venerdì 28 maggio 2021

ARBORETO SALVATICO Mario Rigoni Stern




ARBORETO SALVATICO

Mario Rigoni Stern
Nota editoriale 

Con "Arboreto salvatico" Rigoni Stern fa un appassionato omaggio a quello che Gadda chiamava «il popolo degli alberi», un popolo antico, dignitoso, saggio. L'affetto di Rigoni Stern per gli alberi è come quello portato a un fratello maggiore, un fratello che si riconosce sostanzialmente migliore. E come fratelli maggiori gli alberi hanno sempre aiutato gli uomini, ne hanno reso possibile la vita e favorito l'affinarsi delle civiltà. Per contro gli uomini spesso li umiliano, li feriscono o li distruggono, soprattutto per stupidità e per ignoranza. Rigoni Stern sceglie venti alberi a lui particolarmente cari e li descrive, ne dà le necessarie caratteristiche botaniche e ambientali, ne illustra la storia e le ricchezze, ne spiega gli influssi che hanno avuto nella cultura popolare e nella letteratura, e naturalmente anima il tutto con le proprie esperienze di uomo di montagna, i ricordi, la sua sensibilità di scrittore di razza. Come uno scienziato Rigoni Stern ci racconta i meccanismi logici di queste straordinarie forme di vita; come uno psicologo ci svela l'«anima» del salice, del frassino, della quercia, della betulla e degli altri «amici» a cui dedica le sue pagine; come amante degli alberi ci trasmette il suo amore per tutti loro.

Mario Rigoni Stern ha pubblicato presso Einaudi "Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia" (1953), "Il bosco degli urogalli" (1962), "Quota Albania" (1971), "Ritorno sul Don" (1973), "Storia di Tönle" (1978), "Uomini, boschi e api" (1980), "L'anno della vittoria" (1985), "Amore di confine" (1986). Nel 1989 è uscito "Il magico Kolobok e altri racconti", edito da «La Stampa».


Introduzione. 

Cechov, nel 1888, scriveva: «Chi conosce la scienza sente che un pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l'uno e l'altro sono creati da leggi egualmente logiche e semplici». Dieci anni dopo a un amico che va a trovarlo in Crimea dice: «Qui ogni albero l'ho piantato io e mi sono cari. Ma ciò che importa non è questo, è il fatto che prima che venissi io qui non c'era che un terreno incolto e fossi pieni di pietrame e cardi selvatici. Ho trasformato quest'angolo perduto in un luogo bello e civile. Lo sa? Fra tre, quattrocento anni, tutta la terra si trasformerà in un bosco fiorito e la vita sarà meravigliosamente leggera e facile...» Quando vagabondo per le mie montagne boscose ripenso a quanto diceva Anton Cechov e lo ripeto anche agli amici che vengono quassù a trovarmi. Ma a volte provo anche sfiducia se mi capita di constatare quanto poco gli uomini si occupino dei problemi degli alberi. E sì che da tempo studiosi e tecnici vanno scrivendo dei pericoli che li minacciano, e ai pochissimi che li ascoltano o che si interessano corrispondono i troppi che si accorgono degli alberi solo quando, presi dalla calura estiva, cercano la loro ombra per posteggiare l'automobile. Se incontro un albero sradicato dal vento, o schiantato dalla neve, o roso dal ghiro, o morso dal cervo provo dispiacere, ma quando vedo una corteccia incisa da un barbaro coltello o un albero tagliato da una scure di frodo provo amarezza e rabbia perché se coltivare boschi è segno di civiltà, danneggiarli e distruggerli è inciviltà e regresso. Un giorno ritornando dalla passeggiata mattutina e passando vicino a una contrada, con disgusto il mio sguardo era andato a posarsi su due frassini e un sorbo ai quali qualche violento imbecille aveva spezzato le cime. Erano stati posti a dimora in un'aiuola erbosa nell'area comune dove un tempo si raccoglieva l'acqua piovana per abbeverare il bestiame e in quella primavera avevano ripreso a vegetare con vigore e bellezza. Ora i tre cimali pendevano spezzati, con le foglie appena sbocciate che appassivano e la linfa che gemeva dalle ferite mortali. Ma chi poteva essere stato? Non certo i ragazzi che conosco: lassù non arriverebbero, e poi i tronchi sono ancora troppo esili per arrampicarli. Forse era stato l'emigrante ritornato dall'Australia e che ogni tanto si ubriaca? O quei giovani dall'automobile rossa che quasi ogni sera vanno a fumare alla curva del bosco? Ero amareggiato e andando verso casa pensavo a un articolo letto su un giornale e che aveva per titolo: "Uccise un albero, all'ergastolo". Era per una quercia secolare sacra a certe tribù indiane ma anche nota come «La quercia del trattato di Austin» perché alla sua ombra era stato firmato l'accordo per l'annessione del Texas agli Stati Uniti e per gli americani era simbolo di storia concreta e viva. Forse l'ergastolo richiesto per un uomo colpevole di aver ferito gravemente un albero storico era una condanna troppo severa, ma dieci anni di lavori silvocolturali, pensavo, ci starebbero bene. Anticamente, per chi profanava un bosco sacro in certi casi c'era la pena di morte perché dagli alberi erano nati gli dei e gli uomini...


"A Giulio Einaudi amatore d'alberi".

Arboreto salvatico


Il larice. Albero cosmico lungo il quale scendono il sole e la luna. Da sempre l'albero ha esercitato sugli uomini sensazioni di mistero e di sacro e il bosco è stato il primo luogo di preghiera. Dice Plinio il Vecchio nella sua "Naturalis historia" che «... non meno degli Dei, non meno dei simulacri d'oro e d'argento, si adoravano gli alberi maestosi delle foreste». Agli alberi come specie o anche come singole creature sono legati miti e leggende, favole e fiabe ma anche storie vere. Gli antichi poeti raccontano di Egido, mostro spargitore di fuoco, che distrusse le foreste dalla Frigia alle Indie e dal Libano alla Libia; infine fu vinto e venne ucciso dalla dea Atena nella pianura dell'Epiro. Forse questo mostro sacro era stato ideato per esprimere le violenze devastanti dei conquistatori o, anche, il bisogno delle società in crescita di aumentare i terreni coltivabili. Ma il risultato fu anche che questi grandi e disordinati diboscamenti portarono diminuzione delle piogge, inaridimento delle sorgenti e l'inizio del deserto. Fu da allora, come scrive Adolfo di Bérenger nel suo bel saggio "Dell'antica storia e giurisprudenza forestale" (Venezia, 1863) che gli uomini al fine di dover proteggere gli alberi e i boschi decisero leggi per la conservazione: «... e l'afforzarono col mistero della religione, perché fossero meglio rispettate ovunque e da tutti». Oggi, dopo migliaia d'anni, il fenomeno della distruzione forestale si va ripetendo in altri luoghi della Terra; e se poco valgono gli allarmi degli scienziati, se leggi non vengono emanate o rispettate, quali miti, quale forza di religione si dovrebbero ideare, quale nuova dea Atena dovrebbe intervenire per fermare il novello Egido ignivomo che devasta la grande foresta dell'Amazzonia? Con queste rievocazioni, amici lettori, vorrei raccontarvi di quanto sugli alberi sono venuto a sapere nel corso dei miei anni, di quanto ho appreso camminando e lavorando per boschi, da testi anche antichi, da poeti e boscaioli, da dottori forestali, e spero, come vado dicendo da un po' di tempo, che la carta che uso per questo mio scrivere valga almeno l'albero che l'ha data Incomincerò dagli alberi del mio brolo e poi dirò di quelli della mia terra, perché di tutti sarebbe impossibile scrivere e se, alla fine, qualcosa sono riuscito a comunicarvi, mi sentirò lieto nel cuore. Prossimi alla mia casa sono due larici, me li vedo davanti agli occhi ogni mattino e con loro seguo le stagioni; i loro rami quando il vento li muove, come ora, accarezzano il tetto. Quando misi mano a tirare su i muri perimetrali, questi larici erano già nati dalla terra smossa da una granata che nel 1918, esplodendo, aveva ferito il pascolo, ma non avevano l'aspetto di oggi: erano alti, sì, a dondolarsi nel cielo, ma i loro diametri non superavano i venti centimetri. Sotto di loro in quell'autunno raccolsi un bel cesto di agarici violetti, profumati e sodi funghi che chiudono la stagione. Quando nella primavera ripresi i lavori, anche i due larici si vestirono di un bel verde chiaro rallegrato dai fiori gialli e arancioni; e sotto questi alberi luminosi raccolsi ancora i funghi di San Giorgio, primizia di primavera. Il "Larix decidua" appartiene alla famiglia delle "Pinacee": albero di bell'altezza può raggiungere anche i cinquanta metri; è molto longevo e il suo tronco diritto e slanciato è vestito da una leggera corona piramidale di rami sparsi: gli alti guardano verso l'alto, i bassi sono penduli; da giovane la sua corteccia è liscia e tendente al grigio ma con il passare degli anni diventa bruno-rossastra, profondamente solcata e molto spessa. Gli strobili hanno la forma di piccole uova brune, sono lunghi da tre a quattro centimetri e quando si aprono lasciano cadere i semi, ognuno unito a una piccola ala lunga poco più di un centimetro. (Nel trascorso inverno ho osservato centinaia di lucherini e di fringuelli che sul terreno si cibavano di questi semi). Il larice è albero tipicamente alpino e si spinge fin oltre i duemilacinquecento metri di quota; ma si trova anche nei Carpazi, specie particolari vivono in Polonia, in Siberia e in Giappone. Ama il sole, inverni freddi e nevosi, estati asciutte; è specie d'avanguardia e lo si riscontra quando spontaneamente occupa terreni denudati per frane, o alluvioni, o fratte rase: ogni terreno smosso, purché asciutto, è buono per attecchire. Forma boschi puri (lariceti) e si consorzia sovente con le altre conifere delle Alpi. Sui pascoli è l'albero preferito perché con la sua leggera copertura non impedisce la produzione dell'erba e sotto la sua ombra, nei meriggi estivi, il bestiame ama sostare. Dal suo tronco, quando viene inciso alla base, cola una resina ambrata dalla quale si ricava la "trementina di Venezia", un tempo molto usata in farmacia e dai pittori. Il suo legno ha un durame rosso-bruno, l'alburno è più chiaro, gli anelli di accrescimento sono ben distinguibili; è odoroso, compatto e duro. Da sempre è servito agli uomini delle montagne per costruire capanne e case. (Più il larice cresce in alta montagna migliore è il suo legno). In Val di Fassa certi architravi maestosi portano scolpiti date e nomi che vanno indietro nei secoli. Ma anche con il larice si fanno assicelle per la copertura dei tetti (le "scandole"), mastelli, botti, mobili e suppellettili. Nell'acqua è immarcescibile e, oltre a costruire le navi, i Veneziani, sopra i pali di larice, hanno edificato chiese e palazzi. Venezia, però, aveva anche regolato con leggi severissime lo sfruttamento delle foreste e a questo scopo, nei primi anni del Cinquecento, aveva nominato uno specifico magistrato. Plinio ci racconta che Tiberio per la costruzione del Ponte Naumachiario fece venire dalle Alpi Rezie una trave di larice che lasciò stupefatti i Romani: era lunga centocinquanta piedi e aveva una grossezza uniforme di due piedi per ogni lato. Ma oggi, a pensarci, ci stupisce ancora di più il suo trasporto. I tre larici della Ultental, in Sudtirolo, oltre il villaggio di Santa Geltrude, sono certo gli alberi più antichi delle Alpi. Il più maestoso di questi misura più di otto metri di circonferenza e la sua altezza, malgrado un fulmine o la neve che gli hanno spezzato l'apice, è di ventotto metri. Il quarto fratello di questi tre venne divelto da un bufera nel 1930 e contando gli anelli si poté determinare che aveva duemiladuecento anni. Ora gli esperti dicono che il maggiore è lì a guardare le montagne da duemilatrecento anni! Anche il «mio»albero da ragazzo era un larice. L'aveva fatto piantare mio nonno per ricordare il ventesimo secolo. Poi venne la Grande Guerra e nella corteccia portava le cicatrici di quando, tra il 1916 e il 1918 si trovò tra l'una e l'altra trincea del fronte. Le ferite delle pallottole e delle schegge erano allora, attorno agli anni Trenta, incrostate di resina, e forse la biforcazione in alto era dovuta alla stroncatura inferta da una granata di passaggio. Ma il larice, oltre alle tormente e ai fulmini, sopporta anche la guerra. Mi arrampicavo lassù, sul «mio» larice, tra gli aghi d'oro infiammati dal sole verso il tramonto. A volte mi sedevo a cavalcioni nella forcella della biforcazione e la resina mi impeciava la gambe nude e i calzoncini. Ma quando il sole incominciava a scendere dietro le Piccole Dolomiti mi alzavo da ramo in ramo come uno scoiattolo, fin dove la punta incominciava a dondolare sopra il vuoto e i rami flessibili e sottili riuscivano a sopportare il mio peso. Mi pareva, da lassù, di poter guardare più a lungo il sole che tramontava tra nuvole infuocate e di navigare con la fantasia verso avventure infinite. Era questo il momento in cui noi ragazzi, ognuno sul suo albero, restavamo silenziosi. Dalla lontana Siberia, dove cresce il "Larix sibirica", un viaggiatore ha raccontato che certe popolazioni primitive lo considerano "albero cosmico" lungo il quale scendono il Sole e la Luna sotto forma d'uccelli d'oro e d'argento. Lassù avevano anche un Bosco Sacro dove ai rami dei larici appendevano le più belle pellicce e ogni cacciatore vi deponeva una freccia. Ma i larici che personalmente ammiro e fors'anche venero, sono quelli che nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono lì nei secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre, a ogni primavera quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli. E all'autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d'oro le pareti.

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L'abete. Albero della nascita e a lui era dedicato il primo giorno dell'anno. Il peccio, "Picea excelsa" Link, o abete rosso, è l'albero che è sempre stato presente e mi accompagna nella vita. Nella casa dove sono nato e ho trascorso la mia giovinezza, i mobili, le suppellettili, i pavimenti, le scale, le grandi e geometriche capriate del tetto, tutto era stato ricavato dai pecci dei nostri boschi: erano alberi feriti dalla guerra che per necessità di coltura, tra il 1919 e il 1922, si dovette abbattere. Da ragazzi, alla festa degli alberi, erano sempre piantine di peccio che mettevamo a dimora nelle ampie chiarie causate dai combattimenti; come sempre di peccio erano centinaia di migliaia le piantine che i miei compaesani piantavano appena la neve liberava il terreno. C'erano diversi vivai, "orti forestali" li chiamavamo, ubicati in località distinte per clima e altitudine al fine di poter procedere nel lavoro di semina e di rimboschimento in armonia con la stagione meteorologica. I semi venivano dalle foreste della Val di Fiemme che, dicono gli esperti, sono le più belle e dànno il migliore legname delle Alpi. Quello del "piantar piantine" e del recupero dei materiali bellici è stato il principale lavoro della nostra gente per molti anni; ma tante volte, anzi sempre, scavando le piccole buche per il rimboschimento, assieme alla terra e ai sassi uscivano cartucce, bombe inesplose, resti di caduti perché ovunque era stato campo di battaglia. Ora, a distanza di settant'anni, ci si rende conto che fu errore impiantare boschi puri di peccio: la monospecie e la coetaneità hanno un equilibrio molto fragile perché parassiti di ogni genere, malattie fungine, insetti e inclemenze stagionali possono in breve tempo rendere vani lavoro e capitale. Ma allora si trattava di ricostruire in fretta la foresta distrutta e di coprire così i vistosi disastri della guerra. Anche nel mio brolo, assieme ad altre diverse specie d'alberi di alto fusto, ci sono i pecci: crescono rigogliosi tanto che ormai, anche se sono nel terreno più in basso, mi riducono lo sguardo sul paesaggio. Quand'erano ancora piccoli, mi era molto comodo raccogliere da loro gli sciami delle mie api; poi, quindici anni fa, vennero i fringuelli a fare i nidi tra i loro rami a ogni primavera (che regolarmente, alla schiusa, le cornacchie 11

distruggevano anche se restavo all'erta); quest'anno una coppia di tordi è stata scacciata da una coppia di cesene che ora, mentre scrivo, porta vermi e larve ai nidiacei che, sgraziatamente, stridono. Il peccio resta pur sempre l'albero per eccellenza delle nostre foreste alpine, e da lui hanno tratto da vivere tante famiglie di montanari che dal suo legno ricavavano oggetti che poi venivano commerciati in paesi anche lontani. Fino alla scoperta e all'uso della plastica, attorno alle case delle nostre contrade c'erano sempre castelli di assicelle o doghe messe a essiccare al sole, e poi da queste, quando il lupo mangiava l'inverno, si ricavavano mastelli, secchie, tini, fasce per il formaggio, scatole di varie misure per le farmacie e gli orefici. Rari pecci con particolari caratteristiche (denudati dalla corteccia mostrano delle piccole verruche regolarmente distribuite lungo il tronco) venivano e vengono chiamati "alberi di risonanza" e abbattuti, stagionati e segati in maniera accurata e seguendo le fasi lunari (l'abbattimento deve essere fatto subito dopo il plenilunio e, dopo qualche anno il tronco segato in luna calante perché così il legno, materiale vivissimo, risulta più stabile). Di queste assi così ottenute i liutai si servono per costruire le casse degli strumenti a corda. La foresta pura di peccio è uniforme, cupa, qualche volta priva di sottobosco o con sottobosco povero. Gli alberi si alzano diritti come colonne e la luce filtra tra loro creando forti contrasti come in una cattedrale gotica. D'inverno, a volte, la neve rimane sospesa sui rami per più giorni e quando scivola al suolo crea delle trincee attorno ai tronchi. Le abbondanti nevicate primaverili accumulano grande quantità di neve pesante sulle cime uniformi del bosco e se a queste nevicate si accompagna forte vento, il fenomeno provoca grandi schianti di tronchi e sradicamenti, con rumori violenti e improvvisi, boati, scrosci e nuvole di neve. E chi passerà per una strada forestale o per una mulattiera in tali momenti, proverà profonda emozione e anche spavento. Il peccio, della famiglia delle "Pinacee", da molti, e non solo dai cittadini sprovveduti, erroneamente è chiamato pino. Ma altri alberi sono i pini. Questo peccio, o abete rosso, è albero di primaria grandezza, alto, talvolta, più di quaranta metri; è longevo tanto che in alcune foreste ancora intatte se ne possono trovare di quattrocinque secoli d'età. I rami sono disposti a piramide con le estremità rivolte verso l'alto. Nelle quote più alte o nelle regioni del Nord assumono forma colonnare perché dalla neve e per lungo tempo i loro rami vengono schiacciati contro il tronco. La corteccia è rossastra e a piccole squame, invecchiando si fessura e si dispone a placche. Le foglie aghiformi lunghe 12

due-tre centimetri sono disposte tutt'intorno ai ramuli; i fiori maschili, sui rami più giovani, sono amenti giallo- rossastri; i femminili di un bel colore rosso vivo. Gli strobili sono penduli, lunghi anche venti centimetri e cadono al suolo prima di aprirsi. (Ma gli scoiattoli comodamente seduti tra i rami amano desquamarli per mangiarne i semi e a terra lasciano cadere il torsolo nudo). I semi sono bruni e grandi come un grano di miglio, con un'ala lunga quindici millimetri. Quest'albero ama l'ombra, i terreni sciolti e acidi; forma anche boschi misti con il faggio e l'abete bianco e, nelle quote più alte, con il larice. Riveste le montagne tra gli ottocento e i duemila metri ed è specie tipicamente boreale in quanto la sua distribuzione va dalle Alpi alle montagne più alte della Grecia, dalla Transilvania alla Scandinavia fin oltre il Circolo Polare. Narrano i poeti greci e latini che il peccio era albero pronubo e sacro a Imeneo perché dal suo legno resinoso si ricavavano le tede per illuminare il talamo nuziale. L'abete bianco, "Abies alba" Mill, è pure un grande e maestoso albero che può raggiungere i cinquanta metri d'altezza e superare i quattro di circonferenza, come il bellissimo "Avez del prinzep" (Abete del principe) in quel di Lavarone, alla cui ombra amava sostare Sigmund Freud e che certamente è stato ammirato anche da Robert Musil. Il portamento dell'abete è eretto, il fusto diritto e cilindrico; la chioma è slanciata ma con gli anni, o con i secoli, assume la forma «a nido di cicogna». Il suo colore è verde intenso con i riflessi d'argento dovuti alle pagine inferiori delle foglie aghiformi, appiattite e persistenti, disposte a pettine su un solo piano ai lati del ramulo che le porta. La corteccia è liscia e argentea, con bolle resinose; con il tempo si screpola a placche e s'inscurisce come in tutti gli alberi. I rami principali sono robusti e fitti, a palchi. Come il peccio è albero monoico; i fiori compaiono in primavera, i maschili, sulla parte medio bassa della chioma, sono di colore giallastro; i femminili, sui rami più alti, sono rosso-violacei. Gli strobili, lunghi anche dieci centimetri o più, sono prima verdi e poi bruni, portati verso l'alto. Il suo areale comprende l'Europa centro-orientale, ma alcune razze di abete bianco si trovano persino in Marocco, in Calabria, in Sicilia, nella Grecia e sulle rive del Mar Nero. Sulle Alpi si spinge sino ai limiti della vegetazione forestale, e lo troviamo di solito consociato con l'abete rosso e il faggio; ama i climi umidi e piovosi. Il suo legno è bianco ma tendente al giallino o al rosato, con gli anelli di crescita ben distinti. I tronchi più belli e alti venivano usati per le alberature delle navi a vela, ma anche nelle armature e nelle capriate di certo impegno perché robusti e forti. Invece 13

