sabato 1 maggio 2021

RICORDI: LA MONTANINA Loredana Canderle




RICORDI: LA MONTANINA
Loredana Canderle

Venne il tempo della scuola media. Passai l'estate all'insegna delle scorribande. Mi trovavo con i monelli del paese per saltare i "marei", cumuli di fieno che i contadini formavano per preservare l'erba dalla rugiada della notte e che, regolarmente, al mattino, trovavano appiattiti.
Andavamo tutte le sere a caccia di lucciole da rinchiudere in vasetti di vetro per farne delle piccole lanterne. Sembrava che sapessi che cosa mi sarebbe aspettato all'inizio della scuola.
I miei genitori mi convinsero a trasferirmi in città, presso amiche di famiglia che mi avrebbero ospitato.
Ero magra e lunga, secondo loro non avrei sopportato le alzatacce per prendere l'unica corriera  che partiva dal mio paese e che mi avrebbe portato nel collegio privato "La Montanina".
Troppo faticoso, per una undicenne quale ero io. Accettai a malincuore. Dovevo lasciare la mia famiglia e la mia libertà.
In un malinconico pomeriggio di settembre, mi affidarono al venditore ambulante Armando, dal quale mia madre compera a le bellissime stoffe, che aveva il compito di portarmi presso le signorine di Schio: due sorelle avanti con gli anni che vivevano con la madre ultraottantenne.
Fui accolta con una specie di affetto che non mi apparteneva, dormivo in sala da pranzo, su un divano. Non dimenticherò mai  il freddo interiore che mi attanagliava.
Il primo giorno di scuola, una delle due signorine mi accompagnò. Dovevo percorrere circa due km e dovevo imparare la strada, fissando i dei punti di riferimento.
In classe non conoscevo anima viva, eravamo una trentina di ragazzine e da subito, alcune, mi presero in giro per il mio accento stretto, da montanara. All'uscita mi incamminai per tornare a casa, ma ad un certo punto, mi persi. Mi sedetti sulla mia cartella di cuoio e mi misi a piangere.
Sì avvicinò un vigile e mi chiese:" Cossa gheto da piansare, bea putea".Gli risposi che no trovavo la strada e che ero senza la mamma. Il vigile mi rassicurò e mi riaccompagnò sulla via che non trovavo.
Trascorsi un anno doloroso, tornavo a casa il sabato pomeriggio e ripartivo il lunedì mattina con gli occhi e il cuore gonfi di dispiacere. 
Ogni domenica sera mi misuravo la febbre, con la speranza che fosse da cavallo. A 11 anni, abituata alla massima libertà, trovarmi in una città e imprigionata in casa, senza amici, fu un vero e proprio trauma durato un intero anno scolastico.
Guardavo le mie compagne di classe, serene e felici, loro tornavano in famiglia ogni giorno, io solo il sabato.
Studiavo senza imparare, leggevo e non riuscivo a concentrarmi, vivevo come in un limbo, sentendomi sempre fuori posto, inadeguata.
Mi rivedo ancora, con le lunghe trecce, spaesata, in un posto che non era il mio e anche adesso mi si stringe il cuore.
Fui promossa, ritornai a casa e dissi ai miei genitori  che la seconda media l'avrei frequentata nel collegio privato  a 12 km da casa mia e che avrei sopportato le alzatacce, la strada a piedi, il freddo, la fame, ma che non sarei mai più tornata in città.
Quell'anno mi ha lasciato dentro un senso di inadeguatezza che mi ha accompagnato fino all'università, ero sempre altrove, era diventato un habitus e che ancora adesso rispunta.
I miei genitori, allora, mi hanno protetto il corpo, evitandomi una fatica, ma, in buona fede, mi hanno straziato l'anima.