che mi è successo.

Di certo qualche rivelazione è vicina;
Di certo il Secondo Avvento è vicino.
Il Secondo Avvento! Appena dette queste parole
Una vasta immagine emergente dallo Spiritus Mundi
Mi turba la vista: in qualche luogo tra le sabbie del deserto
Una forma – corpo di leone, la testa di uomo,
Lo sguardo inespressivo e spietato come il sole –
Si muove sulle sue lente cosce, mentre tutto all’intorno
Turbinano le ombre degli sdegnati uccelli del deserto.

E dunque c’è questa cosa terribile e mostruosa, che si avvicina lentamente a Betlemme, prossima a venire al mondo... Anche i versi finali, inutile dirlo, ti si conficcano dritti nel cuore. Una serie ininterrotta di immagini, da Betlemme al nascituro, e poi, oltre la poesia stessa, fino a Mūsan e Michio, mi si muove tutt’intorno, circondandomi, come quelle ombre minacciose che turbinano nel deserto.

Questa poesia mi ha turbata profondamente, fin da prima che cominciassi a vivere qui al Centro Collettivo. A proposito, facendo vita comune, riduciamo al minimo indispensabile i nostri averi personali, eppure non posso fare a meno di tenere un’antologia di poesie di Yeats sul mio comodino, accanto alla Bibbia. Ci sono stati giorni in cui mi sono sentita come rinchiusa dentro l’eco di quel grido: «Il Secondo Avvento!». Forse è lì che giace la base della mia fede. Gli altri membri del gruppo – a parte il leader, siamo tutte donne – sono più giovani di me, mediamente di una decina di anni, il che crea già di per sé una certa distanza, ma il Fratello Superiore mi ripete sempre che l’età non conta e che non devo preoccuparmene.

Il Secondo Avvento!... Dallo Spiritus Mundi, dove sono custoditi tutti i ricordi fin dalla nascita del genere umano, emerge a poco a poco un leone dalla testa di uomo... So che ti sembrerà strano, ma è come se mi ricordassi direttamente, in prima persona, di quella scena. Non so come spiegartelo, è una sensazione, uno stato d’animo particolare o chissà cos’altro, ma è come se fossi stata là presente e mi ricordassi tutto...Ho una mia fotografia di quando avevo quattro o cinque anni, scattata durante l’estate presso la villa di mio nonno a Komoro. Noi della famiglia ci riferivamo a quell’istantanea chiamandola «la fotografia dei fulmini cadenti». Sono lì, nel giardino davanti alla casa, cinta da un bosco di giganteschi olmi e di slanciati e altissimi aceri. L’evidente effetto onda sull’erba lascia intendere che, nel momento in cui quella foto venne scattata, tirava un vento terribile, e la luce molto fioca contribuisce a conferire all’intera immagine un’atmosfera solenne. Io sono più o meno al centro, con indosso un vestitino bianco con piccole decorazioni sulle spalle e scarpette rosse ai piedi, immobile col volto terrorizzato. Mi si vede con un piede sollevato in avanti, pronta a correre tra le braccia di mio nonno, che scattava la foto. Ho il viso stravolto dalla paura, i lunghi capelli svolazzanti al vento in ogni direzione. In quell’attimo preciso, un fulmine aveva colpito in pieno uno dei grandi olmi alle mie spalle, squarciandone il tronco. Quell’albero rimase così per molto tempo, squarciato e carbonizzato.

Ricordo perfettamente l’istante in cui la fotografia fu scattata... Una violenta raffica di vento foriera di pioggia, poi quel fragore assordante, come se il cielo fosse crollato sulla terra. Caddi di peso sul prato, sotto shock. Per una frazione di secondo, malgrado fossi solo una bambina, avvertii una strana sensazione, forse una sorta di presagio, come se avessi la certezza che qualcosa di terribile stava per accadere, subito. Non so, forse avevo dei poteri premonitori o qualcosa del genere, fatto sta che avevo sentito con tutta me stessa che stava per succedere qualcosa. Fino a un minuto prima ero lì a raccogliere i fiori, accovacciata tra l’erba, con una mano appoggiata al tronco di quell’olmo. E poi, a seguire, quella sensazione di rara intensità, come se di colpo il petto mi si fosse riempito dell’odore del sangue. Se non fosse stato per quella... chiamiamola premonizione, sarei stata carbonizzata dallo stesso fulmine che aveva spaccato l’olmo in due parti. Sarei sopravvissuta unicamente nei ricordi dei miei familiari, come la bambina dal vestitino bianco e le scarpette rosse, e il mondo si sarebbe risparmiato l’ennesima tragedia: la morte di Mūsan e Michio e la mia ossessione per quanto è accaduto.

Il terrore che provai nel giardino della villa di Komoro, tra quegli olmi enormi e quegli altissimi aceri, mi sembra legato indissolubilmente a quest’altra sensazione: in un deserto lontano, chissà dove, una creatura mostruosa con il corpo di un leone e la testa di un uomo si solleva e prende a muoversi; e sebbene io non sia di certo vicino a Betlemme, il tremore della terra mi scuote fino a farmi rizzare i capelli sulla testa... A scanso di equivoci, ci tengo a ribadire che fin qui non ho abbracciato la fede cristiana, non credo al Secondo Avvento di Cristo. Tutto questo è dovuto solo – almeno così ritengo – al mio modo di leggere quella poesia di Yeats.

Come ben sai, gli americani non usano il termine naïve in senso positivo, ma devo dire che gli insegnamenti del Fratello Superiore posseggono una certa forza naïve. Le mie giovani compagne, qui, affermano che lui è capace di osservare le persone e stabilire seduta stante quali parole hanno bisogno di ascoltare in quel momento ed esattamente a quale livello. Inoltre sostengono che, a sentirlo solo parlare, è impossibile comprendere appieno la profondità e la complessità dei suoi pensieri... Non lo so, forse la parola naïve si addice a me stessa come a nessun altro. Anzi, direi sicuramente. Quello che posso affermare per certo è che il Fratello Superiore si esprime sempre a un livello tale per cui anche un nuovo membro come me può riuscire a capire tutto ciò di cui parla, e al contempo mi trasmette, sempre e comunque, la netta sensazione che quello che mi dice sia la vera essenza del suo pensiero.

Questa è solo l’interpretazione di una principiante ma, secondo le parole del nostro Fratello Superiore, la creazione dell’universo da parte di Dio sarebbe tuttora in pieno corso. Allo stesso tempo, l’apocalisse avrebbe già avuto inizio. Così, sebbene il mondo si stia avvicinando alla fase finale in cui avverrà il Giudizio Universale, in realtà non si tratta di altro che di un ulteriore tassello nel processo della creazione, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Dunque avevo ragione a proposito della creatura mostruosa di Yeats, dal corpo leonino e la testa umana: ha già cominciato a muoversi sulle sue lente cosce, sotto il sole infernale del deserto. Perlomeno mi conforta poter pensare a essa e alla sua comparsa come a un altro tassello dell’incessante processo della creazione dell’universo.

Non ho nessuna voglia di pormi da sola al centro dell’attenzione, desidero solo essere una dei tanti, e d’altra parte non mi costa particolare sforzo evitare di parlare di me e delle mie cose. In ogni caso, posso assicurarti che sto sempre attenta a non tirare in ballo certi argomenti con le altre donne di questo Centro Collettivo, argomenti che loro non sono abituate ad ascoltare. Comunque sia, fintantoché il Fratello Superiore non ne farà menzione nei suoi sermoni, tutte si asterranno dal venirmi a dire cosa pensano di Mūsan e Michio. Perciò cerco di fare a meno di parlare della poesia di Yeats con le altre e con lo stesso Fratello Superiore. Qui, al Centro Collettivo, parlare con lui significa parlare con tutti.

Eppure non smetto mai di pensare a quei versi. Continuo ad andare con la mente a quell’informe animale: E quale mai informe animale, giunta finalmente la sua ora, / Si avvicina a Betlemme per nascere? Ora, se questo animale informe, questa bestia mostruosa, è l’Anticristo, allora si tratta esattamente di ciò che desta le maggiori preoccupazioni del nostro Fratello Superiore, il che mi fa sentire un po’ meno isolata.

Come studioso, il Fratello Superiore è solo un dilettante, un autodidatta, ma devo dire che ha compiuto ottime ricerche sulla figura dell’Anticristo, da diverse angolazioni e in specie dal punto di vista linguistico. Mi ha confidato di aver inviato alcune lettere a numerosi specialisti, chiedendo lumi su alcuni punti oscuri, ma pare che fino a ora non abbia ricevuto nessuna risposta soddisfacente. Il prefisso «anti» di Anticristo viene generalmente inteso nel significato di «contro» o «in opposizione a», ma il Fratello Superiore vorrebbe sapere se qualcuno abbia mai interpretato il termine greco antichristos in senso neutrale, ovvero semplicemente come «colui che viene prima di Cristo».

Nel nostro gruppo c’è una ragazza estremamente schietta, Miyo (è la figlia adottiva del Fratello Superiore), la quale, ogniqualvolta la questione viene fuori, si impunta e ripete sempre frasi tipo: «Ma non lo avevamo già risolto questo problema? Si era detto che “anti” stava per “contro”, e non per “prima”, no? Perché ogni volta dobbiamo tornare sullo stesso argomento? Basta, finiamola una volta per tutte».

Come Miyo, anch’io credo che Anticristo significhi «contro Cristo», però, leggendo Yeats, non posso fare a meno di sentirmi attratta dall’immagine di quell’animale mostruoso nel deserto, che si dirige verso Betlemme muovendo lentamente le sue cosce possenti e massicce, in quanto precursore e messaggero neutrale di Cristo, né buono né cattivo.

Il Fratello Superiore è il nostro leader, e su questo non ci sono dubbi, ma non si tratta di un predicatore o di un pastore nel senso proprio dei termini, dotato di chissà quale autorità. Lo puoi capire per esempio dal modo in cui Miyo si prende gioco della sua visione del cristianesimo. Qui, i sermoni sono di tutti, nel senso che ognuno, a turno e solo quando si sente in vena di farlo, ne tiene uno. Io sono arrivata da poco, eppure ne ho già dati diversi. E ti dirò di più: i nostri sermoni sono intesi per noi stessi, cioè per chi li dà, più che per chi li ascolta. Difatti dopo li riascoltiamo più volte, in cuffia. Il Fratello Superiore li registra tutti, utilizzando delle comuni audiocassette. Come avrai constatato, pensando che anche tu potessi essere interessato, te ne ho inviato uno, accludendo la relativa cassetta a questa lettera. Ha anche un titolo: Come confrontarsi con il desiderio sessuale. Tra i sermoni che ho tenuto finora, è l’unico che ha destato un certo interesse tra le mie giovani compagne. Insomma, nessuna di loro pare essersi annoiata. Adesso che ci penso, anche quella “mia” precedente cassetta (almeno inizialmente si pensava fossi io la protagonista, no?), che tu stesso hai avuto modo di ascoltare attentamente, aveva a che fare con il sesso. Che ingenua che ero... Certo, non stiamo parlando di una cosa avvenuta chissà quanto tempo fa, ma sai bene che ciò che è accaduto in seguito ha cambiato forse per sempre la mia vita, scavando una ferita profonda dentro di me.

Naturalmente anche il Fratello Superiore tiene dei sermoni. Essi rivelano soprattutto – almeno questa è la mia impressione e non credo di sbagliarmi – le idee e i princìpi sui quali si basa la nostra vita qui al Centro Collettivo. Condividendo queste idee e questi princìpi, ci liberiamo dalle nostre ossessioni individuali e ci avviciniamo l’una all’altra. Come ripete spesso Miyo: «Siamo sulla giusta via verso l’acquisizione di legami di sangue, vicine le une alle altre più che ai nostri genitori, fratelli, insegnanti e assistenti sociali».