le tavole per falegnameria sono meno pregiate di quelle che si ottengono dal peccio. La corteccia di abete bianco, ricca di tannino, macinata e ridotta in polvere, fino agli inizi di questo secolo veniva usata dai miei conterranei per conciare i pellami. Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con danze e canti si rallegravano nel cuore. Poi, dal Paese dove il mare non gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del Sole. Da allora si diffuse la tradizione dell'albero di natale che oggi ambientalisti e verdi vorrebbero far morire. La loro ragione, molto emotiva e poco razionale, è che migliaia se non milioni di abeti vengono così sacrificati, che boschi vengono distrutti con grave danno ecologico. E si indignano. Ma le cose non stanno così. Intanto si può subito dire che dove per così tanto tempo questa tradizione è viva e viene praticata, i boschi non sono affatto scomparsi. Nei Paesi del Nord Europa le foreste di conifere coprono ancora grandi estensioni di quei territori, ed è da credere che le superfici boscate sono aumentate. Ben altre sono le minacce alla loro vita! Da noi, invece, per i boschi delle nostre montagne, si deve dire che non saranno certo gli alberi di natale a stravolgere l'ambiente. E mi spiego. Gli alberi che vediamo vendere agli angoli delle piazze cittadine hanno verso la punta un sigillo del Corpo Forestale che ne garantisce la provenienza. Per lo più vengono da coltivazioni apposite, poste su terreni abbandonati che qualche montanaro coltiva per avere ogni otto- dieci anni una entrata extra per il suo magro vivere. Vengono pure utilizzati per alberi natalizi i cimali degli abeti tagliati nel bosco per necessità colturali. Si sa che la migliore foresta, la più utile all'uomo sotto ogni aspetto, non è la foresta vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e coltivata. Lo dicono da tempo l'esperienza e gli studiosi che tutta la vita hanno dedicato al bosco; e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna appunto tagliare o agevolare lo sviluppo. La foresta ci deve dare legname da opera e da carta, legna per riscaldarci. E anche alberi di natale per ricordare il ritorno del Sole e la nascita di Cristo. Qui, al confine con il mio brolo, c'è un pascolo ai margini del bosco. Nel corso degli anni ho potuto constatare come va cambiando nell'aspetto. Un 14

tempo vi pascolavano nove vacche; poi è stato abbandonato. Ha incominciato a coprirsi di cardi, di cespugli di ginepro, rosa canina e crespino. Tra questi cespugli sono comparsi dei piccoli abeti e qualche frassino. Qualche anno fa il contadino ha voluto riprendere l'allevamento e al posto delle dieci vacche, sullo stesso pascolo, non può tenere più di sette vitelle: hanno trovato poca erba e così ha dovuto decespugliare e ripulire l'area. Ma intanto sono anche cresciuti gli alberi che con la loro ombra e con il loro sviluppo hanno ancora ridotto il pascolo. Ora, proprio in questi giorni di dicembre, il proprietario ha avuto dal Corpo Forestale l'autorizzazione a tagliare qualche centinaio di alberelli al fine di far crescere l'erba per alimentare le vitelle. Questi alberelli diventeranno alberi di natale per voi che vivete in città e questa operazione non la trovo per niente antiecologica. A conferma di questo, proprio l'altro giorno un agronomo Rettore d'Università, mi diceva come, a causa dell'abbandono della montagna, anno dopo anno aumenti notevolmente la superficie boscata delle nostre Alpi, Prealpi e Appennini. Non preoccupatevi, quindi, amici ecologisti e verdi, per gli alberi di natale che vedrete vendere nelle vostre città: hanno lo stesso valore morale dei fiori nelle fiorerie. E a coloro che verranno a trascorrere le vacanze natalizie e di fine anno in montagna, vorrei solo dire di non essere loro ad andare nel bosco a tagliarsi l'albero di natale, che sì potrebbero fare danno, oltre al furto. E poi sotto quell'abete che rallegrerà le nostre case non mettiamo solo doni costosi, inutili o diseducativi per i nostri ragazzi, ma assieme a qualche libro anche qualcosa per la ricerca sul cancro, o per i vecchi del ricovero.

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Il pino. Il cirmolo, tra gli alberi delle nostre Alpi, è, con il larice, il più bello. Abete bianco, abete rosso o peccio, larice sono pinacee; altro genere, pur delle stessa famiglia, sono i pini: una novantina di specie distribuite nell'emisfero boreale, dall'Atlantico al Pacifico. Ma anche se con pazienza e l'aiuto di testi potrei distinguerne un discreto numero, mi limito o parlarvi dei pini che sono nel mio brolo: del "Pino silvestre", del "Pino montano" e del "Pino cembro". Il pino silvestre che sta a mezzogiorno e che ben si armonizza tra le due betulle, lo raccolsi e lo trapiantai da una antica morena un giorno che ero andato a camminare con mio figlio, sul finire di un lungo inverno. Ma come ora è cresciuto! Ed è a guardarlo che mi rendo conto di come passano le stagioni. Albero di primaria grandezza il pino silvestre può arrivare a quaranta metri e oltre; anche lui, come tutte le conifere è molto longevo e può passare i cinque secoli di vita. Il suo fusto è diritto, ma la neve, i fulmini, le pietre che cadono dall'altro della montagna, il vento lo possono rendere tormentato. La sua chioma è rada e irregolare, i rami hanno gli apici rivolti verso l'alto; dove cresce stretto ad altri consimili ha forma piramidale allungata, si distende quando è isolato o rado. La sua corteccia è squamosa, rossastra da giovane, tendente al grigio e solcata da maturo, ma sempre portata al rosso verso la cima. Le foglie sono aghiformi, di colore verde-glauco, raggruppate a due a due, lunghe da tre a sette centimetri, contorte a spirale (sono più corte nei Paesi freddi, più lunghe nel Meridione). Come le altre conifere è albero monoico e i fiori di questo pino sono molto ricchi di polline, tanto che le api ne fanno abbondante raccolto che concorre alla produzione della cera. Quando tra maggio e giugno sono in fioritura, camminando sotto di loro ci si può ritrovare con gli abiti tutti spruzzati di una polvere gialla che si stacca dagli stami a ogni leggero soffiare di vento; un tempo questo fenomeno veniva chiamato pioggia miracolosa di zolfo. E' un albero che ama il sole e i climi continentali; sopporta molto bene freddo e siccità ed è anche specie pioniera nei terreni degradati. Se uno percorre la Val Venosta può osservare come il lato di sinistra, quello arido rivolto a mezzogiorno, sia qua e là popolato da macchie di pino silvestre, mentre quello a destra, rivolto a mezzanotte e umido, sia invece 16

coperto da pecci, abeti e latifoglie. Il buon legno del pino silvestre, con l'alburno bianco-rosato e giallino e il durame più tendente al bruno, varia di qualità secondo la provenienza: il migliore è quello che cresce lentamente nei luoghi freddi o elevati; è di lunga durata, resistente, ottimo per costruzioni navali ma anche per mobili e oggetti casalinghi. Dai tronchi che non vengono usati in segheria si ricava cellulosa da carta. Dalla ramaglia un tempo si otteneva un carbone dolce particolarmente ricercato e usato per la fusione di acciai speciali. Dagli alberi adulti, quando raggiungono l'età di centocentoventi anni, incisi al piede fuoriesce una resina grassa che, distillata, dà un'ottima acquaragia; dal residuo di questa distillazione si ottiene la pece greca o colofonia e quella ricavata dal pino silvestre è la migliore tra tutte per impeciare i crini degli archi degli strumenti musicali. Secondo rilievi fatti nel secolo scorso da Adolfo di Bérenger nei boschi della Stiria, ogni pino adulto produce tra i tre e i quattro chilogrammi di resina all'anno; sicché un ettaro di pineta può dare circa millesettecento chilogrammi dai quali si ricavano per distillazione trecentocinquanta chilogrammi di olio di trementina e circa mille di colofonia. Dopo essere stata così utilizzata, la parte del tronco scortecciata e che restava impregnata di resina, era un prezioso legno da teda perché tagliata in asticelle forniva facelline da usarsi al posto delle candele o delle lucerne e, un tempo, ne veniva fatto grande commercio. Ricordo come cinquant'anni fa in Albania, nei mercati di Tirana e di Koriza, i montanari scesi dai villaggi vendevano per poche lire i mazzetti di queste stecche di pino silvestre che gocciolavano ragia; e come nei boschi vedevamo ogni tanto un pino scavato nel tronco, da dove anche noi abbiano poi imparato a staccare le tede per illuminare i ricoveri. Bruciando il legno di quest'albero, disposto in cataste simili a quelle delle carbonaie ma con più cura, si raccoglieva il catrame che colava in una fossa o in un recipiente sottoposti; questo distillato serviva per le vele delle navi e per i cavi. Raffinato o ricotto dava altri preziosi prodotti come la «pece rossa» che si usava spalmare nell'interno dei vasi vinari, o quella «pece bruna» che in Germania adoperavano mista a creta per impeciare le botti da birra. La «pece navale» era indispensabile per calafatare le navi; la «pegola» serviva a calzolai e sellai per impegolare lo spago da cucito. Marziale scrive che la «pece rabulana» veniva aggiunta al vino per renderlo più abboccato. Il pino silvestre è pure pianta medicinale: le gemme, gli aghi e i ramuli contengono principi balsamici attivi e disinfettanti; e se volete fare un bagno veramente salutare mettete nell'acqua molto calda della vasca un bel mazzo di 17

ramuli freschi ricchi di aghi, allungate l'acqua alla temperatura desiderata e poi immergetevi respirando i vapori. Al di là delle Alpi si raccolgono gli aghi del sottobosco e dopo averli messi a macerare si ottiene la "lana di bosco" (Waldwolle) che per le sue proprietà igieniche e salutari (cura i reumatismi) può sostituire la lana di pecora nei materassi e nei guanciali. Tante cose ha sempre dato all'uomo quest'albero! Plinio ci racconta che dal pino silvestre si ricavavano i cannelli per scrivere ("fasces calamorum"): temperati a forma di penna d'oca venivano induriti per mesi dentro un letamaio. Vitruvio descrive come dentro appositi forni o dentro capanne chiuse da ogni lato si ottenesse il "nero di fuliggine" bruciando legno di pino, e questo "nero" veniva usato dai pittori, e più ancora come ingrediente principale nella composizione dell'inchiostro. Presso i Greci il pino silvestre era il simbolo della verginità e per questo dedicato a Diana; ma anche a Pan in memoria di una fanciulla da lui amata e insidiata che Borea spinse sulle montagne e fece precipitare da una roccia. La Terra pietosa la trasformò in pino e quando Pan sentiva il soffio di Borea non cessava mai di piangere. Le gocce di ragia che il pino geme sono le lacrime della fanciulla amata. Il pino montano. Il "montano" è dei pini il più polimorfo, ossia assume forme diverse da luogo e luogo, o anche sullo stesso luogo e, persino, assicurano gli esperti, sullo stesso individuo; tanto che per classificarlo è da preferire il suo portamento che non i caratteri degli strobili. In linea di massima possiamo dire che nell'area occidentale: Pirenei, Alpi occidentali, Engadina, si trova il tipo "arborea" a fusto unico o anche a più fusti eretti e slanciati che possono raggiungere i venticinque metri d'altezza; nelle Alpi orientali, nei Carpazi e nei Balcani il tipo "prostrata" a fusti numerosi e striscianti pure lunghi sui venti metri ma che, al massimo, raggiungono in altezza i quattro. La sua corteccia è scura, quasi grigio-nera, i rami sono verticillati, ossia inseriti a due o a più di due nello stesso nodo; hanno gli apici rivolti verso l'alto; le foglie, lunghe tra i tre e gli otto centimetri, sono diritte e pungenti, di colore verde cupo. I fiori maschili sono gialli, i femminili violacei. Gli strobili mutano da varietà a varietà: "uncinata", "pumilio", "mughus" e sono lunghi dai tre ai cinque centimetri. I semi sono piccoli, con una piccola ala, e il vento delle tormente li dissemina nei luoghi più impervi. Fiorisce tra la fine della primavera e l'inizio dell'estate, quando le pernici bianche dischiudono le uova. Sulle montagne forma boscaglie pure, o anche miste con larice, peccio, cirmolo, ontano verde; si arrampica a coprire ghiaieti, rocce, ripiani, scende dagli orli degli abissi o risale al limite della vegetazione forestale fino oltre i 18

duemilacinquecento metri di quota. Per questo suo comportamento esercita in alta montagna una notevole azione protettiva, trattenendo l'acqua e la dilavazione del suolo. Se la neve non è tanto alta da coprirlo interamente, specialmente nelle forme "prostrata", impedisce la caduta di valanghe. Distillando i suoi ramuli si ottiene il "mugolio", un olio essenziale di grandi proprietà medicamentose ad azione balsamica e antiflogistica per le vie respiratorie dei bambini e dei vecchi. Il legno del pino montano non vale molto perché, a causa delle modeste dimensioni che raggiunge il tronco, non è utilizzabile come legname da opera. A cagione della sua breve estate cresce lentamente e così diventa pesante e compatto, flessibile anche al vento e al peso della neve. Dopo due o tre anni dal taglio (che deve essere fatto in luna calante!) brucia bene e dà un buon calore; e questo ben lo sanno i pastori che dopo averlo reciso lo lasciano per «due agosti» alle intemperie e al sole. A me, sin da ragazzo durante le escursioni, e poi nel tardo autunno nei ricoveri di caccia, il suo fuoco ha fatto compagnia, e riscaldato e asciugato dalla pioggia o dalla neve. Il pino montano varietà mugo del mio brolo l'ho portato giù dalla montagna di Campo Filon, giusto vent'anni fa, quel giorno che Ermanno Olmi era salito lassù per girare una scena dei "Recuperanti", quella dove si vede una grossa bomba nel mentre che passa un gregge. Le pecore, camminando, avevano smosso la poca terra denudando così le radici di un piccolo mugo che poi raccolsi e trapiantai qui a casa. Ora è cresciuto molto di più che se fosse rimasto lassù; ma invece di essere prostrato e contorto, il clima e le precipitazioni nevose dovute ai mille metri di differenza di quota, lo hanno sviluppato policormico ed eretto come i pini montani delle Alpi occidentali. Ma i pini mughi delle nostre montagne, ora che i carbonai più non li tagliano e i sentieri si rinchiudono a causa del loro sviluppo, sono anche famosi per i problemi che possono creare ai viandanti che osano attraversarli; e anch'io la settimana scorsa ho girato a vuoto per più di un'ora sotto la pioggia e tra l'intrico dei loro tronchi striscianti e alla fine mi sono ritrovato, sfinito, al punto di partenza. E dai vecchi è ricordata come «la Barancia» una compagnia del Settimo Alpini che alla fine del secolo scorso, durante una manovra, si perdette tra i «baranci», i mughi delle Dolomiti. La mancata utilizzazione da parte dell'uomo di questa specie di pino, fenomeno che si è verificato in questi ultimi cinquant'anni, ha portato un notevole cambiamento non solo nel paesaggio ma anche negli habitat della selvaggina, e Oggi non è raro trovare a quote insolite famiglie di caprioli 19

mentre, per mancanza di pascolo a loro confacente, si sono fatti più rari i galli di monte e le pernici bianche. Il pino cembro. Per i due piccoli pini cembri che ho nel brolo ci vorranno molti anni perché diventino alberi ben visibili! Ma se gli uomini saranno saggi e avremo posteri, i nipoti dei miei nipoti potranno dire: «Questi cembri li aveva messi a dimora il nonno di nostro nonno». Il "Pino cembro", o cirmolo, tra gli alberi delle nostre Alpi è, con il larice, il più bello: socievole e sempreverde non raggiunge l'altezza dell'abete o del peccio, ma può arrivare oltre i settecento anni di vita. Dove i fulmini, le valanghe, i sassi feriscono il tronco, assume forme tormentate e inconfondibili; e lassù, tra i millecinquecento e i duemilacinquecento metri di quota, tra nevai, rocce e ghiacciai è vedetta arborea della natura. E' di lentissimo accrescimento; i rami sono grossi e irregolari, incurvati verso l'alto a formare una densa chioma; la corteccia è grigia, profondamente fessurata lungo il tronco; gli aghi delle foglie sono riuniti a fascetti di cinque, teneri e sottili, di colore verde- glauco e durano sul ramo quattro-cinque anni; gli strobili (che messi in infusione nella grappa donano un bel colore ambrato e un sapore non piccante di resina) sono lunghi otto centimetri e al secondo anno maturano i semi dentro una guaina legnosa. Questi pinoli sono cibo molto ricercato da scoiattoli e nocciolaie che molte volte li nascondono tra le crepe delle rocce per i tempi di carestia; quelli dimenticati germogliano e le piantule allungano le radici a cercare tra le pietre e i muschi un briciolo di vita: tanto che è sempre stupefacente vederle poi cresciute sopra un masso al margine di un ghiacciaio o su una parete di roccia. Il legno del cirmolo è bianco-crema, il durame rosso-bruno odoroso e inintaccabile dagli insetti; per la sua grana fine e per la sua omogeneità è albero da sculture e molto bene lo usò Andrea Brustolon, grande scultore decorativo del rococò veneziano, artefice di altari, stalli, sedie, bastoni e di elementi decorativi. Augusto Murer dai tronchi di cirmolo delle sue montagne ricavava le sue amorose "maternità". Ma per i montanari è soprattutto grande legno da casa per mobili e oggetti, e per rinvestire contro il gelo le stanze da godere nei lunghi inverni.

