giovedì 6 maggio 2021

EUGÉNIE GRANDET Honoré de Balzac

 

EUGÉNIE GRANDET
Honoré de Balzac 

Capitolo 1 
Fisionomie borghesi

In alcune città di provincia si trovano delle case la cui vista ispira una malinconia pari a quella che destano i chiostri più tetri, le lande più brulle e le rovine più tristi. Forse in queste case sono presenti allo stesso tempo il silenzio del chiostro, l’aridità delle lande e l’ossatura delle rovine: la vita e il movimento sono così placidi che uno straniero le potrebbe credere disabitate, se all’improvviso non incontrasse lo sguardo spento e freddo di una persona immobile la cui figura per metà monastica si affacci dal davanzale della finestra, al rumore di un passo sconosciuto. Questi principi di malinconia sono presenti nella fisionomia di una casa situata a Saumur, all’estremità della strada ripida che, passando per la città alta, conduce al castello. Questa via, ora poco frequentata, calda d’estate, fredda d’inverno, buia in alcuni tratti, è notevole per la sonorità del suo piccolo selciato sassoso, sempre pulito e secco, per l’angustia del suo tracciato tortuoso, per la pace delle sue case che fanno parte della città vecchia, e che dominano i bastioni. Abitazioni di trecento anni sono ancora solide, benché costruite in legno, e i loro differenti aspetti contribuiscono all’originalità che rende caratteristica questa parte di Saumur e che richiama l’attenzione di archeologi e artisti. È difficile passare davanti a queste case, senza ammirarne le enormi travi dalle estremità intagliate con figure bizzarre che incoronano di un bassorilievo nero il pianterreno della maggior parte di esse. Qui delle putrelle di legno trasversali sono ricoperte di ardesia e disegnano linee bluastre sulle mura fragili di una casa sormontata da un tetto a graticcio che gli anni hanno fatto piegare, le cui assi marce sono diventate sbilenche a causa dell’azione alternata della pioggia e del sole. Lì si vedono dei davanzali logori, anneriti, le cui delicate sculture si scorgono appena, e che sembrano troppo leggeri per sostenere il vaso d’argilla bruna da cui si protendono i garofani o i roseti di una povera operaia. Più lontano, ci sono porte guarnite da enormi chiodi ove il genio dei nostri antenati ha tracciato geroglifici domestici di cui non si ritroverà mai più il significato. Talvolta un protestante ha firmato la sua fede, talaltra un membro della Santa Lega1 ha maledetto Enrico IV. Alcuni borghesi hanno inciso gli emblemi della propria nobiltà di toga,2 la gloria del proprio scabinato dimenticato. Qui c’è tutta la storia della Francia. A fianco della casa traballante dai lati rinforzati in cui l’artigiano ha deificato la pialla, si erge la casa di un gentiluomo ove sull’arco a tutto sesto della porta in pietra si vedono ancora alcune vestigia delle sue armi, spezzate dalle diverse rivoluzioni che a partire dal 1789 hanno scosso la Francia. In questa via i pianterreni a uso commerciale non sono né negozi né magazzini, gli amanti del Medioevo vi ritroverebbero la bottega dei nostri padri in tutta la sua ingenua semplicità. Queste sale basse, che non hanno né vetrina, né esposizione, né mostra sono profonde, scure e prive di ogni ornamento esterno e interno. La loro porta a due battenti, ferrati alla buona, è aperta, di essi quello superiore si ripiega all’interno e quello inferiore, dotato di un sonaglio a molla, va e viene incessantemente. L’aria e la luce giungono in questa specie di antro umido o attraverso la parte alta della porta, o attraverso l’intercapedine esistente fra la volta, l’impiantito e il piccolo muro di sostegno in cui si incastrano dei solidi scuri, tolti la mattina, rimessi e sostenuti la sera da sbarre di ferro imbullonate. Questo muro serve a esporre le merci del commerciante. Qui bando alla ciarlataneria. A seconda del genere di commercio, il campionario consiste in due o tre barili colmi di sale e merluzzo, in qualche balla di tela per le vele, di cordame, di ottone appeso al travetto dell’impiantito, di cerchi3 lungo le pareti, e di alcune pezze di panno sugli scaffali. Entrate? Una ragazza linda, pimpante di giovinezza, con un piccolo scialle bianco e le braccia arrossate, interrompe il suo lavoro a maglia, chiama suo padre o sua madre che arriva e vende secondo i vostri desideri, in maniera flemmatica, con compiacenza o con arroganza a seconda del suo carattere, che sia per due soldi o per ventimila franchi di merce. Vedrete un negoziante di assi di quercia per le botti seduto sulla porta che gira i pollici intento a parlare con un vicino; apparentemente possiede pessimi ripiani per le bottiglie, e due o tre mucchi di listelli, ma al porto il suo deposito ben fornito serve tutti i bottai dell’Anjou; sa, con un margine di errore di una tavola, quanti barili può vendere se il raccolto è buono; un colpo di sole lo arricchisce, un tempo piovoso lo manda in rovina: in una sola mattinata le botti4valgono undici franchi o precipitano a sei lire. In questo paese, come in Touraine, le vicissitudini atmosferiche dominano la vita commerciale. Viticoltori, proprietari, venditori di legname, bottai, osti, battellieri sono tutti alla ricerca di un raggio di sole; quando la sera si mettono a letto tremano al pensiero di venire a sapere l’indomani mattina che c’è stata una gelata durante la notte; temono la pioggia, il vento, la siccità, e vogliono acqua, caldo e nubi a loro piacimento. C’è un duello costante tra il cielo e gli interessi terreni. Di volta in volta il barometro rende le loro fisionomie tristi, serene, allegre. Da una parte all’altra di questa strada, l’antica Grand-Rue di Saumur, queste parole: “Ecco un tempo d’oro!” si valutano da porta a porta. Così ognuno risponde al vicino: “Piovono luigi”, sapendo che cosa porta un raggio di sole o una pioggia opportuna. Il sabato, verso mezzogiorno, nella bella stagione, non otterrete nemmeno un soldo di mercanzia da questi coraggiosi vignaioli. Ognuno ha la propria vigna, il proprio appezzamento, e va a trascorrere due giorni in campagna. Lì, essendo tutto previsto, l’acquisto, la vendita, il profitto, i commercianti hanno dieci ore su dodici da impiegare in allegre partite, in osservazioni, commenti e spionaggi continui. Una massaia non compra mai una pernice senza che i vicini chiedano al marito se era cotta a puntino. Una ragazza giovane non si affaccia mai alla finestra senza essere notata da tutti i gruppi degli sfaccendati. Lì dunque le coscienze vengono allo scoperto, di conseguenza queste case impenetrabili, nere e silenziose, non hanno alcun mistero. La vita si svolge quasi sempre all’aria aperta: ogni famiglia si siede alla propria porta, dove pranza, cena e discute. Non passa persona per la strada che non sia studiata. Allo stesso modo, un tempo, quando uno straniero arrivava in una città di provincia, veniva sbeffeggiato da porta a porta. Da qui derivano buone storie, da qui il soprannome di imitatori dato agli abitanti di Angers che eccellevano in queste parodie urbane. Gli antichi palazzi della città vecchia sono situati nella parte alta di questa via un tempo abitata dai gentiluomini del paese. La casa piena di malinconia in cui si sono svolte le vicende di questa storia era proprio una di tali dimore, resti venerabili di un secolo in cui le cose e gli uomini avevano questo carattere di semplicità che le usanze francesi perdono di giorno in giorno. Dopo aver seguito le curve di questa strada pittoresca, in cui il minimo dettaglio richiama dei ricordi e il cui effetto generale porta a immergersi in una sorta di fantasticheria automatica, scorgerete una cupa rientranza, al centro della quale si nasconde la porta della casa di monsieur Grandet. È impossibile capire il valore di questa espressione provinciale senza delineare la biografia di monsieur Grandet.

Monsieur Grandet godeva a Saumur di una reputazione le cui cause ed effetti non potrebbero essere compresi del tutto da parte di coloro che non hanno, tanto o poco, vissuto in provincia. Monsieur Grandet, chiamato ancora da alcuni père Grandet – ma il numero di questi vegliardi diminuiva sensibilmente –, nel 1789 era un mastro bottaio assai agiato, poiché sapeva leggere, scrivere e far di conto. Non appena la Repubblica francese mise in vendita i beni del clero5 nel distretto6 di Saumur il bottaio, che allora aveva quarant’anni, aveva appena sposato la figlia di un ricco mercante di assi. Grandet si recò, munito del suo denaro liquido e della dote, munito di duemila luigi d’oro, al distretto dove, per mezzo di cento luigi doppi offerti dal suocero al burbero repubblicano che sorvegliava la vendita delle proprietà nazionali, ottenne per un tozzo di pane, legalmente, se non legittimamente, i più bei vigneti del circondario, una vecchia abbazia e alcune terre mezzadrili. Poiché gli abitanti di Saumur non erano molto rivoluzionari, père Grandet venne reputato un uomo coraggioso, un repubblicano, un patriota, una mente che si impegnava nelle nuove idee, mentre il bottaio molto semplicemente si impegnava nei filari. Fu nominato membro dell’amministrazione del distretto di Saumur, e la sua placida influenza si fece sentire dal punto di vista politico e commerciale. Politicamente protesse i nobili e impedì con tutto il suo potere la vendita dei beni degli esuli, commercialmente fornì agli eserciti repubblicani uno o duemila barili di vino bianco, e si fece pagare con prati superbi, di pertinenza di una comunità religiosa femminile, e destinati a formare l’ultimo lotto. Durante il consolato il brav’uomo Grandet, nominato sindaco, amministrò con accortezza e vendemmiò ancora meglio; durante l’Impero divenne monsieur Grandet. Napoleone non amava i repubblicani: sostituì monsieur Grandet, di cui si diceva che aveva portato il berretto frigio, con un grande proprietario, un uomo con la particella nobiliare, un futuro barone dell’Impero. Monsieur Grandet lasciò gli onori pubblici senza alcun rimpianto. Aveva fatto fare, nell’interesse della città, dei sentieri eccellenti che conducevano alle sue proprietà. Sulla sua casa e i suoi beni, registrati al catasto in maniera molto vantaggiosa, gravavano delle imposte moderate. Dopo la classificazione dei suoi diversi campi recintati, le sue vigne grazie alle sue continue cure erano diventate l’eccellenza del paese, termine tecnico utilizzato per indicare i vigneti che producono vino di prima qualità. Avrebbe potuto chiedere la croce della Legione d’onore.7 Questo evento ebbe luogo nel 1806.8 Allora monsieur Grandet aveva cinquantasette anni e sua moglie circa trentasei. Una figlia unica, frutto dei loro legittimi amori, aveva dieci anni. Monsieur Grandet, che senza dubbio la Provvidenza volle consolare della sua disgrazia amministrativa, nel corso di quell’anno ereditò dapprima da madame de La Gaudinière, nata de La Bertellière, madre di madame Grandet; poi dal vecchio monsieur de La Bertellière, padre della defunta; e ancora da madame de Gentillet, nonna da parte di madre: tre successioni la cui importanza non fu nota a nessuno. L’avarizia di questi tre vegliardi era così accanita che ormai da molto tempo accumulavano i loro denari per poterli contemplare di nascosto. Il vecchio monsieur de La Bertellière definiva un investimento una prodigalità, trovando interessi maggiori nell’aspetto stesso dell’oro piuttosto che nei benefici dell’usura. La città di Saumur stimò dunque il valore dei risparmi in base alle rendite dei beni visibili alla luce del sole. Monsieur Grandet ottenne allora il nuovo titolo nobiliare che la nostra mania di eguaglianza non cancellerà mai, divenne il più tassato del distretto. Coltivava cento arpenti9 di vigna che, nelle annate prospere, rendevano dai sette agli ottocento barilotti di vino. Possedeva tredici cascine, una vecchia abbazia dove, per risparmiare, aveva fatto murare le finestre,10 le ogive, le vetrate, che in questo modo si conservarono intatte; e centoventisette arpenti di prati dove crescevano e si ingrandivano tremila pioppi piantati nel 1793. Infine, la casa dove viveva era sua. Così veniva valutata la sua fortuna tangibile. Quanto ai suoi capitali, solo due persone potevano vagamente presumere la loro entità: l’una era monsieur Cruchot, notaio incaricato degli investimenti a tasso di usura di monsieur Grandet, l’altra, monsieur des Grassins, il più ricco banchiere di Saumur, dei cui benefici godeva anche il viticultore a suo profitto e in segreto. Benché il vecchio Cruchot e monsieur des Grassins possedessero la profonda discrezione che genera in provincia la fiducia e la fortuna, facevano pubblicamente mostra di un tale rispetto nei confronti di monsieur Grandet che gli osservatori potevano misurare la vastità dei capitali dell’ex sindaco in base alla ossequiosa considerazione di cui era oggetto. Non c’era nessuno a Saumur che non fosse convinto che monsieur Grandet possedesse un tesoro particolare, un nascondiglio pieno di luigi, e che si abbandonasse nottetempo alle ineffabili gioie che procura la visione di una grande massa d’oro. Gli avari ne traevano una sorta di certezza vedendo gli occhi del brav’uomo al quale il metallo giallo sembrava aver trasmesso il suo colore. Lo sguardo di un uomo abituato a trarre dai suoi capitali un ingente utile contrae necessariamente, come quello del lussurioso, del giocatore e del cortigiano, alcune abitudini indefinite, movimenti furtivi, avidi, misteriosi che non sfuggono ai suoi correligionari. Questo linguaggio segreto forma in qualche maniera la massoneria delle passioni. Monsieur Grandet ispirava dunque la rispettosa stima cui aveva diritto un uomo che non doveva mai niente a nessuno, che da esperto bottaio e da abile viticoltore indovinava con la precisione di un astronomo quando occorreva costruire mille botti o solo cinquecento per il suo raccolto; che non perdeva mai una sola speculazione, che aveva sempre barili da vendere quando costavano più cari della derrata da raccogliere, che poteva mettere l’uva vendemmiata nelle sue cantine e aspettare il momento di vendere la sua botte a duecento franchi quando i piccoli proprietari vendevano la propria a cinque luigi. Il suo famoso raccolto del 1811,11saggiamente conservato e venduto lentamente, gli aveva fruttato più di duecentoquarantamila lire. In campo finanziario, monsieur Grandet aveva le caratteristiche della tigre e del boa: sapeva accovacciarsi, rannicchiarsi, studiare a lungo la sua preda, balzarle addosso, poi apriva le fauci della sua borsa, divorando un carico di quattrini, e si accucciava placidamente, come il serpente che digerisce, impassibile, freddo, metodico. Nessuno lo vedeva passare senza provare un sentimento di ammirazione misto al rispetto e al terrore. Chi a Saumur non aveva provato i graffi gentili delle sue grinfie d’acciaio? A quello l’avvocato Cruchot aveva procurato i denari necessari per l’acquisto di una proprietà, ma all’11 per cento; a questo monsieur des Grassins aveva scontato alcune cambiali, ma con una riscossione spaventosa di interessi. Pochi erano i giorni che trascorrevano senza che si pronunciasse il nome di monsieur Grandet sia al mercato sia nel corso delle serate durante le conversazioni che si tenevano in città. Per alcuni la fortuna del vecchio vignaiolo era oggetto di un orgoglio patriottico. Così più di un negoziante e di un locandiere diceva agli stranieri con una certa soddisfazione: “Signore, qui ci sono due o tre famiglie milionarie; ma, quanto a monsieur Grandet, neppure lui conosce la propria ricchezza!”. Nel 1816 i più abili contabili di Saumur stimavano che il valore delle proprietà terriere del contadino fosse prossimo ai quattro milioni; ma considerato che, in media, aveva tratto, dal 1793 sino al 1817, centomila franchi di rendita all’anno dalle sue proprietà, era presumibile che possedesse una somma quasi equivalente al valore dei suoi beni fondiari. Pertanto quando, dopo una partita a boston,12 o dopo alcune conversazioni sulle vigne, si giungeva a parlare di monsieur Grandet, le persone più avvedute dicevano: “Père Grandet?… Père Grandet deve possedere tra i cinque e i sei milioni”. “Voi siete più abile di quanto lo sia io, non sono mai riuscito a sapere il totale,” rispondevano monsieur Cruchot o monsieur des Grassins, al sentire tale affermazione. Quando capitava che alcuni parigini parlassero dei Rothschild13 o di monsieur Laffitte,14 gli abitanti di Saumur chiedevano se fossero ricchi quanto monsieur Grandet. Se il parigino sorridendo gettava loro una conferma sdegnosa, si guardavano scuotendo la testa con un’aria incredula. Una siffatta fortuna ricopriva di un manto d’oro tutte le azioni di quest’uomo. Se dapprima alcune delle peculiarità della sua vita avevano dato adito al ridicolo e alla canzonatura, la canzonatura e il ridicolo si erano dissolti. Nei suoi atti più infimi, monsieur Grandet aveva dalla sua l’autorevolezza della cosa giudicata. La sua parola, il suo modo di vestire, i suoi gesti, una strizzatina dei suoi occhi diventavano legge nel suo paese, dove ognuno, dopo averlo studiato come un naturalista che analizza gli effetti dell’istinto negli animali, aveva potuto riconoscere la profonda e muta saggezza dei suoi movimenti più leggeri. “L’inverno sarà rigido,” dicevano, “père Grandet ha indossato i guanti foderati: bisogna vendemmiare.” “Père Grandet prende molte assi per le botti, ci sarà vino quest’anno.” Monsieur Grandet non comprava mai né carne né pane. I suoi affittuari gli portavano ogni settimana come sua spettanza una provvista sufficiente di capponi, di polli, di uova, di burro e di grano. Possedeva un mulino, da cui il fittavolo doveva, oltre all’affitto, ritirare una certa quantità di grano e riportargli la crusca e la farina. La Grande Nanon, la sua unica serva, benché non fosse più giovane, faceva lei stessa il pane della casa tutti i sabati. Monsieur Grandet si era accordato con gli orticoltori, suoi locatari, perché lo rifornissero di verdure. Quanto alla frutta ne raccoglieva una quantità tale che la maggior parte la metteva in vendita al mercato. La legna per il riscaldamento era tagliata dalle sue siepi o prelevata dal bordo dei campi da vecchi tronchi per metà marci ed era trasportata, ridotta in ciocchi, in città dai suoi affittuari che la sistemavano nella legnaia per compiacerlo, ricevendo i suoi ringraziamenti. Le sue uniche spese note erano il pane benedetto, i vestiti della moglie, quelli della figlia e l’affitto dei loro banchi in chiesa; la luce, il salario della Grande Nanon, il rivestimento di stagno delle sue pentole; il pagamento delle tasse, le riparazioni dei suoi stabilimenti e i costi delle sue attività agricole. Possedeva seicento arpenti di bosco recentemente acquistati che faceva sorvegliare da un vicino, al quale aveva promesso una ricompensa. Solo dopo questo acquisto, aveva iniziato a mangiare la selvaggina. I modi di quest’uomo erano molto semplici. Parlava poco. Generalmente esprimeva le proprie idee con piccole frasi sentenziose e dette con una voce dolce. Dalla Rivoluzione, epoca in cui si attirò gli sguardi, il brav’uomo tartagliava in maniera stentata non appena doveva parlare a lungo o sostenere una discussione. Il balbettio, l’incoerenza e il flusso di parole in cui affogava il suo pensiero, la sua apparente mancanza di logica, attribuiti a un’educazione imperfetta, erano ostentati e saranno spiegati a sufficienza da alcuni episodi di questa storia. Del resto, quattro frasi esatte quanto delle formule algebriche gli servivano di norma per affrontare e per risolvere tutte le difficoltà della vita e del commercio: “Non lo so, non posso, non voglio, questo lo vedremo”. Non diceva mai né “sì” né “no”, e non scriveva. Gli si parlava? Ascoltava con freddezza, teneva il mento con la mano destra appoggiando il gomito sul dorso della mano sinistra, e in ogni affare si formava delle opinioni sulle quali non tornava più. Meditava a lungo i più piccoli affari. Quando, dopo un’abile conversazione, il suo avversario gli aveva confessato le sue pretese più recondite credendo di tenerlo in pugno, gli rispondeva: “Non posso concludere niente senza aver consultato mia moglie”. Sua moglie, ridotta a un ilotismo15 totale, era negli affari il suo paravento più comodo. Non andava mai da nessuno, non voleva né essere invitato, né dare delle cene; non faceva mai rumore, e sembrava risparmiare su tutto, anche sul movimento. Quando si trovava in casa d’altri non toccava niente per un rispetto costante della proprietà. Tuttavia, nonostante la dolcezza della sua voce, nonostante il suo atteggiamento circospetto, il linguaggio e le abitudini del bottaio risaltavano soprattutto quando era in casa sua, quando si conteneva meno che altrove. Quanto all’aspetto fisico, Grandet era un uomo alto cinque piedi,16 tarchiato, quadrato, con dei polpacci di dodici pollici17 di circonferenza, delle rotule nodose e delle spalle larghe; il suo volto era tondo, abbronzato, butterato dal vaiolo; il mento era dritto, le labbra prive di ogni sinuosità, e i denti erano bianchi; gli occhi avevano l’espressione calma e divoratrice che il popolo accorda al basilisco; la fronte, piena di rughe trasversali, aveva delle protuberanze significative; i capelli giallastri e brizzolati erano bianchi e oro, dicevano alcuni giovani ignari della gravità di una battuta su monsieur Grandet. Il naso, grosso all’estremità, sorreggeva una cisti venosa che il volgo riteneva, non senza ragione, colma di malizia. Questo volto faceva presagire una pericolosa scaltrezza, una probità senza calore, l’egoismo di un uomo abituato a concentrare i propri sentimenti nel godimento dell’avarizia e sull’unico essere di cui gli importava realmente qualcosa, sua figlia Eugénie, la sua unica erede. Del resto atteggiamento, modi di fare e di camminare, tutto in lui attestava quella sicurezza di sé proveniente dall’abitudine di esser sempre riuscito nelle sue imprese. Così, benché avesse apparentemente abitudini semplici e accomodanti, monsieur Grandet aveva un carattere di bronzo. Sempre vestito allo stesso modo, chi lo vedeva oggi lo vedeva come era dal 1791. Le sue scarpe robuste si legavano con stringhe di cuoio; portava sempre calze di lana ritorta, un pantalone corto di panno grezzo marrone con fibbie d’argento, un gilet di velluto a righe alternate gialle e rosso scuro, tutto abbottonato, un ampio abito marrone a falde larghe, una cravatta nera e un cappello da quacchero.18 I suoi guanti, robusti quanto quelli dei gendarmi, gli duravano venti mesi e, per conservarli puliti, li posava con un gesto metodico sul bordo del suo cappello allo stesso posto. Saumur non conosceva nulla di più certo di quest’uomo.

Solo sei abitanti avevano il diritto di venire in quella casa. Il più considerevole dei primi tre era il nipote di monsieur Cruchot. Dalla sua nomina a presidente del tribunale di prima istanza di Saumur, il giovane aveva aggiunto al nome di Cruchot quello di Bonfons, e lavorava per fare prevalere Bonfons su Cruchot. Già si firmava C. de Bonfons. Se una parte in causa era sprovveduta al punto da chiamarlo monsieur Cruchot, capiva presto la sua dabbenaggine nel corso dell’udienza. Il magistrato proteggeva coloro che lo chiamavano signor presidente, ma favoriva con uno dei suoi più graziosi sorrisi gli adulatori che gli dicevano monsieur de Bonfons. Il signor presidente aveva trentatré anni, possedeva la proprietà di Bonfons (Boni Fontis) che valeva settemila lire di rendita; aspettava l’eredità di suo zio il notaio e quella dell’altro zio abate Cruchot, dignitario del capitolo di Saint Martin de Tours, i quali entrambi avevano la fama di essere abbastanza ricchi. I tre Cruchot, sostenuti da numerosi cugini, alleati a venti casate della città, formavano un partito come un tempo i Medici a Firenze; e, come i Medici, i Cruchot avevano i loro Pazzi.19 Madame des Grassins, madre di un figlio di ventitré anni, veniva con molta assiduità a tenere le parti di madame Grandet, sperando di poter maritare il suo caro Adolphe con mademoiselle Eugénie. Il banchiere monsieur des Grassins favoriva rigorosamente le manovre di sua moglie attraverso continui servizi resi segretamente al vecchio avaro, e arrivava sempre in tempo sul campo di battaglia. Anche i tre des Grassins avevano i loro seguaci, i loro cugini, e i loro fedeli alleati. Dalla parte dei Cruchot, l’abate, il Talleyrand20 della famiglia, ben sostenuto dal fratello notaio, contendeva vivacemente il terreno alla banchiera e cercava di riservare la ricca eredità a suo nipote il presidente. Questa lotta segreta tra i Cruchot e i des Grassins, la cui posta in palio era la mano di Eugénie Grandet, occupava appassionatamente le diverse società di Saumur. Mademoiselle Grandet sposerà il signor presidente o il signor Adolphe des Grassins? A questo interrogativo gli uni rispondevano che monsieur Grandet non avrebbe dato sua figlia né all’uno né all’altro. L’ex bottaio corroso dall’ambizione cercava, dicevano, come genero un pari di Francia, al quale trecentomila lire di rendita avrebbero fatto accettare tutti i barili passati, presenti e futuri dei Grandet. Altri replicavano che monsieur e madame des Grassins erano nobili, estremamente ricchi, che Aldolphe era proprio un gentile cavaliere, e che a meno che non avesse nella manica un nipote del papa, un matrimonio così conveniente doveva soddisfare delle persone da nulla, un uomo che tutta Saumur aveva visto con l’ascia da bottaio in mano e che, del resto, aveva portato il berretto frigio. I più ragionevoli facevano osservare che monsieur Cruchot de Bonfons poteva andare a casa loro a tutte le ore, mentre il suo rivale era ricevuto solo la domenica. Alcuni sostenevano che madame des Grassins, più legata con le donne di casa Grandet rispetto ai Cruchot, poteva inculcare loro certe idee che, prima o poi, l’avrebbero fatta prevalere. Altri ribattevano che l’abate Cruchot era l’uomo più mellifluo del mondo e che tra la donna e il prete la partita si svolgeva ad armi pari. “Sono gomito a gomito,” diceva un bello spirito di Saumur. Più avveduti, i vecchi del paese pretendevano che i Grandet fossero troppi scaltri per lasciare andare i beni della loro famiglia, mademoiselle Grandet sarebbe stata data in sposa al figlio di monsieur Grandet di Parigi, ricco venditore di vini all’ingrosso. A ciò i partigiani dei Cruchot e quelli dei des Grassins rispondevano: “Innanzitutto i due fratelli non si sono visti due volte in trent’anni. Poi, monsieur Grandet di Parigi ha grandi pretese per suo figlio. È sindaco di una circoscrizione, deputato, colonnello della guardia nazionale, giudice al tribunale di commercio; rinnega i Grandet di Saumur, e pretende di allearsi a qualche famiglia ducale grazie a Napoleone”.

Che cosa non si diceva di un’ereditiera di cui si parlava a venti leghe nei dintorni e sin nelle carrozze pubbliche da Angers a Blois? All’inizio del 1818, i partigiani dei Cruchot conseguirono un evidente vantaggio su quelli dei des Grassins. La proprietà di Froidfond, notevole per il suo parco, il suo mirabile castello, le sue fattorie, il suo ruscello, stagni e foreste, e che valeva tre milioni fu messa in vendita dal giovane marchese di Froidfond, obbligato a capitalizzare i propri beni. Il notaio Cruchot, il presidente Cruchot, l’abate Cruchot, aiutati dai loro seguaci, riuscirono a impedire la vendita tramite piccoli lotti. Il notaio concluse con il giovane un affare d’oro persuadendolo che sarebbe andato incontro a infinite cause legali contro coloro che si erano aggiudicati i lotti prima di riscuotere il prezzo degli stessi; era meglio vendere a monsieur Grandet, uomo che pagava e del resto in grado di pagare la proprietà in contanti. Il bel marchesato di Froidfond fu dunque avviato verso l’esofago di monsieur Grandet che, con gran stupore a Saumur, lo pagò, scontato, dopo aver svolto le formalità. Tale affare ebbe risonanza a Nantes e a Bordeaux. Monsieur Grandet andò a vedere il suo castello sfruttando l’occasione di un carro che doveva tornarci. Dopo aver gettato sulla sua proprietà il colpo d’occhio del padrone, tornò a Saumur, sicuro di aver piazzato i suoi fondi al 5 per cento e affascinato dall’idea magnifica di ingrandire il marchesato di Froidfond riunendovi tutti i suoi beni. In seguito per colmare nuovamente il suo tesoro quasi vuoto, decise di tagliare completamente i suoi boschi, le sue foreste e di sfruttare i pioppi dei suoi prati.

Ora è facile capire tutto il valore di questa parola, la casa di monsieur Grandet, questa casa pallida, fredda, silenziosa, situata nella parte alta della città e riparata dalle rovine dei bastioni. I due pilastri e la volta che formano l’apertura della porta erano stati, come la casa, costruiti in tufo, pietra bianca tipica del litorale della Loira, e così friabile che la sua durata media era appena di duecento anni. I buchi diseguali e numerosi praticati in maniera bizzarra dalle intemperie del clima conferivano all’arco e al montante dell’apertura l’apparenza di pietre scanalate dell’architettura francese e qualche somiglianza con il portico di una prigione. Al di sopra dell’arco regnava un lungo bassorilievo di pietra dura scolpita, che rappresentava le quattro stagioni, figure già tutte corrose e annerite. Il bassorilievo era sormontato da un plinto sporgente, sul quale crescevano numerose vegetazioni dovute al caso: parietarie gialle, vilucchio, convolvolo, piantaggine e un piccolo ciliegio già abbastanza alto. La porta, in quercia massiccia, brunita, secca, e fessurata da tutte le parti, fragile in apparenza, era solidamente mantenuta dal sistema dei suoi bulloni che creavano disegni geometrici. Una griglia quadrata, piccola ma con delle sbarre fitte e rosse per la ruggine, occupava il centro della porta di servizio e serviva, per così dire, come motivo a un martello che vi era attaccato per mezzo di un anello, e batteva sulla testa grinzosa di un grosso chiodo. Il martello, di forma oblunga, del genere di quello che i nostri antenati chiamavano jacquemart,21 assomigliava a un grosso punto esclamativo; esaminandolo con attenzione, un antiquario vi avrebbe ritrovato qualche indizio della figura essenzialmente grottesca che un tempo vi era rappresentata, e che un uso prolungato aveva cancellato. Attraverso la piccola griglia, destinata a riconoscere gli amici al tempo delle guerre civili,22 i curiosi potevano intravedere, al fondo di una volta buia e verdastra, alcuni scalini sbreccati attraverso i quali si saliva in un giardino che limitava in maniera pittoresca i muri spessi, umidi, colmi di percolamento e di ciuffi d’arbusti striminziti. Questi muri erano quelli del bastione su cui crescevano i giardini di alcune case vicine. Al pianoterra della casa la stanza più importante era la sala, la cui entrata si trovava sotto la volta del portone. Poche persone conoscevano l’importanza di una sala nelle piccole città dell’Anjou, della Touraine e del Berry. La sala è allo stesso tempo l’anticamera, il salone, lo studio, il salottino della signora, la sala da pranzo; è il teatro della vita domestica, il focolare comune, qui il barbiere del quartiere veniva due volte l’anno per tagliare i capelli di monsieur Grandet, qui entravano gli affittuari, il curato, il sottoprefetto, il garzone del mugnaio. Questa stanza, le cui due finestre davano sulla strada, aveva il palchetto; dei pannelli grigi, dalle antiche modanature, la rivestivano di legno dall’alto in basso; il soffitto era composto da travi a vista ugualmente dipinte di grigio, i cui spazi interstiziali erano intonacati con un composto di calce e sabbia ingiallitosi con il tempo. Una vecchia cornice di rame intarsiata con arabeschi in tartaruga ornava la cappa del camino in pietra bianca, mal scolpita, sul quale era fissato uno specchio verdognolo i cui lati, bisellati per mostrarne lo spessore, riflettevano un filo di luce lungo un trumeau gotico in acciaio damaschinato. Le due girandole di rame dorato che decoravano ogni angolo del camino avevano un duplice uso: togliendo le rose che servivano loro da padelline, e il cui ramo centrale si adattava al piedistallo di marmo bluastro decorato da rame vecchio, questo piedistallo era usato come candeliere per tutti i giorni. Le sedie, di foggia antica, erano guarnite di tappezzeria che rappresentava le favole di La Fontaine; ma bisognava saperlo per riconoscere i soggetti, tanto i colori erano sbiaditi e le figure crivellate di rammendi si vedevano con difficoltà. Ai quattro angoli della sala si trovavano delle angoliere, sorta di scaffali le cui parti terminali erano formate da luridi ripiani. Un vecchio tavolo da gioco intarsiato, il cui ripiano fungeva da scacchiera, era addossato alla parete che separava le due finestre. Al di sopra di questo tavolo si trovava un barometro ovale, bordato di nero, abbellito da nastri di legno dorati, su cui le mosche si erano così accanite che la doratura costituiva un problema. Sulla parete opposta al camino, due ritratti a pastello avrebbero dovuto rappresentare il nonno di madame Grandet, il vecchio monsieur de La Bertellière, in uniforme da tenente delle guardie francesi, e la defunta madame Gentillet in abito pastorale. Le due finestre erano addobbate da tende in gros rosso di Tours, sollevate da cordoni di seta a forma di ghiande. Questa lussuosa decorazione, così poco in armonia con le abitudini di Grandet, era stata compresa nell’acquisto della casa, così come il trumeau, la cornice, le sedie rivestite di tappezzeria e le angoliere in legno di rosa. Nella finestra più vicina alla porta, si trovava una sedia di paglia le cui gambe erano montate su una soletta al fine di innalzare madame Grandet a un’altezza che le permetteva di vedere i passanti. Un mobiletto da cucito in legno di ciliegio selvatico sbiadito riempiva la strombatura, e vicinissimo era stato collocato il piccolo divano di Eugénie Grandet. Da quindici anni, tutte le giornate della madre e della figlia erano tranquillamente trascorse in questo luogo in un lavoro costante a partire dal mese di aprile sino al mese di novembre. Il primo di quest’ultimo mese potevano sistemarsi nella loro postazione invernale presso il camino. Solo da quel giorno Grandet permetteva che si accendesse il fuoco nella sala e lo faceva spegnere il 31 marzo, senza riguardi né verso i primi freddi primaverili, né verso quelli autunnali. Una caldaietta, mantenuta in funzione con la brace proveniente dal focolare della cucina che la Grande Nanon abilmente riservava loro aiutava madame e mademoiselle Grandet a trascorrere le mattinate e le serate più fresche dei mesi di aprile e ottobre. La madre e la figlia tenevano in buono stato tutta la biancheria della casa e impiegavano così coscienziosamente le loro giornate in questo vero lavoro da operaie che, se Eugénie voleva ricamare un collaretto a sua madre, era costretta a farlo sottraendo alcune ore al sonno, ingannando il padre per avere della luce. Da molto tempo l’avaro distribuiva la candela a sua figlia e alla Grande Nanon e ugualmente distribuiva sin dalla mattina il pane e le derrate necessarie al consumo giornaliero.

La Grande Nanon era forse l’unica creatura umana in grado di accettare il dispotismo del suo padrone. Tutta la città la invidiava a monsieur e a madame Grandet. La Grande Nanon, così soprannominata a causa della sua statura, cinque piedi e otto pollici,23 apparteneva a Grandet da trentacinque anni. Benché avesse solo sessanta lire di stipendio, era ritenuta una delle più ricche domestiche di Saumur. Le sessanta lire accumulate da trentacinque anni le avevano permesso recentemente di costituirsi un vitalizio di quattromila lire presso il notaio Cruchot. Simile risultato delle lunghe e persistenti economie della Grande Nanon parve enorme. Ogni domestica, vedendo che la povera sessantenne avrebbe avuto del pane per la sua vecchiaia, era gelosa di lei senza pensare alla dura servitù attraverso la quale se l’era guadagnato. All’età di ventidue anni, la povera ragazza non era riuscita a entrare al servizio di nessuno, tanto il suo aspetto sembrava ributtante; e certamente tale sentimento era davvero ingiusto; il suo volto sarebbe stato ammirato se fosse stato sulle spalle di un granatiere della guardia; ma, come si dice, ogni cosa al suo posto. Costretta ad abbandonare una fattoria incendiata dove custodiva le vacche, giunse a Saumur, dove cercò di entrare a servizio, animata da quel solido coraggio che non rifiuta nulla. Père Grandet a quel tempo pensava a sposarsi, e voleva già organizzare la sua vita domestica. Notò quella ragazza respinta da porta a porta. Giudicando la sua forza fisica nella sua qualità di bottaio, capì il vantaggio che si poteva trarre da una donna con una corporatura erculea, piantata sui suoi piedi come una quercia di sessant’anni sulle proprie radici, dalle anche forti, con la schiena quadrata, con mani da carrettiere e una vigorosa probità come era la sua virtù intatta. Né i porri che ornavano questo volto marziale, né la carnagione scura, né le braccia nervose, né i cenci della Nanon spaventarono il bottaio, che aveva ancora un’età in cui il cuore trasale. Allora la vestì, le diede delle scarpe, nutrì la povera ragazza, le diede un salario, e la prese a servizio senza maltrattarla troppo. Vedendosi accolta in questo modo la Grande Nanon pianse segretamente di gioia, e si legò sinceramente al bottaio, che del resto la sfruttò in maniera feudale. Nanon faceva tutto: cucinava, lavava i piatti, faceva il bucato nella Loira, lo riportava sulle sue spalle; si alzava all’alba e andava a letto tardi; faceva da mangiare a tutti i vendemmiatori durante la raccolta, sorvegliava i raccoglitori finali,24difendeva, come un cane fedele, i beni del suo padrone; infine, ricolma di una cieca fiducia in lui, obbediva senza mormorare alle sue fantasie più balzane. Durante la famosa annata del 1811, la cui vendemmia costò pene infinite, dopo vent’anni di servizio Grandet decise di dare il suo vecchio orologio a Nanon, l’unico dono che avesse mai ricevuto da lui. Benché le avesse dato le sue vecchie scarpe (che le andavano), è impossibile considerare questo passaggio trimestrale delle scarpe di Grandet come un regalo, tanto erano logore. La necessità rese così avara la povera ragazza che Grandet finì per volerle bene come si vuole bene a un cane, e Nanon si era lasciata mettere al collo un collare guarnito di aculei le cui punture non la infastidivano più. Se Grandet tagliava il pane con un po’ troppa parsimonia, lei non si lamentava; partecipava allegramente ai vantaggi igienici che procurava il regime severo della casa in cui mai nessuno si ammalava.

E poi la Nanon faceva parte della famiglia: rideva quando rideva Grandet, si rattristava, gelava, si scaldava e lavorava con lui. Quante dolci compensazioni in questa uguaglianza! Mai il padrone aveva rimproverato alla domestica né l’albicocca selvatica o la pesca di vigna, né le prugne o le pesche noci mangiate sotto l’albero. “Suvvia, goditele, Nanon,” le diceva negli anni in cui i rami si piegavano sotto il peso dei frutti che gli affittuari erano costretti a dare ai maiali. Per una ragazza dei campi che nella sua giovinezza aveva ricevuto solo cattivi trattamenti, per una poveretta raccolta per un atto di carità, il sorriso equivoco di père Grandet era un vero raggio di sole. Del resto il cuore semplice e la testa stretta di Nanon potevano contenere solo un sentimento e un’idea. Da trentacinque anni si vedeva sempre arrivare davanti al magazzino di père Grandet, a piedi nudi, cenciosa, e sentiva sempre il bottaio che le diceva: “Che cosa volete, tesoro?”. E la sua riconoscenza era sempre giovane. Talora Grandet, pensando che questa povera creatura non aveva mai sentito un complimento, che ignorava tutti i sentimenti dolci che la donna ispira, e poteva comparire un giorno davanti a Dio, più casta di quanto lo fosse la stessa Vergine Maria, Grandet, colto da pietà, le diceva guardandola: “Povera Nanon!”. Questa esclamazione era sempre seguita da uno sguardo indefinibile che gli lanciava la vecchia domestica. Queste parole, pronunciate di tanto in tanto, formavano da molto tempo una catena di amicizia ininterrotta e alla quale ogni esclamazione aggiungeva un anello. Tale pietà, posta nel cuore di Grandet e che l’anziana serva accettava di buon grado, aveva un non so che di orribile. Questa atroce pietà d’avaro, che risvegliava mille piaceri nel cuore dell’ex bottaio, rappresentava per Nanon l’apice della felicità. Chi non direbbe: “Povera Nanon!”. Dio riconoscerà i suoi angeli dalle inflessioni della loro voce e dai loro misteriosi lamenti. C’era a Saumur una grande quantità di famiglie in cui i domestici venivano trattati meglio, ma dove tuttavia i padroni non provavano alcuna soddisfazione. Da qui derivava quest’altra frase: “Ma i Grandet che cosa fanno alla loro Nanon, perché sia così attaccata a loro? Si getterebbe nel fuoco per loro”. La sua cucina, le cui finestre grigliate davano sul cortile, era sempre pulita, ordinata, fredda, vera e propria cucina d’avaro in cui non si doveva perdere niente. Quando Nanon aveva lavato i piatti, sistemati gli avanzi della cena, spento il fuoco, lasciava la sua cucina, separata dalla sala da un corridoio, e veniva a filare la canapa vicino ai suoi padroni. Una sola candela era sufficiente alla famiglia per tutta la sera. La domestica dormiva in fondo a quel corridoio, in un anfratto illuminato da una finestrella. La sua robusta salute le permetteva di vivere impunemente in questa specie di buco, da dove poteva sentire il minimo rumore attraverso il silenzio profondo che regnava giorno e notte nella casa. Doveva, come un mastino incaricato della sorveglianza, dormire con un occhio solo e riposarsi vegliando.

La descrizione delle altre parti della casa sarà legata agli avvenimenti di questa storia, ma del resto il quadro dato della sala, in cui risplendeva tutto il lusso della dimora, può far presagire la nudità dei piani superiori.

Nel 1819, verso l’inizio della sera, a metà novembre, la Grande Nanon accese il fuoco per la prima volta. L’autunno era stato molto bello. Quel giorno era un giorno di festa ben noto ai partigiani dei Cruchot e a quelli dei des Grassins. Così, i sei antagonisti si preparavano a venire armati di tutto punto, per incontrarsi nella sala e superarsi in prove di amicizia. La mattina, tutta Saumur aveva visto madame e mademoiselle Grandet, accompagnate da Nanon, recarsi in chiesa per ascoltare la messa, e ognuno si ricordò che quel giorno era il compleanno di mademoiselle Eugénie. E così, calcolando l’ora in cui sarebbe finita la cena, il notaio Cruchot, l’abate Cruchot e monsieur C. de Bonfons si affrettavano d’arrivare prima dei des Grassins per festeggiare mademoiselle Grandet. Tutti e tre portavano enormi mazzi di fiori raccolti nelle loro piccole serre. Il gambo dei fiori che il presidente voleva offrire era ingegnosamente avvolto in un nastro di satin bianco, ornato di frange d’oro. La mattina monsieur Grandet, seguendo la sua abitudine per i giorni memorabili della nascita e la festa di Eugénie, era venuto a sorprenderla a letto e le aveva solennemente offerto il suo dono paterno, che consisteva, da tredici anni, in una moneta d’oro da collezione. Madame Grandet solitamente regalava a sua figlia un vestito invernale ed estivo, a seconda delle circostanze. I due abiti e la moneta d’oro, che ella riceveva al primo giorno dell’anno e alla festa di suo padre, le fruttavano una piccola rendita di circa cento scudi, e Grandet amava vedere come li accumulava. Era come trasferire il suo denaro da una cassa all’altra, per così dire, educare con una cura minuziosa l’avarizia della sua erede, alla quale talora chiedeva conto del suo tesoro, a volte accresciuto dai La Bertellière, dicendole: “Sarà il tuo dozzeno di nozze”. Il dozzeno è un antico uso ancora praticato e piamente conservato in alcuni paesi del Centro della Francia. Nel Berry, nell’Anjou, quando una giovane fanciulla si sposa, la sua famiglia o quella dello sposo deve darle una borsa in cui si trovano, a seconda delle proprie fortune, dodici monete o dodici dozzine di monete o milleduecento monete d’argento e d’oro. Il più povero dei pastori non si sposerebbe senza il suo dozzeno, anche se costituito solo da soldoni. Si parla ancora a Issoudun di non so qual dozzeno offerto a una ricca ereditiera e che comprendeva 144 portoghesi d’oro. Il papa Clemente VII, zio di Caterina de’ Medici, le fece dono, sposandola a Enrico II,25 di un dozzeno di medaglie d’oro antiche di gran valore.

Durante la cena, il padre tutto allegro nel vedere la sua Eugénie più bella con un vestito nuovo aveva esclamato: “Poiché è la festa di Eugénie, accendiamo il fuoco! Sarà di buon auspicio”.

“Mademoiselle si sposerà entro l’anno, è sicuro,” disse la Grande Nanon, riponendo gli avanzi di un’oca, il fagiano dei bottai.

“Non vedo alcun partito per lei a Saumur,” rispose madame Grandet, guardando suo marito con un’aria timida che, considerata la sua età, rivelava la totale servitù sotto la quale gemeva la povera donna.

Grandet contemplò sua figlia ed esclamò gaiamente: “Oggi compie ventitré anni, la bimba, bisognerà presto occuparsi di lei”.

Eugénie e sua madre si lanciarono silenziosamente uno sguardo d’intesa.

Madame Grandet era una donna secca e magra, dal colorito giallastro, impacciata, lenta; una di quelle donne che sembravano fatte per essere tiranneggiate. Aveva delle ossa grandi, un naso grande, una fronte grande, occhi grandi e offriva, di primo acchito, una vaga somiglianza con quei frutti lanuginosi che non hanno più né gusto, né succo. I suoi denti erano neri e radi, la sua bocca grinzosa, e il suo mento mostrava la forma detta a bazza.26 Era una donna eccellente, una vera La Bertellière. L’abate Cruchot riusciva a trovare occasioni di dirle che non era stata troppo male, e lei gli credeva. Una dolcezza angelica, una rassegnazione di insetto tormentato da dei bambini, una rara pietà, un inalterabile stato d’animo, un cuore buono, la rendevano universalmente da compiangere e da rispettare. Suo marito non le dava mai più di sei franchi per volta per le sue spese correnti. Seppur apparentemente ricca, questa donna, che attraverso la sua dote e le sue eredità, aveva portato a père Grandet più di trecentomila franchi, si era sempre sentita così profondamente umiliata da una dipendenza e da un ilotismo, contro il quale la sua dolcezza d’animo le impediva di ribellarsi, da non aver mai chiesto un soldo, né fatto un’osservazione sugli atti che il notaio Cruchot le portava alla firma. Tale fierezza sciocca e segreta, questa nobiltà d’animo costantemente misconosciuta e ferita da Grandet, dominavano la condotta di questa donna. Madame Grandet indossava sempre un abito di levantina verdastra, che si era abituata a far durare quasi un anno; portava un grande scialle di cotonina bianca, un cappello di paglia cucita e aveva quasi sempre un grembiule di taffetà nero. Uscendo raramente di casa, usava poco le sue scarpe. Infine non voleva mai niente per sé. E così Grandet, colto talora dal rimorso ricordando il lungo tempo trascorso dal giorno in cui aveva dato sei franchi a sua moglie, stabiliva sempre dei premi a suo favore vendendo i propri raccolti dell’anno. I quattro o cinque luigi dati dall’olandese o dal belga, acquirenti della vendemmia di Grandet, formavano la rendita annuale più sicura di madame Grandet. Ma quando aveva ricevuto i suoi cinque luigi, suo marito le diceva spesso, come se la loro borsa fosse in comune: “Hai qualche soldo da prestarmi?”. E la povera donna, felice di poter far qualcosa per un uomo che il suo confessore le presentava come il suo signore e padrone, gli restituiva, nel corso dell’inverno, alcuni scudi sul denaro del premio. Quando Grandet prendeva dalla sua tasca la moneta da cento soldi assegnata mensilmente per le spese minute, il filo, gli aghi e il guardaroba di sua figlia, non mancava mai, dopo aver abbottonato il taschino, di dire a sua moglie: “E tu, mamma, vuoi qualcosa?”.

“Amico mio,” rispondeva madame Grandet animata da un sentimento di dignità materna, “questo lo vedremo.”

Sublimità vana! Grandet si reputava molto generoso nei confronti di sua moglie. I filosofi che incontrano delle Nanon, delle madame Grandet, delle Eugénie non hanno forse il diritto di ritenere che l’ironia sia alla base del carattere della Provvidenza? Dopo questa cena, dove, per la prima volta, si parlò del matrimonio di Eugénie, Nanon andò a prendere una bottiglia di ribes nella camera di monsieur Grandet, e rischiò di cadere scendendo.

“Bestiona,” le disse il padrone, “ti lasci cadere come chiunque altro, tu?”

“Signore, è il gradino della vostra scala che è malfermo.”

“Ha ragione,” disse madame Grandet, “avreste dovuto farlo riparare da molto tempo. Ieri, Eugénie ha rischiato di slogarsi un piede.”

“Ecco,” disse Grandet a Nanon vedendola tutta pallida, “poiché è il compleanno di Eugénie, e stavi per cadere, prendi un bicchierino di ribes per riprenderti.”

“In fede mia,” disse Nanon, “me lo sono proprio guadagnato. Al posto mio molti avrebbero spaccato la bottiglia; ma piuttosto mi sarei spezzata il gomito per tenerla su.”

“Povera Nanon!” disse Grandet versandole il ribes.

“Ti sei fatta male?” le disse Eugénie guardandola con interessamento.

“No, perché mi sono tenuta piantandomi sulle reni.”

“Ebbene, poiché è il compleanno di Eugénie,” disse Grandet, “sistemerò il vostro gradino. Voi altre non sapete mettere il piede nell’angolo nel punto in cui è ancora solido.”

Grandet prese la candela, lasciando sua moglie, sua figlia e la sua domestica con la sola luce del focolare che lanciava vive fiamme, e andò nella legnaia a prendere delle tavole, dei chiodi e degli attrezzi.

“Avete bisogno di aiuto?” gli gridò Nanon sentendolo battere sulla scala.

“No! No! So cavarmela da me,” rispose l’ex bottaio.

Nel momento in cui Grandet riparava lui stesso le scale tarlate e fischiava in maniera assordante in ricordo della sua gioventù, i tre Cruchot bussarono alla porta.

“Siete voi, signor Cruchot?” chiese Nanon guardando attraverso la piccola griglia.

“Sì,” rispose il presidente.

Nanon aprì la porta, e il bagliore del focolare, che si rifletteva sulle volte, permise ai tre Cruchot di vedere l’entrata della sala.

“Ah! Siete dei festaioli,” disse loro Nanon sentendo l’odore dei fiori.

“Scusatemi signori,” gridò Grandet, riconoscendo la voce dei suoi amici, “sono presto da voi! Non sono fiero, ma rappezzo da solo un gradino della mia scala.”

“Fate, fate, monsieur Grandet, il carbonaio è sindaco a casa sua,”27 disse il presidente in modo sentenzioso ridendo da solo alla sua allusione che nessuno capì.

