domenica 16 maggio 2021

LA CASA SULL'ARGINE Daniela Raimondi

LA CASA SULL'ARGINE 

Daniela Raimondi 


Presentazione

La famiglia Casadio vive da sempre nel borgo di Stellata, all’incrocio tra Lombardia, Emilia e Veneto. Gente semplice, schietta, lavoratrice. Poi, all’inizio dell’Ottocento, qualcosa cambia per sempre: Giacomo Casadio s’innamora di Viollca Toska, una zingara, e la sposa. Da quel momento, i discendenti della famiglia si dividono in due ceppi: i sognatori dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, che raccolgono l’eredità di Giacomo, e i sensitivi, che hanno gli occhi e i capelli neri di Viollca, la veggente. Da Achille, deciso a scoprire quanto pesa un respiro, a Edvige, che gioca a briscola con lo zio morto due secoli prima; da Adele, che si spinge fino in Brasile; a Neve, che emana un dolce profumo quando è felice, i Casadio vivono sospesi tra l’irrefrenabile desiderio di sfidare il destino e la pericolosa abitudine di inseguire i loro sogni. E portano ogni scelta sino in fondo, non importa se dettata dall’amore o dalla ribellione, dalla sete di giustizia o dalla volontà di cambiare il mondo. Ma soprattutto a onta della terribile profezia che Viollca ha letto nei tarocchi in una notte di tempesta...

 

La saga di una famiglia che si dipana attraverso due secoli di Storia, percorrendo gli eventi che hanno segnato l’Italia: dai moti rivoluzionari che portarono all’Unità fino agli Anni di Piombo. Una storia epica e intima insieme, un romanzo in cui immergersi per recuperare la magia dei sogni e ritrovare tutto ciò che ci rende davvero vivi.

 

 

Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna.

Ha pubblicato dieci libri di poesia che hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste letterarie. La casa sull’argine è il suo primo romanzo.


LA CASA SULL'ARGINE 


«Èper colpa di una zingara se la famiglia si è imbastardita.» Me lo ripeteva spesso mia nonna, grembiule bianco e maniche rimboccate fino ai gomiti, mentre si apprestava a tirare la sfoglia. Cominciava a raccontare la nostra storia partendo da quell’antenata gitana e intanto lasciava cadere le uova nel vulcano di farina. Un leggero movimento del polso, crac, partiva un uovo; un altro movimento, crac, partiva il secondo. Lavorava la pasta e intanto parlava, e piangeva, e rideva. Era certa che fosse per colpa del matrimonio di un nostro avo con quella zingara, avvenuto due secoli prima, se metà dei nostri parenti aveva la pelle chiara e gli occhi azzurri, mentre l’altra metà nasceva con i capelli corvini e gli occhi neri.

Non erano solo vaneggiamenti dovuti all’età. L’arrivo degli zingari nel paesino di Stellata, il luogo che ha dato i natali alla mia famiglia, è testimoniato da un documento vecchio di secoli che giace negli archivi storici della Biblioteca Ariostea di Ferrara.

La carovana di gitani era apparsa in paese in una giornata di pioggia apocalittica. Era novembre e ormai diluviava da settimane. I campi erano scomparsi sotto una spanna d’acqua; quindi erano spariti i sentieri, le strade, i cortili e infine la piazza. Per potersi muovere, la gente aveva cominciato a usare le barche. Stellata aveva finito per trasformarsi in una sorta di piccola Venezia, ma una sua versione misera, senza i palazzi e le gondole, con case malandate, imbarcazioni marce e le acque salmastre del fiume.

I carrozzoni si erano trascinati cigolando sul ponte di barche del Po, quindi avevano proseguito lungo lo stradone sull’argine. L’acqua batteva e le zampe delle bestie sprofondavano nella melma. Le ruote si erano incagliate, il legno scricchiolava, e i carrozzoni avevano finito per bloccarsi nel fango. Gli uomini avevano lavorato fino a tarda notte, cercando di liberarli, ma per cinque carrozzoni non c’era stato nulla da fare, e gli zingari si erano dovuti fermare in paese in attesa di un tempo migliore.

Quando la pioggia era cessata, i carrozzoni erano stati liberati e le ruote sostituite, ma una serie di eventi aveva fatto sì che la partenza dei forestieri venisse rimandata più volte: prima si era dovuto attendere l’esito di un parto difficile, poi qualcuno si era ammalato di dissenteria, infine un loro cavallo era morto. Quando gli zingari erano stati finalmente pronti a riprendere il cammino, era sopraggiunto uno degli inverni più rigidi del secolo e il paese era sprofondato nel gelo. Mettersi in viaggio era sembrata a tutti un’idea insensata.

Per rompere la monotonia del lungo inverno, qualche zingaro si tenne occupato ferrando i cavalli; altri iniziarono a vendere al mercato cesti di giunco, briglie, setacci e tamburelli; altri ancora cominciarono a suonare ai battesimi e ai matrimoni. Arrivò e finì la primavera; in estate, scoppiò il tifo e il paese venne isolato. Con il passare delle stagioni, la vita di quegli zingari venne irrimediabilmente segnata dal vizio della quotidianità.

Senza che gli abitanti di Stellata quasi se ne rendessero conto, il loro astio verso i nuovi arrivati si trasformò in abitudine. I vecchi morivano, i bambini nascevano e i giovani s’innamoravano senza badare troppo alle differenze. Fatto sta che, in poche generazioni, un terzo degli abitanti di Stellata si ritrovò nelle vene sangue zingaro.

È qui che entra in scena il mio trisavolo, Giacomo Casadio. A Stellata era conosciuto come un tipo solitario, dal temperamento malinconico. La natura lo aveva però dotato di una grande immaginazione e ben presto si era manifestato in lui l’estro del visionario. Il suo sogno era costruire barche, ma non le solite, modeste imbarcazioni che si vedevano passare lungo le rive del Po. Lui aveva in mente vascelli con stive capaci di contenere non solo grano, legname, canapa e animali da cortile, ma anche vacche e cavalli. In poche parole: Giacomo Casadio progettava qualcosa di molto simile all’Arca di Noè.

L’idea gli era venuta da piccolo, in canonica. Sfogliando una Bibbia, si era imbattuto in un’immagine dell’arca pronta a salpare. Era bellissima, con la pancia tonda, le teste di leoni e giraffe che uscivano dalle finestrelle, e più sotto le file di anatre, di galli e di galline, e poi le coppie di capre, dromedari, pecore e asinelli. Una barca capace di sfidare il Diluvio Universale e di salvare tutti gli esseri viventi della Terra! Quell’immagine biblica aveva gettato il seme della sua ossessione. Una volta cresciuto, Giacomo aveva cominciato a costruire arche nel cortile di casa. Ci aveva pensato a lungo: il fiume era da sempre la via di trasporto più veloce per il continuo via vai di persone, carri e bestie; e c’erano i pescatori, i ranari, i sabbiaroli... Stellata, dove il Po era ampio e profondo, poteva trasformarsi in un grande porto fluviale.

Gli ci erano voluti tre anni per terminare il progetto. Quando l’arca fu pronta, Giacomo attese il 4 dicembre, giorno dedicato a santa Barbara, protettrice dei marinai, per vararla.

Quel mattino in paese c’era grande agitazione. L’intero borgo era sull’argine per godersi lo spettacolo. Arrivò anche il prete con il crocifisso, i chierichetti e l’acqua santa. Un enorme carro tirato da dodici buoi spinse l’imbarcazione sino al fiume. Giunti alle sue sponde melmose, gli uomini più forti iniziarono a trascinare l’arca, spostando l’uno dopo l’altro i tronchi su cui poggiava per farla scivolare prima giù dal carro, poi lungo la riva. Ci furono grida di stupore, incitazioni, parecchi traballamenti e trepidanti momenti d’attesa, ma alla fine l’arca fece il suo ingresso nel Po. Un fragore di esclamazioni e applausi si levò tutt’intorno.

Con il suo lungo passo dinoccolato e l’aria trionfante, Giacomo salì a bordo. Salutava la folla radunata lungo la riva con gli occhi azzurri che luccicavano, il petto gonfio d’emozione. Mai nella sua vita aveva provato una simile felicità.

Purtroppo l’arca non andò lontano; in meno di un’ora, scese a picco sul fondale.

L’uomo cadde in un profondo stato di abbattimento, che durò tutto l’inverno. I suoi erano così allarmati che alla fine il padre gli suggerì di riprovare. «At ghè ’na testa fina. La prósima volta la to barca at’la porti fin al mar!» disse con convinzione.

Spinto da quell’incoraggiamento, Giacomo superò lo sconforto e iniziò a costruire una seconda arca, ma non ebbe miglior fortuna. Arrivò a fabbricarne una mezza dozzina, e l’una dopo l’altra finirono tutte per affondare. A onor del vero, un paio stettero a galla per giorni. Con la sesta, poi, Giacomo raggiunse addirittura Comacchio e il delta del Po ma, proprio quando pensava di essere riuscito nella sua impresa, l’imbarcazione iniziò a riempirsi d’acqua e in poche ore colò a picco. In quel punto, il livello del fiume era basso e si racconta che per generazioni i pescatori di anguille furono in grado di scorgere l’albero maestro che spuntava dalle acque.

Tra un fallimento e l’altro, Giacomo viveva lunghi mesi di prostrazione, talmente debilitanti che non riusciva nemmeno a lavorare nei campi. Poi, d’improvviso, subentravano periodi di euforia e il sogno di costruire un’arca tornava a ossessionarlo. Giunse però il momento in cui anche il padre perse la pazienza. «Adès basta! At zsé sta bon ad fundáran sié. Tuti zo in d’al Po com ad li predi!»

Ma, nonostante le sei barche affondate nel Po come pietre, il sogno di Giacomo era grande, e i suoi sapevano che costruire arche era l’unica cosa che portasse un poco di felicità nella vita di quel figlio, malinconico fin da quando stava nel ventre di sua madre. Così, nel giro di qualche mese, il cortile tornava a trasformarsi in un cantiere navale con impalcature, pile di assi, secchi di chiodi, funi, tenaglie, seghe e rotoli di cime multicolori. E, in mezzo a tutto quel groviglio di legname e utensili, c’era Giacomo che piallava, inchiodava e incollava giunture. Ogni volta che terminava una barca, attendeva giudiziosamente il giorno di Santa Barbara per vararla, ma la protettrice dei marinai non gli fu mai d’aiuto e le imbarcazioni finirono tutte per affondare.

Quando non lavorava nei campi, o non era preso dalla costruzione di una nuova arca, Giacomo passava il tempo da solo. Aveva pochi amici e un autentico terrore delle donne, tanto che giunse all’età di quarantacinque anni senza aver mai avuto una fidanzata. Poi, durante una festa di paese, una zingara incrociò il suo cammino. Lui l’aveva già notata da tempo: era alta, con un corpo flessuoso e una massa di capelli neri che le arrivava fino alla vita. Se ne andava in giro per Stellata con fare spavaldo, i sottanoni colorati, una moltitudine di penne di fagiano tra i capelli, vistosi anelli alle dita e numerose collane sul petto. Giacomo l’aveva sempre evitata, intimidito dalla sua baldanza; in più provava diffidenza per quella strana gente. Però quel giorno la zingara gli andò vicino e lo fissò dritto negli occhi. Quando gli rivolse la parola, lui trasalì e cercò di svignarsela, ma la ragazza lo afferrò per un braccio. «Dove vai? Mica ti mangio. Voglio solo leggerti il futuro.»

«Lasa pèrdar. Il mio destino lo conosco senza che me lo vieni a dire te.»

Voleva scappar via, ma lei non si diede per vinta e gli prese le mani. «Fammi vedere. Viollca non sbaglia mai.»

Non gli lesse il futuro. Gli osservò solo i palmi, poi gli strinse le mani nelle sue, sgranò gli occhi e annunciò: «Sei arrivato, finalmente! Erano anni che ti aspettavo».

Pochi mesi dopo, Viollca era incinta e, contro la volontà di entrambe le famiglie, i due si sposarono.

1800

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Era un borgo di poche centinaia di abitanti, raccolto tra la strada e il fiume; un paese povero, ma con un nome tanto bello da non sembrare vero. A parte quello, però, di poetico a Stellata non c’era granché: una piazza con i portici, un’umile chiesa del XIV secolo, due fontane per l’acqua e i ruderi di un antico forte accanto al fiume. Pochi sapevano delle sue origini gloriose. Fin dal Medioevo, Stellata era stata un punto di difesa strategico contro i tentativi di conquista di Venezia e Milano, situata com’era sul Po e nel punto d’incontro tra gli attuali Veneto, Lombardia ed Emilia. Lucrezia Borgia ci era passata più volte nei suoi viaggi verso Mantova, e a Stellata aveva vissuto anche il figlio dell’Ariosto. Ma solo don Mario, il parroco, ne era a conoscenza, anche perché metà del paese era analfabeta e per l’altra metà restava comunque un mistero il fatto che il poeta avesse nominato quel misero villaggio nel canto XLIII dell’Orlando Furioso.

 

Restò Melara nel lito mancino;

nel lito destro Sermide restosse;

Figarolo e Stellata il legno passa,

ove le corna il Po iracondo abbassa.

 

Agli inizi del XIX secolo, il passaggio di legno fra Ficarolo e Stellata c’era ancora. Si trattava di un ponte galleggiante formato da vecchie barche di legno, legate l’una all’altra con grosse funi, probabilmente non molto diverso da quello citato dall’Ariosto secoli prima. Della fortezza invece rimanevano soltanto travi marce, tetti sfondati e cacche di pecora disseminate ovunque.

I Casadio vivevano appena fuori del paese, nella località detta «La Fossa» per via del canale che, nel bel mezzo della loro terra, segnava il confine tra le province di Ferrara e di Mantova. La loro casa era una costruzione di mattoni tipica della pianura padana, con il portico ad archi, le stanze ariose e i soffitti alti. C’erano un fienile, la stalla, il cortile di terra battuta, un porcile e la vigna. I muri erano senza intonaco e aveva finestre piccole, con le persiane tenute chiuse da maggio a ottobre per evitare le mosche e il caldo.

Viollca vi si trasferì dopo il matrimonio con Giacomo. I suoceri faticarono non poco ad abituarsi alle strane usanze della nuova arrivata. Da parte sua, la zingara non scese mai a compromessi: continuò a vestirsi con i suoi sottanoni multicolori e a ornarsi i capelli con penne di fagiano. La mattina, appariva reggendo un vecchio mortaio e passava ore a preparare infusi con erbe e strane radici.

Si dedicava anche a elaborati rituali di pulizia che dovevano eliminare ogni contaminazione.

«Non possiamo vivere tranquilli finché qui ci sarà qualcosa marhime», ripeteva.