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La sequoia. A ricordo dei compagni che sono morti su queste montagne. Tra quelli del mio brolo l'unico albero fuori dal suo naturale ambiente è una "Sequoia gigantea"; ormai è alta sei-sette metri, ma solo in questi ultimi anni ha preso vigoroso sviluppo perché quando la misi a dimora, una quindicina di anni fa, era alta poco più di un metro. La sua forma decisamente conica, i suoi rami bruni un poco pendenti, le foglie di un bel colore verde prato lineari-lanceolate lunghe da due a cinque millimetri appressate al ramulo, la corteccia grigiastra tendente al bruno, fessurata lungo il tronco con chiazze di licheni alla base, tutto questo, la fa ben distinguere dalle altre conifere. La mia sequoia non ha ancora gli strobili: è troppo giovane; ma spero di vederli un giorno: dovrebbero venire lunghi circa cinque centimetri, prima eretti e poi penduli, e dentro le venticinque squame nascondere i piccoli semi con la loro ala. E il vento, forse, li porterà a germinare su qualche buona terra delle mie montagne. Dicono che il legno delle sequoie sia leggero e tenero, ma anche resistente e inintaccabile dagli insetti; ma credo che quello di questa mia che ha ormai così bene attecchito, non sarò certo io a usarlo. E qui scrivo che dovrà essere lasciata fin che la natura vorrà. Anche se tra secoli sarà così grande da far crollare la mia casa con le sue radici! Dell'ordine delle "Conifere", famiglia delle "Taxodiacee", hanno solo due sole specie: "Sequoia gigantea" e "Sequoia sempervirens". Un tempo lontanissimo, milioni di anni fa, erano distribuite su tutto l'emisfero settentrionale e i paleontologi sono riusciti a descriverne quaranta specie fossili. Qualche anno or sono, a Dunarobba, una frazione del comune di Avigliano Umbro, degli operai di una fornace scavando materia prima per laterizi, si imbatterono, increduli, contro una massa dura e insolita in quel sottosuolo: pietre giganti infisse nell'argilla. Si resero subito conto che, per qualche ragione, quelle strutture meritavano attenzione e notificarono la scoperta. Arrivarono da Perugia i paleontologi che dissero quelle «cose» alberi pietrificati. Vennero così alla luce, su due ettari di superficie, una cinquantina di tronchi colossali con il diametro di oltre due metri, alti tra i sette e i dieci. 21

Si tratta di resti fossilizzati di sequoia vissuta forse un milione e mezzo di anni fa, nel Pleistocene Inferiore, che un incomprensibile fenomeno aveva schiantato nel loro vigore vegetativo; lasciando in piedi questi tronchi a testimonianza di quel tempo e come esempio unico al mondo «di resti vegetali fossilizzati in posizione di vita». Ora, dopo milioni di anni, il loro ambiente naturale rimane limitato a poche aree lungo la Serra Nevada, in California, a un'altitudine tra i millecinquecento e i duemilaquattrocento metri: è lì che troviamo gli alberi viventi più vecchi della terra che dall'alto dei loro cento e più metri d'altezza, dai loro diametri di oltre dieci metri e dai millenni di vita (la più anziana si calcola abbia più di quattromila anni!) guardano la nostra storia. Il nome a questi giganti del mondo vegetale era stato dato dagli indiani in onore di un uomo della loro tribù chiamato Sequoiah, inventore dell'alfabeto cherokee. Nei libri di botanica dell'Ottocento la sequoia viene anche chiamata "Wellingtonta gigantea", o anche "Albero mammouth". Il Figuer nella sua "Storia degli alberi" così la descrive: «E' un albero della famiglia delle Conifere, che fu, a quanto dicesi scoperto da un viaggiatore inglese, il naturalista Lobb, su una montagna della California...» Anche il botanico Müller nella sua opera "Meraviglie del mondo vegetale" dice di questa scoperta, e dopo averlo descritto nella sua maestosità dice: «... Egli è perciò che l'albero venne eretto in genere particolare e chiamato "Wellingtonia gigantea", benché recentemente la vanità americana, a quanto pare, ne abbia fatto una "Washingtonia". Sovra un miglio si incontrano circa novanta di questi alberi. La massima parte trovasi riuniti in gruppi di due o tre sopra un suolo fertile, nero, bagnato da un rivo. Perfino i cercatori d'oro vi hanno prestato attenzione. Infatti uno di questi alberi porta il nome di "Capanna del minatore" e possiede un tronco di trecento piedi d'altezza, in cui è praticata una cavità di diciassette piedi di altezza. Le "Tre sorelle" sono individui procreati da una sola ceppaia. Il "Vecchio scapolo", arruffato dagli uragani, mena vita solitaria. La "Famiglia" si compone di una coppia di antenati con venticinque figli...» Per dare l'idea di come questi alberi isolati siano da per se stessi un bosco, si pensi che la sequoia denominata "Generale Sherman" ha un volume calcolato di oltre millesettecento metri cubi: l'equivalente di circa mille abeti maturi dei nostri boschi! Ma perché una giovanissima sequoia è capitata nel mio brolo? Attorno agli anni Sessanta ogni estate veniva sull'Altipiano, da Torino, un signore alto e magro, distinto, che qualche volta si accompagnava a passeggiare con mio padre. 22

Venni così anch'io a conoscere il signor Giuseppe e a sapere che la sua puntuale presenza era dovuta al fatto che nel 1915 e 1916 era stato quassù come fantaccino della Brigata Ivrea. Con i suoi compagni nascosti dentro i boschi la mattina del 24 maggio 1915 aveva sentito quel colpo di cannone che annunciava la nostra entrata in guerra contro l'Austria- Ungheria. Sei giorni dopo gli alpini dei battaglioni Bassano e Val Brenta e i fanti della Brigata Ivrea tentarono di forzare le linee di fortificazioni sulla strada per Trento subendo molte perdite. Ma fu l'anno dopo, nel maggio, che in questa zona del fronte si scatenò la «Spedizione punitiva» contro l'Italia, e il battaglione dove era il signor Giuseppe venne quasi annientato da un violentissimo bombardamento. Si legge nella relazione: «... La lotta sul Costesin fu veramente tra le più epiche di questa battaglia, nella quale rifulse il tenace valore dei difensori e in particolare della Brigata Ivrea». Un corrispondente austriaco della «Neue Freie Press» scriveva al suo giornale: «... osservando le postazioni nemiche si nota un caos raccapricciante: un ammasso di reticolati divelti, contorti, di tronchi a terra, enormi buche nel terreno generate dallo scoppio delle granate. Quando il bombardamento ebbe inebetiti i nemici cagionando loro terribili perdite, allora fu sferrato l'assalto delle fanterie...» Il generale Murari Brà che comandava la Brigata Ivrea, ha lasciato scritto nelle memorie di quei giorni: «... Fu l'artiglieria che ci vinse, la fanteria fu sempre preceduta da vere cortine di proiettili. Ogni qualvolta le due fanterie si urtavano noi avevamo il vantaggio...» Il signor Giuseppe, che nella sua casa in collina coltivava il bel giardino, era sopravvissuto a tutto questo e ogni estate, negli ultimi anni della sua vita, veniva al Costesin dove ancora ci sono i segni della terribile lotta. Anch'io lo accompagnai un giorno; non disse nemmeno una parola ma quando giungemmo su quel dosso i suoi occhi erano pieni di lacrime. Quando venne l'ultima volta mi portò la sequoia che era passato a prendere in un vivaio dell'Appennino Pistoiese. «La pianti qui nel suo brolo, - mi disse, - a mio ricordo e a ricordo dei miei compagni che sono morti su queste montagne». Insieme scegliemmo il posto. Quando negli scorsi inverni era gravata dalla neve mi facevo premura a liberarla, e quando il vento l'asciugava, le bagnavo le foglie. Ora non ha più bisogno del mio aiuto e i miei nipoti sanno che quello è l'albero del signor Giuseppe e dei fanti della Brigata Ivrea. 23

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Il faggio. Si costruisce e si conserva la foresta. Questo, per me, è il tempo del faggio: ogni mattina entro nella legnaia dove ho riposto la legna secca dopo che per un anno era rimasta accatastata al sole e al riparo dalla pioggia al muro sud della casa. Ora il faggio brucia con chiara fiamma dentro la stufa donandomi un tepore sano e buono; così che alzando la testa dal tavolo e vedendo l'inverno sulle montagne e sui boschi è ancora più piacevole riprendere la lettura o un foglio bianco per scrivere a un amico. Ho incominciato da ragazzo a «sentire» il faggio come albero felice agli dei, e non lo sapevo. Avevo forse dieci anni, quando per la prima volta seguii i famigli e mio padre nel bosco per aiutare a raccogliere i polloni e i rami dell'assegnazione d'uso civico. I forti cavalli nell'autunno portavano i pesanti carri verso le case degli uomini e davanti a ogni abitazione, nei cortili o nella strada, stavano i mucchi in bell'ordine. Con i segoni a due manici, abbandonati qui dalla Grande Guerra, si segavano i pezzi a misura del focolare e delle stufe e poi con la scure, anche questa residuato bellico, si aprivano i pezzi in quarti. Per il paese e per le contrade era tutto un fervore, e dove c'erano vedove o vecchi c'era sempre qualcuno che dava una mano a preparare la legna. Con il fratello del nonno, che da poco era ritornato dall'America, anch'io segavo i lunghi tronchi appoggiati su un cavalletto. Ma volevo anche essere rivolto verso un poggiolo dove c'era una ragazzina che usciva a guardarmi. L'odore buono del faggio, anzi della segatura che usciva dal taglio (seppi più tardi che era dovuto ai fenoli dai quali si ricava il prezioso creosoto), si confondeva con quello della neve che dalle montagne a nord si avvicinava al paese. Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta, venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli, picconi, scalpelli perché il faggio è il legno che meglio di ogni altro si adatta alle mani dell'uomo, e ben lo sapevano i Veneziani che saggiamente amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi. Dove un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva 25

scelto per costruire la "slitakufa", slittastorta: dal tronco smussato in punta si ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi si mettevano su un'asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso di bosco o di campo. Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbe ricavato gli sci. Forse per tutti questi ricordi ho voluto che nel brolo trovassero il loro posto anche tre faggi. Li avevo trapiantati dal bosco comunale una primavera piovosa, prima che comparissero le foglie; erano alti meno di un metro, e siccome è specie che ama l'ombra e l'umidità li ho messi a dimora tra gli abeti e i sorbi. E lì crescono portando i rami verso l'alto; poi, quando gli abeti saranno giunti al punto che dovranno essere diradati, anche i faggi allargheranno la loro chioma, prendendo quell'aspetto rotondiforme che li farà solenni. Ma a godere di questo spettacolo della natura saranno i miei nipoti. L'anno scorso in autunno, perché questa è la stagione più bella per la foresta di latifoglia, sono andato a visitare forse la più classica faggeta d'Europa. Si trova in Jugoslavia dalle parti dei laghi di Plitvice; e lì tra quelle fustaie eccelse ho voluto raccogliere una manciata di faggiole appena cadute dai rami. Portate a casa e messe in un vaso a fior di terra (sono epigee), questa primavera hanno germogliato; ora le piantule sono alte pochi centimetri ma tra cinquant'anni richiameranno l'attenzione dei passanti. Il "Fagus silvatica" è albero socievole ed è dotato di facoltà pollonifera, ossia dopo essere stato reciso rigenera dalla base. Il fusto è diritto e regolare, nel bosco i rami sono raccolti nella parte superiore, ascendenti; negli alberi isolati i rami sono più grossi e la chioma è arrotondata. La corteccia è di colore grigio chiaro, liscia, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il pedale, da muschi dal verde intenso. I rami più giovani tendono al grigioverde. Le foglie sono caduche, lunghe cinque-dieci centimetri, ovali e brevemente appuntite, leggermente ondulate, di colore verde brillante nella parte superiore, più pallide e un po' pelose nella pagina inferiore. Quando fuoriescono dalla gemma hanno un colore verde tenerissimo e qualche volta, nel ricordo di una fame tra le montagne dell'Austria, le mastico e le mangio come lattuga. Le gemme sono lunghe e sottili, ricoperte da squame brune. Ma è nell'autunno, tra l'ottobre e il novembre, che le faggete prendono quel colore giallo- rosso squillante che rallegra la selva. Le radici del faggio sono ben sviluppate e ben "radicate". Qualche volta, da noi, avvolgono i sassi, penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il 26

tempo ha fatto l'humus con l'aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi faggi ci dànno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi da notte di Natale. L'albero del faggio è monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti maturano alla fine dell'estate; sono a cupola chiusa, un po' spinosa, a quattro valve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi circa un centimetro e mezzo. L'areale di questa latifoglia è tipicamente oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al Mar Nero e dalle Alpi Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un'area fitoclimatica particolare: il "Fagetum" che sta tra il più caldo "Castagnetum" e il più rigido "Picetum". Le foreste possono essere pure ma anche miste con l'abete bianco e altre latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualità di crearsi le condizioni vitali, il terreno della faggeta è uno tra i più fertili. Il faggio si costruisce e conserva la foresta!

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Il tiglio. Albero di giustizia perché attorno ad esso si riunivano i saggi. Perché quest'anno i tigli del mio brolo non hanno profumato l'aria dei crepuscoli? Ogni anno, a luglio, raccolgo in abbondanza i loro fiori e li distendo in soffitta sopra un graticcio e, quando sono bene asciutti, li ripongo al buio in vasi di vetro. Nelle sere dell'inverno, dopo cena o prima di coricarmi, una tazza di infuso di fiori di tiglio con un cucchiaio di miele di salvia delle isole dalmate è un'ottima bevanda che concilia il sonno e agevola la respirazione. Le proprietà medicinali di questi fiori sono note sino dai tempi più antichi: contengono zuccheri, tannino, acido malico e acido tartarico, olio essenziale. Tutte queste cose in loro raccolte hanno proprietà sudorifere, antispasmodiche e sedative. Qualche volta persino le api, quando con insistenza raccolgono nettare da certi tigli, vengono come assopite e si adagiano sull'erba all'ombra dell'albero. La famiglia delle "Tiliaceae" ha solamente il genere "Tillia"; da noi sono tre le specie che crescono, ma se ne conoscono molte di più, ed è curioso leggere come certi autori ne classifichino diciotto e altri sessantacinque. Da noi il tiglio più comune è il "Selvatico" o "Maremmano"; dei tre nostrani è il meno grande, ma pure può raggiungere i venticinque metri d'altezza. Il "Tilia platiphillos" è il più maestoso e bello: albero di prima grandezza può raggiungere i trentacinque-quaranta metri e una circonferenza anche superiore ai dieci metri. Tra gli alberi è uno dei più longevi: due-trecento anni è una età comune; già nelle cronache medioevali troviamo citati tigli venerandi e robusti che ancora oggi vivono, e che quindi dovrebbero avere superato i mille anni come quello di Neustadt, nel Württemberg. Meritano pure di essere ricordati il Tiglio di Sant'Orso a Aosta e il Tiglio del Maso Widum (Bolzano) che alla base misura sette metri di circonferenza. Da parte mia ricordo una maestosa e solenne "linta" che ombreggiava le case del mio paese: la sua chioma era come un bosco bello e misterioso e la tradizione diceva che ai suoi piedi, all'inizio della buona stagione e al principio dell'inverno, si radunavano i reggitori della comunità eletti dai 28

capifamiglia. Discutevano delle rendite dei beni comuni, del governo dei boschi e dei pascoli; trattavano i rapporti con la gente della pianura e con quella al di là delle montagne; ma anche con i preti che avevamo sì l'obbligo di mantenere, ma che a loro volta erano scelti e «non dovevano interessarsi della cosa pubblica, ma solo della cura delle anime». Dopo qualche secolo venne costruita la chiesa in tronchi e il "Palazzo della Reggenza dei Sette Confederati Comuni", rustico e severo ma non sacro come il tiglio: la "linta delle vicinie", che vide incendi, invasioni, pestilenze ma anche balli e feste, la vita, insomma, della mia gente. Sopravvisse persino alla Grande Guerra che in piedi non aveva lasciato nemmeno una casa. Quando tornarono nel 1919 trovarono tutto distrutto, ma non la nostra "linta" che, benché ferita, in quella primavera sopra l'odore della morte mandava il suo mormorio e il suo profumo. Ora non c'è più: avevano detto che minacciava di crollare sopra le case che stavano intorno. Su quel brolo hanno costruito un condominio e siamo rimasti in pochi a ricordarla. Il fusto del tiglio è slanciato e diritto, nei luoghi freddi ho osservato che si dirama in fusti secondari; la corteccia, nei soggetti giovani, è liscia, di colore grigio-bruno; con gli anni si fessura screpolandosi in senso verticale e assume un colore più scuro. Negli esemplari isolati l'impalcatura dei rami, che sono robusti e di colore più carico del tronco, non è molto discosta dal suolo; nel bosco, invece, come in quasi tutti gli alberi, si raccoglie verso l'alto. La chioma è folta, rotondeggiante, armonicamente disposta. Le foglie, che misurano quattro per sette centimetri, sono caduche, cuoriformi, con un apice appuntito, seghettate ma liscie alla base, con le nervature ben marcate, di colore verde denso, più chiare e coperte da leggera peluria nella pagina inferiore. Ma che colore giallo-dorato ci donano all'autunno! «Il cerchio d'oro del tiglio / è come un serto nuziale», dice Pasternàk in una sua poesia. I fiori sono ermafroditi, di un bel colore bianco-ambrato che la pioggia estiva rende luminoso; il loro peduncolo è fissato a una brattea oblunga; i sepali sono a corolla e i cinque petali contornano numerosi stami. Fioriscono verso la metà di luglio e nei giorni favorevoli per clima e umidità sono a uno a uno perlustrati e bottinati da miriadi di insetti. Ancora Pasternàk in "Un viale di tigli" scrive: «... Vengono i giorni della fioritura / e i tigli in una cinta di steccati / diffondono insieme con l'ombra / un irresistibile aroma. / La gente che passeggia sotto i tigli / col cappello d'estate vi respira / questo forte odore inesplicabile, / ma familiare all'intuito delle api...» 29

E tanto è profumato il miele di tiglio che non da tutti è gradito per il forte aroma. I frutti sono ovali, di circa un centimetro, legnosi; i semi contengono un olio simile per aspetto e sapore a quello dell'oliva. Il legno è bianco avorio, brillante e quasi sericeo, omogeneo e tenero; non si scheggia e per questo si può tagliare in ogni senso: più di ogni altro si presta ad essere scolpito. E poi i tarli non lo intaccano. Di legno di tiglio sono gli zoccoli olandesi, cornici intagliate, ornamenti di mobili, altorilievi. Il carbone che si ottiene da quest'albero è un ottimo "carboncino" per disegnare e, un tempo, era componente della polvere da sparo. Tra i rami più grossi e nelle biforcazioni degli alberi adulti, alle volte una macchia di verde più compatta denota la presenza del "Viscum album", caro a noi ragazzi di un tempo quando con il "vischio di Cles" facevamo le panie per catturare gli uccelli. Si racconta che agli inizi del tempo la ninfa Filira, figlia di Oceano, si giacque con Crono padre di Zeus; colti sul fatto da Rea che assieme a Crono sovraintendeva al pianeta Saturno, Crono si tramutò in stallone e galoppò via. Da Filira nacque un esserino mezzo uomo e mezzo cavallo; ma poiché allattandolo le faceva ribrezzo chiese agli dei di diventare un'altra e così fu trasformata in "Philyra": tiglio. Il piccolo mostro, crescendo, divenne il saggio centauro Chirone, che si dimostrò pure grande medico, ma questo dono gli era venuto dalla madre "Tilia" piena di virtù medicamentose date a lei in cambio del latte. Per Plinio, invece, il tiglio è uno degli alberi felici perché dalla sua scorza messa a macero si ricavavano le lunghe fibre con cui si tessevano i nastri per legare le corone dedicate a Venere e le bende per fasciare le ferite dei guerrieri. Il tiglio era anche chiamato «albero di giustizia» perché attorno ad esso si riunivano i saggi a sentenziare. E se passate dalla Val di Fiemme non mancate di andare al Parco della Pieve di Cavalese: tra i secolari tigli, in anelli circolari, ci sono i sedili monolitici dove le autorità della valle prendevano posto durante le assemblee per amministrare la giustizia. Ancora oggi l'antica opera è conosciuta come «Banco de la Resòn». (Ma perché quest'anno i tigli del mio brolo non avevano profumo? Forse per l'inverno senza neve, la primavera fredda, l'estate troppo piovosa? O per qualche causa provocata dagli uomini?)