Una volta il Fratello Superiore ci ha detto di immaginare una struttura conica estremamente oblunga, con un gruppo di persone legate insieme attorno alla base, come una catena. Lì, al vertice, risiede la volontà cosmica (nulla a che fare con Coz e la sua compagnia). Ora, Gesù Cristo non ha fatto altro che tentare di portarla più vicino a noi. Nel brevissimo arco di tempo che corrisponde a una vita umana, egli è diventato la sua incarnazione fisica e concreta sulla terra. Ma adesso il suo Secondo Avvento è prossimo, per cui dobbiamo sbrigarci e fare qualcosa. Tutte queste cose ce le dice durante i suoi sermoni, biascicando le parole e imporporandosi in viso come se fosse terribilmente imbarazzato. Mi sembra impossibile che un uomo come lui possa essere stato denunciato dai genitori di alcune nostre compagne con l’accusa di averle plagiate. Insomma, non mi sembra in possesso di tutto questo carisma.

Durante un altro suo sermone, si è verificato un vivace scambio di pareri con la solita Miyo. «In questa nostra epoca», ha affermato il Fratello Superiore, «il Secondo Avvento non è lontano e, pur se devo confessare che nemmeno io sono riuscito a comprendere a fondo questo concetto», (nell’istante preciso in cui ha pronunciato quest’ultima frase, è diventato rosso come un tizzone ardente), «partendo dal presupposto che noi non siamo Cristo...». E qui Miyo lo ha interrotto, urlando ad alta voce: «Ma di che cosa stai parlando? È ovvio che noi non siamo Cristo! Non c’è mica bisogno di precisarlo!». Al che lui ha ripreso il suo discorso, aggiungendo: «Certo, non siamo Cristo, ma non è detto che non possiamo essere l’Anticristo, o perlomeno considerarci tali. Non nel senso di essere contro Cristo, ma intendendo semplicemente che veniamo prima di lui. Lo ripeto, non sono sicuro fino in fondo di ciò che sto dicendo, ma chi può negarlo?».

È tipico del nostro Fratello Superiore ridurre un argomento di così grande importanza a una questione molto più semplice, in questo caso relativa a come interpretare l’anti di antichristos. Lui non smette mai di inviare lettere a questo e a quell’altro specialista di lingue classiche, nella speranza di risolvere il suo dilemma, e ci resta malissimo perché tutti continuano a ignorarlo. Poverino, è così ingenuo, mi fa persino pena, perché prende la cosa molto sul serio. Per lui si tratta davvero di un grande problema, di una questione che lo tormenta, e d’altra parte ho come la sensazione che questa sua ossessione possa essere per noi una chiave per arrivare a qualcosa nascosto in profondità nella sua mente, qualcosa di molto più importante. Difatti, al di là della semplicità estrema e dell’ingenuità, i suoi sermoni hanno quanto meno stimolato il nostro interesse verso ciò che probabilmente costituisce il nucleo del suo pensiero.

Comunque sia, dal momento che sono fermamente decisa a farmi guidare dal suo modo di vedere le cose, ho continuato a eseguire diligentemente la meditazione. Il Secondo Avvento è imminente, e l’Apocalisse ha già avuto inizio. Il mondo, creato dalla volontà cosmica, si sta avvicinando al suo completamento. Tutto ciò che esiste è legato indissolubilmente in quell’unico processo, dal primo istante in cui la vita è nata fino al giorno presente in cui l’apocalisse è cominciata. E mentre questo nostro mondo si avvicina al compimento finale, il tempo in cui viviamo si accresce in densità. Una volta Miyo, prendendo scherzosamente in prestito un aggettivo talora utilizzato per i succhi di frutta, ha coniato il termine “conc-time” – “tempo concentrato” – e da allora tutti, qui al Centro Collettivo, abbiamo preso a farne uso in riferimento a quel concetto. Il Fratello Superiore dice che la capacità di percepire tale densità del tempo, ovvero questo “conc-time”, è fondamentale per vivere al meglio questo periodo in cui il mondo si avvia all’apocalisse. Il nostro training, la nostra meditazione, consiste nell’imparare a percepire la densità del tempo. Il Fratello Superiore ripete spesso che, ora che ci muoviamo verso la fine dei tempi, verrà il giorno in cui quelli che saranno in grado di percepire la densità crescente del tempo presente raggiungeranno tutti insieme uno stato di profonda armonia, forse levando la loro voce al cielo, o forse restando in silenzio. Per allora, milioni e milioni di centri come il nostro saranno sorti in ogni parte del pianeta, e in quel giorno speciale le loro forze si uniranno in un solo istante, perseguendo un risultato che avrà dell’incredibile e sarà di gran lunga superiore al potere che il Vaticano è riuscito a raccogliere nel corso di secoli di storia. L’umanità così riunita – in altre parole noi, il creato – invierà una chiara risposta alla volontà cosmica, che ha dato vita al nostro mondo ed è ora assorta nel processo del suo definitivo completamento attraverso l’apocalisse. Miyo sostiene che le persone in ogni angolo del globo, messe in connessione dai segnali emessi da un satellite per le comunicazioni, leveranno gli occhi al cielo e grideranno all’unisono: «Amen!». In questo modo, ovunque la volontà cosmica si trovi, noi le rivolgeremo il nostro appello da ogni possibile direzione.

Tutte queste persone capaci di percepire la densità del tempo, che aumenta a ritmo sempre più sostenuto man mano che ci avviciniamo alla fine del tempo, sono da ritenere come una moltitudine di Anticristi. Ecco perché è importante considerare il prefisso “anti”, che provoca tanto tormento al nostro Fratello Superiore, nella sua possibile accezione di “prima”.

Come ho già accennato, la meditazione è il sistema che il Fratello Superiore ha escogitato per aiutarci ad apprendere il “conc-time”. Lui non si presenta come un uomo dotto, un intellettuale, e d’altra parte non è nemmeno un uomo d’azione – perdonami se prima ho osato paragonarlo a te senza occhiali –, ma sono sicura che è una di quelle persone capaci di concentrarsi al massimo in una determinata cosa, nonché di creare un sistema valido e concreto grazie al quale portare avanti le proprie idee. Non a caso, esattamente in questo modo, è riuscito a fondare questo Centro Collettivo e vi ha già accolto numerosi membri. Questo posto non costituisce nulla di trascendentale, è solo un luogo dove meditare, un luogo per renderci il più possibile sensibili alla densità del tempo, al “conc-time”.

Certo, sarebbe bello se si potesse percepire appieno questo “conc-time” semplicemente vivendo nel tempo presente. In realtà vengono momenti in cui ciò è possibile, ma in generale non si tratta di una cosa che il singolo individuo può stabilire a suo piacimento. Lo scopo del sistema messo a punto dal Fratello Superiore punta a farti recuperare quei momenti che hanno lasciato maggiormente il segno nella tua vita e a tentare di sovrapporli al tempo presente. Non soltanto ricordando quegli eventi passati, bensì facendo sì che il momento presente, un altro tempo diverso dal momento presente e ancora un terzo tempo distinto e separato dai primi due procedano di pari passo, in parallelo, come fili differenti di una stessa trama. Coloro i quali sono in grado di fare questo, riescono a sentire la densità del tempo aumentare, e poi raddoppiarsi e triplicarsi. Per aiutarci a realizzare anche visivamente questo concetto, ci sono immagini dell’arcobaleno dappertutto, alle pareti della sala riunioni e delle nostre stanze.

Questo sistema di meditazione mi è particolarmente congeniale. In effetti si tratta del motivo principale che mi ha spinta a unirmi a questo gruppo. Dopo quel fatto, non sono più riuscita ad allontanare Mūsan e Michio dalla mia mente, nemmeno per un singolo istante. Persino quando sembrano volersi mettere da parte, in un angolino, me ne accorgo subito ed ecco che tornano di nuovo al centro. È estenuante, da farti rasentare la follia – Satchan dice la stessa identica cosa nelle sue lettere. Le mie giornate, prima di venire qui e incontrare il Fratello Superiore, erano pura sofferenza. Il solo pensiero che tutti i giorni della mia vita sarebbero stati così mi aveva fatto sprofondare in una disperazione lacerante, senza vie d’uscita, e venivano momenti in cui non riuscivo a pensare ad altra soluzione che al suicidio. Ma se mi fossi tolta la vita, come forse ti ho già detto in una precedente occasione, tutte le immagini dei miei figli presenti in questa mia testa inutile si sarebbero estinte in un solo istante, per sempre. Oltre a non aver impedito l’autodistruzione di Mūsan e Michio nella nostra realtà, avrei cancellato anche le loro ultime tracce esistenti dentro di me. Perciò, anche se stavo soffrendo da cani, ho deciso di non suicidarmi.

Poi è arrivato il Fratello Superiore e mi ha dato questo consiglio: «Tu affermi che questo terribile “presente”, vale a dire il tempo subito prima e dopo l’incidente, è sempre vivo nella tua mente, accanto al momento presente reale, ovvero la tua quotidianità. Dunque perché non tentare di sovrapporre un ulteriore tempo presente, e cioè un terzo “adesso” in cui i tuoi figli erano vivi e felici, agli altri due?».

Queste parole del Fratello Superiore svelano la vera essenza della nostra meditazione, un sistema pensato per raggiungere l’armonia. Quando lui mi ha spiegato, all’inizio, come praticare questo esercizio, ci ha tenuto a sottolineare che avrei potuto addirittura utilizzare i ricordi di Izukōgen a mio vantaggio. «Se non riesci a liberarti di quei brutti momenti», mi ha detto, «cerca di prenderli così come vengono, nel modo più semplice e diretto possibile. Ma non come oggetto di rimorso o di colpa insanabile, bensì in maniera neutra, come se fossi impegnata in un esercizio meccanico, e infine prova a sovrapporli al presente, al tuo adesso. Riporta in vita quell’incidente, così come appare nella tua mente, e sovrapponilo al tempo che stai vivendo qui, ora. Se farai esattamente come ti dico, vedrai che verranno momenti in cui un terzo presente, ossia il tempo in cui vivevi felice con Mūsan e Michio, affiorerà spontaneamente in superficie e andrà a sovrapporsi agli altri due. Non permettere che quei tuoi ricordi scivolino via! Perché in questo modo potrai godere di una triplice esperienza del tempo.»

Da quel giorno, ho seguito a puntino le istruzioni del Fratello Superiore, e la mia vita è cambiata. Naturalmente il dolore per quel fatto in quanto avvenimento di cui sto avendo esperienza adesso, in questo momento, non è scomparso e fa male come prima, è sempre là, al centro della mia mente, e si accavalla a tutto ciò che faccio quotidianamente qui al Centro Collettivo. Ora però, a differenza di prima, sono riuscita ad aggiungervi il tempo in cui io e i miei figli eravamo felici insieme. Questo mi dà un senso reale della densità del momento presente, che mi aiuta a comprendere, un po’ per volta, quanto il tempo stia diventando via via più denso, intanto che ci muoviamo verso l’apocalisse. Intendiamoci, non sto dicendo che sono riuscita a discernere ogni cosa a fondo, però...

Tutte le mattine, quando mi appresto a eseguire la meditazione, faccio ricorso a piccoli frammenti di ricordi per pormi nel giusto stato mentale. Ecco, per esempio, sono in una stanza inondata dalla luce del sole mattutino, in compagnia di Mūsan, ancora un bel bambino privo di qualsiasi scompenso fisico testimone del suo ritardo mentale, il ritratto perfetto della pura innocenza, e insieme ascoltiamo la musica classica alla radio. «Chopin», gli dico, e lui ripete: «Opan!». «Questo è Beethoven!» gli annuncio, e lui mi dice: «Bee-bee!». Intanto, nel lettino a breve distanza da noi, Michio sta costruendo un aeroplano più grande della sua stessa testa con i mattoncini Lego.

Anche questo è un mio presente...