«Mari... che?» le chiedeva la suocera, turbata.

Ciò che fosse o non fosse marhime, cioè «contaminato» in lingua romaní, era sancito dalla divisione tra l’interno e l’esterno della casa. Viollca si occupava di mantenere le stanze meticolosamente pulite e in ordine, mentre le stalle e l’aia erano responsabilità di altri membri della famiglia. Per lei, infatti, toccare i rifiuti o gli escrementi degli animali costituiva una delle più gravi forme di contaminazione. Non andò mai a lavorare nei campi, perché per la sua gente coltivare la terra era un tabù; riservava invece molta cura al modo di cucinare i cibi, anche se, secondo lei, solo alcuni animali potevano essere mangiati o addirittura toccati. Odiava cani e gatti perché si leccavano e per questo erano impuri. Di tutte le carni, la sua preferita era quella del porcospino, animale considerato tra i più puliti proprio perché, dati gli aculei, non poteva leccarsi.

Un’altra strana abitudine di Viollca era mettere ogni sera una ciotola di latte sul gradino appena fuori dalla porta.

«Cosa fai?» le chiese Giacomo la prima volta che la vide compiere quel rito.

«È per il serpente buono», rispose lei con fare tranquillo.

Gli zingari credevano che, nelle fondamenta di ogni casa, vivesse un serpente buono, dalla pancia bianca e con i denti senza veleno. E pensavano che ogni notte questo serpente strisciasse sulle persone che dormivano, per proteggerle e portar loro fortuna. Se però il serpente fosse stato ammazzato, qualcuno della famiglia sarebbe morto e su tutti gli altri si sarebbe abbattuta una serie di disgrazie. Per questo Viollca metteva sempre un po’ di latte fuori dalla porta: per ringraziare il serpente e nutrirlo durante le sue escursioni notturne.

«C’la sigagna l’è tuta mata! Quella zingara è pazza!» si lamentavano i suoceri. Allo stesso tempo, però, osservavano compiaciuti la trasformazione che la giovane donna aveva portato nella vita di Giacomo. Quel figlio, da sempre malinconico, ora cantava ogni mattina facendosi la barba, e la notte scandalizzava la famiglia per i gorgheggi inequivocabili che uscivano dalla sua stanza da letto. Fu per amore di Giacomo che i suoi impararono a convivere con le stranezze della nuora. E dovettero pure ammettere che i misteriosi intrugli di Viollca funzionavano.

«Sono una drabarno e ogni drabarno sa come curare», assicurava la zingara. «Per i cavalli so cosa fare, e per gli uomini è uguale. Se a un cavallo prende il dolore alla pancia, allora ci vuole qualcuno che ha le dita così, vedi? Che indice e mignolo si toccano dalla parte di sopra senza sforzarli. Prendi la paglia che sta sotto il cavallo, e con quelle dita così ce la butti sopra. La getti via, poi la riprendi e la metti ancora sopra la bestia. Per tre volte, e il cavallo è guarito. Però per gli uomini ci vuole anche una testa di volpe, solo le ossa, e berci dentro questo infuso. Ecco, tenete», diceva al suocero. «Da questa testa di volpe hanno bevuto anche i bambini e non c’è mai stato bisogno di nessun dottore. Adesso masticate questo.»

«Cus a ghè déntar?» chiedeva lui.

«Ci metto la polvere di mostarda e il succo di certe radici che so io. Ci faccio delle palline e voi le dovete inghiottire prima e dopo il sonno. È per togliervi il fuoco dai polmoni. Adesso ripetete: ’Gesù è stato colpito, gli ebrei si sono seduti sul suo petto, Dio li ha scacciati. Un demonio è seduto sul mio petto. Donne bianche, allontanatelo e mettete su di lui una grossa pietra!’»

«Dio non esiste!» ribatteva il vecchio, battendo il pugno sul tavolo.

«Non m’importa se ci credete o no, basta che adesso mandate giù», commentava lei senza scomporsi.

 

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Il giorno 18 del terzo mese del nuovo secolo, nacque l’unico figlio di Giacomo e Viollca Casadio: un maschio di quattro chili, con i capelli corvini e lo stesso sguardo selvatico della madre. Ancora sporco di parto, il bambino aprì gli occhi e si guardò intorno con un fare inquisitorio che spaventò la levatrice.

«Maria santissima... Al gà du oc cal par un vec!Ha due occhi che pare un vecchio!» esclamò la donna.

Il neonato nemmeno piangeva. Girava la testa a destra e a sinistra, scrutando il mondo, assorbito da tutte le novità che di colpo gli si erano aperte davanti.

Viollca mise da parte un pezzo del cordone ombelicale e spiegò: «Una volta seccato, lo cucio in un sacchetto e glielo appendo al collo. Gli porterà fortuna».

Non appena il bambino fu lavato, lo allattò al seno destro, lato che simboleggiava la verità, la fortuna e il bene. Quando poi giunse il momento di scegliere il nome, lei annunciò: «Lo chiameremo Dollaro».

«Che nome è?» chiese Giacomo.

«Mi hanno detto che è una moneta. Se lo chiamiamo così, non soffrirà mai la fame.»

 

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Anche don Mario mostrò lo stesso scetticismo, non potendo prevedere che, con quel battesimo, iniziava una secolare, inutile guerra della parrocchia contro gli stravaganti nomi che i Casadio avrebbero scelto per i nuovi nati.

«Il denaro è lo sterco di Satana. Nessun ’Dollaro’ riceverà mai il battesimo nella mia chiesa!» tuonò il prete. «Ci vuole il nome di un santo che protegga la creatura e sia di buon auspicio, altrimenti non se ne fa niente.»

Diede a Giacomo e a sua moglie un libro che conteneva i nomi di tutti i santi riconosciuti dalla Chiesa, con il giorno a loro dedicato e con tanto di elenco dei miracoli attribuiti a ognuno di essi.

La coppia non andò oltre le prime righe. Dopo Abbondio, Abramo e Abruncolo, Viollca si soffermò su sant’Acario: patrono dei caratteri difficili, invocato contro la follia, ottimo per evitare matrimoni infelici e prevenire la rabbia. Le sembrò un bel santo e i suoi miracoli erano spettacolari, così alla fine diede il suo consenso. Il bambino fu dunque battezzato con il nome di Acario ma, durante la sua lunga vita, tutti lo conobbero solo come «Dollaro».

Il figlio di Viollca non avrebbe suscitato solo la perplessità della comare che lo aveva tirato fuori dalla pancia della madre. In breve tempo, i Casadio si resero conto che, del loro sangue, aveva preso poco: forse il corpo magro, il modo di camminare trascinando le gambe e quell’essere sempre sovrappensiero. Per tutto il resto, il bambino era l’erede del misterioso universo della madre. Imparò a parlare prima ancora di reggersi in piedi e da subito dimostrò di possedere una chiacchiera inarrestabile. La parola per Dollaro non era una necessità, ma una vocazione. Nel momento stesso in cui apriva gli occhi, iniziava a conversare con chiunque. Se non c’era nessuno, parlava da solo.

Anche Viollca aveva cominciato a parlare prima di compiere un anno; per quello, nel clan dov’era nata, dicevano fosse posseduta dal demonio e avevano paura di lei. Nessuno pensò mai che Dollaro fosse indemoniato, nemmeno il prete che in verità si affezionò al bambino e, negli anni, pure lui finì per chiamarlo con quel nome blasfemo. Indemoniato, no. Però, strano, Dollaro lo era di sicuro. Poteva comunicare con le bestie e, tale e quale la madre, se sparivano cose o animali, aveva il dono di ritrovarli. Non era raro che qualche vicino bussasse alla porta dei Casadio in cerca d’aiuto.

«Viollca, a m’è sparì al cavál

Lei allora portava Dollaro sulla riva del Po, lo sollevava sopra la corrente e recitava: «Oh, Nivaseya, per gli occhi neri di questo bambino, per il suo sangue di zingaro, dov’è il cavallo? Puro è il bambino, puro come il sole, come l’acqua e la luna e il latte più fresco. Dimmi, Nivaseya, per gli occhi neri di mio figlio: dov’è il cavallo?»

Prima di sera, di sicuro l’animale tornava a casa, o il padrone se lo ritrovava sul cammino.

Quello che nemmeno sua madre sapeva era che Dollaro poteva sentire le voci dei morti. Già verso i cinque anni, quando andava al cimitero, il bambino aspettava che i visitatori uscissero, poi si sedeva fra le tombe ad ascoltare le anime che parlavano tra loro. Mai si rivolgevano a lui, né sembravano accorgersi della sua presenza. Un pomeriggio, però, l’anima di una bambina aveva risposto alle sue chiacchiere. Si chiamava Susanna e gli aveva detto che stava sotto la terra da molto prima che lui nascesse. Da quel giorno, Dollaro aveva preso l’abitudine di andare a trovarla.

«Susanna, come stai? Senti freddo lì sotto?» le chiedeva.

«Quando piove, l’acqua mi gocciola negli occhi, ma non importa, tanto non ci accorgiamo più del freddo né del caldo. Però mi manca il sole.»

«Non ti viene mai fame?»

«No, mai. Ma tu, cosa stai mangiando?»

«Ho raccolto delle more.»

«Ah, che buone! Dimmi di cosa sanno.»

«Sanno... sanno di more. Ecco, prova.»

Stringeva il pugno e lasciava cadere il succo dei piccoli frutti dentro la terra. Susanna rideva, anche se la sua bocca non poteva più gustarne la dolcezza. Ma non tutti i morti erano come lei. A volte, sopra il camposanto, passava l’anima di una pazza. Di colpo i rami degli alberi si piegavano e si alzava un vento tanto forte da flettere i cipressi fin quasi a terra e fare volar via foglie di pioppo, fiori, scaglie di legno, semi dei campi.

«Ma perché urla in quel modo?» chiedeva Dollaro.

«È la Virginia. Sta chiamando il suo bambino morto. Si è ammazzata il giorno del funerale e da allora lo sta ancora cercando.»

Quando l’anima di Virginia passava là vicino, le sue grida si confondevano con il fragore dei tuoni e la furia del vento che ogni volta seguivano i suoi lamenti.

«Odio questa pioggia! Senti come graffia! I fiori sono tutti morti e il mio bambino piange... Dov’è adesso? Lo sentite?... Ha fame del mio latte... Dov’è? Dove? Dove?...»

Infine quella voce tremenda si allontanava. Il vento cessava, gli alberi tornavano immobili. Dollaro rimaneva muto, le gambe che tremavano. Poi chiamava Susanna per farsi coraggio, ma la sua amica raramente rispondeva; forse si era addormentata. Allora lui guardava in alto: il cielo era di nuovo azzurro. Poi una moltitudine di farfalle cadeva ai suoi piedi. Le loro ali coprivano le tombe con i loro colori.

 

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Da quando si era sposata con Giacomo, Viollca aveva interrotto i rapporti con la sua famiglia d’origine. Benché ormai gli zingari si fossero adeguati ai costumi locali, molti si opponevano ancora ai matrimoni misti. «Se sposi un gagé, la nostra porta rimarrà chiusa per te e per i tuoi figli», l’aveva avvertita il padre. Così era stato, e nemmeno la nascita di Dollaro era riuscita a ricucire i legami.

L’amore che la univa a Giacomo aiutava la donna a sopportare quella separazione. Le abitudini gitane però lei non volle mai abbandonarle, anche se alla fine furono proprio queste a causare attriti nel matrimonio. Giacomo le permise di abbigliarsi nel suo modo eccentrico, ma le proibì la pratica delle arti divinatorie; così, a malincuore, Viollca dovette riporre i tarocchi dentro una scatola in fondo all’armadio.

L’educazione di Dollaro era un altro motivo di scontro. Mentre i Casadio tenevano all’obbedienza e alla disciplina, la zingara desiderava che il figlio crescesse libero e sicuro di sé. Così, già da quando lui aveva cinque anni, gli permetteva di gironzolare in paese fino a sera inoltrata e, non appena il figlio ebbe imparato a stare a galla, lo lasciò nuotare da solo nel Po.

«Ha sei anni! Lo vuoi fare annegare?» la rimproverava Giacomo.

«Non gli succederà niente. Io gli insegno la libertà e il coraggio.»

Quando giunse per il bambino il momento d’iniziare la scuola, Viollca cercò di opporsi. «A che gli serve? Ci vuole altro per diventare un uomo.»

«Dollaro andrà a scuola come ogni buon cristiano. E questo è tutto», insistette Giacomo. E quella volta l’ebbe vinta lui.

I battibecchi non intaccarono l’armonia della coppia, ma nemmeno l’amore riuscì a sconfiggere la profonda tristezza radicata in Giacomo fin da prima della sua nascita. A niente servirono gli infusi della moglie, la sua devozione o l’affetto del figlio. Giunse il giorno in cui neppure l’idea di cominciare la costruzione di una nuova arca riuscì più a entusiasmare l’uomo. Passava le giornate chiuso in casa, senza mai dire una parola. Smise di lavorare, poi di mangiare, e infine di vivere.

Certe notti, Viollca si svegliava di soprassalto e se lo trovava in piedi accanto al letto, il viso pallido, gli occhi azzurri spalancati. «Gesù!... Cosa fai lì?» trasaliva.

«Vado a impiccarmi al caco, così almeno ti liberi.»

«Che dici? Dai, vieni a letto, se no ti pigli una polmonite», lo rimproverava lei.

Giacomo scrollava le spalle. Si avvolgeva nel tabarro e usciva, sparendo subito nella nebbia. Dalla strada sull’argine, incrociava i pescatori di storioni. Arrivavano che era ancora buio, trascinando nei loro carretti le grandi reti per la pesca. Erano lunghe anche ottanta metri e costava molta fatica caricarle sulle barche. Giacomo vedeva gli uomini prendere il largo e remare verso il centro del fiume sino a sparire nella notte. Nel caso avessero catturato un esemplare adulto, ci sarebbe voluta la forza di molte braccia per caricarlo nelle barche; gli storioni, infatti, potevano anche superare i due quintali.

Fermo sull’argine, Giacomo fissava lo sguardo in direzione dell’acqua, ma nel buio e nella nebbia non riusciva a distinguere nulla. Sentiva solo le voci dei pescatori e il rumore delle reti gettate nella corrente. Se erano fortunati, gli uomini avrebbero catturato qualche storione e poi diviso il guadagno. Con la vendita di uno solo, ci si manteneva una famiglia per settimane.