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Il tasso. ... Talee di tasso colte mentre la luna è in eclisse... (SHAKESPEARE). Sembra strano come a volte i contrapposti simboli convivano in un solo albero. Questo è il caso del tasso ("Taxus baccata" L.) che è contemporaneamente l'albero della morte e dell'eternità. Forse perché fra gli alberi è considerato tra i più longevi e le sue fronde contengono un veleno mortale? Ma chi, oggi, va a cercare e conoscere il tasso? I miti, le leggende e la venerazione che per millenni gli alberi hanno suscitato negli uomini si vanno sempre più affievolendo, perdono interesse e non sono più nemmeno curiosità. Eppure ancora qualcuno da un grosso ramo di tasso ha pensato di scolpire per me un bellissimo bastone da montagna: giustamente alto da poter posare le braccia per l'osservazione con il binocolo, giustamente leggero da non stancare nel cammino e sufficientemente forte da poter fare raspa nella discesa sui ghiaioni. Il pensionato che si diletta di scultura ha scelto il tasso per le sue qualità e bellezza: ha polito e levigato il ramo al fine di far risaltare il bel colore rossobruno e poi con grande pazienza ha intagliato i finti nodi; come faceva Andrea Brustolon per i nobili veneziani o anche per sé quando andava per le montagne del Cadore e nel riposo, all'ombra di un larice, si dilettava a intagliare bastoni che ora sono diventati ricercati oggetti d'antiquariato. Da noi non esistono boschi di tassi, e quest'albero si trova sporadico tra le altre specie che vegetano dalle Alpi al mare. Ama l'ombra più densa e i posti reconditi, quasi volesse nascondersi alla vita e lentissimamente cresce per vivere moltissimo. («Studia lentamente se vuoi studiare a lungo», raccomandava un abate della mia terra a uno studioso di Padova alla fine del Settecento). Secondo leggende e tradizioni anche scritte, i più antichi tassi sono quelli che vivono in Scozia, valutati a oltre duemila anni d'età; ma anche sul monte Catria, negli Appennini, dove sorge l'eremo di Fonte Avellana, vi è ancora un tasso millenario con una circonferenza di quasi cinque metri e un'altezza dì quindici. Una decina di tassi contorti a portare il tempo vive in località Tadderieddu, sul Gennargentu a 1500 metri d'altitudine, e sono i relitti di una 31

antica foresta. Sono arrivati sino a noi perché soggetti a un misterioso culto? Un amico lettore mi ha segnalato che in una costa scoscesa, alta sopra il mare di Liguria, dove la Dolomia del Trias erosa dalle acque assume forme fantastiche, andando un giorno alla ricerca di fossili, ha scoperto tra le cavità di una roccia un minuscolo bosco di tassi: sono una trentina che vivono con qualche goccia d'acqua su pochissima terra e non raggiungono l'altezza di quaranta centimetri. Quando si arrampica tra quelle rocce per le sue ricerche, non manca mai di andare a visitare questo miracolo della natura e un giorno portò con sé il moncone di uno di questi alberelli spezzato da una pietra caduta dall'alto. Giunto a casa ha voluto sezionare il tronco, lucidarlo e, con l'aiuto di una lente, contargli gli anelli: dimostrava di avere centocinquanta anni! Nell'era Terziaria, quando l'uomo non era ancora apparso sulla Terra e stavano formandosi le grandi catene montagnose, il tasso era albero molto diffuso e si sono trovati i suoi resti fossili. Attualmente in Europa occupa un'area che va dalla Scandinavia al Mediterraneo e lo ritroviamo in Algeria a occidente e nel Caucaso a oriente. Il genere "Taxus" è monotipico e le razze geografiche che vivono in America settentrionale e in Asia sono tutte simili alle nostre. Non è albero di grande altezza, raramente supera i quindici metri; certe volte si presenta come arbusto. Il tronco si ramifica a poca uscita dal suolo; la chioma è di un intenso e immutabile colore verde cupo, espansa e a corona leggermente ovale. Il tronco, sempre tozzo rispetto all'altezza, ha la corteccia di colore rossastro come pure i rami più grossi; con il passare degli anni il ritidoma si arriccia e si stacca a placche o a striscie. I rami principali sono grossi e alterni, i rami secondari piuttosto corti e a volte penduli; i ramuli sono verdi, le gemme piccole e squamose. Le foglie assomigliano un po' a quelle dell'abete bianco: sono lineari, appiattite, un poco falcate, acuminate ma non pungenti perché tenere; sono lunghe dai quindici ai trenta millimetri e inserite a spirale tutt'intorno sui rametti; verde cupo sulla pagina superiore, più chiare e tendenti al giallo nell'inferiore. I fiori maschili e femminili sono portati da individui diversi (pianta dioica) e fioriscono sul finire dell'inverno; i fiori maschili sono numerosi in amenti gialli inseriti sotto i rami, i femminili si distinguono dalle gemme foliari per il colore che tende più al giallo che al verde. Il frutto è un arillo composto da una parte carnosa fatta a coppa che in autunno diventa di un bel rosso laccato contenente un seme ovoide di colore bluastro che matura nell'anno. 32

La parte carnosa del frutto è dolce e si può mangiare, contrariamente a certe convinzioni che risalgono ai Greci; anche gli uccelli ne sono ghiotti e così, siccome il seme è protetto da un tegumento, disseminano la pianta lungo le loro vie migratorie. Il legno del tasso è di grande pregio: e per il colore giallognolo dell'alburno e porporino del durame, e per la sua grana che è la più fine tra i legni d'opera e ben si presta per i lavori al tornio, di ebanisteria e di intaglio; inoltre è molto elastico e fino alla scoperta delle armi da fuoco era molto ricercato per costruire archi. Oggi il valore del tasso è prevalentemente decorativo nei parchi e nei giardini; ma sarebbe bello vederlo nelle alberature stradali, specialmente là dove tira il vento, e questo anche perché resiste ai parassiti, alle intemperie e alla neve. Quest'albero bello dalla lunghissima vita era dedicato alle Furie e agli dei dell'Averno; lo troviamo ancora come pianta ornamentale dei cimiteri, e in certi luoghi delle Alpi è usanza onorare le tombe dei defunti con i ramoscelli di tasso dai rossi arilli. Forse per questo è chiamato "Albero della morte", ma anche perché il veleno contenuto nelle sue foglie è ritenuto mortale. Scriveva il Mattioli nel Cinquecento «... Sono alcuni che dicono da qui chiamato il veleno tassico, che hora diciamo tossico co'l quale s'avvelenano le saette...» Per la sua qualità venefica lo troviamo citato fino dall'antichità. Teofrasto nella "Storia delle piante" dice che le sue fronde ingerite fanno morire il bestiame che non rumina. Plinio scrive che i tassi dell'Arcadia hanno in loro così potente veleno che per morire è sufficiente dormire o mangiare alla loro ombra, che il fumo delle sue fronde ammazza i topi, ma anche che piantando un chiodo di rame nel suo legno si annulla ogni effetto mortale. Cesare, nel Libro sesto della "Guerra gallica" ci racconta che Catuvolco re degli Eburoni, sfinito dagli anni e dalla guerra, si tolse la vita con il veleno di tasso. Shakespeare nel "Macbeth" (atto terzo, scena prima) nel diabolico intruglio che stanno preparando le streghe fa mettere «... talee di tasso / colte mentre la luna è in eclisse...»; come succo tratto dal tasso è quello che nell'"Amleto" Claudio versa nell'orecchio del re per farlo morire. Ma è anche curioso notare come il nostro Mattioli nei suoi "Discorsi" asserisca che gli uccelli che si cibano dei frutti del tasso diventano neri; (A questo punto mi permetto di aggiungere una mia piccola osservazione: i merli nati nell'anno, in autunno tendono ancora al marrone ed è sul principio dell'inverno che diventano tutti neri, completando la muta, e i merli, come 33

tutti i turdidi, sono molto ghiotti di arilli di tasso). I pastori delle valli delle Alpi occidentali dicono anche che il morso delle vipere viene neutralizzato applicandoci sopra foglie di tasso ben pestate.

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Il frassino. ...Il cervo lo morde in alto / ai lati marcisce / lo addenta Nìdhhörggr in basso (Snorri Sturluson) Vicino alle vecchie case, a Levante, c'era sempre un frassino. Qualcuno è sopravvissuto anche alla Grande Guerra e ora allarga i suoi rami sui tetti e sui prati intorno. I tordi e le cesene che si cibano dei suoi frutti hanno distribuito i semi nei boschi dove vanno a posare di notte e tra gli abeti e i faggi, i giovani frassini stanno ridando al bosco quell'aspetto che certamente avrà avuto un tempo lontano. Anche nell'orto della vecchia casa mio nonno, quando ritornò per ricostruirla, volle piantare un frassino al posto di quello ucciso dalle granate. Ma non era grande e i due pioppi che stavano agli angoli dell'orto ben presto lo sovrastarono. Io aspettavo che crescesse e ogni anno gli misuravo il tronco perché volevo fare tavole da sci. Quando tornai dalla mia guerra non trovai più quel frassino e ora dove mia madre andava a raccogliere le dalie ci sono le automobili in parcheggio. Sarà per tutto questo che a nord dell'orto ho voluto piantare anch'io un giovane frassino che ho levato dal bosco? E' alto e diritto, flessibile al vento e alla neve, e solo adesso incomincia ad allungare i rami che dalle piccole gemme nere gli erano spuntati. Non lo vedrò allargare i suoi rami verso il tetto, e ora che gli sci si fabbricano con le resine sintetiche e fibre di carbonio, i miei nipoti non avranno bisogno di immaginare tavole dal suo tronco. Crescerà. Crescerà da diventare come i vecchi frassini secolari accostati alle antiche e piccole case? Mi chiedo questo perché sempre più ardua è diventata la vita degli alberi, ora che gli uomini si manifestano insensibili verso il mondo vegetale. Ma quest'usanza di avere un frassino accanto alla casa viene forse dai tempi remotissimi quando si credeva che da quest'albero discendessero gli umani. Il genere "Fraxinus" appartiene alla famiglia delle "Oleacee"; di questo genere si conoscono una settantina di specie che si trovano esclusivamente nell'emisfero settentrionale. 35

Vegetano dal Mediterraneo alla Norvegia e, sulle nostre montagne, li incontriamo sino a millecinquecento metri d'altitudine. Possono raggiungere i trenta- quaranta metri d'altezza e un diametro di tre, quattro metri. Ma se ne conoscono di più maestosi, con secoli di vita, specialmente nei Paesi a nord delle Alpi. Il tronco è slanciato, non molto ramificato; negli alberi cresciuti isolati la corona è ampia e densa. Da giovane la sua corteccia è liscia, di colore olivastro, con gli anni diventa grigia, rugosa e fessurata. (Come con l'età gli umani assomigliano agli alberi!) Le foglie sono decidue, composte da nove o più foglioline sessili, lanceolate, ai bordi leggermente seghettate, di colore verde scuro e glabre nella parte superiore, più pallide nella pagina inferiore. Le gemme sono vellutate e scure, quasi nere come carboncini. I fiori si sviluppano prima delle foglie, tendono al colore violetto e sono riuniti in racemi. I frutti che contengono i semi già pronti a germinare, sono formati da samare allungate di due, quattro centimetri; munite di un'ala apicale nell'inverno o in primavera vengono disseminate dal vento o dagli uccelli. Il legno del frassino è bianco-rosato con riflessi madreperlacei; viene usato per manici di attrezzi da lavoro o da sport, per costruire mobili, carri, recipienti. Dai tronchi grossi e diritti si ricava un bel tavolame e dai pedali marezzati un pregiato «ebano grigio». Le foglie dei frassini sono anche un buon foraggio sia verde che secco; messe in infuso nell'acqua bollente curano i reumatismi e sono diuretiche; la corteccia veniva usata per conciare le pelli, ma anche per abbassare la febbre perché, come quella del salice, contiene salicilina. Della specie "Fraxinus ornus", l'orniello, si ha una buona produzione di manna: un essudato giallastro che stilla dalle ferite del tronco e che a contatto dell'aria diventa bianco e si rapprende. Ha un gusto morbido e dolce, si scioglie bene nell'acqua ed è un buon rinfrescante e blando purgante. Un tempo se ne faceva un grande uso, tanto che a Venezia se ne consumavano migliaia di libbre provenienti dall'Italia del Sud con una spesa di ventimila ducati annui. Il Senato pensò allora di poter ricavare la manna dai boschi entro i confini della Repubblica e su consiglio di un frate, Francesco da Cosenza, nel 1769 decretò «intangibili» persino ai privati proprietari tutti i frassini-orni della Dalmazia e di appaltare la raccolta, stabilendo i prezzi. Ma la cosa non ebbe buon esito e nel 1790, con altro decreto ritornò ognuno in piena libertà di estrarre la manna dai boschi anche pubblici e di venderla al miglior offerente (Adolfo di Bérenger, "Archeologia forestale"). I migliori frassini da manna si trovano in provincia di Palermo perché vi sono 36

lì le particolari condizioni di clima, di precipitazioni e di fertilità del suolo; si ha, inoltre, un periodo vegetativo lungo, luminoso e relativamente asciutto. Durante l'estate e ogni giorno, con una particolare tecnica in modo da non offendere eccessivamente l'albero, vengono praticate sul tronco delle incisioni orizzontali da dove poi la linfa discende e rapidamente si rapprende in manna, così da essere raccolta. Ma se quel giorno dovesse piovere il prodotto viene disciolto! Anche il frassino era per i Greci «albero felice»; lo avevano consacrato a Nemesi e alle ninfe Melìe, nate dal sangue di Urano. Ma nei loro miti più remoti facevano discendere dal frassino, da cui caddero come frutta matura, gli uomini della terza stirpe, quella degli antichi invasori elleni allevatori di bestiame, che portavano armi di bronzo, insolenti e spietati che al frassino dedicavano il loro culto. Esiodo, in "Opere e giorni", ci ha lasciato scritto: «... Zeus padre una terza stirpe di gente mortale / fece, di bronzo, in nulla simile a quella d'argento, / nata da frassini, potente e terribile: loro di Ares / avevano care le opere dolorose e la violenza, né pane / mangiavano, ma d'adamante avevano l'intrepido cuore,...» Ma è in un luogo molto lontano, lassù nel Nord dell'Europa dove gli dei tengono consiglio ogni giorno, che esiste un frassino particolare e unico: "Yggdrasill", l'albero del destino. Si innalza nel cielo a sorreggere l'universo e i suoi rami si espandono su tutta la terra. E' sostenuto da tre radici: una finisce nel mondo della morte, "Hel", l'altra nel mondo dei Giganti del ghiaccio, "Mìmir", la terza nella terra degli "Asi". Accanto al «primo degli alberi» si trova la fonte di "Urdhr", dove le Norme determinano il destino degli uomini e spruzzano d'acque e fango bianco il frassino "Yggdrasill" perché non dissecchi: «... di lì proviene la rugiada / che cade nella valle». La sibilla della Völuspà ricordava quest'albero prima ancora che fosse, prima che si alzasse dal suolo, e quando appare nella sua pienezza già incomincia la decadenza perché i cervi ne mangiano le foglie e un serpente le radici. Canta Snorri Sturluson nell'"Edda": «Il frassino Yggdrasill / patisce pene / più di quanto si sappia / il cervo lo morde in alto / ai lati marcisce / lo addenta Nìdhhöggr in basso». Questo frassino gigante, stipite e colonna dell'universo, con gli elementi del mito diventa simbolo dei tanti mortali pericoli incombenti e provenienti da incontrollato sviluppo tecnologico che rode le radici stesse della vita e ne intorbida le fonti. 37

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La betulla. ... o seno di fanciulla, verde capigliatura (S. ESENIN). Da ragazzo, nel mondo vegetale, non erano le betulle ad attirare la mia attenzione; i larici e i grandi abeti erano gli alberi che mi affascinavano e, tra gli arbusti, il salicone e il maggiociondolo quelli che ricercavo ai margini dei pascoli per ricavare forcelle per il tirasassi e aste per l'arco e le frecce dei nostri giochi. Delle betulle non capivo la bellezza; vicino a loro giocavamo in primavera quando scioglieva la neve, senza alzare gli occhi ai loro rami celestiali. E l'uso dei nostri antichi, che a maggio manifestavano il loro amore alle ragazze del villaggio con rami di betulla appena sbocciati posti davanti agli usci delle loro case, si è perduto a contatto con la civiltà mediterranea. "Beth", la betulla, nel "Calendario degli alberi", era la prima delle tredici specie e apriva l'anno dei tredici mesi della luna, e il suo simbolo aveva il tempo tra il 24 dicembre e il 21 gennaio: albero cosmico e luminoso che indicava la risalita del sole nell'arco del cielo. Con gli ontani forma la famiglia delle "Betulacee" e i botanici ne conoscono quaranta specie che vivono tutte nell'emisfero boreale. Da noi due sono le betulle più conosciute: la "Betula verrucosa", più nota come betulla bianca o pendula, e la "Betula pubescens", betulla pelosa, in Italia abbastanza rara ma che copre vastissime aree nel Settentrione d'Europa. Una varietà particolare della verrucosa è la "Aetnensis", endemica dell'Etna, che troviamo a 2700 metri di quota: estremo limite vegetativo di questa famiglia verso il Sud. Se da noi la betulla, rimasta al di qua delle Alpi dopo l'ultimo periodo glaciale, è albero solitario o a piccoli gruppi forma allegre macchie chiare nei boschi misti, oltre le montagne, su verso il Grande Nord, quest'albero forma estesissime foreste perché, più di ogni altro, sopporta i grandi geli e gli sbalzi termici. Sono alberi monoici, a foglie caduche; gli amenti maschili o gattici, appaiono tra l'estate e l'autunno; hanno forma cilindrica allungata ma si aprono la primavera successiva quando compaiono i fiori femminili che sono gracili e lievi. I semi maturano tra luglio e ottobre ed è con la neve che cince e lucherini vanno tra i rami delle betulle per beccare i piccoli semi per 39

nutrirsi. (Mai ne avevo visto così tanti sulle quattro betulle del mio brolo come lo scorso inverno). La betulla può raggiungere e superare i venti metri d'altezza, ma non è molto longeva rispetto agli altri alberi perché a cento anni è da considerarsi già vecchia. Il fusto è cilindrico ed elastico, ma quando la neve o il vento lo spezzano può anche ramificarsi; la corteccia è sottile, bianco argento, e il suo colore è dovuto a una sostanza, la "betulina", che impregna il ritidoma; qualche striscia orizzontale più scura può interrompere il bianco e, verso la base, nelle piante adulte, si ispessisce e si screpola assumendo un colore giallastro. I rami principali, tendenti verso l'alto, e i rami piccoli penduli, dànno alla betulla quell'immagine gentile, elegante e leggera. Dalle sue gemme viscose le api raccolgono un liquido gommoso per comporre la propoli: quella specie di resina da loro arricchita di enzimi e forse antibiotici che usano per rivestire all'interno le loro case (e che in soluzione alcolica io uso per disinfettare e fare cicatrizzare in fretta le piccole ferite). Le foglie sono di un colore denso e brillante nella pagina superiore, più tenue e un poco attaccaticce sul rovescio; hanno forma romboidale acuta, seghettate lungo i bordi più lunghi, e sono inoltre cibo ricercato da molti insetti che, in certi anni, riescono a denudare le ultime crescite dei rami. Le radici della betulla sono piuttosto superficiali, ramificate. Dalle mie parti, quando c'era carenza di funi, venivano usate come stroppo. Il legno è omogeneo, elastico e docile alla lavorazione, di colore bianco avorio e senza distinzione tra durame e alburno; ma prima della messa in opera deve essere ben stagionato perché soggetto a forte retrattilità. Ed è peccato che sia anche soggetto al tarlo! Sin dai tempi più remoti è usato e apprezzato per particolari lavori: cornici, ornamenti per carrozze e navi, mobili, bastoni da passeggio, oggetti vari da ricavarsi al tornio. Nei Paesi nordici la parte basale del tronco, il colletto, è molto ricercata per cavarne mobili di particolare bellezza. Serve anche nella preparazione di compensati resistenti e leggeri, ancora oggi usati nell'industria aeronautica, e per fabbricare sci da fondo per nevi secche. (Ancora conservo, accanto a quelli di materiale plastico forti e sottili, i miei vecchi sci di betulla come caro cimelio e magari un giorno di particolare malinconia ci infilerò i piedi per ritrovare la giovinezza). In Russia, dal legno di betulla, sono anche ricavati bicchieri, vasi, mestoli, tazze, cucchiai e quelle bellissime scatole laccate e mirabilmente dipinte dai famosi grandi artigiani di Palech. Dalla corteccia, ricca di tannino e di betulina, si ottiene da tempo immemorabile quella particolare concia per pelli che dà a 40

queste il celebre profumo cuoio di Russia; ma ancora, dalla corteccia immarcescibile, impermeabile e coibente, si ricavavano calzature, coperture per capanne e per pavimenti, borse per il tabacco, stuoie, piroghe. In tempo di carestia, è successo anche durante la Seconda Guerra mondiale, si macinava la scorza delle giovani betulle per ottenere una farina da pane. Albero generoso: dalle sue foglie opportunamente trattate con allume si ottiene un colorante verde, bollite con creta dànno una tintura gialla per la lana. E in primavera, praticando un piccolo foro al piede del tronco e introducendo in questo un cavicchio, si fa colare a goccia a goccia la linfa che ha grandi virtù terapeutiche. Le ragazze usano questa linfa per dare ai capelli un bel colore ambrato o biondo-rosso; fermentandola si ottiene una bevanda leggermente alcolica e spumeggiante. Le popolazioni del Nord euroasiatico amano quest'albero più di ogni altro. Lo divinizzano, anche; e per gli sciamani durante le loro manifestazioni divinatorie, è la scala per il cielo. La "beriòza" è simbolo e soggetto d'amore in tante canzoni popolari e per Sergej Esenin, il poeta arcangelo-contadino che passò attraverso il bene e il male dell'esistenza per lasciarci un dolce messaggio, la betulla è l'albero fanciullo, l'albero-amore: «... Solleva la tua brocca, o luna calma, / ad attingere latte di betulla...» «... O seno di fanciulla, / verde capigliatura, / perché guardi, o betulla, / la pozzanghera scura?» «... Il vento-giovinetto sino alle spalle / ha sollevato la veste della betulla».