Oppure, ecco Michio in compagnia di un’amichetta dell’asilo, a casa nostra. Giocano felici insieme, raccontandosi a turno una storia che combina Cappuccetto rosso e Riccioli d’oro e i tre orsi. La bimba decide di ribattezzare Cappuccetto rosso «Furufuru-chan», le piace come suona questo nome e lo ripete mille volte. Adesso tocca a Michio fare da narratore, quando la storiella è arrivata al punto esatto in cui Furufuru-chan incontra i tre orsi. Racconta con vera maestria, senza sbagliare una parola, con voce forte e chiara, riproducendo addirittura – in pieno stile da libro di favole – tutto il clamore a cui la piccola protagonista dà vita quando entra nella casetta di legno nella foresta. Poi, quando viene di nuovo il suo turno, la bimba, senz’affatto mostrare uno spirito competitivo, chiede: «Cosa succede dopo?». Al che Michio, sussurrando con l’indice accostato al naso, risponde: «Sss! Abbassa la voce!». Lui sa che sto registrando la storia su una cassetta, e vuole che tutto sia perfetto. Allora, giusto in quel momento, Mūsan interviene esclamando: «No, no, alza la voce!». Anche se ha orecchio per la musica, non è in grado di seguire al meglio la conversazione tra i due bambini, ma vuole a tutti i costi sentirsi partecipe. E infine la bimba, dolcissima e dando prova di presenza di spirito, replica: «Va bene, allora facciamo che parlo con mezza voce!».

E anche quest’altro è un mio presente...

Aggiungendo tutti questi «presenti» al presente in cui vivo, rendo il tempo più denso, soddisfacendo lo scopo ultimo del nostro sistema di meditazione. Inutile dire che, mentre riporto in vita questi altri «presenti», in cui rivivo felicemente con i miei figli, ce n’è anche un altro che non mi abbandona mai e viene puntualmente a sovrapporsi, quello di Izukōgen. Ma ormai ho smesso da un pezzo di tentare di liberarmene, l’ho accettato così com’è, seguendo il consiglio del Fratello Superiore. Di recente, però, ho notato che la mia immagine mentale di quest’altro spaventoso presente tende a cambiare a seconda dei lievi mutamenti del mio stato d’animo durante la meditazione. E questi cambiamenti hanno ormai assunto due forme distinte e separate.

Una consiste fondamentalmente nell’immagine che ha continuato a ossessionarmi fin da allora: Mūsan che si lancia dall’alto di quella scogliera, con le dita che tappano le orecchie per non udire le voci di coloro che gli urlavano di fermarsi, lui, un ragazzo semplice e innocente, profondamente influenzato dai discorsi del fratello sull’infelicità che due persone disabili come loro avrebbero dovuto patire vivendo in un mondo ingiusto e crudele, al punto da convincersi che spiccare quel balzo verso l’aldilà fosse l’unica via possibile. E Michio, dapprima persuaso a desistere da quelle stesse voci e che poi, scosso dall’esempio di Mūsan, si getta a tutta velocità nel vuoto con la sua sedia a rotelle.

Quando sovrappongo quegli ultimi istanti delle loro vite al mio attimo presente, il tempo diviene denso come non mai, il che rende il dolore di sopravvivere atroce fino al limite della sopportabilità. In quei momenti, come esortata da questa angoscia crescente, mi tappo le orecchie con le dita e mimo il gesto di lanciarmi nel vuoto; oppure, seduta sulla sedia, inclino il busto in avanti fin quasi a toccarmi le ginocchia e tendo al massimo i muscoli delle braccia immaginando di stringere forte due grandi ruote. Ecco in cosa consiste la nostra meditazione: esperire il presente come «tempo condensato». Tuttavia, quanto più riesco in questo scopo, tanto più mi sento esausta, sia nel corpo sia nella mente. Ci sono volte in cui, dopo la meditazione, sono così sfinita da non poter fare altro che raggiungere il mio letto, scostare la tendina e tuffarmici sopra – forse non te l’ho ancora detto, ma dormiamo in letti a castello provvisti, sia sopra sia sotto, di una sorta di cortina separatoria.

Non ho mai preso in considerazione l’idea di riferire tutto ciò alle altre, durante un sermone – non ne ho mai discusso nemmeno con il Fratello Superiore –, ma ho pensato che questa prima immagine e le conseguenze che provoca in me possono essere l’inferno, dove rivivo gli ultimi momenti di Mūsan e Michio intensamente, giorno dopo giorno. Un inferno in cui, al posto dei miasmi di acido solforico, c’è questo presente estremamente denso. E continuo a pensarci senza sosta, qui, al Centro Collettivo, dove tutto avviene ora, adesso.

In questo modo, sebbene non avrei mai creduto che una cosa del genere potesse avverarsi, ho cominciato a intravedere qualcosa che può corrispondere al paradiso, all’esatto opposto, è ovvio, dell’inferno. Mi sto riferendo, lo avrai capito, alla seconda immagine che scaturisce con una certa frequenza dalle mie meditazioni su Mūsan e Michio.

Nelle settimane precedenti a quel fatto, senza che né Satchan né io ci fossimo accorti di nulla, Michio aveva persuaso Mūsan a morire con lui. Fino a poco fa ero convinta che ci fosse riuscito insistendo sul lato tragico della vita, ma poi, in questi ultimi giorni, ho cominciato a pensare che molto probabilmente mi sbagliavo. Mūsan amava tante cose della vita: ascoltare la musica, per esempio, ma anche guardare il sumō alla TV, o gustare i suoi cibi preferiti. Di certo era consapevole del fatto che, pur essendo più grosso e forte di Michio, non era intelligente quanto lui, ma non credo che si fosse mai considerato un «ragazzo portatore di handicap». Quando frequentava la scuola per disabili, quasi certamente si rendeva conto che lui e i suoi compagni erano in qualche modo diversi dagli altri ragazzi, ma non per questo si riteneva inferiore. Considerava i suoi compagni come amici di cui essere fieri, persone uniche, splendide e interessanti.

Quello che sto cercando di dire è che sarebbe stato molto difficile per Michio, se non impossibile, convincere il fratello che questo nostro mondo è un posto terribile, pieno di dolore e miseria. È invece molto più verosimile che si fosse messo a insistere e a incantarlo con discorsi sui piaceri e sulle meraviglie dell’aldilà, parlandogli di un luogo da favola dove tutti i ragazzi affetti da un ritardo mentale o costretti su una sedia a rotelle non si sarebbero mai imbattuti in alcun tipo di pregiudizio, dove avrebbe potuto godere a sazietà di tutto il meglio della vita: musica, sumō e tante cose buone da mangiare. E intanto che era là a raccontargli di questo posto incredibile chiamato paradiso, non avrà finito per crederci anche lui?

Così, mentre mi sforzavo di andare con la mente all’attimo preciso in cui Mūsan e Michio spiccavano il balzo verso la felicità suprema nel paradiso, sovrapponendo quel presente al mio presente di adesso, mi sono accorta che dentro di me stava avvenendo un certo cambiamento. E allora mi sono ritrovata a pensare: forse questo paradiso esiste per davvero, né più né meno come lo descriveva Michio!

È presumibile che Michio non fosse convinto fino in fondo – o almeno non sempre – di ciò che diceva. Tuttavia Mūsan, nella sua infinita innocenza, aveva recepito ogni cosa come si trattasse di pura verità, una verità per lui meravigliosa, capace di annullare in un colpo solo le voci e gli ammonimenti degli adulti e di spingerlo a compiere quel grande salto nel vuoto. Ora, visto che si trattava di un potere così estremo, incommensurabile, non poteva darsi che scaturisse effettivamente da una qualche verità insita nella parole di Michio, magari addirittura a sua insaputa? E quelle medesime parole, una volta purificatesi nel cuore illibato di Mūsan, non sono forse ritornate nel cuore dello stesso Michio? In effetti all’ultimo momento, incitato dalle voci provenienti da quella sporgenza rocciosa poco distante, egli aveva tirato il freno della sua sedia a rotelle, ma non per questo aveva smesso di credere nell’esistenza del paradiso, che continuava a riecheggiare dentro di sé attraverso Mūsan.

In quel presente, adesso e per sempre, subito dopo il balzo dalla scogliera di Izukōgen, Michio procede nella sua sedia a rotelle, leggera come se avesse le ali, con il cuore ora lindo e puro, in compagnia di Mūsan, caro e allegro come di consueto, lì alle sue spalle a spingerlo... Ecco, è esattamente questa l’altra scena che mi affiora nella mente quando sono immersa nella meditazione. E tutt’a un tratto, mentre ci rimuginavo, mi sono resa conto per la prima volta, provando un brivido intenso e indescrivibile, che Dio c’è, esiste! Ripensandoci adesso, forse in passato ne avevo già avuto una sorta di presentimento, leggendo i romanzi di Flannery O’Connor. Potrei quasi dire che era proprio questo il mio «mistero»...

Come confrontarsi con il desiderio sessuale – Ascolto della cassetta.