Madame e mademoiselle Grandet si alzarono. Il presidente, approfittando dell’oscurità, disse allora a Eugénie: “Mi permettete, mademoiselle, di augurarvi, nel giorno in cui siete nata, un susseguirsi di anni felici e la conservazione della salute di cui godete?”.

Offrì un grosso mazzo di fiori rari a Saumur; poi stringendo l’ereditiera per i gomiti, la baciò sui due lati del collo, con un compiacimento che rese Eugénie vergognosa. Il presidente, che assomigliava a un vecchio chiodo arrugginito, credeva in questo modo di farle la corte.

“Non vi disturbate,” disse Grandet rientrando, “come ci date dentro nei giorni di festa, signor presidente!”

“Ma con mademoiselle,” rispose l’abate Cruchot armato del suo mazzo, “per mio nipote tutti i giorni sarebbero giorni di festa.”

L’abate baciò la mano di Eugénie. Quanto al notaio Cruchot, baciò la giovinetta con tutta semplicità sulle due guance e disse: “Come ci fa invecchiare! Tutti gli anni di dodici mesi”.

Sostituendo la luce davanti alla cornice, Grandet, che non lasciava mai passare una battuta ripetendola sino allo sfinimento quando questa gli sembrava divertente, disse: “Visto che è il compleanno di Eugénie, accendiamo le fiaccole!”.

Tolse con cura i bracci dei candelabri, mise il padellino su ogni piedistallo, prese dalle mani di Nanon una candela nuova avvolta in un foglio di carta e la fissò nel buco, la assicurò, la accese e venne a sedersi vicino a sua moglie, guardando alternativamente i suoi amici, sua figlia e le due candele. L’abate Cruchot, un uomo piccolo e ben in carne, grassottello, con una parrucca rossa e piatta, e un’espressione del volto da vecchia signora gaudente, disse avanzando i suoi piedi ben calzati in un paio di robuste scarpe con fibbie d’argento: “I des Grassins non sono venuti?”.

“Non ancora,” disse Grandet.

“Ma devono venire?” chiese il vecchio notaio raggrinzendo il volto bucherellato come un colabrodo.

“Credo di sì,” rispose madame Grandet.

“Le vostre vendemmie sono finite?” chiese il presidente de Bonfons a Grandet.

“Dappertutto!” disse il vecchio vignaiolo alzandosi per passeggiare in lungo e in largo nella sala e gonfiando il torace con un movimento pieno di orgoglio come la sua parola “dappertutto!”. Attraverso la porta del corridoio che portava alla cucina, vide allora la Grande Nanon, seduta davanti al suo focolare, con una candela e pronta a sferruzzare lì per non mischiarsi alla festa. “Nanon,” le disse avanzando nel corridoio, “vuoi spegnere il tuo fuoco, la tua candela e venire con noi? Perdio! La sala è sufficientemente grande per tutti.”

“Ma signore, avete ospiti importanti.”

“E tu non sei al pari di loro? Discendono dalla costola di Adamo proprio come te.”

Grandet tornò verso il presidente e gli disse: “Avete venduto il vostro raccolto?”.

“No, in fede mia, lo conservo. Se ora il vino è buono, tra due anni sarà migliore. I proprietari, lo sapete bene, si sono ripromessi di mantenere i prezzi stabiliti, e quest’anno i belgi non avranno la meglio su di noi. Se se ne vanno, ebbene! Torneranno.”

“Sì, ma manteniamo bene il patto,” disse Grandet, con un tono che fece fremere il presidente.

“Sarà mica in affari?” pensò Cruchot.

In quel momento, un colpo di batacchio annunciò la famiglia des Grassins e il loro arrivo interruppe una conversazione iniziata tra madame Grandet e l’abate.

Madame des Grassins era una di quelle piccole donne vivaci, grassottelle, bianche e rosa che, grazie al regime claustrale delle province e alle abitudini di una vita virtuosa, si sono mantenute ancora giovani a quarant’anni. Sono come le ultime rose di fine stagione, belle da vedersi, i cui petali hanno però una certa freddezza e un profumo più attenuato. Si vestiva abbastanza bene, faceva venire i suoi abiti da Parigi, dava il tono alla città di Saumur, e organizzava delle serate. Suo marito, ex quartiermastro nella guardia imperiale, gravemente ferito ad Austerlitz28 e in congedo, manteneva, malgrado la sua considerazione per Grandet, l’apparente franchezza dei militari.

“Buongiorno Grandet,” disse al vignaiolo, tendendogli la mano e ostentando una sorta di superiorità sotto la quale schiacciava sempre i Cruchot.

“Mademoiselle,” disse a Eugénie dopo aver salutato madame Grandet, “voi siete sempre bella e giudiziosa, non so in verità che cosa augurarvi.” Poi offrì una cassettina che portava il suo domestico e che conteneva un’erica del Capo, fiore da poco arrivato in Europa e molto raro.

Madame des Grassins baciò molto affettuosamente Eugénie, le strinse la mano e le disse: “Adolphe si è preso in carico di offrirvi un mio piccolo ricordo”.

Un giovane alto, biondo, pallido e gracile, dalle maniere abbastanza buone, apparentemente timido, ma che a Parigi, dove era andato a studiare legge, aveva appena speso otto o diecimila franchi al di sopra della sua rendita, avanzò verso Eugénie e la baciò sulle due guance, e le offrì una scatola da lavoro in cui tutti gli attrezzi erano d’argento dorato, vera e propria merce da paccottiglia, nonostante lo scudo in cui vi era inciso abbastanza bene un “E.G.” in gotico che le dava l’aria di essere molto ricercata. Aprendola Eugénie ebbe una di quelle gioie insperate e complete che fanno arrossire, trasalire e tremare di piacere le giovani ragazze. Volse gli occhi verso il padre, come per sapere se le era permesso di accettarlo, e monsieur Grandet disse un “Prendi, figlia mia!” con un tono che avrebbe reso onore a un attore. I tre Cruchot rimasero stupefatti vedendo lo sguardo gioioso e vivace lanciato verso Adolphe des Grassins da parte dell’ereditiera, alla quale simili ricchezze sembravano inaudite. Monsieur des Grassins offrì a Grandet una presa di tabacco, afferrandone una, scosse i frammenti caduti sul nastro della Legion d’onore appesa all’asola del suo abito blu, poi guardò i Cruchot con un’aria che sembrava dire: “Parate questo colpo!”. Madame des Grassins gettò uno sguardo sui vasi blu dove c’erano i mazzi dei Cruchot, cercando i loro doni con la buona fede simulata da una donna beffarda. In questa congiuntura delicata, l’abate Cruchot lasciò la società sedersi in cerchio davanti al fuoco e andò a passeggiare in fondo alla sala con Grandet. Quando i due vegliardi furono nella strombatura della finestra più distante dai des Grassins: “Queste persone,” disse il prete all’orecchio dell’avaro, “buttano i soldi dalle finestre”.

“Che cosa importa se entrano nella mia cantina?” replicò il vignaiolo.

“Se voleste dare delle forbici d’oro a vostra figlia, non vi mancherebbero le possibilità,” disse l’abate.

“Le do meglio delle forbici,” rispose Grandet.

“Mio nipote è stupido,” pensò l’abate guardando il presidente, a cui i capelli arruffati aggiungevano ancora malagrazia alla fisionomia scura. Non poteva inventarsi una sciocchezza che poteva sembrare di valore?

“Ora faremo la vostra solita partita, madame Grandet,” disse madame des Grassins.

“Ma siamo tutti riuniti, ci vorrebberodue tavoli.”

“Poiché è la festa di Eugénie, fate la vostra lotteria,” disse père Grandet, “vi faranno parte anche questi due giovani.” L’ex bottaio, che non giocava mai ad alcun gioco, indicò sua figlia e Adolphe. “Forza Nanon, metti i tavoli.”

“Vi aiutiamo, mademoiselle Nanon,” disse allegramente madame des Grassins felice della gioia che aveva generato in Eugénie.

“Non sono mai stata così contenta in tutta la mia vita,” le disse l’ereditiera, “non ho visto nulla di così bello da nessuna parte.”

“È Adolphe che l’ha portata da Parigi e che l’ha scelta,” le disse madame des Grassins all’orecchio.

“Va’, va’ per la tua strada, dannata intrigante!” diceva fra sé il presidente. “Se caso mai finissi in un processo, tu o tuo marito, la tua causa non sarà mai buona.”

Il notaio, seduto nel suo angolo, guardava l’abate con un’aria calma dicendosi: “I des Grassins possono darsi da fare quanto vogliono, la mia fortuna, quella di mio fratello e quella di mio nipote ammonta complessivamente a un milione e centomila franchi. I des Grassins posseggono al massimo la metà e hanno una figlia, possono offrire tutto ciò che vogliono! Ereditiera e regali saranno tutti nostri un giorno”.

Alle otto e mezza di sera i due tavoli erano pronti. La bella madame des Grassins era riuscita a mettere suo figlio vicino a Eugénie. Gli attori di questa scena molto interessante, seppur volgare in apparenza, muniti di cartelline variopinte, numerate, e con dei gettoni di vetro blu, sembravano ascoltare le battute del vecchio notaio, che non estraeva un numero senza fare un’osservazione; ma tutti pensavano ai milioni di monsieur Grandet. L’ex bottaio contemplava vanitosamente le piume rosa, il vestito fresco di madame des Grassins, la testa marziale del banchiere, quella di Adolphe, il presidente, l’abate, il notaio e diceva fra sé e sé: “Sono qui per i miei soldi. Vengono ad annoiarsi qui per mia figlia. Ah! Mia figlia non sarà né per gli uni né per gli altri, e tutte queste persone mi servono come arpioni per pescare!”.

L’allegria di famiglia, in quel vecchio salotto grigio, mal illuminato da due candele, le risate accompagnate dal rumore dell’arcolaio della Grande Nanon erano sincere solo sulle labbra di Eugénie e della madre; la meschinità accompagnata a interessi così grandi; la giovinetta, simile a quegli uccelli vittime inconsapevoli del loro alto prezzo, era braccata, stretta da queste ingannevoli testimonianze di amicizia; tutto contribuiva a rendere questa scena tristemente comica. Non è del resto una scena di tutti i tempi e di tutti i luoghi, ma ricondotta alla sua espressione più semplice? La figura di Grandet, che sfruttava il finto attaccamento delle due famiglie, traendone profitti enormi, dominava questo dramma e lo rischiarava. Non era forse l’unico dio moderno verso il quale si nutre fede, il Denaro, espresso da un’unica fisionomia? I sentimenti dolci della vita occupavano qui un posto secondario, animavano tre cuori puri, quello di Nanon, di Eugénie e di sua madre. E ancora quanta ignoranza nella loro ingenuità! Eugénie e sua madre non sapevano nulla della ricchezza di Grandet, valutavano le cose della vita solo alla luce delle loro pallide idee, e non apprezzavano né disprezzavano il denaro, abituate come erano a farne a meno. I loro sentimenti, offesi a loro insaputa, ma vivaci, il segreto delle loro esistenze, le rendevano delle eccezioni curiose in questa congrega di persone la cui vita era puramente materiale. Atroce condizione dell’uomo! Non c’è una delle sue felicità che non provenga dall’ignoranza. Nel momento in cui madame Grandet vinceva una posta di sedici soldi, la più considerevole che fosse mai stata puntata in quella sala, e che la Grande Nanon rideva di gusto vedendo madame intascare questa ricca somma, un colpo di batacchio risuonò alla porta della casa, e fece un tal rimbombo che le signore balzarono dalle loro sedie.

“Non è un uomo di Saumur che batte così,” disse il notaio.

“Ma si può picchiare in questo modo!” disse Nanon. “Vogliono romperci la porta?”

“Cosa diavolo è?” esclamò Grandet.

Nanon prese una delle due candele e andò ad aprire accompagnata da Grandet.

“Grandet, Grandet!” gridò sua moglie che, spinta da un vago sentimento di paura, si lanciò verso la porta della sala.

Tutti i giocatori si guardarono.

“Se ci andassimo anche noi?” disse monsieur des Grassins. “Questo colpo di batacchio mi sembra malaugurante.”

Monsieur des Grassins riuscì a intravedere appena la figura di un giovane accompagnato da un fattorino delle Messageries che portava due bauli enormi e trascinava delle borse da viaggio. Grandet si voltò bruscamente verso la moglie e le disse: “Madame Grandet, andate alla vostra tombola. Lasciatemi parlare con il signore”. Poi chiuse con decisione la porta della sala, dove i giocatori agitati tornarono al proprio posto, senza riprendere il gioco.

“È qualcuno di Saumur, monsieur des Grassins?” gli chiese sua moglie.

“No, è un viaggiatore.”

“Può arrivare solo da Parigi. In effetti,” disse il notaio estraendo il suo vecchio orologio spesso due dita che assomigliava a un vascello olandese, “sono le nove. Accidenti! La diligenza del Grand Bureau non è mai in ritardo.”

“E questo signore è giovane?” chiese l’abate Cruchot.

“Sì,” rispose monsieur des Grassins, “porta dei bagagli che devono pesare almeno trecento chili.”

“Nanon non torna,” disse Eugénie.

“Può essere solo uno dei vostri parenti,” disse il presidente.

“Facciamo le nostre puntate,” esclamò dolcemente madame Grandet, “dalla sua voce ho capito che monsieur Grandet è contrariato, forse non sarebbe contento se si rendesse conto che parliamo dei suoi affari.”

“Signorina,” disse Adolphe alla sua vicina, “sarà senz’altro vostro cugino Grandet, un giovane molto bello che ho visto al ballo di monsieur de Nucingen.”29Adolphe non continuò, sua madre gli pestò un piede, poi, chiedendogli ad alta voce due soldi per la sua puntata, “Vuoi tacere, ingenuone!” gli disse all’orecchio.

In quel momento Grandet rientrò senza la Grande Nanon, il cui passo e quello del fattorino risuonarono per le scale; era seguito dal viaggiatore che da qualche istante suscitava tanta curiosità e rendeva così vivamente inquiete le immaginazioni, poiché il suo arrivo in quella casa e il suo piombare in mezzo a questo mondo può essere paragonato a quello di una chiocciola in un alveare, o all’ingresso di un pavone in qualche oscuro cortile di villaggio.

“Sedetevi presso il fuoco,” gli disse Grandet.

Prima di sedersi, il giovane straniero salutò con molta grazia l’assemblea. Gli uomini si alzarono per rispondere con un educato inchino e le donne fecero una cerimoniosa riverenza.

“Senza dubbio avete freddo, signore,” disse madame Grandet, “forse arrivate da…”

“Ecco le donne!” disse l’anziano vignaiolo interrompendo la lettura di una lettera che teneva in mano. “Lasciate dunque riposare il signore.”

“Ma, padre mio, forse il signore ha bisogno di qualcosa,” disse Eugénie.

“Ha la lingua,” rispose severamente il vignaiolo.

Solo lo sconosciuto fu stupito da tale scena. Le altre persone erano abituate ai modi dispotici del brav’uomo. Tuttavia, quando furono scambiate queste due domande e queste due risposte, lo sconosciuto si alzò, volse la schiena verso il fuoco, sollevò uno dei suoi piedi per riscaldare la suola dei suoi stivali, e disse a Eugénie: “Cugina mia, vi ringrazio. Ho cenato a Tours. E,” aggiunse guardando Grandet, “non ho bisogno di niente e non sono nemmeno stanco”.

“Il signore arriva dalla capitale?” chiese madame des Grassins.

Il signor Charles, così si chiamava il figlio di monsieur Grandet di Parigi, sentendosi interpellare, prese il piccolo monocolo appeso a una catenella al collo, lo mise all’occhio destro per esaminare sia che cosa c’era sulla tavola sia le persone che vi erano sedute, scrutò con molta impertinenza madame des Grassins e le disse, dopo aver visto tutto: “Sì, signora. State giocando a tombola, zia mia,” aggiunse, “vi prego continuate il vostro gioco, è troppo divertente per interromperlo…”.

“Ero sicura che si trattasse del cugino,” pensava madame des Grassins lanciandogli delle occhiate furtive.

“Quarantasette,” gridò il vecchio abate. “Segnatelo dunque, madame des Grassins, non è il vostro numero?”

Monsieur des Grassins mise un gettone sulla cartella della moglie, la quale, colta da cattivi presentimenti, osservò ora il cugino di Parigi ora Eugénie, senza pensare alla tombola. Di tanto in tanto la giovane ereditiera lanciava furtivi sguardi verso suo cugino, e la moglie del banchiere poté facilmente scoprirvi un crescendo di stupore e di curiosità.

La Ligue o Santa Lega, capeggiata dalla famiglia ultracattolica dei Guisa, si costituì nel 1576 durante le guerre di religione che si combatterono in Francia dal 1562 al 1598. La guerra si concluse con l’Editto di Nantes (1598), che concesse alcuni diritti agli ugonotti. Anche Enrico IV, re di Francia, inizialmente era un calvinista e poi si convertì nel 1593 (è suo il celebre detto “Parigi val bene una messa”) per poter diventare re di Francia; la sua conversione però fu sempre sospetta e il 14 maggio 1610 Enrico IV morì pugnalato dal cattolico fanatico François Ravaillac.

Nel testo si legge la “noblesse de cloche”, alla lettera nobiltà di “campana”. I gentiluomini della campana erano i discendenti dei sindaci e degli scabini di alcune città, cariche che conferivano la nobiltà. “Campana” fa riferimento al campanello che essi suonavano nel momento in cui davano inizio alle riunioni. Lo scabino era il magistrato locale.

I cerchi delle botti, per i quali Saumur era famosa, erano fabbricati con una lega di rame e zinco.

Il termine “poinçon” indicava una grossa botte della capacità di 185 litri.

Il decreto del 2 novembre 1789 mise in vendita tutti i beni ecclesiastici.

La legge del 22 dicembre 1789 riorganizzò la struttura amministrativa della Francia, stabilendo che il dipartimento (“département”) si suddivideva in distretti (“district”), e, a loro volta, questi ultimi in cantoni (“canton”).

Onorificenza istituita da Napoleone nel 1802.

Questa frase fu aggiunta da Balzac in bozza, essa si riferisce non tanto al conseguimento della Legion d’onore quanto al successo di Grandet.

Nella regione di Angers un arpento corrispondeva a due terzi di un ettaro.

10 Nel 1799 il Direttorio istituì un’imposta sulle porte e sulle finestre: murando le finestre Grandet evitava di pagare tale tassa.

11 Storicamente il 1811 fu davvero un’ottima annata per i produttori di vino.

12 Gioco di carte simile alla briscola.

13 Celebre dinastia di banchieri ebrei residenti a Francoforte. Nel 1832 Balzac conobbe James Rothschild (1792-1868), che aprì la filiale francese della banca di famiglia.

14 Jacques Laffitte (1767-1844), anch’egli banchiere, fu anche un deputato liberale e ministro delle Finanze sotto Luigi Filippo.

15 Gli iloti (gli schiavi) costituivano la terza delle classi, dopo gli spartiati e i perieci, in cui era suddivisa la società di Sparta.

16 Vale a dire 1,62 m circa.

17 Circa 32 cm.

18 Movimento religioso sorto nell’America del Nord nel Seicento. Il copricapo usato dai quaccheri era un cappello a falde larghe.

19 I Medici e i Pazzi erano due famiglie di banchieri fiorentini. Giuliano de’ Medici (1453-1478) venne ucciso durante la congiura de’ Pazzi; suo fratello Lorenzo il Magnifico (1449-1492) vendicò la morte di Giuliano facendo uccidere molti membri di tale famiglia, che fu anche bandita da Firenze.

20 Il celebre uomo politico Charles de Talleyrand-Périgord (1754-1838) che Balzac conobbe personalmente nel 1836.

21 Lo jacquemart, o jaquemart, era una figura, in legno o in metallo, che rappresentava un uomo con un martello che suona le ore colpendo una campana.

22 Ossia le guerre di religione.

23 La Grande Nanon quindi era alta circa 1,83 m.

24 Nel testo originale “hallebotteurs”, termine desueto che corrisponde al francese moderno “grappilleurs”: indicava coloro che ripassavano tra i filari per controllare che i vendemmiatori non avessero dimenticato alcun grappolo.

25 Caterina de’ Medici (1519-1589) sposò nel 1533 Enrico di Valois (1519-1559), il futuro Enrico II, re di Francia. Lo zio di Caterina, Giulio de’ Medici, divenuto papa con il nome di Clemente VII (1478-1534), donò alcune medaglie d’oro di grande valore per stupire la monarchia francese.

26 Ossia molto sporgente.

27 Adattamento ironico del detto “Le charbonnier est maître chez lui”, ossia il carbonaio è padrone a casa sua. Sostituendo la parola “padrone” (“maître”) con sindaco (“maire”) il presidente Cruchot allude al passato rivoluzionario di Grandet.

28 Austerlitz (2 dicembre 1805) fu una delle più importanti vittorie di Napoleone.

29 Nucingen, banchiere ebreo di origini tedesche, è un personaggio della Comédie humaine, sposa Delphine, figlia di père Goriot, e sarà protoganista nel romanzo La Maison Nucingen (1838).

Capitolo 2 
Il cugino di Parigi

Monsieur Charles Grandet, bel giovane di ventidue anni, dava luogo in questo momento a un singolare contrasto con i buoni provinciali, ai quali i suoi modi aristocratici provocavano un certo disgusto, e che tutti studiavano per poterlo prendere in giro. Ciò richiede una spiegazione. A ventidue anni, i giovani sono ancora abbastanza prossimi all’infanzia per lasciarsi andare alle bambinate.

Così forse su cento di loro se ne sarebbero incontrati novantanove che si sarebbero comportati come Charles Grandet. Alcuni giorni prima di questa serata suo padre gli aveva detto di andare qualche mese presso il cugino di Saumur. Forse monsieur Grandet di Parigi pensava a Eugénie. Charles, che capitava in provincia per la prima volta, ebbe il pensiero di apparirvi con la superiorità di un giovane alla moda, di fare disperare il distretto a causa del suo lusso, di fare epoca, e di portare le novità della vita parigina. Infine, per spiegare tutto con una parola, voleva trascorrere a Saumur più tempo che a Parigi a limarsi le unghie, e a ostentare un’eccessiva ricercatezza nel vestire che talora un giovane trascura con una negligenza non priva di grazia. Charles portò dunque il vestito da caccia più bello, il fucile più bello, il coltello più bello, la più bella fondina di Parigi. Portò la sua collezione di gilet più disparati: ne aveva di grigi, di bianchi, di neri, di color scarabeo, con riflessi dorati, ornati di lustrini, screziati, a doppio petto, fatti a scialle o dritti, col colletto rovesciato, abbottonati fino in alto, con bottoni d’oro. Portò tutte le varietà di colletti e cravatte alla moda in quest’epoca. Portò due abiti di Buisson1 e la sua biancheria più fine. Portò la sua bella toeletta d’oro, regalo di sua madre. Portò i suoi gingilli da dandy, senza dimenticare un grazioso servizio da scrivere datogli dalla più incantevole delle donne, per lui almeno, una gran signora che chiamava Annette e che viaggiava noiosamente con il marito in Scozia, vittima di alcuni sospetti ai quali occorreva sacrificare momentaneamente la sua felicità; poi della bellissima carta per scriverle una lettera ogni quindici giorni. Si trattava infine di un carico di futilità parigine, il più completo che si potesse fare in cui, dal frustino necessario per iniziare un duello sino a una bella coppia di pistole cesellate per portarlo a termine, si trovavano tutti gli strumenti di cui si serve un giovane ozioso per lavorare alla propria vita. Poiché suo padre gli aveva detto di viaggiare da solo e in vesti dimesse, era giunto con il coupé della diligenza riservato solo per lui, abbastanza contento di non dover rovinare una deliziosa carrozza da viaggio per recarsi dalla sua Annette, la gran signora che… ecc., e che doveva raggiungere il prossimo giugno alle acque termali di Baden.2Charles pensava di incontrare cento persone da suo zio, fare battute di caccia nelle foreste dello zio, vivere infine una vita da castellano; non sapeva dove trovarlo a Saumur, dove aveva preso informazioni su di lui solo per chiedere la strada di Froidfond; ma sapendo che era in città, credeva che lo avrebbe trovato in un grande palazzo. Per fare il primo ingresso in maniera adeguata da suo zio, che fosse a Saumur o a Froidfond, aveva scelto la tenuta da viaggio più civettuola, la più semplicemente ricercata, la più adorabile, per usare un termine che a quel tempo riassumeva le perfezioni sociali di una cosa o di un uomo. A Tours un parrucchiere gli aveva nuovamente arricciato i bei capelli castani; aveva cambiato la biancheria e indossato una cravatta di satin nero abbinata a un colletto tondo, in modo da inquadrare graziosamente il suo volto bianco e gioioso. Una redingote da viaggio semiabbottonata gli assottigliava la vita e lasciava vedere un gilet di cachemire fatto a scialle, sotto il quale c’era un secondo gilet bianco. L’orologio abbandonato in maniera trascurata e casuale nella tasca, pendeva con una corta catenina d’oro da una delle asole. Il pantalone grigio si abbottonava ai lati dove dei disegni ricamati in seta nera abbellivano le impunture. Maneggiava con grazia una canna il cui pomo d’oro scolpito non alterava affatto la freschezza dei suoi guanti grigi. Infine il suo berretto era di un gusto eccellente. Solo un parigino, un parigino della sfera più elevata poteva combinarsi così senza apparire ridicolo, e conferire un’armonica fatuità a tutte queste bagatelle, sostenute del resto da un’aria spavalda, l’aria di un giovane che possiede delle belle pistole, una buona mira e Annette. Ora se volete comprendere la rispettiva sorpresa di quelli di Saumur e del giovane parigino, vedere perfettamente il vivido bagliore che l’eleganza del viaggiatore emanava in mezzo alle ombre grigie della sala e delle figure che componevano il quadro di famiglia, provate a raffigurarvi i Cruchot. Tutti e tre prendevano del tabacco, e non pensavano più da molto tempo a evitare le candele dal naso, né le piccole macchie nere che costellavano il davanti delle loro camicie rosse, dai colletti raggrinziti e dalle pieghe giallastre. Le loro cravatte flosce si arrotolavano come corde non appena se le mettevano al collo. L’enorme quantità di biancheria che permetteva loro di fare il bucato ogni sei mesi e di conservarlo in fondo ai loro armadi lasciava imprimere al tempo le sue tonalità grigie e vecchie. C’era in loro un’intesa perfetta di cattiva grazia e di vecchiaia. Le loro figure così incartapecorite, quanto i loro vestiti lisi e quanto i loro pantaloni sgualciti, sembravano usate, indurite e facevano le grinze. La trascuratezza generale degli altri vestiti incompleti, privi di freschezza, come lo sono gli abiti di provincia dove si giunge insensibilmente a non vestirsi più gli uni per gli altri, e a fare attenzione al prezzo di un paio di guanti, si accordava con l’indifferenza dei Cruchot. L’orrore verso la moda era l’unico punto in cui i partigiani dei des Grassins e dei Cruchot si intendevano alla perfezione. Quando il parigino prendeva il suo monocolo per esaminare i singoli accessori della sala, le travi del palchetto, la tonalità delle boiseries, dove i puntini impressivi dalle mosche sarebbero stati sufficienti per punteggiare l’Encyclopédie méthodique e “Le Moniteur”,3 i giocatori di tombola alzavano il naso e lo guardavano con una curiosità simile a quella che avrebbero manifestato nel vedere una giraffa.4 Monsieur des Grassins e suo figlio, ai quali la vista di un uomo alla moda non era nuova, si associarono tuttavia allo stupore dei loro vicini, sia che provassero l’indefinita influenza di un sentimento generale sia che lo approvassero dicendo ai loro compatrioti attraverso occhiate piene di ironia: “Ecco come sono a Parigi”. Tutti potevano osservare Charles a loro piacimento, senza temere di arrecare dispiacere al padrone di casa. Grandet era assorto nella lunga lettera che teneva, e per leggerla aveva preso l’unica candela della tavola, senza preoccuparsi degli ospiti né del loro divertimento. Eugénie, alla quale un individuo di una simile perfezione sia negli abiti sia nella persona era del tutto sconosciuto, credette di vedere in suo cugino una creatura discesa da qualche regione di serafini. Respirava con delizia i profumi esalati da quella capigliatura così brillante e così graziosamente arricciata. Avrebbe voluto poter toccare la pelle liscia di quei bei guanti fini. Invidiava le piccole mani di Charles, il suo colore, la freschezza e la delicatezza dei suoi tratti. Infine, se tuttavia questa immagine può riassumere le impressioni che il giovane elegante produsse su una fanciulla ignorante, incessantemente occupata a rammendare calze, a rabberciare il guardaroba di suo padre, e la cui vita era trascorsa sotto quei lerci pannelli senza vedere nella via silenziosa più di un passante ogni ora, la vista di suo cugino fece sgorgare dal suo cuore le emozioni di una sottile voluttà che provocano in un giovane le figure di donne fantastiche disegnate da Westall5 nei Keepsakes6inglesi, e incisi dai Finden7 con un bulino così abile, che si ha paura, soffiando sulla velina, di fare volare via queste apparizioni celesti. Charles estrasse dalla tasca un fazzoletto ricamato dalla gran signora in viaggio in Scozia. Vedendo quella bellissima opera fatta con amore durante le ore perdute per l’amore, Eugénie guardò suo cugino per sapere se se ne sarebbe realmente servito. Le maniere di Charles, i suoi gesti, il modo con cui prendeva il monocolo, la sua affettata impertinenza, il suo disprezzo per la scatola che aveva fatto tanto piacere alla ricca ereditiera e che evidentemente trovava priva di valore e ridicola; infine tutto ciò che sbalordiva i Cruchot e i des Grassins le piaceva così tanto, che prima di addormentarsi dovette sognare a lungo questa fenice di cugino.

I numeri erano estratti molto lentamente e presto la tombola venne interrotta. La Grande Nanon entrò e disse ad alta voce: “Madame, dovreste darmi delle lenzuola per preparare il letto a questo signore”.

Madame Grandet seguì Nanon. Madame des Grassins disse allora a bassa voce: “Teniamo i nostri soldi e interrompiamo la tombola”. Ognuno riprese i propri due soldi dalla vecchia ciotolina sbreccata dove li aveva messi; poi l’assemblea si mosse in massa e fece un quarto di giro verso il fuoco.

“Dunque avete finito?” disse Grandet senza alzare gli occhi dalla lettera.

“Sì, sì,” rispose madame des Grassins prendendo posto vicino a Charles.

Eugénie, ammutolita da uno di quei pensieri che nascono nel cuore delle giovinette quando un sentimento vi si insinua per la prima volta, lasciò la sala per andare ad aiutare la madre e Nanon. Se fosse stata interrogata da un abile confessore, gli avrebbe rivelato senza dubbio che non pensava né a sua madre né a Nanon, ma che era travagliata da un fortissimo desiderio di ispezionare la camera di suo cugino per occuparsi di lui, per mettervi una cosa qualsiasi, per rimediare a una dimenticanza, per prevedere tutto alfine di renderla, il più possibile, elegante e pulita. Eugénie si credeva già l’unica in grado di capire i gusti e le idee di suo cugino. In effetti, arrivò fortunosamente in tempo per dimostrare a sua madre e a Nanon, che tornavano pensando di aver fatto tutto, che tutto era da fare. Diede l’idea alla Grande Nanon di scaldare le lenzuola con la brace del fuoco; coprì lei stessa il vecchio tavolo con un centrino, e si raccomandò con Nanon di cambiarlo tutte le mattine. Convinse sua madre della necessità di accendere un bel fuoco nel caminetto, e indusse Nanon a portare su nel corridoio, senza dire niente a suo padre, una grossa catasta di legna. Corse a cercare in un’angoliera della sala un vecchio vassoio laccato che proveniva dalla successione del defunto monsieur de La Bertellière, vi prese anche un bicchiere di cristallo a sei facce, un cucchiaino ormai senza doratura, un vecchio flacone su cui erano incisi degli amorini, e mise tutto trionfalmente su un angolo del camino. Le erano venute alla mente più idee in un quarto d’ora di quante ne avesse avute da quando era nata.

“Mamma,” disse, “mio cugino non sopporterà mai l’odore di una candela di sego. Se gli comprassimo una candela di cera?…” Andò, leggera come un uccellino, a prendere dal suo borsellino lo scudo da cento soldi che aveva ricevuto per le spese mensili. “Tieni, Nanon,” disse, “fa’ in fretta.”

“Ma cosa dirà tuo padre?” Questa obiezione terribile fu avanzata da madame Grandet vedendo sua figlia armata di una zuccheriera del vecchio servizio di Sèvres portato dal castello di Froidfond da Grandet. “E dove dunque prenderai lo zucchero? Sei impazzita?”

“Mamma, Nanon comprerà anche lo zucchero oltre alla candela.”

“Ma tuo padre?”

“Sarebbe decoroso che suo cugino non possa bere un bicchiere di acqua zuccherata? Del resto non ci farà caso.”

“Tuo padre vede tutto,” disse madame Grandet scuotendo la testa.

Nanon esitava, conosceva il suo padrone.

“Ma vai dunque, Nanon, visto che è la mia festa!” Nanon si lasciò sfuggire una grande risata sentendo la prima battuta che la sua giovane padrona avesse mai fatto, e le obbedì. Mentre Eugénie e sua madre cercavano di abbellire la stanza destinata da monsieur Grandet a suo nipote, Charles era l’oggetto delle attenzioni di madame des Grassins, che gli faceva le moine.

“Siete davvero coraggioso, signore,” gli disse, “ad abbandonare i piaceri della capitale durante l’inverno per venire a vivere a Saumur. Ma se non vi facciamo troppa paura, vedrete che ci si può ancora divertire.”

Gli lanciò una vera occhiata di provincia, luogo in cui, di solito, le donne mettono tanta riservatezza e prudenza nei loro sguardi che trasmettono la ghiotta concupiscenza tipica degli occhi degli ecclesiastici, per i quali ogni piacere assomiglia o a un furto o a un errore. Charles si trovava così spaesato in quella sala, così lontana dal vasto castello e dalla fastosa esistenza che attribuiva a suo zio, che, guardando attentamente madame des Grassins, percepì infine un’immagine mezzo sbiadita delle figure parigine. Rispose con grazia a quella specie di invito che gli era stato rivolto, e avviò con naturalezza una conversazione in cui madame des Grassins abbassò gradualmente la voce per metterla in armonia con la natura delle sue confidenze. Esisteva in lei e in Charles lo stesso bisogno di fiducia. Così dopo alcuni momenti di conversazione civettuola e di battute seriose, l’abile provinciale poté dirgli, credendosi non ascoltata dagli altri che parlavano della vendita dei vini, di cui si occupavano in questo momento tutti gli abitanti di Saumur: “Signore, se volete farci l’onore di venire a trovarci, voi fareste piacere tanto a me quanto a mio marito. Il nostro salotto è l’unico a Saumur in cui troverete riuniti l’alto commercio e la nobiltà: noi apparteniamo alle due società, che vogliono incontrarsi solo da noi perché ci si diverte. Mio marito, lo dico con orgoglio, è egualmente considerato sia dagli uni sia dagli altri. Così, noi provvederemo a darvi dei diversivi alla noia del vostro soggiorno qui. Se restate da monsieur Grandet, che cosa diventerete, buon Dio! Vostro zio è uno spilorcio che pensa solo ai suoi innesti, vostra zia una devota che non sa mettere insieme due idee, e vostra cugina una piccola stupida, senza educazione, un essere comune, senza dote, e che trascorre la sua vita a rammendare canovacci”.

“È in gamba questa donna,” disse a se a stesso Charles Grandet, rispondendo alle moine di madame des Grassins.

“Mi sembra, moglie mia, che tu voglia accaparrarti il signore,” disse ridendo il grande e grosso banchiere.

A questa osservazione il notaio e il presidente dissero alcune parole più o meno maliziose; ma l’abate li guardò con un’aria intelligente e riassunse i loro pensieri servendosi di una presa di tabacco e offrendo in giro la sua tabacchiera: “Chi meglio di voi, madame,” disse, “potrebbe fare gli onori di Saumur al signore?”.

“Ah! E con questo che cosa intendete dire, signor abate?” chiese monsieur des Grassins.

“Intendo dirlo, signore, nel senso più favorevole a voi, alla signora, alla città di Saumur e al signore,” aggiunse l’astuto vecchietto voltandosi verso Charles.

Senza aver mostrato di prestarvi la minima attenzione, l’abate Cruchot aveva saputo indovinare il tenore della conversazione tra Charles e madame des Grassins.

“Signore,” disse infine Adolphe a Charles con un’aria che avrebbe voluto essere disinvolta, “non so se avete conservato un qualche ricordo di me; ho avuto il piacere di essere di fronte a voi durante un ballo dato dal signor barone di Nucingen, e…”

“Perfettamente, signore, perfettamente,” rispose Charles, sorpreso di vedersi oggetto delle attenzioni di tutti.

“Il signore è vostro figlio?” chiese a madame des Grassins.

L’abate guardò maliziosamente la madre.

“Sì, signore,” disse.

“Dunque eravate molto giovane quando eravate a Parigi?” riprese Charles rivolgendosi ad Adolphe.

“Che volete signore,” disse l’abate, “noi li mandiamo a Babilonia non appena sono svezzati.”

Madame des Grassins interrogò l’abate con uno sguardo di sorprendente profondità. “Bisogna venire in provincia,” disse questi continuando, “per trovare delle donne di trent’anni o poco più così fresche come madame, dopo aver avuto dei figli che presto prenderanno la laurea in Giurisprudenza. Mi sembra di essere ancora al giorno in cui i giovani e le signore salivano sulle seggiole per vedervi danzare, signora,” aggiunse l’abate voltandosi verso il suo avversario femminile. “Per me, i vostri successi sono di ieri…”

“Oh! Vecchio scellerato,” disse fra sé madame des Grassins, “mi avrebbe dunque capita?”

“Sembra che avrò molto successo a Saumur,” si disse Charles sbottonando la redingote, infilando la mano nel gilet e prendendo uno sguardo assorto per imitare la posa data a Lord Byron8 da Chantrey.9

La disattenzione di père Grandet, o, per meglio dire, l’inquietudine in cui lo precipitava la lettura della lettera, non passò inosservata né al notaio né al presidente, che tentavano di congetturarne il contenuto attraverso gli impercettibili movimenti del volto del brav’uomo, in quel momento ben illuminato dalla candela. Il vignaiolo manteneva a stento la calma abituale della sua fisionomia. Del resto ciascuno potrà immaginare il contegno mostrato da quest’uomo nel leggere la seguente lettera fatale.

“Fratello mio,

sono trascorsi quasi ventitré anni da quando ci siamo visti. Il mio matrimonio è stato l’argomento del nostro ultimo colloquio, dopo il quale ci siamo lasciati entrambi felici. Certo non potevo affatto prevedere che tu un giorno saresti stato l’unico sostegno della famiglia, alla prosperità della quale tu allora applaudivi. Quando tu avrai questa lettera tra le mani, non esisterò più. Nella posizione in cui mi trovavo, non ho voluto sopravvivere all’onta di una bancarotta. Sono stato sull’orlo del precipizio sino all’ultimo istante, sperando sempre di restare a galla. Ora occorre precipitare in esso. Le bancarotte congiunte del mio agente di cambio e di Roguin,10 il mio notaio, mi portano via le mie ultime risorse e non mi lasciano più niente. Ho il dolore di dovere quasi quattro milioni senza poter offrire più del 25 per cento d’attivo. I miei vini immagazzinati dimostrano in questo momento il rovinoso calo causato dall’abbondanza e dalla qualità dei vostri raccolti. Fra tre giorni Parigi dirà: ‘Monsieur Grandet era un farabutto!’. Mi sdraierò, io probo, in un sudario d’infamia. Ghermisco a mio figlio sia il nome che macchio sia la ricchezza di sua madre. Non sa nulla di tutto ciò, questo figlio sfortunato che io adoro. Ci siamo detti teneramente addio. Ignorava, per fortuna, che gli ultimi flutti della mia vita si profondevano in questo addio. Mi maledirà forse un giorno? Fratello mio, fratello mio, la maledizione dei nostri figli è orribile. Possono chiedere appello alla nostra, ma la loro è irrevocabile. Grandet, tu sei il primogenito, mi devi la tua protezione: fa’ in modo che Charles non scagli alcuna parola amara sulla mia tomba! Fratello mio, se ti scrivessi con il mio sangue e le mie lacrime, non ci sarebbe altrettanto dolore di quanto ne metto in questa lettera, poiché piangerei, sanguinerei, sarei morto, non soffrirei più; ma soffro e vedo la morte con occhio asciutto. Eccoti dunque padre di Charles! Non ha parenti dal lato materno, il perché lo sai. Perché non ho obbedito ai pregiudizi sociali? Perché ho ceduto all’amore? Perché ho sposato la figlia naturale di un gran signore? Charles non ha più famiglia. Oh, il mio figlio sfortunato! Mio figlio! Ascolta, Grandet, non sono venuto a implorarti per me: del resto il tuo patrimonio non è così considerevole da poter sostenere un’ipoteca di tre milioni; ma per mio figlio! Sappilo bene, fratello mio, le mie supplichevoli mani si sono giunte pensando a te. Grandet, morente ti affido Charles. Alla fine guardo le mie pistole senza dolore pensando che tu gli farai da padre. Mi voleva davvero bene, Charles, ero così buono con lui, non lo contrariavo mai. Non mi maledirà. Del resto, lo vedrai; è dolce, ha preso da sua madre, non ti causerà mai dei dispiaceri. Povero bambino! Abituato ai piaceri del lusso, non conosce alcuna delle privazioni alle quali entrambi ci ha condannato la nostra prima miseria… Ed eccolo rovinato, solo. Sì, tutti i suoi amici fuggiranno da lui, e sono io la causa delle sue umiliazioni. Ah! Vorrei avere le braccia sufficientemente forti da poterlo mandare con un sol colpo in cielo vicino a sua madre. Follia! Torno alla mia miseria, a quella di Charles. Te l’ho dunque inviato perché tu lo informi in maniera degna sia della mia morte sia della sua sorte futura. Che tu sia un padre per lui, un buon padre. Non strapparlo improvvisamente dalla sua vita oziosa, lo uccideresti. Gli chiedo in ginocchio di rinunciare ai crediti che in qualità di erede di sua madre potrebbe esigere da me. Ma è una preghiera superflua; ha il senso dell’onore e capirà bene che non deve unirsi ai miei creditori. Fallo rinunciare alla mia successione in tempo utile. Svelagli le dure condizioni della vita in cui lo lascio; se mi conserva il suo affetto, digli bene a nome mio che per lui non tutto è perduto. Sì, il lavoro che ci ha salvato entrambi, può restituirgli la fortuna che gli ho portato via; e se volesse ascoltare la voce di suo padre, che per lui vorrebbe uscire un momento dalla sua tomba, che parta, che se ne vada nelle Indie! Fratello mio, Charles è un giovane probo e coraggioso, gli metterai insieme una paccottiglia, morirebbe piuttosto che non renderti i primi fondi che gli presterai; poiché glieli presterai, Grandet! Altrimenti avrai dei rimorsi. Ah! Se mio figlio non trovasse né soccorso né affetto in te, chiederò una vendetta eterna a Dio per la tua durezza. Se avessi potuto salvare alcune risorse, avrei avuto proprio il diritto di consegnargli una somma sulla ricchezza della madre; ma i pagamenti della fine del mese hanno assorbito tutti i miei mezzi. Non avrei voluto affatto morire con l’incertezza sulla sorte di mio figlio; avrei voluto sentire sante promesse dal calore della tua mano, che mi avrebbe riscaldato, ma mi manca il tempo. Mentre Charles è in viaggio, sono obbligato a redigere il mio bilancio. Cerco di provare la buona fede che presiede i miei affari e che non ci sono né errori né disonestà in essi. In questo modo non mi occupo forse di Charles? Addio, fratello mio. Che tu abbia tutte le benedizioni di Dio per la generosa tutela che ti affido, e che tu accetti, non ne dubito. Ci sarà incessantemente una voce che pregherà per te nel mondo dove andremo tutti un giorno, e dove io sono già.

Victor-Ange-Guillaume Grandet”

“Allora, discutete?” disse père Grandet piegando con precisione la lettera, seguendo le stesse pieghe e infilandola nella tasca del suo gilet. Guardò suo nipote con un’aria umile e timorosa, sotto la quale nascose le sue emozioni e i suoi calcoli.

“Vi siete riscaldato?”

“Ottimamente, mio caro zio!”

“Ebbene, dove sono dunque le nostre donne?” disse lo zio dimenticando già che suo nipote dormiva da lui. In quel momento Eugénie e madame Grandet rientrarono. “È tutto sistemato al piano di sopra?” chiese loro il brav’uomo ritrovando la propria calma.

“Sì, padre mio.”

“Ebbene nipote mio, se siete stanco, Nanon vi condurrà alla vostra stanza. Diamine, non sarà un appartamento da damerino! Ma voi perdonerete dei poveri vignaioli che non hanno mai un soldo. Le imposte ci mangiano tutto.”

“Non vogliamo essere indiscreti, Grandet,” disse il banchiere, “potreste volere discutere con vostro nipote, vi auguriamo una buona serata. A domani.”

A queste parole, l’assemblea si alzò, e ognuno fece la riverenza secondo la propria natura. Il vecchio notaio andò a cercare sotto la porta la sua lanterna, e la accese offrendo ai des Grassins di accompagnarli. Madame des Grassins non aveva previsto l’incidente che doveva far volgere prematuramente al termine la serata, e il suo domestico non era ancora arrivato.

“Volete farmi l’onore di accettare il mio braccio, signora?” disse l’abate Cruchot a madame des Grassins.

“Grazie, signor abate, ho mio figlio,” rispose in maniera secca.

“Le signore non vogliono compromettersi con me,” disse l’abate.

“Offri dunque il braccio a monsieur Cruchot,” le disse suo marito.

L’abate condusse la bella signora abbastanza lestamente per trovarsi qualche passo in avanti rispetto alla carovana.

“È proprio a modo questo giovane, signora,” le disse stringendole il braccio. “Addio, cestoni, la vendemmia è fatta!Potete dire addio alla signorina Grandet, Eugénie sarà assegnata al parigino. A meno che questo cugino non sia invaghito di una parigina, vostro figlio Adolphe incontrerà in lui il rivale più…”

“Lasciate perdere, signor abate. Il giovane si accorgerà presto che Eugénie è una sempliciotta, una donna senza freschezza. L’avete osservata? Questa sera era gialla come una mela cotogna.”

“Forse l’avete già fatto notare al cugino.”

“Non mi sono fatta scrupolo…”

“Mettetevi sempre vicino a Eugénie, signora, e non avrete grandi cose da dire a questo giovane contro sua cugina, egli stesso farà il confronto che…”

“Innanzitutto mi ha promesso di venire a cena dopodomani da me.”

“Ah! Se voi voleste, signora…” disse l’abate.

“E che volete che io voglia, signor abate? Avete intenzione così di darmi dei cattivi consigli? Non sono arrivata all’età di trentanove anni, con una reputazione senza macchia, grazie a Dio, per comprometterla anche se si trattasse dell’impero del Gran Moghul.11 Noi due siamo giunti a un’età in cui sappiamo cosa significa parlare. Per essere un ecclesiastico, avete in verità delle idee incongrue. Ohibò! Ciò è degno di Faublas!”12

“Dunque avete letto Faublas?”

“No, signor abate, volevo dire Le relazioni pericolose.”13

“Ah! Questo libro è alquanto più moralista,” disse ridendo l’abate. “Ma mi dipingete tanto perverso quanto un giovane di oggi! Volevo semplicemente…”

“Osate dirmi che non pensavate di suggerirmi delle malefatte? Non è chiaro? Se questo giovane, molto a modo, ne convengo, mi facesse la corte non penserebbe a sua cugina. A Parigi, lo so, alcune buone madri si immolano così per la felicità e la ricchezza dei loro figli; ma siamo in provincia, signor abate.”

“Sì, signora.”

“E,” continuò, “io non vorrei, né lo stesso Adolphe vorrebbe, cento milioni acquistati a tal prezzo…”

“Signora, non ho parlato affatto di cento milioni. La tentazione sarebbe stata forse al di sopra delle nostre forze. Solo credo che una donna onesta può permettersi, facendo bene e salvaguardando l’onore, delle piccole civetterie senza conseguenze, che fanno parte dei propri doveri in società, e che…”

“Voi credete?”

“Non dobbiamo forse, signora, impegnarci a essere gradevoli l’uno con l’altro?… Permettete che mi soffi il naso. Io vi assicuro, signora,” continuò, “che vi scrutava con un’aria un po’ più lusinghiera di quella che aveva guardandomi; ma lo perdono nel preferire di onorare la bellezza anziché la vecchiaia…”

“È chiaro,” diceva il presidente con la sua voce grave, “che monsieur Grandet di Parigi mandi suo figlio a Saumur con intenzioni francamente matrimoniali…”

“Ma, allora, il cugino non è caduto inaspettato come una bomba,” rispondeva il notaio.

“Ciò non significa niente,” disse monsieur des Grassins, “il brav’uomo è misterioso.”

“Des Grassins, amico mio, l’ho invitato a cena, questo giovane. Bisogna che tu vada a invitare monsieur e madame de Larsonnière, e i du Hautoy, con la bella signorina du Hautoy, naturalmente; sperando che in quel giorno si vesta bene! Per gelosia, sua madre la agghinda così male! Spero, signori, che mi farete l’onore di venire,” aggiunse fermando il corteo per volgersi verso i due Cruchot.

“Eccovi arrivata a casa, signora,” disse il notaio.

Dopo aver salutato i tre des Grassins, i tre Cruchot tornarono a casa loro facendo uso del genio analitico che posseggono i provinciali per studiare sotto tutti i punti di vista il grande evento della serata, che mutava le posizioni rispettive dei partigiani dei Cruchot e di quelli dei des Grassins. L’ammirevole buon senso che guidava le azioni di questi grandi calcolatori fece sentire agli uni e agli altri la necessità di un’alleanza momentanea contro il nemico comune. Non dovevano impedire mutualmente che Eugénie amasse suo cugino, e che Charles pensasse a sua cugina? Il parigino avrebbe resistito alle perfide insinuazioni, alle melliflue calunnie, alle maldicenze colme di elogi, agli ingenui dinieghi con cui lo avrebbero costantemente avvolto per trarlo in inganno?

Quando i quattro parenti si ritrovarono soli nel salone, monsieur Grandet disse a suo nipote: “Bisogna andare a dormire. È troppo tardi per parlare degli affari che vi hanno portato qui, domani troveremo un momento opportuno. Qui facciamo colazione alle otto. A mezzogiorno mangiamo un frutto, pochissimo pane, e beviamo un bicchiere di vino bianco; poi ceniamo come i parigini alle cinque. Ecco gli orari. Se volete vedere la città o i dintorni, siete libero come l’aria. Mi scuserete se i miei affari non mi permetteranno sempre di accompagnarvi. Voi sentirete forse da tutti che sono ricco: monsieur Grandet qui, monsieur Grandet là! Io li lascio parlare, le loro chiacchiere non nuocciono affatto al mio credito. Ma non ho denari, e lavoro alla mia età come un giovane compagnon14 che ha come unico bene la sua pessima pialla e due buone braccia. Forse vedrete presto voi stesso quanto costa uno scudo quando bisogna sudarlo. Andiamo, Nanon, le candele?”.