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Il sorbo. Teneva lontani i fulmini, gli spiriti malefici e le streghe. In questi giorni, dopo la pioggia che ha pure rinfrescato i prati sfalciati, i rami dei sorbi dell'uccellatore s'incurvano sotto il peso dei frutti. Da qualche anno non li vedevo così abbondanti e belli, e se continua questo caldo, nel trascorrere di una settimana, li vedrò prendere colore: prima quelli sui rami esposti a mezzogiorno e poi via via gli altri. Sul finire d'agosto diventeranno di rosso lacca e poi quei grappoli vistosi sui rami che si vanno spogliando delle foglie saranno irresistibile richiamo agli uccelli che scenderanno affamati dai paesi del Nord. Come in quell'inverno del 1946-47 quando i bellissimi beccofrusoni sembravano fiori gentili e vivi tra i rami innevati. (C'erano ancora, tra le case del paese, gli orti con gli alberi di "Sorbus aucuparia"!) Dalle finestre dell'Ufficio del Catasto li vedevo inghiottire avidamente le bacche rosse e il loro comportamento distoglieva la mia attenzione dai registri polverosi. Se alzandomi dal tavolo e mi avvicinavo alla finestra e da dietro i vetri ricamati dal ghiaccio mi soffermavo a osservarli, la mia presenza non li distoglieva dal loro pasto. In breve tempo il sorbo su cui erano posati restava spoglio di bacche; quindi se ne stavano immobili, ingozzati, e dopo aver scorporato sulla neve che diventava rossa s'involavano su un altro sorbo per continuare il pasto: erano come una nuvola colorata di giallo, rosso, bianco e nero, e seguivo immagato i loro movimenti e il ciuffo pastello che rizzavano sul capo. Erano come li vedeva Borìs Pasternàk in Siberia nel 1919 «... Gli uccelli invernali dalle penne chiare come le aurore di gelo, fringuelli e cingallegre, venivano a posarsi sul sorbo, beccavano lentamente, scegliendole, le bacche più grosse e, sollevando i capini, allungando in collo, le inghiottivano faticosamente. Fra gli uccelli e l'albero si era stabilita una sorta di viva intimità. Come se il sorbo capisse e, dopo aver resistito a lungo, si arrendesse, cedendo impietosito, e sbottonandosi desse loro il seno, come una madre al neonato: "Che posso fare per voi! Ma sì, mangiatemi pure. Nutritevi". E sorrideva» ("Il dottor Zivago"). Chissà se ritorneranno anche quest'anno, che si preannuncia così ricco di bacche; ma se non i beccofrosoni arriveranno certamente a nutrirsi cesene, 42

peppole, tordi e ciuffolotti. Era questa una ragione per cui accanto alle contrade, se non accosto a ogni casa di montagna, c'erano sempre alberi di sorbo: attirati dai rossi frutti alle soglie dell'inverno arrivavano immancabilmente gli uccelli frugivori, ed era facile così catturarli, o con il fucile o con le trappole o con il vischio. E se questa usanza oggi ci può apparire come cosa barbara, occorre per capirla rifarsi a quei tempi quando pochi erano i denari, rara la carne e arretrata la fame: una teglia di uccelli con tanta polenta era festa per tutti. Ma noi, ragazzi di paese, con le bacche di sorbo, che seppure acidule e aspre molte volte mangiavamo, facevamo anche giochi. Dopo aver vuotato un ramo di sambuco usavamo questo come cerbottana per lanciarci a tutto fiato le bacche di cui prima, arrampicati sugli alberi, ci eravamo riempite le tasche dei calzoncini. Le ragazze, invece, le usavano come granate per farsi braccialetti e collane. Ed erano affascinanti con quei monili attorno ai polsi e al collo. Al genere "Sorbus", della grande famiglia delle "Rosacee", appartengono oltre cento specie, e tutte, anche queste, sono distribuite nell'emisfero boreale. In Europa partono dall'area mediterranea per arrivare fino alla gelida Islanda e sulle nostre montagne si spingono fino ai limiti della vegetazione arborea. Sono alberi di media grandezza, alti dai quindici ai venti metri e che possono raggiungere i cinquanta centimetri di diametro. Qualche volta assumono anche la forma arbustiva. Il domestico può arrivare anche a cinque secoli di vita, meno le altre specie. Si adatta ai climi più diversi e cresce spontaneo sia tra i boschi di latifoglie che di aghifoglie; nelle radure e sulle pendici dei monti. Ama i posti solatii, ma il "Sorbus aucuparia" cresce bene anche all'ombra. Il fusto è snello, cilindrico, la chioma piuttosto rada è slanciata là dove le piante sono accostate ad altre; più arrotondata, larga e densa nei soggetti isolati. La corteccia è grigio-cenere, lucente e liscia, con il tempo si scurisce e si screpola lungitudinalmente verso il pedale. I rami sono un poco più scuri del tronco, elastici nel sopportare il peso della neve e l'abbondanza dei frutti; i ramuli sono invece pelosi, le gemme scagliose e cigliate. Le radici sono estese, le barbe si allungano in distanza e il fittone nel profondo del suolo. Non tutte le foglie delle varie specie di sorbo sono uguali: quelle del "Ciavardello" ("Sorbus terminalis") e del "Farinaccio" ("Sorbus aria") si assomigliano perché picciolate e ovali, con lobi più seghettati nel "Ciavardello"; quelle del "Sorbo degli uccellatori" sono composte con foglioline imparipennate, pelose da giovani, lanceolate. Il legno del sorbo per la sua finissima grana, si presta molto bene a lavori di 43

tornitura, e lo apprezzano gli artigiani di montagna che nei lunghi inverni, con abilità e pazienza, ricavano oggetti per uso domestico di un bel colore naturale che tende al rosso. Ma pure per le sue qualità viene usato dagli incisori per xilografie (legno di testa, tagliato traversalmente le fibre); dai liutai per fabbricare strumenti musicali; ma anche, un tempo, per fare congegni per macchine. Il Mattioli, nei suoi "Discorsi" parlando dei sorbi scrive: «... Fa i fiori a zecche quasi come ombrelle, onde nascono i frutti, i quali da un solo nascimento tirano i picciuoli... le sorbe quando sono ancora rosse, e non sono mature, tagliate e seccate al sole, mangiandole restringono il corpo. Macinate al molino e mangiate a modo di polenta, fanno il medesimo effetto. Il che fa ancora la decottione loro bevuta. Sono assai più nelle medicine che nei cibi convenevoli. Le tavole del sorbo per essere ben dure, e ben salde, s'usano per fare tavoli da mangiare, e per altre cose durevoli». Nel celtico "Calendario degli alberi" al sorbo era dedicato il secondo mese che va dal 22 gennaio al 17 febbraio: il mese della luce; e Plinio lo poneva tra gli alberi felici per il colore dei suoi frutti. Ed è bello e luminoso albero, e bene sarebbe che nelle alberature delle strade ci fossero più sorbi a rallegrare gli occhi degli uomini e a saziare la fame degli uccelli. Gli antichi abitatori dell'Europa del Nord dicevano che l'albero di sorbo piantato accosto alle case e alle stalle teneva lontani i fulmini, gli spiriti malefici e le streghe; con un ramoscello forcuto di sorbo i rabdomanti cercavano i metalli nel sottosuolo. I contadini della Boemia distillando le bacche ben mature ottengono una grappa molto secca e profumata. Ma fu un giorno d'autunno che in Val Gardena rimasi incantato da un sorbo dell'uccellatore forse antico quanto la casa a cui era addossato: sul muro bianco dai balconi scuri i grappoli rosso-lacca creavano un meraviglioso gioco di luci che rallegrava la contrada.

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Il castagno. Sogno dei nostri soldati affamati di cibo e di casa. La montagna dove sono nato e vivo non è montagna da castagni; l'altitudine, il clima piuttosto continentale con alti sbalzi termici e il terreno fortemente calcareo non ne consentono la vegetazione. Ma ora che ci penso e mi viene l'occasione di parlarne, forse un paio di castagni avrei dovuto impiantarli nel mio brolo; forse, quest'anno, avrebbero potuto dare frutti per i nipoti. Se lungo il viale dell'Asilo della nostra infanzia c'erano grandi ippocastani che a fine ottobre facevano i loro marroni matti per i nostri giochi, anche le castagne sarebbero potute maturare. Ma perché i nostri avi non hanno mai provveduto a piantare castagni? Forse perché erano scesi dal lontano Nord e lassù altri erano gli alberi a cui erano legati? Ma ai piedi delle nostre montagne, sia verso la pianura veneta che verso il Tirolo, ci sono ancora antichi castagneti. E ora i proprietari per difendersi dai cittadini, che non sanno quello che dovrebbero, hanno messo dei cartelli con su scritto: PRENDERE LE CASTAGNE E' FURTO. Non ho trovato, o non conosco, miti legati alle castagne, anche se nell'antichità ne hanno scritto Teofrasto, Plinio, Ovidio e altri autori. Secondo la tradizione più remota quest'albero è originario dal Monte Timolo nei pressi di Sardi, città della Lidia, un tempo famosa per i suoi boschi, e da lì venne trapiantato in Ellade dove i suoi frutti erano chiamati "ghiande sardiane" o anche "ghiande di Giove", «Quasi a dirle dono di provvidenza» scrive Adolfo di Bérenger, nella sua "Archeologia forestale". I Greci e gli Italici, che da Saturno avevano appreso l'arte d'innestare gli alberi per avere frutti migliori e abbondanti, furono forse i primi a mangiare i «marroni». Plinio ci racconta che a Corellio di Ateste, ai piedi dei Colli Euganei, venne l'idea di innestare un castagno selvatico con una marza staccata dallo stesso albero, e in questo modo ebbe castagne abbondanti e grosse che in suo onore vennero chiamate «corelliane»; dopo di lui un suo liberto di nome Eterejo ritornò a incalmare lo stesso albero e le castagne migliorarono in sapore. E sempre il Bérenger scrive «... Così l'accidente e il capriccio stesso dei coltivatori avrebbero prodotto dappoi altri diversi modi d'innesto». 45

Nel Cinquecento il nostro Mattioli scriveva nei suoi "Discorsi a proposito" delle castagne: «... la polpa loro mangiata, è utile a chi avesse bevuto quel veleno che si dimanda ephemero. Ristagnano le castagne, e massime le secche, valentemente i flussi stomacali, e del corpo; e vagliono a gli sputi del sangue. Peste con mele (miele) e con sale, s'applicano utilmente in sul morso del can rabbioso. Risolvono la durezza delle mammelle, impiastratevi suso con aceto e farina d'orzo...» Dalle "Epistole" del Mattioli si apprende anche che a Costantinopoli si trovano delle castagne che si chiamano cavalline «... per giovar elle à i cavalli bolsi, e che tossiscono date loro à mangiare». (Ecco perché il nome dell'"ippocastano"). Un castagno è anche l'albero più famoso e forse più vecchio d'Italia: in Comune di Trecastagni, sulle pendici dell'Etna, vive forse da più di tremila anni il «Castagno dei Cento Cavalli». Sotto i suoi rami, durante un temporale trovarono rifugio Giovanna d'Aragona e i suoi cento cavalieri che l'accompagnavano a una gita sull'Etna. I tre castagni che dànno il nome al paese hanno rispettivamente la circonferenza di dodici, venti e ventidue metri e un'altezza di venti. La tradizione dice che un tempo, fino a qualche secolo fa, i tre castagni erano un unico albero di oltre cinquanta metri di circonferenza, e dentro di esso erano scavate una casetta e una rientranza dove trovavano rifugio un pastore con il suo gregge. E c'era persino un forno che era alimentato con la legna levata dal tronco per ingrandire il ricovero. Ma questa rimane solo una leggenda e i tre immensi e plurimillenari castagni derivano forse da tre polloni sviluppatisi da un tronco preesistente. (Come è effimero il nostro tempo nel confronto di questi patriarchi vegetali!) Il castagno appartiene alla famiglia delle "Cupolifere", chiamate così non per la forma della loro chioma, come potrebbe sembrare, ma per quella dell'involucro che racchiude il frutto. E' un albero di grande sviluppo che qualche volta può raggiungere i trentacinque metri d'altezza. La sua longevità, come abbiamo visto, è eccezionale; e il suo portamento maestoso. Le radici si espandono robuste anche se non profonde. Il fusto è diritto, ma certe volte a breve altezza del suolo si dirama in robuste branche. I rami sono grossi, i ramuli irregolari e vigorosi; le gemme sono lisce e tozze, di colore bruno. La corteccia è rossobruna e liscia nelle piante giovani per poi diventare grigiastra, rugosa e screpolata profondamente con andamento a spirale. La chioma ampia e rotondeggiante ben si distingue anche tra gli alberi di altre specie. Le foglie sono semplici, alterne, con breve picciolo e alla base due membrane che 46

presto cadono; lanceolate, lunghe dieci- venti centimetri e larghe da quattro a otto, dentate in corrispondenza delle singole nervature. Il loro colore è verde cupo, lucide e lisce nella pagina superiore, più pallide e quasi tendenti al giallo nella inferiore dove le nervature sono in rilievo. In giugno sullo stesso albero appaiono sia i fiori maschili che i femminili in amenti lunghi anche venti centimetri, i maschili, e alla base di questi le infiorescenze femminili destinate a formare la «cupola» o riccio. Dai fiori di castagno le api raccolgono abbondante polline e nettare, e questo miele prende quel sapore caratteristico e un po' amarognolo che non a tutti piace. E dentro il riccio, in autunno, gli acheni, le castagne, che tutti conosciamo, in numero variabile da uno a tre. Sono molte le varietà di quest'albero, forse centinaia, e a Firenze, presso la Stazione Sperimentale di Selvicoltura abbiamo il Centro Studi del Castagno che ha il compito di studiare incroci e la lotta contro i parassiti, animali e vegetali, che attaccano i castagneti. L'areale originale di questa pianta è, si può dire, quello dell'antica civiltà mediterranea, ma poi da qui il castagno è stato diffuso fin dove è possibile la sua vita. Ama il sole e i terreni acidi, le colline e i fianchi delle montagne fino ai mille metri; vegeta, grosso modo, da sopra la zona dell'ulivo fino a quella del faggio, e può formare boschi puri o misti con altre latifoglie. In Italia i boschi di castagno erano i più diffusi d'Europa e davano una provvigione annua di quasi un milione di metri cubi di legname che veniva utilizzato in vari modi: tavolame, travature, doghe per botti, pali per miniere e linee telefoniche e telegrafiche; dal legname di castagno veniva estratto anche il tannino. Vale ben poco, invece, come legna combustibile perché brucia male e produce poco calore. Ma i frutti di quest'albero benedetto erano «pane quotidiano» in molte valli delle montagne dal Caucaso alla Spagna; cibo rituale alla Sera dei Morti e nel giorno dedicato a San Martino, abbinandole al vino nuovo. E sogno dei nostri soldati affamati di cibo e di casa sui fronti lontani di guerra e nei campi di prigionia, come testimoniano molte lettere che scrivevano a casa.

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La quercia. Persino i soldati di Cesare, in Gallia, avevano timore di affrontarne il taglio. Il genere "Quercus" nella famiglia delle "Cupolifere" è il più numeroso: sono più o meno trecento le varie specie. In Europa le troviamo quasi ovunque: sulle montagne nelle zone calde, nella pianura in quelle più fredde. Le più note da noi sono la "Farnia" (che ha numerose razze ecologiche o climatiche), il "Rovere", il "Leccio", la "Roverella", il "Farnetto", la "Sughera", il "Cerro", la "Vallonea" maestosa e la cespugliosa "Quercia spinosa" sulla quale vive una cocciniglia che serviva per preparare una tintura scarlatta eccellente per sete e lane. Alcune di queste specie hanno le foglie caduche, altre semipersistenti, altre persistenti, variabili nella forma. Comuni a tutte le foglie sono le stipole membranose alla base delle stesse. Sono alberi monoici; i fiori femminili sono piccoli, isolati o anche riuniti in glomeruli; i maschili, pure piccoli, formano penduli amenti; fioriscono sul finire della primavera. In alcune specie i frutti, le ghiande, maturano in due anni, in altre in uno. Tutti sono alberi robusti, resistenti; alcuni raggiungono i quaranta-cinquanta metri di altezza e otto-dieci metri di circonferenza. La grande "Farnia" è la più estesa e occupa un areale che va dagli Urali all'Atlantico e dal Mediterraneo al Mare del Nord; è molto longeva e può arrivare a mille anni di vita. Il robusto tronco si biforca a formare una corona irregolare molto ampia, ma non ha una punta che prevale e la cima è formata da più branche raddrizzate. Da giovane la corteccia è liscia e grigia, diventa poi bruno-nerastra e si fessura in solchi lungitudinali e sinuosi. I rami sono molto sviluppati e per un buon tratto privi di foglie e irregolarmente piegati; i ramuli sono ravvicinati con le foglie riunite alle estremità. Le foglie caduche sono alterne e semplici, con breve picciolo, lunghe da quattro a quindici centimetri, larghe da due a otto, strette alla base, ovato-oblunghe con da cinque a sette lobi arrotondati; il loro colore è verde scuro brillante nella pagina superiore, più chiare e opache sotto. Da noi è presente nelle regioni settentrionali; sulle Alpi arriva fin verso i milleduecento metri d'altitudine e predilige i terreni freschi e profondi ma non dove sono ristagni d'acqua. Ama il sole e si trova anche in boschi misti di latifoglie, specialmente con la betulla. In un tempo lontano la farnia copriva con fitte selve tutte le nostre pianure fino a raggiungere le pendici degli Appennini e delle Alpi. 48

E della grande selva solo poche isole sono rimaste a ricordarla. Il suo legno è tra i più pregiati, ha l'alburno bianco-avorio e il durame più scuro, i raggi midollari sono evidenti; è duro, compatto, molto richiesto fin dall'antichità per le costruzioni navali, pavimenti, mobili, rivestimenti. Le botti d'invecchiamento per i vini più pregiati e per i distillati sono fatte con il legno di "farnia", e anche il famoso "rovere di Slavonia" proviene dalla farnie della Jugoslavia. Ma con le farnie si fanno anche le traversine ferroviarie e palafitte durevoli più di ogni altre. Bruciando, il suo legno dà una fiamma bella chiara; il carbone di farnia era richiesto per la fusione dell'oro. Le ghiande erano privilegiate tra tutte quelle della famiglia delle querce perché poco tanniche e dolci al palato; fino a non molti anni fa erano cibo d'emergenza nelle carestie. Il "Rovere" ha portamento più regolare della farnia e lo ritroviamo dal Danubio ai Pirenei e fin su in Inghilterra. Più che le pianure umide, ama i fianchi delle montagne solatie e si alza fin oltre i millecinquecento metri d'altitudine. A differenza della farnia le sue foglie hanno uno o due paia di lobi in più; a volte si consorzia con il faggio e il carpino. Il suo legno è più pesante ma pregiato al pari di quello della farnia. Il "Leccio" è bello, forte e gentile; il suo verde cupo persistente è un elemento di grande ornamento paesaggistico lungo le rive del Mediterraneo e nell'Italia insubrica. Non arriva a grandi altezze perché raramente supera i venti metri e il suo tronco non raggiunge le circonferenza delle farnie e del rovere; a volte assume anche forma cespugliosa. Le foglie si rinnovano ogni tre, quattro anni, sono dure e spesse, oblunghe, dentate. Il legno del leccio è difficile a lavorarsi perché duro e compatto, elastico; ma bene si presta per i lavori del carradore o parti di macchine soggette a forti sollecitazioni, come i torchi o i meccanismi dei mulini. Se molti grandi pittori hanno dipinto querce, se musicisti hanno cercato di capire la voce delle fronde, la più bella descrizione di una quercia è quella che fa Lev Tolstòj in "Guerra e pace", e che il principe Andréj incontra sulla strada per Rjazàn' una mattina di primavera del 1809: «... Sul margine della strada c'era una quercia. Probabilmente dieci volte più vecchia delle betulle che formavano il bosco, era dieci volte più grossa e due volte più alta di ogni betulla. Era un'immensa quercia che aveva due braccia di circonferenza, con i rami spezzati certo da molto tempo e la corteccia screpolata, coperta da antiche ferite. Con le sue enormi braccia e le sue dita tozze, divaricate senza simmetria, essa si ergeva come un vecchio mostro, irato e sprezzante, in mezzo alle sorridenti betulle. Soltanto i piccoli abeti morti, e sempre verdi, 49

che erano sparsi per il bosco, si univano alla quercia e non volevano sottomettersi al fascino della primavera e non volevano vedere né la primavera né il sole». Questa visione suscita in Andrej amare considerazioni sulla primavera, sulla vita, sull'amore: «... E tutta una nuova catena di pensieri sconfortanti, ma maliconicamente dolci, sorse nell'anima del principe Andrej a proposito della quercia...» Delle querce e delle loro virtù così scriveva il Mattioli: «... Ogni quercia ha virtù costrettiva, e massime quella corteccia sottile che è tra la grossa corteccia, e i legno: e così medesimamente quella pellicina sotto al guscio delle ghiande. Dassi la decottione loro nei flussi disenterici, e stomachali e allo sputo del sangue. Mettonsi trite ne i pessoli de i luoghi secreti delle donne per ristagnare i lor flussi. Vagliono mangiate à i morsi de gli animali velenosi. Tenute le foglie fresche della Quercia sopra la lingua, curano gli ardori dello stomaco. L'acqua piovana, che resta nelle concavità delle quercie vecchie, sana lavandosene, la rogna ulcerata...» Per le loro qualità e per la loro maestà le querce erano venerate dagli uomini sin dai primordi della civiltà: erano «l'Albero», e le loro foreste più belle consacrate alle divinità e per questo intangibili. Dalle querce, secondo i poeti, erano nati anche certi uomini: Evandro, fondatore della rocca romana, racconta a Enea (Virgilio, "Eneide", 8, 314-18) che i primi abitatori del Lazio erano "gensque virum truncis et duro robore nata". Anche le Ninfe e le Driadi, racconta Callimaco, sono nate dalle querce e insieme agli uomini esultano quando la pioggia le ristora. Questa pioggia era impetrata dai sacerdoti etruschi agitando verso il cielo fronde di quercia. La farnia è detta anche "Albero di Giove" e a lui consacrata. Era già simulacro di Saturno e la mitologia spiega che al tempo in cui gli uomini si cibavano con la carne dei loro simili, Giove, per far cessare questa crudeltà, indicò a loro la quercia invitandoli a cibarsi di ghiande. Da quel giorno fu dedicata a lui e per le sue ghiande dichiarata "albero felice". Tanto erano sacre le foreste di querce che Tacito racconta che persino i soldati di Cesare, in Gallia, avevano timore ad affrontarne il taglio: credevano che se avessero usato le scuri contro quei sacri tronchi, ne sarebbero uscite lacrime e sangue e i colpi si sarebbero poi riversati contro di loro sui campi di battaglia. Le querce furono anche le prime chiese perché sotto di esse si radunava il popolo per porgere preghiere alle divinità, ma anche a fare diete e assemblee, ad apprendere la sapienza dagli anziani. Queste usanze nei paesi del Nord durarono fin verso la fine del 50

Medioevo. Dalle mie parti, al principio di questo secolo c'era un luogo denominato "Kan schön Oachen" (Alle belle querce) nella località dedicata alla profetessa Ganna. E dalle querce, con un falcetto d'oro, i sacerdoti Druidi recidevano il vischio, seme degli dei, per ornare i tori sacrificali. Quel vischio che ancora oggi si usa donare agli amici all'inizio dell'anno, e viene appeso sull'architrave della porta di casa come propiziatorio, e sotto questo gli innamorati si scambiano il bacio augurale.