In quest’ultima settimana, siamo state completamente assorbite dalla vicenda di Yukie. Perciò ho provato a riflettere e mi sono sforzata di capire come sia potuta succedere una cosa del genere. Il Fratello Superiore mi ha detto: «Yukie è una di noi, per cui puoi tranquillamente parlarne in maniera franca e diretta, senza girarci troppo intorno». Ecco perché ho scelto un titolo così esplicito per questo mio sermone di oggi: Come confrontarsi con il desiderio sessuale.
Alla fine, come tutte sappiamo, Yukie ha lasciato il Centro Collettivo. Anche se sono arrivata qui da poco, so che in precedenza ha dovuto lottare spesso contro i suoi genitori, i quali hanno tentato numerose volte di riportarsela a casa. Sono rimasta profondamente impressionata dal suo coraggio, e ho provato al contempo disgusto nei confronti di quei due genitori prepotenti ed egoisti, immaginando quanto dovesse essere fredda e priva di vero amore la casa dove intendevano ricondurla. Ora che Yukie è là, tra quelle gelide pareti prive di conforto, penso di continuo a lei con immensa tristezza. E sono certa che tutte voi stiate facendo altrettanto.
Yukie non voleva assolutamente andarsene, questo lo sappiamo bene. Ma sappiamo anche che, finché lei fosse rimasta qui, nessuna di noi sarebbe stata in grado di dedicarsi alla meditazione in piena tranquillità. A un certo punto la nostra pazienza ha raggiunto il limite ed è successo quello che tutte sappiamo. Eppure, fino all’ultimo, abbiamo temuto che potesse tentare il suicidio. Perciò qualcuno doveva pur indossare i panni dell’ipocrisia e accompagnarla sana e salva a casa dei suoi genitori, quella casa per lei così triste e deprimente. E infine, come tutte sapete, ho deciso di essere io quel qualcuno. Non è stato affatto facile, ho sofferto molto, credetemi.
Nel treno da Kamakura a Mishima, ce ne siamo rimaste sedute l’una accanto all’altra e non abbiamo quasi mai smesso di parlare. Mi viene in mente un’altra volta, tempo addietro, in cui ero a bordo di un treno a lunga percorrenza ed ero rimasta colpita da due donne impegnate in una fitta conversazione, l’una abbastanza più anziana dell’altra ma non al punto da poter essere sua madre. Mi sembravano così strane e buffe. Ma sono sicura che ieri, in quel treno, anche Yukie e io abbiamo dato la stessa identica impressione agli altri passeggeri. A volte capitano cose di questo tipo, eh?
Siete tutte già al corrente di ciò di cui Yukie mi ha parlato. Abbiamo condannato duramente il suo comportamento, ma credo che, se le cose fossero state affrontate in maniera leggermente diversa, si sarebbe potuto giungere a una soluzione prima che la faccenda prendesse la piega che ha preso e degenerasse. Questo lo dico soprattutto, attenzione, dopo essermi sforzata di riconsiderare il tutto immedesimandomi in lei, cercando di vedere le cose così come le vedeva lei. Ed ecco che infine ho deciso di affrontare, nel sermone di oggi, il tema del desiderio sessuale e il modo in cui fronteggiarlo.
Lasciandosi coinvolgere oltre il dovuto nel rapporto emotivo con il nostro Fratello Superiore, Yukie si è creata da sola un grande problema. E la cosa ha raggiunto un punto a dir poco critico quando ha cominciato a sgattaiolare nel suo letto. A sua discolpa, il Fratello Superiore ha affermato di aver ceduto e di aver fatto sesso con lei solo per non rischiare di peggiorare la situazione, per calmarla. Ma quando poi lui ha continuato ad assecondarla, purtroppo la situazione si è resa ancor più complicata. Difatti Yukie ha cominciato a dire che sarebbe diventata sua moglie e ha tentato di conquistarsi una buona dose di potere.
Ora è chiaro che, pur senza arrivare a certi estremi, riservare un trattamento speciale solo ad alcune di noi provocherebbe un effetto negativo su tutte le altre. E infatti, non a caso, ci siamo subito schierate contro Yukie. Qui siamo tutte uguali, la nostra è una perfetta democrazia, e persino Miyo viene trattata allo stesso modo di tutte le altre, anche se è la figlia adottiva del Fratello Superiore. Oltretutto non dobbiamo dimenticare che il nostro leader è a rischio diabete, e una seconda vita matrimoniale potrebbe mandarlo al tappeto! (Marie si lascia scappare un risolino) A parte gli scherzi, tutte sappiamo che le sue grandi priorità sono la gestione di questo Centro Collettivo e la ricerca di una serenità spirituale. Eppure abbiamo vissuto una settimana di confusione impensabile, il caos sembrava aver preso il sopravvento, e alla fine siamo state costrette a chiedergli di dire a Yukie di andare via.
Ma torniamo adesso alla lunga conversazione in treno. Prima di unirsi al nostro gruppo, Yukie aveva un fidanzato con il quale aveva regolari rapporti sessuali. Entrambe le famiglie non vedevano di buon occhio la loro storia e, dopo vari tentativi, erano riuscite a farli allontanare l’una dall’altro. In pratica, la fine della storia d’amore a causa dell’opposizione dei famigliari era stata la prima ragione alla base della scelta di Yukie di abbandonare tutto e venire a vivere al Centro Collettivo. Aveva trovato una risposta ai suoi problemi nei sermoni del nostro Fratello Superiore e aveva deciso di diventare un membro ufficiale del gruppo, anche per sancire l’amore e il rispetto che provava per lui.
Sia chiaro, inizialmente non aveva nessuna intenzione di andarci a letto. Non provava la minima attrazione fisica nei suoi confronti, gli voleva bene come a uno zio, o tutt’al più come a un... fratello maggiore. (Marie ride di nuovo) Ma d’altra parte bisogna anche considerare che qui con noi non ci sono altri uomini. A ogni modo, Yukie ha continuato a lavorare per un certo periodo in un bar come hostess, per racimolare del denaro da donare al nostro fondo comune. Tuttavia, vergognandosi e nel timore di essere giudicata male da tutte noi, rivolgeva a stento la parola ai clienti e ai suoi colleghi.
Poi, a poco a poco, ha cominciato a farsi guidare sempre meno dai suoi pensieri e ha preferito dare ascolto a quella forza che proveniva dal di sotto della sua vita. Una notte, avendo evidentemente raggiunto il limite, esclama a sé stessa: «Basta, non ne posso più!» e corre a rifugiarsi nel letto del Fratello Superiore. Dopo aver fatto sesso con lui, inizia a sentire un’attrazione ben diversa da quella precedente. A riprova di ciò, nei giorni immediatamente successivi, manifesta un’evidente gelosia verso chiunque osi palesare il suo affetto per il Fratello Superiore, lasciandosi spesso andare a commenti duri e minacciosi, persino nei confronti di Miyo. D’altra parte questo avete potuto constatarlo tutte, con i vostri stessi occhi.
Credo che ciò di cui mi ha parlato Yukie sia molto importante, perché si tratta di qualcosa che potrebbe accadere a ognuna di noi. Intendo dire che la testa può perdere il controllo in qualsiasi momento, lasciandosi sopraffare da quelle forze istintive che provengono dal basso... E se queste forze prenderanno di nuovo il sopravvento, qualcun’altra potrebbe essere spinta verso la camera da letto del nostro Fratello Superiore, al quale magari la cosa potrebbe anche non dispiacere affatto! (Marie ride ancora)
Cosa possiamo fare, dunque? Come vi ho detto all’inizio, sarò molto schietta e diretta, perciò vi chiedo di non stupirvi più di tanto. Utilizzando un termine che io e le mie compagne di classe usavamo di frequente ai tempi del liceo, a New York, noi tutte abbiamo bisogno di «depressurizzare», dobbiamo scaricare quell’energia che viene dal basso. Ora, la masturbazione è forse il metodo migliore per riuscirci, un metodo molto pratico e conveniente. Ci insegnano a considerarla come qualcosa di moralmente sgradevole, è vero, ma troppo spesso dimentichiamo che la Bibbia condanna unicamente quella maschile. Detto così, in parole semplici, agli uomini viene contestato lo spreco del seme, che andrebbe destinato all’unico scopo di moltiplicare la specie. Questo, è ovvio, non può valere per noi donne.
Ora, nel nostro caso, dal punto di vista pratico – è precisamente alla nostra vita quotidiana qui al Centro Collettivo che ho pensato quando ho scelto di intitolare in un certo modo questo sermone – credo che una soluzione ci sia. Dal momento che dormiamo in letti a castello, e non in stanze singole, dobbiamo considerare che, se vogliamo «depressurizzarci» al meglio, non possiamo certamente lasciarci condizionare dal fatto che qualcuno potrebbe sentirci. Se vogliamo essere in grado di svolgere per bene i nostri compiti, soprattutto la meditazione, dobbiamo liberarci da ogni ansia. Quello che sto cercando di dirvi è che dobbiamo imparare a masturbarci liberamente, ogniqualvolta ne abbiamo il desiderio, senza preoccuparci della presenza e del giudizio altrui. La mia speranza è che in questo modo nessuna di noi, al colmo dell’esasperazione, potrà pensare qualcosa tipo: “Basta, non ne posso più!”, lasciando che le forze dal basso prendano il sopravvento e saltando giù dal letto nel cuore della notte.
Quando le cose si mettono male e sentiamo di essere vicine al limite, perché non masturbarci in modo da liberare la mente? In ogni caso è sempre meglio che trovare rifugio nell’alcol! Del resto non credo che esista una vera e propria dipendenza patologica dalla masturbazione. O meglio è qualcosa che è possibile riscontrare nelle scimmie allo zoo, ma non negli esseri umani. Se riusciremo a «depressurizzarci» a dovere e libereremo l’energia sessuale che è dentro di noi, saremo in grado di concentrarci nella meditazione, almeno finché la pressione interna non sarà di nuovo aumentata.

 8.

L’estate dell’anno successivo – la lettera e la cassetta di Marie le avevo ricevute al principio dello stesso anno – andai con Hikari alla nostra casa di montagna a Kita Karuizawa, dopo la fine dell’anno scolastico. Sua sorella e suo fratello, ancora impegnati in alcune attività extrascolastiche, rimasero a Tokyo con la madre.

Un mattino in cui l’aria era frizzante nonostante la stagione e la bruma stentava a diradarsi, il telefono prese a squillare con insistenza. Alcuni minuti addietro avevo svegliato Hikari per dargli la prima dose giornaliera di medicinali antiepilettici e me n’ero da poco tornato a letto al piano di sopra, quando lo sentii sollevare il ricevitore dell’apparecchio posto accanto al caminetto. La nostra villetta è una sorta di grande scatola suddivisa solo parzialmente in vari ambienti, per mezzo di pareti incomplete, secondo la precisa concezione dell’architetto che l’ha disegnata, per cui quando il telefono si mette a squillare, in qualunque parte della casa ci si trovi, lo si sente forte e chiaro, come se fosse situato a pochi metri di distanza. Per sfuggire agli effetti di questa «magnifica uniformità acustica», in seguito avevo fatto costruire un piccolo studio separato accanto alla villetta, dove dormivo da solo quando la famiglia era al gran completo. Dopo un po’, Hikari riagganciò la cornetta. A giudicare dal tono della conversazione, dedussi che la chiamata provenisse da mia moglie, desiderosa di accertarsi che nostro figlio avesse assunto regolarmente le medicine.

Verso mezzogiorno, Hikari e io uscimmo per andare a mangiare, incamminandoci lungo il sentiero fiancheggiato da una lussureggiante vegetazione estiva, diretti a un ristorantino nei pressi della vecchia stazione ferroviaria della linea Kusakaru. Tra le pareti rivestite di bei tronchi di legno, che facevano parte del nuovo arredo interno del ristorante, consumammo il nostro consueto inaka rāmen,* dopo di che andammo al minimarket accanto, semideserto perché la stagione turistica era solo agli inizi, e facemmo la spesa per la cena. Sulla via del ritorno, Hikari, fino ad allora perduto nei suoi pensieri, ruppe di colpo il silenzio e disse: «Stasera la mamma di Mūsan verrà qui da noi».

Ecco che cosa annunciava la telefonata di quella mattina! Occorreva cambiare in fretta i programmi per la cena. Facemmo dietro-front e tornammo subito al minimarket, dove chiamai mia moglie da un telefono pubblico e le chiesi maggiori dettagli. Stando a quanto mi riferì, durante la stagione estiva, alcune stanze del Centro Collettivo di Kamakura di cui Marie faceva parte venivano concesse in affitto ai villeggianti, a prezzi molto modici, e questo costringeva i membri del gruppo religioso a vivere in spazi ancor più angusti del solito. Inoltre, a causa del continuo andirivieni e della baldoria che i vacanzieri facevano fino a notte fonda, era praticamente impossibile riposare bene.

Asao e i suoi due inseparabili compagni, che avevano fatto una sosta al Centro Collettivo prima di dirigersi alla spiaggia di Kamakura, si erano messi in contatto con mia moglie e le avevano detto di aver trovato Marie molto cambiata e spossata. Al che era stata proprio mia moglie a suggerire di convincerla a prendersi una vacanza e venire a Kita Karuizawa. Quella mattina – finalmente adesso era chiaro – era stata Marie in persona a telefonare per annunciare il suo arrivo nella regione dello Shinshū.

Comprammo un bel po’ di carne e birra e tornammo a casa. Nemmeno il tempo di finire le pulizie, vidi arrivare la jeep che ormai ben conoscevo. Procedeva senza la minima esitazione, come se chi era alla guida conoscesse bene la strada, anche se non c’erano cartelli o segnali: evidentemente si erano fermati dal custode per chiedere le indicazioni.

Quando io e Hikari uscimmo per accoglierli, Asao era già intento a scaricare i bagagli, mentre Marie se ne stava in piedi accanto alla jeep, impalata e senza dire una parola. Con il viso nascosto da un grande cappello a tesa larga e dagli occhiali da sole, si volse nella nostra direzione e ci salutò chinando leggermente il capo, quasi non avesse la forza di fare altro. La gonna bianca plissettata e i sandali di pelle del medesimo colore contribuivano a conferirle un aspetto disinvolto e raffinato, che sembrava addirsi ben poco alla vita di comunità descritta nelle sue lettere, in compagnia del Fratello Superiore – quest’uomo piuttosto misterioso oltre la mezza età – e delle sue giovani accolite.

Quando finalmente si mosse e avanzò verso la veranda, seguendo Asao che le portava la valigia, notai che, a parte il consueto rossetto carminio alla Betty Boop, il suo viso era di un pallore cadaverico, reso ancor più impressionante dall’impossibilità di scorgerne l’espressione, completamente occultata dagli occhiali scuri.