Giacomo tornava a casa quando il cielo schiariva. Scivolava nel letto, attento a non svegliare la moglie, e passava ore a fissare il soffitto. Le macchie di umidità vi si allargavano sopra come fiori mostruosi, finché il riflesso di un sole malato non filtrava attraverso le persiane. Lui pensava agli storioni che potevano vivere fino a cent’anni. Cosa facevano mai, tutto quel tempo? Cent’anni, e lui neanche sapeva come avrebbe sopportato quella giornata.

Neppure la presenza del figlio gli dava conforto. Lo infastidiva averlo intorno e non sopportava il suo continuo cicaleccio. «Tasi! Se no ti taglio la lingua e te la faccio mangiare!» gli urlava di tanto in tanto.

Subito dopo, si pentiva di quello scatto d’ira. Guardava il bambino, di colpo muto. Allora se lo prendeva in braccio e lo abbracciava tanto stretto da fargli male. «La colpa l’è mea», diceva. Poi lo prendeva per mano e se lo portava appresso a passeggiare lungo il fiume.

Camminavano l’uno vicino all’altro senza dire una parola: lo stesso passo dinoccolato, gli occhi fissi sulla terra come fossero in cerca di qualche tesoro nascosto. Scendevano l’argine tra i rovi e le piante di sambuco, poi attraversavano il bosco di pioppi fino a raggiungere le golene che d’inverno si coprivano di una lastra di ghiaccio. Dollaro ci guardava dentro, affascinato dai piccoli oggetti che brillavano sotto la superficie luccicante: la foglia di un acero, una spiga, un pesciolino morto.

«Pa’, dove vanno a dormire i pesci?»

«Non lo so. Forse non dormono. Forse loro non sono mai stanchi.»

Lui invece era troppo stanco per andare avanti, e qualche giorno dopo s’impiccò. Non al caco dietro casa come aveva annunciato tante volte, ma a una trave della stanza da letto.

Lo trovarono che dondolava ancora. Lo tirarono giù e distesero il corpo sul grande tavolo di rovere della cucina. Viollca insistette per prepararlo da sola. Fece uscire tutti dalla cucina e chiuse la porta. Lo lavò, poi gli mise addosso il vestito di panno scuro del matrimonio, cercando di far sparire dal collo i segni della sua ultima lotta e dal viso l’espressione triste che nemmeno la morte era riuscita a portarsi via. Dalla stanza accanto, la famiglia la sentì singhiozzare, imprecare contro il destino, sussurrare al marito parole d’amore e poi rinfacciargli d’averla lasciata con un figlio da crescere.

«Dov’è Dollaro?» chiese di colpo la suocera. Erano così affranti che si erano scordati del bambino. Si misero a cercarlo su e giù per la casa. Lo chiamarono a lungo, ma inutilmente. Quando Viollca riaprì la porta, la informarono, agitati, che Dollaro non si trovava. La zingara si concentrò, cercando di scovare il figlio fra i suoi pensieri, poi, risoluta, si diresse verso il cimitero.

Dollaro era seduto sulla tomba di una bambina. Se ne stava curvo, il mento abbassato. A Viollca sembrò di colpo più minuto, come rattrappito. Per un momento, le parve un piccolo vecchio.

«Che fai lì? Hai fatto spaventare tutti», lo riprese.

Lui sollevò il viso. Aveva gli occhi rossi e sembrava impaurito. Viollca gli s’inginocchiò davanti e lo abbracciò senza aggiungere una parola.

 

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Alla veglia, i parenti osservavano l’espressione sconsolata che Giacomo si portava ancora sul viso. Lo vegliavano ancora quando, dal campanile della piazza, rintoccarono tre colpi.

«Sarà meglio provare a dormire per qualche ora. Ci aspetta un giorno difficile», suggerì Viollca.

Spensero a una a una le lampade a olio. Lasciarono accese solo le quattro grosse candele disposte agli angoli del tavolo su cui giaceva Giacomo, poi andarono a coricarsi.

Dopo pochi minuti, la porta della cucina scricchiolò. Dollaro diede un’occhiata all’intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno, quindi raggiunse il padre.

Gli sfiorò il viso, spaventoso e bellissimo, poi passò la mano davanti alle narici per assicurarsi che lui non respirasse. Di colpo, gli sembrò di vedere gli occhi del babbo muoversi, seguire i suoi movimenti nella penombra. Fece un balzo indietro e osservò il padre da una certa distanza. Si mosse a destra, poi a sinistra, con grande cautela. Attese qualche secondo, ma alla fine fu vinto dalla curiosità.

Si avvicinò di nuovo al tavolo, centimetro dopo centimetro. Avrebbe giurato che lui gli stava sorridendo. Si fece coraggio e gli andò più vicino. «Ma siete morto?» chiese alla fine.

«Così dicono», gli rispose il padre con un sospiro.

«E cosa si sente quando si è morti?»

«È come quando sogni che corri, ma non ci riesci, o vuoi gridare, ma non ti esce la voce.»

«Come nei quadri?» chiese allora Dollaro, ricordando i dipinti in chiesa.

«Sì, che le cose sembrano vere e pensi quasi che le puoi prendere, ma non ci riesci.»

«Se ci volevate bene non c’era bisogno di morire», disse di colpo il bambino.

«Certo che vi voglio bene. Tanto ve ne voglio, a te e alla mamma. Ma a volte non basta.»

«Perché?»

Giacomo non riuscì a trovare una risposta.

Dollaro pensò che suo padre non era stato capace di vivere per tutta la malinconia che aveva dentro; Susanna invece rideva anche sotto la terra. Concluse che solo chi è triste nella vita continua a esserlo dopo la morte. «Ma vi sentite meglio adesso che siete morto?» gli domandò a quel punto.

«Almén ho fnì ad tribulár», sospirò di nuovo.

Padre e figlio chiacchierarono a lungo di morte e di frittelle dolci, dei giochi preferiti di Dollaro, di cavalli, della gente di Stellata e dei pesci del Po che non dormivano mai. Il bambino raccontò anche al suo babbo di Susanna e delle urla spaventose di Virginia.

Man mano che parlava, si accorse che il padre non era più tanto triste. Allora gli chiese: «Pa’, ci tornereste a essere vivo?»

A quella domanda, Giacomo cambiò discorso, si lamentò di essere stanco.

«Ma che dite! Voi morti mica vi stancate.»

«Come no. Anche noi abbiamo bisogno di riposare, cosa credi?»

Dollaro allora lo baciò sulla fronte, più volte. Infine uscì dalla cucina, ma senza girarsi, incapace di staccare lo sguardo dal viso del suo babbo.

 

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Giunto il mattino, accompagnarono Giacomo al cimitero. Fu un funerale senza messa perché la Chiesa non perdonava i suicidi, però alla fine il prete acconsentì a benedire il corpo e permise che lo mettessero nella cappella di famiglia. Lungo il perimetro dei muri, c’erano diversi loculi. Posta al centro, stava la tomba più grande dove, sotto una pesante lastra di marmo, giacevano i cadaveri più recenti.

Tornata a casa, Viollca andò nella camera da letto, aprì l’armadio e scaraventò fuori i vestiti del marito. Era tutta scarmigliata e buttava a terra gli abiti di Giacomo con tanta furia che la famiglia ne fu turbata. Infine portò in cortile camicie, braghe e mutande dell’uomo che aveva amato e bruciò tutto, come si usava fare tra la sua gente con gli abiti dei morti.

I parenti osservavano il falò stupefatti. Qualcuno disse che bisognava fermarla, che era un brutto gesto liberarsi così in fretta delle cose di un defunto.

«È il dolore. Lasciatela stare, poveretta», la scusarono i suoceri.

 

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Quella sera, Viollca, sopraffatta dal lutto, non riusciva a prendere sonno. Rifletteva sul fatto che la colpa per quella sofferenza era sua: si era innamorata di un gagé e per questo era stata punita. Avrebbe dovuto sposare qualcuno scelto dal padre, come avevano fatto le sue sorelle. Lui di sicuro le avrebbe trovato un uomo forte e sano, un marito solido, non come Giacomo, con quelle sue fantasie pericolose.

Poi Viollca si soffermò sul figlio. Dollaro era strano. Da quando andava a scuola, poi, pensava troppo, e quello poteva portargli solo guai. In più, quell’abitudine di passare giornate intere in mezzo alle tombe... Di colpo, ebbe paura: e se anche in lui si fosse sviluppata l’abitudine di vivere di sogni e stramberie? E se, da grande, avesse cercato di togliersi la vita?

La donna scese dal letto e si diresse risoluta verso l’armadio. Da lì estrasse una scatola di legno, foderata di velluto rosso e bordata d’argento. La aprì. Conteneva una bambola di pezza senza un occhio, gli orecchini di turchese regalati dai suoceri il giorno delle nozze, una coda di volpe; c’erano anche sacchetti di semi, un fermaglio di perle e infine il suo mazzo di tarocchi. Viollca afferrò le carte. Dopo il matrimonio, non aveva più interrogato il destino, per la promessa fatta al marito che non voleva per moglie un’indovina. Finché lui era stato in vita, Viollca aveva mantenuto la parola, ma adesso Giacomo era morto e lei doveva sapere.

Con i tarocchi stretti nella mano, la zingara si sedette sul letto. Un vento impetuoso giunse da lontano, aggredì la casa e spalancò la finestra. Una folata irruppe nella stanza e spense l’unica candela. Viollca si precipitò a chiudere le imposte. Aveva i capelli arruffati e il cuore pareva volerle uscire dal petto. Riaccese la candela e si apprestò a tagliare il mazzo. Chiuse gli occhi, ignorando le raffiche che là fuori piegavano gli alberi e facevano cadere a terra decine di passeri senza vita. Si concentrò sulle carte finché non le sentì vive fra le dita. Solo allora invocò: «Credo al Sole e a Dio, e attraverso queste carte chiamo lo spirito dei morti, che hanno nella bocca la magia della terra e la voce del vento».

Sparse i tarocchi sul letto. Faceva freddo, ma lei nemmeno se ne accorse. Girò la prima carta, e uscì L’Eremita capovolto: eccesso di spiritualità, sogni, distacco dal mondo. «Questo è Giacomo», mormorò. La carta confermava le sue paure: sposandolo, lei aveva dato inizio a una stirpe di sognatori, di gente malinconica e destinata a soffrire, proprio com’era toccato al marito.

Girò la seconda carta e uscì La Luna: lontananza da ogni logica, l’universo nebuloso dei sogni, il mistero e la follia. Ecco un’altra conferma! Dunque suo figlio e i suoi discendenti sarebbero stati dei visionari tali e quali Giacomo: gente propensa a nutrirsi d’illusioni e quindi infelice. Ma perché il simbolo del mistero e della follia? Bisognava scegliere i tarocchi del responso finale. Prima uscì Il Cinque di Spade rovesciato: sciagura, morte e perdita della ragione. Poi la seconda carta: Gli Amanti, di nuovo rovesciata. Si trattava quindi di un matrimonio nefasto. Toccava all’ultima carta, quella definitiva. Viollca la girò, e apparve Il Diavolo.

Il vento cessò di colpo e il tempo sembrò fermarsi. Un silenzio irreale piombò nella stanza. Viollca si sentì fluttuare, senza peso, in uno stato di sospensione totale. Persino il letto su cui sedeva parve sollevarsi di qualche centimetro dal pavimento.

Sulla carta c’erano tre figure: al centro stava il demonio con piedi caprini, testa cornuta, organi genitali maschili e mammelle femminili. Ai suoi lati, un uomo e una donna, nudi, gli occhi sognanti, ma imprigionati da catene. Viollca pensò subito a due amanti infelici, legati l’uno all’altra dentro una prigione. Poi si concentrò sull’immagine del diavolo: nel suo ventre c’era un viso, un piccolo essere. Doveva trattarsi di un bambino, forse di un feto. Osservava quel particolare cercando di penetrarne il segreto, e di colpo fu assalita dalla nausea.

Sentì che il messaggio si faceva più chiaro... Un’unione sbagliata... un matrimonio in seno a quella famiglia di sognatori... e una sventura enorme, una morte tragica... forse più di una, e legate a un bambino, o a una gravidanza.

Più Viollca si addentrava nel mistero racchiuso in quella carta, più la sua angoscia cresceva. La zingara chiuse gli occhi, spaventata, concentrandosi nel tentativo di scoprire di più. Chi della famiglia avrebbe vissuto quella tragedia? Quando sarebbe successo, come? Però le apparvero solo immagini sfocate: vide acqua, un turbine d’acqua nera...

Di colpo, Viollca si sentì precipitare, trascinare nel gorgo. Le mancava l’aria... sarebbe soffocata... Portò le mani alla gola, poi raccolse le sue forze e spalancò la bocca, liberando un grido.

Seduta sul letto, tremando tutta, cercò di comprendere cosa le era successo. Fissò le carte, sconvolta. Poi, con un gesto della mano, le gettò a terra.

Doveva avvertire Dollaro e, attraverso lui, anche i suoi figli e nipoti. Tutti in famiglia dovevano sapere, tutti dovevano comprendere l’orrore che incombeva su di loro. I Casadio avevano la follia nel sangue, e prima o poi quell’inseguire sogni impossibili li avrebbe portati alla rovina. Bisognava essere vigili, guardarsi dalle passioni sconsiderate, dagli innamoramenti folli. Bisognava fare di tutto per evitare la tragedia, fermare in qualsiasi modo quell’unione maledetta.

 

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Dollaro non raccontò a nessuno della notte in cui aveva parlato con il padre morto. Dopo la sepoltura, era tornato al cimitero per cercare di ritrovare la voce del babbo fra la quiete delle lapidi e il profumo dolciastro dei fiori, ma dal giorno del funerale non era più riuscito a parlargli, né a sentire la risata di Susanna o le urla di Virginia quando arrivava il temporale. Nei primi tempi, quest’assenza lo aveva intristito, ma poi aveva pensato che forse era meglio così.

Crebbe alto, magro come Giacomo e con la stessa acuta intelligenza, ma aveva gli occhi neri e la parlantina incantatrice della madre. Viollca constatò con sollievo che, al contrario di Giacomo, il figlio mostrava un temperamento sereno e un carattere gioviale. Stava convincendosi che le sue paure fossero infondate, ma poi si accorse che Dollaro aveva comunque ereditato dal padre la timidezza verso le donne. Se si trovava davanti una ragazza, di colpo si metteva a balbettare; se qualcuna gli si avvicinava, lui scappava via. Tanto che arrivò a compiere ventinove anni senza aver mai avuto una fidanzata.

Viollca decise allora d’intervenire. Puntò l’attenzione su una certa Domenica Procacci: una giovane robusta, concreta, di costituzione sana e dai principi solidi. Dopo aver saputo che la ragazza nutriva simpatia per il figlio, Viollca chiamò Dollaro. Gli parlò di lei e disse che, come prima cosa, era necessario consultare i tarocchi. Viollca li interrogava solo in rare occasioni, ma cos’era più importante della felicità del suo unico figlio?