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L'ulivo. Il letto che Odisseo stesso aveva costruito. Molti decenni fa, nella nostra vecchia casa ricostruita nel centro del paese, ogni sabato convergevano gli incaricati che per noi raccoglievano le uova per i paesi dell'Altipiano. Il giovedì successivo, a migliaia, venivano spedite a Bassano dove un grossista le distribuiva per le grandi città. Una sera di marzo, avevo quindici anni, mio nonno mi chiamò per dirmi che né mio padre né mio zio potevano scendere a Bassano e dovevo io accompagnare il trasporto. E lì giunto guardare i prezzi sulla tabella del mercato, concordare con il grossista, riscuotere il denaro e ritornare a casa. Fu in questo viaggio che incontrai per la prima volta gli alberi d'ulivo. Conoscevo i rami perché alla domenica delle Palme ero sul sagrato della chiesa con quelli che li brandivano verso l'alto, e in attesa che la porta si aprisse ai colpi dell'arciprete davamo colpi in testa alle ragazze tutte vestite di bianco. E mia madre i ramoscelli d'ulivo benedetto li bruciava nella stufa quando il temporale girava per le montagne e mio padre era in viaggio per le malghe. Quel giorno della mia andata a Bassano avevo incontrato gli ulivi dopo essere passato per i boschi ancora innevati: erano lì in quelle vallette a mezzogiorno ai piedi delle montagne dove li avevano impiantati i Benedettini dell'Abazia di Campese, figlia di quella più famosa di Cluny, e quei tronchi attorcigliati e screpolati, a volte traforati, reggevano i rami che portavano «le palme» d'ulivo. Guardandoli attraverso i vetri della corriera certamente mi commossi. A quindici anni si è innamorati di tutto; ma se di tante cose con il passare del tempo ci si può disamorare, l'ulivo è l'albero che ancora mi rinnova quella prima emozione ogni volta che lo ritrovo. E mi ricorda gli ulivi di Puglia dove piantammo le tende prima d'imbarcarci a Brindisi; e quelli dell'Albania nella primavera del 1941 dopo un inverno passato sulle montagne battute dalle tormente; e quelli delle isole dalmate che vivono tra le pietre frammisti ad alberi di fico, e quelli di Sirmione tra i ruderi della grande villa romana; della Liguria sulle montagne aride sopra il mare («Punte argentee di mare attraversavano il cielo, quasi una risposta al richiamo degli ulivi», scrive Francesco Biamonti in "Vento largo"); 52

e della Provenza dagli acuti odori d'erbe, e delle rive dell'Atlantico, in Portogallo. Ma l'"Oleo europaea sativa", che comprende tutte le varie forme coltivate in area mediterranea sino dall'antichità, deriva dall'"olivastro" o dall'"oleastro"? I pareri dei botanici sono discordi, ma ora sembra convinzione che gli olivastri rappresentino forme evolutive degli oleastri e che dagli olivastri siano poi derivati gli ulivi. L'oleastro è un arbusto molto ramoso, più o meno grande, che qualche volta diventa albero alto anche venti metri; ha rami spinosi, foglie ellittiche a volte arrotondate lunghe quattro centimetri; il frutto è rotondo, piccolo e povero di olio; le inflorescenze sono a racemo. L'olivastro, invece, appare come il più rustico tra gli ulivi veri e propri; può diventare un albero molto grande, ha forme diverse nelle foglie e i frutti hanno varie grandezze. Oleastri e olivastri e olivi sono sensibili alle cure dell'uomo: abbandonati a loro stessi assumono la forma di grandi cespugli arruffati perché dalle loro basi nascono malformazioni degenerative e succhioni emergono dal piede della ceppaia. Le radici degli ulivi si distendono sugli strati superficiali del suolo, dove l'areazione è più attiva e il terreno più fertile. Ma dove le rocce e le grosse pietre lo coprono, le radici si insinuano tra le fessure seguendone il corso alla ricerca dell'alimento. Ed è così che l'ulivo vive anche in terreni rocciosi e aridi dove altri alberi non riuscirebbero. Il fusto alla base ha una porzione posta un poco al di sotto della superficie del suolo, e questa è grossa, con imbugnature e gobbe; nelle piante secolari qualche volta questa parte del tronco fuoriesce per dilavamento. Il tronco dalla ceppaia si assottiglia e parte diritto nelle piante giovani, ma nelle piante vecchie e antiche si contorce in mille modi, si screpola, si apre, s'incava, si divide assumendo forme che lasciano stupiti, come il grande olivastro presso Luras, in Sardegna, che misura oltre otto metri di circonferenza e venti d'altezza. Poco lontano da questo gigante vegetano vigorosamente due oleastri selvaggi di cui uno, chiamato «il padre» ha undici metri di circonferenza! All'ombra di questi sostano le greggi e la loro età è stata calcolata in duemila anni: veri relitti di antichissimi boschi abitati dagli dei. I miti più remoti dicono che Eracle Dattilo figlio di Zeus, giunto nell'Elide dal monte Ida, volle istituire i giochi olimpici per onorare il padre. Sulla collina dedicata a Cronos innalzò sei altari per gli dei dell'Olimpo, ma la collina era brulla e per questo andò dagli Iperborei dove dai sacerdoti di Apollo si fece dare degli oleastri per piantarli accanto alla are di Olimpia. 53

Con i rami di questi oleastri venivano incoronati i vincitori dei giochi. Così ci racconta Pindaro. Ma come potevano dagli Iperborei crescere gli olivastri? Trovo più attendibili i miti che li fanno derivare dalla Libia, da dove Atena venne con un ramoscello dell'albero a lei sacro. D'ulivo era la clava di Ercole e quella del Ciclope omerico. E fuggendo l'ira di Poseidone il naufrago Odisseo trovò ricovero «... sotto un doppio cespuglio, / cresciuto insieme da un ceppo d'olivo e oleastro», dove «... così tra le foglie stette nascosto Odisseo: e Atena / gli versò il sonno sugli occhi, perché guarisse più presto / la spossante stanchezza, fasciando le palpebre». E il letto che Odisseo stesso costruì usando il grande ulivo attorno al quale aveva edificato la sua casa? «... C'era un tronco ricche fronde, d'olivo, dentro il cortile, / florido, rigoglioso; era grosso come colonna: / intorno a questo murai la stanza...» A Roma l'ulivo era dedicato a Minerva, e con le sue fronde venivano incoronati i vincitori nei trionfi. Le donne romane usavano l'olio d'oliva con l'aggiunta di essenze profumate per curare la loro bellezza, e per ogni parte del corpo avevano uno specifico miscuglio: alla rosa, al giglio alla maggiorana, alla lavanda. Tra tutti gli alberi l'ulivo è quello a cui più numerosi sono legati miti e leggende. E come altro poteva essere: dai suoi frutti si ricava l'olio che dà salute e bellezza agli uomini. E lume ai poeti, e materiale ai pittori. E il suo legno polito e duro si usa per gli intarsi, per i lavori al tornio, per pavimenti preziosi? E bruciando in luminosa fiamma dà calore e luce alle grigie sere d'inverno.

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Il salice. ... Ai salici in mezzo ad essa appendemmo le nostre cetre. (Salmo 136) Nei giorni del prossimo febbraio i saliconi gonfieranno i gattici e sbocceranno i fiori dove le prime api coraggiose, dopo aver sorvolato i prati ancora coperti dalla neve, andranno a raccogliere il primo polline e il primo nettare dell'anno che serviranno a nutrire larve e adulte, e daranno forza all'arnia dopo il forzato riposo invernale. Pure le lepri, tra l'uno e l'altro gioco amoroso al chiaro di luna sulla neve indurita, andranno bramose a mangiare le gemme e le cortecce fresche e verdi dei salici. La famiglia delle "Salicacee", nel genere "Salix", è molto ricca di specie; i botanici ne hanno calcolato circa trecento che vegetano su vaste aree dalle regioni più fredde alle temperate. E abbiamo alberi alti fino a venti e più metri come il "Salix alba", detto anche salice delle pertiche e salice bianco, e altri così nani e striscianti da confondersi con le erbe dei pascoli o i licheni delle rocce d'alta montagna, come il "Salix erbacea" della serie "glaciales", che Linneo riteneva il più piccolo albero della terra e che sulle nostre Alpi si ritrova anche oltre i tremila metri di quota e vive ben oltre il Circolo polare artico. Numerosi sono anche gli ibridi perché i salici si incrociano tra loro con una certa facilità. Come diversi e mutevoli sono i comportamenti. Il "Salix babylonica" (sì, quello della Bibbia, salmo 136: «Sui fiumi di Babilonia, / là sedemmo e piangemmo, / ricordandoci di Sion! / Ai salici, in mezzo ad essa, / appendemmo le nostre cetre...») ha rami lunghi e pendenti, per questo è conosciuto come salice piangente; ed è bello e malinconico vederlo specchiarsi nell'acqua di uno stagno o di un fiume. Il salice delle pertiche, tra i nostrani, è il più alto. Ha il tronco diritto e un'ampia corona; la corteccia è di colore grigio-rossastro e nelle piante adulte si screpola e cade in lunghe striscie longitudinali. I rami sono lunghi, ascendenti e divaricati, di colore argenteo; i ramuli giallastri e serici. Le foglie sono a forma di lancia acuminata e leggermente seghettate; di verde mutabile, da giovani hanno una pelosità argentea su entrambe le facce, poi, solo sulla pagina inferiore: da questo colore argenteo e serico gli viene il nome di salice bianco. Dalla varietà "vitellitta", che ha i ramoscelli gialli dorati flessibili e lunghi, abbiamo i migliori vinchi che da tempo immemorabile vengono usati così 55

come sono per fabbricare culle (come quella accanto al letto di mia madre, dove abbiamo dormito io e i miei fratelli fino ai due anni), mobili, cestini, panieri, setacci, colini, inoltre per legare i tralci delle viti e, persino come corda dai legnaioli. Questo tipo di salice vive in tutta l'Europa centro- meridionale, sulle montagne si spinge fin oltre i mille metri. Il carbone che si otteneva entrava nella composizione della polvere pirica (e forse lo si usa ancora per i fuochi d'artificio); il suo legno non è di grande pregio ma ottimamente si presta per la fabbricazione degli zoccoli. Il "salice fragile" assomiglia al salice delle pertiche ma, lo dice il suo nome, ha i rami molto più fragili e le gemme e le foglie sono un poco vischiose. Il suo areale di espansione dal Mediterraneo raggiunge la penisola scandinava e l'Asia occidentale; la sua funzione è quella di consolidare i terreni alveali e se ha poco valore tecnologico ne ha invece moltissimo di ambientale. Il "salice delle ceste" è invece un piccolo alberello che il più delle volte si presenta come un arbusto alto fino a sette-otto metri; vive sui terreni di ripa che periodicamente vengono inondati dalle piene. La sua corteccia è grigia e liscia e con l'età si sfalda mettendo in luce la nuova corteccia giallo-bruna. I ramuli sono nudi, flessibili e robusti. Dalle rive europee dell'Atlantico questo salice raggiunge il Pacifico all'altezza del Giappone (compreso) e tutti i popoli dentro quest'area da sempre lo usano per fare ceste da trasporto: per soma, per naviglio, per slitta, per carro, e graticci per sostegni e recinti. Ma anche il "Salix viminalis" è da ricordare, se non altro perché diede il nome al famoso colle di Roma: è un arbusto o alberello che fornisce vimini lunghi anche quattro metri, tenaci e non ramificati, che vengono impiegati con la scorza. Ho descritto sommariamente questi pochi, tra la ventina o più di specie italiane e forse gli oltre cinquanta ibridi. In comune hanno tutti gemme coperte da una sola squama a forma di cappuccio, le foglie semplici e alterne, lanceolate o ellittiche, brevemente picciolate, a margine leggermente dentellato, con la pagina inferiore quasi sempre più chiara. I fiori sono unisessuali su individui distinti (piante dioiche), in amenti penduli oppure orizzontali di grigio-giallo porporino, i fiori femminili tendono al verde e in molte specie sia gli uni sia gli altri compaiono prima delle foglie. Fioriscono da febbraio a giugno, ma i "glaciales" (sulla Grivola sono stati trovati a 3400 metri! ) anche in agosto. Il frutto matura pochi giorni dopo l'apparizione del fiore e il piccolissimo seme, munito di un soffice pappo, viene portato dal vento anche a grande distanza. Con le fronde del salice, 56

raccontano gli antichi poeti, si adornavano le cune dei bambini appena nati, e la mitologia ci dice che Giove e Era furono da Rea partoriti sotto un salice e tra questi rami nascosta la loro culla perché il padre Crono voleva divorarli affinché non lo spodestassero. Furono allattati dalla capra Amaltea che dal salice ricavava il suo nutrimento, ed è da allora che le capre sono golose di foglie e di ramuli di salice; Linneo, poi, classificò "Salix caprea" il salice di montagna, o salicone, quello, appunto, bottinato dalle mie api. Il Mattioli, nei "Discorsi", tra le altre cose riferite al salice, scrive che certi parti di quest'albero: «... tolte sole con acqua non lasciano ingravidare le donne. Ristagna il seme, bevuto, lo sputo del sangue. Il che fa parimente la sua corteccia. La cui cenere macerata in aceto, guarisce i porri, e i calli, che s impiastrano con essa. Il succo delle frondi, e della corteccia cotto con olio rosado in un guscio di melagrano, giova à i dolori delle orecchie. La decottione d'ambedue giova per via di fumento alle podagre, e mondifica la farfarella. Cogliesene il liquore, intaccandogli la corteccia nel tempo ch'ei produce il fiore: e ritrovasi poi congelato nelle intaccature: è utile per tutti gli impedimenti, che offuscano la vista». Ma è anche curioso sapere che: «... Bagnansi con utilità grande nella decottione del salice, messa in una tina, così calda quanto basta per far bagno, coloro che cominciano, à diventare gobbi. Imperò che fa risolvere questo bagno meravigliosamente i tumori». E conclude dopo molti altri consigli: «Et però si potrebbe quando pur fusse tale, usare anchora in molte altre cose». In vecchi libri leggo che dal salicone, in Russia e in Germania, si ricavava una sostanza per conciare le pelli e colorare le stoffe, e ancora che il legno di salice «quando è fradicio e lo si guarda nell'oscurità, per un movimento molecolare intimo diventa fosforescente ed è causa talvolta di spavento ne' fanciulli che non conoscono simile proprietà». Se il salice bianco, simbolo di sterile castità, era dedicato a Iside, il salice piangente era dedicato a Giunone, e come albero lunare era pure votato a Ecate. Per salvaguardare e governare i vincheti (famosi quelli di Minturno) ai tempi dei romani vennero istituiti i "salictarii", guardiani dei salici; la legge "Aquilia", emanata verso l'anno 467 di Roma, prevedeva pene e il risarcimento dei danni per chi avesse tagliato un "salicale" immaturo o, se tagliato maturo, guastate le ceppaie. Anche lo Statuto di Sarzano, emanato a Parma nel 1529, proibiva il taglio dei salici lungo i fiumi e i torrenti per la virtù che quest'albero ha di legare il terreno. 57

Dal salice ha pure origine un farmaco tra i più usati e utili ancora oggi: si ricavava pestando nel mortaio la corteccia e serve per le febbri d'ogni genere e come analgesico: è la silicilina con i suoi derivati che ora si ottengono in sintesi. Umile e generoso albero quanto ti debbono gli uomini! Questi uomini che ti passano accanto dentro le loro veloci automobili o in treno. E nemmeno ti notano.

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Il noce. Ti ricordi quelle sere sotto l'albero di noce mi dicevi a bassa voce... Canto popolare. Il mio noce è sempre l'ultimo a buttare le foglie: il colore verde- bruno appare subito dopo il verde-lacca del maggiociondolo. Nella prima quindicina di maggio annuso nell'aria del mattino e del crepuscolo della sera anche il suo odore amarognolo; ma pure d'autunno mi piace strapazzare tra le mani le sue foglie per sentire a lungo sulla pelle quel particolare profumo. Credo che questo noce sia quello che attualmente vive alla quota più alta di tutto il circondario e quando un signore di campagna volle donarmelo per trapiantarlo quassù ero molto scettico: «Siamo troppo alti, - gli dicevo, - non ho mai visto alberi di noce oltre i margini meridionali del nostro altipiano». «Ma prova, - insisteva lui, - quest'angolo è ben protetto dai venti del Nord, è esposto a Mezzogiorno e vedrai che il noce vivrà». Allora scavai una buca ben larga e alquanto profonda, attorno al fittone posai terra nera di bosco e letame ben stagionato. «Vedremo, - dissi. - Le nogare vivono laggiù sulle colline e sui monti tra Schio e Bassano, ma tra loro e noi ci sono i boschi di faggio e poi di conifere. Vedremo». Prima di giugno l'alberello aprì le sue gemme a poche e incerte foglie; all'autunno fu l'ultimo a farle cadere e la neve lo coprì. La primavera successiva betulle, aceri, tigli faggi, ciliegi e pruni si vestirono di nuovo verde ma lui, il noce, restava lì come un palo secco senza dar segni di vita e quasi mi veniva di tagliarlo al piede. «Lascialo ancora là, mi disse l'amico quando venne a trovarmi, - forse è ancora vivo». E così una mattina quando aprii la finestra della camera, sentii il suo odore perché le gemme si erano aperte. Da allora sono passati più di vent'anni; questo noce è alto una decina di metri e, persino, produce qualche frutto. Non tanti, ma forse verrà la stagione buona e allora potrò raccoglierne un mezzo cesto. Noci rare, se gli scoiattoli non me le ruberanno prima, raccolte a millecento metri d'altitudine e dove gli sbalzi termici possono arrivare a cinquanta e più gradi centigradi. Il noce, "Juglans regia" L., appartiene alla famiglia delle "Juglandacee" e in Europa è l'unico rappresentante indigeno di questa famiglia; di specie se ne 59

conoscono una quarantina e tutte nell'emisfero boreale. Da noi giunse in tempi molto remoti dalle regioni dell'Asia e il suo areale primario va dalla Cina, all'India, alla Turchia ai Balcani. Recentemente però, dall'America settentrionale sono state introdotte delle specie esotiche, come il "noce nero", così chiamato per il colore del legno che da certuni è ritenuto (a mio giudizio a torto) più bello del nostro. Il suo nome deriva dal latino "nux" che indicava, oltre al noce, anche altri alberi che producevano frutti con la scorza dura. Ama la luce e predilige i terreni profondi, freschi e fertili. E' specie tipica del "Castanetum" ma non sale mai tanto in alto perché il freddo non gli confà e per ben fruttificare necessita anche di piogge regolari. Albero socievole ma non da bosco perché l'ombra densa lo farebbe deperire; per questo lo troviamo accosto alla case, nelle alberature campestri, nelle vallicelle, nei campi o nei pascoli. Sui fianchi dei monti che guardano la pianura degradando in colline gli alberi di noce sono numerosi e belli; hanno dato nome anche a contrade e famiglie: Nogara, Dalle Nogare, Nogarole, Nus, Nocera, Noceto, Nogaredo. Solo che gli alberi più antichi e maestosi sono stati tagliati e venduti ad alto prezzo ai fabbricanti di mobili falso-antichi e anche da noi, come in altri paesi d'Europa, si dovrebbe incrementare la diffusione fin dove è possibile: è di grande resa economica più per il legno che per i frutti. Il noce è albero di media grandezza, eccezionalmente può raggiungere i trenta metri, è longevo ma non supera mai i tre secoli di vita; il tronco è robusto e diritto, i rami, o meglio le branche principali, si suddividono a non grande altezza e formano una chioma ampia, dapprima ogivale e poi arrotondata. Negli alberi giovani la corteccia è liscia e grigio-chiara, poi con l'età si screpola e si fessura verticalmente; sulle branche e sui rami è dapprima bruna, poi anche qui con il tempo si schiarisce. I rametti sono corti e piuttosto grossi, le gemme rivestite di scaglie coperte da peluria. Le foglie sono composte, ossia sull'asse principale si innestano a paio da quattro a otto foglioline e una solo terminale così che in totale le foglioline sono sempre dispari; sono leggermente vellutate, di verde scuro e denso la pagina superiore, più chiare nella parte inferiore; il loro odore penetrante deriva dal tannino di cui sono molto ricche. I fiori sono monoici, in amenti: i maschili sessili e penduli di colore verdebruno, lunghi una decina di centimetri e si sviluppano sui rami dell'anno precedente; i femminili si trovano invece riuniti in piccoli gruppi terminali sui getti novelli. E il frutto chi non lo conosce? E' secco e non si apre a maturazione, la parte esterna è un epicarpio carnoso, ricco di tannino, comunemente detto 60