«Su, entrate», dissi loro, osservando le falde flosce del cappello di Marie fluttuare al vento. «Che ne direste di un po’ di formaggio e di un paio di birre ghiacciate?»

«Abbiamo mangiato un bentō*lungo la strada», rispose Asao per entrambi, appoggiando la valigia per terra e restando in piedi visibilmente imbarazzato, lo sguardo basso quasi che, chinandosi, avesse percepito un odore provenire da sotto la gonna di Marie, che in quel preciso momento stava salendo molto adagio i gradini della veranda.

«Asao deve rientrare subito a Tokyo», disse Marie, rompendo finalmente il silenzio e lasciando trapelare una certa stanchezza. «Domani ha un appuntamento importante per un nuovo incarico di lavoro.»

Hikari, fino a quel momento, se n’era stato tranquillo al mio fianco, ma evidentemente aveva continuato a rimuginare sulla stessa cosa per tutto il tempo.

«E la piscina?» mi chiese all’improvviso, quasi urlando. «Adesso il tempo è bello!»

Potenti raggi di sole si insinuavano attraverso il bosco di betulle, e le nuvole risplendevano di luce chiara sopra le nostre teste. Era la stagione dei rovesci improvvisi, ma, nei giorni in cui al pomeriggio il tempo volgeva al sereno, eravamo soliti andare in una piscina a circa tre chilometri da casa nostra e cenare da quelle parti. Intuendo che Marie non era dell’umore giusto, Hikari aveva temuto che, una volta entrati in casa, non sarebbe stato più possibile andare in piscina e, soprattutto, consumare la cena che stava già pregustando.

«Ah, Hikari», intervenne Marie, afferrando al volo la situazione, «avevate in programma di andare in piscina? Potremmo andarci tutti insieme, Asao ci darà volentieri uno strappo.»

«Ma sarai molto stanca», le dissi, «non è meglio che ti riposi?»

«Non preoccuparti, dormirò mentre prenderò il sole a bordo vasca», replicò lei in tono allegro, come se avesse ritrovato un pizzico di brio. «Per fortuna ho portato con me il costume.»

Venti minuti più tardi eravamo già in piscina. Dopo essersene stato per un po’ a mollo nella vasca per i bambini, Hikari si mise a nuotare col suo stile peculiare, ovvero camminando nell’acqua ginocchioni. Vuoi per la nebbia della mattina, vuoi per il fatto che eravamo a inizio stagione, avevo quasi tutta la piscina a mia disposizione. Feci qualche vasca e poi risalii, sul lato che dava su un’ampia vallata.

Con un magnifico declivio ricoperto di verde e fulgido fogliame alle sue spalle, in un’aria cristallina che mostrava ogni dettaglio con una nettezza quasi innaturale, Marie giaceva addormentata su un lettino di plastica, con gli occhiali da sole sul viso, il respiro profondo e costante. Le sue cosce, sottili ma ben tornite, curvavano sinuose all’altezza dei fianchi, simili a un cucchiaio e seguendo la linea del costume a strisce bianche e blu, quindi convergevano verso la concavità dell’addome come le gambe di una bambola snodabile. Mentre me ne stavo là in piedi, gocciolando acqua e ammirandola dall’alto, ebbi la sensazione che il suo pube rigonfio, premendo contro il costume, si sollevasse per venire incontro al mio sguardo. In Messico, mesi addietro, avevo sognato quella soffice massa di peli pubici fluttuare liberamente...

Mi sdraiai sul lettino lì accanto a osservare le nuvole muoversi rapide e le montagne verdi, che sembravano gravare su di me dall’alto. La forma e la consistenza delle cosce e dell’addome di Marie non mi sembravano quelle di una donna nata e cresciuta in questo paese; in qualche modo, non saprei dire come, avevano conservato i segni dell’adolescenza e della gioventù trascorse in un liceo degli Stati Uniti. Ripensai ancora una volta alla sua voce, schietta e pressante, registrata in quella cassetta intitolata Come confrontarsi con il desiderio sessuale.

Tutt’a un tratto una brezza montana carica di umidità prese a soffiare nella valle. Sollevai il capo e scorsi la pioggia che cominciava ad abbattersi con notevole intensità contro il fianco della montagna di fronte, di colpo sommersa dall’ombra. Entro pochissimo tempo la pioggia avrebbe raggiunto anche noi. I ragazzini del posto, tutti già fuori dall’acqua, correvano a destra e a manca in preda al panico, battendo i denti per il freddo. Volsi lo sguardo verso Hikari, completamente solo nella vasca dei bambini, ancora lì a nuotacchiare come un indolente mostro marino.

Marie emise un grido improvviso, straziante. Mi voltai dalla sua parte e scorsi i suoi occhi spalancati che mi fissavano, iniettati di terrore. Si era girata verso di me con l’intero busto, la protuberanza dei seni tutta compressa da un lato.

«Sta per piovere...» le dissi.

«Mi sono assopita solo per un po’, ma ho fatto un sogno lunghissimo», mi rispose, quasi che non avesse ascoltato le mie parole, allungando il braccio per raggiungere l’asciugamano ripiegato ai suoi piedi, sul quale stava appoggiato il suo grande cappello. Poi si mise seduta sul lettino con le gambe piegate da un lato e si coprì il petto e lo stomaco. «Ero nella villa di mio nonno», continuò, alludendo al sogno, «sull’altro versante del monte Asama... Quella montagna là di fronte, che si è oscurata all’improvviso, è il monte Asama, vero?»

«No, il monte Asama si trova nella direzione opposta, quello è il Takatsunagi. È così scuro perché sta per diluviare, dobbiamo andare via. Vado a chiamare subito Hikari.»

Mentre mi dirigevo verso la vasca dei bambini, girando intorno alla piscina, le prime gocce di pioggia, illuminate dagli ultimi scampoli di sole, presero a colpire rumorosamente la superficie dell’acqua e a pungermi la schiena. In breve la pioggia si trasformò in un violento temporale e, mentre fuori infuriava una tempesta che sembrava destinata a durare a lungo, trovammo rifugio nel ristorante accanto alla piscina e ordinammo da mangiare. Più tardi, al ritorno a casa, preparai qualche altra pietanza, ma Marie, definitivamente sfiancata dalla strada in salita che conduceva alla villetta, preferì andarsene subito a dormire nel mio studio, per poi risvegliarsi l’indomani mattina molto tardi, poco prima di mezzogiorno.

Quella sera, mentre rincasavamo respirando l’aria fresca pregna dell’odore di erba e terra dopo la pioggia, Marie mi raccontò il sogno che aveva fatto in piscina. Procedevamo con passo lento, a beneficio di Hikari – il suo handicap gli ha provocato una menomazione agli arti inferiori che lo costringe a un’andatura strascicata molto particolare, in conseguenza della quale la suola delle scarpe gli si consuma puntualmente solo da un lato –, eppure Marie era così stanca da doversi fermare ogni tanto per riprendere fiato. Malgrado ciò, continuò a raccontarmi il suo sogno fino in fondo.

«Manco da queste zone da quando mio nonno è morto», esordì, «e oggi ho rivisto il monte Asama e il Myōgi dopo tanto tempo. C’era anche quell’olmo enorme lungo il corso del fiume, prima di arrivare alla piscina, lo hai visto anche tu, no? E quella stessa aria frizzante di allora, che sembra non cambiare mai... Insomma, mi è bastato dormicchiare un po’ e, in men che non si dica, mi sono ritrovata bambina, in quel di Komoro. Nel sogno, mi trovavo nel giardino della villa di mio nonno, ai piedi di un grande olmo. Ero lì a giocare da sola, raccogliendo piante e fiori e collocando dei piccoli rametti sul cammino delle formiche, come fossero tanti ponticelli. Indossavo un vestitino bianco con delle decorazioni sulle spalle e una cintura in vita, e ai piedi calzavo le mie adorate scarpette rosse. Erano nuove di zecca e avevano il tacco un po’ troppo alto, tanto da farmi sentire goffa, mentre ero accovacciata lì sul prato, e da farmi rimpiangere di non essere a piedi nudi. A ogni modo, i miei occhi e le mani erano totalmente occupati con le foglie delle piante, gli steli dei fiori e i ramoscelli per le formiche, eppure, da un momento all’altro, qualcosa di diverso ha cominciato a farsi strada nella mia testa, mentre continuavo a svolgere quelle stesse azioni. Era come se una videocamera appesa a uno dei rami di quel vecchio ed enorme olmo, puntata giusto nella mia direzione – non so come sia possibile, ma si trattava dei miei stessi occhi –, avesse iniziato a riprendere ciò che stava per accadere, anticipando il futuro di qualche minuto... Ecco, vedo un fulmine spaventoso colpire in pieno il grande olmo, squarciandone in due il tronco dove tenevo appoggiata la mano per tenermi in equilibrio mentre posizionavo i ramoscelli tra l’erba, dandogli fuoco e carbonizzandolo. I rami alla sommità dell’albero si drizzano verso il cielo, carichi di elettricità, e, ogniqualvolta i miei capelli sfiorano le borchiette metalliche sulle spalline del mio vestito bianco, una miriade di scintille svolazza dappertutto. Io e il vecchio olmo, saturi di energia elettrica, siamo in balìa dei fulmini che crepitano senza sosta nel cielo grigio... Intanto, nella realtà intorno a me, ogni cosa sembrava essersi pietrificata, in attesa del grande fulmine. L’occhio dell’olmo continuava a inquadrarmi, rannicchiata in mezzo all’erba, adesso immobile, sopportando l’ansia e la tensione del momento con coraggio ammirevole per essere solo una bambina. E io sapevo che, quando quei due o tre minuti sarebbero passati e avrei continuato a tenere la mano appoggiata al tronco ruvido dell’albero, una luce accecante avrebbe squarciato il cielo e, prima che avessi potuto udire il fragore del tuono, mi avrebbe colpita in pieno riducendomi in cenere insieme all’olmo... solo due o tre minuti più tardi.

«Quel giorno, nella realtà vera, insomma non in quella virtuale del sogno – come ti ho scritto tempo fa nella mia lettera –, corsi verso la veranda della villa, terrorizzata e tremante, gettandomi tra le braccia di mio nonno, il quale era intento a scattarmi una fotografia. Ma nel sogno era diverso, qualcosa doveva ancora accadere e, con la tipica lucidità di mente che a volte i sogni ti riservano, mi rendevo perfettamente conto di avere la possibilità di scegliere tra due futuri distinti e separati, o meglio ero consapevole che solo a me e a nessun altro spettava decidere cosa mi sarebbe accaduto di lì a due o tre minuti.

«Se resterò qui – pensavo tra me e me – rannicchiata tra l’erba accanto a quell’albero enorme, scomparirò per sempre dalla faccia della Terra, lasciando dietro di me solo il ricordo di una ragazzina molto graziosa immortalata nelle fotografie di mio nonno. E d’altra parte – continuavo a dire a me stessa – anche se dovesse andare così, sarei in ogni caso vissuta abbastanza. Allo stesso tempo, mentre nel sogno pensavo tutte queste cose, avevo piena coscienza del fatto che, seguitando a far parte di questo mondo, tutto si sarebbe svolto come già sapevo: sarei cresciuta, avrei partorito Mūsan e Michio, li avrei fatti soffrire atrocemente e avrei causato la loro tragica fine, e inoltre avrei spinto il loro padre a rovinarsi il fegato fino ad autodistruggersi.

«Alla fine, la povera ragazzina del sogno, verosimilmente dotata di ottimi riflessi, si rialza in piedi e corre verso il nonno, là di fronte con la macchina fotografica tra le mani... “Perché hai scelto questa via, così piena di futile tristezza?” mormora in quell’attimo preciso la videocamera – ovvero me stessa – dall’alto, e, al suono della mia voce, mi sono risvegliata di colpo.»