«È la decisione più importante della tua vita; non puoi fare sbagli», gli spiegò, mischiando le carte. Ne fece scegliere sette al figlio e diede inizio alla lettura.

Tagliò diverse volte il mazzo, e ogni volta uscì L’Arcano VI: la carta degli Amanti diritta.

«Il Trionfo dell’Amore!» esclamò Viollca.

«Ma non ci ho mai nemmeno parlato.»

«Avrai tempo tutta la vita per farlo.»

Il figlio però taceva.

«Cosa c’è, lei non ti piace?» lo incalzò la madre.

«È troppo silenziosa. Non le ho mai sentito dire una parola.»

«Manca solo che ti prendi per moglie una con la tua stessa parlantina. Non combinereste mai niente nella vita. La ragazza è sana e non ha grilli per la testa. È tutto quello che serve.»

«Però io non ne sono innamorato.»

«Meglio. Prenditi una che sa cucinare, una donna fedele e con i fianchi giusti per partorire molti figli. Il resto sono soltanto sogni.»

«Voi però del babbo eravate innamorata.»

«Appunto. E vedi a cosa mi ha portato. Tu non devi fare il mio stesso sbaglio.»

Lui, però, ancora non era convinto. Viollca comprese che era giunto il momento di rivelargli quello che, tanti anni prima, aveva letto nei tarocchi. «Dollaro, ora ascoltami bene, perché in quello che sto per dirti c’è nascosto il destino della nostra famiglia. Quando tuo padre è morto, avevo paura, non sapevo cosa ci aspettava. Così ho chiesto alle carte di rivelarmi il futuro. Ho visto cose terribili, figlio mio...» E gli raccontò dell’immagine del diavolo, del piccolo viso al centro del suo ventre; gli raccontò anche della coppia dagli occhi sognanti, incatenata, e di una disgrazia. Morti tragiche; c’era un bambino coinvolto. Infine gli rivelò l’esperienza terribile del gorgo d’acqua nera in cui era precipitata. «Non so quando tutto questo succederà, o a chi. Però le carte mi hanno messo in guardia: i sogni sono insensati, Dollaro, le passioni cieche sono catene che trascinano in un gorgo che uccide. Con le carte non mi sono mai sbagliata. Devi stare attento. Scegliti una moglie usando la testa, senza dar retta al cuore. Solo così sarai al sicuro.»

Lui la fissava, serio. Pochi attimi di silenzio, poi scoppiò in una risata. «E dovrei sposare Domenica Procacci per paura di quello che voi avete visto nelle carte, più di vent’anni fa? È ridicolo! Non offendetevi, mamma, ma ho accettato di farmi leggere i tarocchi solo per farvi contenta.»

Si alzò dal tavolo, baciò la madre sulla fronte e si avviò per uscire. «Non dovete temere per me. Con la fortuna che ho con le donne, non troverò mai moglie», le disse sulla soglia.

Viollca rimase seduta al tavolo, sconsolata, ma tutt’altro che convinta. Un’espressione di sfida iniziò a farsi strada sul suo viso: il figlio non avrebbe fatto di testa sua. Con le buone o con le cattive maniere, avrebbe seguito i suoi consigli.

 

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La sera stessa, Dollaro decise di andare a caccia di rane. Era più facile prenderle di notte che di giorno, immobilizzandole con la luce della lampada. Afferrò il lume a olio, il retino, e si mise a tracolla la sacca per deporvi le rane catturate. S’incamminò, diretto a un grosso canale non lontano da casa sua, in un punto che aveva scoperto da poco e che brulicava di rane.

Era una notte senza luna e tutt’intorno era buio pesto; lui si accorse che l’olio nella lampada era quasi finito, così scelse di conservarlo per la cattura e la spense.

Salì sul piccolo ponte di legno per raggiungere l’altra riva. Non si vedeva nulla. Avanzava cauto, attento a non cadere nel canale, ma inciampò due volte. Accidenti! Meglio accendere la lampada prima di... Non ebbe tempo di terminare quel pensiero che si ritrovò sott’acqua. Fece per risalire, ma la sacca delle rane si era impigliata da qualche parte. Diede uno strattone, poi un altro, senza riuscire a liberarsi. Intorno a lui era tutto nero. Gli mancava l’aria. Doveva sganciarsi subito... Cercò a tentoni il punto che lo teneva legato. Il sangue gli batteva nelle tempie, e lui continuava a dibattersi, a spingere e a tirare, ma poi pensò che agitarsi era peggio e doveva calmarsi. A quel punto, successe. Fu come se il suo spirito lo stesse lasciando, come se si stesse sdoppiando, e lui non fosse più il figlio maschio di Giacomo Casadio, ma una donna. Sentì con precisione gli anelli alle dita; sentì i lunghi capelli fluttuare nell’acqua, accarezzargli il viso...

Non resisteva più. Doveva aprire la bocca o sarebbe annegato. Raccogliendo le ultime forze, diede un altro strattone alla sacca, e fu libero.

Risalì in superficie e spalancò la bocca, emettendo un grido. Afferrò un palo e vi rimase incollato finché non riuscì a controllare il respiro; poi, aggrappandosi alle assi del ponticello, con una spinta delle reni uscì dall’acqua.

Restò a lungo disteso, ansimante. Che razza di allucinazione! Chi era quella donna? Non si era trattato di un sogno: aveva sentito gli anelli, i capelli... Solo allora ripensò alle parole della madre: intrappolato nel gorgo d’acqua nera, lui aveva vissuto la stessa esperienza di quando, più di vent’anni prima, la madre aveva voluto svelare i misteri del futuro. Non poteva trattarsi di una coincidenza: era un avvertimento. La profezia era dunque vera e lui aveva il compito di trasmetterla alle generazioni future.

 

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Il giorno dopo, Viollca si presentò a casa di Domenica con una scusa. Le rubò un paio di scarpe poi, tornata a casa, le riempì di ruta e le nascose sotto il letto del figlio. Quindi, per sette mattine consecutive, diede da bere a Dollaro un infuso fatto con la radice dell’asparago bollita nel vino.

«Cosa ci avete messo?» chiese Dollaro, storcendo la bocca quando lo assaggiò.

«È per proteggere i bronchi.»

L’infuso era invece un afrodisiaco che, assunto per una settimana, avrebbe fatto nascere nel figlio un incontrollabile desiderio sessuale.

Il mattino del settimo giorno, Viollca chiamò Domenica a casa sua. La fece sedere, quindi andò a svegliare Dollaro e gli disse che in cucina c’era qualcuno che voleva parlargli. Subito dopo uscì, con l’intenzione di rientrare solo verso sera.

Quando riapparve, trovò il figlio con la camicia fuori dai pantaloni, i capelli arruffati che sembrava un istrice e lo sguardo infervorato.

«Per tutti i santi del paradiso!» proruppe, temendo di aver esagerato con la pozione.

«Mama, am voi maridár!» proclamò il ragazzo in tono esaltato.

Non si può dire se davvero fu merito delle pratiche magiche della madre, ma di certo quello di Dollaro si rivelò un buon matrimonio. Lui fu sempre fedele alla moglie; Domenica dimostrò di essere un’ottima madre per i loro otto figli, che nacquero tutti sani, con i capelli folti e una dentatura invidiabile. Cinque vennero al mondo con gli occhi azzurri e la carnagione pallida; gli altri tre con i capelli neri e lo sguardo selvatico di Viollca.


1847

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Era un mattino d’inizio aprile. Achille Casadio, figlio primogenito di Dollaro e Domenica, attraversava a passo veloce il ghetto ebraico della cittadina di Cento. Sentiva una gran fame e non vedeva l’ora di raggiungere la locanda dov’era solito mangiare quand’era da quelle parti. Il ragazzo fischiettava contento. Aveva appena venduto due purosangue arabi a un prezzo superiore a quello stabilito dal padre. Dollaro temeva che, a diciassette anni, Achille fosse troppo giovane per gestire da solo quel genere di trattative; invece lui ce l’aveva fatta, eccome. Non vedeva l’ora di tornare a casa e raccontarlo al babbo; prima però doveva riempirsi lo stomaco.

Achille Casadio era un ragazzo pallido, dai capelli biondi e ondulati e dagli occhi trasparenti come l’acqua. Fin da piccolo aveva dimostrato di essere molto sveglio. A scuola, la sua materia preferita era l’aritmetica. Quando il maestro non era più stato sufficiente a soddisfare la sua curiosità, Achille aveva iniziato a tempestare il parroco di domande e non aveva smesso finché il sacerdote non si era rassegnato a insegnargli anche i rudimenti della geometria. A dieci anni, il primogenito di Dollaro sapeva fare i conti a mente, calcolare aree e ipotenuse, trovare le percentuali ed eseguire divisioni complicate senza bisogno di foglio e matita. Aveva continuato ad assillare il povero prete finché non gli aveva dato lezioni anche di algebra e di fisica; per concludere, pur di toglierselo di torno, il sacerdote gli aveva permesso di consultare la piccola biblioteca della parrocchia.

Domenica doveva ammettere che, sì, quel figlio era intelligente, però le sue manie la tiravano fuori dalla grazia di Dio. Per esempio, non capiva la sua fissazione di disporre i piselli in file ordinate nel piatto. A volte, poi, si ritrovava i barattoli della cucina sistemati a seconda della dimensione, il più grande a sinistra e via via, fino al più piccolo. Quando Achille andava ad aiutarla in campagna, i suoi mucchi di rape finivano sempre per assumere la forma di coni perfetti. Robe da matti! Domenica sperava che, crescendo, Achille avrebbe perso quelle strane abitudini, ma la passione del figlio non accennava a diminuire.

A quindici anni, Achille si era già famigliarizzato con le opere di Galileo Galilei e Archimede. Di Galileo, soprattutto. Un giorno, si era imbattuto in una scatola polverosa nascosta sull’ultimo scaffale della biblioteca parrocchiale. In bella grafia, qualcuno ci aveva scritto sopra: Index librorum prohibitorum. Achille aveva aperto la scatola e, insieme all’indice dei libri proibiti dalla Chiesa, vi aveva trovato alcuni volumi di Galileo, tra cui le Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante. Il ragazzo si era gettato a capofitto nello studio di quel testo, anche se la mancanza di un’istruzione formale rendeva frammentarie e nebulose le nozioni che riusciva a estrapolare.

Certe mattine, Domenica lo trovava ancora alzato, il letto intatto e gli occhi rossi per la stanchezza. Se ne stava curvo sul tavolo, circondato da una confusione di fogli, compassi e strane formule che lei sospettava fossero demoniache.

«Si può sapere cosa fai, tutta la notte in piedi?» gli chiese un giorno.

«Sto cercando di calcolare la grandezza esatta del purgatorio dantesco», spiegò Achille, riemergendo dai suoi conteggi con uno sguardo da esaltato.

A quel punto, Domenica afferrò la scopa e si mise a rincorrerlo, sperando che qualche colpo di ramazza lo riportasse alla realtà, ma Achille riuscì a sottrarsi alla furia della madre. Domenica allora raccolse dal suo tavolo tutto ciò che riuscì a raccattare e andò a bruciarlo nella stufa. Dollaro le aveva raccontato di come le idee visionarie di Giacomo avessero portato il padre alla follia e al suicidio; la suocera, poi, l’aveva spaventata a morte, descrivendole la terribile profezia che aveva letto nei tarocchi. Domenica, atterrita, ne aveva parlato con il prete, in confessione. Il parroco le aveva intimato di non dare ascolto a quelle dicerie, sottolineando che credere alle arti divinatorie era peccato. Domenica però non era disposta a correre rischi. A mano a mano che i figli crescevano, si assicurava che tenessero a bada i sogni più bizzarri, e non cadessero vittime d’innamoramenti avventati. Per gli altri sette figli non c’erano stati ancora problemi, ma Achille, con la sua dannata mania per i calcoli, non la faceva dormire.

Anche Dollaro cercava di allontanare il primogenito da quella passione esagerata, e quindi pericolosa. «Fatto e sputato tuo nonno Giacomo. Pensa ai cavalli, piuttosto. C’è da strigliarli e da portargli la biada. Con le tue idee bislacche non si mangia», gli ripeteva.

Ma la sete di conoscenza del ragazzino era senza limiti e nessuna ramazzata o ammonizione paterna potevano farlo allontanare dai suoi studi.

 

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Quel mattino di aprile del 1847, il cielo sopra Cento era chiaro e l’inverno sembrava un ricordo lontano. Giunto nella piazza principale, Achille notò un gruppo di persone accalcate intorno alla chiesa e si avvicinò, incuriosito. Sui gradini dell’entrata, c’era un predicatore: era giovane, barbuto, dai capelli lunghi e nerissimi e con gli occhi che brillavano. Portava una camicia rossa e appeso al collo aveva un grande crocifisso.

«Chi è?» chiese Achille al vecchio che gli stava accanto.

«Ugo Bassi. È un barnabita, ma anche un combattente valoroso.»

«Se è un sacerdote, come mai non porta la tonaca?»

«Non è mica un prete qualsiasi. Guardalo bene, ragazzo, perché un giorno potrai dire ai tuoi figli che hai visto un eroe. Nessuno è capace d’infiammare gli animi come quell’uomo.»

Il vecchio gli spiegò che, a quanto si diceva, Ugo Bassi aveva preso i voti in seguito a una delusione amorosa, ma la sua vocazione più profonda era lottare per un’Italia libera dal giogo austriaco. Sognava la costruzione di una nazione nuova, unita e indipendente. Le sue prediche erano così travolgenti da averlo reso famoso in tutta la penisola. Spesso, però, lo avevano portato anche a scontrarsi con le gerarchie ecclesiastiche, per via del loro slancio patriottico e delle denunce sociali che contenevano.

Attirato dal fuoco che ardeva nelle parole del barnabita, Achille si fermò ad ascoltarlo. Ugo Bassi esortava il popolo a combattere per liberarsi dal giogo dello straniero: «Il Signore non ha detto invano: ’Non temete quelli che uccidono il corpo e che l’anima non possono uccidere’. Queste parole di Dio, che fecero tanti apostoli e tanti martiri all’Evangelo, non ne possono fare anche altri all’onore della verità?»

Quando il barnabita ebbe terminato il sermone, Achille Casadio gli si avvicinò. «Padre, sono pronto. Voglio venire con voi e lottare per la Patria.»

Ugo Bassi lo squadrò, dubbioso. «Quanti anni hai? Bisogna essere uomini per decidere di mettere in gioco la propria vita.»

«Ventuno compiuti», mentì Achille.

Il giorno stesso, scrisse una lettera ai suoi per informarli che andava a combattere per l’indipendenza d’Italia.