mallo, ed è usato in liquoreria per fare il nocino; l'endocarpo è molto duro, osseo, e sta a contatto con il seme: nel nostro caso un gheriglio diviso in quattro globi irregolari; matura verso ottobre. Una canzone popolare che cantavamo in guerra diceva: «Ti ricordi quelle sere / sotto l'albero di noce / mi dicevi a bassa voce...» Così come il frutto, è conosciuto il legno che sin dai tempi più lontani è apprezzato per le sue qualità è duro, pesante, compatto; si può facilmente dividere in fogli per intarsi e impiallacciature, è buono al tornio, allo scalpello alla pialla, per mobili di pregio, per calci di fucile, per pavimenti di lusso. L'alburno è grigio mentre il durame ha un bel colore scuro sfumato in venature più o meno chiare; levigato e lucidato mette in risalto quella sua insita bellezza che lo fa principe dei legni più fini. E il maestro Nicola, che all'Avviamento al lavoro ci insegnava a lavorare il legno e a capirne le qualità, ci diceva che la nogara era legno non da ricchi ma da signori. Dal pedale e dalla capitozza si ricavano le radiche variegate da sinuosità eleganti con toni e riflessi di colore che si staccano dal fondo. Secondo Vitruvio il "noce eubeo" ha però il difetto di imbarcarsi e intorcinarsi, e anche dopo molte stagionature di screpolare con tanto scroscio da spaventare gli abitanti della casa dove è stato impiegato. Anche al noce, come a tutti gli alberi, sono legate leggende e favole. Si raccontava, ma ancora si dice, che riposare alla sua ombra porta male e chi si addormenta si ritrova col mal di testa. Gli altri alberi non possono vivere vicino a lui perché ha veleno nelle radici; Plinio lo dice «nemico della quercia». Sin dall'antichità quest'albero era dedicato alle divinità infernali e nell'Alto Medioevo sotto i noci si radunavano le streghe: famoso quello di Benevento la cui storia ci è stata raccontata da Piperno nel suo "De Nuce Maga Beneventana". Ma allora perché gli innamorati andavano sotto il noce? Risalendo nel tempo si scopre che le noci erano di buon auspicio nelle nozze, un simbolo religioso oltreché essere ritenute afrodisiache, e venivano lanciate agli sposi come oggi si usa fare con il riso. Foglie, mallo, gherigli e persino i gusci triturati e pestati venivano usati per curare molte malattie: l'infuso di foglie stimola l'appetito, depura il sangue, dà tono ai muscoli; il mallo alle virtù delle foglie aggiunge anche quella di cacciare i vermi dall'intestino e di curare la dissenteria. Con i gusci, dice ancora Plinio, si curavano i denti cariati. L'olio che si ricava dalle noci (ne contengono il 25 per cento del loro peso) viene usato per far lume, per curare malattie, per unguenti, per i mobili «che divengano 61

cotanto lucidi che l'uom vi si specchierebbe dentro». Ma anche, dicono i buongustai, quest'olio è «indispensabile» per cucinare il pesce persico. Nel 1614 il Castelvetro suggeriva questa ricetta a base di noci: ai gherigli pestati in un mortaio che deve essere di pietra e non di metallo, si aggiungono due o tre spicchi d'aglio, mollica di pane raffermo bagnata in brodo di carne, pepe franto, e ancora pestando si fa una pappina: «... tiepida in tavola si manda. S'usa poi dagli uomini più regolati di mangiar tal salsa con la carne fresca del porco, come antidoto contra la rea qualità di cotal carne, e con le oche, pur poco sano cibo. Usano ancora di coprirne i piatti di maccaroni e sopra le lasagne, che sono grossi mangiari di pasta».

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Il pioppo. Quando le bianche farfalle uscivano dalla crisalide. Quando nel 1919 i miei rientrarono al paese distrutto dalla guerra per ricostruire le case pensarono, chissà perché, di portare con loro dalla pianura emiliana dove erano andati profughi, due giovani pioppi. Li piantarono nell'orto sconvolto dalle cannonate (la cantina della nostra casa era diventata il comando di un reggimento d'artiglieria austriaca). Li ricordo come sono cresciuti con noi, ragazzi della via Monte Ortigara, e come in ogni stagione hanno seguito i nostri giochi. Specialmente nelle lunghe sere di giugno quando le bianche farfalle uscivano dalle crisalidi e noi le cacciavamo con i fazzoletti spiegati, abbattendole al suolo per poi raccoglierle e donarle alle ragazze. Non sapevamo che si trattava dello "Stilpnotia salicis", un dannoso lepidottero i cui bruchi in certi anni defogliano completamente gli alberi. Quando non c'erano queste farfalle o prima che comparissero, erano i maggiolini oggetto delle nostre catture: quando ne avevamo un bel mucchio li mettavamo in un barattolo e dopo averli innaffiati di petrolio davamo loro fuoco. I nostri maestri ci avevano spiegato che erano dannosi, non perché li portavamo a scuola, ma perché oltre a divorare le foglie delle piante le loro larve mangiavano le radici. D'inverno, invece, tra l'uno e l'altro tronco dei due pioppi con blocchi di neve pressata costruivamo il forte di Macallè dal cui interno lanciavamo le bombe di neve ai ragazzi di via Cavour. Probabilmente questi nostri alberi erano dei "pioppi neri" ("Populus nigra" L.) e toccò proprio a me abbatterli nel 1938, prima di andare volontario alla Scuola Militare Alpina: erano diventati troppo grandi e le loro radici avevano smosso il muretto che dava sulla strada, inoltre i loro rami avevano invaso la linea elettrica della pubblica illuminazione e le foglie intasavano le grondaie delle case vicine che poi in inverno, per effetto del gelo, scoppiavano. Per abbatterli dovetti arrampicarmi in alto e incominciare da lì, sramando a mano a mano che scendevo lungo il tronco. Lo feci dispiaciuto perché sotto di loro era trascorsa la nostra felice infanzia. I pioppi appartengono alla famiglia delle "Salicacee" e il loro genere, "Populus", comprende molte specie (alcuni botanici dicono venti, altri cento); 63

vegetano nell'emisfero boreale, dalle zone calde dell'Africa settentrionale fino a quasi il Circolo Polare. Sono piante dioiche, ossia un soggetto porta solo fiori maschili o fiori femminili, e sono caratteristiche per il poliformismo delle foglie che si può riscontrare sullo stesso individuo; le stesse sono caduche, alterne, semplici. Si distinguono dai salici per avere le foglie con le nervature come le dita divaricate di una mano anziché una sola nervatura primaria, e il loro peduncolo è più lungo. Gli amenti sono lunghi e pendenti e quando i semi sono maturi si staccano con lunghi filamenti setosi che vengono portati dal vento. Le gemme sono coperte da più squame. Tutti i pioppi per bene vegetare hanno bisogno di terreno fertile e areato, ben soleggiato, e sono piante colonizzatrici che lasciano poi il posto ad altre specie. Certe volte il loro comportamento è arbustivo ma raggiungono anche trenta metri in altezza e oltre un metro di diametro. Nel pioppo bianco la chioma è arrotondata, nel nero a piramide con grossi rami, nel cipressino alta e affusolata, nel tremolo globosa. Il bianco ha le foglie a triangolo, lobate e dentate, verdi nella pagina superiore, bianche e pelose nella inferiore; le gemme sono pelose ma non attaccaticce; la corteccia negli alberi adulti tende al biancastro ed è ricoperta da una farina cerosa. Il nero ha le foglie non lobate con il margine leggermente dentato, verdi da ambo le parti; le gemme sono nude e vischiose e da queste le api raccolgono abbondante propoli per le necessità dell'arnia; la corteccia è sul bruno tendente al nero alla base e si screpola anche negli alberi giovani. Il tremolo ha in genere le foglie più piccole degli altri pioppi, ovali, più o meno a forma di cuore, irregolarmente dentate, il picciolo più lungo; le gemme sono pelose ma non gommose; la corteccia tende al verdastro, negli alberi adulti si scurisce e si screpola. Natura e uomini hanno creato molti incroci, e siccome sono alberi a rapido crescimento sono coltivati per avere legno per compensati, pannelli, imballaggi, paniforti, fiammiferi ma specialmente pasta da carta e cellulosa. Ricercati sono i pedali marezzati per fare tranciati da impiallacciature. Il pioppo bianco a lungo stagionato dà anche particolari pezzi per strumenti musicali. In uno studio che Alfonso Alessandrini ha dedicato a quest'albero, si legge come il pioppo sia, tra gli alberi, il più efficiente accumulatore di energia solare attraverso la biomassa; la scienza ha dimostrato che la foresta è più attiva quando è giovane e «.. tagliare pioppi e piantare pioppelle vuol dire contribuire alla causa biosferica, vuol dire ridurre l'effetto serra, vuol dire aver legno...» 64

Ancora, scrive Alessandrini, il pioppo è una sorta di «salvabosco» in quanto la sua produzione legnosa fa risparmiare quella del bosco. «... Fare pioppi pare cosa da vecchi romantici e invece dovrebbe essere cosa da giovani che guardano al futuro». Governato a capitozzo, dopo i venti anni, rendeva ogni anno una o due fascine di legna per fusto; si usava anche sbroccarli, ossia levare le foglie dai rami più bassi che si tagliavano da sotto in su ogni tre o quattro anni, al fine di avere cibo invernale per gli animali «con i corni». Le gemme del pioppo nero si usavano in medicina per ricavare un unguento balsamico e cicatrizzante chiamato "populeo" e la corteccia, come quella del salice, è ricca di tannino e di salicilina. Secondo sant'Isidoro il nome deriva da "populus" perché una volta tagliato pullula numeroso dal ceppo a guisa di popolo. Orazio dice che i pioppi, "arbores insignes", si piantano ai limiti delle proprietà; così la presenza del pioppo "certis limitibus vicina refugit iurgia" ("Epist." 2, 170, 171), determinando il confine evita le contese con i vicini. Plinio scrive che i pioppi sono di quattro specie: il bianco, il nero, il libico (tremulo?) e il nero di Creta. Il pioppo bianco era consacrato alle Muse, ma più specificatamente a Eracle a cui si dava il merito di averne diffusa la coltivazione perché, dopo esser stato nel Tartaro e sconfitto Cerbero, ritornando alla luce del sole si intrecciò una corona con un ramoscello staccato da un pioppo bianco. Il pioppo nero, invece, era dedicato alla dea della morte, e a Persefone, regina d'Oltretomba, era sacra una foresta di pioppi neri nell'Occidente. Ma è a Fetonte che i pioppi hanno legato il loro mito più bello. Si racconta che un mattino Elio cedette alle insistenze del figlio che da tempo chiedeva di guidare il carro del Sole. Fetonte voleva dimostrare la sua bravura alle sorelle Climene e Prote. Ma non fu capace di controllare la forza dei bianchi cavalli che le sorelle avevano attaccato al carro del Sole e così si lasciò trascinare verso l'alto, e tutti gli uomini rabbrividirono per il freddo; poi si accostò alla terra così da seccare i campi. Zeus si incollerì e scagliò la sua folgore contro Fetonte che precipitò nel Po. Climene e Prote furono tramutate in pioppi lungo le rive del grande fiume e le loro lacrime diventarono ambra.

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Il melo. Distillando il sidro si ottiene una profumata acquavite. Ci sono luoghi tra le mie montagne dove crescono dei meli selvatici. Chissà da dove sono venuti i semi che li hanno fatti nascere. Forse quello che dimostra più anni è nato dove un soldato austriaco ha mangiato una mela nel 1917 dopo averla raccolta passando sotto un albero in una valle trentina, o forse avuta in dono da una ragazza del Sud Tirolo. Quest'alberello, alto cinque o sei metri, è lì a ridosso di uno scavo della trincea che era la loro prima linea, a mezzacosta e ben esposto al sole. E' cresciuto disordinato e arruffato nella chioma, e il tronco, dove le vitelle vanno a sfregarsi il collo e i fianchi quando sono al pascolo, ha la corteccia lucida e lisca. Ricordo che da ragazzo, quando si andava su quella montagna per cercare dei particolari pezzi di marmo per fare palline da gioco, raccoglievamo quelle piccole mele rosse e gialle per mangiarle al sole sulle rocce. Un altro melo cresce selvatico dove fino a quarant'anni fa si seminavano lino, orzo, segale, patate. Quel terreno, abbandonato dopo secoli di faticoso lavoro, si era coperto di cespugli di ginepro, di crespino e di rose canine; ora a sua volta il bosco di conifere sta ricoprendo i cespugli. Questo luogo appartato, un tempo remoto, era l'alveo di un ghiacciaio («Sette volte bosco / Sette volte prato / E tutto ritornerà / Come era stato», cantano gli gnomi dentro la montagna). Il rustico melo è là e lo credo nato da un seme caduto da una mela addentata da una ragazza venuta a zappare dal paese che sta al di là della morena e che per antico diritto aveva l'enfiteusi su questi terreni della comunità. I pometti di quest'albero, succosi e aspri, maturano a fine ottobre e quando passo li faccio cadere al suolo per farli mangiare ai tassi. Il «mio» terzo melo selvatico è poco lontano da casa: lì dove il bosco confina con il pascolo. Era nascosto da un grumo di abeti e mi accorsi di lui quando sentii la mia cagna masticare qualcosa nel folto dei rami bassi. «Ma da dove vengono queste mele?», mi dissi. E alzando gli occhi vidi con sorpresa che tra i rami folti e scuri degli abeti c'erano pure quelli del melo selvatico che ancora tenevano appesi i piccoli frutti acerbi. Mi ricordai, allora, che quello era il posto dove era uso sdraiarsi all'ombra del bosco, per 66

il riposo meridiano, un amico contadino che in tasca aveva sempre qualche mela per mangiarla quando gli doleva l'ulcera allo stomaco. Per far luce attorno a questo melo ho fatto alberi da natale degli abeti che l'intricavano e nel tardo autunno, prima della neve, vado a raccogliere i suoi frutti (equivalenti al volume di due noci!) Senza lavarli e pulirli, tanto sono lucidi e brillanti, li taglio a piccole fette e li metto a essiccare in soffitta. Quando il vento e la neve mordono il tetto li faccio bollire, aggiungo un po' di miele e bevo lo sciroppo e mangio le mele contro le affezioni dell'inverno. E questo ricordando le mele essiccate trovate in un villaggio sul Don nell'inverno del 1943 e mangiate camminando nella tormenta. Certo, sono supposizioni di un botanico dilettante un po' poeta la nascita di questi tre meli selvatici tra le mie montagne; chissà quanti altri ce ne saranno in luoghi che non conosco o che non ho osservato, perché il "Melastro" ("Pyrus malus" L. o anche il "Malus sylvestris" Mill) della famiglia delle Rosacee largamente diffusa, può vegetare spontaneo sino alla zona del faggio, a 1500 metri. E' un albero che può raggiungere i dieci metri d'altezza e vivere fino a ottanta anni; il suo fusto è irregolare, la chioma distesa e, se ben disposta alla luce, abbondante di foglie. La corteccia che sul principio è rossastra, con gli anni dà più sul grigio e tende a scagliarsi; i rami sono robusti e si allontanano dal supporto quasi orizzontalmente (rami patenti); i ramuli sono verdastri e pelosi per poi diventare glabri e rossicci. Le foglie sono alterne e variabili, con un picciolo lungo da uno a tre centimetri, dentate, pelose da giovani, coriacee e nude poi, con nervature ben marcate. I fiori sono ermafroditi, in corimbi, hanno cinque petali bianchi e rosei, appariscenti gli stami con antere gialle. Il pomo è un frutto rotondeggiante, ombelicato ai poli, i colori variano dal verde al giallo, dallo striato al chiazzato di rosso, al rosso; il diametro varia dai due a quattro centimetri. Il melo selvatico è distribuito in tutta Europa e in Italia lo troviamo dalle Alpi alla Sicilia; è sporadico nei boschi di latifoglie, ai margini delle radure; ama il sole e non ha particolari preferenze per la qualità del suolo. Viene usato per portainnesto, ma è dal melo selvatico che sono derivate tutte le numerose qualità di meli coltivati, e questo sin dall'antichità. Si legge che nel secolo di Plinio molti erano i pomologi che si applicavano a selezionare i meli, e alle varietà che creavano davano il loro nome, o il nome del luogo dove venivano coltivati. Famosi sui mercati di Roma erano il "malum spadonium" (pomo di san Giovanni), il "malum orbiculatum" (mela Francesca), la "melimela" (mela 67

zuccherina). Gli antichi autori classici (Catone, Frontone, Apuleio, Plinio eccetera) pongono il melo tra gli "alberi felici", ossia tra «quelli che servir potevano gli intendimenti della relalbigione, della morale, e dell'agricoltura». E quante leggende, miti, versi e opere d'arte sono state ispirate da quest'albero! Anche se nella Genesi non è scritto, era un pomo che Eva porse ad Adamo dopo averlo staccato dall'albero «bello agli occhi e dilettoso all'aspetto» che era in mezzo al paradiso terrestre: la tradizione come tale ce lo ha presentato, e Dante dice ("Purgatorio" 33, 61-63) che «Per morder quella, in pena e in disio / cinquemilia anni e più l'anima prima / bramò colui ch 'l morso in sé punio». Nel "Cantico dei Cantici" (2, 3) abbiamo del melo selvatico la più bella immagine allegorica: «Come un melo tra gli alberi del bosco, / così il mio diletto tra i giovani. / All'ombra di colui che ho bramato mi sono riposata, / e dolce è il suo frutto al mio palato». E il pomo che Paride assegnò ad Afrodite dopo che Zeus lo scelse come arbitro nella famosa disputa? E i meli e i pomi dipinti dai grandi Maestri del Rinascimento e dai Fiamminghi? E quelli delle sculture gotiche? Quest'albero accompagna da sempre la vita degli uomini e i suoi frutti, oltre che sano alimento erano (sono!) considerati quali medicina da Galeno, da Dioscoride e dal nostro Mattioli. Efficaci contro le «infiammagioni dello stomaco», «le posteme del sedere», «provocano l'urina», «caciano fuori li vermi» e ancora altro. Le mele grattugiate e date fresce, ai bambini piccoli sono indicate quando questi hanno la cacca sciolta, e il Castelvetro nel suo "Brieve racconto di tutte le radici di tutte l'erbe e ditutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano" scrive del "pomo paradiso": «Questo frutto non è niente più grosso che il pomo di due anni et è molto simile di forma a quello, ma la corteccia sua è gialla, macchiata di picciole macchie rosse quanto è il sangue; e quanto più si guarda (conserva) è tanto migliore; e, oltre all'ottimo suo gusto, ha un soavissimo odore e tanto che, messo tra' pannilini, dà loro un dolce odore, e le corteccie (bucce) sue poste sopra brace, profuma tutta la camera di gratissimo profumo». Ecco, proprio come faceva la zia Marietta, che era pure la quasi centenaria zia del nonno: metteva sempre le bucce dei pomi sopra la stufa di cotto del tinello, e profumava così gli inverni della nostra fanciullezza. Solo che ora per ritrovare questo odore devo raccogliere le mele selvatiche; quelle stesse che dalla loro fermentazione si ricava il sidro migliore e, distillando il sidro, una profumata acquavite. 68