Quando l’indomani Marie si svegliò, così tardi da tenere Hikari in apprensione, annunciò senza il minimo imbarazzo che di lì a poco si sarebbe diretta alla stazione di Karuizawa per andare incontro allo Zio Sam, che sarebbe arrivato in treno entro sera. Ripresasi dalla stanchezza e molto meno giù di morale rispetto al giorno precedente, nonché incurante di quale potesse essere il mio giudizio, continuò a spiegarmi in totale schiettezza che, quando Asao era andato al Centro Collettivo e avevano organizzato la sua venuta a Kita Karuizawa, aveva telefonato allo Zio Sam chiedendogli di raggiungerla subito, ma lui le aveva risposto che aveva un impegno inderogabile e che si sarebbe unito a lei al più presto. Inoltre mi chiese di portare Hikari con sé e mi disse che aveva in mente di prendere l’autobus per Karuizawa proveniente da Kusatsu, alla fermata non lontana dal minimarket e dalla vecchia stazione ferroviaria del villaggio. Nel caso in cui lo Zio Sam non fosse ancora arrivato alla stazione di Karuizawa, il che non era da escludersi, dal momento che non sapeva quale treno sarebbe riuscito a prendere, Marie gli avrebbe lasciato un messaggio sull’apposita lavagna riservata ai viaggiatori, comunicandogli che lei e Hikari si sarebbero diretti verso la zona dei negozi del centro cittadino, così da potersi fermare in qualche caffè ad ascoltare un po’ di musica e fare la spesa per la cena, che aveva in programma di preparare lei stessa.

Hikari, che di solito non è in grado di comprendere appieno il significato di una conversazione a meno che non venga menzionato direttamente il suo nome, chiese di getto: «Che musica ascolteremo a Karuizawa?». Era evidente che non stava più nella pelle all’idea di fare quel breve viaggio. E così Marie, mostrandosi premurosa e gentile nei suoi confronti, aveva provveduto a mitigare l’atmosfera negativa che si era venuta a creare tra noi dopo aver invitato lo Zio Sam a mia completa insaputa.

Mentre sbocconcellava la sua porzione di cibo cinese riscaldato (verdure di montagna saltate in padella con carne), che avevo preparato la sera prima, Marie aggiunse: «A dire il vero, il motivo per cui ho chiesto allo Zio Sam di raggiungermi è strettamente legato al tema del mio sermone... Scusami se te lo dico in maniera così diretta, mentre ti stai godendo dei giorni tranquilli in compagnia di tuo figlio».

«Non c’è nessun problema. Stanotte io e Hikari dormiremo nello studio, la casa è a vostra completa disposizione. Avrete campo libero, divertitevi pure a volontà!»

«Grazie, ma non credo ci... divertiremo più di tanto», mi rispose, aggrottando le sue sopracciglia nerissime. Poi, appena un attimo dopo, le sue labbra rosse alla Betty Boop si distesero in un sorriso di pura gioia che, lo confesso, mi diede una certa scossa.

Marie non aveva ancora concluso il suo discorso, c’era dell’altro a proposito dello Zio Sam. Dopo aver finito di mangiare – per me e Hikari si trattava del pranzo, per lei della colazione –, continuò il suo racconto in cucina, mentre lavava i piatti e io me ne stavo seduto alla tavola lì accanto. Di tanto in tanto si voltava nella mia direzione, ruotando agilmente il collo che, visto da dietro, appariva molto robusto.

«Sto cominciando ad avere dei problemi con lo Zio Sam», mi confessò. «Speravo di poterne parlare con te, perciò ne ho discusso prima con Oyū e alla fine ho pensato di invitarlo qui. Ma ti ripeto che questa non è l’unica ragione per cui l’ho fatto...

«Quando ho deciso di trasferirmi al Centro Collettivo, lui ci è rimasto molto male, non se lo aspettava. Ora, non credo che si prenderà la briga di venire fino a Kamakura per scagliarsi contro il Fratello Superiore, o di fare qualcosa del genere, però, se dovesse creare dei problemi, rischieremmo di non poter restare in quell’edificio e di dovercene andare altrove. Questa cosa mi preoccupa molto, non te lo nascondo.

«In fondo non è cattivo, è solo un giovane americano fermamente convinto che...» (come se si fosse ricordata all’improvviso che Hikari era presente, seduto per terra intento ad ascoltare la sua musica classica alla radio, Marie si ammutolì per qualche istante e fece ricorso a una sorta di eufemismo.) «...poiché riesce a soddisfarmi ampiamente da quel punto di vista, può darmi solo per questo una buona ragione per sopravvivere. Io ho anche un’anima, è ovvio, solo che lui non ha mai voluto prendere in considerazione questo particolare. Nutre molti sospetti nei confronti del Centro Collettivo e del Fratello Superiore. È convinto che, se una donna come me si è unita al gruppo, deve esserci per forza sotto qualcosa di occulto che riguarda perversioni sessuali o roba simile. Ma in realtà non c’è nulla di perverso, compresa la storia di Yukie: si trattava solo di semplice sesso, anche perché le capacità amatorie del Fratello Superiore non devono essere niente di che.

«In ogni caso, non lo nego, ho intenzione di continuare a vedere lo Zio Sam, almeno finché ne avrò la voglia, il tempo e la possibilità. Così, ogni volta, potrò tornare rinvigorita al Centro Collettivo, nel corpo e nella mente. Scusami se ti chiedo tanto, ma vorrei che fossi tu a spiegargli che adesso la mia vita appartiene principalmente a quel posto. Se glielo dicessi io, andrebbe su tutte le furie e mi accuserebbe di usare i miei problemi spirituali per liberarmi di lui. E comunque detesto parlare di certe cose, in specie quando sono coinvolta in prima persona. Lo Zio Sam è iscritto a un master all’università di Berkeley, prima o poi dovrà pur tornarsene negli Stati Uniti per portare a termine gli studi, no? In fondo è una persona intelligente, abituata a far lavorare la mente. È solo che in questo momento è ossessionato dal sesso.»

L’espressione tesa emersa sul volto di Marie mentre pronunciava quell’ultima frase, ora che aveva appena finito di lavare i piatti, rendeva del tutto impossibile interpretare ironicamente quelle parole. Non riuscimmo ad aggiungere molto altro alla nostra conversazione, non ce n’era il tempo. Marie chiamò a sé Hikari e uscirono in fretta insieme: l’autobus per Karuizawa passava una sola volta ogni ora, e inoltre aveva intenzione di fare una breve visita al parco di Onioshidashi, non lontano dal monte Asama.

Rimasi in attesa fino all’imbrunire, senza ricevere nemmeno una telefonata. Preoccupato al pensiero di loro due in cammino lungo la strada buia, priva di lampioni e con pochissime case, decisi di avviarmi verso la fermata dell’autobus nella speranza di incontrarli. Lungo la via, scorsi un gruppetto di tre persone avanzare nella mia direzione, usando una torcia elettrica per illuminare almeno in parte il percorso. Non potevano che essere loro: Hikari sembrava fungere da guida, mentre lo Zio Sam faceva da scorta, attento agli altri due più che a sé stesso. Nel constatare con quanta premura svolgesse questo ruolo, nell’oscurità quasi assoluta, mi feci all’istante una nuova opinione su di lui. Lo avevo giudicato come uno dei tanti giovani americani irresponsabili della nuova generazione, ma non avevo tenuto conto del fatto che era iscritto a un master di una famosa università e che molto probabilmente aveva svolto il servizio militare o qualcosa di equiparabile.

Si limitò a salutarmi senza eccessiva cordialità, rivolgendomi uno sguardo accigliato, e invece con Hikari sembrava aver familiarizzato non poco, quasi che avessero chiacchierato amichevolmente per tutto il tempo. In qualità di fan accanito dei programmi televisivi dedicati all’insegnamento delle lingue straniere, mio figlio era già allora in grado di sostenere una conversazione semplice in inglese, pronunciando correttamente ogni parola. È ovvio che la sua capacità di farsi comprendere dipendeva, allora come oggi, dalla volontà di impegnarsi nell’ascolto da parte dell’interlocutore di turno.

Marie mi riferì che avevano trovato subito lo Zio Sam alla stazione ferroviaria di Karuizawa, e che poi avevano fatto la spesa insieme, si erano fermati in un caffè e infine avevano mangiato qualcosa in un ristorante cinese. Mi avevano portato una porzione di involtini primavera e un altro paio di cose, evidentemente si erano ricordati di me. Rientrati alla villa, io e Hikari ci ritirammo nello studio, senza dimenticare gli involtini primavera e il resto, ovvero la mia cena.

Dopo meno di un’ora, anche se le finestre erano chiuse, si cominciarono a sentire i gemiti e i mugolii di Marie, che mi misero a disagio e di cattivo umore. Quando fummo pronti a dormire, Hikari nel mio letto e io su un materassino sistemato sul pavimento, i lamenti ripresero con un’intensità persino maggiore, e nella penombra – avevo lasciato la luce della stanza da bagno accesa e la porta socchiusa – riuscii a distinguere l’espressione perplessa sul volto di Hikari, ancora sveglio, con le mani aperte che si tappavano le orecchie.

L’indomani mattina, dopo aver dato a Hikari le solite medicine, ero sul punto di rimettermi a dormire per recuperare il sonno perduto, ma proprio in quell’istante nella villa si riaprirono le danze, in un crescendo di gemiti e urla incessanti, tanto che Hikari, ancora disteso a letto, mormorò tra sé e sé: «Povera Marie, chissà che cosa avrà».

Quella mattina, per tutto il tempo della nostra tarda colazione, Marie seguitò a sorridere tenendo lo sguardo basso, imbarazzata ma al contempo chiaramente soddisfatta. Poi, col passo leggero di una ragazzina, completamente trasformata rispetto ai giorni precedenti, si avviò in piscina in compagnia di Hikari. E così rimasi a tu per tu con lo Zio Sam, il quale se ne stava seduto in silenzio sul davanzale della finestra, gli occhi nascosti dietro i suoi occhiali scuri dalla montatura metallica, e il naso e le labbra, che quand’era bambino dovevano essere deliziosi, velati di rosso.

Ero là, seduto alla tavola della cucina giusto di fronte alla finestra, nervoso e impacciato, e sentivo più che mai il peso dell’incarico conferitomi da Marie, ossia far capire a quel ragazzo americano come lei si sentisse in quel momento e quali fossero i suoi propositi per l’immediato futuro. Mentre ci riflettevo su, un refolo di vento improvviso scosse le giovani foglie degli alberi oltre la finestra, facendole risplendere al sole, e allo stesso tempo mi giunse alle narici l’odore di qualcosa di non molto dissimile dall’afrore di un gatto (o forse di una gatta) in calore, proveniente esattamente dalla direzione dove si trovava – mi dispiace dirlo, mi rendo conto che il paragone non risulterà molto garbato – lo Zio Sam.

Malgrado la delicatezza dell’argomento e la pochezza del mio vocabolario in inglese, mi accorsi fin da subito che ero in grado di esprimere con inaspettata facilità certe cose che, se avessi dovuto esternarle in giapponese, mi sarebbero costate una fatica enorme. Questo, per inciso, mi accade ogni volta che mi capita di parlare in una lingua straniera.

«Marie è molto contenta e felice di avere una relazione sessuale con te», esordii, andando dritto al sodo, «ma devi capire che in questo momento ha un grande bisogno di occuparsi anche del lato spirituale della sua vita. Non può abbandonare il Centro Collettivo di Kamakura e venire a vivere con te. Cerca di capirla, prova a rispettare i suoi sentimenti.»

Lo Zio Sam mi fissava con uno sguardo carico di malcontento e diffidenza, seduto con la schiena dritta come un fuso, ogni singolo muscolo del suo collo eburneo teso fino all’inverosimile e la peluria dorata che lo ricopriva resa trasparente dalla luce riflessa dagli alberi alle sue spalle. Sapevo che Marie gli aveva confidato che dovevo dirgli qualcosa di molto importante e che doveva ascoltarmi con attenzione.