“Spero, nipote mio, che troverete tutto ciò di cui avete bisogno,” disse madame Grandet; “ma se vi mancasse qualcosa, potete chiamare Nanon.”

“Mia cara zia, sarà difficile: ho, credo, portato tutti i miei vestiti! Permettetemi di augurare una buona notte a voi così come alla mia giovane cugina.”

Charles prese dalle mani di Nanon una candela accesa, una candela di cera d’Anjou, di un colore giallo, invecchiata in negozio, così simile alla candela di sego che monsieur Grandet, incapace di sospettarne l’esistenza in casa, non si accorse di questa magnificenza.

“Vi mostrerò la strada,” disse il brav’uomo.

Invece di uscire dalla porta del salone che dava sulla volta, Grandet fece la cerimonia di passare dal corridoio che separava il salone dalla cucina. Una porta battente fornita di un grande vetro di forma ovale chiudeva il corridoio dal lato delle scale al fine di attenuare il freddo che si insinuava. Ma d’inverno nondimeno un venticello gelido fischiava qui in maniera così rude che, nonostante i parafreddi messi alle porte del salone, il calore si manteneva a un livello appena accettabile. Nanon andò a serrare la grande porta con i catenacci, chiuse il salone e slegò nella stalla un cane lupo, il cui latrare era roco come se avesse la laringite. L’animale di notevole ferocia riconosceva solo Nanon. Le due creature campestri si capivano. Quando Charles vide i muri giallastri e affumicati del vano in cui la scala dai gradini tarlati tremava sotto il passo pesante dello zio, la sua disillusione andò al ritmo rinforzando. Si credeva in un posatoio per le galline. Sua zia e sua cugina, verso le quali si voltò per interrogare i loro volti, erano così abituate a queste scale, che, non indovinando il motivo del suo stupore, lo intesero come un’espressione amichevole, e gli risposero con un gradevole sorriso che lo esasperò: “Ma che diavolo mi ha mandato a fare qui mio padre?” si diceva. Giunto al primo pianerottolo, vide tre porte dipinte di rosso etrusco prive di chiambrane, delle porte, perse nel muro polveroso, dotate di fasce di ferro imbullonate, visibili, e con le estremità forgiate a mo’ di fiamme come quelle della lunga fessura della serratura. Quella di queste porte che si trovava in cima alle scale, e che era l’ingresso di una stanza situata al di sopra della cucina, era evidentemente murata. Ci si penetrava infatti solo dalla camera di Grandet, a cui tale stanza serviva da studio. L’unica finestra da cui arrivava la luce era protetta sul lato del cortile da enormi sbarre che formavano una griglia di ferro. Nessuno, nemmeno madame Grandet, aveva il permesso di entrarvi, il brav’uomo voleva restarci da solo come un alchimista al suo fornello. Lì indubbiamente era stato creato un nascondiglio con molta abilità, lì venivano immagazzinati i titoli di proprietà, lì pendevano le bilance che pesavano i luigi, lì si facevano di notte e in segreto le quietanze, le ricevute, i conti; di modo che la gente d’affare, vedendo sempre Grandet pronto a tutto, poteva immaginare che avesse ai suoi ordini una fata o un demone. Lì, senza dubbio, quando Nanon russava da far tremare il pavimento, quando il cane lupo sorvegliava e sbadigliava nel cortile, quando madame e mademoiselle Grandet erano profondamente addormentate, l’ex bottaio veniva a coccolare, accarezzare, covare, a far fermentare, a stringere il suo oro. Le mura erano spesse, le persiane impenetrabili. Solo lui aveva la chiave di questo laboratorio dove, si dice, consultasse delle piantine in cui erano segnati i suoi alberi da frutta e dove stimava i suoi prodotti sino all’ultima propaggine o fascina. L’ingresso della camera di Eugénie si trovava di fronte a questa porta murata. Poi, all’estremità del pianerottolo, c’era l’appartamento degli sposi, che occupava tutta la facciata della casa. Madame Grandet aveva una camera contigua a quella di Eugénie, da cui si entrava attraverso una porta vetrata. La camera del padrone era divisa da quella di sua moglie da un tramezzo e dal misterioso studio da un muro spesso. Père Grandet aveva sistemato suo nipote al secondo piano, in un’alta mansarda situata al di sopra della sua camera, in modo tale da poterlo sentire se gli prendeva l’uzzo di andare e venire. Quando Eugénie e sua madre giunsero alla metà del pianerottolo si diedero il bacio della sera; poi, dopo aver detto a Charles alcune parole di addio, fredde sulle labbra ma certamente calorose nel cuore della giovane, si ritirarono nelle proprie camere.

“Eccovi nella vostra camera, nipote mio,” disse père Grandet a Charles aprendogli la porta. “Se avete bisogno di uscire chiamerete Nanon. Senza di lei, servo vostro! Il cane vi sbranerebbe senza dire una parola. Dormite bene. Buonasera. Ha! Ha! Le signore vi hanno acceso il fuoco,” continuò. In questo momento apparve la Grande Nanon, armata di una bacinella. “Eccone un’altra!” disse monsieur Grandet. “Avete preso mio nipote per una donna incinta? Puoi tornare indietro con le braci, Nanon.”

“Ma, signore, le lenzuola sono umide, e il signore è carino proprio come una donna.”

“E sia, visto che te lo sei messo in testa,” disse Grandet spingendola per le spalle, “ma sta’ attenta a non appiccare il fuoco.” Poi l’avaro scese borbottando vaghe parole. Charles rimase sconcertato in mezzo ai suoi bauli. Dopo aver gettato uno sguardo sui muri della camera in mansarda tappezzata da una carta da parati gialla con mazzi di fiori simile a quella che decora le trattorie di campagna con una pista da ballo, sul camino di pietra calcarea scanalata che dava freddo solo a guardarlo, su alcune sedie di legno giallo guarnite di giunco verniciato e che sembravano avere più di quattro angoli, sul tavolo da notte aperto in cui si poteva tenere un piccolo sergente dei voltigeurs,15 sul tappetto sottile di cimosa posto alla base di un letto a baldacchino il cui drappeggio tremolava come se stesse per cadere, roso dalle tarme, guardò seriamente la Grande Nanon e disse: “Ah, questa poi! Mia cara ragazza, sono proprio da monsieur Grandet, l’ex sindaco di Saumur, fratello di monsieur Grandet di Parigi?”.

“Sì, signore, da un molto incantevole, molto dolce e molto perfetto signore. Avete bisogno che vi aiuti a disfare i bagagli?”

“In fede mia, sì, grazie, mio vecchio soldato! Non siete stata in servizio presso i marinai della guardia imperiale?”

“Oh! Oh! Oh! Oh!” disse Nanon. “Che cosa sono i marinai della guardia? Sono salati? Vanno in mare?”

“Tenete, cercate la mia vestaglia che si trova in questa valigia. Ecco la chiave.”

Nanon fu molto meravigliata nel vedere una vestaglia da camera in seta verde con fiori d’oro e con dei disegni antichi.

“Vi metterete questa per dormire?” disse.

“Sì.”

“Vergine santa! Come sarebbe bella davanti all’altare della parrocchia. Ma mio caro e bel signore, donatela dunque alla chiesa, salverete la vostra anima mentre questa ve la farebbe perdere. Oh! Come state bene così. Vado a chiamare mademoiselle perché vi guardi.”

“Suvvia, Nanon, proprio perché siete Nanon, volete stare zitta? Lasciatemi andare a dormire, sistemerò i miei bagagli domani; e se la mia vestaglia vi piace tanto, salverete la vostra anima. Sono troppo un buon cristiano per rifiutarvela quando andrò via, e potrete farne ciò che vorrete.”

Nanon rimase di sasso, contemplando Charles, senza riuscire a proferir parola.

“Darmi questa bella vestaglia!” disse andandosene. “Il signore già sogna. Buonasera.”

“Buonasera, Nanon.”

“Che cosa sono venuto a fare qui?” si disse Charles addormentandosi. “Mio padre non è un sempliciotto, il mio viaggio deve avere uno scopo. Bah! Gli affari seri domani, diceva non so quale greco imbecille.”16

“Santa Vergine! Come è bello mio cugino,” si disse Eugénie interrompendo le sue preghiere, che quella sera rimasero incompiute.

Madame Grandet non ebbe alcun pensiero addormentandosi. Sentiva, attraverso la porta di comunicazione che si trovava a metà del tramezzo, l’avaro andare da una parte all’altra della sua camera. Come tutte le donne timide, aveva studiato il carattere del suo signore. Come il gabbiano che prevede la tempesta, così, attraverso segni impercettibili, aveva percepito la tempesta interiore che agitava Grandet, e, per utilizzare un’espressione di cui si serviva, faceva la morta. Grandet guardava la porta rivestita in lamiera all’interno che aveva fatto mettere al suo studio e si diceva: “Che idea bizzarra ha avuto mio fratello di lasciarmi in eredità suo figlio? Bella successione! Non ho venti scudi da dare. Ma che cosa sono venti scudi per questo damerino che fissava il mio barometro come se avesse voluto darlo alle fiamme?”.

Pensando alle conseguenze di questo doloroso testamento, Grandet era forse più agitato di quanto non lo fosse suo fratello mentre lo scriveva.

“Avrò la vestaglia d’oro…?” diceva Nanon che si addormentò vestita con il suo paramento d’altare, sognando fiori, tabì, damasco, e per la prima volta nella sua vita, come Eugénie, fece sogni d’amore.

Jean Buisson (1800?-1873) era un celebre sarto parigino realmente esistito, presso il quale si riforniva anche Balzac.

La stazione termale tedesca di Baden-Baden, nel Baden-Württemberg, iniziò a essere in voga già dal Settecento.

Furono due importanti iniziative editoriali del libraio Charles-Joseph Panckoucke (1736-1798). L’Encyclopédie méthodique iniziò le sue pubblicazioni nel 1772 che si sarebbero concluse nel 1832, con l’edizione di 166 volumi. Nel novembre 1789 Panckoucke fondò il quotidiano “Le Moniteur universel”.

Il primo esemplare di giraffa, dono del viceré d’Egitto Mehmet Ali al re Carlo X, giunse in Francia nel 1827.

Richard Westall (1765-1836) fu un pittore inglese divenuto celebre per aver illustrato le opere di Milton e Shakespeare.

Il keepsake era un album in cui le incisioni erano accompagnate da brevi testi.

William Finden (1787-1852) incisore che illustrò il celebre keepsake intitolato Forget-me-not(Non dimenticarti di me), che venne pubblicato dal fratello Edward (1791-1857).

George Gordon Byron (1788-1824), il celebre letterato inglese, che morì combattendo a Missolungi per la causa della libertà greca.

Francis Chantrey (1781-1841), scultore inglese che realizzò molte statue di intellettuali, tra cui una di Byron.

10 Altro personaggio della Comédie humaine, in César Birotteau (1837) è all’orgine della decadenza del profumiere Birotteau.

11 Nome occidentale dato alla dinastia indo-musulmana dei Moghul.

12 Jean-Baptiste Louvet de Couvray (1760-1797) scrisse Les amours du Chevalier de Faublas (1787-1790), un romanzo che avrebbe avuto molto successo.

13 Il celebre romanzo di Pierre Choderlos de Laclos (1741-1803), pubblicato nel 1782.

14 Operaio specializzato che non era più un apprendista, ma non era ancora mastro.

15 Corpo d’élite della fanteria creato da Napoleone nel 1804, per farvi parte bisognava essere alti non più di 1,59 m.

16 Riferimento al tiranno Archia di Tebe, il quale durante un banchetto trascurò di leggere una lettera in cui veniva avvertito che sarebbe stato ucciso, come di fatto avvenne alla fine di quello stesso banchetto. Episodio narrato da Plutarco, Pelopida, 10.

Capitolo 3 
Amori di provincia

Nella pura e monotona vita delle fanciulle giunge un’ora deliziosa in cui il sole diffonde i propri raggi nella loro anima, dove il fiore esprime loro dei pensieri, e le palpitazioni del cuore comunicano al cervello la loro calda potenza fecondatrice, e fondono le idee in un vago desiderio; giorno d’innocente malinconia e di soavi gioie! Quando i bambini cominciano a vedere sorridono, quando una fanciulla intravede il sentimento della natura, sorride come sorrideva da bambina. Se la luce è il primo amore della vita, l’amore non è la luce del cuore? Per Eugénie era giunto il momento di vedere con chiarezza le cose di questo mondo. Mattiniera come tutte le ragazze di provincia, si alzò presto, recitò le sue preghiere, e iniziò l’operazione della sua toeletta, occupazione che oramai avrebbe avuto un senso. Prima lisciò i capelli castani, raccolse le grosse trecce sopra la testa con la più grande cura, evitando che i capelli non sfuggissero dalle loro trecce, e introdusse nella sua pettinatura una simmetria che accentuò il timido candore del volto, rendendo armoniche la semplicità degli accessori e l’ingenuità dei tratti. Lavandosi più volte le mani nell’acqua pura che le induriva e le faceva arrossare la pelle, guardò le sue belle braccia tonde, e si chiese come facesse suo cugino ad avere le mani così mollemente bianche, le unghie così ben curate. Indossò delle calze nuove e le sue scarpe più belle. Se le allacciò bene, senza saltare un’asola. Infine augurandosi, per la prima volta nella vita, di apparire sotto una luce favorevole, conobbe la felicità di avere un vestito fresco, ben fatto, che la rendeva attraente. Quando la sua toeletta fu terminata, sentì suonare l’orologio della parrocchia e si stupì di contare solo sette rintocchi. Il desiderio di avere tutto il tempo necessario per vestirsi bene l’aveva fatta alzare troppo presto. Ignorando l’arte di rimodellare dieci volte un ricciolo e studiarne l’effetto, Eugénie mise le braccia conserte, e si sedette affacciandosi alla propria finestra, contemplando il cortile, lo stretto giardino, e le alte terrazze che lo dominavano; vista malinconica e limitata, ma che non era priva di misteriose bellezze, tipiche dei luoghi solitari dove la natura è incolta. Vicino alla cucina si trovava un pozzo attorniato da una vera, e una puleggia mantenuta in un braccio di ferro curvo, che abbracciava una vite dai pampini sgualciti, arrossati e rinsecchiti dalla stagione. Da lì un tralcio tortuoso raggiungeva il muro, vi si abbarbicava e correva lungo la casa finendo in una legnaia in cui la legna era sistemata con altrettanta esattezza di quanto potevano esserlo i libri di un bibliofilo. Il selciato del cortile mostrava delle tonalità nerastre prodotte con il tempo dai muschi, dalle erbe e dal raro passaggio. I muri spessi presentavano la loro camicia verde, ondulata da lunghe scie brune. Infine gli otto scalini che dominavano in fondo al cortile e che conducevano alla porta del giardino erano sconnessi e sepolti sotto alte piante come la tomba di un cavaliere seppellito dalla vedova al tempo delle crociate. Sopra una fila di pietre tutte corrose si ergeva un cancello di legno marcio, crollato per metà a causa della sua fatiscenza, ma al quale si intrecciavano spontaneamente dei rampicanti. Da ogni lato della porta fatta a griglia avanzavano i rami contorti di due meli rinsecchiti. Tre viali paralleli, sabbiosi e separati da alcune aiuole il cui terriccio era contenuto per mezzo di una bordura in bosso componevano il giardino che terminava, al fondo della terrazza, in un angolo coperto da frasche di tigli. A un’estremità dei cespugli di lampone, dall’altra un noce immenso che reclinava i suoi rami sino allo studio del bottaio. Un giorno limpido e un bel sole, usuali sulle rive della Loira, iniziavano a sciogliere il velo impresso dalla notte agli oggetti pittoreschi, ai muri, alle piante che arredavano il giardino e il cortile. Eugénie trovò un’attrattiva del tutto nuova nell’aspetto di queste cose, prima così abituali per lei. Mille pensieri confusi nascevano nella sua anima e crescevano nella stessa misura in cui fuori crescevano i raggi del sole. Ebbe infine quel movimento di piacere indeterminato, inspiegabile, che avvolge l’essere morale, come una nuvola avvolgerebbe l’essere fisico. Le sue riflessioni erano in sintonia con i dettagli di questo paesaggio singolare, e le armonie del suo cuore si allearono con le armonie della natura. Quando il sole raggiunse un tratto di muro da dove cadevano dei capelvenere dalle foglie spesse e dai colori cangianti come il collo dei piccioni, dei raggi celesti di speranza illuminarono l’avvenire per Eugénie, che ormai si compiacque a guardare quel tratto di muro, i suoi pallidi fiori, le sue campanelle blu e le sue erbe appassite, ai quali si mescolò un grazioso ricordo come quelli dell’infanzia. Il rumore che produceva ogni foglia, staccandosi dal suo ramo, in questo cortile sonoro, dava una risposta alle segrete domande della fanciulla, che sarebbe rimasta lì, per tutta la giornata, senza accorgersi del trascorrere delle ore. Poi giunsero i tumultuosi moti dell’anima. Si alzò bruscamente, si mise davanti al suo specchio e si guardò come un autore onesto che contempla la propria opera per criticarla, e rivolgere a se stesso delle ingiurie.

“Non sono abbastanza bella per lui.” Questo era il pensiero di Eugénie, pensiero umile e fertile di sofferenze. La povera ragazza non si rendeva giustizia; ma la modestia, o meglio il timore, è una delle prime virtù dell’amore. Eugénie apparteneva, è vero, a quel tipo di ragazze dalla costituzione robusta, come lo sono nella piccola borghesia, e le cui bellezze appaiono volgari; ma se assomigliava alla Venere di Milo,1 le sue forme erano ingentilite da questa soavità del sentimento cristiano che purifica la donna e le conferisce una distinzione ignota agli scultori antichi. Aveva una testa enorme, la fronte mascolina ma delicata dello Zeus di Fidia,2 e degli occhi grigi ai quali la sua casta vita, riversandovisi interamente, imprimeva una luce particolarmente intensa. I tratti del suo volto tondo, un tempo fresco e rosa, erano stati involgariti da un vaiolo abbastanza clemente da non lasciare tracce, ma che aveva distrutto il vellutato della pelle, tuttavia ancora così dolce e così fine che il puro bacio di sua madre vi imprimeva temporaneamente un segno rosso. Il suo naso era un po’ troppo grosso, ma si armonizzava a una bocca di un rosso minio, le cui labbra dalle mille scriminature erano colme di amore e di bontà. Il collo era di una rotondità perfetta. Il corpetto bombato, accuratamente velato, attirava lo sguardo e faceva sognare; mancava senza dubbio un po’ di grazia dovuta all’abbigliamento; ma, per gli intenditori, la rigidità di questa alta statura doveva essere affascinante. Eugénie, alta e forte, non aveva dunque niente del bello che piace alle masse; ma era bella di quella bellezza così facile da misconoscere, e di cui si invaghiscono solo gli artisti. Il pittore che cerca sulla terra un tipo simile alla celeste purezza di Maria, che chiede a tutta la natura femminile questi occhi modestamente fieri indovinati da Raffaello, queste linee vergini dovute agli azzardi della concezione, ma che solo una vita cristiana e pudica può conservare o fare acquisire; questo pittore, amoroso di un così raro modello, avrebbe trovato all’improvviso nel volto di Eugénie la nobiltà innata che si ignora; avrebbe visto sotto la fronte calma un mondo d’amore; e nel taglio degli occhi, nel modo di muoversi delle palpebre, un non so che di divino. I suoi lineamenti, i contorni della sua testa che l’espressione del piacere non avevano mai alterato, né stancato, assomigliavano alle linee dell’orizzonte così dolcemente tracciate su lontani laghi tranquilli. Questa fisionomia, calma, colorata, contornata da una lucentezza di un bel fiore dischiuso, dava riposo all’anima, comunicava il fascino della coscienza che vi si rifletteva, e attraeva lo sguardo. Eugénie si trovava ancora sulla riva della vita in cui fioriscono le illusioni infantili, dove si raccolgono le margherite con una delizia più tardi sconosciuta. Così si diceva, non sapendo ancora che cosa fosse l’amore: “Sono troppo brutta, non farà attenzione a me”.

Poi aprì la porta della sua camera che dava sulle scale e allungò il collo per sentire i rumori della casa. “Non si alza,” pensò sentendo la tosse mattutina di Nanon, e la brava donna che andava e veniva, che spazzolava il salone, accendeva il fuoco, metteva il cane alla catena e parlava alle sue bestie nella scuderia. Eugénie scese rapidamente e corse verso Nanon che mungeva la mucca.

“Nanon, mia cara Nanon, prepara dunque la panna per il caffè di mio cugino.”

“Ma signorina, bisognava pensarci ieri,” disse Nanon esplodendo in una fragorosa risata. “Non posso fare la panna. Vostro cugino è bello, bello, veramente bello. Voi non l’avete visto nella sua vestaglietta di seta e oro. Io l’ho visto. Indossa della biancheria fine come la cotta del signor curato.”

“Nanon, prepara dunque la focaccia.”

“E chi mi darà la legna per il forno, e la farina e il burro?” disse Nanon, la quale in veste di primo ministro di Grandet assumeva talora un’importanza enorme agli occhi di Eugénie e di sua madre. “Bisogna forse rubare a quest’uomo per festeggiare vostro cugino? Chiedetegli del burro, della farina, della legna, è vostro padre, ve lo può dare. Guardate, eccolo che scende per occuparsi delle provviste…”

Eugénie fuggì nel giardino, tutta spaventata sentendo tremare le scale sotto i passi di suo padre. Provava già gli effetti di questo profondo pudore e di questa coscienza particolare della nostra felicità che ci fa credere, non senza ragioni forse, che i nostri pensieri siano incisi sulla fronte e saltino agli occhi altrui. Notando infine la fredda nudità della casa paterna, la povera ragazza provava una specie di stizza per non poterla armonizzare con l’eleganza di suo cugino. Provò una necessità sfrenata di fare qualcosa per lui: che cosa? Non ne aveva idea. Ingenua e sincera, si abbandonava alla sua natura angelica senza diffidare né delle sue impressioni né dei suoi sentimenti. La sola vista di suo cugino aveva risvegliato in lei le tendenze naturali della donna, e queste si espressero molto vivacemente, poiché essendo entrata nel ventitreesimo anno di età si trovava nella pienezza della sua intelligenza e dei suoi desideri. Per la prima volta, sentì nel cuore il terrore davanti alla vista del padre, vide in lui il padrone della sua sorte, e si sentì colpevole di una mancanza tacendogli alcuni suoi pensieri. Si mise a camminare a passi precipitosi stupendosi di respirare un’aria più pura, di sentire i raggi del sole più vivificanti, e di trarvi un calore morale, una vita nuova. Mentre pensava a un espediente per ottenere la focaccia, scoppiava tra la Grande Nanon e Grandet una di quelle liti tanto rare tra loro quanto lo sono le rondini d’inverno. Munito delle sue chiavi il brav’uomo era venuto per razionare i viveri necessari per il consumo della giornata.

“È rimasto del pane di ieri?” disse a Nanon.

“Nemmeno una briciola, signore.”

Grandet prese una grossa forma di pane rotonda, ben infarinata, modellata in uno di quei cesti piatti che servono per fare il pane in Anjou, e stava per tagliarlo, quando Nanon gli disse: “Oggi siamo cinque, signore”.

“È vero,” rispose Grandet, “ma il tuo pane pesa sei libbre, ne resterà. Del resto vedrai che questi giovani parigini non mangiano affatto pane.”

“Mangeranno solo la frippe,” disse Nanon.

In Anjou, la frippe, termine del lessico popolare, indica ciò che accompagna il pane, dal burro spalmato sulla tartina, frippe volgare, sino alle confetture di albicocca duracina, la più raffinata delle frippe; e tutti coloro che nella loro infanzia hanno leccato la frippe e lasciato il pane, capiranno il significato di questa espressione.

“No,” rispose Grandet, “non mangiano né companatico né pane. Si comportano quasi come delle fanciulle da sposare.”

Infine dopo aver stabilito con parsimonia il menù della giornata, il brav’uomo stava per andare nel frutteto, chiudendo tuttavia gli armadi della sua dispensa, quando Nanon lo fermò per dirgli: “Signore, datemi dunque della farina e del burro, farò una focaccia per i ragazzi”.

“Non vorrai per caso mettere la casa al sacco a causa di mio nipote?”

“Non pensavo a vostro nipote più che al vostro cane, più di quanto ci pensate voi stesso. Ecco che mi avete dato solo sei zollette di zucchero, me ne servono otto.”

“Ah! Questa poi, Nanon, non ti ho mai vista così. Che cosa ti passa per la testa? Sei tu la padrona qui? Avrai soltanto sei zollette di zucchero.”

“Ebbene! Vostro nipote con che cosa zucchererà il suo caffè?”

“Con due zollette, io ne farò a meno.”

“Fare a meno dello zucchero alla vostra età! Preferirei piuttosto comprarne di tasca mia.”

“Occupati di ciò che ti riguarda.”

Nonostante il calo del prezzo, lo zucchero3 era sempre, agli occhi del bottaio, la più preziosa delle derrate coloniali: per lui valeva sempre sei franchi la libbra. L’obbligo di usarne con parsimonia, preso sotto l’Impero, era diventata una delle sue abitudini più irrinunciabili. Tutte le donne, anche la più sempliciotta, sanno aguzzare l’ingegno per raggiungere i propri fini: Nanon abbandonò la questione dello zucchero per ottenere la focaccia.

“Signorina,” gridò attraverso la finestra, “non volevate della focaccia?”

“No, no,” rispose Eugénie.

“Suvvia Nanon,” disse Grandet sentendo la voce della figlia, “tieni.” Aprì la madiadove c’era la farina, gliene diede una misura e aggiunse qualche oncia di burro al pezzo che aveva già tagliato.

“Servirà della legna per scaldare il forno,” disse l’implacabile Nanon.

“Ebbene, ne prenderai quanto basta,” rispose malinconicamente, “ma allora farai una torta alla frutta, e cuocerai al forno tutta la cena; in questo modo non accenderai due fuochi.”

“Toh, guarda!” esclamò Nanon. “Non avete bisogno di dirmelo.” Grandet lanciò sul suo fedele ministro uno sguardo quasi paterno. “Signorina,” gridò la cuoca, “avremo una focaccia.” Père Grandet tornò carico della sua frutta e ne sistemò un primo piatto sulla tavola della cucina. “Guardate, signore,” disse Nanon, “che begli stivali possiede vostro nipote. Che cuoio e che buon odore. Con che cosa si pulisce, dunque? Devo metterci la vostra cera da scarpe all’uovo?”

“Nanon, io credo che l’uovo rovinerebbe il cuoio. Del resto digli che tu non conosci affatto il modo di lustrare il marocchino, sì, è del marocchino; comprerà a Saumur e ti porterà lui stesso il necessario per lucidare i suoi stivali. Ho sentito dire che mettono dello zucchero nella loro lucidatura per renderli brillanti.”

“Dunque è buono da mangiare,” disse la serva avvicinando gli stivali al naso. “Ma guarda, profumano di eau de Colognedella signora. Ah! È strano.”

“Strano,” disse il padrone, “trovi strano spendere più soldi negli stivali di quanto ne valga colui che li porta.”

“Signore,” disse al secondo viaggio del suo padrone che aveva chiuso il frutteto, “pensate di offrire una o due volte a settimana della carne lessa a vostro…?”

“Sì.”

“Bisognerà che io vada dal macellaio.”

“Niente affatto; ci farai del brodo di volatili, i contadini non te li faranno mancare. Ma andrò a dire a Cornoiller di uccidermi dei corvi. Questa selvaggina dà il miglior brodo della terra.”

“È vero, signore, che mangiano i morti?”

“Sei sciocca, Nanon! Mangiano, come tutti, ciò che trovano. Noi non viviamo dei morti? Che cosa sono dunque le eredità?” Père Grandet, non avendo più ordini da dare, estrasse il suo orologio; e vedendo che aveva ancora mezz’ora prima di mangiare, prese il suo cappello, venne a baciare la figlia e le disse: “Vuoi fare una passeggiata lungo la Loira nei miei prati? Ho una faccenda da sbrigare lì”.

Eugénie andò a mettere il suo cappello di paglia cucita, rivestito di taffetà rosa; poi padre e figlia scesero la strada tortuosa sino alla piazza.

“Dove vi precipitate di così buon mattino?” disse il notaio Cruchot incontrando Grandet.

“A vedere qualcosa,” rispose il brav’uomo senza farsi ingannare dalla passeggiata mattutina del suo amico.

Quando père Grandet andava a vedere qualcosa, il notaio sapeva per esperienza che c’era sempre da guadagnarci. Quindi lo accompagnò.

“Venite, Cruchot!” disse Grandet al notaio. “Voi siete uno dei miei amici, vi dimostrerò quanto sia facile piantare dei pioppi su buoni terreni…”

“Voi considerate dunque niente i sessantamila franchi che avete intascato per quelli che erano nei vostri prati della Loira,” disse il notaio Cruchot spalancando gli occhi stupiti. “Avete avuto fortuna!… Tagliare i vostri alberi nel momento in cui mancava del legno tenero a Nantes, e venderli a trenta franchi!”

Eugénie ascoltava senza sapere di vivere il momento più solenne della sua vita, e che il notaio stava per pronunciare nei suoi riguardi un decreto paterno e sovrano. Grandet era arrivato ai magnifici prati che possedeva sulle rive della Loira, e dove trenta operai erano impegnati a pulire, colmare e livellare i punti in cui erano stati piantati i pioppi.

“Notaio Cruchot, vedete che un pioppo richiede terreno,” disse al notaio. “Jean,” gridò a un operaio, “mi… mi… misura con la tesa in tu… tu… tutti i sensi!”

“Quattro volte otto piedi,” rispose l’operaio dopo aver finito.

“Trentadue piedi di perdita,” disse Grandet a Cruchot. “Avevo su questa linea trecento pioppi, non è vero? Ma trece… ce… ce... cento... trentad… due piedi me ne man… man… mangiano cinq… quecento di fieno; aggiungete due volte tanto sui lati, millecinquecento; le file centrali altrettanto. Allora su… su… supponiamo mille balle di fieno.”

“Ebbene!” disse Cruchot per aiutare il suo amico. “Mille balle di fieno valgono circa seicento franchi.”

“Di… di… dite mil… mil... leduecento a causa dei tre o quattrocento franchi del secondo taglio. Ebbene! Cal… cal… cal… calcolate ciò che... che... che mil… leduecento franchi l’anno du… du… durante quarant’anni fruttano c… c… con gli in… in… interessi com… com… composti che voooi conoooscete.”

“Vada per sessantamila franchi,” disse il notaio.

“Appunto! Saranno solo... solo... solo... sessantamila franchi. Ebbene!” proseguì il vignaiolo senza balbettare. “Duemila pioppi di quarant’anni non mi frutterebbero cinquantamila franchi. C’è una perdita. Ho scoperto questo, io,” disse Grandet gonfiandosi d’orgoglio. “Jean,” continuò, “chiuderai le buche, escluse quelle dal lato della Loira dove pianterai i pioppi che ho comprato. Mettendoli sul fiume, si alimenteranno a spese del governo,” aggiunse volgendosi verso Cruchot e imprimendo alla verruca del suo naso un leggero movimento che equivaleva al più ironico dei sorrisi.

“Questo è chiaro: i pioppi devono essere piantati solo su terre magre,” disse Cruchot stupefatto dai calcoli di Grandet.

… ì, signore,” rispose ironicamente il bottaio.

Eugénie, che guardava il paesaggio sublime della Loira senza ascoltare i calcoli di suo padre, prestò subito attenzione alle parole di Cruchot sentendolo dire al suo cliente: “Ebbene! Avete fatto venire un genero da Parigi, non si parla che di vostro nipote in tutta Saumur. Avrò presto un contratto da stilare, père Grandet”.

“Vo… oo… voi siete u… u… uscito di bu… buon’ora peeer dirmi questo,” proseguì Grandet accompagnando questa riflessione con un movimento della sua verruca. “Ebbene! Mio vecchio aaaamico, sarò franco, e vi dirò ciò che voooi vooolete sa… sapere. Preferirei, vedete voooi, ge… gettare mia fi… fi… figlia nella Loira piuttosto che daaarla a suo cuuuugino: voi po… po… potete riferire questo. Ma no, lasciate chiacchierare la ge… gente.”

Tale risposta suscitò dei capogiri in Eugénie. Le lontane speranze che in lei cominciavano a spuntare dal suo cuore fiorirono improvvisamente e formarono un mazzo di fiori che vide recisi e gettati a terra. Dal giorno prima si legava a Charles tramite tutti i legami di felicità che uniscono le anime; oramai la sofferenza li avrebbe dunque nutriti. Non era forse il nobile destino della donna essere più colpita dalle durezze della miseria piuttosto che dagli splendori della ricchezza? Come aveva potuto il sentimento paterno spegnersi in fondo al cuore di suo padre? Di quale crimine dunque Charles si era reso colpevole? Domande misteriose! Già il suo amore nascente, mistero così profondo, veniva avvolto dai misteri. Tornò tremando sulle sue gambe e arrivando alla vecchia strada buia, così allegra per lei, la trovò di un aspetto triste e respirò la malinconia che il tempo e le cose vi avevano impresso. Non le mancava alcun insegnamento dell’amore. A pochi passi dalla casa precedette suo padre e l’aspettò alla porta dopo aver bussato. Ma Grandet, che vedeva nelle mani del notaio un giornale ancora con la fascetta, gli aveva detto: “Quali sono le valutazioni dei titoli?”.

“Voi non mi volete ascoltare, Grandet,” gli rispose Cruchot. “Comprateli velocemente, c’è ancora il 20 per cento di guadagno in due anni, oltre agli interessi a un tasso eccellente, cinquemila lire di rendita per ottantamila franchi. I titoli sono a ottanta franchi e cinquanta centesimi.”

“Questo lo vedremo,” rispose Grandet grattandosi il mento.

“Mio Dio!” disse il notaio.

“Ebbene! Che cosa?” esclamò Grandet nel momento in cui Cruchot gli metteva il giornale sotto gli occhi dicendogli: “Leggete questo articolo”.

“Monsieur Grandet, uno dei commercianti più stimati di Parigi, si è bruciato le cervella ieri, dopo aver fatto la sua solita apparizione alla Borsa. Aveva inviato le sue dimissioni al presidente della Camera dei deputati, e si era anche dimesso dalle sue funzioni di giudice del tribunale di commercio. I fallimenti dei signori Roguin e Souchet, suo agente di cambio e suo notaio, l’hanno rovinato. La stima di cui godeva monsieur Grandet e il suo credito tuttavia erano tali che avrebbe trovato senza dubbio degli aiuti sulla piazza di Parigi. C’è da rammaricarsi che quest’uomo onorevole abbia ceduto di fronte a un primo momento di disperazione ecc.”

“Lo sapevo,” disse il vecchio vignaiolo al notaio. La risposta gelò Cruchot, il quale, nonostante la sua impassibilità, sentì freddo alla schiena pensando che forse il Grandet di Parigi aveva vanamente implorato i milioni del Grandet di Saumur.

“E suo figlio ieri così gioioso.”

“Non ne sa ancora niente,” rispose Grandet con la stessa calma.

“Addio, monsieur Grandet,” disse Cruchot, che capì tutto e andò a rassicurare il presidente de Bonfons.

Entrando, Grandet trovò la colazione pronta. Madame Grandet, al collo della quale Eugénie saltò per baciarla con quella viva effusione del cuore causata da un dolore segreto, era già sulla sua sedia rialzata, che sferruzzava dei manicotti invernali per sé.

“Potete mangiare,” disse Nanon che scendeva dalla scala quattro scalini per volta, “il ragazzo dorme come un cherubino. Com’è bello con gli occhi chiusi! Sono entrata, l’ho chiamato. Ebbene sì, niente!”

“Lascialo dormire,” disse Grandet, “si sveglierà sempre troppo presto oggi per apprendere cattive notizie.”

“Che succede dunque?” chiese Eugénie mettendo nel suo caffè due piccole zollette di zucchero che pesavano chissà quanti grammi che il brav’uomo si divertiva a tagliare4 lui stesso nei tempi morti. Madame Grandet, che non aveva osato fare tale domanda, guardò suo marito.

“Suo padre si è bruciato le cervella.”

“Mio zio?…” disse Eugénie.

“Povero ragazzo!” esclamò madame Grandet.

“Sì, povero,” proseguì Grandet, “non possiede un soldo.”

“Eh! Dorme come fosse il re della terra,” disse con un tono dolce Nanon.

Eugénie smise di mangiare. Il suo cuore si strinse, come si stringe quando per la prima volta la compassione, eccitata dal dolore di colui che ama, si diffonde per tutto il corpo della donna. La povera ragazza pianse.

“Non conoscevi tuo zio, perché piangi?” le disse suo padre lanciandole uno dei suoi sguardi da tigre affamata che gettava senza dubbio ai suoi mucchi d’oro.

“Ma signore,” disse la serva, “chi non proverebbe pietà per questo povero ragazzo che dorme come un sasso senza conoscere la propria sorte?”

“Non ti sto parlando, Nanon, tieni a freno la lingua.”

In questo momento Eugénie apprese che la donna che ama deve sempre dissimulare i propri sentimenti. Non rispose.

“Sino al mio ritorno non gli direte nulla, spero, madame Grandet,” disse il vecchio continuando. “Sono costretto a dover far sistemare il fossato dei miei prati lungo la strada. Tornerò a mezzogiorno per il pranzo e parlerò a mio nipote dei suoi affari. Quanto a te, mademoiselle Eugénie, se piangi per questo damerino, basta così, bambina mia. Partirà in fretta e furia per le Grandi Indie.5 Non lo vedrai più…”

Il padre prese i suoi guanti dal bordo del cappello, li indossò con la sua abituale calma, li sistemò intrecciando le dita delle due mani e uscì.

“Ah! Mamma, soffoco,” gridò Eugénie quando fu sola con sua madre. “Non ho mai sofferto così.” Madame Grandet, vedendo impallidire sua figlia, aprì la finestra e le fece respirare una boccata d’aria. “Mi sento meglio,” disse Eugénie dopo un momento.

Questa emozione nervosa in una natura sino ad allora apparentemente calma e fredda suscitò una reazione in madame Grandet, che guardò sua figlia con l’intuizione empatica di cui sono dotate le madri nei confronti dell’oggetto del proprio affetto, e indovinò tutto. Ma in verità, la vita delle celebri sorelle ungheresi attaccate l’una all’altra6 per un errore della natura non sarebbe stata più intima di quella di Eugénie e sua madre, sempre insieme in quel vano della finestra, insieme in chiesa, e che dormivano insieme nella stessa aria.

“Povera bambina mia!” disse madame Grandet prendendo la testa di Eugénie per appoggiarla al suo seno.

A queste parole la ragazza risollevò la testa, interrogando sua madre con uno sguardo e, scrutando i suoi pensieri più reconditi, le disse: “Perché mandarlo nelle Indie? Se è triste non deve rimanere qui, non è il nostro parente più prossimo?”.

“Sì, bambina mia, sarebbe naturale; ma tuo padre ha le sue ragioni, noi dobbiamo rispettarle.”

Madre e figlia si sedettero in silenzio, l’una sulla sua sedia rialzata, l’altra sul piccolo divano; ed entrambe ripresero il loro lavoro. Oppressa dalla gratitudine per l’ammirevole comprensione dimostratale dalla madre, Eugénie le baciò la mano dicendole: “Come sei buona, mia cara mamma!”. Queste parole resero raggiante il vecchio volto materno, segnato da lunghe sofferenze. “Ti piace?” chiese Eugénie.

Madame Grandet rispose con un sorriso; dopo un momento di silenzio, disse a voce bassa: “Lo ami dunque già? Sarebbe male”.

“Male,” ripeté Eugénie, “perché? Ti piace, piace a Nanon, perché non dovrebbe piacermi? Dai, mamma, prepariamo la tavola per la sua colazione.” Gettò il suo lavoro, la madre fece altrettanto dicendole: “Sei pazza!”. Ma si compiacque nel giustificare la follia di sua figlia condividendola. Eugénie chiamò Nanon.

“Cosa, che cosa volete ancora, signorina?”

“Nanon, la panna sarà pronta a mezzogiorno?”

“Ah! Per mezzogiorno sì,” rispose la vecchia serva.

“Eh! Bene, servigli del caffè molto forte, ho sentito dire da monsieur des Grassins che il caffè si prepara molto forte a Parigi. Mettine molto.”

“E dove volete che lo prenda?”

“Comprane.”

“E se incontro il padrone?”

“È nei suoi prati.”

“Corro. Ma monsieur Fessard, dandomi la candela, mi ha già chiesto se sono arrivati i tre Magi da noi. Tutta la città verrà a sapere dei nostri scialacquamenti.”

“Se tuo padre si accorge di qualcosa,” disse madame Grandet, “è capace di picchiarci.”

“Ebbene! Ci picchierà, riceveremo i suoi colpi in ginocchio.”

Madame Grandet per tutta risposta alzò gli occhi al cielo, Nanon mise la sua cuffia e uscì. Eugénie prese della biancheria, andò a cercare alcuni grappoli d’uva che si era divertita ad appendere ad alcune corde nel granaio; camminò piano piano lungo il corridoio per non svegliare suo cugino, e non poté impedirsi di ascoltare alla sua porta il respiro che fuoriusciva con tempi regolari dalle sue labbra. “L’infelicità è vigile mentre lui dorme,” si disse. Prese le foglie più verdi della vigna, sistemò la sua uva in maniera altrettanto graziosa di quanto avrebbe fatto un esperto dispensiere capo, e la portò trionfalmente sulla tavola. Fece man bassa in cucina delle pere contate da suo padre e le dispose a piramide tra le foglie. Andava, veniva, trotterellava, saltellava. Avrebbe voluto saccheggiare l’intera casa del padre; ma egli aveva tutte le chiavi. Nanon tornò con due uova fresche. Vedendo le uova, Eugénie ebbe voglia di saltarle al collo.

“Il fittavolo della Lande ne aveva nel suo cesto, gliele ho chieste e me le ha date per farmi piacere, il tesoruccio.”

Dopo due ore di cure, durante le quali Eugénie abbandonò venti volte il suo lavoro per andare a vedere il caffè che bolliva, per andare ad ascoltare il rumore che faceva suo cugino mentre si alzava, riuscì a preparare una colazione molto semplice, poco costosa, ma che si discostava terribilmente dalle inveterate abitudini della casa. La colazione di mezzogiorno si consumava in piedi. Ognuno prendeva un po’ di pane, un frutto o del burro, e un bicchiere di vino. Vedendo la tavola posta vicino al fuoco, uno dei divani messi davanti al coperto di suo cugino, vedendo i due piatti di frutta, il portauovo, la bottiglia di vino bianco, il pane, e lo zucchero ammonticchiato in un piattino, Eugénie tremò in tutte le sue membra pensando solo allora agli sguardi che le avrebbe lanciato il padre, se fosse entrato proprio in quel momento. Così guardava spesso il pendolo, per calcolare se suo cugino potesse fare colazione prima del ritorno del brav’uomo.

“Stai tranquilla, Eugénie, se arriva tuo padre, mi assumerò la responsabilità di tutto,” disse madame Grandet.

Eugénie non poté trattenere una lacrima.

“Oh! Mia cara mamma,” esclamò, “non ti ho amata abbastanza!”

Charles, dopo aver fatto mille giri nella sua camera canticchiando, alla fine scese. Per fortuna erano solo le undici. Il parigino! Aveva messo tanta civetteria nel vestirsi come se fosse al castello della nobildonna che viaggiava in Scozia. Entrò con quell’aria affabile e sorridente che si addice così bene alla giovinezza e che causò una gioia triste in Eugénie. Aveva preso con allegria il disastro dei suoi fantasiosi castelli in Anjou, e abbordò sua zia con molta gaiezza.

“Avete passato una buona notte, mia cara zia? E voi, cugina mia?”

“Bene, signore, e voi?” disse madame Grandet.

“Io, perfettamente.”

“Avrete fame, cugino mio,” disse Eugénie; “mettetevi a tavola.”

“Ma io non faccio mai colazione prima di mezzogiorno, il momento in cui mi alzo. Tuttavia ho vissuto così male in viaggio che mi concederò un’eccezione. Del resto…” estrasse il più delizioso orologio piatto che Bréguet7 avesse mai fatto. “Toh! Ma sono solo le undici, sono stato mattiniero.”

“Mattiniero?…” disse madame Grandet.

“Sì, ma volevo sistemare i miei bagagli. Ebbene! Mangerei volentieri qualcosa, un nonnulla, un pollo, una pernice.”

“Santa Vergine!” gridò Nanon sentendo queste parole.

“Una pernice,” diceva fra sé Eugénie, che avrebbe voluto pagare una pernice con tutto il suo gruzzolo.

“Venite a sedervi,” gli disse sua zia.

Il dandy si lasciò andare sulla poltrona come una giovane donna che si adagia sul suo divano. Eugénie e sua madre presero delle sedie e si misero vicino a lui davanti al fuoco.

“Voi vivete sempre qui?” disse loro Charles trovando il salone ancora più brutto di giorno di quanto lo fosse illuminato.

“Sempre,” rispose Eugénie guardandolo, “a eccezione tuttavia del periodo delle vendemmie. Allora andiamo ad aiutare Nanon, e stiamo tutti all’abbazia di Noyers.”

“Non fate mai delle passeggiate?”

“Qualche volta la domenica dopo i vespri, quando fa bello,” disse madame Grandet, “andiamo al ponte, o a vedere falciare il fieno.”

“Avete un teatro?”

“Andare allo spettacolo,” esclamò madame Grandet, “vedere gli attori! Ma, signore, non sapete che è un peccato mortale?”

“Tenete, mio caro signore,” disse Nanon portando le uova, “vi daremo il pollo à la coque.”

“Oh! Delle uova fresche,” disse Charles che, come le persone abituate al lusso, già non pensava più alla pernice. “Ma che delizia, avete forse del burro? Eh, mia cara ragazza.”

“Ah! Del burro! Non avrete dunque la focaccia,” disse la serva.

“Ma dagli del burro, Nanon!” gridò Eugénie.

La giovane osservava suo cugino che tagliava delle striscioline di pane con piacere, tanto quanto la più sensibile sartina di Parigi nel vedere rappresentato un melodramma in cui trionfa l’innocenza. È vero che Charles era stato cresciuto da una madre graziosa, perfezionato da una donna alla moda, aveva dei movimenti civettuoli, eleganti, misurati come quelli di una donnina di classe. La compassione e l’affetto di una giovane ragazza posseggono un’influenza davvero magnetica. Così Charles, vedendosi al centro delle attenzioni di sua cugina e di sua zia, non poté sottrarsi all’influenza dei sentimenti che si rivolgevano verso di lui, inondandolo, per così dire. Lanciò su Eugénie uno di quegli sguardi brillanti di bontà, di carezze, uno sguardo che sembrava sorridere. Percepì, contemplando Eugénie, la squisita armonia dei tratti di quel volto puro, del suo comportamento innocente, della chiarezza magica dei suoi occhi, dove scintillavano giovani pensieri d’amore, e dove il desiderio ignorava la voluttà.

“In fede mia, cara cugina, se voi foste in un palco e in abiti da sera all’Opéra, vi garantisco che mia zia avrebbe proprio ragione, voi fareste commettere dei peccati di desiderio agli uomini e di gelosia alle donne.”

Questo complimento serrò il cuore di Eugénie e lo fece palpitare di gioia, pur non avendo capito nulla.

“Oh! Cugino mio, voi volete burlarvi di una povera piccola provinciale.”

“Se voi mi conosceste, cugina mia, sapreste che detesto la presa in giro, avvizzisce il cuore e sgualcisce tutti i sentimenti…” E mandò giù con molto gusto la strisciolina di pane imburrata. “No, probabilmente non ho un’intelligenza tale per prendere in giro gli altri, e questo difetto mi danneggia non poco. A Parigi si trova il modo di assassinare un uomo dicendo: ‘è di buon cuore’. Questa frase vuol dire: ‘Il povero ragazzo è stupido come un rinoceronte’. Ma poiché sono ricco e conosciuto per l’abilità di abbattere un pupazzo al primo colpo a una distanza di trenta passi con ogni tipo di pistola e all’aperto, sono immune alle canzonature.”

“Ciò che dite, nipote mio, è segno di buon cuore.”

“Avete un anello davvero bello,” disse Eugénie, “vi dispiace se vi chiedo di farmelo vedere?”

Charles tese la mano sfilandosi l’anello; ed Eugénie arrossì sfiorando con la punta delle dita le unghie rosa di suo cugino.

“Guardate, madre mia, che bel lavoro.”

“Oh! C’è molto oro,” disse Nanon portando il caffè.

“Che cos’è quello?” chiese Charles ridendo.

Indicava un recipiente oblungo, in terra bruna, verniciato, dall’interno di ceramica, bordato di cenere, e in fondo al quale ricadeva il caffè dopo essere giunto alla sommità del liquido bollente.

“È del caffè bollito,” disse Nanon.

“Ah! Mia cara zia, lascerò almeno alcune tracce benefiche del mio passaggio qui. Voi siete proprio indietro! Vi insegnerò a fare un buon caffè in una caffettiera modello Chaptal.”8

Cercò di spiegare il sistema della caffettiera Chaptal.

“Ah! Bene, se c’è tutto questo da fare,” disse Nanon, “bisognerebbe passarci la vita. Mai farò il caffè così. Ah! Bene, sì. E chi farebbe l’erba per la nostra mucca quando preparo il caffè?”

“Lo farò io,” disse Eugénie.

“Bambina,” disse madame Grandet, guardando sua figlia.

A questa parola, che faceva tornare in mente la sciagura che stava per abbattersi sul povero ragazzo, le tre donne tacquero e lo contemplarono con un’aria di commiserazione che lo colpì.

“Che cosa avete, cugina mia?”

“Zitta!” disse madame Grandet a Eugénie, che stava per parlare. “Lo sai, figlia mia, che tuo padre si è incaricato di parlare al signore…”

“Dite Charles,” disse il giovane Grandet.

“Ah! Vi chiamate Charles? È un bel nome,” esclamò Eugénie.

Le sventure presagite arrivano quasi sempre. Qui, Nanon, madame Grandet ed Eugénie, che non pensavano senza rabbrividire al ritorno dell’ex bottaio, sentirono un colpo di martello, il cui rimbombo era loro ben noto.

“Ecco papà,” disse Eugénie.

E tolse il piattino dello zucchero lasciandone qualche zolletta sulla tovaglia. Nanon portò via il piatto delle uova. Madame Grandet si drizzò come una cerbiatta spaventata. Fu un timor panico, del quale Charles si stupì, senza poterselo spiegare.

“Eh! Allora, che cosa avete dunque?” chiese loro.

“Ma ecco mio padre,” disse Eugénie.

“Eh! E allora?…”

Monsieur Grandet entrò, gettò il suo sguardo penetrante sulla tavola, su Charles, vide tutto.

“Ah! Ah! Avete fatto festa a vostro nipote, bene, molto bene, benissimo!” disse senza balbettare. “Quando il gatto corre sui tetti i topi ballano sul palchetto.”