L'acero. Il suo legno è tra i più belli e pregiati. In primavera, nell'ora meridiana, ritornando a casa dall'ufficio per il pranzo, passavo per un viale fiancheggiato da aceri (ora sono stati tagliati per far largo alle automobili) e sopra la mia testa c'era un brusio allegro di api felici: assieme alle foglie questi alberi sbocciano i fiori che sono sempre ricchi di nettare. Il miele d'acero, poi, è profumato e limpido ed è un vero peccato che sempre più rari diventino questi alberi nei pubblici giardini e lungo le strade, dove amministratori incolti preferiscono sostituirli con alberi esotici e costosi che, magari, mal si adattano al nostro clima e non rallegrano l'autunno dei cittadini come potrebbe l'acero. Quando a fine estate si tagliava l'ultimo fieno, il più profumato e desiderato dagli animali che stanno d'inverno rinchiusi nelle stalle, e alla sera si rientrava, ci facevano salire sopra il carro: da lassù pareva d'essere alti sopra il mondo, e come ubriachi di odori, di sole e di aria. Il cavallo baio era condotto alla briglia da mio padre o da un famiglio, e quando il carro passava sotto un arco ombroso di aceri, ci sembrava cosa ardita alzarci in piedi sul fieno traballante per strappare le disàmare dai rami che poi, giunti a casa, lanciavamo dall'alto del poggiolo verso il cortile per vederle vorticare nell'aria. Noi, le disàmare, le chiamavamo «eliche». Un mattino d'autunno inoltrato, quando le foglie erano cadute e le cime all'orizzonte imbiancate dalla neve, camminando in silenzio sul muschio del bosco arrivai a una radura che si allungava verso i pascoli. Ero sottovento e potei sorprendere una femmina di capriolo con i suoi due piccoli dell'anno che con il muso verso terra smuovevano le foglie ogni tanto scegliendone una che poi, alzando la testa, lentamente mangiavano. Osservando con più attenzione con il binocolo potei vedere che erano le foglie dell'acero isolato che confinava con il prato, e che sceglievano quelle che avevano il colore più vivo e brillante. Lessi poi che le foglie di questi alberi sono particolarmente ricche di sostanze minerali, vitamine e azoto, che contengono poca cellulosa e che per gli erbivori sono persino più appetite dell'erba medica. Il genere "Acer", della famiglia delle "Aceraceae", è molto ricco di specie; quasi tutte in Europa, in Asia e nell'America settentrionale. Sono alberi a foglie caduche; i nostrani hanno le foglie palmato- lobate, con picciolo lungo, senza stipole. I fiori sono racemosi, giallognoli, pentameri: ossia hanno il calice e la corolla divisi in cinque elementi; sono poligami o ermafroditi. Il frutto è formato da due sàmare affiancate che a maturità si dividono, portando nel vento il seme che è contenuto in un carpello appiattito. (Da 69

ragazzo mi piaceva masticarlo). L'"acero minore" è un alberello che di rado supera i cinque metri; viene anche chiamato "Acero di Montpellier" perché è frequente in Provenza. Vegeta nel bacino del Mediterraneo, nelle Prealpi, nelle zone temperate della Svizzera e della Germania, nel Caucaso, nella Persia; ama il sole e non teme la siccità; a volte cresce tra le rocce. Il suo legno ha il peso specifico superiore a quello dell'acqua ed è un ottimo combustibile. Anche l'"acero campestre" non è un albero di grande altezza, ma può raggiungere i quindici metri; la sua chioma è larga e fitta. Lo si trova in tutta Europa fino in Inghilterra e in Russia; anche sparso nei boschi di conifere. E' chiamato "campestre" perché un tempo veniva usato a sostegno dei filari delle viti e sopporta molto bene le potature più drastiche; inoltre si adatta a climi e terreni diversi. L'"acero riccio" è un grande e bellissimo albero: può raggiungere anche i trenta metri d'altezza; il suo fusto è diritto, la corteccia grigio-cenere, i rami eretto-patenti, la corona densa e larga; ha foglie simili a quelle del platano. Nell'autunno assume quello splendido colore rosso vivo che più di ogni altro spicca, come grande solista, nella sinfonia del bosco. Ama i climi freddi e continentali e, a Settentrione, arriva fino in Norvegia e in Finlandia; supera i freddi inverni e le primavere a volte nevose come questa del 1991 perché ha la caratteristica di ritardare il suo risveglio dopo il riposo invernale. La sua foglia rossa è lo stemma nella bandiera canadese. E da questi alberi gli indiani del Nord America sanno ricavare una dolce linfa che diventa medicina e alimento; e in Canada, e oggi anche da noi, si può trovare in commercio uno sciroppo d'acero per preparare particolari dolci. Pure l'"acero di monte" è un albero che può arrivare a quaranta metri d'altezza; la sua corteccia è più scura del riccio; le foglie sono grandi anche quindici centimetri, a cinque lobi, dentate; le disàmare sono arcuate a «V». Il suo nome ci dice che ama di più le pendici delle colline e dei monti (può arrivare fino a duemila metri) che non le pianure; non forma boschi puri ma si trova isolato o a piccoli gruppi. Il suo legno è tra i più belli e pregiati, è di colore bianco- avorio, sericeo, facile da lavorare e di lunga durata se usato negli interni. Stagionato per lungo tempo, anche dieci anni, viene usato dai liutai per i fondi, le fasce, il manico e i ricci degli strumenti ad arco. Uno di questi aceri montani è diventato famoso nell'Appennino bolognese dove, si racconta, che tra le secolari fronde era stata appesa l'immagine miracolosa di una Madonna portata dall'Oriente al tempo delle Crociate. Nel 1358 all'ombra di quest'albero, si costruì una chiesetta dedicata alla 70

Madonna dell'Acero e ancora oggi, al 5 agosto di ogni anno, si celebra una festa. Aceri di molti secoli si trovano sui monti del Gennargentu in Sardegna, e sui Nebrodi, in Sicilia. In Abruzzo, nel comune di Pizzone, se ne trova uno che misura quasi sette metri di circonferenza. E pensare che un mio compaesano che aveva intenzione di creare un boschetto di aceri su un prato abbandonato, un lunedì mattina si vide tagliati da incivili turisti, che forse volevano farsi bastoni da passeggiata, tutti i giovani virgulti che aveva impiantato! Anche i poeti hanno cantato gli aceri. Virgilio, nell'"Eneide" (Libro Secondo, 112) Ci racconta che di travi d'acero era fatto il cavallo dell'inganno di Troia: «Già sorgeva il cavallo / fatto di travi d'acero: allora più che mai / i nembi risuonavano per tutto il vasto cielo...». Anche Pasternàk, sia nello "Zivago" che nelle poesie, ricorda gli aceri e in "Autunno d'oro" scrive: «... Casette tra gli aceri gialli / come in cornici dorate, / dove a settembre sull'alba / gli alberi stanno a due a due / e sulla corteccia il tramonto / lascia una traccia d'ambra». Esenin, il biondo-rosso poeta contadino, canta di un «Acero antico» che: «Veglierà sulla Russia celeste / l'acero ritto su un piede. / So che tu sei grandissimo amico / di chi bacia la pioggia dei tigli, / anche perché, acero antico, / a me nel capo somigli». (La traduzione è di Renato Poggioli). T eofrasto, nei suoi trattati di botanica scrive che l'acero era prescelto per i mobili di maggiore eleganza, e Ovidio ci ha lasciato scritto che di acero era il trono di Tarquinio Prisco.

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Il gelso. Gli alpini del Garda mi dissero che erano morari. Giunti alla classe terza la maestra Elisa, che l'autunno precedente aveva voluto che ogni scolaro arrivasse a scuola con un diverso ramoscello d'albero, alla fine del maggio 1929 ci portò dei bozzoli dalla pianura. Ci spiegò che dentro ognuno c'era una farfalla che prima era bruco e prima ancora piccolo ovetto che, dischiuso al tempo che i gelsi mettono le foglie, mangiando queste era mutato e cresciuto fino a costruirsi intorno la sua casa di fili di seta. Ma qui in montagna non avevamo né gelsi né filugelli né, quindi, bachicoltura, e aspettammo con curiosità di veder uscire il "bombice del gelso" dal bozzolo che la nostra maestra aveva posato tra i doppi vetri della finestra al sole. Per vedere i primi gelsi, ma senza distinguerli ancora dagli altri alberi, dovetti aspettare qualche anno, e fu verso Bassano quando ancora la bachicoltura era in pieno sviluppo e gli alberi di gelso rispettati e protetti da una legge apposita del 1937 che ne vietava l'abbattimento. Nel 1941, con altra legge, si precisò che i prefetti avevano facoltà di vietare anche il capitozzamento e la potatura invernale «di piante di gelso i cui rami non abbiano raggiunto i tre anni di età, consentendo solo la rimondatura e la spuntatura a sfogliatura eseguita. Possono altresì vietare che la foglia di gelso sia utilizzata per scopi diversi dall'allevamento del baco da seta...» Altre cose indicava ancora questa legge a protezione dei gelsi. Poi, con gli anni, la bachicoltura morì, si chiusero le filande e si dimenticarono anche le canzoni delle filandaie (che ora sono oggetto di ricerca antropologica). Quasi tutti i gelsi sparirono dalle nostre campagne perché la seta veniva importata dall'Oriente come nei tempi lontani. Ora, da qualche anno, qui nel Veneto che per secoli era stato il luogo di maggior produzione, si riparla di gelsi, di filugelli e di seta; solo che sono sorti altri problemi di origine genetica in merito al bombice del gelso. E poi bisognerebbe reimpiantare i filari di gelsi come erano un tempo, perché pochi ne sono rimasti a segnare le cavedagne tra campo e campo. (In questi giorni un amico scultore va lungo i margini dei coltivi in cerca di vecchi ceppi di moraro che poi porta nel suo studio dove li lavora al fine di 72

mettere in luce le forme e le qualità del legno variegato, inserisce in essi ciottoli di fiume levigati dai millenni e metalli preziosi creando così opere d'arte che hanno il mistero della creazione). Se anche il gelso non è albero della mia terra montana, mi è caro per un particolare ricordo che risale alla tarda primavera del 1941. In quell'anno, con la resa della Grecia, avevamo finito di penare freddo e fame tra le più alte montagne dell'Albania dove la tormenta non dava mai requie. Scendemmo giù da lì a ricalpestare l'erba novella dopo mesi di neve e un giorno di giugno, con grande caldo, andando giù alle rive del fiume Devoli per lavarmi e rinfrescarmi dalla rogna e dai pidocchi, mi imbattei in alcuni alberi grandi e forse antichi che tra i rami portavano frutti che per la forma mi ricordavano i lamponi. Il mio istinto mi disse di mangiarli e subito mi piacquero per il loro dolce non stucchevole ma piuttosto acquoso. Ce n'erano di bianchi, di rosa, di rossi quasi viola e questi mi lasciavano il loro colore sulle dita e attorno alla bocca. Gli alpini del Garda mi dissero che erano «morari» e mi venne da pensare che forse erano stati impiantati al tempo della Repubblica di Venezia quando questa aveva il commercio mondiale della seta, dopo che un frate aveva portato dall'Estremo Oriente le uova del filugello dentro una canna di bambù che gli faceva da bastone. (Anche questo ce lo aveva raccontato la maestra Elisa). Ma stando a Procopio furono due monaci che nell'anno 551 portarono a Costantinopoli i primi bachi da seta; Teofane da Bisanzio dice invece che fu un persiano, al tempo dell'imperatore Giustiniano, a contrabbandare il seme dal paese dei Serii, dentro la cavità di un bastone. Il gelso, "Morus alba" L., appartiene alla famiglia delle Moracee, di cui fa parte pure il fico, e la caratteristica di questa pianta è un lattice che viene secreto come difesa a ferite o lesioni per evitare la penetrazione di parassiti nel loro organismo. Al genere "Morus" appartengono dodici specie distribuite nelle zone temperate del nostro emisfero. Il gelso è albero di media grandezza, ma può arrivare anche a venti metri e vivere qualche secolo; ha una corona espansa e densa; la corteccia, quando è giovane, è grigia, poi si incupisce tendendo al bruno e si fessura nel senso della lunghezza; i rami sono lisci e glabri. Le preziose foglie che attraverso il filugello ci dànno la seta, sono alterne quasi contrapposte, con breve picciolo scanalato; a volte hanno forma di cuore altre trilobata, con i margini seghettati irregolarmente, acute agli apici; il loro colore è di un bel verde chiaro. Fiorisce in aprilemaggio e lo stesso soggetto porta fiori maschili e femminili in amenti 73

peduncolati. I frutti originati dalla infiorescenza sono lunghi un paio di centimetri, di colore avorio, o bianco-rosato, o rosso vivo e cupo; il loro sapore risulta dolce ancora prima della maturazione. Il "Morus alba", la cui terra d'origine è la Cina, è giunto in Europa in antichissima data; la sua coltivazione si è poi estesa fin dove era possibile, seguendo lo sviluppo dell'industria della seta. Il "Morus nigra" L., o moro, viene un po' più grande del gelso e ha l'aspetto più rustico e robusto; il fogliame è più denso, il picciolo delle foglie più corto, queste sono anche più grandi e la pagina inferiore è coperta da una peluria simile a feltro. La sua patria d'origine è l'Asia Minore e veniva coltivato per i suoi frutti che fermentati davano un vino leggero e, distillati, un'ottima grappa. Secondo Ovidio, che nelle sue "Metamorfosi" lo collega alla leggenda di Piramo e Tisbe, un gelso moro ombrava la tomba di Nino fondatore di Ninive. Questa usanza di piantare alberi sulle tombe si manifestava nei popoli antichi perché sapevano che il corpo disciolto e decomposto in umori veniva assorbito dalle radici e che la materia si sarebbe vivificata negli alberi continuando così, per anni e per secoli, a testimoniare l'affetto e la memoria ai posteri. Il gelso era da Plinio considerato «Albero sapientissimo» perché è l'ultimo a sbocciare e il primo a maturare la frutta; in questo modo evita i dannosi effetti del freddo intempestivo e i frutti restano poi a lungo sui rami. Pare anche che le donne romane e greche con il succo di questi frutti si tingessero le guance.

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Il ciliegio. Al suo posto costruiranno un condominio per i villeggianti. La neve che aspettavo a dicembre e che per tutto l'anno non è venuta, si è fatta vedere in aprile quando i tre ciliegi stavano per aprire le corolle. Stando dentro il letto sentivo un differente silenzio; ma anche la luce, la poca luce che sempre la notte conserva, aveva differente riflesso. Pensavo, vagavo con la mente per contrade e tempi lontani ma poi il pensiero sempre ritornava là: ai ciliegi. Forse può sembrare ridicolo che un uomo della mia età, con tutte le cose che stanno accadendo, si soffermi a trepidare per i ciliegi in attesa della fioritura. Pensavo anche a quelle onde bianche di ciliegi in fiore che ai piedi delle mie montagne aspettavano insetti pronubi o un leggero zeffiro, ma non la neve e il vento del Nord. Ma forse laggiù, attorno a Marostica, mi dicevo, non arriverà la neve; e poi i fiori avranno «legato», nel profondo dei pistilli il polline avrà già fecondato gli ovari. Anche quest'anno il costante amico, a fine maggio, mi porterà una o due ceste di ciliegie che sempre mi suscitano meraviglia e golosa tenerezza. Più della selvaggina, più del vino, più ancora del pane, più di ogni altro cibo, insomma, sono attratto dalle ciliegie. Persino quell'inverno nella steppa russa le sognavo, persino in campo di concentramento. Nella mia adolescenza una delle prima letture è stata "Il giardino dei ciliegi" di Cechov; il mio primo viaggio è stato quello con il trenino a cremagliera, organizzato dal prete dei ragazzi, per arrivare a una frazione dove in agosto maturano le marasche selvatiche. In Val d'Aosta, in quel giugno del 1940 quando si stava per entrare in guerra, ogni sera, con un amico che ora è in Australia, dopo il rancio troppo scarso si andava a saziare la nostra fame con le ciliegie selvatiche che maturavano lungo la Dora o tra le rovine dei castelli. Erano piccole e succose, le contendevamo ai tordi e ai merli e l'amico, come gli uccelli, le inghiottiva con il nòcciolo. Ma le più impensabili e incredibili furono quelle ciliegie secche che scopersi in un ripostiglio sotterraneo di un'isba sulla riva del Don: che senso di primavera hanno saputo donarmi in quel gelo fossile quando le bollivo 75

nell'acqua di neve! Si dice che il ciliegio sia originario dall'Asia; sarà forse per questo che lo ritroviamo nelle antiche poesie cinesi e che in Giappone, per gli scintoisti, è oggetto di venerazione e culto, tanto che alla sua fioritura è riservata una grande festa: quelle bianche nuvole di petali rappresentano la felicità effimera ma anche la beatitudine eterna. Nella nostra vecchia Europa il ciliegio selvatico è indigeno; nell'antica Grecia si parlava di ciliegio domestico sin dai tempi di Alessandro; Erodoto, nel Libro Quarto della sua "Storia", racconta che oltre il territorio degli Sciti si trova un'ampia regione ai piedi di alte montagne dove gli abitanti si cibano del frutto degli alberi: «... Pontico si chiama l'albero del cui prodotto si cibano; ha le dimensioni di una pianta di fico, più o meno, e produce un frutto grande come una fava e che ha anche il nòcciolo; quando è maturo lo filtrano attraverso panni e ne cola un succo denso e scuro che chiamano "aschi"; se lo sorseggiano e lo bevono mescolato al latte...» Secondo Plinio, il grande buongustaio Lucullo, reduce dalla guerra contro Mitridate, portò a Roma le "aproniane", le nostre marasche, che in seguito furono esportate fino alla Britannia. A quel tempo erano già conosciute le "duracinae" che venivano coltivate fin sul Reno e in Belgio. I ciliegi appartengono alla grande famiglia delle Rosacee, piante dicotiledoni con numerosissime specie sia erbacee che legnose, distribuite in tutto il mondo. Il genere "Prunus" conta circa duecento specie, ma è dal ciliegio montano, "Prunus avium" L., che derivano le tante "cultivar" per la produzione dei frutti. E' stato denominato "avium" perché quasi tutti gli uccelli sono ghiotti delle sue drupe e anche perché è da loro che viene disseminato su larghe aree: il nòcciolo che ingeriscono con la polpa viene espulso con le feci e cade ai piedi degli alberi dove gli uccelli vanno ad appollaiarsi per dormire la notte o per digerire. Nascerà, e in pochi anni diventerà un alberello di bell'aspetto. Potrà raggiungere un'altezza di venticinque metri e il diametro di quasi un metro, diritto di fusto e non molto ramificato. Si espande se isolato. La corteccia, formata da vari strati, è bruno chiara, ma con gli anni diventerà più scura e screpolata; le radici sono molto estese, fittonanti, dalle più superficiali fuoriescono numerosi polloni. Le gemme sui rami sono raccolte a mazzetti, di colore nerastro, con le squame orlate di chiaro. Le foglie alterne, ovate e lunghe fino a quindici centimetri, dentate e con le nervature bene evidenti; i fiori sono ermafroditi, in fascetti corimbosi penduncolati con la corolla a petali bianchi rotondato-smarginati. Il frutto è la bella drupa che tutti sanno; distillata dà limpido "kirsch". Il legno del ciliegio selvatico è di meraviglioso colore rosato, lucido, elastico e 76

particolarmente adatto per i lavori dei bravi artigiani falegnami (come sono belle le rustiche credenze di ciliegio!). L'areale dove vegeta occupa una vasta zona eurasiana; vive spontaneo nelle foreste di latifoglie e in certe località si arrampica fino a millesettecento metri d'altitudine. Ama le pendici solatie e i terreni calcarei. D'autunno il suo fogliame diventa una brillante orifiamma che illumina i boschi più scuri. Sarà per tutto questo che attorno alla casa ho voluto tre ciliegi domestici e, l'anno scorso, ho piantato diversi polloni di marasco selvatico? E in un mio racconto ho voluto scrivere di un ciliegio selvatico cresciuto sul tetto di paglia di una povera casa di montagna? L'avevo sentito raccontare e poi ebbi occasione di vederlo in una fotografia del 1915, prima che la guerra abbattesse casa e ciliegio. Ma uno, però, nelle vicinanze è rimasto; e il vecchio Titta, che ora avrebbe più di cento anni, diceva di ricordarlo quando lui era ancora bambino. E' tutto contorto, scorticato, pieno di schegge di granata e di pallottole, eppure fruttifica ancora e anche quest'anno butterà i suoi fiori, anche se, quando le ciliegie saranno mature, più nessun ragazzo salirà tra i rami a impiastricciarsi mani, viso e camicia di rosso e dolce succo. La vecchia casa contadina vuota e abbandonata è ora in vendita, al suo posto costruiranno un condominio per i villeggianti e anche il vetusto ciliegio sarà abbattuto per far largo alle automobili. Con lui se ne andrà un pezzo di storia, della nostra giovinezza. Come nell'ultima scena del "Giardino dei ciliegi", dopo che Ljubov' Andreevna costretta a vendere il ciliegeto alla speculazione, prima di abbandonarlo, abbracciata al fratello Gaev, mormora singhiozzando: «Mio caro, dolce, meraviglioso giardino... Vita mia, giovinezza mia, felicità mia. Addio!... Addio». E il vecchio maggiordomo Firs rinchiuso e dimenticato dentro la casa sente in lontananza la scure che si abbatte sugli alberi.