Quando Dollaro la aprì, dovette sedersi per riprendersi dal colpo. Poi iniziò a lamentarsi. «Ha ragione mia mamma. Noi Casadio abbiamo la follia nel sangue, altrimenti non si spiega la disgrazia di un figlio tanto esaltato...»

Sopraffatto dall’angoscia, corse dalla madre per farsi leggere le carte.

Viollca aveva ormai settant’anni, ma non un capello bianco né una sola ruga. La cataratta però l’aveva resa quasi cieca. Dopo aver saputo della lettera di Achille, afferrò i tarocchi e tagliò il mazzo. Si mise quindi a girare le carte anche se, per distinguerle, ora doveva sollevarle fino alla punta del naso. All’inizio, la zingara aveva un’espressione cupa, ma piano piano il suo viso si rilassò. Al responso finale, abbozzò un sorriso. «Puoi stare tranquillo: tuo figlio tornerà a casa sano e salvo.»

«Siete sicura, mamma?»

Lei rimescolò il mazzo e gli fece scegliere altre carte. Questa volta le portò talmente vicino ai suoi occhi malati che Dollaro fu certo le stesse annusando.

«La morte c’è, non posso nascondertelo... Ma guarda: questo è L’Angelo, la carta della resurrezione.»

«Mamma! Che me ne faccio della resurrezione? Achille lo rivoglio vivo, e dargli tanti di quei calci in culo da fargli passare una volta per tutte quelle sue dannate fantasie.»

«Ti dico che Achille tornerà. Ecco, vedi? È L’Eremita. Tuo figlio è con un uomo giusto.» Sulla carta, c’era sant’Antonio Abate, tradizionalmente ritratto con una lanterna, una croce e un maiale a lato. Viollca tirò un sospiro. «L’uomo deve essere un religioso. La lanterna indicherà ad Achille il cammino e, accanto a lui, c’è il maiale.»

«Che c’entra il maiale?»

«Già... che c’entra?» ripeté Viollca, dubbiosa. Pensò che era troppo vecchia per quelle cose, non aveva più la giusta concentrazione. Voltò l’ultima carta e riapparve L’Angelo, a carta diritta. «Squillano le trombe e i morti risorgono!»

«Ancora con ’sta resurrezione! Vero che a volte i morti ci parlano, però nessuno li ha mai visti risorgere.»

«Ti dico che Achille tornerà. Passeranno molti anni, ma alla fine lo rivedremo.»

«Ma il maiale?»

«Già, il maiale...» mormorò Viollca, sempre più confusa.

 

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Nei due anni che seguirono, Achille Casadio percorse l’Italia in lungo e in largo a fianco del sacerdote rivoluzionario. L’unico contatto con la famiglia furono le lettere che, di tanto in tanto, spediva a Stellata per rassicurare i genitori. Un paio di volte venne ferito, ma per fortuna solo di striscio. Il ragazzo scoprì ben presto che la guerra non era solo eroismo, bandiere tricolori e atti di coraggio, ma anche paura, ferite putride, solitudine. La guerra era il freddo e la fame, erano le grida dei feriti, la pazzia che lui scorgeva negli occhi di chi stava per morire.

Achille soffriva profondamente anche per il caos che governava la sua vita. Mal sopportava quel suo essere sempre in bilico, la mancanza di punti fissi e l’assenza d’ordine. Si sforzava di mantenere una routine che gli desse l’illusione di poter gestire il proprio destino: per esempio, si abbottonava la giubba dal basso verso l’alto con attenzione estrema, senza mai dimenticare un solo bottone. Una volta, di ritorno da una battaglia in cui aveva visto morire parecchi suoi amici, si accorse di aver legato i lacci degli stivali tralasciando un gancio, ma avvolgendo la stringa due volte nel gancio successivo. Si convinse che fosse stato quello a risparmiargli la vita e, da quel giorno, si allacciò gli stivali sempre così.

Nei momenti di noia – nonostante tutto abbastanza frequenti – Achille ripassava nella mente le formule algebriche o i teoremi, e allora sentiva crescergli dentro una nostalgia struggente, quasi stesse pensando a un amore lontano. Nelle sue lettere, però, parlava poco di sé. Si soffermava invece a descrivere le battaglie, le azioni eroiche cui aveva assistito e, soprattutto, raccontava del coraggio e della generosità di Ugo Bassi. Alla fine del 1848, scriveva:

 

Il 27 ottobre, nell’assalto di Mestre, ero al suo fianco. Padre Bassi incitava i soldati restando accanto a loro e sventolando la bandiera tricolore. Per tutto novembre è stato una fonte di conforto, aiutandoci, assistendo i feriti, incoraggiando i soldati a non desistere. Infine siamo giunti a Ravenna, città da dove vi scrivo. Ieri sera, padre Bassi ha tenuto un discorso presso la tomba di Dante, infierendo contro il nemico con impeto e passione.

 

Mentre Dollaro leggeva quella lettera, Domenica si faceva ripetutamente il segno della croce, rabbrividendo al pensiero di tutti i pericoli che il figlio stava affrontando. «Sperém che la Madòna as faga la grásia», si doleva.

Dollaro invece malediceva il vizio dei Casadio di vivere di sogni e imprese impossibili. «I puvrét iè sémpar quei chi paga. Ad sicúr i siór in na va brisa a farás masár par d’idei strambaládi. Sono sempre i poveri a pagare. Di sicuro i signori non vanno a farsi ammazzare per delle idee strampalate!» protestava.

Nei momenti di maggior sconforto, Dollaro ripensava alla lettura dei tarocchi della madre, in cui aveva previsto il ritorno di Achille. Forse aveva ragione. In più, se il figlio fosse morto, lui gli avrebbe già parlato come faceva da piccolo con le anime del cimitero. Invece, da Achille, non arrivava nemmeno un sospiro. Buon segno, si diceva.

 

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Nonostante la scomunica, lanciata il 1º gennaio 1849 da Pio IX, su chiunque osasse «rendersi colpevole di qualsivoglia attentato contro la temporale Sovranità dei Sommi Romani Pontefici», Ugo Bassi continuò la sua lotta rivoluzionaria e Achille era sempre al suo fianco.

Nell’aprile 1849, quando il barnabita raggiunse Garibaldi a Rieti per diventare il cappellano della sua legione, il giovane scrisse ai genitori:

 

Il 27 aprile siamo giunti a Roma, ma la sera stessa, temendo gli attacchi del nemico, siamo dovuti ripartire. Non potete credere i pericoli che abbiamo incontrato ma, ogni volta, Garibaldi è riuscito a portarci in salvo. Io me lo immaginavo più alto e robusto. In verità, è piuttosto basso, ma la sua figura in groppa alla bella cavalla bianca risulta lo stesso imponente. Le donne, siano esse ricche o popolane, si gettano tutte ai suoi piedi. La moglie Anita ha il suo bel da fare per tenerlo a bada.

 

Lasciatasi Roma alle spalle, i garibaldini avevano attraversato il Lazio, la Toscana e le Marche, inseguiti da quattro eserciti inviati da Francia, Spagna, Austria e dal Regno delle due Sicilie. Il 31 luglio le truppe erano giunte ai piedi di San Marino, che veniva considerato territorio straniero.

Le divise dei volontari erano lacere, gli uomini affamati e il morale era basso. Anita, incinta di cinque mesi e sfinita dalla febbre malarica, aveva sempre cavalcato al fianco del marito, non nella postura laterale che usavano le donne, ma a cavalcioni, come un vero soldato. In quei giorni, però, la sua salute aveva avuto un crollo.

Achille la ammirava e, come molti altri, ne era segretamente innamorato. Pensava che un giorno avrebbe voluto sposare una donna bella e coraggiosa come lei. Anita aveva capelli lisci e castani, una fronte alta e un seno tanto generoso che nemmeno gli abiti maschili indossati per cavalcare riuscivano a nascondere.

Una notte, mentre stavano accampati sotto la Rocca di San Marino, Achille ebbe occasione di parlarle. Doveva consegnare a Garibaldi una missiva di Ugo Bassi, ma in quel momento il Generale non c’era. Anita, che sedeva fuori dalla tenda, lo invitò ad aspettare. «José dovrebbe arrivare a momenti. Vieni.»

Achille si sedette accanto a lei. Guardava davanti a sé, imbarazzato, senza sapere cosa dire o dove mettere le mani. Faceva molto caldo e il frinire delle cicale era assordante.

Lei lo osservava. «Você parece uma criança. Quanti anni hai?»

«Abbastanza per lottare al fianco del Generale.»

«La guerra... A cosa serve, poi?»

«A liberare i popoli.»

«No, menino: serve solo a rendere gli uomini falsi, più avidi e crudeli. L’hanno inventata loro, non per inseguire ideali, ma per far tacere la paura della morte, e quella di essere mediocri.»

«Io non ho paura di morire.»

«Bello, e pure coraggioso», commentò Anita, sorridendo.

Achille, emozionato per il complimento, girò la testa verso di lei. Era pallida, visibilmente sofferente, e con la fronte imperlata di sudore.

«State bene, signora?»

«È questo caldo. E sì che vengo dal Brasile, dovrei esserci abituata... Sai dov’è il Brasile?»

«... Sotto gli Stati Uniti d’America?»

Lei rise. «Sì, molto, molto più sotto. È lì che io e José ci siamo conosciuti.» Si arrotolò una sigaretta e se la accese. «La gente si scandalizza se vede una donna fumare, ma a me non importa.»

Gli raccontò della sua gioventù ribelle, di come la madre, quando lei aveva quattordici anni, l’avesse obbligata a sposare un uomo che non amava. «Mi diceva che una donna deve stare al suo posto, e a me quel posto stava troppo stretto. Finché, un giorno, non ho incontrato José. Mi ha fissato tutta la sera e alla fine mi è venuto vicino. Ha detto solo tre parole: ’Devi essere mia’, ma sono state sufficienti. Quando José è stato pronto a ripartire, io ho lasciato mio marito e l’ho seguito. Non mi sono più girata indietro.»

«Vi manca il Brasile?»

«Un po’. È un bel Paese, sai? Troppa povertà, ma anche molta bellezza.»

«Quando finisce questa guerra potrete tornarci.»

«Non ce ne sarà il tempo», disse lei a bassa voce.

Ad Achille parve che le parole le morissero in bocca.

«Dov’è la tua famiglia?» riprese Anita, cambiando discorso.

Lui raccontò del paesino attaccato alle rive del Po, di suo padre che si chiamava come la moneta americana e della nonna, che era una zingara e andava in giro con penne di fagiano tra i capelli.

Lei rise divertita e l’aria intorno sembrò farsi più lieve. «Scommetto che a casa hai una bella ragazza che ti aspetta.»

«Chi, io? No... C’erano ragazze che mi piacevano, ma non so se mi sono mai innamorato.»

«Quando succederà, lo saprai. Non ci sarà nessun dubbio.»

«Posso farvi una domanda?»

«Certo.»

«Cosa si prova a essere innamorati?»

Lei attese un po’, e alla fine rispose: «È un cerchio che si chiude. Incontri qualcuno e, dal primo momento, già sai che questa persona sarà tutto, sarà il bene e il male, saprai quello che ti regalerà e quanto ti farà soffrire».

 

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Dato che le truppe austriache avevano circondato gli accampamenti sotto la Rocca di San Marino, Garibaldi tentò la fuga.

Superando grandi difficoltà, nella notte tra il 1º e il 2 agosto i 250 fuggiaschi garibaldini giunsero a Cesenatico. Anita ancora cavalcava al fianco del marito. Alle tre di notte, dopo aver venduto i cavalli e raccolto provviste, i fuggiaschi salparono alla volta di Venezia, dove intendevano prestare aiuto ai rivoluzionari che lì stavano combattendo. Garibaldi insistette affinché Bassi salisse sulla sua stessa imbarcazione e, siccome il sacerdote e Achille erano ormai amici fraterni, accolsero a bordo anche il ragazzo.

Per tutto il giorno seguente, la navigazione fu tranquilla. Giunta la notte, gli uomini continuarono il viaggio verso nord, convinti che il buio li avrebbe protetti. Li tradì il chiarore della luna. Furono sorpresi da una goletta austriaca che iniziò a sparare e a lanciare razzi. Varie imbarcazioni si arresero. Solo cinque, tra cui quella di Garibaldi, riuscirono a mettersi in salvo.

Dopo varie peripezie, gli uomini giunsero fino a Comacchio. Nell’osteria dove sostarono, qualcuno riconobbe sia Garibaldi sia Ugo Bassi, e li denunciarono. All’ultimo momento, il generale riuscì a fuggire con la moglie e alcuni soldati, ma il barnabita venne arrestato insieme ad altri tre uomini: Fabrizio Testa, Giovanni Livraghi e Achille Casadio.

I quattro furono portati a Bologna, nelle carceri della Carità, dove qualche giorno dopo fu letta loro la sentenza di morte, senza che venisse celebrato nessun processo.

Dalla sua cella, Achille scrisse una lettera di addio ai genitori.

 

È da questa prigione, cari mamma e papà, che vi scrivo quest’ultima missiva. Più che per la mia vita, piango per il dolore che la mia morte vi procurerà. Non disperatevi, e pensate che muoio fiero di me stesso e per un ideale che lo merita.

Vi abbraccia e vi bacia con tutto il suo affetto,

 

VOSTRO FIGLIO ACHILLE

 

Verso mezzogiorno dell’8 agosto 1849, i quattro condannati a morte furono lasciati soli con alcuni sacerdoti, incaricati di raccoglierne le confessioni e di dar loro l’estrema unzione.

Achille se ne stava seduto a testa bassa, annichilito. Ugo Bassi pensò che sarebbe stato meglio per lui gridare, dar sfogo al suo dolore. Gli andò vicino. «Sono io che ti ho portato a morire, e non posso perdonarmelo. Quando ti ho conosciuto, a Cento, ti ho chiesto l’età e mi sono reso subito conto che non potevi avere ventun anni. Avrei dovuto ordinarti di tornare a casa, ma nei tuoi occhi ho scorto una tale indignazione, un tale coraggio... E ho compreso che sarebbe stato impossibile dissuaderti.»

«Non possono giustiziarci così, senza nessuno che ci difenda, senza nemmeno un processo.»

«Lo so, ma il giudice asburgico è un mostro a due teste: giudice e giuria insieme. Ho chiesto clemenza almeno per te e per Fabrizio, dato che ancora non avete raggiunto la maggior età. Spero che serva a smuovere la coscienza degli austriaci. Coraggio», concluse. E lo abbracciò.

«E Garibaldi, padre?»

«È al sicuro, ma Anita è morta.»