“Festa?…” si disse Charles, incapace di sospettare il tenore di vita e le consuetudini della casa.

“Dammi il mio bicchiere, Nanon,” disse il brav’uomo.

Eugénie portò il bicchiere. Grandet estrasse dal suo taschino un coltello dal manico in corno con una grossa lama, tagliò una tartina, prese un po’ di burro, lo spalmò accuratamente e si mise a mangiare in piedi. In quel momento, Charles zuccherava il suo caffè. Père Grandet vide le zollette di zucchero, scrutò sua moglie che impallidì, e fece tre passi; si piegò verso l’orecchio della povera vecchia, e le disse: “Dove avete preso dunque tutto questo zucchero?”.

“Nanon è andata a prenderlo da Fessard, non ce n’era più.”

È impossibile immaginarsi il profondo interesse che suscitava questa scena muta alle tre donne: Nanon era uscita dalla cucina e guardava nel salone per vedere come si sarebbero svolte le cose. Charles, avendo assaggiato il suo caffè, lo trovò troppo amaro, e cercò lo zucchero che Grandet aveva già riposto via.

“Che cosa volete, nipote mio?”

“Lo zucchero.”

“Mettete del latte,” rispose il padrone di casa, “il vostro caffè si addolcirà.”

Eugénie riprese il piattino dello zucchero che Grandet aveva già messo via, e lo mise sulla tavola, guardando suo padre con un’aria calma. Certo, la parigina che, per facilitare la fuga del suo amante, sorregge con le sue deboli braccia una scala di seta, non ha più coraggio di quanto mostrava Eugénie rimettendo lo zucchero sulla tavola. L’amante ricompenserà la sua parigina che gli mostrerà orgogliosa un bel braccio martoriato dove ogni vena pesta sarà bagnata da lacrime, da baci, e guarita dal piacere; invece per Charles non era possibile vedere il segreto delle profonde agitazioni che spezzavano il cuore di sua cugina, mentre veniva fulminata dallo sguardo dell’ex bottaio.

“Tu non mangi, moglie mia?”

La povera ilota avanzò, tagliò pietosamente un pezzo di pane e prese una pera. Eugénie offrì audacemente a suo padre dell’uva dicendogli: “Assaggia quest’uva che ho messo da parte, papà! Cugino, voi ne mangerete, non è vero? Sono andata a prendere questi bei grappoli per voi”.

“Oh! Se non le si ferma, metteranno Saumur al sacco per voi, nipote mio. Quando avrete finito, andremo insieme in giardino, devo dirvi delle cose che non saranno zuccherate.”

Eugénie e sua madre lanciarono uno sguardo su Charles, l’espressione del quale non lasciò dubbi al ragazzo.

“Che cosa significano queste parole, zio mio? Dalla morte della mia povera madre…” (a queste due parole, la sua voce si velò) “non c’è alcuna sciagura possibile per me…”

“Nipote mio, chi può conoscere le afflizioni attraverso le quali Dio vuole metterci alla prova?” gli disse sua zia.

“Ta, ta, ta, ta!” disse Grandet. “Ecco che cominciano le stupidaggini. Vedo con pena, nipote mio, le vostre bianche mani.” Gli mostrò le sue spalle da montone che la natura gli aveva messo sopra le braccia. “Ecco delle mani fatte per raccogliere degli scudi! Voi siete stato educato a mettere i vostri piedi nella pelle con cui si fabbricano i portafogli dove si mettono le lettere di cambio. Male! Male!”

“Che cosa volete dire, zio mio? Che sia impiccato se capisco una sola parola.”

“Venite,” disse Grandet.

L’avaro fece scattare la lama del suo coltello, bevve il resto del suo vino bianco e aprì la porta.

“Cugino mio, abbiate coraggio!”

Il tono della giovane gelò Charles, che seguì il suo terribile parente in preda a inquietudini mortali. Eugénie, sua madre e Nanon andarono in cucina, eccitate da un’invincibile curiosità di spiare i due attori della scena che stava per avere luogo nel piccolo e umido giardino, dove lo zio camminò dapprima in silenzio con il nipote.

Grandet non si sentiva in imbarazzo nel comunicare a Charles la morte di suo padre, ma provava una sorta di compassione sapendolo senza un soldo e cercava delle formule per addolcire l’espressione di questa verità crudele. “Voi avete perso vostro padre!” non era difficile da dire. I padri muoiono prima dei figli. Ma: “Voi siete privo di ogni sorta di ricchezza!”, tutte le sciagure della terra erano riunite in queste parole. E così il brav’uomo faceva, per la terza volta, il giro del viale centrale, la cui sabbia scricchiolava sotto i suoi piedi. Nei grandi momenti della vita la nostra anima si lega fortemente ai luoghi dove i piaceri e i dolori si sono abbattuti su di noi. Così Charles esaminava con un’attenzione particolare i cespugli di bosso di quel piccolo giardino, le pallide foglie che cadevano, il digradare dei muri, le irregolarità degli alberi da frutto, dettagli pittoreschi che sarebbero rimasti incisi nel suo ricordo, eternamente mescolati a quell’ora suprema, attraverso la mnemotecnica tipica delle passioni.

“Fa proprio caldo, e fa molto bello,” disse Grandet aspirando una grande boccata d’aria.

“Sì, zio, ma perché…”

“Eh! Bene, ragazzo mio,” continuò lo zio, “ho delle brutte notizie da darti. Tuo padre sta proprio male…”

“Perché sono qui?” disse Charles. “Nanon!” gridò. “Dei cavalli di posta. Troverò una carrozza in città,” aggiunse volgendosi verso lo zio che rimaneva immobile.

“I cavalli e la carrozza sono inutili,” rispose Grandet guardando Charles che rimase muto e i cui occhi divennero vitrei. “Sì, povero ragazzo mio, hai indovinato. È morto. Ma non è niente, c’è qualcosa di più grave, si è bruciato le cervella…”

“Mio padre?”

“Sì. Ma non è niente. I giornali parlano di ciò come se ne avessero il diritto. Tieni, leggi.”

Grandet, che aveva preso in prestito il giornale di Cruchot, mise il fatale articolo sotto gli occhi di Charles. In quel momento il povero ragazzo, ancora bambino, ancora nell’età in cui i sentimenti si manifestano con semplicità, ruppe in singhiozzi.

“Suvvia, bene,” disse fra sé Grandet. “I suoi occhi mi spaventavano. Piange, eccolo salvo.” “Non è ancora niente, mio povero nipote,” proseguì Grandet ad alta voce, senza sapere se Charles l’ascoltava, “non è ancora niente, ti consolerai, ma…”

“Mai! Mai! Mio padre! Mio padre!”

“Ti ha rovinato, sei senza un soldo.”

“E cosa me ne importa! Dov’è mio padre? Mio padre!”

Il pianto e i singhiozzi risuonavano entro queste mura in una maniera orribile e si ripercuotevano attraverso l’eco. Le tre donne, prese da pietà, piangevano: le lacrime sono altrettanto contagiose di quanto può esserlo il riso. Charles, senza ascoltare suo zio, fuggì nel cortile, trovò le scale, salì nella sua camera e si gettò di traverso sul letto, affondando il volto nelle lenzuola per piangere a suo agio lontano dai parenti.

“Bisogna far passare il primo temporale,” disse Grandet rientrando nel salone dove Eugénie e sua madre avevano bruscamente ripreso il loro posto, e lavoravano con mano tremante dopo essersi asciugate gli occhi. “Ma questo ragazzo è un buono a niente, si occupa più dei morti che dei soldi.”

Eugénie rabbrividì sentendo suo padre esprimersi così sul più santo dei dolori. Da quel momento iniziò a giudicarlo. Per quanto attutiti, i singhiozzi di Charles risonavano in quella casa sonora; e il suo lamento profondo, che sembrava uscire da sottoterra, cessò solo verso sera, dopo essersi gradualmente affievolito.

“Povero ragazzo!” disse madame Grandet.

Esclamazione fatale! Père Grandet guardò sua moglie, Eugénie e la zuccheriera; si ricordò della straordinaria colazione preparata per lo sventurato parente e si mise al centro del salone.

“Ah! Questa poi! Spero,” disse con la sua calma abituale, “che non continuerete con le vostre prodigalità, madame Grandet. Non vi do i miei soldi per ingozzare di zucchero questo bizzarro giovane.”

“Mia madre non c’entra niente,” disse Eugénie. “Sono io che…”

“Forse è perché sei diventata maggiorenne,” replicò Grandet interrompendo sua figlia, “che vorresti contrariarmi? Pensa, Eugénie…”

“Padre mio, al figlio di vostro fratello, non dovrebbe mancare presso di voi dello…”

“Ta, ta, ta, ta,” disse il bottaio in quattro semitoni, “il figlio di mio fratello qui, mio nipote là. Charles non è niente per noi, non ha un soldo e nemmeno mezzo denaro9; suo padre ha fatto fallimento; e quando questo damerino avrà pianto a sazietà, andrà via di qui, non voglio che rivoluzioni la mia casa.”

“Che cosa vuol dire, padre mio, fare fallimento?” chiese Eugénie.

“Fare fallimento,” ribatté il padre, “significa commettere l’azione più disonorevole fra tutte quelle che possono disonorare un uomo.”

“Deve trattarsi di un peccato davvero grande,” disse madame Grandet, “e nostro fratello sarà dannato.”

“Basta con le tue litanie,” disse a sua moglie con un’alzata di spalle. “Fare fallimento, Eugénie,” proseguì, “è un furto che sfortunatamente la legge prende sotto la propria protezione. Alcune persone hanno dato i loro prodotti a Guillaume Grandet sulla sua reputazione onorevole e proba; in seguito lui ha preso loro tutto, lasciando loro solo gli occhi per piangere. Il ladro di strada è preferibile al bancarottiere: se vi attacca potete difendervi, rischia la propria testa; ma l’altro… In breve, Charles è disonorato.”

Queste parole risuonarono nel cuore della povera fanciulla e vi gravarono con tutto il loro peso. Proba quanto un fiore delicato nato in fondo a una foresta, non conosceva né le massime del mondo, né i suoi capziosi ragionamenti, né i suoi sofismi: accettò dunque l’atroce spiegazione che suo padre le dava a proposito del fallimento, senza farle conoscere la distinzione esistente tra un fallimento involontario e un fallimento calcolato.

“Ebbene! Padre mio, non avete dunque potuto impedire questa sciagura?”

“Mio fratello non mi ha consultato; del resto deve quattro milioni.”

“Che cosa è dunque un milione, padre mio?” chiese con l’ingenuità di un bambino che crede di poter trovare subito ciò che desidera.

“Un milione?” disse Grandet. “Ma è un milione di monete da venti soldi, e occorrono cinque monete da venti soldi per fare cinque franchi.”

“Mio Dio! Mio Dio!” gridò Eugénie. “Come ha fatto mio zio ad avere quattro milioni? Ci sono altre persone in Francia che posseggono altrettanti milioni?” (Père Grandet si accarezzava il mento, sorrideva, e la sua verruca sembrava dilatarsi.) “Ma cosa ne sarà di mio cugino Charles?”

“Partirà per le Grandi Indie dove, secondo il desiderio di suo padre, cercherà di diventare ricco.”

“Ma ha dei soldi per andare fin là?”

“Gli pagherò il viaggio… sino a… sì, sino a Nantes.”

Con un balzo Eugénie saltò al collo di suo padre.

“Ah! Padre mio, come siete buono, voi!”

Lo baciava in maniera tale da far quasi vergognare Grandet, cui rimordeva già un po’ la coscienza.

“Ci vuole molto tempo per ammassare un milione?” gli chiese.

“Diamine!” disse il bottaio. “Tu sai che cosa è un napoleone. Ebbene! Ne occorrono cinquantamila per fare un milione.”

“Mamma, diremo delle novene per lui.”

“Ci stavo pensando,” rispose la madre.

“Ecco, sempre a spendere soldi,” esclamò il padre. “Ah questa poi! Credete che qui ce ne siano a centinaia e a migliaia.”

In questo momento un lamento sordo, più lugubre di tutti gli altri, risuonò nella soffitta e gelò di terrore Eugénie e sua madre.

“Nanon, va’ a vedere di sopra che non si uccida,” disse Grandet. “Ah, questa poi!” proseguì voltandosi verso sua moglie e sua figlia, divenute pallide alle sue parole. “Niente sciocchezze, voi due. Vi lascio. Devo tornare presso i nostri olandesi, che vanno via oggi. Poi andrò da Cruchot per parlare con lui di tutto questo.”

Partì. Quando Grandet ebbe tirato la porta, Eugénie e sua madre respirarono più a loro agio. Prima di quella mattinata, mai la giovane ragazza si era sentita oppressa in presenza di suo padre; ma, da qualche ora, cambiava in ogni momento sentimento e idee.

“Mamma, quanti luigi si ricavano da una botte di vino?”

“Tuo padre vende le sue tra i cento e i centocinquanta franchi, talora duecento, a quanto ho sentito dire.”

“Quando raccoglie millequattrocento botti di vino…”

“In fede mia, bambina mia, io non so quanto faccia; tuo padre non mi parla mai dei suoi affari.”

“Ma allora papà deve essere ricco.”

“Forse. Ma monsieur Cruchot mi ha detto che ha comprato Froidfond due anni orsono. L’avrà messo in difficoltà.”

Eugénie, non capendo più nulla della ricchezza del padre, smise di fare i calcoli.

“Non mi ha nemmeno vista, il tesorino,” disse Nanon tornando. “È sdraiato come un vitello sul suo letto, e piange come una Maddalena, che attira le benedizioni. Quale dolore affligge dunque questo povero giovane?”

“Presto, andiamo a consolarlo, mamma; e se bussano, scenderemo.”

Madame Grandet rimase indifesa nei confronti delle armonie della voce della figlia. Eugénie era sublime, era donna. Tutte e due, con il cuore palpitante, salirono in camera di Charles. La porta era aperta. Il giovane non vedeva né sentiva niente. Sommerso dalle lacrime, emetteva dei lamenti disarticolati.

“Come ama suo padre!” disse Eugénie a voce bassa.

Era impossibile non riconoscere nel tono di queste parole le speranze di un cuore appassionato a sua insaputa. Così madame Grandet lanciò verso sua figlia uno sguardo colmo di maternità, poi le disse a bassa voce nell’orecchio: “Bada, finirai per amarlo”.

“Amarlo!” ripeté Eugénie. “Ah! Se tu sapessi cosa ha detto mio padre!”

Charles si voltò e vide sua zia e sua cugina.

“Ho perso mio padre, il mio povero padre! Se mi avesse confidato il segreto della sua sciagura, noi avremmo lavorato insieme per porvi rimedio. Mio Dio! Il mio buon padre! Contavo proprio di rivederlo, perché, credo, l’ho baciato con freddezza.”

I singhiozzi gli tolsero la parola.

“Pregheremo per lui,” disse madame Grandet. “Rassegnatevi alla volontà di Dio.”

“Cugino mio,” disse Eugénie, “fatevi coraggio! La vostra perdita è irreparabile: ma pensate ora a salvare il vostro onore…”

“Il mio onore?…” gridò il giovane, spostandosi i capelli con un movimento brusco, e si sedette sul letto incrociando le braccia. “Ah! È vero. Mio padre, diceva mio zio, ha fatto fallimento.” Lanciò un grido lacerante e nascose il suo volto tra le mani. “Lasciatemi, cugina mia, lasciatemi! Mio Dio! Mio Dio! Perdonate mio padre, deve aver sofferto molto.”

C’era qualcosa di terribilmente toccante nel vedere l’espressione di questo dolore giovane, vero, senza calcoli, senza retropensieri. Era un dolore pudico che i cuori semplici di Eugénie e sua madre capirono quando Charles fece loro un gesto per chiedere di essere abbandonato a se stesso. Scesero, ripresero in silenzio i loro posti vicino alla finestra e lavorarono per un’ora circa senza dire una parola. Eugénie aveva notato, attraverso lo sguardo furtivo che aveva gettato agli oggetti del giovane, questo sguardo delle fanciulle che vedono tutto in un colpo d’occhio, i begli accessori della sua toeletta, le sue forbici, i rasoi dorati. Questa fuga nel lusso visto attraverso il dolore le rese Charles ancora più interessante, forse per contrasto. Mai un evento così grave, mai uno spettacolo così drammatico aveva colpito l’immaginazione di queste due creature costantemente immerse nella calma e nella solitudine.

“Mamma,” disse Eugénie. “Noi porteremo il lutto per lo zio.”

“Questo lo deciderà tuo padre,” rispose madame Grandet.

Restarono nuovamente in silenzio. Eugénie eseguiva i punti di cucito con una regolarità di movimento che avrebbe svelato a un osservatore i pensieri fecondi della sua meditazione. Il primo desiderio di questa ragazza adorabile era di condividere il lutto di suo cugino. Verso le quattro un brusco colpo di martello risuonò nel cuore di madame Grandet.

“Che cosa ha dunque tuo padre?” disse a sua figlia.

Il vignaiolo entrò allegro. Dopo essersi tolto i guanti, si fregò le mani a strapparsi la pelle, se l’epidermide non fosse stata conciata come del cuoio di Russia, escluso l’odore dei larici e dell’incenso. Passeggiava, guardava il tempo. Infine il suo segreto gli sfuggì.

“Moglie mia,” disse senza balbettare. “Li ho accalappiati tutti. Il nostro vino è venduto! Gli olandesi e i belgi partivano questa mattina, ho passeggiato sulla piazza davanti al loro albergo, facendo il finto tonto. Chose, che tu conosci, mi è venuto incontro. I proprietari di tutte le migliori vigne conservano il loro raccolto e vogliono aspettare, non glielo ho impedito. Il nostro belga era disperato. L’ho notato. Affare fatto, prende il nostro raccolto a duecento franchi la botte, metà in contanti. Vengo pagato in oro. I biglietti sono fatti, ecco sei luigi10 per te. Fra tre mesi i prezzi del vino caleranno.”

Queste ultime parole furono pronunciate con un tono calmo, ma così profondamente ironico, che le persone di Saumur raccoltesi in piazza, e in subbuglio per la notizia della vendita appena fatta da Grandet, sarebbero rabbrividite se le avessero sentite. Un timor panico avrebbe fatto cadere i prezzi dei vini del 50 per cento.

“Avete mille botti quest’anno, padre mio?” disse Eugénie.

“Sì, figlietta.”

Questa parola esprimeva in maniera superlativa la gioia dell’ex bottaio.

“Ciò fa duecentomila monete di venti soldi.”

“Sì, signorina Grandet.”

“Ebbene! Padre mio, potreste facilmente soccorrere Charles.”

Lo sbalordimento, la collera, lo stupore di Balthazar nel vedere il Mene-Tekel-Peres11 non erano comparabili al freddo corruccio di Grandet, che non pensando più a suo nipote, lo trovava insediato nel cuore e nei calcoli di sua figlia.

“Ah, questa poi! Da quando questo damerino ha messo piede in casa mia, va tutto storto. Vi date le arie di comprare dei confetti, di fare nozze e festini. Non voglio queste cose. Forse so, alla mia età, come mi devo comportare! Del resto non devo prendere lezioni né da mia figlia né da nessuno. Farò per mio nipote quello che sarà necessario fare, voi non dovete metterci il naso. Quanto a te, Eugénie,” aggiunse volgendosi verso di lei, “non mi parlare più altrimenti ti spedisco all’abbazia di Noyers con Nanon; e non più tardi di domani se metti su il broncio. Dov’è dunque il ragazzo, è sceso?”

“No, amico mio,” rispose madame Grandet.

“Eh! Allora che cosa fa, dunque?”

“Piange suo padre,” rispose Eugénie.

Grandet guardò sua figlia, senza trovare una parola di risposta. Un po’ era padre anche lui. Dopo aver fatto uno o due giri del salone, salì rapidamente nel suo studio per meditare un investimento nei fondi pubblici. I suoi duemila arpenti di foresta cedua gli avevano fruttato seicentomila franchi; aggiungendo a questa somma il denaro dei suoi pioppi, i suoi redditi dell’anno precedente e quelli dell’anno in corso, oltre ai duecentomila franchi dell’affare che aveva appena concluso, poteva mettere insieme una massa di novecentomila franchi. Il 20 per cento di guadagno in breve tempo sulle rendite che erano a settanta franchi lo tentavano. Calcolò la sua speculazione sul giornale dove era stata annunciata la morte di suo fratello e sentendo, senza ascoltarli, i gemiti di suo nipote. Nanon venne a bussare sul muro, per invitare il padrone a scendere, la cena era servita. Sotto la volta e all’ultimo gradino della scala Grandet diceva fra sé: “Poiché i miei interessi raggiungeranno l’8 per cento, farò questo affare. In due anni avrò millecinquecento franchi che ritirerò in oro buono da Parigi”.

“Ebbene! Dov’è dunque mio nipote?”

“Dice che non vuole mangiare,” rispose Nanon. “E questo non è sano.”

“Tanto di risparmiato,” le replicò il suo padrone.

“Diamine, ssì,” disse Nanon.

“Bah! Non piangerà sempre. La fame caccerà il lupo fuori dal bosco.”

La cena fu stranamente silenziosa.

“Mio caro amico,” disse madame Grandet, quando venne tolta la tovaglia, “bisogna prendere il lutto.”

“In verità, madame Grandet, voi non sapete cosa inventarvi per spendere soldi. Il lutto è nel cuore, non nei vestiti.”

“Ma il lutto di un fratello è indispensabile, e la Chiesa ci ordina di…”

“Comprate il vostro lutto con i vostri sei luigi. Mi darete una fascia da lutto, per me sarà sufficiente.”

Eugénie alzò gli occhi al cielo senza dire una parola. Per la prima volta nella sua vita, le sue generose inclinazioni assopite, compresse, ma subito risvegliatesi, erano continuamente maltrattate. In apparenza questa serata fu simile a mille altre della loro esistenza monotona, ma fu di certo la più orribile. Eugénie lavorò senza alzare la testa e non utilizzò il nécessaire disdegnato da Charles la sera precedente. Madame Grandet sferruzzò i suoi manicotti. Grandet girò i pollici per quattro ore, sprofondato in calcoli i cui risultati l’indomani dovevano stupire Saumur. Quel giorno nessuno venne a fare visita alla famiglia. In quel momento in tutta la città risuonava il colpo di mano di Grandet, il fallimento di suo fratello e l’arrivo di suo nipote. Per obbedire al bisogno di discutere dei loro interessi comuni, tutti i proprietari di vigneti delle alte e medie società di Saumur erano a casa di monsieur des Grassins, dove furono scagliate terribili imprecazioni contro l’ex sindaco. Nanon tesseva, il rumore del suo arcolaio era l’unica voce che si faceva sentire sotto il palchetto grigiastro del salone.

“Non usiamo per niente le nostre lingue,” disse lei mostrando i suoi denti bianchi e grossi come delle mandorle pelate.

“Non bisogna usare niente,” rispose Grandet svegliandosi dalle sue meditazioni. In prospettiva prevedeva otto milioni in tre anni, navigava su questo lungo nastro d’oro. “Andiamo a dormire. Andrò a dare la buonasera per tutti a mio nipote e vedere se vuole mangiare qualcosa.”

Madame Grandet rimase sul pianerottolo del primo piano per sentire la conversazione che stava per avere luogo tra Charles e il brav’uomo. Eugénie, più audace di sua madre, salì due scalini.

“Ebbene! Nipote mio, siete afflitto. Sì, piangete, è naturale. Un padre è un padre. Ma occorre sopportare il nostro dolore con pazienza. Mi occupo di voi mentre piangete. Sono un buon parente, vedete. Suvvia, coraggio. Volete bere un piccolo bicchiere di vino? Il vino non costa niente a Saumur, dove si offre il vino come il tè nelle Indie. Ma,” disse Grandet continuando, “voi siete senza luce, male, male! Bisogna vedere chiaro in ciò che si fa.” Grandet avanzò verso il camino. “Toh!” gridò. “Ecco una candela. Dove diavolo hanno pescato la candela? Quelle canaglie distruggerebbero il palchetto della mia casa per cuocere delle uova a questo ragazzo.”

Sentendo queste parole, madre e figlia tornarono nelle loro camere e si infilarono a letto con la velocità dei topi spaventati che rientrano nei loro buchi.

“Madame Grandet, possedete dunque un tesoro?” disse l’uomo entrando nella camera di sua moglie.

“Amico mio, sto dicendo le preghiere, aspettate,” rispose con una voce alterata la povera madre.

“Che il diavolo si porti via il vostro buon Dio!” replicò Grandet borbottando.

Gli avari non credono in una vita a venire, per loro il presente è tutto. Questa riflessione getta una luce terribile sull’epoca attuale, in cui, più di ogni altro periodo, il denaro domina le leggi, la politica e le consuetudini. Istituzioni, libri, uomini e dottrine, tutto cospira a minare la credenza in una vita futura sulla quale l’edificio sociale poggia da milleottocento anni. Ora la bara è una transizione poco temuta. L’avvenire che ci attendeva al di là del Requiem è stato trasportato nel presente. Arrivare per fas et nefas12 al paradiso terrestre del lusso e dei godimenti vanitosi, pietrificare il proprio cuore e macerarsi il corpo in vista di possedimenti passeggeri, come si sopportava un tempo il martirio della vita in vista di beni eterni, è il pensiero generale! Un pensiero del resto scritto ovunque, persino nelle leggi che chiedono al legislatore: “Che cosa paghi?” anziché dirgli: “Che cosa pensi?”. Quando tale dottrina passerà dalla borghesia al popolo che cosa diventerà la nazione?

“Madame Grandet, hai finito?” disse l’ex bottaio.

“Amico mio, prego per te.”

“Benissimo! Buonasera, parleremo domani mattina.”

La povera donna si addormentò come lo scolaro il quale, non avendo imparato le proprie lezioni, teme di trovare al suo risveglio il volto irritato dell’insegnante. Nel momento in cui, per la paura, si rivoltolava nelle sue lenzuola per non sentire nulla, Eugénie si avvicinò a lei, in camicia da notte, a piedi nudi, e venne a baciarla sulla fronte.

“Oh! Buona madre,” disse, “domani gli dirò che sono io.”

“No, ti spedirebbe a Noyers. Lasciami fare, non mi mangerà.”

“Senti, mamma?”

“Cosa?”

“Ebbene! Piange sempre.”

“Vai a dormire dunque, figlia mia. Prenderai solo freddo ai piedi, il pavimento è umido.”

Così trascorse la solenne giornata che doveva pesare su tutta la vita della ricca e povera ereditiera il cui sonno non fu mai più così profondo e così puro come lo era stato sino ad allora. Molto spesso alcune azioni della vita umana appaiono, letterariamente parlando, inverosimili, benché siano vere. Ma non sarebbe forse che si omette quasi sempre di diffondere sulle nostre decisioni spontanee una sorta di luce psicologica, non spiegando le misteriose ragioni concepite che le hanno rese necessarie? Forse la passione profonda di Eugénie dovrebbe essere analizzata nelle sue fibrillazioni più delicate, poiché divenne, direbbero alcune malelingue, una malattia, e influenzò tutta la sua esistenza. Molte persone preferiscono negare le conclusioni, piuttosto che misurare la forza dei legami, dei nodi, dei collegamenti che saldano un fatto all’altro nell’ordine morale. Qui dunque il passato di Eugénie servirà, per gli osservatori della natura umana, come garanzia della sua ingenuità irriflessiva e delle improvvise effusioni della sua anima. Tanto più la sua vita era stata tranquilla, quanto più la pietà femminile, il più ingegnoso dei sentimenti, si dispiegò nel suo animo. Così, turbata dagli eventi della giornata, si svegliò più volte per ascoltare suo cugino, credendo di averne sentito i sospiri che dal giorno prima gli risuonavano nel cuore: ora lo vedeva morire per il dolore, ora lo sognava che moriva di fame. Verso il mattino sentì sicuramente una terribile esclamazione. Subito si vestì e accorse all’alba, con passo leggero, vicino a suo cugino che aveva lasciato la porta aperta. La candela era bruciata nella sua padellina. Charles, vinto dalla natura, dormiva vestito, seduto su un divano, la testa rovesciata sul letto; sognava come sognano le persone che hanno lo stomaco vuoto. Eugénie poté piangere liberamente; poté ammirare quel giovane e bel volto, striato dal dolore, gli occhi gonfi di lacrime, e che pur addormentati sembravano ancora versare dei pianti. Charles indovinò per empatia la presenza di Eugénie, aprì gli occhi e la vide intenerita.

“Perdono, cugina mia,” disse non sapendo evidentemente né che ora fosse, né il luogo in cui si trovava.

“Ci sono qui dei cuori che vi ascoltano, cugino mio, e noi abbiamo creduto che voi aveste bisogno di qualcosa. Dovreste coricarvi, vi stancate se restate così.”

“È vero.”

“Ebbene! Addio.”

Si defilò, vergognosa e felice di essere venuta. Solo l’innocenza osa simili audacie. Istruita, la virtù calcola altrettanto bene quanto il vizio. Eugénie che, vicino a suo cugino, non aveva tremato, poté appena reggersi sulle gambe quando fu nella sua camera. La sua vita ignorante era cessata di colpo, ragionò, e si mosse mille rimproveri. “Che idea si farà di me? Crederà che l’amo.” Ed era precisamente ciò che desiderava di più vedergli credere. L’amore sincero ha una sua prescienza e sa che l’amore eccita l’amore. Che evento, per questa fanciulla solitaria, essere entrata furtivamente presso un giovane! Non ci sono forse pensieri, azioni che, in amore, equivalgono per alcune anime a dei santi fidanzamenti? Un’ora dopo si recò da sua madre e la vestì come d’abitudine. Poi vennero a sedersi ai loro posti davanti alla finestra e aspettarono Grandet con quell’ansietà che gela o riscalda il cuore, lo stringe o lo dilata a seconda delle nature, quando si teme una scenata, una punizione; sentimento del resto così naturale che gli animali domestici lo provano al punto da gridare dal tenue dolore di un castigo, mentre tacciono quando si feriscono inavvertitamente. Il brav’uomo scese, ma parlò alla moglie con un’aria distratta, baciò Eugénie e si mise a tavola senza mostrare di pensare alle minacce del giorno prima.

“Che succede a mio nipote? Non si può dire che sia una persona ingombrante.”

“Dorme signore,” rispose Nanon.

“Tanto meglio, non ha bisogno della candela,” disse Grandet in tono beffardo.

Questa clemenza insolita, questa amara gaiezza colpirono madame Grandet, che guardò suo marito con molta attenzione. Il brav’uomo… Forse qui è opportuno far notare che in Touraine, Anjou, in Bretagna l’espressione “brav’uomo”, così spesso utilizzata per designare Grandet, è assegnata agli uomini più crudeli quanto a quelli più bonaccioni, non appena sono giunti a una certa età. Questo titolo non riguarda la mansuetudine individuale. Il brav’uomo, dunque, prese il suo cappello, i suoi guanti e disse: “Vado a bighellonare in piazza per incontrare i nostri Cruchot”.

“Eugénie, tuo padre ha sicuramente qualcosa.”

In effetti, Grandet, che dormiva poco, impiegava la metà delle sue notti in calcoli preliminari che davano alle sue vedute, alle sue osservazioni una stupefacente esattezza e gli assicuravano il costante successo di cui si meravigliavano gli abitanti di Saumur. Ogni potere umano è un misto di pazienza e di tempo. Gli uomini potenti vogliono e vegliano. La vita dell’avaro è un esercizio costante della potenza umana messa al servizio della personalità. Si appoggia solo su due sentimenti: l’amor proprio e l’interesse; ma poiché l’interesse è in qualche modo l’amor proprio solido e ben inteso, l’attestazione continua di una reale superiorità, l’amor proprio e l’interesse sono due parti di uno stesso insieme, l’egoismo. Da ciò deriva forse la prodigiosa curiosità che suscitano gli avari quando vengono abilmente messi in scena. Ognuno è collegato attraverso un filo a questi personaggi che si attaccano a tutti i sentimenti umani, riassumendoli tutti. Dov’è l’uomo senza desiderio, e quale desiderio sociale può essere soddisfatto senza denaro? Grandet aveva davvero qualcosa, seguendo l’espressione di sua moglie. Era presente in lui, come in tutti gli avari, un bisogno persistente di giocare una partita con gli altri uomini e di vincere legalmente i loro scudi. Avere la meglio sugli altri non è compiere un atto di potere, darsi perpetuamente il diritto di disprezzare coloro che, troppo deboli, si lasciano divorare in questo mondo? Oh! Chi ha capito davvero l’agnello placidamente disteso ai piedi di Dio, il più toccante emblema di tutte le vittime terrestri, quello del loro avvenire, infine la sofferenza e la debolezza glorificate? Questo agnello, l’avaro lo lascia ingrassare, lo rinchiude in un recinto, lo uccide, lo cuoce, lo mangia e lo disprezza. Il nutrimento degli avari si compone di denaro e disprezzo. Durante la notte le idee del brav’uomo avevano preso un altro corso: da qui derivava la sua clemenza. Aveva ordito una trama per prendere in giro i parigini, per spremerli, per raggirarli, per calpestarli, per farli andare, venire, sudare, sperare, impallidire; per prendersi gioco di loro, lui, ex bottaio, al fondo del suo grigio salone, salendo la scala tarlata della sua casa di Saumur. Suo nipote l’aveva tenuto occupato. Voleva salvare l’onore di suo fratello morto, senza che costasse un soldo né a suo nipote né a lui. I suoi averi stavano per essere piazzati per tre anni, doveva solo gestire i suoi beni; occorreva dunque un alimento alla sua attività furbesca, l’aveva trovato nel fallimento di suo fratello. Non sentendo niente da stringere fra le zampe, voleva schiacciare i parigini a vantaggio di Charles e mostrarsi un eccellente fratello a buon mercato. L’onore della famiglia contava così poco nel suo progetto, che la sua buona volontà deve essere confrontata al bisogno che provano i giocatori nel vedere giocare bene una partita in cui non c’è nulla in palio. E i Cruchot gli erano necessari, e non voleva andarli a cercare, aveva deciso di farli venire da lui e di cominciare quella sera stessa la commedia il cui piano era appena stato concepito, al fine di essere l’indomani, senza che gli costasse un soldo, oggetto di ammirazione nella sua città.

La Venere di Milo (II sec. a.C.), scoperta da poco, era stata comprata dall’ambasciatore francese a Istanbul, Charles François de Riffardeau, marchese de Rivière (1763-1828) e donata al re Carlo X; la statua entrò al Louvre nel 1821.

Si allude alla grande statua perduta di Zeus realizzata da Fidia e molto ammirata durante l’antichità.

Nel novembre del 1806 Napoleone impose il blocco continentale, che generò un rialzo del prezzo dei prodotti coloniali come lo zucchero di canna proveniente dal mar dei Caraibi.

Un tempo lo zucchero veniva venduto sotto forma di pani, che poi venivano tagliati in zollette.

Le Grandi Indie designavano la penisola indiana (formata dalla Birmania, la Thailandia e l’Indocina) per distinguerle dalle Indie Occidentali (Antille) e dalle Indie Orientali che si trovavano nell’Estremo Oriente.

Balzac fa riferimento alle sorelle siamesi Elena e Giuditta (1701-1723) citate sia da Georges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788) nella sua Storia naturale in trentasei volumi (1749-1789), nel quarto volume (1777, supplemento, pp. 578-580) nel paragafo “Sur les monstres”, sia da Isidore Geoffroy Saint-Hilaire (1805-1861) nel suo Traité de tératologie (1832-1837).

Abraham Louis Bréguet (1747-1823), celebre orologiaio svizzero che, nel 1775 a Parigi, aprì il suo primo negozio di orologi e che nel 1785 fu riconosciuto mastro orologiaio. Il suo primo orologio da polso fu venduto nel 1810 alla sorella di Napoleone Carolina Bonaparte, allora regina di Napoli, poiché nel 1801 aveva sposato Gioacchino Murat.

La caffettiera à la Chaptal (o Chaftal) corrisponde grosso modo alle moderne caffettiere. Cfr., per una descrizione di tale modello di caffettiera, C. Chavannes, Cours d’économie domestique, Imprimerie des frères Blanchard, Lausanne 1840, p. 112.

In francese “maille”, che prima della Rivoluzione era la moneta più piccola in circolazione del valore di mezzo denaro.

10 Vale a dire 120 franchi.

11 Sono le parole decifrate dal profeta Daniele con cui Dio annuncia il destino che attende Baldassarre, ultimo re di Babilonia. Cfr. Daniele, 5, 25-28: “Mene, Tekel, Peres, e questa ne è l’intepretazione. Mene: Dio ha contato il tuo regno e gli ha posto fine; Tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente; Peres: il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani”.

12 Con ogni mezzo, legale o illegale che sia.

Capitolo 4 
Giuramenti d’amore

In assenza del padre, Eugénie ebbe il piacere di potersi occupare apertamente del suo amato cugino, di spargere su di lui i tesori della sua pietà, senza timore, una delle sublimi superiorità della donna, l’unica che voglia far sentire, la sola che perdona all’uomo che gliela fa prendere su di lui. Tre o quattro volte Eugénie andò ad ascoltare la respirazione di suo cugino; sapere se dormiva, se si svegliava; poi, quando si alzò, la panna, il caffè, le uova, la frutta, i piatti, il bicchiere, tutto ciò che faceva parte della colazione, fu oggetto per lei di qualche attenzione. Si inerpicò rapidamente per la vecchia scala per ascoltare il rumore che faceva suo cugino. Si vestiva? Piangeva ancora? Si spinse sino alla porta.

“Cugino?”

“Cugina?”

“Volete far colazione nel salone o in camera vostra?”

“Dove vorrete.”

“Come vi sentite?”

“Mia cara cugina, provo vergogna ad aver fame.”

Questa conversazione attraverso la porta era per Eugénie un episodio romanzesco.

“Ebbene! Vi porteremo la colazione in camera vostra, per non contrariare mio padre.” Scese in cucina con la leggerezza di un uccello. “Nanon, vai a fare la sua stanza.”

Questa scala così spesso salita, discesa, dove risuonava il minimo rumore, sembrava a Eugénie che avesse perso il suo carattere antico; la vedeva luminosa, parlava, era giovane come lei, giovane come il suo amore al quale serviva. Infine sua madre, la sua buona e indulgente madre, volle prestarsi di buon grado alle fantasie del suo amore e quando la camera di Charles fu rifatta, andarono entrambe a tenere compagnia allo sventurato: la carità cristiana non ordinava forse di consolarlo? Queste due donne pescarono nella religione un buon numero di piccoli sofismi per giustificare il loro comportamento fuori dall’ordinario. Charles Grandet dunque si vide oggetto delle cure più affettuose e più tenere. Il suo cuore addolorato sentì vivamente la dolcezza di questa amicizia vellutata, di questa squisita simpatia, che queste due anime sempre oppresse seppero dispiegare trovandosi per un momento libere nella regione delle sofferenze, la loro sfera naturale. Autorizzata dalla parentela, Eugénie si mise a sistemare la biancheria, gli oggetti della toeletta portati da suo cugino, e poté liberamente stupirsi di ogni lussuosa bazzecola, dei ninnoli d’argento, d’oro lavorato che le vennero per le mani e che guardava a lungo con il pretesto di esaminarli; Charles vide non senza intenerirsi profondamente l’interesse generoso dimostratogli da sua zia e da sua cugina, conosceva abbastanza bene la società di Parigi per sapere che nella sua posizione avrebbe trovato solo cuori indifferenti e freddi. Eugénie gli apparve in tutto lo splendore della sua bellezza speciale, e da allora ammirò l’innocenza di tali consuetudini che prendeva in giro il giorno prima. Così, quando Eugénie prese dalle mani di Nanon la scodella in ceramica colma di caffè con panna per servirla a suo cugino con tutta la semplicità del sentimento, lanciandogli uno sguardo buono, gli occhi del parigino si inumidirono, le prese la mano e gliela baciò.

“Ebbene! Che cosa avete ancora?” chiese.

“Oh! Sono lacrime di riconoscenza,” rispose.

Eugénie si voltò di scatto verso il camino per prendere le torce.

“Nanon, tenete, portatele via,” le disse.

Quando guardò suo cugino, era ancora molto rossa, ma almeno il suo sguardo poté mentire e non mostrare la gioia eccessiva che le inondava il cuore; ma i loro occhi espressero un medesimo sentimento, e le loro anime si fusero in un unico pensiero: l’avvenire era loro. Questa dolce emozione fu tanto più delicata per Charles in mezzo al suo immenso dolore, quanto più inattesa. Un colpo di martello richiamò le due donne al loro posto. Per fortuna poterono ridiscendere con sufficiente rapidità per farsi trovare al lavoro quando Grandet entrò; se le avesse incontrate sotto la volta, non sarebbe stato necessario di più per alimentare i suoi sospetti. Dopo la colazione, che il brav’uomo fece in piedi, il guardiano, al quale l’indennità promessa non era ancora stata data, arrivò da Froidfond, da dove aveva portato una lepre, alcune pernici uccise nel parco, delle anguille e due lucci dovuti dai mugnai.

“Eh! Eh! Il povero Cornoiller viene come la marea in Quaresima. E questo è buono da mangiare?”

“Sì, mio caro generoso signore, è stato ucciso due giorni fa.”

“Suvvia, Nanon, al lavoro,” disse il brav’uomo. “Prendimi questo, sarà per cena, tratteremo bene i due Cruchot.”

Nanon spalancò degli occhi istupiditi e guardò tutti.

“Ebbene,” disse, “dove troverò il lardo e le spezie?”

“Moglie mia,” disse Grandet, “dai sei franchi a Nanon, e ricordami di andare in cantina a prendere del buon vino.”

“Ebbene! Dunque, monsieur Grandet,” riprese il guardiano, che aveva preparato la sua arringa per dirimere la questione dei suoi emolumenti, “monsieur Grandet…”

“Ta, ta, ta, ta,” disse Grandet, “so cosa vuoi dire, sei un buon diavolo, ci occuperemo di questo domani, oggi vado di fretta. Moglie mia, dagli cento soldi,” disse a madame Grandet.

E uscì. La povera donna fu troppo felice di comprare la pace con undici franchi. Sapeva che Grandet taceva per quindici giorni, dopo aver ripreso così, moneta dopo moneta, il denaro che le aveva dato.

“Tieni, Cornoiller,” gli disse facendogli scivolare dieci franchi nella mano, “un giorno riconosceremo i tuoi servizi.”

Cornoiller non ebbe niente da dire e partì.

“Madame,” disse Nanon, che aveva messo la sua cuffia nera e preso il cesto, “ho bisogno solo di tre franchi, tenete il resto. Vedrete, andrà bene lo stesso.”

“Prepara una buona cena, Nanon, mio cugino scenderà,” disse Eugénie.

“Decisamente sta succedendo qualcosa di straordinario qui,” disse madame Grandet, “ecco, è la terza volta, da quando siamo sposati, che tuo padre offre una cena.”

Verso le quattro, nel momento in cui Eugénie e sua madre avevano finito di apparecchiare per sei, e quando il padrone di casa aveva preso dalla cantina alcune bottiglie del vino squisito che i provinciali conservano con amore, Charles entrò nel salone. Il giovane era pallido. I suoi gesti, il contegno, i suoi sguardi e il suono della sua voce avevano una tristezza piena di grazia. Non giocava a essere sofferente, provava realmente dolore, e il velo disteso dalla pena sui suoi tratti gli dava quell’aria interessante che piace molto alle donne. Eugénie lo amò ancora di più. Forse anche la sciagura lo aveva avvicinato a lei. Charles non era più quel ricco e bel giovane uomo collocato in una sfera per lei irraggiungibile; ma un parente piombato nella miseria più terribile. La miseria crea uguaglianza. La donna ha questo in comune con l’angelo: gli esseri sofferenti le appartengono. Charles ed Eugénie si capirono e si parlarono solo con gli occhi; poiché il povero dandy decaduto, l’orfano, si mise in un angolo, dove rimase in silenzio, calmo e fiero; ma di tanto in tanto, lo sguardo dolce e carezzevole di sua cugina riluceva su di lui, lo costringeva ad abbandonare i suoi tristi pensieri, a slanciarsi con lei nei campi della speranza e dell’avvenire dove le piaceva impegnarsi con lui. In questo momento la città di Saumur era più commossa dalla cena offerta da Grandet ai Cruchot di quanto lo fosse stata il giorno prima per la vendita del suo raccolto che rappresentava un crimine di alto tradimento verso il vigneto. Se il politico vignaiolo avesse dato la sua cena con lo stesso pensiero che costò la coda al cane di Alcibiade,1 avrebbe potuto essere un grande uomo, ma era troppo superiore a una città di cui si prendeva continuamente gioco, non faceva alcun caso a Saumur. I des Grassins vennero presto a conoscenza della morte violenta e del probabile fallimento del padre di Charles; presero la decisione di recarsi la sera stessa dal loro cliente per partecipare al suo dolore, e dargli segni di amicizia, informandosi al contempo dei motivi che potevano averlo indotto a invitare, in una circostanza simile, i Cruchot a cena. Alle cinque precise, il presidente C. de Bonfons e suo zio il notaio arrivarono agghindati sino ai denti in una tenuta domenicale. I commensali si misero a tavola e iniziarono a mangiare con appetito. Grandet aveva un’aria grave, Charles era silenzioso, Eugénie muta, madame Grandet non parlava più del suo solito, in modo tale che questa cena fu un vero e proprio pasto di condoglianze. Quando ci si alzò da tavola, Charles disse a sua zia e a suo zio: “Permettetemi di ritirarmi. Sono costretto a occuparmi di una lunga e triste corrispondenza”.

“Fate, nipote mio.”

Quando, dopo la sua partenza, il brav’uomo poté presumere che Charles non poteva sentire niente, e doveva essere immerso nella sua corrispondenza, guardò con fare sornione sua moglie.

“Madame Grandet, ciò che dobbiamo dirci sarebbe latino per voi; sono le sette e mezza, dovreste ritirarvi in camera vostra. Buona notte, figlia mia.”

Baciò Eugénie, e le due donne uscirono. Qui cominciò la scena in cui père Grandet, più che in ogni altra occasione della sua vita, impiegò l’abilità che aveva acquisito nel commercio con gli uomini, e che gli valeva spesso, da parte di coloro ai quali mordeva un po’ troppo rudemente la pelle, il soprannome di “vecchio cane”. Se il sindaco di Saumur avesse portato più in alto la sua ambizione, se fortunate circostanze, facendolo arrivare vicino alle sfere superiori della società, lo avessero inviato nei congressi in cui si trattavano gli affari delle nazioni, e se si fosse servito del genio di cui lo aveva dotato il suo interesse personale, non c’è alcun dubbio che sarebbe stato gloriosamente utile alla Francia. Nondimeno è altrettanto probabile che, una volta uscito da Saumur, il brav’uomo avrebbe fatto una pessima figura. Forse ci sono alcune menti simili a certi animali, che non si riproducono più se vengono trasportati al di fuori dei climi in cui sono nati.

“Si… i… i… i… gnor pre… pre… pre… presidente, vooooi di… di… di… cevate che il faaaalllllimento…”

Il balbettio simulato da così lungo tempo dal brav’uomo e che era finito per essere considerato naturale, così come la sordità di cui si lamentava nei periodi di pioggia, divenne in questa congiuntura così faticoso per i due Cruchot, che ascoltando il vignaiolo, facevano involontariamente delle smorfie, sforzandosi come se volessero completare le parole in cui egli si incagliava a suo piacimento. Qui forse è necessario fare la storia del balbettio e della sordità di Grandet. Nessuno, nell’Anjou, sentiva meglio e poteva pronunciare più chiaramente il dialetto angevino dell’astuto vignaiolo. Un tempo, nonostante la sua finezza, era stato ingannato da un ebreo che, nella discussione, metteva la sua mano a guisa di cornetto, con il pretesto di sentire meglio, e biascicava così bene nel cercare le parole, che Grandet, vittima della sua umanità, si credette obbligato di suggerire a questo furbone di un ebreo le parole e le idee che egli faceva mostra di cercare, di concludere lui stesso i ragionamenti del suddetto ebreo, di parlare come doveva parlare il dannato ebreo, di essere infine l’ebreo e non Grandet. Il bottaio uscì da questo bizzarro combattimento, avendo concluso il suo unico affare di cui si fosse dovuto lamentare nel corso della sua vita commerciale. Ma se fu sconfitto pecuniariamente parlando, ne trasse moralmente una buona lezione e, più tardi, ne raccolse i frutti. Lo stesso brav’uomo finì per benedire l’ebreo che gli aveva insegnato l’arte di far spazientire il suo avversario commerciale: e, impegnandolo a fargli esprimere il suo pensiero, gli faceva perdere costantemente di vista il suo. Ora nessun affare richiese, più di quello di cui si trattava, l’impiego della sordità, del balbettio e delle storpiature incomprensibili in cui Grandet avvolgeva le sue idee. Prima di tutto non voleva addossarsi la responsabilità di esse; poi voleva restare padrone della sua parola, e lasciare nel dubbio le sue vere intenzioni.

“Monsieur de Bon… Bon… Bonfons…” Per la seconda volta, in tre anni, Grandet chiamava Cruchot nipote monsieur de Bonfons. Il presidente poté credere di essere stato scelto come genero dall’artificioso brav’uomo. “Voooooi di… di… di… dicevate dunque che i faaaallimenti po… po… po… possono, in… in ce… rti casi, essere impe… pe… pe… diti da… dai…”

“Dagli stessi tribunali di commercio. Ciò accade tutti i giorni,” disse monsieur C. de Bonfons, proseguendo l’idea di père Grandet o credendo di indovinarla e volendo affettuosamente spiegargliela. “Ascoltate.”

“Aaascolto,” rispose umilmente il brav’uomo assumendo l’atteggiamento malizioso di un bambino che ride interiormente del suo professore mostrando al contempo la massima attenzione.

“Quando un uomo considerevole e considerato, come lo era, per esempio, il vostro defunto signor fratello a Parigi…”

“Mii… io fratello, sì.”

“È minacciato di dissesto…”

“Si… i chiama di… di… dissesto?”

“Sì. Quando il suo fallimento diventa imminente, il tribunale di commercio, dal quale potrà essere giudicato (seguite bene), ha facoltà, attraverso un processo, di nominare alcuni liquidatori per la sua ditta di commercio. Liquidare non è fare fallimento, capite? Facendo fallimento un uomo è disonorato; ma liquidando resta un uomo onesto.”

“È molto di… di… di… differente, se c… iò non co… o… o… o… osta più… più… più… più caro,” disse Grandet.

“Ma una liquidazione si può anche fare senza il ricorso al tribunale di commercio. Poiché,” disse il presidente annusando la sua presa di tabacco, “come si dichiara un fallimento?”

“Sì, non ci ho mai pen… pen… pen… pensato,” rispose Grandet.

“In primo luogo,” riprese il magistrato, “attraverso il deposito del bilancio alla cancelleria del tribunale, eseguito dallo stesso mercante o da un suo delegato debitamente registrato. In secondo luogo, in seguito alla richiesta dei creditori. Ora se il mercante non deposita il bilancio, se nessun creditore reclama da parte del tribunale un giudizio che dichiari il suddetto mercante fallito, che cosa succederebbe?”

“Sì… ì, ve… ve… diamo.”