«Perché deve stare in una comune religiosa come quella?» mi chiese con voce profonda e severa, dopo essersene rimasto in silenzio per qualche secondo. «Che bisogno può averne? Non è riconosciuta da nessuna chiesa di cui abbia mai sentito parlare! Sono convinto che mi stia nascondendo qualcosa...»

«Ne ha bisogno perché ha vissuto una tragedia immane, la peggiore che una donna possa mai subire, e non si è ancora ripresa. Anzi, forse non si riprenderà mai del tutto, fino alla fine dei suoi giorni... Te la ricordi la scena con i due attori filippini, a Yokohama? Ti assicuro che le ha causato una sofferenza atroce.»

«Intendi quella di Tommy e Jimmy? Perché, era ispirata a qualche cosa che aveva a che fare con Marie? Non lo sapevo... Insomma, avevo intuito che potesse esserci sotto qualcosa, notando quanto fosse sconvolta, ma lei non ha voluto dirmi niente. Ho insistito molto, ma non c’è stato nulla da fare.»

Studiando attentamente la sua reazione, gli raccontai del suicidio di Mūsan e Michio. Sulle prime, quando aveva affermato di non saperne niente, ero incerto se credergli o no. Poi, ascoltando il suo racconto e guardandolo negli occhi, mi resi conto che aveva detto la verità. Quando Marie e Coz avevano avuto modo di discutere della disgrazia di Izukōgen, lui era là, con gli altri giovani attori, e aveva sentito più o meno tutto. Solo che la storia gli era parsa così incredibile che non gli era assolutamente passato per la testa che potesse trattarsi di un avvenimento reale, e alla fine aveva concluso che forse stavano parlando di qualche episodio di un dramma del teatro kabuki o di qualcosa del genere. Ecco perché non si era minimamente opposto alla relativa trasposizione in scena. Sì, gli era parso che si volesse insistere troppo su un tipo di comicità alquanto grottesca, ma poi non vi aveva dato peso. E, quando Tommy e Jimmy si erano esibiti nel loro animatissimo sketch, aveva pensato che in quel modo avessero voluto semplicemente parodiare un qualche aspetto tradizionale della cultura giapponese, mandando per questo in collera Marie.

In fondo, riflettendoci bene, quella era l’unica possibile reazione che ci si poteva attendere da un ragazzo come lo Zio Sam, un tipico cittadino americano appartenente al ceto medio. Non a caso, ritornando per un attimo alla storia dell’accusa per possesso e consumo di marijuana, lo Zio Sam ne era uscito come l’unico indiziato del tutto innocente. Ma l’innocenza, evidentemente insita nel suo carattere, lo aveva reso incapace di capire che certi eventi tragici potevano consumarsi anche nella più normale delle famiglie e, peggio ancora, lo aveva collocato addirittura nella posizione di chi riesce a ridere di quegli stessi eventi tramutati in una grottesca parodia.

I suoi occhi si riempirono di lacrime, e il viso gli si imporporò all’istante, come quello di un bambino schiaffeggiato ingiustamente, mettendo ancor di più in evidenza la sua figura imponente. Scosse più volte il capo, ma molto adagio, tanto che le lacrime rimasero là dov’erano, senza tracimare, e si diresse di filato nella stanza in fondo alla casa, dove i futon giacevano ancora per terra sui tatami, disfatti, richiudendo dietro di sé i fusuma.* Con ogni probabilità si era disteso su uno dei futon, producendo solo un fruscio leggero che poco si addiceva a un uomo della sua stazza. Dopo un po’, sentii provenire da quella stanza un singhiozzio profondo e soffocato, simile al suono che i cani producono con la gola quando sbadigliano. Il mio discorso si era rivelato fin troppo efficace: frustrato, provando addirittura una certa apatia, mi ritirai nel mio studio.

Ben prima del tramonto, Hikari e Marie tornarono dalla piscina; avevano tutta l’aria di essersi divertiti molto e di aver nuotato fino a non poterne più. Alzai gli occhi dalla scrivania e li seguii con lo sguardo mentre percorrevano il viottolo in salita che conduceva alla villa e canticchiavano alcune canzoni per bambini di certi programmi televisivi, con le loro voci esili ma perfettamente intonate. A un certo punto scorsi lo Zio Sam emergere dal bosco e andare loro incontro. Più tardi, quando andarono al minimarket per fare la spesa per la cena, lui si unì di nuovo a loro. E a tavola, per l’intera durata del pasto, diede piena dimostrazione delle sue buone maniere, servendo Marie con accortezza, parlando quanto bastava, bevendo una sola lattina di birra e rifiutando il whiskey. Si comportò da vero gentiluomo, senza la minima sbavatura.

Anche quella notte, le luci nella villa si spensero sul presto e, mentre ascoltavo i sonori mugolii di Marie, mi passò per la testa uno strano pensiero. Vuoi vedere che la cassetta inviata dal tipo di quell’emittente televisiva – dissi tra me e me – conteneva proprio la voce di Marie, distorta dalla registrazione? Forse, il vero motivo per cui l’ingegnere del suono aveva alzato tanto facilmente bandiera bianca, quando gli avevamo rinfacciato la falsità di quella cassetta, andava individuato nel fatto che il suo amore per Marie era genuino e non si trattava di una mera passione momentanea.

Il giorno seguente venne a piovere. Lo Zio Sam disse di non avere voglia di essere l’unico straniero in un autobus pieno zeppo di giapponesi, al che Marie gli consegnò il denaro per il taxi e lo accompagnò fino al minimarket. La temperatura stentava a risalire, e allora accesi il fuoco nel camino facendo uso della legna avanzata dall’estate precedente. Marie tornò alla villa perduta nei propri pensieri, arrancando sotto la pioggia; si sfilò subito i collant bagnati e andò a sedersi davanti al caminetto con la gonna tirata su fino alle ginocchia.

Tutte le estati, ancora oggi, ho l’abitudine di leggere un volume di una serie di opere scelte di Brantôme, consigliatami tempo addietro dal compianto professor W. Si tratta di libri di ottima fattura, corredati da diverse illustrazioni, che mi piace leggere quando sono alla casa di montagna a Kita Karuizawa. Non avendolo mai più studiato formalmente da quando mi sono laureato, il mio francese non è granché e, pur avendo a disposizione un ottimo apparato di note, riesco a leggere poco più di una pagina al giorno. Eppure vado sempre avanti con piacere, molto piano e in assoluta calma, aiutato dal fatto che il mio tempo a Kita Karuizawa è scandito da un ritmo di gran lunga più lento rispetto a quello delle mie giornate in città.

Quel pomeriggio piovoso ero seduto su una sedia in salotto, concentrato nella lettura, e appoggiavo di continuo il mio libro sul camino per consultare il dizionario e controllare il significato delle tante parole che non conoscevo o non ricordavo. Tutt’a un tratto Marie, lì al mio fianco a fissare le fiamme rincorrersi sui ceppi di betulla che bruciavano rapidi, ruppe il silenzio.

«In Le dame galanti», esordì, «che se non erro è stato tradotto in giapponese, c’è una parte in cui una suora, che in passato era stata stuprata da una banda di saraceni, afferma che dopotutto avrebbe desiderato fare l’amore una volta sola nella vita, provando piacere fino a esserne paga.»

«Sì, certo. Ho letto quel libro nella traduzione di Konishi Shigeya, quando avevo diciotto o diciannove anni», risposi, assentendo col capo. «Il libro di Brantôme che sto leggendo adesso è molto diverso, è uno di quelli che riguardano maggiormente il suo lavoro di inflessibile storico.»

Pronunciai quelle parole a fatica, quasi che avessi difficoltà a farle venire su dalla gola, perché il tono della voce di Marie riecheggiava ancora forte dentro di me, pregno del suo appagamento sessuale, ma anche di una sincera e profonda tristezza.

Lontano dal caminetto, sdraiato sul pavimento accanto alla finestra e un gradino più in alto rispetto al punto in cui eravamo seduti noi, Hikari stava ascoltando come al solito la musica alla radio. Non appena ci sentì parlare, fece per mettersi le cuffie, mostrandosi molto premuroso. Al che Marie gli disse che non ce n’era bisogno, anche perché le sue orecchie, a lungo andare, di certo non ne avrebbero beneficiato. Hikari seguì il suo consiglio e abbassò il volume della radio.

«Sonata per arpeggione di Schubert, o sbaglio?», gli chiese Marie, dopo averlo ringraziato per il gesto gentile. «Di chi è l’esecuzione?»

«Galway, al flauto», rispose prontamente Hikari.

«È stupenda, si addice alla perfezione al mio umore attuale», commentò lei, volgendo di nuovo lo sguardo verso la legna ardente nel camino. «Recentemente il Fratello Superiore e io abbiamo avuto una discussione», mi disse, molto probabilmente con l’intenzione di cominciare a liberarsi di un po’ di cose accumulatesi nella sua mente. «Si è trascinata per le lunghe, e alla fine mi sono sentita come in un vicolo cieco, senza risposte. Tutto è cominciato in occasione di uno dei suoi rari sermoni direttamente legati al cristianesimo, intitolato Ciò che può essere sentito e ciò che può essere compreso. In poche parole, si trattava di un discorso sul tema del sensibile e dell’intelligibile. Secondo lui, tutto ciò che può essere sentito può essere anche compreso. Perché in origine c’era il Logos, il Verbo, ovvero “ciò che può essere compreso”, e ogni cosa in questo mondo, ovvero “ciò che può essere sentito”, ha avuto origine da esso. Ora, però, se veniamo alla morte dei miei figli, è legittimo affermare che si tratta della peggiore di tutte le cose “che si possono sentire”, no? Eppure io non sarò mai capace di comprenderla. Quando ho provato a riferirlo al Fratello Superiore, lui mi ha risposto che il mio modo di pensare riconduceva al cosiddetto dualismo manicheo: i manichei ritenevano che la sfera del sensibile, legata a una dimensione temporale, e la sfera dell’intelligibile (o soprasensibile), legata invece a una dimensione essenzialmente atemporale, fossero antinomiche. Allora gli ho detto che io la pensavo esattamente in questo modo, che secondo me era proprio così che funzionava il mondo. Al che lui è andato su tutte le furie e ha cominciato a strepitare come un ragazzino immaturo. “E l’incarnazione, allora?!” ha urlato. “L’atemporale non è forse divenuto un tutt’uno con il temporale, su questa terra, attraverso l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo? E non è stato solo e unicamente grazie a ciò che l’umanità ha potuto trovare la via verso la salvezza?”...

«Anche la O’Connor si è espressa a proposito del dualismo manicheo. Lei sottolinea che i manichei tracciano una netta distinzione tra lo spirito e la carne, per cui tentano di affrontare i misteri dello spirito senza ricorrere a nessun medium materiale. Nel caso del romanzo, invece, il mondo materiale viene utilizzato esattamente come medium, e ciò fa del romanzo stesso un’“arte incarnatoria”. Ho sempre trovato molto sensato questo concetto, tutte le volte che mi è capitato di rileggere la parte in cui la O’Connor ne parla. Lei, al pari del Fratello Superiore, credeva fermamente che ciò che può essere sentito può anche essere compreso, e inoltre che la prima prova assoluta e tangibile di questo si è avuta grazie all’incarnazione di Cristo. Flannery O’Connor ha scritto storie caratterizzate da personaggi ed eventi estremi e terrificanti e ne ha fatto una grande “arte incarnatoria”, dimostrando che attraverso l’incarnazione di Cristo quegli eventi possono infine divenire intelligibili. Segue né più né meno lo stesso processo di una dimostrazione matematica: comincia col presentare cose che possono essere sentite ma sembrano alquanto impossibili da comprendere, e alla fine, un passaggio alla volta, svela che possono essere comprese.