 

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Arrivò l’ora dell’esecuzione. Incatenati ai polsi, i quattro uomini vennero fatti salire su un carro militare. Circondati da soldati, e al rullare sordo dei tamburi, furono condotti fino in via della Certosa, nei pressi del cimitero. Una volta giunti, però, solo Ugo Bassi e Giovanni Livraghi furono fatti scendere. Poco dopo, una guardia disse a Fabrizio e ad Achille che stavano ancora discutendo se concedere loro la grazia.

Ugo Bassi e Giovanni Livraghi intanto erano stati messi contro il muro, l’uno accanto all’altro. Padrone di sé fino all’ultimo, il barnabita volle che fosse un sacerdote a bendarlo. Poi prese a recitare l’Ave Maria.

Profondamente commosso, Achille pensò che la sua voce non era mai stata tanto armoniosa.

 

Ave, Maria, gratia plena,

Dominus tecum.

Benedicta tu in mulieribus,

et benedictus fructus ventris tui, Iesus.

Sancta Maria, Mater Dei...

 

Una scarica di fucili interruppe la preghiera.

 

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Quella notte, Achille e Fabrizio la passarono svegli, sobbalzando a ogni passo nel corridoio, tremando a ogni rumore.

All’alba, un gendarme aprì la porta. I due ragazzi si sedettero di scatto sulle brande. Quando videro che, insieme a lui, c’era un prete, compresero di non avere speranza.

Li portarono nello stesso luogo del giorno prima, in via della Certosa. L’aria era fresca e la brezza agitava i capelli biondi di Achille. Per terra, c’erano ancora le macchie violacee del sangue versato. Fabrizio scoppiò in singhiozzi poi, balbettando, si mise a implorare la Madonna. Achille Casadio non pregò. Già bendato, pensò a suo padre e a sua madre. Pensò pure che non avrebbe mai conosciuto l’amore. La scarica di fucili risuonò nel cielo rosato dell’alba. Achille Casadio cadde di lato, la guancia appoggiata contro la terra.

 

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La sua ultima lettera ai genitori giunse alcuni giorni dopo l’esecuzione. Fu Domenica a riceverla. La donna era analfabeta eppure sentì dentro di sé un’agitazione strana, come se quel foglio di carta le bruciasse tra le mani. Corse nei campi per raggiungere Dollaro e fargliela leggere. Avanzava tra gli arbusti e le spine che si chiudevano sopra il sentiero, ma lei nemmeno si accorgeva dei graffi.

Non appena Dollaro aprì la lettera, sbiancò. Abbracciò la moglie poi, a denti stretti, produsse un gemito che terrorizzò Domenica.

«Ce l’hanno ammazzato...» riuscì a dirle alla fine. Per un po’ marito e moglie rimasero abbracciati, poi caddero in ginocchio, ancora uniti, troppo affranti per piangere.

Il pomeriggio prepararono il carro e partirono, diretti a Bologna. Dalla data sulla lettera, avevano compreso che era troppo tardi per riabbracciare Achille un’ultima volta. Ora potevano solo recuperare la sua salma. Sedevano, sconvolti, senza trovare le parole per dar sfogo alla disperazione. Dollaro frustava i cavalli. Le bestie erano sudate, e avevano la schiuma alla bocca.

«Smettila, finirai per ucciderli. Che importa ormai se arriviamo un’ora più tardi», commentò con amarezza Domenica.

Il caldo quel giorno era soffocante. Non appena entrati nella saletta spoglia dove stava la bara di Achille, marito e moglie furono investiti da un tanfo così intenso che entrambi dovettero tapparsi il naso con un fazzoletto. Trovarono la cassa sigillata.

«Voglio vedere mio figlio un’ultima volta», disse Dollaro a un gendarme.

«Son tre giorni che è morto, e con questo caldo...»

«Andiamo, Dollaro. Portiamocelo a casa così», intervenne Domenica. «Preferisco anch’io ricordarlo com’era.»

Una volta rientrati, Dollaro si fece aiutare dagli altri figli a tirar giù la bara dal carro. Viollca osservava la scena, rigida. Era meglio morire che sopportare un dolore simile, pensò. Eppure le carte dicevano che il nipote sarebbe tornato vivo. Possibile che si fosse sbagliata?

Il fetore era troppo forte per portare la bara dentro casa e tenere una veglia, così dovettero lasciarla nell’aia.

Era già notte e, non potendo fare altro, Dollaro e Domenica si ritirarono nella loro stanza. Per ore, la donna singhiozzò nel buio. Dollaro, gli occhi fissi sul soffitto, ripensò a quando, da bambino, aveva parlato al padre che si era impiccato. Quella conversazione l’aveva fatto sentir meglio, tanto che poi erano riusciti a scherzare, a parlare di frittelle dolci, della gente stramba del paese e dei pesci nel Po che non dormivano mai... A quel pensiero, saltò giù dal letto.

«Dove vai?» gli chiese Domenica, allarmata.

«Torno subito.» Dollaro scese le scale di corsa e attraversò l’aia, fino a raggiungere la bara. «Achille!... Achille, mi senti? Sono il tuo papà...»

Attese la risposta trattenendo il fiato. Niente.

Accarezzò le assi di legno nel punto in cui doveva trovarsi il viso del ragazzo. «Figliolo, sono io... Ti prego, parlami...»

Attese. Sentiva il sangue battergli nelle vene del collo, rimbombargli nelle tempie. Nessuna risposta. Dollaro pensò che, sì, erano tanti anni che non parlava più con i morti, ma il dono lui l’aveva ricevuto e certe cose non spariscono come un raffreddore. Possibile che il dono non tornasse, in un momento simile? Forse Dio ce l’aveva con lui. Pensò a Gesù sul Golgota, moribondo, che guardava il cielo e diceva: «Padre, perché mi hai abbandonato?» Dollaro si sentiva proprio come Cristo sulla croce: mai così solo, mai tanto dimenticato.

«Achille, ti scongiuro, di’ qualcosa. Ho bisogno di sentire la tua voce. Anche solo qualche parola... Ma non lasciarmi in questa disperazione.»

L’aria era appiccicosa, il tanfo insopportabile. Dollaro provò un rancore profondo verso Dio e verso la propria vita. «Bene!» sbraitò. «Se hai deciso che non mi vuoi parlare, devo almeno guardarti in faccia un’ultima volta. Vediamo se poi avrai il coraggio di star zitto!»

Corse nello sgabuzzino degli attrezzi e tornò reggendo la lampada a olio, un martello e un piede di porco. Iniziò a rimuovere a uno a uno i chiodi che fissavano il coperchio della cassa, sconvolto, controllando a fatica l’agitazione. Tolto l’ultimo chiodo, sollevò il coperchio e avvicinò la lampada alla bara.

Dollaro Casadio spalancò gli occhi, poi sobbalzò all’indietro, con un’esclamazione d’incredulità.

Avvicinò di nuovo la lampada e guardò meglio, quindi si sedette accanto alla cassa. Si coprì il viso con le mani e iniziò a piangere. Però quel pianto, piano piano, andò trasformandosi in un ghigno sottile, che divenne prima un ridacchiare nervoso e poi una risata che si sparse per l’aia, entrò nella casa e salì lungo le scale, fino a raggiungere la stanza da letto di Domenica.

La donna trasalì. Non capiva se il marito stesse piangendo o ridendo, ma intuì subito quello che doveva aver fatto. Si precipitò di sotto a piedi nudi. Attraversò l’aia di corsa e in camicia da notte.

Trovò il marito accovacciato a terra e sì, non c’erano dubbi: stava ridendo a crepapelle.

«Dollaro... Cosa ridi, sei ammattito?»

«Non mi sono mai sentito tanto bene.»

«Non bestemmiare e richiudi subito la bara.»

«Il maiale! Ecco cos’aveva visto mia madre nelle carte», diceva Dollaro tra le lacrime.

«Hai perso la ragione?»

«Un gugét, Domenica... Un maiale, perdio. Stavamo per dare sacra sepoltura a un porco!»

 

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L’odore dell’aceto sotto il naso. Una luce che abbaglia. Gli occhi fanno male, però a poco a poco si abituano. Poi la sagoma di una finestra, un tavolino bianco con sopra la lampada a olio e una copia dei Vangeli.

Un volto di ragazza si china su di lui: la pelle bianchissima, la bocca piccola. Ha gli occhi verdi, le ciglia e le sopracciglia chiare. «Non sforzatevi, siete ancora debole», mormora la giovane.

Lui sente il suo buon profumo di pulito, di arance e di sapone. Nota pure che indossa la cuffia e l’abito grigio delle novizie. «Dove sono?» le chiede.

«Nel convento della Visitazione. Vi hanno portato qui i becchini, di nascosto. È un miracolo che siate sopravvissuto.»

Achille iniziò a ricordare: la benda sugli occhi, le implorazioni di Fabrizio, l’ordine di sparare. Poi, il buio.

«Siete arrivato qui completamente coperto di sangue, ma le ferite erano solo agli arti. Persino gli austriaci devono essersi impietositi quand’è stato il momento di sparare a due persone tanto giovani. Alcuni soldati devono aver mirato al muro, gli altri verso parti non vitali. Il ragazzo che vi stava accanto è morto. Vi è caduto addosso ed eravate ricoperto dal suo sangue. Anche questo deve avervi aiutato.»

«Ma l’esame del medico? Perché controllano sempre se...»

«Il battito doveva essere talmente debole che nemmeno il medico lo ha sentito», lo interruppe la ragazza. «O, chissà, forse pure lui ha deciso di lasciarvi una speranza. Vi avevano già messo nella cassa per riconsegnarvi alla famiglia. Non impressionatevi, ma la vostra era già inchiodata. Poi uno dei becchini ha sentito un lamento e così vi siete salvato. Vi hanno condotto qui perché è un posto sicuro ma, quando siete giunto, non avevate più sangue. Siete stato tra la vita e la morte per una settimana. Sapete come vi chiamano le sorelle? ’Lazzaro’.» La novizia rise, mostrando una fila di denti piccoli e un paio di fossette. «Mi chiamo Angelica», riprese. «Qui nel convento ci sono solo monache e, visto che non ho ancora professato neppure i voti semplici, hanno dato a me l’incarico di assistervi.»

«Dite alla madre badessa che le sono grato e me ne andrò appena possibile.»

«Intanto pensate a riprendervi.»

«Ho un forte dolore alla mano sinistra, tutto il braccio mi fa un gran male...»

Lei gli toccò una spalla. «Achille... Vi chiamate Achille, vero? Il braccio non c’è più. Il medico ha dovuto amputarlo sotto il gomito. Ma almeno siete vivo, e per fortuna era il sinistro.»

Senza un braccio, la rivoluzione non poteva più farla. Fu la prima cosa che Achille pensò e anche quella che lo addolorò maggiormente. «I miei devono credermi morto. Li avete avvisati?»

«No. Finché non lascerete il convento, nessuno deve sapere che siete vivo. È stata una condizione che la madre badessa ha imposto per accogliervi. So che dev’essere terribile per la vostra famiglia, ma era necessario per salvaguardare le sorelle.»

«Ma... la bara, come l’hanno consegnata?»

«Con dentro un maiale. Al becchino ne era morto uno ancora piuttosto piccolo e ce l’hanno fatto entrare.»

 

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Achille rimase nascosto nel convento per due mesi. Sulle prime, Angelica passava del tempo al suo capezzale ma, quando lui cominciò a riprendersi, le visite si diradarono. Andava nella cella del ragazzo solo per portargli i pasti, cambiargli il letto o ritirare la biancheria sporca. In quelle brevi occasioni, però, i giovani scambiavano due chiacchiere. Angelica aveva un temperamento brioso che piaceva ad Achille. Quando entrava nella sua cella, portava con sé quel buon profumo di pulito che lui aveva subito notato. Del resto, la novizia era l’unica persona con cui poteva fare un po’ di conversazione.

Quand’era stato in grado di alzarsi, la badessa gli aveva fatto recapitare un foglio con gli orari in cui si sarebbe potuto sgranchire le gambe nel chiostro, e anche quelli in cui poteva andare nell’orto senza disturbare le monache. Ormai era autunno. Achille trascorreva il tempo passeggiando fra i roseti o sotto i faggi, le cui foglie andavano ingiallendosi. L’aria era frizzante e il silenzio intorno era intriso di una tranquillità vasta e, allo stesso tempo, lieve. La presenza delle monache si limitava agli inni che le sorelle intonavano alle ore canoniche. Per il resto della giornata, si sentivano solo il cinguettio dei passeri e le voci dei contadini che lavoravano oltre il muro di cinta.

Era come se, circondato da tanta pace, per la prima volta Achille trovasse il tempo di soffermarsi sulla perfezione della natura: il percorso di una goccia su una foglia, la scia lucente di una lumaca, un bocciolo di rosa che sfidava il primo gelo. Ogni tanto pensava ai suoi compagni di lotta, alle fatiche che dovevano sopportare. Si sentiva colpevole di starsene lì, tutto il giorno a far niente, mentre tanti rischiavano la vita. Si sentiva in colpa persino d’esser vivo.

 

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Adesso che stava meglio, però, Achille si annoiava, così chiese alla madre badessa di poter accedere alla biblioteca del convento. Credeva ci fossero solo testi sacri, libri di preghiere o sulle vite dei santi, e fu sorpreso nel trovare anche volumi di scienza, di anatomia e di fisica. Se li portò nella cella e li divorò l’uno dopo l’altro, con un senso di eccitazione che non provava dai tempi in cui aveva scoperto i libri di Galileo Galilei nella scatola dei libri proibiti.

Un giorno, mentre era assorto nella lettura, Angelica entrò nella stanza per consegnargli i vestiti puliti: un saio e altri indumenti appartenuti a qualche frate, tutto ciò che le monache erano riuscite a procurargli.

«Cosa state leggendo?»

«Isacco Newton, uno scienziato.»

«Fatemi vedere... Principi matematici della filosofia naturale. Non è quello che tratta della teoria delle maree e del calcolo degli equinozi?»

«Sì, come lo conoscete?»

«L’ho letto. Mi fanno studiare, così una volta monaca potrò dedicarmi all’insegnamento.»

«Non credevo fossero letture adatte alle monache.»

«Perché?»

«La scienza si è sempre scontrata con la religione. Pensate a Galileo.»

«Non è vero che le scoperte scientifiche neghino l’esistenza di Dio. La matematica è di una tale bellezza e perfezione, che può solo confermare l’origine divina del mondo.»

Meravigliato, Achille non seppe come replicare e abbassò lo sguardo sul libro.

In quel momento, Angelica vide una mela a terra e si piegò di scatto per raccoglierla. Nel farlo, la cuffia le cadde sul pavimento. Si rialzò, nella speranza che Achille non avesse notato l’accaduto.