“Allora la famiglia del defunto, i suoi rappresentanti, la sua successione, o il mercante se non è morto, o i suoi amici, se è nascosto, liquidano. Forse volete liquidare gli affari di vostro fratello?” chiese il presidente.

“Ah! Grandet,” esclamò il notaio, “sarebbe bello. C’è l’onore al fondo delle nostre province. Se voi salverete il vostro nome, poiché è il vostro nome, voi sarete un uomo…”

“Sublime,” disse il presidente interrompendo suo zio.

“Ceertamente,” replicò l’anziano vignaiolo, “mio… mio fffr… fra… fratello si chi… chi… chi… chiamava Grandet pro… prio come me. È… è… è… è certo e sicuro. Io… io… io non… non dico di… di no. E la li… li… li… liquidazione po… po… potrebbe in ooogni cccaso essere soootto tutti i ra… ra… rapporti molto van… vantaggiosa agli in… in… in… interessi di mio ni… ni… nipote che aaamo. Ma bisogna vedere. Io non co… co… co… conosco iii furbetti di Parigi. Io… sono a Sau… au… aumur, io, vedete! I miei innnnesti! I miei fooossati e, infine, ho i miei affari. Non ho mai fatto delle ca… ca… cambiali. Che cos’è una cambiale? Ne… ne… ne ho ricevute molte, non ne ho mai fi… fi… firmate. Ecco tutto quello ch… ch… che so. Ho sen… sen… sen… sentito di… di… dire che noooon si po… oossono ri… ri… ri… comprare le cam… cam… cam…”

“Sì,” disse il presidente. “Si possono comprare le cambiali su piazza, attraverso un tanto per cento, capite?”

Grandet fece un cornetto con la sua mano, lo applicò al suo orecchio, e il presidente ripeté ciò che aveva detto.

“Ma,” rispose il vignaiolo, “c’è ddddunque da bere e da mangiare in… in tutto questo. Io… io… io non ne so niente, alla mia eeetà, di tuuutte que… que… queste cooose. Io de… devo re… restare quuui per ba… badare al grano. Il grano si acccu… cumula, ed è… ed è… ed è con il grano che si pa… paga. Priiima di tutto, bisogna ba… ba… badare al ra… ra… raccolto. Ho degli affffari più imp… imp…importanti a Froidfond e inte… te… teressanti. Non posso a… a… abbandonare la mia… mia… mia casa peeer degli imim imbrogli di tuutti i di… diavoli, in cui non caaapisco niente. Voi dite che… che dovrei, per li… li… liquidare, per fermare la dichiarazione di fallimento, essere a Parigi. Non ci si può trooo… vare contemporaneamente in… in… in due luoghi, a meno di non essere un uc… uc… uccellino… E…”

“Vi capisco,” esclamò il notaio. “Ebbene! Amico mio, avete degli amici, dei vecchi amici, capaci di devozione per voi.”

“Suvvia, dunque,” pensò tra sé il vignaiolo, “decidetevi dunque!”

“E se qualcuno andasse a Parigi, e cercasse il maggior creditore di vostro fratello Guillaume, gli dicesse…”

“Un mo… mo… mento,” riprese il brav’uomo, “gli dicesse cosa? Qualco… coo… cosa del… del genere: ‘Signor Grandet di Saumur di qu… qu… qui, signor Grandet… det di Saumur di qua. Ama suo fratello, ama suo ni… ni… nipote. Grandet è un buon pa… pa… parente e ha delle ottime intenzioni. Ha venduto il suo ra… ra… raccolto, riiiiunitevi no… no… nomitate dei li… li… liquidatori. Alllora arrrrriverà Grandet. Voi av… av… avrete migliori benefici liquidando che la… la… lasciare che dei giudici vi mettano il na… naso’. Eh! Non è vero?”

“Giusto!” disse il presidente.

“Perché vedete monsieur de Bon… Bon… Bon… fons bisogna valutare prima di de… decidersi. Chi non… non… non può, non… non può. In ogni af… af… affare ooone… neroso, peer non ro… ro… rovi… rovinarsi, bisogna conoscere le risorse e i costi. Eh! Non è vero?”

“Certamente,” disse il presidente. “A mio avviso, in qualche mese si potrebbero comprare i debiti per una certa somma, e pagare interamente attraverso un accordo. Ah ah! Si portano i cani lontano mostrando loro dei pezzi di lardo. Quando non c’è stata dichiarazione di fallimento e voi siete in possesso dei titoli di credito, voi divenite bianco come la neve.”

“Come la ne… ne… neve,” ripeté Grandet rifacendo un cornetto con la sua mano. “Non capisco la ne… ne… neve.”

“Ma,” gridò il presidente, “allora ascoltatemi, dunque.”

“As… ascolto.”

“Un effetto è una merce che può avere il suo rialzo e il suo ribasso. Questa è una deduzione dal principio sull’usura di Jeremy Bentham.2 Tale pubblicista ha dimostrato che il pregiudizio di riprovazione che colpiva gli usurai era una sciocchezza.”

“Sì,” fece il brav’uomo.

“Considerato che in principio, secondo Bentham, il denaro è una merce, e che ciò che il denaro rappresenta diventa ugualmente una merce,” riprese il presidente; “considerato che è risaputo che, essendo soggetta alle variazioni abituali delle cose commerciali, la merce-cambiale con tale o talaltra firma, come tale o talaltro articolo, abbonda o manca sul mercato, che è cara o che il suo valore precipita, il tribunale ordina (ma guarda! Come sono sciocco, chiedo perdono), io ritengo che poi potreste riscattare vostro fratello per un 25 per cento.”

“Voooi lo chia… chia… chia… chiamate Je… Je… Je… Jeremy Ben…”

“Bentham, un inglese.”

“Questo Jeremy ci eviterebbe molte lamentele negli affari,” disse il notaio ridendo.

“Questi inglesi ta… talora hanno del buon… on senso,” disse Grandet. “Così, se… se… secondo Ben… Ben… Ben… Bentham, se gli effetti di mio fratello… va… va… va… va… valgono… non valgono. Se. Io… io… io dico bene, non è vero? Questo mi sembra chiaro… I creditori sarebbero… no, non sarebbero. Ho capito.”

“Lasciatemi spiegarvi tutto questo,” disse il presidente. “Nel diritto, se voi possedete i titoli di tutti i debiti dovuti dalla casa Grandet, vostro fratello e i suoi eredi non devono niente a nessuno. Bene.”

“Bene,” ripeté il brav’uomo.

“In maniera equa, se gli effetti di vostro fratello si trasmettono a un terzo (si trasmettono a un terzo, capite bene questa parola?) sulla piazza a un tanto per cento di perdita; se uno dei vostri amici, passando di là, li ha riscattati, i debitori non essendo stati costretti con alcuna violenza a cederli, la successione del fu Grandet di Parigi è legalmente libera di debiti.”

“È vero, gli a… a… a… affari sono affari,” disse il bottaio. “Appuuurato questo… Tuttavia, voi capi… pi… pi… te che è di… di… di… difficile. Non ho soooldi, né il tempo, né il tempo, né…”

“Sì, voi non potete incomodarvi. Ebbene! Vi propongo di andare io a Parigi (voi mi rimborserete il viaggio, una miseria). Vedo i debitori, parlo loro, temporeggio, e si sistema tutto con un supplemento di pagamento che voi aggiungete ai valori di liquidazione, per rientrare nei titoli dei debiti.”

“Ma quuesto lo vedremo, io non… non… non… posso im… im… impegnarmi senza che… Chi… chi… chi non… non può, non può. Capiiite?”

“Questo è giusto.”

“Ho la testa ro… ro… rotta da ciò che… che mi a… a… a… avete fatto scattare. Ecco la… la… la prima volta nella mia vita che io… io… sono obbligato a pen… pensare a…”

“Sì, non siete un giureconsulto.”

“Io… io sono un po… po… povero vignaiolo, e non so niente di ciò che vo… vo… voi mi avete appena detto; bi… bi… bisogna che io st… studi ccciò.”

“Ebbene!” riprese il presidente, ponendosi come chi vuole riassumere la discussione.

“Nipote mio?…” fece il notaio con un tono di rimprovero interrompendolo.

“Eh! Allora, caro zio?” rispose il presidente.

“Lascia dunque che monsieur Grandet ti spieghi le sue intenzioni. Si tratta in questo momento di un mandato importante. Il nostro caro amico deve definirlo congrua…”

Un colpo di batacchio, che annunciò l’arrivo della famiglia des Grassins, il loro ingresso, e i loro saluti impedirono a Cruchot di terminare la propria frase. Il notaio fu contento di tale interruzione; già Grandet lo guardava di traverso, e la sua verruca indicava una tempesta interiore. Ma prima di tutto il prudente notaio non trovava conveniente che un presidente di tribunale di prima istanza si recasse a Parigi per far capitolare dei creditori e lasciarsi invischiare in un maneggio che offendeva le leggi della rigorosa probità; inoltre, non avendo ancora sentito père Grandet esprimere la minima velleità di pagare ciò che si doveva pagare, tremava istintivamente nel vedere il nipote impegnato in questo affare. Approfittò dunque del momento in cui i des Grassins entravano per prendere sotto braccio il presidente e attirarlo nel vano della finestra.

“Ti sei sufficientemente messo in mostra, nipote mio; ma ora basta con questa devozione; il desiderio di avere la fanciulla ti acceca. E che diavolo! Non bisogna andare come una cornacchia che si precipita sulle noci. Ora lasciami condurre la barca, e aiutami solo nella manovra. Non è compito tuo compromettere la tua dignità di magistrato in un simile…”

Non concluse; sentiva monsieur des Grassins che diceva all’ex bottaio tendendogli la mano: “Grandet, abbiamo appreso l’orribile sciagura capitata alla vostra famiglia, il disastro della casa Guillaume Grandet, e la morte di vostro fratello; noi veniamo a esprimere tutta la nostra partecipazione a questo triste avvenimento”.

“L’unica disgrazia,” disse il notaio interrompendo il banchiere, “è la morte di monsieur Grandet junior. E ancora non si sarebbe ucciso se gli fosse venuto in mente di chiamare suo fratello per farsi aiutare. Il nostro vecchio amico, che ha il senso dell’onore sino alla punta delle unghie, conta di liquidare i debiti della casa Grandet di Parigi. Mio nipote il presidente, per evitargli le seccature di un affare totalmente giudiziario, gli ha proposto di partire immediatamente alla volta di Parigi, per prendere accordi con i creditori e dare loro soddisfazione in maniera dignitosa.”

Tali parole, confermate dall’atteggiamento del vignaiolo, che si accarezzava il mento, sorpresero singolarmente i tre des Grassins, i quali durante il cammino avevano malignato senza freni sull’avarizia di Grandet accusandolo quasi di fratricidio.

“Ah! Lo sapevo,” esclamò il banchiere guardando sua moglie. “Che cosa ti dicevo per strada, madame des Grassins? Grandet ha il senso dell’onore sino nella radice dei capelli, e non sopporterà che il suo nome riceva il più lieve degli oltraggi! Il denaro senza l’onore è una malattia.3 C’è dell’onore nelle nostre province! Questo è un bene, molto bene, Grandet. Sono un vecchio militare, non so camuffare il mio pensiero; lo dico in maniera rude, per mille fulmini, ciò è sublime.”

“Aaallora il su… su… sublime è mo… mo… lto caro,” rispose il brav’uomo mentre il banchiere gli scuoteva calorosamente la mano.

“Ma ciò, caro il mio Grandet, non dispiaccia al signor presidente,” riprese des Grassins, “è un affare puramente commerciale, e necessita di un mercante esperto. Non bisogna conoscere i conti di restituzione, gli anticipi, gli interessi? Devo andare a Parigi per i miei affari, e allora potrei incaricarmi di…”

“Vedremo dunque di cer… cer… cercare di aaaarrangiarci tutti e due nelle possibilità relative e senza im… im… impegnarmi in qualcosa che io… io… io non vorrei fare,” disse Grandet balbettando. “Poiché, vedete, il presidente naturalmente mi chiedeva il rimborso dei costi di viaggio.”

Il brav’uomo non farfugliò queste ultime parole.

“Eh!” disse madame des Grassins. “Ma è un piacere andare a Parigi. Pagherei volentieri io per andarci.”

E fece un gesto a suo marito come per incoraggiarlo a soffiare tale commissione ai loro avversari, costasse quel che costasse; poi guardò in maniera alquanto ironica i due Cruchot, che assunsero un’aria abbacchiata. Grandet allora afferrò il banchiere per uno dei bottoni del suo abito e lo attirò in un angolo.

“Ho molta più fiducia in voi che nel presidente,” gli disse. “Poi c’è dell’altro in pentola,” aggiunse agitando la sua verruca, “voglio mettermi nelle rendite; ho qualche migliaio di franchi da investire in titoli, ma vorrei piazzarli solo a ottanta franchi. Dicono che alla fine del mese gli interessi tendono a scendere. Voi siete esperto in questo, non è vero?”

“Perdio! Ebbene, dovrò comprare per voi alcune migliaia di lire in rendite?”

“Non molto per cominciare. Acqua in bocca! Voglio giocare a questo gioco, senza che si sappia nulla. Voi mi condurrete in porto un affare verso la fine del mese; ma non dite niente ai Cruchot, li indispettirebbe. Poiché andate a Parigi, vedremo allo stesso tempo, per il mio povero nipote, come stanno le cose.”

“Siamo intesi. Partirò domani con la posta,” disse ad alta voce des Grassins, “verrò a prendere le vostre ultime istruzioni a… a che ora?”

“Alle cinque prima della cena,” disse il vignaiolo fregandosi le mani.

I due partiti restarono ancora per alcuni istanti l’uno di fronte all’altro. Des Grassins disse dopo una pausa dando una pacca sulla spalla di Grandet: “È bello avere dei simili buoni parenti”.

“Sì, sì, senza farlo apparire,” rispose Grandet, “sono un buon pa… parente. Amavo mio fratello e lo proverò, se non costa molto…”

“Vi lasciamo, Grandet,” gli disse il banchiere interrompendolo fortunatamente prima che concludesse la sua frase. “Se anticipo la mia partenza, devo mettere in ordine alcuni affari.”

“Bene, bene. Io stesso ri… rispetto a ciò che voooi sapete, vado a ri... ritirarmi nella mia ca… camera delle de... deliberazioni, come dice il presidente Cruchot.”

“Accidenti! Non sono più monsieur de Bonfons,” pensò tristemente il magistrato, il cui volto assunse l’espressione di quella di un giudice annoiato da un’arringa.

I capi delle due famiglie rivali andarono via insieme. Né gli uni, né gli altri pensavano al tradimento di cui si era reso colpevole Grandet la mattina verso gli altri vignaioli, e si sondarono a vicenda, ma invano, per sapere cosa pensassero delle intenzioni reali del brav’uomo su questo nuovo affare.

“Venite con noi da madame d’Orsonval?” disse des Grassins al notaio.

“Ci andremo più tardi,” rispose il presidente. “Se mio zio lo permette, ho promesso a mademoiselle de Gribeaucourt di farle un piccolo saluto, e prima andremo da lei.”

“Arrivederci dunque, signori,” disse madame des Grassins. E, quando i des Grassins furono distanti alcuni passi da loro, Adolphe disse a suo padre: “Sono stati gabbati per bene, eh?”.

“Taci dunque, figlio mio,” ribatté la madre, “possono ancora sentirci. Del resto ciò che dici non è di buon gusto e puzza di scuola di diritto.”

“Ebbene! Zio mio,” esclamò il magistrato, quando vide lontano i des Grassins, “ho cominciato a essere il presidente de Bonfons e ho finito per essere semplicemente un Cruchot.”

“Ho visto bene che ciò ti contrariava, ma il vento era dalla parte dei des Grassins. Con tutta la tua intelligenza sei sciocco?… Lascia che si imbarchino su un ‘Vedremo’ di père Grandet, e stai tranquillo, piccolo mio: non per questo Eugénie non sarà tua moglie.”

In alcuni istanti la notizia della magnanima decisione di Grandet si diffuse in tre case per volta e non si parlò d’altro in tutta la città se non di questa devozione fraterna. Ognuno perdonava a Grandet la vendita fatta disprezzando il patto stretto fra i proprietari, ammirando il suo onore ed elogiando una generosità di cui non lo si credeva capace. È tipico del francese entusiasmarsi, adirarsi, appassionarsi alla meteora del momento, ai futili avvenimenti4 dell’attualità. Gli esseri collettivi, le popolazioni sono dunque senza memoria?

Quando père Grandet chiuse la porta, chiamò Nanon.

“Non slegare il cane e non dormire, abbiamo del lavoro da fare insieme. Alle undici Cornoiller deve trovarsi alla mia porta con la carrozza di Froidfond. Resta in ascolto e quando arriva non farlo bussare, digli di entrare silenziosamente. I regolamenti della polizia vietano i rumori notturni. Del resto il quartiere non ha bisogno di sapere che mi metto in viaggio.”

Dopo aver parlato così, Grandet risalì nel suo studio, dove Nanon lo sentì che si agitava, frugava, andava e veniva, ma con cautela. Evidentemente non voleva svegliare sua moglie, né sua figlia e soprattutto non voleva destare l’attenzione di suo nipote, che aveva iniziato a maledire, scorgendo della luce in camera sua. Verso la metà della notte, Eugénie, preoccupata per suo cugino, credette di aver sentito il rantolo di un morente, e per lei questo morente era Charles; lo aveva lasciato così pallido, così disperato! Forse si era ucciso. Improvvisamente si avvolse in un mantello, in una sorta di cappotto con un cappuccio, e volle uscire. Prima una luce vivida che passava attraverso la fessura della sua porta le fece temere del fuoco; poi si rassicurò presto sentendo i passi pesanti di Nanon e la sua voce mischiata al nitrito di diversi cavalli.

“Mio padre porta via mio cugino?” si disse socchiudendo la propria porta con sufficiente cautela da impedirle di cigolare, in modo tale da vedere che cosa succedeva nel corridoio.

All’improvviso il suo occhio incrociò quello di suo padre, il cui sguardo, per quanto vago e noncurante, la gelò di terrore. Il brav’uomo e Nanon formavano una coppia mediante una grossa pertica le cui estremità erano posate sulle loro spalle destre e reggevano con una corda un barilotto simile a quelli che père Grandet si divertiva a costruire nei suoi momenti liberi.

“Santa Vergine! Signore, quanto pesa!” disse Nanon a bassa voce.

“Che sfortuna che siano solo dei soldoni,” replicò il brav’uomo. “Attenta a non urtare il candeliere.”

Questa scena era illuminata da una sola candela fra due sbarre della ringhiera.

“Cornoiller,” disse Grandet al suo guardiano in partibus,5 “hai preso le tue pistole?”

“No, signore, diamine! Che cosa c’è dunque da temere per i vostri soldoni?…”

“Oh! Niente,” disse père Grandet.

“Del resto faremo in fretta,” replicò il guardiano, “i vostri affittuari hanno scelto per voi i loro cavalli migliori.”

“Bene, bene. Non hai detto loro dove andavo?”

“Non ne ero affatto al corrente.”

“Bene, la carrozza è solida?”

“Questa, signore mio? Ah! Be’, porterebbe tremila.6 Quanto pesano questi vostri dannati barili!”

“Toh!” disse Nanon. “Lo sappiamo bene! Ce n’è quasi milleottocento.”7

“Vuoi stare zitta, Nanon! Dirai a mia moglie che sono andato in campagna. Sarò di ritorno per cena. Vai veloce, Cornoiller, bisogna essere ad Angers prima delle nove.”8

La carrozza partì. Nanon serrò la grande porta, lasciò libero il cane, e si mise a dormire con la spalla pesta, e nessuno nel quartiere si avvide né della partenza di Grandet né dell’oggetto del suo viaggio. La discrezione del brav’uomo era stata completa. Nessuno vedeva mai un soldo in quella casa piena d’oro. Dopo aver appreso in mattinata dalle chiacchiere del porto che l’oro era raddoppiato di prezzo in seguito a numerosi armamenti avviati a Nantes, e che alcuni speculatori erano arrivati ad Angers per comprarlo, l’anziano vignaiolo con un semplice prestito di cavalli dai suoi affittuari si era messo nelle condizioni di andare a vendere il proprio e di ritornare con la somma in buoni del ricevitore generale sul tesoro, necessaria per l’acquisto delle sue rendite accresciute dall’aggio.9

“Mio padre va via,” disse Eugénie che dalla cima delle scale aveva sentito tutto. Il silenzio era tornato nella casa, e il lontano rumore della carrozza, che cessò gradualmente, non risuonava più nella Saumur addormentata. In quel momento Eugénie sentì nel cuore, prima di sentirlo con le orecchie, un gemito che attraversò i tramezzi e che proveniva dalla camera di suo cugino. Una sottile striscia luminosa, fine quanto il filo di una spada, filtrava dalla fessura della porta e tagliava orizzontalmente le balaustre della vecchia scala. “Soffre,” disse salendo due gradini. Un secondo gemito la fece arrivare sul pianerottolo della camera. La porta era socchiusa, la spinse. Charles dormiva con la testa che sporgeva al di fuori della vecchia poltrona; la sua mano aveva lasciato cadere il pennino e toccava quasi terra. La respirazione sincopata causata dalla postura del giovane terrorizzò subito Eugénie, che entrò rapidamente. “Deve essere proprio stanco,” si disse guardando una decina di lettere sigillate, e ne lesse gli indirizzi: ai signori Farry, Breilman e C., carrozzieri, al signor Buisson, sarto, ecc. “Probabilmente ha sistemato tutti i suoi affari per poter lasciare presto la Francia,” pensò. I suoi occhi caddero su due lettere aperte. Le parole che ne iniziavano una: “Mia cara Annette…” le provocarono un annebbiamento. Il suo cuore palpitò, i piedi si inchiodarono al pavimento. “La sua Annette, l’ama, è amato! Non c’è più speranza! Che cosa le dice?” Queste idee le trafissero la testa e il cuore. Leggeva queste parole ovunque, anche sui vetri, come lingue di fuoco. “Devo già rinunciare a lui? No, non leggerò questa lettera. Devo andarmene. E se tuttavia la leggessi?” Guardò Charles, gli prese dolcemente la testa, gliela posò sullo schienale della poltrona, e lui si lasciò fare come un bambino che, pur dormendo, riconosce ancora sua madre e riceve, senza svegliarsi, le sue attenzioni e i suoi baci. Come una madre, Eugénie sollevò la mano penzolante e, come una madre, baciò dolcemente i capelli. “Cara Annette!” un demone le urlava queste due parole nelle orecchie. “Lo so che forse agisco male, ma leggerò la lettera,” disse. Eugénie girò la testa, perché la sua nobile probità la rimproverava. Per la prima volta nella sua vita, erano presenti il bene e il male nel suo cuore. Sino ad allora non era dovuta arrossire di alcuna azione. La passione e la curiosità prevalsero. A ogni frase, il cuore le si gonfiò ancor di più, e l’ardore pungente che animò la sua vita durante la lettura rese ancora più gustosi i piaceri del primo amore.

“Mia cara Annette, nulla doveva separarci, se non la sciagura che mi prostra e che nessuna prudenza umana poteva prevedere. Mio padre si è ucciso, la sua ricchezza e la mia sono interamente perdute. Sono orfano, a un’età in cui, per la natura della mia educazione, posso passare per un bambino; e devo rialzarmi uomo dall’abisso in cui sono precipitato. Ho appena impiegato una parte di questa notte a fare i miei calcoli. Se voglio lasciare la Francia come un uomo onesto, e di ciò non dubito, non ho cento franchi per tentare la sorte nelle Indie o in America. Sì, mia povera Anna, andrò a cercare fortuna nei climi più mortali. Sotto tali cieli, la ricchezza è pronta e sicura, mi hanno detto. Quanto a restare a Parigi non saprei. Né la mia anima, né il mio volto sono fatti per sopportare gli affronti, la freddezza, lo sdegno che aspettano l’uomo rovinato, il figlio del fallito! Buon Dio! Avere debiti per due milioni…10 Verrei ucciso in duello nella prima settimana. Così non ci tornerò affatto. Il tuo amore, il più tenero e il più devoto che mai abbia reso nobile il cuore di un uomo, non saprebbe attirarmi. Ahimè! Mia amata, non ho soldi sufficienti per raggiungerti, darti, ricevere un ultimo bacio, un bacio da cui trarrei la forza necessaria per la mia impresa.”

“Povero Charles, ho fatto bene a leggere! Posseggo dell’oro, glielo darò,” disse Eugénie.

Riprese la lettura dopo essersi asciugata le lacrime.

“Non avevo ancora pensato ai dolori della miseria. Se ho i cento franchi necessari per il passaggio, non avrò un soldo per farmi della paccottiglia. Ma no, non avrò né cento luigi, né un luigi, saprò quanti soldi mi resteranno solo dopo aver estinto i miei debiti a Parigi. Se non ho niente, andrò tranquillamente a Nantes e mi imbarcherò come semplice marinaio, e comincerò laggiù come hanno cominciato gli uomini energici che, giovani, non avevano un soldo e sono tornati, ricchi, dalle Indie. Da questa mattina guardo con freddezza il mio avvenire. È più orribile per me che per ogni altro, io coccolato da una madre che mi adorava, amato teneramente dal migliore dei padri, e che, ai miei esordi nel mondo, ho incontrato l’amore di una Anna! Ho conosciuto solo i fiori della vita; questa felicità non poteva durare. Ho tuttavia, mia cara Annette, più coraggio di quanto sia permesso d’averne a un giovane uomo incurante, soprattutto a un giovane abituato ai vezzi della più deliziosa donna di Parigi, cullato nelle gioie della famiglia, a cui in casa tutto sorrideva, e i cui desideri erano leggi per un padre… Oh!, mio padre, Annette, è morto… Ebbene! Ho riflettuto sulla mia posizione, ho riflettuto anche sulla tua. Sono davvero invecchiato in ventiquattro ore. Cara Anna, se, per tenermi vicino a te, a Parigi, tu sacrificassi tutte le gioie del tuo lusso, del tuo vestiario, del tuo palco all’Opéra, non arriveremmo ancora alle spese necessarie alla mia vita dissipata; poi non riuscirei ad accettare così tanti sacrifici, noi ci lasciamo oggi per sempre.”

“La lascia, Vergine santa! Oh! Felicità!…”

Eugénie saltò dalla gioia. Charles si mosse, ebbe un brivido di terrore; ma, per sua fortuna, non si svegliò. Riprese a leggere:

“Quando tornerò? Non lo so. Il clima delle Indie fa invecchiare presto un europeo, e soprattutto un europeo che lavora. Supponiamo dieci anni a partire da ora. Tra dieci anni, tua figlia avrà diciotto anni, sarà la tua compagna, la tua spia. Per te il mondo sarebbe davvero crudele, tua figlia lo sarà forse ancora di più. Abbiamo visto degli esempi di questi processi mondani e delle ingratitudini delle giovani fanciulle; traiamone profitto. Conserva in fondo alla tua anima come io conserverò in me stesso il ricordo di questi quattro anni di felicità e sii fedele, se puoi, al tuo povero amico. Non saprei tuttavia esigerlo, perché, vedi, mia cara Annette, mi devo adeguare alla mia condizione, vedere la vita borghesemente, e stimarla nella maniera più reale possibile. Devo pensare dunque al matrimonio, che diventa una necessità della mia nuova esistenza; e ti confesserò che ho trovato qui, a Saumur, da mio zio, una cugina i cui modi, il volto, l’animo e il cuore ti piacerebbero e che, inoltre, mi sembra avere…”.

“Doveva proprio essere stanco per aver smesso di scriverle,” si disse Eugénie vedendo la lettera interrotta a metà di questa frase.

Lo giustificava! Era quindi possibile che questa innocente fanciulla non percepisse la freddezza di cui era intrisa la lettera? Alle giovani fanciulle educate religiosamente, ignoranti e pure, tutto è amore non appena mettono il piede nelle regioni incantate dell’amore. Vi camminano avvolte nella luce celeste che la loro anima proietta, e che si irradia sul loro amante; lo colorano con i fuochi del loro sentimento e gli prestano i loro bei pensieri. Gli errori della donna provengono quasi sempre dalla sua credenza nel bene, e nella sua fiducia nella verità. Per Eugénie, queste parole: “Mia cara Annette, mia amata”, risuonavano nel cuore come il più bel linguaggio dell’amore, e le accarezzavano l’anima come nella sua infanzia le note divine del Venite, adoremus,11 suonate dall’organo, le accarezzavano l’orecchio. Del resto, le lacrime che bagnavano ancora gli occhi di Charles testimoniavano tutta la nobiltà del cuore dalla quale una giovane fanciulla non poteva non essere sedotta. Poteva sapere lei che se Charles amava così tanto suo padre e lo piangeva così sinceramente, questa tenerezza veniva non tanto dalla bontà del suo cuore quanto dalle bontà paterne? Monsieur e madame Guillaume Grandet, soddisfacendo sempre le fantasie del proprio figlio, concedendogli tutti gli agi della ricchezza, gli avevano impedito di fare gli orribili calcoli di cui è più o meno colpevole, a Parigi, la maggior parte dei figli quando, in presenza dei divertimenti parigini, formulano dei desideri e concepiscono dei piani, che vedono con rammarico incessantemente aggiornati e ritardati dall’esistenza dei loro genitori. La prodigalità del padre andò dunque sino a seminare nel cuore di suo figlio un amore filiale vero, senza retropensieri. Nondimeno Charles era un ragazzo di Parigi, abituato dai costumi di Parigi, da Annette stessa, a calcolare tutto, già vecchio sotto la maschera di un giovane. Aveva ricevuto l’orribile educazione di questo mondo in cui, in una serata, si commettono con pensieri e parole più crimini di quanti ne puniscano le Corti di assise, dove parole salaci uccidono le più grandi idee, dove si passa per il più forte fintantoché si vede giusto; e lì vedere giusto significa non credere a niente, né ai sentimenti, né agli uomini, nemmeno agli avvenimenti: si costruiscono falsi avvenimenti. Là per vedere giusto, occorre pesare, ogni mattina, la borsa di un amico, saper mettersi politicamente al di sopra di tutto quello che succede; provvisoriamente non ammirare nulla, né le opere d’arte, né le nobili azioni, e dare come movente di tutte le cose l’interesse personale. Dopo mille follie, la gran signora, la bella Annette, induceva Charles a pensare con serietà; gli parlava della sua posizione futura, passandogli fra i capelli una mano profumata; rifacendogli un ricciolo, facendogli calcolare la propria vita; lo rendeva femmina e materiale. Duplice corruzione, ma corruzione elegante e fine, di buon gusto.

“Siete ingenuo, Charles,” gli diceva. “Farò proprio fatica a insegnarvi il mondo. Voi siete messo malissimo presso monsieur des Lupeaulx.12 So bene che è un uomo poco onorevole; ma aspettate che sia senza potere, e allora lo disprezzerete a vostro piacimento. Sapete che cosa ci diceva madame Campan?13 ‘Bambini miei, finché un uomo è al ministero, adoratelo, una volta caduto aiutate a trascinarlo alla discarica. Potente, è una specie di divinità; distrutto, è al di sotto di Marat nella sua fogna, poiché è vivo mentre Marat14 è morto. La vita è un succedersi di combinazioni, bisogna studiarle, seguirle, per riuscire a mantenersi sempre in buona posizione.’”

Charles era un uomo troppo alla moda, era stato troppo ed eccessivamente felice grazie ai genitori, troppo adulato dal mondo per avere dei grandi sentimenti. Il grano d’oro che sua madre gli aveva gettato nel cuore si era sparso nella filiera parigina; lui l’aveva impiegato superficialmente e l’avrebbe consumato per sfregamento. Ma Charles aveva solo ventun anni. A quell’età la freschezza della vita sembra inseparabile dal candore dell’anima. La voce, lo sguardo, il volto apparivano in armonia con i sentimenti. Anche il giudice più inflessibile, l’avvocato più incredulo, l’usuraio meno accomodante esitavano sempre a credere alla vecchiaia del cuore, alla corruzione dei calcoli, quando gli occhi vagano ancora in un fluido puro, e quando non c’è alcuna ruga sulla fronte. Charles non aveva mai avuto l’occasione di applicare le massime della morale parigina, e sino a quel giorno era bello per la sua inesperienza. Ma, a sua insaputa, gli era stato inoculato l’egoismo. I germi dell’economia politica secondo l’uso del parigino, latenti nel suo cuore, non dovevano tardare a fiorire, non appena fosse diventato, da spettatore ozioso, attore nel dramma della vita reale. Quasi tutte le giovani fanciulle si abbandonano alle dolci promesse di queste apparenze; ma Eugénie, anche se fosse stata prudente e osservatrice quanto lo sono alcune ragazze in provincia, come avrebbe potuto diffidare di suo cugino, quando, in lui, le maniere, le parole e le azioni si accordavano ancora con le aspirazioni del cuore? Un caso, per lei fatale, gli fece provare le ultime effusioni di vera sensibilità che furono in quel giovane cuore, e sentire, per dir così, gli ultimi sospiri della coscienza. Lasciò dunque questa lettera per lei piena d’amore, e si mise compiaciuta a osservare il cugino addormentato: le fresche illusioni della vita agivano ancora per lei su questo volto, e giurò dapprima a se stessa di amarlo per sempre. Poi gettò gli occhi sull’altra lettera senza dare troppa importanza a questa indiscrezione; e, se cominciò a leggerla, fu per acquisire nuove prove delle nobili qualità che, simile a tutte le donne, attribuiva a colui che sceglieva.

“Mio caro Alphonse, nel momento in cui leggerai questa lettera non avrò più amici; ma ti confesso che dubitando di quelle persone di mondo abituate a un uso prodigo di questa parola, non ho dubitato della tua amicizia. Ti incarico dunque di sistemare i miei affari, e conto su di te, per trarre un buon profitto da tutto quello che posseggo. Tu ora devi conoscere la mia situazione. Non ho più niente e voglio partire per le Indie. Ho appena finito di scrivere a tutte le persone alle quali credo di dovere dei soldi, e tu troverai qui allegata la lista più precisa possibile che io possa dare a memoria. La mia biblioteca, i miei mobili, le mie carrozze, i miei cavalli ecc., saranno sufficienti a pagare i miei debiti. Voglio conservare solo cose di scarso valore che possano costituirmi un inizio di paccottiglia. Mio caro Alphonse, ti manderò da qui una procura regolare, in caso ci fossero delle contestazioni. Tu mi spedirai tutte le mie armi. Poi terrai per te Briton.15 Nessuno vorrebbe pagare il prezzo di questo mirabile animale, preferisco donartelo, come l’anello di rito che il morente consegna al proprio esecutore testamentario. Mi hanno costruito una carrozza da viaggio molto confortevole presso Farry, Breilman e C., ma non l’hanno consegnata, ottieni da loro che la tengano senza chiedermi un’indennità; se rifiutassero questo accomodamento, evita tutto ciò che potrebbe intaccare la mia lealtà, nelle circostanze in cui mi trovo. Devo all’isolano sei luigi persi al gioco, non mancare di…”

“Caro cugino,” disse Eugénie, lasciando la lettera, e tornando a piccoli passi in camera sua con una delle candele accese. Qui non fu senza una viva emozione di piacere che aprì il cassetto di un vecchio mobile in quercia, una delle più belle opere dell’epoca denominata Rinascimento, e sul quale si vedeva ancora, semicancellata, la famosa salamandra regia.16 Prese una grossa borsa di velluto rosso con ghiande d’oro, e con un orlo di canutiglia usata, proveniente dall’eredità di sua nonna. Poi soppesò orgogliosamente la borsa e si compiacque nel verificare l’ammontare dimenticato del suo gruzzoletto. Separò dapprima venti portoghesi ancora nuovi coniati sotto il regno di Giovanni V,17 nel 1725, che in realtà valevano al cambio cinque lisbonine e ciascuno di essi 168 franchi e 64 centesimi, così diceva suo padre, ma il cui valore convenzionale era di 180 franchi, considerata la rarità, la bellezza delle monete che rilucevano come dei soli. Item, cinque genovine o monete da 100 lire di Genova, altra moneta rara che valeva 87 franchi al cambio, ma 100 franchi per gli amatori dell’oro. Esse provenivano dal vecchio monsieur de La Bertellière. Item, tre quadruple d’oro spagnolo di Filippo V,18 coniate nel 1729, date da madame Gentillet, la quale donandogliele, le diceva sempre la stessa frase: “Questo caro verzellino, questo giallino, vale 98 lire. Conservatelo bene, mia carina, sarà il fiore del vostro tesoro”. Item, ciò che suo padre stimava di più (l’oro di queste monete era di ventitré carati e una frazione), cento ducati di Olanda, coniati nel 1756, e che valevano circa 13 franchi. Item, una grande curiosità!… delle specie di medaglie preziose per gli avari, tre rupie con il segno della Bilancia, e cinque rupie con il segno della Vergine, tutte d’oro puro di ventiquattro carati, la magnifica moneta del Gran Moghul, ognuna delle quali valeva 37 franchi e 40 centesimi al peso; ma almeno cinquanta franchi per gli intenditori che amano maneggiare l’oro. Item, il napoleone di quaranta franchi ricevuto l’altroieri, e che aveva messo con noncuranza nella sua borsa rossa. Questo tesoro conteneva delle monete nuove e vergini, delle vere e proprie opere d’arte sulle quali talora père Grandet prendeva informazioni, e che voleva rivedere, per descrivere nel dettaglio a sua figlia le virtù intrinseche, come la bellezza del cordone, la chiarezza del piatto, la ricchezza delle lettere i cui vividi spigoli non erano ancora scalfiti. Ella non pensava né a queste rarità, né alla mania di suo padre, né al pericolo che lei correva nel privarsi di un tesoro così caro a suo padre; no, pensava a suo cugino, e giunse a capire, infine, dopo alcuni errori di calcolo, che possedeva circa 5800 franchi in moneta corrente, che convenzionalmente potevano essere venduti a circa 2000 scudi. Alla vista di tali ricchezze si mise ad applaudire battendo le mani, come un bambino costretto a liberarsi della sua gioia eccessiva con gesti del corpo incontrollati. Così il padre e la figlia avevano valutato la propria ricchezza: lui, per andare a vendere il suo oro; Eugénie, per gettare il proprio in un oceano di affezione. Rimise le monete nella vecchia borsa, la prese e risalì senza esitazioni. La miseria segreta di suo cugino le faceva dimenticare la notte, le convenienze; si faceva forza della sua coscienza, della sua devozione, della sua felicità. Nel momento in cui si affacciò dalla soglia della porta, tenendo con una mano la candela, con l’altra la sua borsa, Charles si svegliò, vide sua cugina e rimase basito dalla sorpresa. Eugénie avanzò, posò la candela sul tavolo e disse con voce commossa: “Cugino mio, devo chiedervi perdono di una colpa grave che ho commesso verso di voi; ma Dio me lo perdonerà, questo peccato, se voi volete cancellarlo”.

“Che cosa è successo?” disse Charles fregandosi gli occhi.

“Ho letto queste due lettere.”

Charles arrossì.

“Come mai è accaduto ciò?” riprese. “Perché sono salita? In verità, ora non lo so più. Ma sono tentata di non dovermi pentire troppo di aver letto queste lettere, poiché mi hanno fatto conoscere il vostro cuore, la vostra anima e…”

“E che cosa?” chiese Charles.

“E i vostri progetti, la necessità in cui vi trovate di disporre di una somma…”

“Mia cara cugina…”

“Silenzio, silenzio, cugino mio, non così ad alta voce, non dobbiamo svegliare nessuno. Ecco,” disse aprendo la borsa, “i risparmi di una povera fanciulla che non ha bisogno di nulla. Charles, accettateli. Questa mattina ignoravo che cosa fosse il denaro, voi me lo avete fatto conoscere, è solo un mezzo, ecco tutto. Un cugino è quasi un fratello, voi potete bene prendere in prestito la borsa di vostra sorella.”

Eugénie, tanto donna quanto fanciulla, non aveva previsto un rifiuto, e suo cugino restava muto.

“Ebbene! Rifiutate?” chiese Eugénie, le cui palpitazioni risuonarono nel mezzo di un silenzio profondo.

L’esitazione di suo cugino la umiliò; ma la necessità in cui lui si trovava risaltò più viva nella sua mente, e lei piegò il ginocchio.

“Non mi rialzerò finché voi non avrete preso l’oro! Cugino mio, di grazia, una risposta!… Che io sappia se voi mi fate onore, se siete generoso, se…”

Sentendo il grido di una nobile disperazione, Charles lasciò cadere delle lacrime sulle mani di sua cugina, che afferrò per impedire che si inginocchiasse.19 Ricevendo queste calde lacrime Eugenié balzò sulla borsa e la rovesciò sul tavolo.

“Ebbene! Sì, non è vero?” disse piangendo di gioia. “Non temete niente, cugino mio, voi sarete ricco. Quest’oro vi porterà fortuna; un giorno me lo restituirete; del resto noi ci metteremo in società; alla fine sottostarò a tutte le condizioni che mi imporrete. Ma non dovreste dare tanto valore a questo dono.”

Charles poté infine esprimere i suoi sentimenti.

“Sì, Eugénie, avrei un’anima piccola, se non accettassi. Tuttavia, niente per niente, fiducia per fiducia.”

“Che volete?” disse spaventata.

“Ascoltate, cugina cara, ho qui…” si interruppe per mostrare sul comodino una cassetta quadrata avvolta in una fodera di cuoio.

“Ecco, vedete, una cosa per me preziosa quanto la vita. Questa scatola è un dono di mia madre. Da questa mattina pensavo che, se ella potesse uscire dalla sua tomba, venderebbe lei stessa l’oro che la sua tenerezza le ha fatto sperperare in questo nécessaire; ma, compiuta da me questa azione, mi sembrerebbe un sacrilegio.” Eugénie strinse convulsamente la mano di suo cugino sentendo queste ultime parole. “No,” proseguì dopo una leggera pausa, durante la quale entrambi si lanciarono uno sguardo umido, “no, non voglio né distruggerla, né rischiarla nei miei viaggi. Cara Eugénie, voi ne sarete la depositaria. Mai un amico avrebbe affidato qualcosa di più sacro a un suo amico. Giudicate voi.” Andò a prendere la scatola, la estrasse dalla fodera, l’aprì e mostrò tristemente a sua cugina sbalordita un nécessaire dove il lavoro conferiva all’oro un valore alquanto superiore al suo peso. “Ciò che voi ammirate non è niente,” disse facendo scattare un meccanismo che svelò un doppio fondo. “Ecco ciò che per me vale la terra intera.” Estrasse due ritratti, due capolavori di madame de Mirbel,20riccamente decorati di perle.

“Oh! Che bel volto, non è quella signora a cui scriv…”

“No,” disse sorridendo. “Questa donna è mia madre, ed ecco mio padre, che sono vostra zia e vostro zio. Eugénie, dovrei supplicarvi in ginocchio di custodire questo tesoro. Se morissi perdendo la vostra piccola fortuna, questo oro vi risarcirebbe; e solo a voi posso lasciare i due ritratti, voi siete degna di conservarli; ma distruggeteli, affinché non capitino in altre mani…” Eugénie taceva. “Ebbene? Sì, non è vero?” aggiunse con grazia.

Sentendo le parole che aveva appena detto suo cugino, gli lanciò il suo primo sguardo di donna innamorata, uno di quegli sguardi in cui c’è tanta civetteria quanta profondità; gli prese la mano e la baciò.

“Angelo di purezza! Tra noi, non è vero?… il denaro non sarà mai niente. Il sentimento, che ne fa qualcosa, sarà tutto ormai.”

“Voi assomigliate a vostra madre. Aveva una voce dolce quanto la vostra?”

“Oh! Alquanto più dolce…”

“Sì, per voi,” disse abbassando le sue palpebre. “Suvvia, Charles, coricatevi, lo voglio, siete stanco, a domani.”

Sfilò dolcemente la mano da quella di suo cugino, che la ricondusse facendole luce. Quando furono entrambi sulla soglia della porta:

“Ah! Perché sono rovinato?” disse.

“Bah! Mio padre è ricco, credo,” rispose.

“Povera bambina,” continuò Charles mettendo un piede nella sua camera, e appoggiando la schiena al muro, “non avrebbe lasciato morire il mio, non vi lascerebbe in questa indigenza, infine vivrebbe in un altro modo.”

“Ma possiede Froidfond!”

“E quanto vale Froidfond?”

“Non lo so; ma ha Noyers.”

“Alcune pessime cascine!”

“Possiede vigne e prati…”

“Delle miserie,” disse Charles con un’aria sdegnosa. “Se vostro padre avesse solamente ottantamila lire di rendita, abitereste in questa camera fredda e nuda?” aggiunse allungando anche l’altro piede nella stanza. “Lì staranno dunque i miei tesori,” disse mostrando un vecchio baule per tenere nascosto il suo pensiero.

“Andate a dormire,” gli disse impedendogli di entrare in una stanza in disordine.

Charles si ritirò e si dissero buonasera con un muto sorriso.

Tutti e due si addormentarono con lo stesso sogno, e Charles iniziò sin da allora a gettare qualche rosa sul suo lutto. L’indomani mattina, madame Grandet trovò sua figlia che passeggiava, prima della colazione, in compagnia di Charles. Il giovane era ancora triste come doveva un infelice sceso, per dir così, al fondo delle sue disgrazie, e che misurando la profondità dell’abisso in cui era sprofondato, aveva sentito tutto il peso della vita futura.

“Mio padre tornerà solo per cena,” disse Eugénie vedendo l’inquietudine dipinta sul volto della madre.

Era facile vedere nelle maniere, sul volto di Eugénie e nella singolare dolcezza che assunse la sua voce, una sintonia di pensieri tra lei e suo cugino. Le loro anime si erano ardentemente sposate prima forse di aver provato la forza dei sentimenti che li univa l’uno all’altra. Charles rimase nel salone, e la sua malinconia fu rispettata. Ognuna delle tre donne ebbe da fare. Poiché Grandet aveva dimenticato i propri affari, venne un numero di persone relativamente alto. L’operaio dei tetti, l’idraulico, il muratore, gli sterratori, il carpentiere, i gestori di un appezzamento, i fittavoli gli uni per concludere dei lavori relativi a delle riparazioni, gli altri per pagare degli appalti o per ricevere del denaro. Madame Grandet ed Eugénie furono dunque obbligate ad andare e venire, e rispondere agli interminabili discorsi degli operai e delle persone di campagna. Nanon incassava i raccolti in cucina. Aspettava sempre gli ordini dal suo padrone per sapere che cosa doveva essere tenuto per la casa o venduto al mercato. L’abitudine del brav’uomo era, come quella di numerosi gentiluomini di campagna, di bere il vino cattivo e di mangiare la frutta guasta. Verso le cinque di sera Grandet tornò da Angers avendo realizzato quattordicimila franchi dal suo oro, e tenendo nel portafoglio dei buoni regi che gli avrebbero fruttato degli interessi sino al giorno in cui avesse dovuto pagare le sue rendite. Aveva lasciato Cornoiller per prendersi cura dei cavalli quasi stremati e riportarli lentamente dopo averli fatti riposare per bene.

“Torno da Angers, moglie mia,” disse. “Ho fame.”

Nanon gli gridò dalla cucina:

“Non avete mangiato niente da ieri sera?”.

“Niente,” rispose il brav’uomo.

Nanon portò della zuppa. Des Grassins venne a prendere gli ordini del suo cliente nel momento in cui la famiglia era a tavola. L’unico che père Grandet non aveva veduto era suo nipote.

“Mangiate tranquillamente, Grandet,” gli disse il banchiere. “Discuteremo. Sapete quanto vale l’oro ad Angers, dove si è venuto a cercarlo per Nantes? Ne manderò.”

“Non mandatene,” rispose il brav’uomo. “Ce n’è a sufficienza. Siamo troppo buoni amici perché io non vi eviti una perdita di tempo.”

“Ma l’oro lì vale 13 franchi e 50 centesimi.”

“Dite dunque ‘valeva’.”

“Da dove diavolo ne sarebbe venuto?”

“Questa notte sono andato ad Angers,” gli rispose Grandet a bassa voce.

Il banchiere trasalì dalla sorpresa. Poi tra di loro si stabilì una conversazione all’orecchio, durante la quale des Grassins e Grandet guardarono Charles a più riprese. Nel momento in cui senza dubbio l’ex bottaio disse al banchiere di comprargli centomila lire di rendita, des Grassins si lasciò scappare subito un gesto di stupore.

“Monsieur Grandet,” disse a Charles, “parto per Parigi; e se avete delle commissioni da affidarmi…”

“Nessuna, signore. Vi ringrazio,” rispose Charles.

“Ringraziatelo meglio di così, nipote mio, il signore parte per sistemare gli affari della casa di Guillaume Grandet.”

“Ci sarebbe dunque qualche speranza?” chiese Charles.

“Ma,” gridò il bottaio con un orgoglio ben recitato, “non siete mio nipote? Il vostro onore è il nostro. Non vi chiamate Grandet?”

Charles si alzò, afferrò père Grandet, lo baciò, impallidì e uscì. Eugénie contemplava suo padre con ammirazione.

“Suvvia, addio, mio buon des Grassins, sta tutto a voi, raggiratemi questa gente!” I due diplomatici si diedero una stretta di mano, l’ex bottaio riaccompagnò il banchiere sino alla porta; poi, dopo averla chiusa, tornò e disse a Nanon affondando nella poltrona: “Portami del cassis!”. Ma troppo commosso per restare fermo, si alzò, guardò il ritratto di monsieur de La Bertellière e si mise a cantare ciò che Nanon chiamava dei passi di danza:

Nelle guardie francesi

Avevo un buon padre”.21

Nanon, madame Grandet ed Eugénie si osservarono a vicenda e in silenzio. La gioia del viticoltore le terrorizzava sempre quando arrivava al suo apogeo. La serata fu presto finita. Prima di tutto père Grandet volle andare a letto presto; e quando si coricava, a casa sua tutto doveva dormire, come quando Augusto beveva, la Polonia era ubriaca.22D’altronde Nanon, Charles ed Eugénie non erano meno stanchi del padrone. Quanto a madame Grandet, dormiva, mangiava, beveva, camminava seguendo i desideri di suo marito. Tuttavia, durante le due ore concesse alla digestione, il bottaio, più spiritoso di quanto non lo era mai stato, disse molti dei suoi particolari apoftegmi, di cui uno solo darà la misura della sua mente. Una volta bevuto il suo cassis, guardò il bicchiere.

“Non appena si mettono le labbra sul bicchiere, questi è già vuoto! Ecco la nostra storia. Non si può essere ed essere stati. Gli scudi non possono rotolare e restare nella vostra borsa, altrimenti la vita sarebbe troppo bella.”

Fu gioviale e clemente. Quando Nanon venne con il suo arcolaio: “Devi essere stanca,” le disse, “lascia stare la tua canapa”.

“Eh! Be’! Ma mi annoierò,” rispose la serva.

“Povera Nanon! Vuoi del cassis?”

“Ah! Per il cassis non dico di no; la signora lo fa molto meglio dei farmacisti. Ciò che vendono è un intruglio.”

“Ci mettono troppo zucchero, e non sa più di niente,” disse il brav’uomo.