«Ma adesso, è ovvio, non è di romanzi e di “arte incarnatoria” che sto parlando. Si tratta di vita reale, della mia vita, dove qualcosa che pare andare oltre ogni comprensione si è abbattuto su di me. La morte di Mūsan e Michio mi è piovuta addosso da un momento all’altro. E, almeno per adesso, l’esistenza di Cristo non è per me abbastanza reale da farmi dire che quanto mi è successo potrà essere compreso.»

«Ma anche Flannery O’Connor», le dissi, dopo averla ascoltata a lungo in assoluto silenzio, «soffriva atrocemente, nella vita reale, a causa di una malattia incurabile, o sbaglio?»

«Sì, certo», mi rispose, concordando subito con me, così come aveva fatto Hikari nei suoi confronti qualche minuto prima. «Ed è proprio lì, credo, che giace la grande differenza tra lei come cristiana e me come manichea. Ci ho riflettuto molto a lungo. Se sono davvero una manichea, mi sono detta a un certo punto, allora forse dovrei cominciare a comportarmi come tale e tracciare una linea precisa tra lo spirito e la carne. E per me questo significa...

«Fino a ora avevo continuato a insistere nel tentativo di perseguire una pace spirituale, ma poi mi sono detta: e se lasciassi perdere tutto e mi abbandonassi solo ai piaceri della carne? Forse è l’unico modo che mi permetterebbe di dimenticare il fatto di Mūsan e Michio. Perché adesso, almeno mentre faccio sesso, riesco a tenere quei pensieri per un po’ lontani dalla mia mente. Però ho l’impressione che, se tento minimamente di ricordare di mia iniziativa ciò che è accaduto, diciamo pure masochisticamente, i miei orgasmi diventano addirittura più intensi e violenti.

«Ieri, siccome lo Zio Sam era molto giù di corda dopo che gli avevi parlato di Mūsan e Michio, gli ho fatto una proposta ben precisa. Ero seria, non mi fraintendere. Gli ho detto che avevo intenzione di dedicarmi alla “via della carne”, così, senza tanti giri di parole, a cominciare da subito, e gli ho proposto di unirsi a me, come mio “accompagnatore”. Ma lui – lo avevamo appena fatto una prima volta e ci stavamo concedendo una pausa – ha assunto un’espressione interdetta e un atteggiamento improvvisamente cinico, dicendo cose tipo che il piacere sessuale è solo temporaneo e non può essere paragonato alla salvezza spirituale, che invece è eterna. Pensandoci bene non c’è molto di cui sorprendersi, dopotutto è nato e cresciuto in una famiglia cristiana del Midwest...

«Domani tornerò al Centro Collettivo, ma so che non potrò aspettarmi nessun aiuto dal Fratello Superiore. Lui è convinto che non ci sia altro da fare che tenere nella massima considerazione l’incarnazione di Cristo e che tutti, naturalmente me compresa, debbano inchinarsi di fronte a essa, come quando Mito Kōmon mostra l’emblema dello shogunato e tutti devono prostrarsi in attesa della punizione.* In fondo può darsi che io sia per davvero una manichea, o forse più semplicemente un’esistenzialista, solo un po’ in ritardo coi tempi.»

Intanto il fuoco nel camino cominciava a indebolirsi, perciò mi alzai e mi adoperai per ravvivarlo. Tre anni prima, durante un terribile tifone autunnale, un pino enorme si era abbattuto al suolo, e da allora avevo continuato a tagliarne il tronco a poco a poco, in ceppi di circa cinquanta centimetri di lunghezza e al ritmo di uno o due in mezza giornata. Ognuno di quei ceppi ardeva per diversi giorni. La legna di betulla, facilmente infiammabile, serviva più che altro come combustibile, ovvero per aiutare il tronco del grande pino a prendere fuoco. Il ceppo in quel momento al centro del camino si era consumato solo per circa un terzo. Lo rigirai sottosopra con l’apposita pinza, lo posizionai meglio, eliminando i pezzi di betulla carbonizzati e accostandovene di nuovi, e soffiai forte.

Quando la fiamma fu abbastanza alta, feci per rialzarmi e, voltandomi, gli occhi mi caddero sulle mutandine di Marie. Incastonate in fondo sotto la gonna, nel punto di convergenza tra le sue cosce sode e affusolate, apparivano incredibilmente immacolate. Sembrava quasi che, in quelle due notti consacrate al sesso – il sesso puro, carnale, che aveva ben poco a che fare con i misteri manichei –, gli aspetti torbidi e terreni della carne si fossero trasferiti tutti nello Zio Sam, lasciando Marie in possesso solo di quelli puramente spirituali.

Mi pare doveroso aggiungere che, nell’istante in cui si rese conto di dove era diretto il mio sguardo, lungi dal riunire pudicamente le gambe, Marie mi rivolse un’espressione suadente, lasciando che un sorriso offuscasse per qualche attimo la stanchezza e l’afflizione impadronitesi da tempo del suo bel viso appariscente alla Betty Boop. E quel sorriso – non mi sbagliavo – non era propriamente spirituale, anche se d’altra parte non era nemmeno del tutto carnale...

«Non credo avremo un’altra occasione di trascorrere una notte insieme, da soli», mi disse. «Perché non ci facciamo animo e proviamo a metterci a letto vicini, solo per questa volta? Potresti attendere che Hikari si addormenti e tornare qui da me di nascosto.»

«Quando ero molto giovane, c’erano due o tre ragazze con le quali non lo feci anche se mi avevano fatto capire che ne avevano tutta l’intenzione. In seguito me ne pentii amaramente, e venne poi un periodo in cui ero fermamente deciso a farlo ogniqualvolta se ne fosse presentata l’occasione. Adesso, però, non sono più un ragazzino, e sono convinto che il ricordo di questi momenti resterà grossomodo immutato, indipendentemente dall’averlo fatto o meno, per cui non credo ci sia grande differenza.»

«Sbaglio o stai cercando di dirmi che non è necessario che lo facciamo? In entrambi i casi, credo che conserverò anch’io un bel ricordo di questa serata, per sempre», replicò, assumendo un’aria di puro sollievo.

Chiedemmo a Hikari di mettere una nuova cassetta e di alzare il volume, e passammo il resto della serata ad ascoltare musica. Adesso che ci ripenso, si trattava della Passione di San Giovanni, che avevo ascoltato tempo prima in compagnia di Hikari e Mūsan, in quella chiesa di Ichigaya, e sono più che certo che la scelta di mio figlio non fosse per nulla frutto del caso. Nessuno di noi andò a letto prima che la cassetta fosse finita, e per allora una buona parte del tronco di pino si era ridotto in cenere.

Il giorno dopo, quando l’accompagnammo alla fermata dell’autobus, Marie mi disse: «Sei molto fortunato ad avere Hikari. Anche in base a quanto ho avuto modo di leggere nella lettera che mi hai spedito dal Messico, credo che lui sia per te un “accompagnatore” o anche un “medium” ideale». Poi distorse e serrò le sue labbra rosso fuoco, fino a un attimo prima dischiuse, come a ricacciare dentro di sé ciò che era in procinto di aggiungere.

Quella stessa mattina mi aveva rivelato che al Centro Collettivo, come del resto suggeriva l’alterco tra lei e il Fratello Superiore, tirava un’aria di grandi cambiamenti. Uno di quei settimanali stracolmi di fotografie, che giusto in quel periodo cominciavano ad andare per la maggiore, aveva inviato al centro un suo fotografo camuffato da turista, in modo da spiare e documentare la vita all’interno dell’edificio. Il Fratello Superiore, per questo, era da un po’ di tempo molto teso e agitato. Già in passato, alcune riviste avevano gettato in pasto all’opinione pubblica una vicenda in cui lui era rimasto coinvolto, trasformandola in un vero e proprio scandalo, e dunque temeva che la cosa potesse ripetersi, magari con conseguenze anche peggiori. Perciò, da qualche tempo, aveva cominciato ad accarezzare l’idea di trasferire il Centro Collettivo in America, e il suo piano sembrava ormai entrato in piena fase di realizzazione. A causa di questioni legate al visto, era molto difficile, se non impossibile, che le sue seguaci potessero aspirare a un impiego stabile laggiù, ma tutte erano pronte a impegnarsi in ogni tipo di lavoro part-time pur di garantire entrate sufficienti a dare continuità alla vita di comunità intrapresa in Giappone.

Marie mi aveva anche detto che, se avesse scelto di andare con loro, non avrebbe esitato a mettere a disposizione una parte del denaro ricavato dalla vendita degli appartamenti di Sengawa per l’acquisto dei biglietti aerei. Tuttavia, con la questione relativa alle divergenze in fatto di fede tra lei e il Fratello Superiore ancora irrisolta, non sapeva proprio cosa fare. D’altra parte sembrava molto preoccupata anche perché tutti facevano affidamento sulla sua conoscenza perfetta dell’inglese per districarsi in una terra straniera.

Mentre la ascoltavo in silenzio – non mi aveva chiesto né un consiglio né tanto meno un semplice parere –, ero sicuro che in cuor suo, malgrado si mostrasse così titubante e incerta, aveva già preso una decisione definitiva. Mettendola in termini manichei, appena due giorni prima, aveva fatto pendere la sua bilancia personale verso la carne, immaginando di rifugiarsi in quel mondo esclusivamente materiale in compagnia dello Zio Sam, come suo partner, ma aveva fallito. Quale alternativa poteva avere, a parte tornare nel territorio dello spirito e prepararsi a partire al fianco del Fratello Superiore e delle sue compagne?

Difatti, non molto dopo il mio ritorno a Tokyo, mi telefonò e mi chiese di scriverle alcune lettere di presentazione da consegnare a miei amici e conoscenti residenti nei posti degli Stati Uniti e del Messico dove avevo soggiornato in passato. Sapendo che mi sarebbe toccato menzionare alcuni dettagli sulla sua tragedia e sulla situazione attuale, preferii tergiversare e procrastinare il mio compito di qualche tempo. Tuttavia non potei rimandare di chissà quanto, visto che a ottobre lei e tutti gli altri membri del Centro Collettivo partirono dall’aeroporto di Narita, mia moglie lì presente per salutarla.

A dire il vero, c’era un’altra ragione in virtù della quale ritenevo giusta la scelta di Marie di propendere per il lato spirituale. Quell’ultima notte presso la nostra casa in montagna, essendo lo Zio Sam andato via, avevo stabilito di farla dormire di nuovo nello studio. Tuttavia, quando la Passione di San Giovanni era giunta al termine, Hikari aveva impugnato immediatamente la torcia elettrica e si era diretto fuori, al che, senza dire nulla, lo avevo seguito lasciando a Marie la stessa stanza delle due notti precedenti. L’indomani mattina, al risveglio, mi accorsi di aver dimenticato le medicine di Hikari nella villa e uscii dallo studio per andare a prenderle, rammaricandomi del fatto che sarei stato costretto a svegliare Marie per farmi aprire. Per fortuna mi accorsi che la porta sul retro non era stata chiusa a chiave ed entrai da lì, cercando di non fare rumore e pensando che avesse dimenticato di chiuderla per via della sua indole inguaribilmente spensierata e ottimista, oppure chissà, forse perché aveva voluto mostrarsi indulgente nei confronti di un malevolo uomo di mezza età, che magari avrebbe potuto cambiare idea nel corso della notte... Fatto sta che, dopo essere entrato, la sentii gridare, così forte da farmi trasalire per lo spavento. Verosimilmente, nell’ultima fase di sonno REM prima di riaprire gli occhi, doveva aver fatto un brutto sogno. Era un lamento talmente pieno di angoscia e dolore da rendere, a confronto, completamente umani i gemiti emessi durante gli amplessi con lo Zio Sam, nonché da farmi essere certo che le sue ferite non si sarebbero mai potute rimarginare per effetto di un potere umano.