Lui, invece, la fissava. Senza cuffia, Angelica sembrava un’altra. I capelli, del colore del rame, erano mossi e creavano una corona intorno al viso bianchissimo.

«Angelica...»

Lei arrossì. Poi afferrò la cuffia e uscì di corsa.

 

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Non fece nulla per sedurla. Nonostante la sua bellezza, Angelica rimaneva una novizia, una donna che voleva dedicare la sua vita alla preghiera e a Dio. Achille non si era mai posto il problema se crederci o meno, in Dio. Però il semplice desiderarla lo metteva a disagio. Gli capitò d’immaginarla nuda, ma si sentì in colpa. Pensarla in quel modo era come profanare un luogo sacro.

Per qualche giorno, Angelica lasciò il vassoio del cibo fuori dalla porta, oppure entrava nella cella solo se era certa che lui si trovasse nel chiostro, o nell’orto. Ma, anche quando le cose sembrarono tornare alla normalità, lei non riusciva più a fissare Achille negli occhi. Le era impossibile togliersi dalla mente lo sguardo di lui quando le era caduta la cuffia per terra. Il modo in cui lui l’aveva fissata aveva cambiato tutto e non c’era verso di tornare indietro.

Anche Achille era mutato. Adesso, quando se la trovava davanti, abbassava gli occhi e si sentiva dentro un’agitazione nuova, inaspettata. Ora i due si limitavano a scambiarsi un saluto o qualche frase di circostanza, poi ognuno tornava nel suo mondo.

Ottobre stava per finire e Achille si era ristabilito completamente. Un giorno, mentre Angelica si apprestava a cambiargli le lenzuola, lui la fermò: «Non serve, domani me ne vado».

«E dove?»

«Un cugino di mio padre vive sulle colline fuori Bologna. Chiederò che mi ospiti.»

Lei non replicò, ma l’idea che non lo avrebbe più rivisto le risultava insopportabile. Aveva cercato in tutti i modi di toglierselo dalla testa. Aveva fatto penitenza, pregato per ore. Non si era confessata solo perché temeva che poi avrebbero allontanato Achille dal convento. E adesso era lui a decidere di andarsene.

Restò immobile, le lenzuola strette al petto. «Portatemi con voi», gli disse infine.

«Che dite?»

«Non posso più prendere i voti.»

«Se è così, dovete tornare a casa vostra.»

«Non voglio tornare a casa... io... io voglio stare con voi.»

«Angelica... Guardatemi: mi manca un braccio; sono un fuggiasco, un fuorilegge che rischia la vita a ogni istante. E poi non sono innamorato.»

«Non fa niente.»

«Avete capito cosa vi ho appena detto? Io non provo...»

Non riuscì a finire la frase, perché lei fece un passo avanti, e lo baciò. Un bacio dapprima timido, maldestro, ma durò a lungo e cancellò in un baleno Dio, la madre badessa e la paura dell’inferno.

Dopo parlarono tenendosi per mano, con una confidenza che non avevano prima.

«Pensaci, prima di lasciare il convento. Non rovinarti la vita.»

«Lo farei restando qui.»

«Non hai paura di Dio?»

Lei gli accarezzò una guancia. «Ma il tuo viso è così vicino a Dio...»

Quando Angelica lo lasciò, Achille non le aveva promesso nulla, e lei non gli aveva chiesto niente. Però la ragazza era riuscita a farsi dire il nome del villaggio dove si sarebbe rifugiato. Sperava solo che il parente che gli avrebbe dato ospitalità avesse il suo stesso cognome.

 

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Achille si presentò dal cugino del padre con addosso un saio. Alfonso era un uomo di quarant’anni, basso e tarchiato. Il corpo massiccio l’aveva ereditato dalla madre, ma la carnagione chiara e gli occhi azzurri li aveva presi dai Casadio. All’inizio, stentò a credere che quel frate fosse il figlio di Dollaro, lo stesso che mesi prima avevano seppellito nel cimitero di Stellata. Quella storia del maiale, poi, la trovava inverosimile. Doveva ammettere però che la somiglianza c’era, ma come esserne sicuri? L’ultima volta che lo aveva visto, Achille aveva dodici anni.

«Dimmi il nome del padre di Dollaro, e anche quello di sua madre», ordinò.

«Giacomo Casadio è il padre e Viollca Toska è la madre.»

«E che fa di bello Giacomo?» lo incalzò Ada, la moglie di Alfonso.

«Si è impiccato quando mio padre era piccolo.»

I due coniugi si guardarono.

«Quanto fa 2345 per 18?» gli chiese allora Alfonso.

Pochi secondi dopo, il ragazzo rispose: «42.210».

Alfonso prese carta e penna e fece il conto. Alla fine alzò lo sguardo. «Achille, bòia d’un mond lèder! Sei proprio tu!»

Alfonso e Ada vivevano con i loro tre figli in una casa colonica sulle prime colline del Bolognese. Come molti agricoltori della zona, alternavano la lavorazione dei campi con l’allevamento dei bachi da seta. La casa era circondata da un ettaro coltivato solo a gelsi, le cui foglie servivano a nutrire le larve. Dato che Achille aveva una mano sola, ed era comunque prudente che non si facesse vedere troppo in giro, fu deciso che avrebbe aiutato con i bachi. Lieta di essere sollevata da quell’incombenza, Ada lo portò in solaio per mostrargli cosa fare.

Lo stanzone era pieno di strutture di legno a più piani; ogni piano conteneva una grata di canne coperta di foglie di gelso su cui strisciavano le larve. «I bachi da seta valgono più dell’oro e bisogna trattarli bene. Come prima cosa, devi prendere l’abitudine di disinfettare pavimenti e attrezzi con acqua mischiata allo zolfo. I bachi prendono facilmente delle infezioni ed è importante mantenere tutto pulito. Poi devi assicurarti che il solaio sia sempre ben arieggiato e non ci sia mai troppo freddo né troppo caldo. Quella stufa tra un po’ bisognerà usarla. Seguiamo la produzione fino ai bozzoli, poi li portiamo a Bologna per venderli in piazza del Pavaglione.»

I bachi erano posti su graticole costruite con canne palustri. Questo sistema permetteva la formazione di lettiere che, poste sotto le canne, raccoglievano le uova. Man mano che i bachi nascevano e crescevano, venivano spostati ai piani superiori, costantemente riforniti con foglie fresche. Lì salivano dentro le fascine di erica che Ada aveva preparato e iniziavano a produrre il filamento con cui costruivano il bozzolo. I migliori venivano venduti; dagli altri uscivano le nuove crisalidi che riprendevano il ciclo, accoppiandosi e deponendo nuove uova.

Occuparsi dei bachi implicava ordine e precisione, virtù che Achille apprezzava. Così dichiarò che era un lavoro bellissimo e l’avrebbe fatto con piacere.

Due giorni dopo l’arrivo del giovane, Alfonso andò a Stellata per far sapere ai cugini che Achille era vivo. Diede la notizia a Dollaro con cautela, timoroso che una simile rivelazione gli facesse venire una sincope.

Lui però non si scompose. «Lo sapevo», disse semplicemente, e gli spiegò ridendo che, per non destar sospetti, andava spesso con la famiglia... a portar fiori sulla tomba di un maiale.

In attesa che la guerra finisse, Dollaro e Domenica dissero che sarebbero andati a trovare il figlio almeno una volta al mese.

 

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Un paio di settimane dopo il suo arrivo, Achille si trovava in solaio a rifornire i bachi di foglie fresche, quando sentì lo scampanellio di un calesse. Poco dopo, Ada lo chiamò dall’aia.

«Achille, ven zò. A ghè ’na ragazèla cat zerca!»

Lui si sporse da una finestra: lì, al centro dell’aia, seduta su un calesse, redini in mano, c’era Angelica: indossava un vestito rosso, uno scialle e un cappellino legato sotto il mento con un fiocco.

Poco dopo, la ragazza gli spiegò di aver lasciato il convento dopo la sua partenza, ma che i suoi zii, unici parenti rimasti dopo la morte dei genitori, adesso la spingevano affinché tornasse a fare la monaca.

«Non vogliono saperne di mantenermi, anche se in verità i soldi ce li hanno, e tanti. Ma io in quel convento non ci vado», ripeteva.

«Puoi sempre provare da un’altra parte.»

«Non voglio più farmi monaca. Voglio stare con te.»

«Angelica, accidenti, io non penso al matrimonio. Ti ho mai detto di amarti?»

«Imparerai a farlo.»

«Adesso sali sul calesse e te ne torni a Bologna.»

«Io non mi rassegno, Achille. Vengo di nuovo la settimana prossima, ogni settimana, finché non ti convinci.»

Achille era disorientato. La determinazione di Angelica intaccava l’ordine che stava finalmente ritrovando nella casa dei gelsi. Non sapeva come reagire a una tale irruenza, anche se, rifletté, la determinazione era una delle doti che più aveva apprezzato in Anita Garibaldi. Ma Anita era un sogno irraggiungibile, mentre Angelica era lì, in carne e ossa, e lo confondeva.

«Tu sei pazza!» le gridò, esasperato.

«Pazza o sana, io ti voglio bene e tornerò qui finché non me ne vorrai anche tu.»

Achille pensava che scherzasse, invece la ragazza fu di parola. Da quel giorno, ogni giovedì mattina, Angelica riappariva alla fattoria di Alfonso.

All’inizio, Achille nemmeno si sforzava di scendere. Non appena sentiva lo scampanellio del calesse, chiudeva la porta della soffitta con un calcio e non si faceva vedere se non quando Angelica era ripartita. Poi, a poco a poco, la presenza della ragazza diventò talmente abituale che lui imparò a conviverci. Finirono per mangiare allo stesso tavolo con la famiglia, ma in silenzio, anche se lei cercava inutilmente d’iniziare con lui una conversazione. Dopo pranzo, Angelica saliva in soffitta, si sedeva accanto alla stufa e lo osservava curare i bachi. Poi, verso sera, tornava a Bologna, ma prima di partire gli consegnava sempre una lettera. Achille la apriva di malavoglia solo dopo giorni, e nemmeno sempre. Erano tutte lettere d’amore.

Alfonso e Ada provavano pena per quella ragazza così minuta, però anche così determinata. «Ma i tuoi zii lo sanno dove vai ogni giovedì?» le chiesero un giorno.

«Certo che no. A loro dico che vado in un ospedale vicino a fare opere di bene per vedere se mi torna la vocazione. Sperano che prima o poi mi convinca a tornare in convento.»

«Ci dispiace, per Achille», le dicevano, imbarazzati, quando lui le passava davanti senza nemmeno degnarla di uno sguardo.

«Non importa. Se a voi non dà fastidio, giovedì io torno. Forse un giorno cambierà idea.»

 

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Le visite settimanali di Angelica continuarono per oltre un anno. Arrivava ogni giovedì, in calesse, il cavallo tenuto al trotto. Ormai si comportava come una di famiglia. Aiutava Ada ad apparecchiare, poi dopo pranzo insisteva per lavare i piatti, oppure si offriva di accudire i bambini. Persino Achille, nel tempo, si abituò alla sua presenza, come se la consuetudine di averla in giro per casa gli avesse fatto scordare la ragione di quelle visite. Intanto le lettere d’amore di Angelica continuavano e, sebbene lui avesse giurato a se stesso che le avrebbe bruciate senza aprirle, alla fine le lesse tutte.

Arrivò così il dicembre del 1850. Era l’ultimo giovedì prima di Natale e fuori c’era la neve. Per riscaldare i bachi, Achille aveva acceso la grossa stufa. Stava caricando la legna, quando sentì lo scampanellio che, ogni settimana, annunciava l’arrivo di Angelica. Poco dopo, udì la ragazza che faceva gli auguri.

«Buon Natale anche a te, cara» le diceva la Ada.

«E Achille?»

«È su con i bachi.»

«Ora salgo.»

«Lascialo perdere. Quell’asino non se lo merita!», borbottò Alfonso.

Angelica salì veloce le scale fino a raggiungere la soffitta. «Ciao, Achille.»

Lui nemmeno rispose e continuò a lavorare.

Angelica non si scoraggiò e gli porse una lettera. «Buon Natale. Aprila solo il 25. Sono salita anche per dirti che questa è la mia ultima visita. Non t’importunerò più.» Poi, rapida com’era entrata, uscì e scese le scale di legno.

 

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Passarono le feste, poi trascorse tutto gennaio senza che Angelica tornasse. All’inizio, Achille si sentì come liberato. Ma, ogni giovedì mattina, non poteva fare a meno di andare a sbirciare in continuazione dalle finestrelle della soffitta. Aspettava lo scampanellio del calesse, ma l’aia restava vuota; e, più restava vuota, più si faceva strada in lui la nostalgia di Angelica. Il suo bisogno di regolarità aveva preso il sopravvento. Con sorpresa, Achille scoprì che quella ragazza testarda e determinata iniziava a mancargli. Poi gli venne in mente la busta che lei gli aveva dato come ultimo regalo. Se n’era scordato. Corse a prenderla e la aprì. Dentro c’era solo un foglio con due equazioni.

 

x1(t) = -α1x1(t) + R1x2(t) + I1(A2)

x2(t) = -α2x2(t) + R2x1(t) + I2(A1)

 

Achille passò molte ore calcolando e ricalcolando, senza però riuscire a decifrare le formule. Le studiò per giorni, divorato dal suo bisogno d’ordine, dalla necessità di trovare risposte precise a ogni singola domanda. Ma Angelica conosceva la matematica molto meglio di lui e quelle dannate equazioni rimasero un mistero.

Dopo due settimane, divorato dalla curiosità, Achille andò in cucina. «Ada, per caso sapete dove abita?» chiese con aria disinvolta.

«Chi?» lo punzecchiò lei.

«Dai, avete capito. Angelica.»

«No, non lo so. Visto come la trattavi, non ho pensato di chiederglielo.»

Achille corse da Alfonso, sperando che almeno lui gli fosse d’aiuto.

«L’èsen al cgnóss al benefézzi dla cô sol quand an l’ha più. L’asino conosce il beneficio della coda soltanto quando non l’ha più», gli rispose Alfonso. Poi aggiunse: «Vieni».

L’uomo recuperò in fondo a un cassetto una busta. Sopra, con la calligrafia minuta ed elegante di Angelica, stava scritto: Per Achille. Per quando ne avrà bisogno.

Il ragazzo la aprì con aria stupita, sentendosi come il topo quando segue la traccia del formaggio pur sapendo che il gatto è in agguato.