L’indomani, la famiglia, riunita alle otto per la colazione, offrì il quadro per una volta di un’intimità sincera. Il dolore aveva subito messo in relazione madame Grandet, Eugénie e Charles; Nanon stessa simpatizzava per loro senza saperlo. Tutti e quattro iniziarono a formare una sola famiglia. Quanto al vecchio vignaiolo, la sua avarizia appagata, e la certezza di veder partire presto il damerino senza dovergli pagare altro che il suo viaggio a Nantes lo resero quasi indifferente riguardo la sua presenza in casa. Lasciò i due bambini, così chiamò Charles ed Eugénie, liberi come sembrava loro meglio fare sotto gli occhi di madame Grandet, nella quale fra l’altro aveva riposto la sua intera fiducia in ciò che riguardava la morale pubblica e religiosa. L’allineamento dei suoi prati e dei suoi fossati lungo la strada, le sue piantagioni di pioppi nella Loira, e i lavori invernali negli orti e a Froidfond lo assorbirono completamente. Da allora cominciò per Eugénie la primavera dell’amore. Dalla scena notturna durante la quale la cugina aveva dato il suo tesoro al cugino, il suo cuore aveva seguito il tesoro. Entrambi complici dello stesso segreto, si guardavano esprimendo una reciproca intelligenza, che rendeva profondi i loro sentimenti e li rendeva più comuni, più intimi, mettendoli, per dir così, entrambi al di fuori della vita quotidiana. La parentela non autorizzava forse una certa dolcezza nell’accento, una tenerezza negli sguardi? Così Eugénie prese il piacere di assopire le sofferenze di suo cugino nelle gioie infantili di un amore nascente. Non ci sono graziose similitudini tra gli inizi dell’amore e quelli della vita? Non si culla il bambino attraverso dolci canti e sguardi gentili? Non gli si raccontano storie meravigliose per rendergli l’avvenire dorato? Per lui la speranza non dispiega continuamente le sue ali radiose? Non versa alternativamente lacrime di gioia e di dolore? Non bisticcia per dei nonnulla, per dei sassolini con cui cerca di costruirsi un palazzo dall’equilibrio precario, per dei mazzi di fiori quasi subito dimenticati non appena sono recisi? Non è avido di afferrare il tempo, e di progredire nella vita? L’amore è la nostra seconda trasformazione. L’infanzia e l’amore furono la stessa cosa tra Eugénie e Charles: fu la prima passione con tutti i suoi infantilismi, ancor più carezzevoli per i loro cuori, che erano avvolti nella malinconia. Dibattendosi nella sua nascita tra le crepe del lutto, questo amore era del resto ancor più in armonia con la semplicità provinciale di quella casa fatiscente. Scambiando alcune parole con sua cugina sul bordo del pozzo, in quel muto cortile; restando in quel piccolo giardino, seduti su una panchina piena di muschio sino all’ora in cui calava il sole, occupati a dirsi dei grandi niente e raccolti nella calma che regnava tra il bastione e la casa, come sotto le arcate di una chiesa, Charles capì la santità dell’amore; poiché la sua gran signora, la sua cara Annette, gliene aveva fatto conoscere solo le torbide tempeste. Abbandonava in quel momento la passione parigina, civettuola, vanitosa, eclatante per il puro e vero amore. Amava quella casa i cui costumi non gli apparivano più ridicoli. Scendeva sin dalla mattina, al fine di poter parlare con Eugénie, qualche momento prima che Grandet venisse per dare le razioni giornaliere; e quando i passi del brav’uomo risuonavano per le scale, si rifugiava in giardino. Il piccolo crimine di questo appuntamento mattutino, tenuto segreto anche a madame Grandet, e di cui Nanon faceva finta di non accorgersi, imprimeva all’amore più innocente del mondo la vivacità dei piaceri vietati. Poi, quando, dopo la colazione, père Grandet era partito per andare a vedere le sue proprietà e i suoi investimenti, Charles restava tra la madre e la figlia, provando delle delizie sconosciute aiutandole a districare i fili, a vederle lavorare, e a sentirle parlare. La semplicità di questa vita quasi monastica, che gli svelò la bellezza di queste anime alle quali il mondo era sconosciuto, lo colpì vivamente. Aveva creduto impossibili questi costumi in Francia, e aveva ammesso la loro esistenza solo in Germania, e ancora solo in maniera favolosa e nei romanzi di Auguste Lafontaine.23 Presto per lui Eugénie fu l’immagine ideale della Margherita24 di Goethe, senza la colpa. Infine con il passare dei giorni i suoi sguardi, le sue parole rapirono la povera fanciulla, che si abbandonò deliziosamente alla corrente dell’amore; afferrava la sua felicità come un nuotatore afferra il ramo del salice per uscire dal fiume e riposarsi sulla riva. I dolori di una prossima assenza non rattristavano già le ore più gioiose di queste giornate fugaci? Ogni giorno un piccolo fatto ricordava loro la prossima separazione. Così, tre giorni dopo la partenza di des Grassins, Charles fu portato da Grandet al tribunale di prima istanza, con la solennità che gli uomini di provincia attribuiscono a tali atti, per firmare una rinuncia all’eredità di suo padre. Terribile ripudio! Sorta di apostasia domestica. Andò dal notaio Cruchot per far fare due procure, l’una per des Grassins, l’altra per l’amico incaricato di vendere il mobilio. Poi fu necessario compiere le formalità necessarie per ottenere un passaporto per l’estero. Infine, quando arrivarono i semplici vestiti di lutto che Charles aveva chiesto a Parigi, fece venire un sarto di Saumur per vendergli il suo guardaroba inutile. Tale atto piacque singolarmente al père Grandet.

“Ah! Eccovi simile a un uomo che deve imbarcarsi e vuole diventare ricco,” vedendolo vestito con una redingote fatta di un pesante panno nero. “Bene, molto bene!”

“Vi prego di credere, signore,” gli rispose Charles, “che avrò bene a mente la mia situazione.”

“Che cosa è questo?” disse il brav’uomo, i cui occhi si animarono nel vedere una manciata d’oro che Charles gli mostrò.

“Signore, ho riunito i miei bottoni, i miei anelli, tutte le cose superflue che posseggo e che potevano avere qualche valore; ma non conoscendo nessuno a Saumur, volevo pregarvi questa mattina di…”

“Di comprarvelo?” disse Grandet interrompendolo.

“No, zio mio, di indicarmi un uomo onesto che…”

“Date qua, nipote mio, andrò di sopra a valutare il tutto, e tornerò per dirvi quanto vale, con la precisione di un centesimo. Oro da gioielleria,” disse esaminando una lunga collana, tra i diciotto e i diciannove carati.

Il brav’uomo tese la sua larga mano e prese il mucchio d’oro.

“Cugina mia,” disse Charles, “permettetemi di donarvi questi due bottoni, che potrebbero servirvi per attaccare dei nastri ai vostri polsi. Un bracciale molto di moda in questo momento.”

“Accetto senza esitare, cugino mio,” disse lanciandogli uno sguardo d’intesa.

“Zia mia, ecco il ditale di mia madre, lo conservavo preziosamente nel mio nécessaire da viaggio,” disse Charles mostrando un bel ditale d’oro a madame Grandet, che ne desiderava uno da dieci anni.

“Non ci sono ringraziamenti possibili, nipote mio,” disse la vecchia madre, i cui occhi si bagnarono di lacrime. “Sera e mattina nelle mie preghiere ne aggiungerò una, la più accorata di tutte per voi, dicendo quella dei viaggiatori. Se io morissi, Eugénie conserverà per voi questo gioiello.”

“Vale 989 franchi e 75 centesimi, nipote mio,” disse Grandet aprendo la porta. “Ma per evitarvi la pena di venderlo, vi conterò i soldi… in lire.”

L’espressione “in lire” significa sulle rive della Loira che gli scudi di sei lire devono essere accettati per sei franchi senza deduzione.

“Non osavo proporvelo,” rispose Charles; “ma mi ripugnava di mercanteggiare i miei gioielli nella città dove abitate. Bisogna lavare i panni sporchi in famiglia, diceva Napoleone. Vi ringrazio dunque della vostra bontà.” Grandet si grattò l’orecchio e ci fu un momento di silenzio. “Mio caro zio,” proseguì Charles guardandolo con un’aria preoccupata, come se avesse temuto di ferire la sua suscettibilità, “mia cugina e mia zia hanno accettato di buon grado un piccolo ricordo di me; vogliate accettare a vostra volta dei gemelli che diventano inutili per me; vi faranno tornare alla mente un povero ragazzo che, lontano da voi, penserà di certo a voi, che ormai costituirete tutta la sua famiglia.”

“Ragazzo mio! Ragazzo mio, non bisogna privarsi così… Che cosa hai avuto dunque, moglie mia?” disse voltandosi con avidità verso di lei. “Ah! Un ditale in oro. E tu figlietta, toh! Dei fermagli di diamante. Allora prendo i vostri gemelli, ragazzo mio,” continuò stringendo la mano di Charles. “Ma… voi mi permetterete di… pagarvi… il vostro, sì… il vostro passaggio nelle Indie. Sì, voglio pagare il vostro passaggio. Tanto più che, vedete, ragazzo mio, stimando i vostri gioielli, ho valutato solo l’oro, ci sarà forse da guadagnare qualcosa dalle lavorazioni. Così, ecco che è detto. Vi darò millecinquecento franchi… in lire, che mi presterà Cruchot; poiché qui non ho nemmeno una moneta di rame, a meno che Perrotet, in ritardo con il suo affitto, non mi paghi. Guarda, guarda, vado a trovarlo.”

Prese il cappello, indossò i guanti e uscì.

“Andrete via, dunque,” disse Eugénie lanciandogli uno sguardo di tristezza misto d’ammirazione.

“È necessario,” disse abbassando la testa.

Da alcuni giorni, l’atteggiamento, le maniere, le parole di Charles erano diventate quelle di un uomo profondamente afflitto, ma che, sentendo gravare su di sé il peso di obblighi immensi, trae un nuovo coraggio dalla sua sciagura. Non sospirava più, si era fatto uomo. Così mai Eugénie poté apprezzare meglio il carattere di suo cugino vedendolo calarsi nei suoi abiti di pesante panno nero, che si attagliavano bene al suo volto pallido e al suo cupo atteggiamento. Quel giorno il lutto fu preso dalle due donne, che assistettero con Charles a un Requiemcelebrato alla parrocchia per l’anima del fu Guillaume Grandet.

A pranzo, Charles ricevette delle lettere da Parigi e le lesse.

“Ebbene! Cugino mio, siete contento dei vostri affari,” disse Eugénie a bassa voce.

“Non porre mai dunque simili domande, figlia mia,” rispose Grandet. “E che diavolo! Non ti racconto i miei, perché ficchi il naso in quelli di tuo cugino? Lascialo in pace dunque, questo ragazzo!”

“Oh! Non ho alcun segreto,” disse Charles.

“Ta, ta, ta, ta! Nipote mio, imparerete che nel commercio bisogna tenere a freno la lingua.”

Quando i due amanti si trovarono soli in giardino, Charles disse a Eugénie attirandola sulla vecchia panca dove si sedettero sotto il noce: “Avevo valutato bene Alphonse, si è comportato meravigliosamente. Ha condotto i miei affari con prudenza e lealtà. Non ho più debiti a Parigi, e mi annuncia, seguendo i consigli di un capitano di lungo corso, di aver investito i tremila franchi che gli restavano in una paccottiglia composta da curiosità europee, dalle quali si traggono eccellenti profitti nelle Indie. Ha indirizzato i miei pacchi a Nantes, dove si trova una nave con destinazione Giava. Tra cinque giorni, Eugénie, dovremo dirci addio se non per sempre, almeno per molto tempo. La mia paccottiglia e diecimila franchi che mi spediscono due miei amici sono un bel piccolo inizio. Mia cara cugina, non mettete sulla bilancia la mia vita e la vostra, potrei morire, forse un giorno si presenterà per voi una ricca sistemazione…”.

“Voi mi amate?…” disse lei.

“Oh! Sì, certo,” rispose con una profondità d’accento che rivelava una profondità identica nel sentimento.

“Aspetterò, Charles. Dio! Mio padre è alla sua finestra,” disse allontanando suo cugino, che si avvicinava per baciarla.

Si rifugiò sotto la volta, Charles la seguì; vedendolo, si ritirò alla base della scala e aprì la porta battente; poi senza sapere troppo dove andava, Eugénie si trovò vicino all’anfratto di Nanon, nel punto più buio del corridoio; lì Charles, che l’aveva seguita, le prese la mano, la pose sul suo cuore, la afferrò per la vita e la strinse dolcemente a sé. Eugénie non resistette più, ricevette e diede il più puro, il più soave, ma anche il più totale di tutti i baci.

“Cara Eugénie, un cugino è meglio di un fratello, può sposarti,” le disse Charles.

“Così sia!” gridò Nanon aprendo la porta del suo buco.

I due amanti, spaventati, si rifugiarono nel salone, dove Eugénie riprese il suo lavoro, e dove Charles si mise a leggere le litanie della Vergine nel libro da messa di madame Grandet.

“Ma guarda!” disse Nanon. “Diciamo tutti le nostre preghiere.”

Non appena Charles ebbe annunciata la sua partenza, Grandet si mise in movimento per far credere che gli prestava molto interesse; si dimostrò liberale in tutto ciò che non costava nulla, si occupò di trovargli un imballatore, e disse che quell’uomo pretendeva di vendere troppo care le sue casse; voleva a tutti i costi farle lui, e usò delle vecchie assi; si alzò la mattina presto per levigarle, aggiustarle, appianarle, inchiodare i suoi travicelli e costruire delle belle casse, in cui sistemò tutti gli effetti di Charles; si incaricò di farle scendere dal battello sulla Loira, di assicurarle, e di spedirle in tempo utile per Nantes.

Dopo il bacio preso nel corridoio, le ore volavano per Eugénie con una rapidità spaventosa. Talora voleva seguire suo cugino. Colui che ha conosciuto la più coinvolgente delle passioni, quella la cui durata è abbreviata ogni giorno dall’età, dal tempo, da una malattia mortale, da alcune delle fatalità umane, costui capirà i tormenti di Eugénie. Piangeva spesso passeggiando per quel giardino, ora troppo angusto per lei, così come il cortile, la casa, la città: si lanciava prima del tempo sulla vasta distesa dei mari. Infine giunse la vigilia della partenza. La mattina, in assenza di Grandet e di Nanon, il prezioso bauletto dove si trovavano i due ritratti fu solennemente messo nell’unico cassetto del cassone che si chiudeva a chiave, e dove si trovava la borsa ora vuota. Il deposito di questo tesoro si verificò non senza un buon numero di baci e di lacrime. Quando Eugénie mise la chiave nel suo seno, non ebbe il coraggio di impedire a Charles di baciarla in quel posto.

“Non uscirà di qui, amico mio.”

“Ebbene! Anche il mio cuore ci starà sempre.”

“Ah! Charles, non va bene,” disse in un tono un po’ di rimprovero.

“Non siamo sposati?” rispose. “Ho la tua parola, prendi la mia.”

“Tuo, per sempre!” venne detto due volte da una parte e dall’altra.

Nessuna promessa su questa terra fu più pura: il candore di Eugénie aveva momentaneamente santificato l’amore di Charles. L’indomani mattina la colazione fu triste. Nonostante il vestito d’oro e una crocetta25 che le diede Charles, la stessa Nanon, libera di esprimere i suoi sentimenti, ebbe le lacrime agli occhi.

“Questo povero signorino, che va sul mare. Che Dio lo conduca.”

Alle dieci e mezza la famiglia si incamminò per accompagnare Charles alla diligenza di Nantes. Nanon aveva lasciato libero il cane, chiusa la porta, e volle portare la borsa da viaggio di Charles. Tutti i commercianti dell’antica strada erano sulla soglia dei loro negozi per vedere passare il corteo, al quale si aggiunse sulla piazza il notaio Cruchot.

“Non metterti a piangere, Eugénie,” le disse la madre.

“Nipote mio,” disse Grandet sotto la porta della locanda, baciando Charles sulle due guance, “partite povero, tornate ricco, troverete l’onore di vostro padre salvo. Ve lo garantisco io, Grandet; poiché, allora, starà solo a voi di…”

“Ah! Zio mio, voi addolcite l’amarezza della partenza. Non è forse il più bel dono che potevate farmi?”

Non capendo le parole del vecchio bottaio, che aveva interrotto, Charles sparse sul volto rugoso di suo zio lacrime di riconoscenza, mentre Eugénie stringeva con tutte le sue forze la mano di suo cugino e quella di suo padre. Solo il notaio sorrideva ammirando l’astuzia di Grandet, poiché solo lui aveva inteso bene il brav’uomo. I quattro abitanti di Saumur, attorniati da numerose persone, rimasero davanti alla carrozza fino a quando essa partì; poi, quando scomparve sul ponte e il rumore si sentiva solo in lontananza: “Buon viaggio!” disse il vignaiolo. Per fortuna solo il notaio Cruchot sentì questa esclamazione. Eugénie e sua madre erano andate in un punto della banchina in cui potevano ancora vedere la carrozza, e agitavano i loro fazzoletti bianchi, saluto al quale Charles rispose dispiegando il proprio.

“Madre mia, vorrei avere per un momento la potenza di Dio,” disse Eugénie nell’istante in cui non vide più il fazzoletto di Charles.

Per non interrompere il corso degli eventi che accaddero nella famiglia Grandet, è necessario gettare in anticipo un occhio sulle operazioni che il brav’uomo fece a Parigi con l’intermediazione di des Grassins. Un mese dopo la partenza del banchiere, Grandet possedeva un’iscrizione di centomila lire di rendita comprate a ottanta franchi netti. Le informazioni date alla sua morte dal suo inventario non hanno mai fornito la più piccola luce sui mezzi che la sua diffidenza gli aveva suggerito per scambiare il prezzo dell’iscrizione con l’iscrizione stessa. Il notaio Cruchot pensò che Nanon fosse stata, a sua insaputa, lo strumento fedele del trasporto dei fondi. In quel periodo, la serva fu assente per cinque giorni, sotto il pretesto di andare a sistemare qualcosa a Froidfond, come se il brav’uomo fosse capace di lasciare indietro alcunché. Per quanto concerne gli affari della casa Guillaume Grandet, tutte le previsioni del bottaio si avverarono.

Come ognuno sa, alla Banca di Francia si trovano le informazioni più esatte sulle grandi ricchezze di Parigi e dei dipartimenti. I nomi di des Grassins e di Félix Grandet di Saumur erano conosciuti e godevano della stima accordata alle celebrità finanziarie che si basano su immense proprietà territoriali libere da ipoteche. L’arrivo del banchiere di Saumur, incaricato, si diceva, di liquidare con onore la casa Grandet di Parigi, fu sufficiente dunque all’ombra del mercante per evitare l’onta del mancato pagamento. La rottura dei sigilli si fece in presenza dei creditori, e il notaio della famiglia si mise a stilare regolarmente l’inventario della successione. Presto des Grassins riunì i creditori, che, a voce unanime, elessero come liquidatore il banchiere di Saumur, affiancato da François Keller,26 capo di una ricca casa, uno dei principali interessati, e gli conferirono tutti i poteri necessari per salvare l’onore della famiglia e allo stesso tempo i crediti. Il credito di Grandet di Saumur, la speranza che diffuse nei cuori dei creditori per mezzo di des Grassins, agevolarono le transazioni; non si incontrò uno solo che recalcitrasse tra i creditori. Nessuno pensò di passare il suo credito nel computo delle perdite e dei ricavi e ognuno si diceva: “Grandet di Saumur pagherà!”. Passarono sei mesi. I parigini avevano ritirato gli effetti in circolazione e li conservavano nel fondo dei loro portafogli. Primo risultato che voleva ottenere il bottaio. Nove mesi dopo la prima assemblea, i due liquidatori distribuirono il 47 per cento a ogni creditore. Questa somma fu ottenuta dalla vendita dei valori, dei possedimenti, dei beni e degli oggetti appartenuti al fu Grandet, e fu fatta con una fedeltà scrupolosa. La più esatta probità presiedeva a questa liquidazione. I creditori si compiacquero nel riconoscere l’ammirevole e incontestabile onore dei Grandet. Quando tali elogi erano debitamente circolati, i creditori chiesero il resto dei loro soldi. Essi dovettero scrivere una lettera collettiva a Grandet.

“Ecco, ci siamo,” disse l’ex bottaio gettando la lettera nel fuoco; “pazienza, miei piccoli amici.”

In risposta alle proposte contenute in questa lettera, Grandet di Saumur chiese il deposito presso un notaio di tutti i titoli di credito esistenti contro la successione di suo fratello, accompagnandolo di una ricevuta di tutti i pagamenti già compiuti, con il pretesto di mettere in ordine i conti e di stabilire correttamente la situazione della successione. Tale deposito sollevò mille difficoltà. In genere il creditore è una sorta di maniaco. Oggi è pronto a concludere, domani vuole mettere tutto a ferro e a fuoco; più tardi diventa più che accondiscendente. Oggi sua moglie è di buon umore, il suo ultimo nato ha messo i denti, tutto va bene in casa, non vuole perdere un soldo; domani piove, non può uscire, è malinconico, dice sì a tutte le proposte che possono concludere un affare; l’indomani ancora gli servono delle garanzie, alla fine del mese pretende di giustiziarvi, il carnefice! Il creditore assomiglia al passerotto sulla coda del quale i bambinetti si sfidano a mettere un granello di sale; ma il creditore distorce questa immagine contro il suo credito, dal quale non può ricavare niente. Grandet aveva osservato le variazioni atmosferiche dei creditori, e quelli di suo fratello rispettarono le sue previsioni. Gli uni si adirarono e si opposero nettamente al deposito. “Bene! Procede bene,” diceva Grandet fregandosi le mani nel leggere le lettere che gli scriveva a tal proposito des Grassins. Altri acconsentirono al deposito a condizione di mettere bene in chiaro i loro diritti, di non rinunciare ad alcuno di essi e di riservarsi persino quello di far dichiarare il fallimento. Nuovo scambio di missive, alla fine del quale Grandet di Saumur acconsentì a tutte le riserve sollevate. Mediante questa concessione, i creditori più malleabili fecero ragionare i creditori più intransigenti. Il deposito ebbe luogo, non senza alcune lamentele. “Il brav’uomo,” si diceva a des Grassins, “sta prendendo in giro voi e noi.” Ventitré mesi dopo la morte di Guillaume Grandet, molti commercianti, trascinati dal movimento degli affari di Parigi, avevano dimenticato il loro recupero crediti verso Grandet, o ci pensavano solo per dirsi: “Comincio a credere che il 47 per cento sarà tutto ciò che ricaverò”. Il bottaio aveva fatto i calcoli sulla potenza del tempo, che, diceva, è un buon diavolo. Alla fine del terzo anno, des Grassins scrisse a Grandet che, mediante il 10 per cento dei due milioni e quattrocentomila franchi che dovevano essere restituiti dalla casa Grandet, aveva portato i creditori a restituirgli i loro titoli. Grandet rispose che il notaio e l’agente di cambio, i cui terribili fallimenti avevano causato la morte del fratello, vivevano, loro! Potevano essere diventati buoni, bisognava perseguirli in giudizio al fine di ricavare qualcosa e di ridurre la cifra del deficit. Alla fine del quarto anno il deficit fu fissato una volta per tutte nella somma di un milione e duecentomila franchi. Ci furono delle discussioni che durarono sei mesi tra i liquidatori e i creditori, tra Grandet e i liquidatori. In breve, vivamente pressato a saldare, Grandet di Saumur rispose ai due liquidatori, verso il nono mese di quell’anno, che suo nipote, che era divenuto ricco nelle Indie, gli aveva manifestato l’intenzione di pagare integralmente i debiti di suo padre; non poteva assumersi la responsabilità di saldarli fraudolentemente, senza consultarlo; era in attesa di una risposta. I creditori, verso la metà del quinto anno, erano ancora tenuti in scacco con la parola “integralmente”, che ogni tanto lasciava cadere il sublime bottaio, che rideva sotto i baffi, senza farsi sfuggire, con un sorrisino e un’imprecazione, l’espressione: “questi PARIGINI!”. Ma ai creditori fu riservata una sorte inaudita negli annali del commercio. Si ritroveranno nella posizione in cui li aveva tenuti Grandet nel momento in cui gli eventi di questa storia li ricostringeranno a ricomparire. Quando le rendite raggiunsero quota 115, père Grandet vendette, ritirando da Parigi circa due milioni e quattrocentomila franchi in oro, che si aggiunsero nei suoi barilotti ai seicentomila franchi d’interessi compositi che gli avevano fruttato le sue iscrizioni. Des Grassins restava a Parigi. Ecco perché. Dapprima fu eletto deputato, poi si invaghì, lui padre di famiglia, ma annoiato dalla noiosa vita di Saumur, di Florine,27una delle più belle attrici del Teatro di Madame,28 e ci fu una recrudescenza del vecchio quartiermastro nel banchiere. È inutile parlare della sua condotta; fu giudicata profondamente immorale a Saumur. Sua moglie fu molto felice di avere i beni separati e di avere un’intelligenza sufficiente a condurre la casa di Saumur, i cui affari continuarono sotto il suo nome, per tappare le falle provocate alla sua ricchezza dalle follie di monsieur des Grassins. I partigiani dei Cruchot peggiorarono così bene la difficile situazione della quasi vedova, che sposò alquanto male sua figlia e dovette rinunciare alle nozze di Eugénie Grandet con suo figlio. Adolphe raggiunse des Grassins a Parigi, e divenne, si dice, un pessimo soggetto. I Cruchot trionfarono.

“Vostro marito è privo di buon senso,” diceva Grandet prestando, attraverso garanzie, una somma a madame des Grassins. “Vi compiango molto, siete una brava donnina.”

“Ah! Signore,” rispose la povera donna, “chi poteva credere che il giorno in cui partì da voi per andare a Parigi, andasse incontro alla sua rovina?”

“Il cielo mi è testimone, signora, che ho fatto di tutto sino all’ultimo istante per impedirgli di andare. Il signor presidente voleva rimpiazzarlo a tutti i costi; se ci teneva tanto ad andarci, ora sappiamo perché.”

Così Grandet non aveva alcun obbligo verso i des Grassins.

Cfr. Plutarco, Alcibiade, IX, dove si narra che Alcibiade tagliò la coda a un suo magnifico cane, per renderne ancora più duraturo il ricordo.

Jeremy Bentham (1748-1832), filosofo inglese, il quale nella Difesa dell’usura (1787) chiede l’abolizione delle leggi che fissano il tasso di interesse lecito.

Calco di un verso di Racine: “Mais sans argent l’honneur n’est qu’une maladie” (ma senza soldi l’onore è solo una malattia), Les Plaideurs, I, 1, v. 11, monologo di Petit Jean.

In francese “bâtons flottants”, modo di dire con cui si allude a cose insignificanti, allusione anche a La Fontaine, Le Chameau et les bâtons flottants (Il dromedario e i bastoni galleggianti), cfr. Favole, libro IV, favola X.

L’espressione latina in partibus infidelium si riferiva ai paesi occupati dagli infedeli.

Sottinteso tremila libbre, vale a dire millecinquecento chili circa.

Milleottocento libbre corrisponde a circa novecento chili.

Ossia prima dell’apertura delle banche.

Guadagno che si realizza con la differenza tra il valore nominale e il valore reale di una moneta.

10 In realtà sarebbero quasi quattro milioni.

11 Riferimento al ritornello del Salmo 94 Venite, adoremus Dominum (Venite, cantiamo al Signore).

12 Personaggio della Comédie humaine, la cui ascesa sociale è raccontata in Les Employés(1838).

13 Jeanne Campan (1752-1822) fu segretaria di Maria Antonietta e poi direttrice, durante l’Impero, di una Pensione per giovani e nobili fanciulle.

14 Jean-Paul Marat (1743-1793): il 21 settembre 1794 il suo corpo fu trasferito al Panthéon, ma durante il Termidoro, nel 1795, le sue ceneri furono trasportate al cimitero Sainte-Geneviève e il suo busto dileggiato per le strade di Parigi prima di essere gettato in una condotta fognaria in Rue Montmartre.

15 Lo stesso Balzac ebbe un cavallo con il medesimo nome che fu costretto a vendere per saldare alcuni suoi debiti, cfr. la lettera di Balzac alla madre del 15 luglio 1832, Balzac, Correspondance, Gallimard, Paris 2006, vol. I, p. 582.

16 Emblema araldico usato da Francesco I.

17 Giovanni V (1689-1750) fu re del Portogallo dal 1706 alla morte.

18 Filippo V di Borbone (1683-1746) fu re di Spagna dal 1700 alla morte.

19 In realtà Eugénie è già inginocchiata.

20 Aimé-Zoé Brisseau-Mirbel (1796-1849), pittrice all’epoca molto di moda. Nella lettera del 1° dicembre 1833 a madame Hanska Balzac nota una certa somiglianza tra la nobildonna polacca e la pittrice. (Cfr. Balzac, Lettres à Madame Hariska, Laffont, Paris 1190, vol. I, p. 103.)

21 Adattamento di una popolare canzone francese del Settecento di Jean-Joseph Vadé (1719-1757), nella versione originaria si leggeva “un innamorato” al posto di “Buon papà”. (Cfr. Le Chansonnier français ou recueil de chansons, ariettes, vaudevaille et autre couplets choisis, vol. VI, 1760.)

22 È un verso del re di Prussia Federico II a proposito del re di Polonia Augusto III (1696-1763), citato anche da Voltaire nella sua Epître à l’Impératrice de Russie Catherine II (1771, v. 57).

23 Auguste Lafontaine (1758-1831), romanziere tedesco di origini ugonotte le cui opere furono tradotte in francese riscuotendo un notevole successo.

24 Nel Faust (1773-1831) di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) Margherita è l’amante che si offre a Faust.

25 In francese “croix à la Jeannette” era una croce portata al collo con un cortissimo nastro di velluto, dapprima molto diffusa tra le contadine (les Jeannettes appunto), divenne poi una collana alla moda.

26 Personaggio della Comédie humaine; la carriera politica del banchiere Keller è descritta in Le député d’Arcis di cui la prima parte uscì nel 1847, il seguito venne scritto da Charles Rabou e pubblicato nel 1853.

27 Florine o Sophie Grignoult è un personnaggio della Comédie humaine la cui storia è narrata in Les illusions perdues (1843).

28 Il Teatro du Gymnase fu fondato nel 1820; dal 1824 al 1830 venne chiamato il Teatro di Madame in onore di Maria Carolina, duchessa di Berry (1798-1870).

Capitolo 5 
Dispiaceri di famiglia

In ogni circostanza, le donne hanno motivi maggiori di dolore di quanti ne abbia l’uomo, e soffrono più di lui. L’uomo ha la sua forza, l’esercizio della sua potenza: agisce, va, si occupa, pensa, abbraccia l’avvenire e vi trova delle consolazioni. Così faceva Charles. Ma la donna rimane, resta di fronte al dolore dal quale nulla la distoglie, scende sino in fondo all’abisso che ha aperto, lo misura e spesso lo riempie con le sue preghiere e le sue lacrime. Così faceva Eugénie. Si iniziava al suo destino. Sentire, amare, soffrire, essere devota, questa sarà sempre la trama della vita delle donne. Eugénie doveva essere in tutto donna, senza colui che la consola. La sua felicità, raccolta come i chiodi sparsi per il muro, secondo la sublime espressione di Bossuet,1 un giorno non le avrebbe riempito l’incavo della mano. I dispiaceri non si fanno mai attendere e per lei arrivarono presto. Il giorno dopo la partenza di Charles, la casa Grandet riprese la sua fisionomia per tutti quanti, eccetto che per Eugénie, che la trovò di colpo alquanto vuota. All’insaputa di suo padre, volle che la camera di Charles restasse nello stato in cui l’aveva lasciata. Madame Grandet e Nanon furono volentieri complici di questo status quo.

“Chi sa che non torni prima di quanto noi crediamo?” disse.

“Ah! Vorrei vederlo qui,” rispose Nanon. “Mi stavo abituando bene a lui! Era proprio un dolce e perfetto signore, decisamente bello, riccioluto come una donna.” Eugénie guardò Nanon.

“Santa Vergine, signorina, avete negli occhi la perdizione della vostra anima! Non guardate le persone così.”

Da quel giorno la bellezza di mademoiselle Grandet prese una nuova caratteristica. I gravi pensieri amorosi dai quali la sua anima veniva lentamente invasa, la dignità della donna amata, diedero ai suoi lineamenti una sorta di splendore che i pittori raffigurano tramite l’aureola. Prima dell’arrivo di suo cugino, Eugénie poteva essere paragonata alla Vergine prima della concezione; quando partì assomigliava alla Vergine madre: aveva concepito l’amore. Queste due Marie, così differenti e così ben rappresentate da alcuni pittori spagnoli, costituiscono una delle più brillanti figure che abbondano nel cristianesimo. Tornando dalla messa, dove andò l’indomani della partenza di Charles, e dove aveva fatto voto di recarsi tutti i giorni, prese, presso il libraio della città, un mappamondo che inchiodò vicino al suo specchio, per poter seguire suo cugino nel suo viaggio verso le Indie, al fine di mettersi un momento, alla sera e alla mattina, nel vascello che lo trasportava, per vederlo e per rivolgergli mille domande, e dirgli: “Stai bene? Non soffri? Pensi a me, vedendo questa stella di cui mi hai insegnato a conoscere le bellezze e l’uso?”. Poi la mattina restava pensosa sotto il noce, seduta sulla panca di legno tarlato e rivestito di un muschio grigiastro, dove si erano detti tante belle cose, delle sciocchezze, dove avevano costruito i fantasiosi castelli della loro dolce unione. Pensava all’avvenire guardando il cielo attraverso il piccolo spazio che i muri le permettevano di abbracciare, poi il vecchio tratto di muraglia, e il tetto sotto il quale si trovava la camera di Charles. Infine fu l’amore solitario, quello che persiste, che si insinua in tutti i pensieri, e diventa la sostanza o, come avrebbero detto i nostri padri, la stoffa della vita. Quando i sedicenti amici di père Grandet venivano a giocare la partita della sera, era allegra e dissimulava; ma durante tutta la mattinata, parlava di Charles con sua madre e con Nanon. Nanon aveva capito che poteva compatire le sofferenze della giovane padrona, senza mancare ai doveri verso il suo vecchio padrone, e diceva a Eugénie: “Se avessi avuto un uomo per me, l’avrei… seguito all’inferno. L’avrei… be’, insomma, avrei voluto annientarmi per lui; ma… niente. Morirò senza sapere che cosa è la vita. Ci credete, mademoiselle, che il vecchio Cornoiller, che è un buon uomo tutto sommato, ronza intorno alla mia gonna, per via delle mie rendite, proprio come quelli che vengono qui per annusare il gruzzolo di monsieur, facendovi la corte? Me ne accorgo, perché sono ancora di mente sottile, benché sia grossa come una torre. Ebbene! Signorina, mi fa piacere, benché non si tratti di amore”.

Passarono due mesi così. Quella vita domestica, un tempo così monotona, si era animata per l’immenso segreto che legava più intimamente le tre donne. Per loro, sotto le travi grigiastre del salone, Charles viveva, andava e veniva ancora. Sera e mattina Eugénie apriva il nécessaire e contemplava il ritratto di sua zia. Una domenica mattina fu colta di sorpresa dalla madre nel momento in cui era impegnata a trovare i lineamenti di Charles in quelli del ritratto. Madame Grandet venne allora iniziata al terribile scambio fatto dal viaggiatore contro il tesoro di Eugénie.

“Gli hai dato tutto!” disse la madre terrorizzata. “Cosa dirai dunque a tuo padre, il primo giorno dell’anno, quando vorrà vedere il tuo oro?”

Gli occhi di Eugénie divennero fissi, e le due donne rimasero in un terrore mortale per metà della mattinata. Furono abbastanza scosse da mancare alla messa alta, e si recarono solo alla messa bassa. Di lì a tre giorni sarebbe finito il 1819. Dopo tre giorni doveva iniziare una scena terribile, una tragedia borghese senza veleno, né pugnale, né effusione di sangue; ma, quanto agli attori, più crudele di tutti i drammi svoltisi nella illustre famiglia degli Atridi.

“Che cosa sarà di noi?” disse madame Grandet a sua figlia lasciando il suo lavoro di maglia sulle ginocchia. La povera madre subiva tanti turbamenti da due mesi a questa parte che i manicotti di lana di cui aveva bisogno per il suo inverno non erano ancora finiti. Questo fatto domestico, minimo in apparenza, ebbe tristi conseguenze per lei. In mancanza dei manicotti, il freddo la afferrò in maniera fastidiosa in mezzo a un sudore causato da una spaventosa collera del marito.

“Pensavo, mia povera bambina, che se mi avessi confidato il tuo segreto, noi avremmo avuto tempo di scrivere a Parigi a monsieur des Grassins. Ci avrebbe potuto inviare delle monete d’oro simili alle tue; e benché Grandet le conosca bene, forse…”

“Ma dove dunque avremmo potuto prendere così tanto denaro?”

“Avrei impegnato le mie. Del resto monsieur des Grassins avrebbe ben potuto…”

“Non c’è più tempo,” rispose Eugénie con una voce sorda e alterata interrompendo sua madre. “Domani mattina dobbiamo andare ad augurargli buon anno nella sua camera?”

“Ma, figlia mia, perché non potrei andare dunque a vedere i Cruchot?”

“No, no, significherebbe consegnarmi a loro e metterci in loro balìa. Del resto ho preso la mia decisione. Ho fatto bene, non mi pento di nulla. Dio mi proteggerà. Ah! Se aveste letto la sua lettera, avreste pensato solo a lui, madre mia.”

L’indomani mattina, primo gennaio 1820, il terrore evidente a cui erano in preda la madre e la figlia suggerì loro la più naturale delle scuse, per non andare solennemente nella camera di Grandet. L’inverno tra il 1819 e il 1820 fu uno dei più rigidi dell’epoca. La neve ingombrava ancora i tetti.

Madame Grandet disse a suo marito non appena lo sentì rumoreggiare nella camera: “Grandet, fai dunque accendere da Nanon un po’ di fuoco da me; il freddo è così pungente che gelo sotto la mia coperta. Sono arrivata a un’età in cui ho bisogno di riguardi. Del resto,” proseguì dopo una piccola pausa, “Eugénie verrà a vestirsi qui. Questa povera ragazza potrebbe contrarre una malattia nel fare la toeletta nella sua camera con un tempo simile. Poi andremo ad augurarti buon anno vicino al fuoco nel salone”.

“Ta, ta, ta, ta, che lingua! Come inizi l’anno madame Grandet? Non hai mai parlato così tanto. Tuttavia non credo che tu abbia mangiato del pane bagnato nel vino.” Ci fu un momento di silenzio. “Ebbene!” continuò il brav’uomo, al quale senza dubbio la proposta di sua moglie andava bene. “Farò ciò che volete, madame Grandet. Sei davvero una buona moglie, e non voglio che tu prenda un malanno alla tua età, benché in generale i La Bertellière siano fatti di cemento. Eh! Non è vero?” gridò dopo una pausa. “Alla fine abbiamo ereditato, glielo perdono.” E tossì.

“Siete allegro questa mattina, signore,” disse gravemente la povera donna.

“Sempre allegro, io…

“Allegro, allegro, allegro, bottaio

Riparate la vostra botte!”2

aggiunse entrando da sua moglie tutto vestito. “Sì, perbaccolina, fa veramente freddo nonostante tutto. Faremo una buona colazione, moglie mia. Des Grassins mi ha spedito un paté di fegato d’oca al tartufo! Vado a prenderlo alla diligenza. Deve aver aggiunto un napoleone doppio per Eugénie,” gli venne a dire il bottaio all’orecchio. “Non ho più oro, moglie mia. Avevo ancora qualche vecchia moneta, a te posso dirlo, ma ho dovuto farne a meno per gli affari.” E per celebrare il primo giorno dell’anno, la baciò sulla fronte.

“Eugénie,” gridò la buona madre, “non so su che lato tuo padre ha dormito; ma questa mattina è di buon umore. Bah! Ce la caveremo.”

“Che cosa ha dunque il nostro padrone?” disse Nanon entrando dalla sua padrona per accendere il fuoco. “Prima mi ha detto: ‘Buongiorno, buon anno, bestiona! Va’ ad accendere il fuoco da mia moglie, ha freddo’. Sono rimasta istupidita quando l’ho visto allungare la mano per darmi uno scudo di sei franchi che non è quasi scalfito per niente! Tenete signora, guardatelo dunque! Oh! Il brav’uomo. In ogni caso è un uomo degno. Ce ne sono che, tanto più diventano vecchi, quanto più si induriscono; ma lui diventa dolce come il vostro cassis, e si rabbonisce. È proprio un uomo perfetto e buono…”

Il segreto di questa gioia stava nella riuscita completa della speculazione di Grandet. Monsieur des Grassins dopo aver dedotto le somme che il bottaio gli doveva per lo sconto dei centocinquantamila franchi di cambiali olandesi, e per l’eccedenza che gli era avanzata per completare la somma necessaria per l’acquisto delle centomila lire di rendita, gli inviava, tramite la diligenza, trentamila franchi in scudi, che restavano sul semestre dei suoi interessi, e gli aveva annunciato il rialzo dei titoli pubblici. Stavano allora a 89, i più celebri capitalisti ne compravano, a fine gennaio, a 92. Grandet guadagnava da due mesi il 12 per cento sui suoi capitali, aveva sistemato i propri conti, e avrebbe ormai ricevuto cinquantamila franchi ogni sei mesi senza dover pagare né le imposte né risarcimenti. Insomma, aveva capito che cos’era la rendita, investimento per il quale le persone di provincia manifestano una ripugnanza invincibile, e si vedeva, dopo cinque anni, padrone di un capitale di sei milioni incrementatosi senza grandi cure, e che, unito al valore territoriale delle sue proprietà, avrebbe composto una fortuna colossale. I sei franchi dati a Nanon erano forse la ricompensa di un immenso servizio che la serva aveva reso inconsapevolmente al suo padrone.

“Oh! Oh! Dove va dunque il père Grandet, che corre sin dalla mattina come se fosse scoppiato un incendio?” si chiesero i mercanti nell’aprire le loro botteghe. Poi, quando lo videro tornare dalla banchina seguito da un fattorino delle Messageries che trasportava sacchi pieni in una carriola, l’uno diceva: “L’acqua va sempre nel fiume, il brav’uomo andava verso i suoi scudi”. “Gliene vengono da Parigi, da Froidfond, dall’Olanda!” diceva un altro. “Finirà per comprare Saumur,” esclamava un terzo. “Se ne infischia del freddo, è sempre dietro i suoi affari,” diceva una moglie al marito. “Eh! Eh! Monsieur Grandet, se questo vi impiccia,” gli disse un venditore di panni, il suo vicino più prossimo, “ve ne sbarazzerei.”

“Toh, guarda! Sono soldi,” rispose il vignaiolo.

“D’argento,” disse il fattorino a bassa voce.

“Se vuoi la ricompensa tieni a freno la tua linguaccia,” disse il brav’uomo al fattorino aprendo la sua porta.

“Ah! La vecchia volpe, lo credevo sordo,” pensò il fattorino, “sembra che quando fa freddo ci senta.”

“Ecco venti soldi come strenna, e zitto! Fila!” disse Grandet. “Nanon ti riporterà la carriola. Nanon, le spensierate sono a messa?”

“Sì, signore.”

“Suvvia, rimboccarsi le maniche! Al lavoro,” gridò caricandola di sacchi. In un momento gli scudi furono trasportati nella sua camera dove si rinchiuse. “Quando sarà pronta la colazione, busserai al muro. Riporta la carriola alle Messageries.”

La famiglia fece colazione solo alle dieci.

“Qui tuo padre non ti chiederà di vedere il tuo oro,” disse madame Grandet a sua figlia tornando dalla messa. “Del resto farai la freddolosa. Poi avremo il tempo di ricostituire il tuo tesoro per il giorno del tuo compleanno…”

Grandet scese le scale pensando di trasformare prontamente i suoi scudi parigini in oro di buona qualità e alla sua mirabile speculazione sulle rendite di stato. Era deciso a piazzare così i suoi proventi sino a che la rendita non raggiungesse il tasso di cento franchi. Meditazione funesta per Eugénie. Non appena entrò, le due donne gli augurarono buon anno, sua figlia saltandogli al collo e coccolandolo, madame Grandet con gravità e dignità.

“Ah! Ah! Bambina mia,” disse baciando sua figlia sulle guance, “lavoro per te, lo vedi? Voglio la tua felicità. Bisogna aver del denaro per essere felici. Senza soldi, stai fresca. Tieni, ecco un napoleone tutto nuovo, l’ho fatto arrivare da Parigi. Perbaccolina, non c’è un grano d’oro qui. Ci sei solo tu che hai dell’oro. Mostrami il tuo oro, figlietta.”

“Bah! Fa troppo freddo; facciamo colazione,” gli rispose Eugénie.

“Ebbene! Dopo, eh? Ci aiuterà tutti a digerire. Il grosso des Grassins ci ha inviato questo in ogni caso,” proseguì. “Mangiate, bambine mie, non ci costa nulla. Sta bene des Grassins, sono contento di lui, il merluzzone si rende utile a Charles, e anche gratuitamente. Sistema molto bene gli affari del povero defunto Grandet. Oooh! Oooh,” fece, con la bocca piena, dopo una pausa, “è buono! Mangiane dunque, moglie mia! Nutre almeno per due giorni.”

“Non ho fame, mi sento tutta debole, lo sai bene.”

“Ah! Già! Puoi abbuffarti senza timore di far esplodere il tuo stomaco; tu sei una La Bertellière, una donna solida. Sei un pochino giallastra, ma mi piace il giallo.”

L’attesa di una morte ignominiosa e pubblica è meno orribile forse per un condannato di quanto lo fosse per madame Grandet e per sua figlia l’attesa degli eventi che dovevano concludere questa colazione in famiglia. Tanto più gaiamente parlava e mangiava il vecchio vignaiolo, tanto più il cuore delle due donne si stringeva. La figlia tuttavia aveva un sostegno in questa congiuntura: traeva la forza dal suo amore.

“Per lui, per lui,” si diceva, “soffrirò mille morti.”

A questo pensiero lanciava a sua madre degli sguardi fiammanti di coraggio.

“Togli tutto questo,” disse Grandet a Nanon, quando verso le undici la colazione fu terminata, “ma lasciaci la tavola, saremo più comodi per vedere il tuo piccolo tesoro,” disse guardando Eugénie. “Piccolo, in fede mia, no. Possiedi 5959 franchi, e quaranta di questa mattina, ciò fa seimila franchi meno uno. Ebbene te lo darò io questo franco per completare la somma perché, vedi tu, figlietta… Ebbene, perché stai ad ascoltare? Mostrami i tuoi talloni. Nanon, vai a fare il tuo lavoro,” disse il brav’uomo. Nanon scomparve.

“Ascolta Eugénie, bisogna che tu mi dia il tuo oro. Non lo rifiuterai al tuo paparino, mia piccola figlietta, eh?” Le due donne erano ammutolite.

“Non ho più oro, io. Ne avevo, ora non ne ho più. Ti restituirò seimila franchi in lire, e li investirai come ti dirò. Non bisogna più pensare al dozzeno. Quando ti sposerò, cosa che avverrà presto, ti troverò un fidanzato che potrà offrirti il più bel dozzeno di cui mai si sarà parlato in provincia. Ascolta dunque, figlietta. Si presenta una bella occasione: tu puoi investire i tuoi seimila franchi nel governo e riceverai ogni sei mesi quasi duecento franchi di interesse, senza imposte, né risarcimenti, né grandine, né gelate, né maree, né nulla di tutto quello che tormenta le rendite. Ti ripugna separarti dal tuo oro, eh, figlietta? Portamelo comunque. Raccoglierò delle monete d’oro, delle olandesi, delle portoghesi, delle rupie del Moghul, delle genovine, e con quelle che ti darò alle tue feste, in tre anni avrai ricostituito metà del tuo carino e piccolo tesoro in oro. Cosa ne dici, figlietta? Alza dunque il naso. Suvvia, vallo a prendere, carina. Dovresti baciarmi sugli occhi per svelarti così dei misteri e dei segreti di vita e di morte degli scudi. Veramente gli scudi vivono e formicolano come degli uomini: vanno e vengono, sudano, producono.”

Eugénie si alzò, ma, dopo aver fatto alcuni passi verso la porta, si voltò bruscamente, guardò suo padre in faccia e gli disse: “Non ho più il mio oro”.

“Non hai più il tuo oro!” gridò Grandet rizzandosi sui suoi garretti come un cavallo che sente sparare il cannone a dieci passi di distanza.

“No, non ce l’ho più.”

“Ti sbagli, Eugénie.”

“No.”

“Per la roncola di mio padre!”

Quando il bottaio imprecava così, le travi tremavano.

“Santo Dio buono! Ecco madame impallidire,” gridò Nanon.

“Grandet, la tua collera mi farà morire,” disse la povera donna.

“Ta, ta, ta, ta! Voi altre non morite mai nella vostra famiglia! Eugénie, che cosa avete fatto delle vostre monete?” gridò avventandosi su di lei.

“Signore,” disse la figlia in ginocchio vicino a madame Grandet, “mia madre soffre molto. Suvvia, non la uccidete.”

Grandet rimase terrorizzato dal diffuso pallore sul colorito di sua moglie, prima così giallo.

“Nanon, venite ad aiutarmi ad andare a letto,” disse la madre con voce flebile. “Muoio.”

Subito Nanon porse il braccio alla sua padrona, lo stesso fece Eugénie, e non fu senza infinite pene che poterono salire da lei, poiché aveva dei mancamenti a ogni gradino. Grandet rimase solo. Tuttavia, qualche momento dopo, salì sette-otto scalini e gridò: “Eugénie, quando vostra madre sarà a letto scenderete”.

“Sì, padre mio.”

Non tardò a scendere dopo aver rassicurato sua madre.

“Figlia mia,” disse Grandet, “ora mi direte dove è il vostro tesoro.”

“Padre mio, se mi fate dei regali di cui non sono completamente padrona, riprendeteli,” rispose freddamente Eugénie cercando il napoleone sul camino e mostrandoglielo.

Grandet afferrò vivacemente il napoleone e lo fece scivolare nel suo borsellino.

“Io credo che non ti darò più niente. Nemmeno questo!” disse facendo schioccare l’unghia del suo pollice contro i denti davanti. “Voi disprezzate vostro padre, voi non avete fiducia in lui, voi non sapete che cosa è un padre. Se non è tutto per voi, non è niente. Dov’è il vostro oro?”

“Padre mio, vi amo e vi rispetto, nonostante la vostra collera; ma vi farei molto umilmente notare, che ho ventidue anni. Voi mi avete detto abbastanza spesso che sono maggiorenne, per quanto io ne sappia. Ho fatto del mio denaro ciò che mi è piaciuto farne, e siate sicuro che è ben piazzato…”

“Dove?”

“È un segreto inviolabile,” disse. “Non avete anche voi i vostri segreti?”

“Non sono il capo della mia famiglia, non posso avere i miei affari?”

“Questo è un mio affare.”

“Questo affare deve essere pessimo, se non potete dirlo a vostro padre, signorina Grandet.”

“È eccellente, e non posso dirlo a mio padre.”

“Almeno ditemi, quando avete dato il vostro oro?” Eugénie fece un segno negativo con la testa. “Voi l’avevate ancora il giorno del compleanno, eh?” Eugénie, divenuta tanto astuta per amore quanto suo padre per l’avarizia, ripeté lo stesso gesto con la testa.

“Ma non si è mai vista una simile cocciutaggine, né un furto simile,” disse Grandet con una voce che andava in crescendo e che fece gradualmente rimbombare la casa.

“Come! Proprio a casa mia, qui da me, qualcuno avrà preso il tuo oro? L’unico oro che c’era? L’oro è una cosa cara. Le più oneste fanciulle possono commettere degli errori, dare non so che cosa, ciò si vede presso i grandi signori e anche presso i borghesi, ma dare dell’oro, poiché lo avete dato a qualcuno, eh?” Eugénie rimase impassibile. “Si è mai vista una figlia del genere? E io sono vostro padre? Se l’avete investito dovete avere una ricevuta…”

“Ero libera, sì o no, di farne ciò che mi sembrava giusto? Era mio?”

“Ma sei una bambina.”

“Maggiorenne.”

Frastornato dalla logica di sua figlia Grandet impallidì, scalpitò, giurò; poi, trovando infine delle parole, gridò: “Maledetta serpe di una figlia! Ah! Gramigna, lo sai bene che ti amo, e tu ne abusi. Sgozza suo padre! Perdio, tu avresti gettato la nostra fortuna ai piedi di quello spiantato che ha degli stivali in cuoio. Per la roncola di mio padre, non posso diseredarti, corpo di un barile! Ma io ti maledico, tu, tuo cugino, e i tuoi figli. Tu non vedrai arrivare nulla di buono da tutto ciò, mi senti? Se fosse a Charles, che… Ma, non è possibile. Cosa! Questo malvagio damerino mi avrebbe svaligiato…”.

Guardò sua figlia che restò muta e fredda.

“Non si muoverà, non aggrotterà le sopracciglia. È più Grandet di quanto io stesso sia Grandet. Non hai dato il tuo oro per niente, almeno. Suvvia, dimmi!” Eugénie guardò suo padre lanciandogli uno sguardo ironico che lo offese. “Eugénie, voi siete a casa mia, da vostro padre. Voi dovete, per restarvi, sottomettervi ai suoi ordini. I preti vi ordinano di obbedirmi. Mi offendete in quello che mi è più caro,” proseguì, “voglio vedervi solo sottomessa. Andate nella vostra camera. Voi ci resterete sino a quando vi permetterò di uscirne. Nanon ti porterà del pane e dell’acqua. Mi avete sentito, filate!”

Eugénie scoppiò in lacrime e si rifugiò da sua madre. Dopo aver fatto un certo numero di volte il giro del suo giardino nella neve, senza avvertire il freddo, Grandet ebbe il dubbio che sua figlia fosse da sua moglie; e sedotto dall’idea di coglierla che contravveniva ai suoi ordini, si arrampicò per le scale con l’agilità di un gatto, e apparve nella camera di madame Grandet nel momento in cui accarezzava i capelli di Eugénie, il cui volto era sprofondato nel seno materno.

“Consolati, mia povera bambina, tuo padre si calmerà.”

“Non ha più un padre,” disse il bottaio. “Siamo noi due, madame Grandet, ad aver fatto una figlia disobbediente come questa? Bella educazione, e religiosa soprattutto. Ebbene? Non siete nella vostra camera. In prigione, in prigione, signorina.”

“Volete privarmi di mia figlia, signore?” disse madame Grandet mostrando un volto arrossato dalla febbre.

“Se volete tenerla, portatela via, liberate tutte e due la casa. Fulmini, dov’è l’oro, cosa è divenuto l’oro?”

Eugénie si alzò, lanciò uno sguardo orgoglioso a suo padre ed entrò nella camera alla quale il brav’uomo diede un giro di chiave.

“Nanon,” gridò, “spegni il fuoco del salone.” E venne a sedersi su una poltrona all’angolo del camino di sua moglie, dicendole: “Lo ha dato senza dubbio a quel miserabile seduttore di Charles che voleva soltanto i nostri soldi”.

Madame Grandet trovò, nel pericolo che minacciava sua figlia e nel suo affetto per lei, forza sufficiente per restare apparentemente fredda, muta e sorda.

“Non sapevo niente di tutto questo,” rispose volgendosi verso la parte tra il letto e il muro per non subire gli sguardi scintillanti del marito. “Io soffro così tanto della vostra violenza, che se credo ai miei presentimenti, uscirò di qui solo con i piedi in avanti. Voi avreste dovuto risparmiarmi in questo momento, signore, io che non vi mai causato un dispiacere, o quantomeno lo penso. Vostra figlia vi ama, io la credo innocente quanto un bambino appena nato; dunque non datele una punizione; revocate il vostro provvedimento, il freddo è proprio pungente, voi potreste essere la causa di qualche grave malattia.”

“Non la vedrò, né le parlerò. Resterà nella sua camera a pane e acqua sino a quando non avrà soddisfatto suo padre. Che diavolo, un capo di famiglia deve sapere dove va l’oro della sua casa. Possedeva le uniche rupie che forse esistevano in Francia, poi delle genovine, dei ducati di Olanda.”

“Signore, Eugénie è la nostra unica figlia e anche se le avesse buttate in acqua…”

“In acqua?” gridò il brav’uomo. “In acqua! Voi siete pazza, madame Grandet. Ciò che ho detto è detto, lo sapete. Se voi volete avere la pace in casa, fate confessare vostra figlia, fatele vuotare il sacco, le donne si capiscono meglio tra di loro che con noi altri. Qualsiasi cosa abbia potuto fare, non la mangerò. Ha paura di me? Anche se avesse coperto d’oro suo cugino dalla testa ai piedi, è in mare aperto, eh! Non possiamo corrergli appresso…”

“Ebbene, signore?” Eccitata dalla crisi nervosa in cui si trovava, o per la sventura di sua figlia che aumentava la sua tenerezza e la sua intelligenza, la perspicacia di madame Grandet le fece cogliere un movimento terribile nella verruca di suo marito, nel momento in cui rispondeva; cambiò idea senza cambiare tono. “Ebbene! Signore, ho io più potere su di lei di quanto ne avete voi? Non mi ha detto niente, ha preso da voi.”

“Vivaddio! Come avete la lingua lunga questa mattina! Ta, ta, ta, ta! Voi vi fate le beffe di me, credo. Forse siete d’accordo con lei.”

Guardò sua moglie fissamente.

“In verità, monsieur Grandet, se volete uccidermi, non avete che da continuare a fare così. Ve lo dico, signore, e, dovesse costarmi la vita, ve lo ripeterò ancora: avete torto nei confronti di vostra figlia, è più ragionevole lei di quanto lo siate voi. Quei soldi le appartenevano, ne avrà fatto un buon uso, e solo Dio ha il diritto di conoscere le nostre buone azioni. Signore, vi supplico, rendete i vostri favori a Eugénie!… Attenuerete così l’effetto del colpo che mi ha causato la vostra collera, e forse mi salverete la vita. Mia figlia, signore, restituitemi mia figlia.”

“Me ne vado,” disse lui. “La mia casa è insostenibile, la madre e la figlia ragionano e parlano come se… Brrrr, Puah! Mi avete regalato delle crudeli strenne. Eugénie,” gridò. “Sì, sì, piangete! Ciò che fate vi causerà dei rimorsi, mi sentite? A cosa vi serve dunque mangiare il buon Dio, sei volte tutti i tre mesi, se date l’oro di vostro padre di nascosto a un fannullone che vi divorerà il cuore, quando avrete solo quello da prestargli? Voi vedrete che cosa vale il vostro Charles, con i suoi stivali di cuoio e la sua aria noncurante. Non ha né cuore, né anima, poiché osa portarsi via il tesoro di una povera fanciulla senza l’assenso dei genitori.”

Quando la porta che dava sulla strada fu chiusa, Eugénie uscì dalla sua camera e venne vicino a sua madre.

“Avete molto coraggio per vostra figlia,” le disse.

“Vedi, bambina mia, a cosa portano le cose illecite?… Mi hai fatto dire una bugia.”

“Oh! Chiederò a Dio di punire me sola.”

“È vero,” disse Nanon arrivando sgomenta, “che ora la signorina deve stare a pane e acqua per il resto dei suoi giorni?”

“E che cosa importa, Nanon?” disse tranquillamente Eugénie.

“Ah! Non mangerò il companatico quando la figlia del padrone mangia del pane secco. No, no.”

“Non una parola di tutto questo, Nanon,” disse Eugénie.

“Forse avrò la gola secca, ma vedrete.”

Per la prima volta dopo ventiquattro anni Grandet mangiò da solo.

“Eccovi dunque vedovo, signore,” gli disse Nanon. “È proprio sgradevole essere vedovo con due donne in casa.”

“Non parlo con te. Tieni a freno la tua linguaccia o ti caccio. Che cosa c’è nella casseruola che sento ribollire sul fornello?”

“Sto fondendo del grasso…”

“Verrà gente questa sera, accendi il fuoco.”

I Cruchot, madame des Grassins e suo figlio arrivarono alle otto, e si stupirono di non vedere né madame Grandet né sua figlia.

“Mia moglie è un po’ indisposta. Eugénie le sta vicino,” rispose l’anziano vignaiolo il cui volto non tradiva alcuna emozione.

Dopo un’ora impiegata in conversazioni insignificanti, madame des Grassins, che era salita per fare una visita a madame Grandet, scese, e tutti le chiesero: “Come sta madame Grandet?”.

“Ma non sta per niente bene, per niente,” disse. “Le sue condizioni di salute mi sembrano veramente preoccupanti. Alla sua età bisogna prendere le più grandi precauzioni, père Grandet.”

“Questo lo vedremo,” rispose il vignaiolo con un’aria distratta.

Ognuno gli augurò buonasera. Quando i Cruchot furono in strada, madame des Grassins disse loro: “C’è qualcosa di nuovo dai Grandet. La madre sta molto male senza che lei ne sia consapevole. La figlia ha gli occhi rossi, come qualcuno che ha pianto tanto. Che la vogliano sposare contro la sua volontà?”.

Quando il vignaiolo fu a letto, Nanon venne con le pantofole e a passi felpati da Eugénie, e le mostrò un paté fatto in casseruola.

“Tenete, signorina,” disse la brava donna. “Cornoiller mi ha dato una lepre. Mangiate così poco, che questo paté vi durerà otto giorni; e grazie alla gelatina non andrà a male. Almeno non rimarrete solo con il pane secco. Cosa che non è affatto sana.”

“Povera Nanon,” disse Eugénie stringendole la mano.

“L’ho fatto molto buono e delicato, e luinon si è accorto di nulla. Ho preso il lardo, l’alloro, tutto con i miei sei franchi; ne sono ben la padrona,” poi la serva fuggì, credendo di aver sentito Grandet.

Per alcuni mesi, il vignaiolo andò a trovare costantemente sua moglie in ore differenti della giornata, senza pronunciare il nome di sua figlia, senza vederla, senza fare la minima allusione a lei. Madame Grandet non lasciò la stanza e di giorno in giorno la sua salute peggiorava. Nulla fece piegare l’ex bottaio. Restava irremovibile, aspro e freddo come un pilone di granito. Continuò ad andare e venire secondo le sue abitudini; ma non balbettò più, parlò di meno, e negli affari si mostrò più duro di quanto non lo fosse mai stato. Spesso gli sfuggiva qualche errore nelle sue cifre. “È successo qualcosa dai Grandet,” dicevano i partigiani dei Cruchot e quelli dei des Grassins.

“Che cosa è accaduto dai Grandet?” fu la domanda usuale che generalmente ci si poneva in tutte le serate a Saumur. Eugénie andava a messa scortata da Nanon. All’uscita della chiesa, se madame des Grassins le rivolgeva qualche parola, lei rispondeva in maniera evasiva e senza soddisfare la sua curiosità. Nondimeno divenne impossibile, dopo due mesi, nascondere sia ai tre Cruchot, sia a madame des Grassins, il motivo segreto della reclusione di Eugénie. Ci fu un momento in cui i pretesti mancarono per giustificare la sua perpetua assenza. Poi, senza che fosse possibile sapere da chi era stato tradito il segreto, tutta la città apprese che dal primo giorno dell’anno la signorina Grandet, per ordine del padre, era rinchiusa nella sua camera, a pane e acqua e senza fuoco; che Nanon le preparava dei manicaretti e che glieli portava nottetempo; si sapeva anche che la giovane fanciulla non poteva vedere né curare sua madre se non quando il padre non era a casa. Allora il comportamento di Grandet fu giudicato molto severamente. La città intera per così dire lo mise fuori legge, si ricordò dei suoi tradimenti, delle sue durezze e lo scomunicò. Quando passava tutti lo indicavano bisbigliando. Quando sua figlia scendeva la via tortuosa per recarsi alla messa o ai vespri, accompagnata da Nanon, tutti gli abitanti si mettevano alla finestra per esaminare con curiosità il comportamento della ricca ereditiera e il suo volto, in cui erano dipinte una malinconia e una dolcezza angeliche. La sua reclusione, la disgrazia di suo padre, non erano niente per lei. Non vedeva forse il mappamondo, la piccola panca, il giardino, il tratto di muro, e non risentiva sulle sue labbra il miele che avevano lasciato i baci dell’amore? Ignorò per un certo tempo le conversazioni di cui era oggetto in città, così come le ignorava suo padre. Religiosa e pura davanti a Dio, la sua coscienza e l’amore l’aiutavano a sopportare pazientemente la collera e le vendette paterne. Ma un dolore profondo faceva tacere tutti gli altri dolori. Sua madre, dolce e tenera creatura, che si abbelliva del bagliore che mostrava la sua anima avvicinandosi alla tomba, sua madre deperiva giorno dopo giorno. Sovente Eugénie si rimproverava di essere stata la causa innocente della crudele, della lenta malattia che la divorava. Tali rimorsi, benché calmati dalla madre, la legavano ancora più strettamente al suo amore. Tutte le mattine, non appena suo padre era uscito, andava al capezzale della madre, e lì Nanon le portava la sua colazione. Ma la povera Eugénie, triste e sofferente delle sofferenze di sua madre, mostrando il volto a Nanon con un gesto muto, piangeva e non osava parlare del cugino. Madame Grandet, per prima, era costretta a dirle: “Dov’è? Perché non scrive?”.

La madre e la figlia ignoravano completamente le distanze.

“Pensiamo a lui, madre mia,” rispondeva Eugénie, “e non parliamone. Voi soffrite; voi prima di tutto.”

Tutto era lui.

“Mie care,” diceva madame Grandet, “non rimpiango affatto la vita. Dio mi ha protetta e mi fa presagire con gioia il termine delle mie miserie.”

Le parole di questa donna erano costantemente sante e cristiane. Quando, al momento della colazione da lei, suo marito veniva a passeggiare nella sua stanza, gli disse, durante i primi mesi dell’anno, gli stessi discorsi ripetuti con una dolcezza angelica, ma con la fermezza di una donna a cui la morte prossima dava il coraggio che le era mancato durante tutta la sua vita.

“Signore, vi ringrazio dell’interesse che dimostrate verso la mia salute,” gli rispondeva quando le aveva fatto la più banale di tutte le domande; “ma se volete rendere i miei ultimi momenti meno amari e alleviare il mio dolore, restituite i vostri favori a nostra figlia; mostratevi cristiano, sposo e padre.”

Sentendo queste parole, Grandet si sedeva vicino al letto e agiva come un uomo, che, vedendo arrivare un rovescio, si metteva tranquillamente al riparo sotto una porta cocchiera; ascoltava silenziosamente sua moglie, e non rispondeva nulla. Dopo che gli erano state rivolte le più toccanti, le più tenere, le più religiose suppliche, diceva: “Sei un po’ pallidina oggi, mia povera moglie”. L’oblio più totale di sua figlia sembrava inciso sulla sua fronte di pietra dura, sulle sue labbra serrate. Non veniva nemmeno commosso dalle lacrime che le sue vaghe risposte, le cui parole variavano appena, facevano scorrere lungo il bianco volto di sua moglie.

“Che Dio vi perdoni, signore,” gli diceva, “come vi perdono io stessa. Un giorno avrete bisogno di indulgenza.”

Da quando si era ammalata sua moglie, non aveva più osato servirsi del suo terribile: Ta, ta, ta, ta! Ma il suo dispotismo non veniva disarmato neppure da questo angelo di dolcezza, la cui laidezza scompariva di giorno in giorno, cacciata dall’espressione delle sue qualità morali che fiorivano sul suo volto. Era tutta anima. Il genio della preghiera sembrava purificarla, ammorbidire i lineamenti più grossolani del suo volto, e la faceva risplendere. Chi non ha osservato il fenomeno di questa trasfigurazione su dei santi volti in cui le abitudini dell’anima finiscono per trionfare sui tratti più rozzamente delineati, imprimendo loro la vivacità particolare dovuta alla nobiltà e alla purezza dei pensieri elevati? Lo spettacolo di questa trasformazione, compiuta dalle sofferenze che consumano i brandelli dell’essere umano in questa donna, agiva, benché debolmente, sull’ex bottaio, il cui carattere restava di bronzo. Se la sua parola non fu più disdegnosa, un silenzio imperturbabile, che salvava la sua superiorità di padre di famiglia, dominò il suo comportamento. Quando la fedele Nanon compariva al mercato, subito lazzi e lamentele riguardanti il suo padrone le fischiavano alle orecchie; ma, benché l’opinione pubblica condannasse apertamente père Grandet, la serva lo difendeva per l’orgoglio della casa.

“Ebbene!” diceva ai detrattori del brav’uomo. “Non diveniamo tutti più duri invecchiando? Perché non volete che si indurisca un po’ quest’uomo? Mettete a tacere dunque le vostre falsità. La signorina vive come una regina. È da sola, ebbene! Vuole così. Del resto i miei padroni hanno le loro ragioni.”

Infine una sera, verso la fine della primavera, madame Grandet, divorata dal rammarico, più che dalla malattia, non essendo riuscita, nonostante le sue preghiere, a riconciliare Eugénie e suo padre, confidò le sue pene segrete ai Cruchot.

“Costringere una ragazza di ventitré anni a pane e acqua…?” esclamò il presidente de Bonfons. “E senza motivo; ma qui si tratta di inique sevizie; può protestare contro, sia in sia su…

“Suvvia, nipote mio,” disse il notaio. “Lasciate stare il vostro gergo forense. State tranquilla, signora, farò finire questa reclusione sin da domani.”

Sentendo che si parlava di lei, Eugénie uscì dalla sua camera.

“Signori,” disse avanzando con un movimento pieno di fierezza, “vi prego di non occuparvi di tale affare. Mio padre è padrone in casa sua. Finché abiterò da lui, devo obbedirgli. Il suo comportamento non dovrà essere sottoposto all’approvazione o alla disapprovazione del mondo, ne darà conto solo a Dio. Pretendo dalla vostra amicizia il più profondo silenzio a tal proposito. Biasimare mio padre significherebbe attaccare la nostra reputazione. Vi sono grata, signori, dell’interesse che mi dimostrate; ma vi sarei ancora più riconoscente se faceste cessare le dicerie offensive diffuse in città, e delle quali sono venuta a conoscenza per caso.”

“Ha ragione,” disse madame Grandet.

“Signorina, la maniera migliore di impedire che la gente parli sarebbe quella di restituirvi la libertà,” le rispose rispettosamente il vecchio notaio, colpito dalla bellezza che la reclusione, la malinconia e l’amore avevano impresso a Eugénie.

“Ebbene! Figlia mia, lascia al signor Cruchot l’incombenza di sistemare tale affare, poiché si fa garante del successo. Conosce tuo padre e sa come prenderlo. Se tu vuoi vedermi felice per il poco tempo che mi resta da vivere, bisogna, a ogni costo, che tu e tuo padre vi siate riconciliati.”

L’indomani, seguendo una consuetudine che Grandet aveva preso dalla reclusione di Eugénie, venne a fare un certo numero di giri nel suo piccolo giardino. Il momento scelto per questa passeggiata era quello in cui Eugénie si pettinava. Quando il brav’uomo arrivava al grosso noce, si nascondeva dietro il tronco dell’albero, restava alcuni istanti a contemplare i lunghi capelli di sua figlia e si perdeva senza dubbio tra i pensieri, che gli suggeriva la tenacia del suo carattere, e il desiderio di baciare sua figlia. Spesso rimaneva seduto sulla piccola panca di legno marcio dove Charles ed Eugénie si erano giurati amore eterno, durante questi momenti anche lei guardava suo padre di nascosto o nel suo specchio. Se si alzava e proseguiva la sua passeggiata, lei si sedeva tranquillamente alla finestra e si metteva a esaminare il tratto di muro dove pendevano i fiori più belli, da dove uscivano, attraverso le crepe, dei capelvenere, dei convolvoli e una pianta grassa, gialla o bianca, un sedo molto diffuso nelle vigne a Saumur e a Tours. Il notaio Cruchot venne la mattina presto e trovò l’anziano vignaiolo seduto, in un bel giorno di giugno, sulla piccola panca, con la schiena appoggiata al tramezzo, intento a guardare sua figlia.

“Di che cosa avete bisogno, notaio Cruchot?” disse scorgendo il notaio.

“Vengo per parlarvi di affari.”

“Ah! Ah! Avete un po’ d’oro da darmi in cambio di scudi?”

“No, no, non si tratta di soldi, ma di vostra figlia Eugénie. Tutti parlano di lei e di voi.”

“Di che cosa si impicciano? Il carbonaio è padrone in casa sua.”

“D’accordo, il carbonaio è padrone anche di uccidersi o, cosa che è peggio, di gettare i suoi soldi dalla finestra.”

“Che vuol dire?”

“Eh! Vostra moglie è molto malata, amico mio. Voi dovreste anche consultare monsieur Bergerin, è in pericolo di morte. Se morisse senza essere stata curata come si deve, voi non sareste tranquillo, credo.”

“Ta, ta, ta, ta! Voi sapete che cosa ha mia moglie! Questi dottori, una volta che hanno messo piede da voi, vengono dalle cinque alle sei volte al giorno.”

“Insomma, Grandet, voi farete come meglio vi sembrerà. Siamo due vecchi amici: non c’è, in tutta Saumur, un uomo cui stia più a cuore ciò che vi riguarda: ho dovuto dunque dire questo. Ora, succeda quel che succeda, voi siete adulto, sapete come comportarvi, suvvia. Non è tuttavia questo l’affare che mi porta da voi. Si tratta di qualcosa di più grave per voi, forse. Dopo tutto, non desiderate uccidere vostra moglie, vi è troppo utile. Pensate dunque alla situazione in cui vi trovereste di fronte a vostra figlia, se madame Grandet morisse. Voi dovreste fare i conti con Eugénie, poiché avete la comunione dei beni con vostra moglie. Vostra figlia avrà il diritto di reclamare la suddivisione della vostra ricchezza, di far vendere Froidfond. Infine, succede a sua madre, da cui non potete ereditare.”

Tali parole furono un colpo di fulmine per il brav’uomo, che non era così ferrato nella legislazione come poteva esserlo nel commercio. Non aveva mai pensato a una licitazione.

“Perciò vi esorto a trattarla con dolcezza,” disse Cruchot concludendo.

“Se sapeste che cosa ha fatto, Cruchot!”

“Cosa?” disse il notaio curioso di ricevere una confidenza da père Grandet e di conoscere il motivo della disputa.

“Ha regalato il suo oro.”

“Ebbene! Era suo?” chiese il notaio.

“Me lo dicono tutti!” disse il brav’uomo lasciando cadere le braccia con un movimento tragico.

“Per una miseria,” proseguì Cruchot, “rischiate di frapporre un intralcio alle concessioni che andrete a chiederle di farvi una volta morta sua madre?”

“Ah! Voi chiamate seimila franchi d’oro una miseria?”

“Eh! Sapete, mio vecchio amico, quanto costeranno l’inventario e la suddivisione della successione di vostra moglie se Eugénie lo esigesse?”

“Quanto?”

“Due, tre, o quattrocentomila franchi forse! Non bisognerà forse far un’asta, e vendere per conoscerne il vero valore? Invece mettendovi d’accordo…”

“Per la roncola di mio padre!” gridò il vignaiolo che si sedette impallidendo. “Questo lo vedremo, Cruchot.”

Dopo un momento di silenzio e di agonia, il brav’uomo guardò il notaio, dicendogli: “La vita è proprio dura! Vi si trovano molti dolori”.

“Cruchot,” continuò solennemente, “voi non dovete ingannarmi, giuratemi sull’onore che ciò che mi avete raccontato è fondato sul diritto. Mostratemi il Codice, voglio vedere il Codice!”

“Povero amico mio,” rispose il notaio, “non conosco il mio mestiere?”

“Dunque è proprio vero. Verrei depredato, tradito, ucciso, divorato da mia figlia.”

“Eredita da sua madre.”

“A cosa servono dunque i figli! Ah! Mia moglie, l’amo. Per fortuna è una donna solida. È una La Bertellière.”

“Non le resta un mese da vivere.”

Il bottaio si percosse la fronte, camminò, tornò e lanciò uno sguardo spaventoso a Cruchot: “Come si può fare?” gli disse.

“Eugénie potrebbe puramente e semplicemente rinunciare alla successione di sua madre. Voi non volete diseredarla, vero? Ma, per ottenere una divisione di questo genere, non dovete trattarla bruscamente. Ciò che vi sto dicendo, va contro il mio interesse. Che cosa ho da fare, io?… Delle liquidazioni, degli inventari, delle vendite, delle divisioni…”

“Vedremo, vedremo. Non parliamo più di questo. Voi mi fate attorcigliare le budella. Avete ricevuto dell’oro?”

“No; ma ho qualche vecchio luigi, una decina, ve li darò. Mio buon amico, fate la pace con Eugénie. Vedete, tutta Saumur vi sta lapidando.”

“Buffoni!”

“Suvvia, le rendite sono a 99. Per una volta siate contento nella vita.”

“A 99, Cruchot?”

“Sì.”

“Eh! Eh! 99!” disse il brav’uomo riconducendo il vecchio notaio sino alla porta che dava sulla strada. Poi, troppo agitato da ciò che aveva appena sentito per restare in casa, salì da sua moglie e le disse: “Suvvia, mamma, puoi passare la giornata con tua figlia, vado a Froidfond. Siate gentili tutte e due. È il giorno del nostro matrimonio, mia buona moglie: tieni, ecco dieci scudi per il tuo repositorio del Corpus Domini.3 È da molto tempo che volevi farne uno, conceditelo! Divertitevi, siate allegre, state bene. Viva la gioia!”. Gettò dieci scudi da sei franchi sul letto di sua moglie e le prese la testa per baciarla sulla fronte. “Brava donna, stai meglio, non è vero?”

“Come potete pensare di ricevere in casa vostra Dio che perdona tenendo vostra figlia esiliata dal vostro cuore?” rispose con emozione.

“Ta, ta, ta, ta!” disse il padre con una voce carezzevole. “Questo lo vedremo.”

“Bontà del cielo! Eugénie,” gridò la madre arrossendo dalla gioia, “vieni a baciare tuo padre! Ti perdona.”

Ma il brav’uomo era scomparso. Scappava a gambe levate verso le sue coltivazioni cercando di mettere in ordine le sue idee sconvolte. Allora Grandet entrava nel suo settantaseiesimo anno di età. Da due anni a questa parte, la sua avarizia era cresciuta, come crescono tutte le passioni persistenti dell’uomo. Secondo un’osservazione fatta sugli avari, sugli ambiziosi, su tutte le persone la cui vita è stata consacrata a un’idea dominante, il suo sentimento si era legato in particolare a un simbolo della sua passione. La vista dell’oro, il possesso dell’oro era divenuto la sua monomania. La sua inclinazione al dispotismo era cresciuta in proporzione alla sua avarizia, e abbandonare la direzione di una minima parte dei suoi beni alla morte di sua moglie gli sembrava una cosa contro natura. Dichiarare la sua ricchezza alla figlia, inventariare la totalità dei suoi beni mobili e immobili per metterli all’asta?… “Sarebbe come tagliarsi la gola,” disse ad alta voce in mezzo a una vigna osservando i filari. Alla fine prese la sua decisione, tornò a Saumur all’ora di cena, deciso a piegarsi davanti a Eugénie, a coccolarla, a rabbonirla al fine di poter morire regalmente tenendo sino all’ultimo sospiro le redini dei suoi milioni. Nel momento in cui il brav’uomo, che per caso aveva preso il suo passe-partout, saliva la scala a passo di lupo per andare da sua moglie, Eugénie aveva portato sul letto di sua madre il bel nécessaire. Tutte e due in assenza di Grandet, si prendevano il piacere di guardare il ritratto di Charles, esaminando quello di sua madre.

“Ha proprio la stessa fronte e la stessa bocca!” diceva Eugénie nel momento in cui il vignaiolo aprì la porta. Allo sguardo che suo marito lanciò sull’oro madame Grandet gridò: “Mio Dio, abbiate pietà di noi!”.

Il brav’uomo balzò sul nécessaire come una tigre che piomba su un bambino addormentato. “Che cos’è?” disse portando via il tesoro e andando a mettersi alla finestra. “Dell’oro buono! Dell’oro!” gridò. “Molto oro! Pesa due libbre. Ah! Ah! Charles ti ha dato questo in cambio delle tue belle monete. Eh? Perché non dirmelo? È un buon affare, figlietta! Tu sei mia figlia, ti riconosco.” Eugénie tremava tutta. “Non è vero? Questo appartiene a Charles,” proseguì il brav’uomo.

“Sì, padre mio, non è mio. Questo oggetto è un deposito sacro.”

“Ta, ta, ta, ta! Ha preso la tua ricchezza, bisogna ricostituire il tuo piccolo tesoro.”

“Padre mio...!”

Il brav’uomo volle prendere il suo coltello per fare saltare la placca d’oro e fu costretto a posare il nécessaire su una sedia. Eugénie fece uno scatto per prenderla; ma il bottaio, che guardava sua figlia e allo stesso tempo il cofanetto, la respinse con una tale violenza distendendo il braccio che lei andò a cadere sul letto di sua madre.

“Signore, signore,” gridò la madre rizzandosi sul suo letto.

Grandet aveva estratto il suo coltello e stava per sollevare la placca d’oro.

“Padre mio,” gridò Eugénie, gettandosi in ginocchio e camminando così per arrivare più vicina al brav’uomo e tendere le mani verso di lui, “padre mio, in nome di tutti i santi e della Vergine, nel nome di Cristo, che è morto sulla croce; nel nome della vostra salvezza eterna, padre mio, nel nome della mia vita, non toccatelo! Il nécessaire non è né vostro né mio; appartiene a uno sventurato parente che me lo ha affidato, e devo renderglielo intatto.”

“Perché lo guardavi, se è un deposito? Vedere è peggio di toccare.”

“Padre mio, non distruggetelo, o mi disonorate. Padre mio, mi sentite?”

“Signore, grazia!” disse la madre.

“Padre mio,” gridò Eugénie con una voce così alta che Nanon sbigottita salì. Eugénie balzò su un coltello che era alla sua portata e lo impugnò.

“Ebbene?” le disse freddamente Grandet con un sorriso glaciale.

“Signore, signore, mi assassinate!” disse la madre.

“Padre mio, se il vostro coltello scalfisce soltanto una particella di questo oro, mi trafiggo con questo. Voi avete già reso mia madre mortalmente malata, voi ucciderete anche vostra figlia. Suvvia ora, ferita per ferita.”

Grandet tenne il suo coltello sul nécessaire e guardò sua figlia esitante.

“Ne saresti dunque capace, Eugénie?” disse.

“Sì, signore,” disse la madre.

“Farebbe come dice,” gridò Nanon. “Siate ragionevole, signore, una volta nella vostra vita.” Il bottaio guardò l’oro e sua figlia alternativamente per un istante. Madame Grandet svenne. “Ecco, vedete, mio caro signore? La signora muore,” gridò Nanon.

“Tieni, figlia mia, non litighiamo per un cofanetto. Prendilo dunque!” gridò vivacemente il bottaio gettando il nécessaire sul letto. “Tu, Nanon, vai a cercare monsieur Bergerin – suvvia, mamma,” disse baciando la mano della moglie, “non è niente, su: abbiamo fatto la pace. Non è vero, figlietta? Non mangerai più pane secco, mangerai tutto quello che vorrai. Ah! Apre gli occhi. Eh! Bene, mamma, mamma, mamma, mammina, suvvia dunque! Tieni, ecco, bacio Eugénie. Ama suo cugino, se vuole lo sposerà, gli conserverà il suo piccolo baule. Suvvia, fa’ un gesto dunque! Ascolta, avrai il più bel repositorio che mai sia stato fatto a Saumur.”

“Mio Dio, trattare così vostra moglie e vostra figlia!” disse con voce flebile madame Grandet.

“Non lo farò più, più,” gridò il bottaio. “Vedrai, mia povera moglie.” Andò nel suo studio e tornò con una manciata di luigi che sparse sul letto. “Tieni, Eugénie, tieni, moglie mia, ecco per voi,” disse maneggiando i luigi. “Suvvia, rallegrati, moglie mia; stai bene, non ti mancherà niente, nemmeno a Eugénie. Ecco cento luigi d’oro per lei. Tu non li darai questi, eh, Eugénie?”

Madame Grandet e sua figlia si guardarono sbalordite.

“Riprendeteli, padre mio; noi abbiamo bisogno solo della vostra tenerezza.”

“Ebbene! Sia,” disse intascando i luigi, “viviamo da buoni amici. Scendiamo tutti nel salone per cenare. Per giocare alla tombola tutte le sere. Fate i vostri scherzi! Eh, moglie mia?”

“Ahimè! Lo farei volentieri, poiché ciò vi fa piacere,” disse la morente; “ma non riuscirei ad alzarmi.”

“Povera,” disse il bottaio, “tu non sai quanto ti amo. E tu, figlia mia!” La strinse e la baciò. “Oh! Che bello baciare la propria figlia dopo uno screzio! Figlietta mia! Ecco vedi, mamma, mamma, ora siamo una persona sola. Va’ dunque a metterlo al sicuro,” disse a Eugénie mostrandole il cofanetto. “Va’! Non temere niente. Non te ne parlerò mai più.”

Monsieur Bergerin, il medico più celebre di Saumur, arrivò presto. Conclusa la visita, dichiarò chiaramente a Grandet che sua moglie stava molto male, ma che una grande pace dell’anima, una dieta leggera e cure minuziose avrebbero potuto ritardare l’ora della sua morte sino alla fine dell’autunno.

“Costerà caro?” chiese il brav’uomo. “Sono necessarie delle droghe?”

“Poche droghe, ma molte cure,” rispose il medico che non poté trattenere un sorriso.

“Infine, monsieur Bergerin,” rispose Grandet, “siete un uomo d’onore, non è vero? Mi affido a voi, venite a visitare mia moglie tutte quante le volte che lo ritenete necessario. Conservatemi la mia buona moglie; l’amo molto, vedete, senza che ciò appaia, perché, da me tutto si svolge all’interno e mi corrode l’anima. Soffro. La sofferenza è entrata in me con la morte di mio fratello, per il quale spendo a Parigi delle somme… insomma, un occhio della testa! E non finisce ancora. Addio signore, se si può salvare mia moglie, salvatela, anche se si dovessero spendere per questo cento o duecento franchi.”

Nonostante i fervidi auguri che Grandet faceva per la salute della moglie, la cui successione aperta era una prima morte per lui; nonostante l’accondiscendenza che manifestava in ogni occasione alle minime volontà della madre e della figlia; nonostante le cure le più tenere prodigate da Eugénie, madame Grandet marciò rapidamente verso la morte. Ogni giorno si indeboliva e deperiva come deperivano le donne colpite, a questa età, dalla malattia. Era fragile quanto le foglie degli alberi in autunno. I raggi del cielo la facevano risplendere come queste foglie che il sole trapassa e rende dorate. Fu una morte degna della sua vita, una morte tutta cristiana; non era forse come dire sublime? Nel mese di ottobre del 1822 emersero in particolare le sue virtù, la sua pazienza angelica e il suo amore per la figlia; si spense senza essersi fatta sfuggire il benché minimo lamento. Agnello senza macchia, andava in cielo, e rimpiangeva di questo mondo solo la dolce compagna della sua vita fredda, alla quale i suoi ultimi sguardi sembravano predire mille mali. Tremava all’idea di lasciare questa pecorella, candida come lei, sola in mezzo a un mondo egoista che voleva strapparle il suo vello, i suoi tesori.

“Bambina mia,” le disse prima di spirare, “la felicità è solo in cielo, un giorno lo saprai.”

All’indomani di questa morte, Eugénie trovò nuovi motivi per legarsi a quella casa dove era nata, dove aveva tanto sofferto, dove sua madre era appena morta. Non poteva contemplare la finestra e la sedia rialzata nel salone senza versare lacrime. Credette di aver misconosciuto l’anima del suo vecchio padre vedendosi oggetto delle sue premure più tenere: veniva per darle il braccio per scendere a fare colazione; la guardava con un occhio quasi buono per ore intere; infine la covava come se fosse d’oro. L’ex bottaio assomigliava così poco a se stesso, tremava così tanto di fronte a sua figlia, che Nanon e i partigiani dei Cruchot, testimoni della sua debolezza, la attribuivano alla sua vecchiaia e temettero anche un indebolimento delle sue facoltà; ma il giorno in cui la famiglia prese il lutto, dopo la cena alla quale era stato invitato Cruchot, l’unico a conoscere il segreto del suo cliente, il comportamento del brav’uomo divenne chiaro.

“Mia cara bambina,” disse a Eugénie quando fu tolta la tavola e le porte accuratamente chiuse, “eccoti erede di tua madre, e noi abbiamo dei piccoli affari da sistemare tra noi due. Non è vero, Cruchot?”

“Sì.”

“È dunque proprio così necessario occuparsene oggi, padre mio?”

“Sì, sì, figlietta. Non potrei resistere a lungo nell’incertezza in cui mi trovo. Io non credo che tu voglia farmi stare in pena.”

“Oh! Padre mio.”

“Ebbene bisogna sistemare tutto ciò stasera.”

“Che cosa volete dunque che io faccia?”

“Ma figlietta, non mi riguarda. Diteglielo dunque, Cruchot.”

“Signorina, il signor vostro padre non vorrebbe né dividere, né vendere i suoi beni, né pagare dei diritti enormi per il denaro contante che può possedere. Per questo dunque, bisognerebbe evitare di fare l’inventario di tutta la ricchezza che oggi si trova indivisa tra voi e il signor vostro padre…”

“Cruchot, siete proprio sicuro di questo, per parlarne così davanti a una bambina?”

“Lasciatemi dire, Grandet.”

“Sì, sì, amico mio. Né voi, né mia figlia, mi volete spogliare. Non è vero, figlietta?”

“Ma, signor Cruchot, che cosa occorre che io faccia?” chiese Eugénie spazientita.

“Ebbene!” disse il notaio. “Bisognerebbe firmare questo atto con il quale rinunciate alla successione di vostra madre, e lasciate a vostro padre l’usufrutto di tutti i beni indivisi tra di voi, e di cui vi assicura la nuda proprietà.”

“Non capisco niente di tutto quello che mi dite,” rispose Eugénie, “datemi l’atto, e mostratemi il punto in cui devo firmare.”

Père Grandet guardava alternativamente l’atto e sua figlia, sua figlia e l’atto, provando delle emozioni così violente che si asciugò alcune gocce di sudore apparsegli sulla fronte.

“Figlietta,” disse, “invece di firmare l’atto che costerebbe caro da far registrare, se tu volessi puramente e semplicemente rinunciare alla successione della tua povera cara madre defunta, e affidarti a me per l’avvenire, preferirei così. Ti costituirei allora ogni mese una bella e grossa rendita di cento franchi. Vedi, tu potresti pagare tante messe quanto vorrai a coloro per i quali le fai dire… Eh? Cento franchi al mese, in lire?”

“Farò tutto ciò che vi piacerà, padre mio.”

“Signorina,” disse il notaio, “è mio dovere di farvi notare che voi vi spogliate…”

“Eh! Mio Dio,” disse, “che cosa volete che mi importi?”

“Taci, Cruchot. È detto, è detto,” esclamò Grandet prendendo la mano di sua figlia e battendoci sopra la propria. “Eugénie, tu non ritratterai, sei una ragazza onesta, eh?”

“Oh! Padre mio…!”

La baciò con trasporto, la strinse nelle sue braccia fin quasi a soffocarla.

“Suvvia, bambina mia, tu dai la vita a tuo padre; ma tu gli rendi ciò che ti ha dato: noi siamo pari. Ecco come si devono fare gli affari. La vita è un affare. Io ti benedico! Tu sei una figlia virtuosa, che ama molto suo papà. Ora fai ciò che vorrai. A domani dunque, Cruchot,” disse guardando il notaio sgomento. “Voi verrete per preparare bene l’atto di rinuncia alla cancelleria del tribunale.”

L’indomani, verso mezzogiorno, fu firmata la dichiarazione attraverso la quale Eugénie compiva lei stessa la propria spogliazione. Tuttavia, nonostante la sua parola, alla fine del primo anno, l’ex bottaio non aveva ancora dato un soldo dei cento franchi al mese solennemente promessi alla figlia. Così, quando Eugénie gliene parlò pacatamente, non poté fare a meno di arrossire; salì vivamente nel suo studio, e le mostrò all’incirca un terzo dei gioielli che aveva preso al nipote.

“Tieni, piccola,” disse con un accento pieno di ironia, “vuoi questi per i tuoi milleduecento franchi?”

“Oh, padre mio! Davvero me li date?”

“Te ne darò altrettanti l’anno prossimo,” disse gettandoli nel suo grembiule. “Così in poco tempo avrai tutti i suoi gingilli,” aggiunse fregandosi le mani, felice di poter speculare sul sentimento di sua figlia.

Tuttavia il vegliardo, benché ancora robusto, sentì la necessità di iniziare sua figlia ai segreti della famiglia. Durante due anni consecutivi le fece ordinare il menù della casa in sua presenza e ricevere gli affitti. Le insegnò lentamente e successivamente i nomi, il contenuto delle sue vigne, delle sue cascine. Verso il terzo anno, l’aveva abituata così bene a tutti i suoi modi avari, li aveva fatti visibilmente diventare in lei delle abitudini, che le lasciò le chiavi della dispensa senza timore, e la istituì padrona della casa.

Cinque anni trascorsero senza che alcun evento segnasse l’esistenza monotona di Eugénie e di suo padre. Furono le stesse azioni compiute con la regolarità cronometrica dei movimenti del vecchio pendolo. La profonda malinconia di mademoiselle Grandet non era un segreto per nessuno; ma se ognuno poté presentirne la causa, mai una parola pronunciata da lei giustificò i sospetti che tutte le società di Saumur formulavano sullo stato del cuore della ricca ereditiera. La sua unica compagnia era formata dai tre Cruchot e da alcuni dei loro amici che avevano impercettibilmente introdotto in casa. Le avevano insegnato il gioco del whist, e venivano tutte le sere per fare una partita. Nel 1827, suo padre, sentendo il peso delle sue infermità, fu costretto a iniziarla ai segreti della sua ricchezza territoriale, e le diceva, in caso di difficoltà, di consultare Cruchot il notaio, la cui probità le era nota. Poi verso la fine di quest’anno il brav’uomo fu infine colto, a ottantadue anni,4 da una paralisi che fece rapidi progressi. Grandet fu condannato da monsieur Bergerin. Pensando che presto sarebbe rimasta sola al mondo, Eugénie si tenne, per così dire, più vicina a suo padre e strinse più fortemente questo ultimo anello di affetto. Nel suo pensiero, come in quello di tutte le donne innamorate, l’amore era il mondo intero, e Charles non c’era. Fu sublime nelle cure e nelle attenzioni per il suo vecchio padre, le cui facoltà iniziarono a calare, ma di cui l’avarizia si sorreggeva istintivamente. Così la morte di quest’uomo non fu affatto in contrasto con la sua vita. Sin dalla mattina si faceva trasportare tra il caminetto della sua camera e la porta del suo studio, senza dubbio pieno d’oro. Restava lì senza muoversi, guardando ansiosamente quelli che venivano a trovarlo e la porta blindata. Si faceva rendere conto dei minimi rumori che sentiva; e, con grande stupore del notaio, sentiva lo sbadiglio del suo cane in cortile. Si risvegliava dal suo stupore apparente nel giorno e nell’ora in cui bisognava incassare gli affitti, fare i conti con i gestori degli appezzamenti, o dare delle ricevute. Allora si agitava sulla sua sedia a rotelle, fino a che non si trovava di fronte alla porta del suo studio. La faceva aprire da sua figlia e vegliava che sistemasse in segreto lei stessa i sacchi di denaro gli uni sugli altri, e che richiudesse la porta. Poi tornava al suo posto in silenzio non appena lei gli restituiva la preziosa chiave, infilata sempre nella tasca del suo gilet, e che tastava di tanto in tanto. Del resto il suo vecchio amico notaio, sentendo che la ricca ereditiera avrebbe sposato necessariamente suo nipote, il presidente, se Charles non tornava, raddoppiò le sue premure e le sue attenzioni, veniva tutti i giorni per mettersi agli ordini di Grandet, andava dietro suo ordine a Froidfond, alle terre, ai prati, alle vigne, vendeva i raccolti, e trasformava tutto in oro e argento che andava ad accumularsi segretamente nei sacchi impilati nello studio. Alla fine arrivarono i giorni dell’agonia, durante i quali la forte struttura del brav’uomo fu alle prese con la distruzione. Volle restare seduto in un angolo del suo fuoco, davanti alla porta del suo studio. Prendeva per sé tutte le coperte che gli mettevano addosso, e diceva a Nanon: “Chiudi, chiudi, che non mi derubino”. Quando poteva aprire gli occhi, in cui si era rifugiata tutta la sua vita, li girava subito verso la porta dello studio dove giacevano i suoi tesori dicendo a sua figlia: “Ci sono? Ci sono?” con un tono di voce che denotava una sorta di timor panico.

“Sì, padre mio.”

“Controlla l’oro, metti dell’oro davanti a me.”

Eugénie gli metteva dei luigi su un tavolo e restava delle ore intere con gli occhi fissi sui suoi luigi, come un bambino che, nel momento in cui comincia a vedere, contempla stupidamente lo stesso oggetto: e, come a un bambino, gli sfuggiva un sorriso penoso.

“Mi riscalda!” diceva talora lasciando trasparire sul suo volto un’espressione di beatitudine.

Quando il curato della parrocchia venne a somministrargli i sacramenti, i suoi occhi, in apparenza morti da qualche ora, si rianimarono alla vista della croce, dei candelabri, dell’acquasantiera d’argento, che guardò fissamente, e la sua verruca si mosse per l’ultima volta. Quando il prete gli avvicinò alle labbra il crocifisso d’argento dorato per fargli baciare il Cristo, fece un gesto spaventoso per afferrarlo, e questo ultimo sforzo gli costò la vita. Chiamò Eugénie, che non vedeva, benché fosse inginocchiata davanti a lui e bagnasse con le sue lacrime una mano già fredda.

“Padre mio, beneditemi…!” chiese.

“Abbi bene cura di tutto. Mi renderai conto di ciò laggiù,” provando con quest’ultima parola che il cristianesimo deve essere la religione degli avari.

Eugénie Grandet si trovò dunque sola al mondo in quella casa, avendo solo Nanon alla quale poteva lanciare uno sguardo con la certezza di essere ascoltata e capita, Nanon, l’unico essere che la amava per quello che era e con la quale poteva parlare delle sue sofferenze. La Grande Nanon era una Provvidenza per Eugénie. Così non fu più una serva, ma un’umile amica. Dopo la morte di suo padre, Eugénie apprese dal notaio Cruchot che possedeva trecentomila lire di rendita in beni fondiari nel circondario di Saumur, sei milioni investiti al 3 per cento in titoli comprati a 60 franchi, e che allora valevano 77 franchi; più di due milioni in oro, e centomila franchi in scudi, senza contare gli arretrati ancora da percepire. La stima totale dei suoi beni raggiungeva i diciassette milioni.

“Dov’è dunque mio cugino?” si diceva.

Il giorno in cui il notaio Cruchot consegnò alla sua cliente lo stato della successione, divenuta chiara e liquida, Eugénie rimase sola con Nanon, sedute l’una e l’altra agli angoli del caminetto di quel salone così vuoto, dove tutto era un ricordo, dalla sedia rialzata sulla quale sedeva sua madre sino al bicchiere in cui aveva bevuto suo cugino.

“Nanon, siamo sole…”

“Sì, signorina; e se sapessi dove fosse, il carino, lo andrei a cercare a piedi.”

“C’è il mare tra di noi,” disse.

Mentre la povera ereditiera piangeva così in compagnia della sua vecchia serva, in quella fredda e scura casa, che per lei formava tutto l’universo, non si parlava d’altro da Nantes a Orléans che dei diciassette milioni di mademoiselle Grandet. Una delle sue prime azioni fu di dare milleduecento franchi di rendita vitalizia a Nanon, che possedendone già altri seicento divenne un ricco partito. In meno di un mese passò dallo stato di ragazza a quello di signora, sotto la protezione di Antoine Cornoiller, che fu nominato custode generale delle terre e delle proprietà di mademoiselle Grandet. Madame Cornoiller ebbe sulle sue coetanee un grandissimo vantaggio. Benché avesse cinquantanove anni, sembrava non averne più di quaranta. I suoi tratti grossolani avevano resistito agli attacchi del tempo. Grazie al regime di vita monastico, sfidava la vecchiaia con un bel colorito, e con una salute di ferro. Forse non era mai stata così bene come lo fu nel giorno del suo matrimonio. Ricevette i benefici della sua bruttezza, e apparve grossa, grassa, forte, mostrando sul suo volto indistruttibile un’aria felice che fece invidiare ad alcune persone la sorte di Cornoiller. “Ha un bel colorito,” diceva il venditore di panni. “È in grado di avere dei bambini,” disse il venditore di sale. “Si è conservata come nella salamoia, parlando con rispetto.” “È ricca, e il bravo Cornoiller ha fatto un bel colpo,” diceva un altro vicino. Uscendo dalla vecchia casa, Nanon, che era amata da tutto il vicinato, ricevette solo dei complimenti scendendo per la via tortuosa per recarsi alla parrocchia. Come regalo di nozze, Eugénie le diede tre dozzine di posate. Cornoiller, sorpreso da una tale magnificenza, parlava della sua padrona con le lacrime agli occhi. Divenuta la donna di fiducia d’Eugénie, madame Cornoiller ebbe una felicità uguale a quella di possedere un marito. Aveva infine una dispensa da aprire e chiudere, delle razioni da dare la mattina, come faceva il suo defunto padrone. Poi dovette dirigere due domestiche, una cuoca e una cameriera incaricata di rammendare la biancheria della casa, di confezionare i vestiti di mademoiselle. Cornoiller accentrò le funzioni di custode e di amministratore. È inutile dire che la cuoca e la cameriera scelte da Nanon erano delle vere e proprie perle. Mademoiselle ebbe così quattro servitori la cui devozione era senza limiti. I fittavoli non si accorsero della morte del brav’uomo, tanto aveva stabilito con severità gli usi e i costumi della sua amministrazione, che fu scrupolosamente portata avanti da monsieur e da madame Cornoiller.

Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), precettore del Gran Delfino, scrisse Méditation (ou élévation) sur la brieveté de la vie, 1648, in cui descrive l’immagine dei chiodi attaccati su un muro che sembrano occupare molto spazio, ma una volta raccolti non riempiono una mano.

Ripresa di un ritornello cantato da Fanchette nell’opera comica Le Tonnelier (1761) di Nicolas-Médard Audinot (1732-1801).

Funzione celebrata tre settimane dopo l’Ascensione.

In realtà Grandet dovrebbe avere settantanove anni.

Capitolo 6 
Così va il mondo

A trent’anni, Eugénie non conosceva ancora alcuna delle felicità della vita. La sua scialba e triste infanzia era trascorsa vicino a una madre, il cui cuore misconosciuto, bistrattato, aveva sempre sofferto. Lasciando con gioia la vita, questa madre compianse la figlia che doveva vivere, e le lasciò nell’anima lievi rimorsi e rimpianti eterni. Il primo, l’unico amore di Eugénie era, per lei, un principio di malinconia. Dopo aver intravisto il suo amante per qualche giorno, gli aveva dato il suo cuore tra due baci furtivamente accettati e ricevuti; in seguito era partito mettendo un intero mondo tra lei e lui. Questo amore, maledetto da suo padre, le era quasi costato sua madre e le provocava solo dolori misti a fremiti di speranza. Così sino ad allora si era lanciata verso la felicità, perdendo le sue forze, senza rinnovarle. Nella vita morale, così come in quella fisica, esiste un’aspirazione e una respirazione: l’anima ha bisogno di assorbire i sentimenti di un’altra anima, di assimilarli per restituirli più ricchi. Senza questo bel fenomeno umano, non c’è vita nel cuore; allora l’aria gli manca, soffre e deperisce. Eugénie cominciava a soffrire. Per lei la ricchezza non era né un potere né una consolazione: poteva esistere solo attraverso l’amore, la religione, la sua fede nell’avvenire. L’amore le spiegava l’eternità. Il suo cuore e il Vangelo le indicavano due mondi da aspettare. Si tuffava notte e giorno dentro due pensieri infiniti, che forse per lei erano una cosa sola. Si ritirava in se stessa, amando e credendosi amata. Da sette anni a questa parte, la sua passione aveva invaso tutto. I suoi tesori non erano i milioni, i cui interessi si accumulavano, ma il cofanetto di Charles, ma i due ritratti appesi al suo letto, ma i gioielli ricomprati da suo padre, disposti orgogliosamente su uno strato di ovatta in un cassetto del cassone; ma il ditale di sua zia, di cui si era servita sua madre, e che prendeva tutti i giorni religiosamente per un lavoro di ricamo, opera di Penelope, intrapreso solo per infilare al dito questo oro colmo di ricordi. Non sembrava più verosimile che mademoiselle Grandet volesse sposarsi durante il proprio lutto. La sua pietà sincera era conosciuta. Così la famiglia Cruchot, la cui politica era saggiamente diretta dal vecchio abate, si accontentò di accerchiare l’ereditiera avvolgendola con le cure più affettuose. A casa sua, tutte le sere il salone si riempiva di una società formata dai più accesi e devoti partigiani dei Cruchot del paese, che si sforzavano di intessere gli elogi della padrona di casa in tutte le tonalità. Aveva un dottore particolare, il suo grande elemosiniere, il suo ciambellano, la sua prima dama di compagnia, il suo primo ministro e soprattutto il suo cancelliere, un cancelliere che voleva dirle tutto. Se l’ereditiera desiderava un caudatario, gliene avrebbero trovato uno. Era una regina, e la più abilmente adulata di tutte le regine. L’adulazione non proviene mai dalle più grandi anime, è l’appannaggio delle piccole intelligenze che riescono a rimpicciolirsi ancora per entrare meglio nella sfera vitale della persona intorno alla quale gravitano. L’adulazione sottintende un interesse. Così le persone, che venivano ad ammobiliare tutte le sere il salone di mademoiselle Grandet, chiamata da loro mademoiselle de Froidfond, riuscivano meravigliosamente a opprimerla con gli elogi. Tale concerto di lodi, novità per Eugénie, la fece dapprima arrossire; ma impercettibilmente, e per quanto alcuni complimenti fossero grossolani, il suo orecchio si abituò così a sentir vantare la sua bellezza, che se qualche nuovo venuto l’avesse reputata brutta, questo appunto l’avrebbe trovata più sensibile rispetto a otto anni prima. Poi finì per amare quelle dolcezze che metteva segretamente ai piedi del suo idolo. Si abituò dunque gradualmente a lasciarsi trattare da sovrana e a vedere la sua corte piena tutte le sere. Il signor presidente de Bonfons era l’eroe di questa piccola cerchia, dove la sua mente, la sua persona, la sua istruzione, la sua amabilità erano vantati incessantemente. L’uno faceva osservare che, da sette anni, aveva accresciuto molto la sua ricchezza; che Bonfons valeva almeno diecimila franchi di rendita e che era un enclave, come tutti i beni dei Cruchot, nei vasti domini dell’ereditiera. “Sapete, signorina,” diceva uno dei frequentatori abituali, “che i Cruchot posseggono quarantamila lire di rendita?” “E dei loro risparmi?” proseguì una vecchia partigiana dei Cruchot, mademoiselle de Gribeaucourt. “Ultimamente è venuto un signore di Parigi per offrire duecentomila franchi per il suo studio. Deve venderlo, per essere nominato giudice di pace.” “Vuole succedere a monsieur de Bonfons alla presidenza del tribunale, e prende le sue precauzioni,” rispose madame d’Orsenval; “poiché il signor presidente diventerà consigliere, poi presidente della Corte, ha troppi mezzi per non arrivarci.” “Sì, è un uomo molto distinto,” diceva un altro. “Non trovate, signorina?” Il signor presidente aveva cercato di mettersi in armonia con il ruolo che doveva svolgere. Nonostante i suoi quarant’anni, nonostante la figura bruna e arcigna, avvizzita come lo sono quasi tutte le fisionomie giudiziarie, si vestiva da giovanotto, si trastullava con un pezzo di giunco, non prendeva tabacco da mademoiselle de Froidfond, arrivava sempre in cravatta bianca e in camicia, il cui davantino a grosse pieghe gli dava un’aria di famiglia con le persone del genere tacchino. Parlava con familiarità alla bella Eugénie e le diceva: “La nostra cara Eugénie!”. Infine eccettuato il numero di persone, sostituendo la tombola con il whist ed eliminando le figure di monsieur e madame Grandet, la scena con cui iniziò questa storia era più o meno simile a quella del passato. La muta inseguiva sempre Eugénie e i suoi milioni; ma la muta più numerosa abbaiava meglio, e con un lavoro di squadra accerchiava la sua preda. Se Charles fosse arrivato dal profondo delle Indie, avrebbe dunque ritrovato gli stessi personaggi e gli stessi interessi. Madame des Grassins, secondo la quale Eugénie era perfetta in grazia e bontà, persisteva a tormentare i Cruchot. Ma allora, come altre volte, la figura di Eugénie avrebbe dominato il quadro; come altre volte, Charles sarebbe stato ancora il sovrano. Tuttavia vi era un progresso. Il mazzo di fiori porto un tempo a Eugénie nei giorni del suo compleanno dal presidente era diventato periodico. Tutte le sere portava alla ricca ereditiera un grosso e magnifico mazzo che madame Cornoiller metteva platealmente in un vaso e gettava con discrezione in un angolo del cortile, non appena i visitatori se ne erano andati. All’inizio della primavera, madame des Grassins cercò di turbare la felicità dei partigiani dei Cruchot parlando a Eugénie del marchese di Froidfond, la cui casa in rovina poteva risollevarsi se l’ereditiera avesse voluto rendergli le sue terre con un contratto di matrimonio. Madame des Grassins parlò in maniera altisonante dei titoli di pari, di marchese, e, prendendo il sorriso di disprezzo di Eugénie per un assenso, andava dicendo in giro che il matrimonio di monsieur Cruchot non era così avanti come si credeva. “Benché monsieur de Froidfond abbia cinquant’anni,” diceva, “non sembra più vecchio di monsieur Cruchot; è vedovo ed ha dei figli, è vero; ma è marchese, e diventerà pari di Francia, e con i tempi che corrono trovateli dei matrimoni di tale genere. So per certo che père Grandet, riunendo tutti i suoi beni a quelli di Froidfond, aveva l’intenzione di innestarsi su Froidfond. Me l’ha detto spesso. Era astuto, il brav’uomo.”

“Come, Nanon,” disse una sera Eugénie coricandosi, “non mi scriverà una volta in sette anni?…”

Mentre succedevano queste cose a Saumur, Charles diventava ricco nelle Indie. La sua paccottiglia innanzitutto si era venduta molto bene. Aveva realizzato presto una somma di seimila dollari. Il battesimo dell’equatore gli fece perdere molti pregiudizi; si rese conto che il modo migliore per diventare ricchi era, nelle regioni intertropicali, così come in Europa, comprare e vendere uomini. Venne dunque sulle coste africane e fece la tratta dei neri, aggiungendo al suo commercio di uomini quello delle merci più vantaggiose da scambiare sui diversi mercati dove lo conducevano i suoi interessi. Profondeva negli affari un impegno che non gli lasciava un momento libero. Era ossessionato dall’idea di ricomparire a Parigi con tutto lo splendore di una grande ricchezza, e di acquistare una posizione più brillante ancora di quella dalla quale era caduto. A forza di viaggiare attraverso uomini e paesi, di osservarne i costumi contrari, le sue idee si modificarono e divenne scettico. Non ebbe più delle nozioni ferme sul giusto e l’ingiusto, vedendo bollare di crimine in un paese ciò che era virtù in un altro. A contatto perpetuo con gli interessi, il suo cuore si raffreddò, si contrasse, si inaridì. Il sangue dei Grandet non venne affatto meno al suo destino. Charles divenne duro, aspro e avido di guadagni. Vendette cinesi, neri, nidi di rondine, bambini, artisti; praticò l’usura in grande. L’abitudine di frodare i diritti di dogana lo rese meno scrupoloso sui diritti dell’uomo. Andava a Saint-Thomas1 a comprare a basso prezzo le merci rubate dai pirati, e le portava nei posti in cui mancavano. Se la nobile e pura figura d’Eugénie lo accompagnò nel suo primo viaggio come l’immagine della Vergine che i marinai spagnoli mettono sul loro vascello, e se attribuì i suoi primi successi alla magica influenza dei voti e delle preghiere di questa dolce fanciulla, più tardi, le nere, le mulatte, le bianche, le giavanesi, le almee,2 le sue orge di tutti i colori, le sue avventure che ebbe in diversi paesi cancellarono completamente il ricordo di sua cugina, di Saumur, della casa, della panca, del bacio preso nel corridoio. Si ricordava solo del piccolo giardino cintato da vecchi muri, perché lì il suo destino imprevedibile era cominciato; ma rinnegava la sua famiglia; suo zio era un vecchio cane che gli aveva depredato i gioielli; Eugénie non occupava né il suo cuore, né i suoi pensieri, occupava un posto nei suoi affari come una creditrice di una somma di seimila franchi. Questa condotta e queste idee spiegano il silenzio di Charles Grandet. Nelle Indie, a Saint-Thomas, sulla costa d’Africa, a Lisbona, negli Stati Uniti, lo speculatore aveva preso, per non compromettere il suo nome, lo pseudonimo di Sepherd. Carl Sepherd poteva mostrarsi ovunque senza pericolo e infaticabile, audace, avido, come un uomo che, risoluto di diventare ricco quibuscumque viis,3 si affretta a farla finita con l’infamia per restare uomo onesto per il resto dei suoi giorni. Con questo sistema fece la sua fortuna in maniera rapida e brillante. Nel 1827 dunque, tornava a Bordeaux sulla Marie-Caroline,4 grazioso brigantino appartenente a una casa di commercio realista. Possedeva un milione e novecentomila franchi in tre solidi barili di polvere d’oro, dai quali contava di ottenere il 7-8 per cento cambiandoli in moneta a Parigi. Su quel brigantino, si trovava anche un gentiluomo ordinario della camera di sua maestà il re Carlo X,5monsieur d’Aubrion, buon vecchietto che aveva fatto la follia di sposare una donna alla moda, e la cui ricchezza stava nelle isole.6 Per fare fronte alle prodigalità di madame d’Aubrion, era andato a vendere le proprie tenute. Monsieur e madame d’Aubrion, della casa d’Aubrion de Buch, il cui ultimo Captal7 morì prima del 1789, ridotti ad avere una ventina di migliaia di lire di rendita, avevano una figlia piuttosto brutta che la madre voleva sposare senza dote, essendo la sua ricchezza appena sufficiente per vivere a Parigi. Si trattava di un’impresa il cui successo sarebbe parso problematico a tutte le persone del mondo, nonostante l’abilità che viene riconosciuta alle donne alla moda. Così madame d’Aubrion stessa disperava quasi, vedendo sua figlia, di accalappiare chicchessia, fosse anche un uomo ebbro di nobiltà. Mademoiselle d’Aubrion era una signorina lunga, come l’insetto suo omonimo8; magra, esile, dalla bocca sdegnosa, sulla quale scendeva un naso troppo lungo, grosso in punta, flavescente nello stato normale, ma completamente rosso dopo i pasti, sorta di fenomeno vegetale più sgradevole in mezzo a un volto pallido e annoiato che in ogni altro. Insomma, era tale come poteva desiderarla una madre di trentotto anni la quale, ancora bella, continuava ad avere delle pretese. Ma per controbilanciare tali svantaggi, la marchesa d’Aubrion aveva dato a sua figlia un’aria molto distinta, l’aveva assoggettata a un’igiene che manteneva provvisoriamente il suo naso di un colorito ragionevole, le aveva trasmesso l’arte di vestirsi con gusto, l’aveva dotata di belle maniere, le aveva insegnato quegli sguardi malinconici che attirano un uomo e gli fanno credere che sta per incontrare l’angelo così vanamente cercato; le aveva mostrato la manovra del piede, per avanzarlo a proposito e farne ammirare la piccolezza, nel momento in cui il suo naso aveva l’impertinenza di arrossire; infine aveva fatto di sua figlia un partito abbastanza soddisfacente. Per mezzo delle maniche larghe, di corsetti menzogneri, di gonne abbondanti e guarnite con cura, di un corsetto alquanto stretto, aveva ottenuto dei prodotti femminili così curiosi che, per l’istruzione delle madri, avrebbe dovuto depositarli in un museo. Charles si legò molto a madame d’Aubrion, che voleva precisamente legarsi a lui. Diverse persone sostengono anche che, durante la traversata, la bella madame d’Aubrion non trascurasse alcun mezzo per catturare un genero così ricco. Sbarcando a Bordeaux nel mese di giugno del 1827, monsieur, madame, mademoiselle d’Aubrion e Charles alloggiarono insieme nello stesso albergo e partirono insieme per Parigi. Il palazzo d’Aubrion era subissato di ipoteche, che Charles doveva riscattare. Sua madre aveva già parlato della felicità che avrebbe avuto nel cedere il pianoterra a suo genero e a sua figlia. Non condividendo i pregiudizi di monsieur d’Aubrion sulla nobiltà, aveva promesso a Charles di ottenere dal buon Carlo X un’ordinanza reale che avrebbe autorizzato lui, Grandet, a portare il nome di d’Aubrion, a prenderne il blasone, e a succedergli, per mezzo della costituzione di un maggiorasco di trentaseimila lire, ad Aubrion, con il titolo di Captal di Buch e marchese d’Aubrion. Unendo le loro ricchezze, vivendo di buon accordo, e tramite alcune sinecure, si sarebbero potute riunire cento e qualche migliaia di lire di rendita sul palazzo d’Aubrion. “E quando si hanno centomila lire di rendita, un nome, una famiglia, si va a corte, poiché vi farò nominare gentiluomo di camera, si diventa tutto quello che si vuole essere,” diceva a Charles. “Così voi sarete a vostra scelta relatore al Consiglio di stato, prefetto, segretario d’ambasciata, ambasciatore. Carlo X ama molto d’Aubrion, si conoscono dall’infanzia.”

Inebriato d’ambizione da questa donna, Charles aveva accarezzato, durante l’attraversata, tutte queste speranze che gli furono presentate da una mano abile e sotto forma di confidenze riversate da cuore a cuore. Credendo che gli affari di suo padre fossero stati sistemati da suo zio, si vedeva incardinato di colpo nel faubourg Saint-Germain, dove tutti volevano entrare, e dove, all’ombra del naso blu di mademoiselle Mathilde, ricompariva come conte d’Aubrion, come i Dreux ricomparvero un giorno come Brézé.9 Abbagliato dalla prosperità della Restaurazione che aveva lasciato barcollante, rapito dal bagliore delle idee aristocratiche, il suo inebriamento iniziato sul vascello si mantenne a Parigi dove prese la decisione di fare di tutto per arrivare all’alta posizione che la sua suocera egoista gli lasciava intravedere. Sua cugina era dunque per lui solo un punto nello spazio di questa brillante prospettiva. Rivide Annette. Come donna di mondo Annette consigliò vivamente al suo vecchio amico di fare questo matrimonio, e gli promise il suo appoggio in tutte le sue imprese ambiziose. Annette era incantata dall’idea di far sposare una signorina laida e noiosa a Charles, che il soggiorno alle Indie aveva reso molto seducente: il suo colorito si era brunito, i suoi modi erano diventati decisi, arditi, come lo sono quelli degli uomini abituati a risolvere, a dominare, a riuscire. Charles respirò più a suo agio a Parigi, vedendo che poteva svolgervi un ruolo. Des Grassins, essendo venuto a conoscenza del suo ritorno, del suo prossimo matrimonio, della sua fortuna, lo andò a trovare per parlargli dei trecentomila franchi con cui poteva estinguere i debiti di suo padre. Trovò Charles a colloquio con il gioielliere al quale aveva ordinato dei gioielli per il regalo di nozze per mademoiselle d’Aubrion, e che gli mostrava i disegni. Nonostante i magnifici diamanti che Charles aveva portato dalle Indie, le lavorazioni, l’argenteria, la gioielleria solida e futile della giovane coppia salivano a più di duecentomila franchi. Charles ricevette des Grassins, che non riconobbe, con l’impertinenza di un giovane alla moda che, nelle Indie, aveva ucciso quattro uomini in duelli differenti. Monsieur des Grassins era già venuto tre volte, Charles l’ascoltò freddamente, senza aver capito bene: “Gli affari di mio padre non sono i miei. Vi sono obbligato, signore, delle cure che vi siete voluto prendere, e di cui non potrei approfittare. Non ho realizzato quasi due milioni con il sudore della mia fronte per andare a cederli ai creditori di mio padre”.

“E se il signor vostro padre fosse, da qui a qualche giorno, dichiarato fallito?”

“Signore, da qui a qualche giorno mi chiamerò il conte d’Aubrion. Vedete bene che la cosa mi lascerà indifferente. Del resto voi sapete meglio di me che quando un uomo ha centomila lire di rendita, suo padre non ha mai fatto fallimento,” aggiunse spingendo cortesemente monsieur des Grassins verso la porta.

All’inizio del mese di agosto di quell’anno Eugénie era seduta sulla piccola panca di legno, dove suo cugino le aveva giurato eterno amore e dove veniva a fare colazione quando faceva bello. La povera ragazza si compiaceva in quel momento, nella più fresca e nella più gioiosa mattinata, a ripassare nella sua memoria i grandi e i piccoli avvenimenti del suo amore e le catastrofi da cui era stato seguito. Il sole illuminava il bel tratto di muro tutto crepato, quasi in rovina, che la capricciosa ereditiera aveva proibito di toccare, benché Cornoiller ripetesse spesso a sua moglie che un giorno si sarebbe rimasti schiacciati sotto. In quel momento il postino bussò e consegnò una lettera a madame Cornoiller che venne in giardino gridando: “Signorina, una lettera!”. E la diede alla sua padrona dicendo: “È quella che aspettavate?”.

Queste parole risuonarono tanto fortemente nel cuore di Eugénie più di quanto risuonarono in realtà tra le mura del cortile e del giardino.

“Parigi! È da parte sua. È tornato.”

Eugénie impallidì, e guardò la lettera per un momento. Aveva delle palpitazioni così violente da non poter aprirla e leggerla. La Grande Nanon rimase in piedi, le due mani sulle anche, e la gioia sembrava sfuggirle come una fumata dai solchi del suo volto abbronzato.

“Leggete dunque, signorina…”

“Ah! Nanon, perché torna a Parigi, quando è partito da Saumur?”

“Leggete e lo saprete.”

Eugénie aprì la lettera tremando. Ne cadde un vaglia sulla casa Madame des Grassins et Corret di Saumur. Nanon lo raccolse.

“Mia cara cugina…”

“Non sono più Eugénie,” pensò. E il suo cuore si serrò.

“Voi…”

“Mi dava del tu!”

Incrociò le braccia, non osò più leggere la lettera e delle grosse lacrime le vennero agli occhi.

“È morto?” chiese Nanon.

“Non scriverebbe,” disse Eugénie.

E lesse tutta la lettera che segue:

“Mia cara cugina, voi verrete a sapere, io credo, con piacere, del successo delle mie imprese. Mi avete portato fortuna, sono tornato ricco, e ho seguito i consigli di mio zio, la cui morte e quella di mia zia mi sono state appena riferite da monsieur des Grassins. La morte dei genitori è un fatto naturale, e noi dobbiamo succeder loro. Spero che oggi siate consolata. Nulla resiste al tempo, l’ho provato. Sì, mia cara cugina, sfortunatamente per me è passato il momento delle illusioni. Che volete! Viaggiando attraverso numerosi paesi, ho riflettuto sulla vita. Da bambino che ero alla partenza, sono diventato uomo al ritorno. Oggi penso a molte cose alle quali un tempo non pensavo. Voi siete libera, mia cugina, e io lo sono ancora; nulla impedisce, apparentemente, la realizzazione dei nostri piccoli progetti; ma sono troppo leale per nascondervi la situazione dei miei affari. Non ho affatto dimenticato che non mi appartengo; mi sono sempre ricordato nelle mie lunghe traversate della piccola panca in legno…”.

Eugénie si alzò come se fosse stata su dei carboni ardenti e andò a sedersi su uno dei gradini del cortile.

“…Della piccola panca in legno dove ci siamo giurati di amarci per sempre, del corridoio, del salone grigio, della mia camera mansardata, e della notte in cui mi avete reso, con la vostra delicata cortesia, l’avvenire più facile. Sì, questi ricordi hanno sostenuto il mio coraggio, e mi sono detto che voi pensate sempre a me come io pensavo sovente a voi, all’ora convenuta tra noi. Avete mai guardato bene le nuvole alle nove? Sì, non è vero? Così, non voglio tradire un’amicizia sacra per me; no, non vi devo affatto ingannare. Si tratta in questo momento di un’unione che soddisfa tutte le mie idee che mi sono formato sul matrimonio. L’amore, nel matrimonio, è una chimera. Oggi la mia esperienza mi dice che bisogna obbedire a tutte le leggi sociali e riunire tutte le convenienze volute dal mondo sposandosi. Ora, già tra di noi c’è una differenza d’età che, forse, influirebbe più sul vostro avvenire, che sul mio. Non vi parlerò né dei vostri costumi, né della vostra educazione, né delle vostre abitudini, che non hanno alcun rapporto con la vita di Parigi, e non si concilierebbero affatto con i miei ulteriori progetti. Fa parte dei miei piani di tenere un alto tenore a casa, e di ricevere molte persone, e credo di ricordare che amate una vita dolce e tranquilla. No, sarò più franco, e vi voglio fare arbitro della mia situazione; vi spetta di conoscerla, e avete il diritto di giudicarla. Oggi posseggo ottantamila lire di rendita. Questa ricchezza mi permette di unirmi alla famiglia d’Aubrion, di cui l’ereditiera, una giovane di diciannove anni, mi porta con il matrimonio il suo nome, un titolo, la funzione di gentiluomo onorario di camera di sua maestà, e una delle più brillanti posizioni. Vi confesserò, mia cara cugina, che non amo per nulla al mondo mademoiselle d’Aubrion, ma attraverso il matrimonio con lei, assicuro ai miei figli una situazione sociale i cui vantaggi un giorno saranno incalcolabili: di giorno in giorno le idee monarchiche riprendono quota. Dunque, alcuni anni più tardi mio figlio, divenuto marchese d’Aubrion, avendo un maggiorasco di quarantamila lire di rendita, potrà prendere nello stato il posto che vorrà scegliere. Noi dobbiamo darci ai nostri figli. Voi vedete, cugina mia, con quanta buona fede vi espongo la situazione del mio cuore, delle mie speranze, della mia ricchezza. È possibile che da parte vostra dopo sette anni di assenza abbiate dimenticato le nostre bambinate; ma io non ho dimenticato né la vostra indulgenza, né le mie parole; me le ricordo tutte, anche quelle pronunciate con leggerezza, e alle quali un giovane uomo meno coscienzioso di quanto lo sia io, avendo un cuore meno giovane e meno probo, non penserebbe neanche. E dicendovi che penso solo a fare un matrimonio di convenienza, e che mi ricordo ancora del nostro amore infantile, penso di rimettermi interamente alla vostra discrezione, rendervi padrona della mia sorte, e dirvi che, se bisogna rinunciare alle mie ambizioni, mi accontenterò volentieri di questa semplice e pura felicità di cui mi avete donato delle così toccanti immagini…”

“Tan, ta, ta. – Tan, ta, ti. – Tinn, ta, ta. – Tun! – Tun, ta, ti. – Tinn, ta, ta… ecc.” aveva cantato Charles Grandet sull’aria di Non più andrai!,10 firmando “il vostro devoto cugino, Charles”.

“Fulmini di Dio! Questo è un buon comportamento,” si disse, e aveva cercato il vaglia e aggiunto:

“P.S. Aggiungo alla mia lettera un vaglia sulla casa di des Grassins di ottomila franchi a vostro beneficio, e pagabili in oro, comprensivi degli interessi e del capitale della somma che avete avuto la bontà di prestarmi. Aspetto da Bordeaux una cassa dove si trovano alcuni oggetti che mi permetterete di donarvi come testimonianza della mia eterna riconoscenza. Potete rimandare con la diligenza il mio nécessaire al palazzo d’Aubrion, via Hillerin-Bertin”.

“Con la diligenza!” disse Eugénie. “Una cosa per la quale avrei dato mille volte la mia vita!”

Spaventoso, un disastro completo. Il vascello affondava senza lasciare una corda, né un relitto sul vasto oceano delle speranze. Vedendosi abbandonate, alcune donne vanno a strappare il loro amato dalle braccia della rivale, la uccidono e scappano all’altro capo del mondo, sul patibolo o nella tomba. Ciò senza dubbio è bello; il movente di questo crimine è una passione sublime che si impone alla giustizia umana. Altre donne abbassano la testa e soffrono in silenzio: vanno avanti morenti e rassegnate, piangendo e perdonando, pregando e ricordando sino all’ultimo sospiro. Questo è amore, amore vero, amore degli angeli, amore fiero che vive del proprio dolore e che ne muore. Fu il sentimento di Eugénie dopo aver letto questa orribile lettera. Lanciò degli sguardi al cielo, pensando alle ultime parole di sua madre, che, come altri morenti, aveva proiettato nel futuro un colpo d’occhio penetrante, lucido; in seguito ricordandosi di questa morte e di questa vita profetica, misurò con uno sguardo tutto il suo destino. Non le restava che distendere le ali, tendere al cielo e vivere in preghiera sino al giorno della sua liberazione.

“Mia madre aveva ragione,” disse piangendo. “Soffrire e morire.”

Venne a passi lenti dal suo giardino al salone. Contrariamente alla sua abitudine, non passò dal corridoio; ma ritrovò il ricordo di suo cugino in quel vecchio salone grigio, sul caminetto del quale c’era sempre una certa ciotola di cui si serviva tutte le mattine per la sua colazione, così come la vecchia zuccheriera di Sèvres. Quella mattina doveva essere solenne e piena di avvenimenti per lei. Nanon le annunciò il curato della parrocchia. Il curato, parente dei Cruchot, era dalla parte del presidente de Bonfons. Da qualche giorno, il vecchio abate lo aveva convinto a parlare a mademoiselle Grandet, in un senso puramente religioso, di obbligo in cui si trovava di contrarre il matrimonio. Vedendo il suo pastore Eugénie credette che fosse venuto per prendere i mille franchi che dava mensilmente ai poveri, e disse a Nanon di andare a prenderli; ma il curato si mise a sorridere.

“Oggi, mademoiselle, vengo a parlarvi di una povera ragazza alla quale si interessa tutta la città di Saumur, e che, per mancanza di carità per se stessa, non vive cristianamente.”

“Mio Dio! Signor curato, voi mi trovate in un momento in cui mi è impossibile di pensare al mio prossimo, sono tutta occupata di me. Sono proprio infelice, non ho altro rifugio che la Chiesa; ha un seno abbastanza largo per contenere tutti i nostri dolori, e dei sentimenti sufficientemente fecondi perché noi possiamo attingervi, senza timore di esaurirli.”

“Ebbene, signorina, occupandoci di questa fanciulla, ci occuperemo di voi. Ascoltate. Se volete fare la vostra salvezza, voi avete solo due vie da seguire, o lasciare il mondo o seguirne le leggi. Obbedire al vostro destino terrestre o al vostro destino celeste.”

“Ah! La vostra voce mi parla in un momento in cui volevo sentire una voce. Sì, Dio vi manda qui, signore. Dirò addio al mondo e vivrò solo per Dio in silenzio e ritirata.”

“È necessario, figlia mia, di riflettere a lungo prima di prendere questa violenta decisione. Il matrimonio è una vita, il velo una morte.”

“Ebbene! La morte, la morte subito, signor curato,” disse con una spaventosa vivacità.

“La morte! Ma avete dei grandi obblighi da assolvere nella società, signorina. Non siete la madre dei poveri ai quali date i vestiti, la legna d’inverno e il lavoro d’estate? La vostra grande ricchezza è un prestito che bisogna restituire, e voi questo l’avete santamente accettato. Seppellirvi in un convento sarebbe un atto di egoismo; quanto a restare zitella non dovete. Innanzitutto, come farete a gestire da sola la vostra immensa ricchezza? Forse la perderete. Avrete presto mille processi e sarete ingarbugliata in difficoltà inestricabili. Credete al vostro pastore: uno sposo vi è utile, voi dovete conservare ciò che Dio vi ha dato. Vi parlo come a una cara pecorella. Voi amate troppo sinceramente Dio per non trovare la vostra salvezza in mezzo al mondo, di cui siete uno dei più bei ornamenti, e al quale voi date dei santi esempi.”

In quel momento, madame des Grassins si fece annunciare. Veniva portata dalla vendetta e da una grande disperazione.

“Signorina,” disse. “Ah! Ecco il signor curato. Taccio, ero venuta per parlarvi di affari, e vedo che siete occupata.”

“Signora,” disse il curato, “vi lascio il campo libero.”

“Oh! Signor curato,” disse Eugénie, “ritornate tra qualche istante, il vostro appoggio mi è proprio necessario in questo momento.”

“Sì, mia povera bambina,” disse madame des Grassins.

“Che cosa volete dire?” chiesero mademoiselle Grandet e il curato.

“Non sapete del ritorno di vostro cugino, il suo matrimonio con mademoiselle d’Aubrion?… Una donna ha sempre l’intelligenza vigile.”

Eugénie arrossì e restò muta; ma prese la decisione di mostrare in futuro l’impassibile atteggiamento che sapeva prendere suo padre.

“Ebbene! Signora,” rispose con ironia, “certamente la mia intelligenza non è vigile, non capisco. Parlate, parlate davanti al signor curato, voi sapete che è il mio confessore.”

“Ebbene! Signorina, ecco cosa mi scrive des Grassins. Leggete.”

Eugénie lesse la seguente lettera:

“Mia cara moglie, Charles Grandet arriva dalle Indie, è a Parigi da un mese…”.

“Un mese!” si disse Eugénie lasciando cadere il braccio.

Dopo una pausa, riprese la lettera.

“…Ho dovuto fare per due volte anticamera, prima di poter parlare al futuro visconte d’Aubrion. Benché tutta Parigi parli del suo matrimonio, e tutte le pubblicazioni siano fatte…”

“Mi scriveva dunque nel momento in cui…” si disse Eugénie. Non concluse la frase, non esclamò come una parigina: “Lestofante!”. Ma pur non essendosi espressa, il disprezzo non fu meno completo.

“…Questo matrimonio è lungi dall’essere fatto. Il marchese d’Aubrion non darà mai sua figlia al figlio di un bancarottiere. Sono venuto a metterlo al corrente della cura che suo zio ed io abbiamo messo negli affari di suo padre, e delle abili manovre con le quali abbiamo saputo tenere i creditori tranquilli sino a oggi. Il piccolo impertinente ha risposto con una faccia tosta a me, che, per cinque anni, mi sono dedicato notte e giorno ai suoi interessi, e al suo onore, che gli affari di suo padre non erano i suoi. Un legale potrebbe chiedergli dai trenta ai quarantamila franchi di onorario, l’1 per cento sulla somma dei debiti. Ma pazienza, si devono ancora legittimamente un milione e duecentomila ai creditori, e farò dichiarare il fallimento di suo padre. Mi sono imbarcato in questo affare sulla parola del vecchio caimano Grandet, e ho fatto delle promesse a nome della famiglia. Se monsieur d’Aubrion si preoccupa poco del suo onore, io mi interesso molto al mio. Così spiegherò la mia posizione ai creditori. Tuttavia ho troppo rispetto per mademoiselle Eugénie, alla cui unione, in tempi più felici, avevamo pensato, per agire senza che tu le abbia parlato di questo affare…”

A questo punto, Eugénie restituì freddamente la lettera senza concluderla.

“Vi ringrazio,” disse a madame des Grassins, “questo lo vedremo…”

“In questo momento, avete proprio la voce del vostro defunto padre,” disse madame des Grassins.

“Madame, dovete versarci ottomilacento11 franchi in oro,” le disse Nanon.

“È vero; fatemi il favore di venire con me, madame Cornoiller.”

“Signor curato,” disse Eugénie con un nobile sangue freddo che le diede il pensiero che stava per esprimere, “è un peccato rimanere vergine durante il matrimonio?”

“Questo è un caso di coscienza di cui ignoro la risposta. Se voi volete sapere che cosa ne pensa nella sua summa De Matrimonio il celebre Sánchez,12 portei dirvelo domani.”

Il curato partì, mademoiselle Grandet salì nello studio di suo padre e vi passò la giornata da sola, senza voler scendere all’ora di cena, nonostante le insistenze di Nanon. Apparve la sera, nell’ora in cui i frequentatori abituali della sua cerchia arrivavano. Mai il salone di Grandet fu così pieno come lo fu quella serata. La notizia del ritorno e dello stupido tradimento di Charles si era diffusa in tutta la città. Ma per quanto fosse attenta la curiosità dei visitatori, non fu soddisfatta. Eugénie, che vi era attesa, non lasciò trasparire sul suo volto alcuna delle crudeli emozioni che l’agitavano. Seppe assumere un volto sorridente per rispondere a coloro che vollero testimoniarle dell’interesse con sguardi e parole malinconiche. Seppe infine tenere coperta la sua sofferenza dietro i veli della cortesia. Verso le nove, le partite si concludevano, e i giocatori lasciavano i loro tavoli, pagavano e discutevano le ultime mani di whist venendo ad aggiungersi alla cerchia di coloro che parlavano. Nel momento in cui l’assemblea si alzò in massa per lasciare il salone, ci fu un colpo di scena che risuonò in tutta Saumur, da lì nel circondario, e nelle quattro prefetture circostanti.

“Rimanete, signor presidente,” disse Eugénie a monsieur de Bonfons vedendolo prendere la sua canna.

A questa parola non ci fu nessuno che non si sentisse emozionato. Il presidente impallidì e fu costretto a sedersi.

“Al presidente i milioni,” disse mademoiselle de Gribeaucourt.

“È chiaro, il presidente de Bonfons sposa mademoiselle Grandet,” esclamò madame d’Orsonval.

“Ecco il colpo migliore della partita,” disse l’abate.

“È un bello slam,” disse il notaio.

Ognuno disse il proprio parere, ognuno fece la propria battuta, tutti vedevano l’ereditiera salita sui suoi milioni, come sopra un piedistallo. Il dramma iniziato da nove anni si avviava alla conclusione. Dire, di fronte a tutta Saumur, al presidente di restare, non era per annunciare che voleva fare di lui suo marito? Nelle piccole città, in cui le convenienze vengono severamente osservate, un’infrazione di questo genere rappresenta la più solenne delle promesse.

“Signor presidente,” gli disse Eugénie, con voce commossa quando furono soli, “so che cosa vi piace in me. Giuratemi di lasciarmi libera per tutta la mia vita, di non ricordarmi alcuno dei diritti che il matrimonio vi dà su di me, e la mia mano è vostra. Oh!” proseguì vedendo che si inginocchiava. “Non ho detto tutto. Non vi devo ingannare, signore, ho nel cuore un sentimento inestinguibile. L’amicizia sarà l’unico sentimento che potrò accordare a mio marito: non voglio né offenderlo, né contravvenire alle leggi del mio cuore. Ma voi possederete la mia mano e la mia ricchezza solo al prezzo di un immenso servizio.”

“Vedete, sono pronto a tutto,” disse il presidente.

“Ecco un milione e mezzo di franchi, signor presidente,” disse estraendo dal suo seno una ricevuta di cento azioni della Banca di Francia, “partite per Parigi, non domani, non questa notte, ma in questo istante stesso. Recatevi da monsieur des Grassins, fatevi dire i nomi di tutti i creditori di mio zio, riuniteli, pagate tutto quello che si deve della sua successione, capitale e interesse al 5 per cento dal giorno del debito sino a quello del rimborso, infine badate di farvi fare una ricevuta generale e registrata da un notaio, nelle forme dovute. Siete magistrato, mi fido solo di voi in questo affare. Voi siete un uomo leale, un galantuomo; mi imbarcherò sulla fiducia della vostra parola nell’attraversare i pericoli della vita al riparo del vostro nome. Noi avremo l’uno per l’altro una reciproca indulgenza. Noi ci conosciamo da così tanto tempo, siamo quasi parenti, non vorrete rendermi infelice.”

Il presidente cadde ai piedi della ricca ereditiera palpitando di gioia e di angoscia.

“Sarò il vostro schiavo!” disse.

“Quando avrete la ricevuta, signore,” continuò gettandogli uno sguardo gelido, “la porterete con tutti i titoli a mio cugino Grandet e gli consegnerete questa lettera. Al vostro ritorno, terrò fede alla mia parola.”

Il presidente capì, lui, che doveva mademoiselle Grandet a un dispetto amoroso, così si premurò di eseguire i suoi ordini con la più grande sollecitudine, affinché non si verificasse alcuna riconciliazione tra i due amanti.

Quando monsieur de Bonfons fu partito, Eugénie crollò sulla sua poltrona e scoppiò in lacrime. Si era consumato tutto. Il presidente prese la carrozza postale e si trovò a Parigi l’indomani sera. Nella mattinata successiva al giorno del suo arrivo, andò da des Grassins. Il magistrato convocò i creditori nello studio del notaio in cui erano depositati i titoli, e presso il quale non uno mancò all’appello. Benché fossero creditori, bisogna rendere loro giustizia: furono precisi. Lì, il presidente de Bonfons, a nome di mademoiselle Grandet, pagò loro il capitale e gli interessi dovuti. Il pagamento degli interessi fu per il commercio parigino uno degli eventi più sbalorditivi dell’epoca. Quando la ricevuta fu registrata e des Grassins pagato del suo operato con un donativo di una somma di cinquantamila franchi che gli aveva allocato Eugénie, il presidente si recò al palazzo d’Aubrion, e vi trovò Charles nel momento in cui rientrava nel suo appartamento, oppresso da suo suocero. Il vecchio marchese gli aveva appena dichiarato che sua figlia non gli apparteneva sino a quando tutti i creditori di Guillaume Grandet non fossero stati pagati.

Il presidente gli consegnò prima la seguente lettera.

“Cugino mio, il presidente de Bonfons è incaricato di rimettervi la ricevuta di tutte le somme dovute da mio zio e quella attraverso la quale riconosco di averle ricevute da voi. Mi hanno parlato di fallimento…! Ho pensato che il figlio di un bancarottiere non poteva forse sposare mademoiselle d’Aubrion. Sì, cugino mio, voi avete giudicato bene la mia mente e i miei modi di fare, senza dubbio non so niente del mondo, non ne conosco i calcoli, né i costumi, e non saprei darvi i piaceri che volete trovarvi. Siate felici, secondo le condizioni sociali, alle quali sacrificate i nostri primi amori. Per restituirvi completamente la felicità, posso dunque solo offrirvi l’onore di vostro padre. Addio, voi avrete sempre una fedele amica in vostra cugina

Eugénie”

Il presidente sorrise all’esclamazione che non poté reprimere l’ambizioso nel momento in cui ricevette l’atto autentico.

“Ci comunicheremo reciprocamente i nostri matrimoni,” gli disse.

“Ah! Sposate Eugénie. Ebbene! Sono contento, è una brava ragazza. Ma,” proseguì tutto d’un colpo in seguito a una riflessione luminosa, “è dunque ricca?”

“Aveva,” rispose il presidente con un’aria beffarda, “diciannove milioni circa, quattro giorni or sono; ma oggi ne ha solo diciassette.”

Charles guardò il presidente con un’aria ebete.

“Diciassette… mi…”

“Diciassette milioni, sì, signore. Mettiamo insieme, mademoiselle Grandet e io, settecentocinquantamila lire di rendita, sposandoci.”

“Mio caro cugino,” disse Charles ritrovando un po’ di sicurezza, “potremmo aiutarci a vicenda.”

“D’accordo,” disse il presidente. “Ecco, inoltre, una piccola cassetta che devo consegnare solo a voi,” aggiunse deponendo su un tavolo la cassetta che conteneva il suo nécessaire.

“Ebbene, mio caro amico?” disse la signora marchesa d’Aubrion entrando senza badare a Cruchot. “Non preoccupatevi per niente di quello che vi ha appena detto il povero monsieur d’Aubrion, al quale la duchessa di Chaulieu13 ha fatto perdere la testa. Ve lo ripeto, nulla impedirà il vostro matrimonio…”

“Niente, signora,” rispose Charles. “I tre milioni che un tempo mio padre doveva sono stati saldati ieri.”

“In contanti?” disse.

“Integralmente, interessi e capitale, e vado a far riabilitare la mia memoria.”

“Che stupidaggine!” esclamò la suocera. “Chi è questo signore?” disse all’orecchio di suo genero, accorgendosi di Cruchot.

“Il mio uomo di affari,” rispose a bassa voce.

La marchesa salutò sdegnosamente monsieur de Bonfons e uscì.

“Ci aiutiamo già,” disse il presidente prendendo il cappello. “Addio, cugino mio.”

“Si fa le beffe di me, questo cacatoa di Saumur. Ho voglia di infilzarlo con sei pollici di ferro in pancia.”

Il presidente era partito. Tre giorni dopo, monsieur de Bonfons, di ritorno a Saumur, fece le pubblicazioni del suo matrimonio con Eugénie. Sei mesi dopo era nominato consigliere alla Corte reale di Angers.

Prima di lasciare Saumur, Eugénie fece fondere l’oro dei gioielli così a lungo preziosi per il suo cuore, e li consacrò, così come gli ottomila franchi di suo cugino, a un ostensorio d’oro e ne fece dono alla parrocchia dove aveva pregato tanto Dio per lui. Suddivise il suo tempo tra Angers e Saumur. Suo marito, che mostrò lealismo in una circostanza politica, divenne presidente di una sezione del tribunale, e infine primo presidente dopo alcuni anni. Attese con impazienza la rielezione generale14 per avere un seggio alla Camera. Ambiva già al titolo di pari e allora…

“Allora il re sarà dunque suo cugino,” diceva Nanon, la Grande Nanon, madame Cornoiller, borghese di Saumur, alla quale la sua padrona annunciava le grandezze cui era chiamata. Tuttavia il signor presidente de Bonfons (alla fine aveva abolito il nome patronimico di Cruchot) non riuscì a realizzare alcuna delle sue idee ambiziose. Morì otto giorni dopo essere stato eletto deputato di Saumur. Dio, che vede sempre tutto e non colpisce mai a caso, lo puniva senza dubbio dei suoi calcoli e dell’abilità giuridica con cui aveva stilato, accurante Cruchot, il suo contratto di matrimonio in cui i due futuri sposi si davano l’uno all’altro, nel caso in cui non avessero avuto figli, l’universalità dei loro beni, mobili e immobili senza eccettuare né riservare nulla, in totale proprietà, facendo anche a meno della formalità dell’inventario, senza che l’omissione del suddetto inventario potesse essere opposto ai loro eredi o aventi causa, aspettando che la suddetta donazione fosse ecc. Questa clausola può spiegare il profondo rispetto che il presidente ebbe costantemente per la volontà, per la solitudine di madame de Bonfons. Le donne citavano il signor primo presidente come uno degli uomini più delicati, lo compiangevano e si spingevano spesso sino ad accusare il dolore, la passione per Eugénie, ma lo facevano con i più crudeli accorgimenti come fanno le donne verso un’altra donna.

“Bisogna che la signora presidentessa de Bonfons sia proprio sofferente per lasciare suo marito solo. Povera piccola donna! Guarirà presto? Che cosa ha dunque, una gastrite, un cancro? Perché non si fa visitare dai dottori? Da qualche tempo ha assunto un colorito giallo; dovrebbe andare a consulto dalle celebrità di Parigi. Come può non desiderare un figlio? Si dice che ami molto suo marito, perché non dargli un erede nella sua posizione? Sapete che ciò è orribile; e se fosse effetto di un capriccio, sarebbe condannabile. Povero presidente!”

Dotata di questo sottile tatto che il solitario esercita attraverso le sue continue meditazioni e dalla vista squisita con cui coglie le cose che rientrano nella sua sfera, Eugénie, abituata dalla sventura, e dalla sua ultima educazione a indovinare tutto, sapeva che il presidente desiderava la sua morte per impossessarsi della sua immensa fortuna, ancora accresciuta dalle successioni di suo zio notaio, e di suo zio l’abate, che Dio ebbe la fantasia di chiamare a lui. La povera reclusa aveva pietà del presidente. La Provvidenza la vendicò dei calcoli e dell’infame indifferenza di uno sposo che rispettava, come la più solida delle garanzie, la passione senza speranza di cui si nutriva Eugénie. Dare la vita a un bambino non era uccidere le speranze dell’egoismo, le gioie dell’ambizione accarezzate dal primo presidente? Dio gettò dunque una massa d’oro alla sua prigioniera alla quale l’oro era indifferente e che aspirava al cielo, che viveva, pia e buona, in santi pensieri, che soccorreva incessantemente gli sventurati di nascosto. Madame de Bonfons si trovò vedova a trentatré anni, ricca di ottocentomila lire di rendita, ancora bella, ma come è bella una donna a quasi quarant’anni. Il suo volto era bianco, riposato, calmo. La sua voce dolce e raccolta, le sue maniere semplici. Ha tutte le nobiltà del dolore, la santità di una persona che non ha insudiciato la sua anima a contatto con il mondo, ma anche la rigidezza di una vecchia zitella e le abitudini meschine che danno l’esistenza limitata della provincia. Nonostante le sue ottocentomila lire di rendita, vive come aveva vissuto la povera Eugénie Grandet, accende il fuoco della sua camera solo nei giorni in cui un tempo suo padre le permetteva di accendere il fuoco del camino nel salone, e lo spegne conformemente al programma in vigore nei suoi giovani anni. È sempre vestita come lo era sua madre. La casa di Saumur, casa senza sole, senza calore, sempre in ombra, malinconica è l’immagine della sua vita. Accumula con cura le entrate, e forse sembrerebbe parsimoniosa se non smentisse la maldicenza attraverso un nobile utilizzo della sua ricchezza. Fondazioni pie e caritatevoli, un ospizio per la vecchiaia e scuole cristiane per i bambini, una biblioteca pubblica riccamente fornita, sono testimonianze ogni anno contro l’avarizia che le rimproverano certe persone. Le chiese di Saumur le devono alcuni abbellimenti. Madame de Bonfons che, per canzonarla, è chiamata “mademoiselle”, ispira generalmente un rispetto religioso. Questo nobile cuore, che batteva solo per i sentimenti più teneri, doveva dunque essere sottoposto ai calcoli dell’interesse umano. Il denaro doveva comunicare le sue tinte fredde a questa vita celeste, e produrre della diffidenza per i sentimenti in una donna che era tutto sentimento.

“Solo tu mi vuoi bene,” diceva a Nanon.

La mano di questa donna medica tutte le piaghe segrete di ogni famiglia. Eugénie cammina verso il cielo accompagnata da un corteo di beneficenze. La grandezza della sua anima minimizza le piccolezze della sua educazione e i costumi della sua prima vita. Questa è la storia della donna che non è del mondo in mezzo al mondo; che, fatta per essere una sposa e madre magnifica, non ha marito, né figli, né famiglia. Da alcuni giorni si parla di un nuovo matrimonio per lei. Le persone di Saumur si interessano a lei e del signor marchese di Froidfond, la cui famiglia comincia ad accerchiare la ricca vedova come un tempo avevano fatto i Cruchot. Nanon e Cornoiller parteggiano, dicono, per gli interessi del marchese, ma niente di più falso. Né la Grande Nanon, né Cornoiller hanno un’intelligenza sufficiente per capire le corruzioni del mondo.

Parigi, settembre 1833

Isola delle Antille, che allora era un possedimento della Danimarca.

Ballerine orientali.

In qualunque modo.

Maria Carolina, duchessa di Berry, accesa legittimista.

Carlo X (1757-1836) fu re di Francia dal 1824 al 1830.

Ossia nelle Antille.

Titolo utilizzato nel Medioevo in Guascogna come sinonimo di capitano.

In francese la “demoiselle” significa la libellula.

Nel 1682 la signoria di Brézé, nell’Anjou, fu ceduta da Claire Clémence de Maillé, moglie del Gran Condé, a Thomas Dreux, nobile del Poitou; tre anni dopo la signoria fu trasformata in un marchesato e venne data al figlio Pierre nel 1686, che da quell’anno poté fregiarsi del titolo di marchese di Brézé.

10 Aria cantata dal conte d’Almaviva nelle Nozze di Figaro, musiche di Mozart, libretto di Lorenzo da Ponte (prima rappresentazione a Parigi il 20 dicembre 1807). D’Almaviva si fa beffe di Cherubino costretto a partire soldato: “Non più andrai, farfallone amoroso / notte e giorno d’intorno girando / delle belle turbando il riposo, / Narcisetto, Adoncino d’amor” (Atto I, scena VIII).

11 In realtà ottomila franchi.

12 Il gesuita spagnolo Tomá Sánchez (1550-1610) nel 1602 pubblicò le Disputationes de sancto matrimonii sacramento (Considerazioni sul santo sacramento del matrimonio).

13 Personaggio della Comédie humaine, Éléonore de Chaulieu è protagonista nel romanzo Mémoires de deux jeunes mariés (1842).

14 Le elezioni generali ebbero luogo nel giugno-luglio 1830.