 

Caro Achille,

se aprirai questa lettera, vorrà dire che non avrai saputo risolvere le equazioni che ti ho regalato prima di uscire dalla tua vita. Ma, se aprirai questa lettera, vorrà anche dire che hai capito che risolvere le equazioni era tanto importante quanto ritrovare la via che ti riconduceva a me. Scrivimi all’indirizzo che metto qui sotto e io tornerò per rivelarti il loro significato.

 

LA TUA ANGELICA

 

Achille fece spedire subito un telegramma. Il giovedì successivo, accompagnata dallo scampanellio del calesse, Angelica ritornò nella sua vita.

Non appena la vide sull’aia, un cappottino blu dai bottoni dorati e un cappello bordato di pelo bianco, Achille sentì una strana allegria nel petto.

Quando gli fu davanti, il ragazzo respirò il suo profumo di arance e di sapone e si sentì felice. Angelica gli disse: «Avanti, mettiamoci al lavoro». E salì con lui nella soffitta.

Si sedettero l’uno vicino all’altra.

«I due innamorati sono I1 e I2 e la quantità di amore che uno prova per l’altro è rappresentata da x1 e x2», spiegò Angelica. «Il modello della teoria è dunque rappresentato dal calcolo...» E iniziò a chiarirgli le equazioni, giungendo alla conclusione che il modo in cui si genera l’amore deriva da una serie di regole e formule precise, che non si possono né ignorare né scartare, perché era scientificamente provato che: «Se due particelle microscopiche interagiscono per un certo periodo di tempo con una certa modalità, e poi vengono separate, non si possono più descrivere come due particelle distinte, ma in qualche modo condividono alcune proprietà. Un po’ quello che accade a due persone che s’innamorano: anche se la vita le allontana, continueranno ad avere l’una qualcosa dell’altra».

Le due equazioni lui non le comprese mai sino in fondo, ma quel giorno, mentre sedeva accanto a lei e si avventuravano insieme lungo i cammini luminosi della matematica, Achille ebbe la certezza che Angelica era la persona con cui voleva condividere la vita.

Si sposarono in segreto, in presenza solo dei genitori di Achille, degli zii della sposa e del prete. Alfonso e Ada fecero da testimoni e tennero a battesimo i tre figli che negli anni seguenti nacquero alla coppia: il primogenito Ugo, cui fu dato il nome dell’eroico sacerdote; Anita, in onore della moglie di Garibaldi, e il piccolo Menotti, come l’eroe emiliano del Risorgimento.


 

1861

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Terminata la seconda guerra d’indipendenza e formatosi il Regno d’Italia, Achille Casadio tornò a vivere a Stellata. Nella casa della Fossa dovevano nascere gli ultimi due figli della coppia: Beppe, come il generale Garibaldi, e Edvige Rosa, il primo nome come la nonna materna, il secondo in onore della madre di Garibaldi.

Negli anni che trascorsero insieme, Achille e Angelica si dedicarono con entusiasmo allo studio della fisica e della matematica. La giovane, inoltre, decise di diventare ostetrica. Per far fronte alla scarsa presenza di levatrici, erano stati istituiti dei corsi presso gli ospedali. Sebbene maritata da poco, Angelica vi si era iscritta con slancio e, per quanto Ada arricciasse il naso, dato che era già incinta del primo figlio, si era diplomata.

Oltre a lavorare in campagna, Achille s’improvvisò inventore. Sempre alla ricerca di novità e meraviglie del progresso, fu tra i primi a Stellata ad acquistare un modello di mietitrice automatica, il che suscitò l’invidia dell’intero paese. Per un compleanno, regalò ad Angelica una scatola di legno con un obiettivo in vetro e in ottone: serviva per realizzare i dagherrotipi, un’invenzione francese che fermava i tratti delle persone su una lastra di rame con la precisione di uno specchio.

Spesso, però, Achille tendeva a concentrarsi su studi di assoluta irrilevanza pratica, come il calcolo del peso dell’aria o di quello del fiato; oppure s’immergeva in esperimenti legati alla trasformazione dei metalli, che ad Angelica ricordavano più l’antica arte dell’alchimia che la scienza moderna. Riuscì comunque a far brevettare alcune invenzioni, come la macchina automatica per fare i cappelletti e un sistema per intrattenere i bambini, formato da imbracature attaccate a cinghie elastiche da appendere in fila agli olmi o ai pioppi. I suoi figli trascorsero giornate intere ad andare su e giù, gorgheggiando felici, mentre i genitori lavoravano, o percorrevano i misteriosi meandri della scienza. Fu poi la volta del vestito di sughero per far stare a galla chi non sapeva nuotare e di certe spaventose bambole meccaniche che ruotavano gli occhi ed emettevano grida tanto stridule da terrorizzare le bambine. Nel 1877, ossessionato dal fatto che, da giovane, aveva rischiato di essere seppellito vivo, Achille presentò all’Ufficio Brevetti una bara speciale dotata di una banderuola, «l’indicatore di vita». Si poteva azionare dall’interno della cassa, ruotando una serie di maniglie che muovevano un quadrante posto in superficie. Il brevetto però gli fu rifiutato: un sistema simile era infatti in uso da tempo in Inghilterra, e aveva già salvato più di una persona.

 

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La vita di Achille e Angelica fu lunga e felice. Videro crescere i figli e morire i membri più anziani della famiglia. Solo il primogenito, Ugo, e Edvige, la figlia più piccola, causarono problemi alla coppia.

Ugo, il prediletto di Achille, e di gran lunga il più intelligente dei suoi figli, aveva sfidato la volontà della famiglia, prima diventando sacerdote della Compagnia di Gesù, poi andando in Brasile come missionario. Achille non gli aveva mai perdonato quella scelta. Per anni, tutte le speranze della famiglia erano state riposte in lui. A scuola, Ugo si era dimostrato così bravo che i genitori avevano deciso di farlo studiare. Achille e Angelica avevano venduto delle terre e speso tutti i risparmi guadagnati dai brevetti per mandare il primogenito all’università. Ugo era il loro orgoglio: da semplice contadino, sarebbe diventato dottore, il primo dei Casadio ad arrivare tanto in alto. Desideravano che diventasse medico e contribuisse con le sue ricerche alla marcia del progresso, ma lui, a un anno dalla laurea, aveva lasciato gli studi per entrare in noviziato. Achille non lo aveva salutato quand’era partito per il Brasile e non aveva mai risposto alle sue numerose lettere. Angelica invece aveva pensato che quello era il giusto prezzo da pagare a Dio per il suo voltafaccia quando, da giovane, aveva rinunciato a farsi monaca per amore.

Se il marito aveva sempre avuto un debole per il primogenito, Angelica si era innamorata fin dal primo momento di Edvige, nata quando lei aveva quarantadue anni. Non appena l’aveva vista, Angelica aveva riconosciuto nella bambina i suoi stessi lineamenti e gli stessi capelli color rame. Una volta cresciuta, notò che aveva anche ereditato la sua intelligenza e l’indole romantica.

Edvige era la più bella delle figlie, la più brillante e avveduta. Fin da quando aveva iniziato a sillabare, aveva preso tutti voti alti, soprattutto in lettura e grammatica. La bambina adorava la scuola. Ah, come amava l’odore dei sillabari e dei libri di lettura, o le copertine nere dei quaderni, i gessi colorati. E c’erano le cartine geografiche con disegnati sopra i fiumi, i mari, i vulcani e le montagne. La scoperta più eccitante fu che si poteva riprodurre ogni suono con dei segni. Le pareva impossibile che si potessero formare sulla carta i nomi di tutte le cose, ma proprio tutte. Imparò pure che ogni parola era contenuta in due grandi volumi rilegati in pelle che la maestra teneva sulla scrivania. Su essi c’era scritto: Vocabolario italiano. La signora Gina le spiegò come usarli e quei libri divennero il suo gioco preferito. Ogni nome che le veniva in mente era là dentro e nel posto giusto, in un ordine preciso e prestabilito, e lei si divertiva a cercarlo.

Quando Edvige compì dieci anni, Achille la tolse dalla scuola. Aveva fatto studiare Ugo, il primogenito, e dopo tanti sacrifici lui lo aveva ripagato facendosi prete. Non avrebbe ripetuto lo stesso errore, specialmente con una femmina. Angelica lottò per mesi contro quell’ingiustizia con la stessa veemenza e cocciutaggine che aveva usato per far innamorare il marito tanti anni prima, ma quella volta non riuscì nel suo intento.

«La scienza e la matematica gliele puoi insegnare tu. Il resto è tempo sprecato», concluse il marito, e fu irremovibile.

Però era tardi: Edvige si era già appassionata alla lettura e nel tempo l’attaccamento ai libri finì per riempirle la vita. Iniziò a chiedere romanzi in prestito alla sua vecchia maestra e la signora Gina fu felice di procurarglieli. Ogni mese, la donna si recava alla Biblioteca Ariostea di Ferrara per poi tornare a Stellata con la borsa piena di libri. Fu attraverso la maestra che Edvige conobbe gli autori russi. Lesse Guerra e paceAnna KareninaI fratelli Karamazov. Passò quindi agli scrittori francesi: Hugo, Balzac, Dumas... Infine, Edvige scoprì Madame Bovary e ne rimase folgorata.

 

Nel fondo della sua anima, Emma aspettava che qualche cosa accadesse. Come i marinai in pericolo, volgeva gli occhi disperata sulla solitudine della sua vita e cercava, lontano, una vela bianca tra le brume dell’orizzonte.

 

Quel Flaubert sembrava conoscerla, parlava proprio di lei! Edvige non riusciva a smettere di leggere. Lo faceva di nascosto fino a tarda notte, al lume di candela.

Crescendo, la figlia più piccola di Achille si era trasformata in una giovane fin troppo bella. Aveva occhi chiari, dalla forma allungata, lo sguardo intenso, e una massa di capelli ramati tali e quali la madre. Non era tanto la sua avvenenza a preoccupare i genitori, né quell’esercito di ragazzi che si ritrovava sempre intorno, ma piuttosto il suo temperamento smodatamente romantico. Sia Achille sia il nonno Dollaro si erano accorti subito della sua spiccata propensione a fantasticare. Non che soffrisse di malinconia o che tendesse al suicidio come Giacomo, ma si trattava comunque di un’altra inguaribile sognatrice. Edvige non voleva costruire arche, però si nutriva d’illusioni, di fantasie amorose che, temevano, l’avrebbero portata alla rovina.

Dollaro, ormai prossimo alla morte, un giorno l’aveva presa in disparte e le aveva raccontato per filo e per segno quello che Viollca aveva previsto molti anni prima leggendo i tarocchi. A quei tempi Edvige era appena adolescente e le parole del nonno l’avevano impressionata.

«Come fate a sapere che è tutto vero?»

«All’inizio nemmeno io ci credevo, ma una notte che andavo a caccia di rane quasi annegavo e ho avuto una visione. Lì ho capito che mia madre non si sbagliava. Su tutti i Casadio pesano le sue parole.»

Anche Achille era preoccupato. «Quella, se s’innamora, è capace di tutto», avvertì.

Le sue parole si rivelarono profetiche. All’età di ventun anni, Edvige s’innamorò e lo fece esattamente come una delle sue eroine letterarie: con la persona sbagliata, senza alcuna riserva, senza rimedio.

L’uomo che le cambiò la vita si chiamava Umberto Cavalli. Era arrivato a Stellata dal litorale per sposare una cugina di Edvige, Marta Casadio. Aveva occhi verdi e un fare dolce che si accattivava la simpatia di tutti. Marta invece apparteneva alla metà della famiglia con il sangue zingaro. Aveva la pelle bruna, lo sguardo languido, il naso leggermente aquilino e una massa di capelli neri che teneva raccolti in una treccia lunga fino ai fianchi. La ragazza perse la testa per quel giovane ma, quando Umberto la chiese in moglie, prese tempo. «Ti do una risposta domani», gli disse.

Passò la notte rigirandosi nel letto, in preda a un brutto presentimento. La famiglia le aveva messo in testa strane idee sui pericoli di matrimoni sbagliati e su certe profezie catastrofiche. Giunto il mattino, passò davanti allo specchio e le sembrò di scorgere il riflesso di una donna con penne colorate fra i capelli. Però, spalancate le persiane, nello specchio vide solo il proprio viso.

In quel momento, uno stormo di uccelli si alzò dalle fronde dell’olmo facendo gazzarra in cielo. Gli uccelli sono un segno di malaugurio, pensò Marta. Ma l’aria era fresca e il sole splendeva. La giovane decise che un giorno così bello non poteva che portarle fortuna. Dimenticò gli uccelli, l’immagine intravista nello specchio, il brutto presentimento che non l’aveva fatta dormire, e finì per sposare quel bel ragazzo dagli occhi verdi e dal sorriso accattivante.

Fu la mattina del matrimonio della cugina, giusto sul sagrato della chiesa, che Edvige Casadio vide Umberto Cavalli per la prima volta. Non si rese nemmeno conto che si trattava dello sposo e quando comprese l’errore era già troppo tardi.

In seguito, si disse che era stata lei a rovinare il ragazzo, fissandolo senza nessuna decenza il giorno stesso delle sue nozze. Da parte sua, quando Umberto incrociò gli occhi di Edvige pensò che aveva uno sguardo spiritato e sentì un brivido. Dopo, però, non riusciva a distogliere gli occhi da lei. Giunse al punto di girarsi più volte per cercarla tra la folla dei parenti, questo persino davanti all’altare.

Edvige e Umberto si evitarono per mesi e fecero del loro meglio per resistere all’attrazione che avevano provato subito l’uno per l’altra. Niente servì, e alla fine cedettero a una passione che doveva rovinare due famiglie.

Edvige subì per anni il risentimento dei suoi. «Disgraziata! Con un uomo sposato ti dovevi impegolare, e lei è tua cugina!» l’accusavano.

Ci furono sere in cui, per impedirle d’incontrarsi con l’amante, Angelica mise la figlia sotto chiave. Lei aveva idee moderne e quella figlia la adorava, ma a tutto c’era un limite. Lì si trattava di non distruggere un matrimonio, un sacramento inviolabile.

Da dentro la sua prigione, Edvige gridava: «Aprite, se no mi ammazzo! Giuro che se non aprite mi taglio le vene!»

Non si tagliò le vene ma, nelle notti in cui fu tenuta prigioniera, Edvige riuscì a rompere a spallate due lucchetti, tirò giù i tendoni e scaraventò contro la parete parecchi oggetti di valore.

I suoi erano sbigottiti.

«Ma da chi avrà preso?» si chiedeva Angelica.

«La colpa è di tutti quei libri!» assicurava Achille. Ma, nella figlia, lui scorgeva l’irruenza che lo aveva contraddistinto nei suoi giorni da garibaldino.

Una sera, di nuovo chiusa a chiave nella sua stanza, Edvige aprì i vetri e iniziò a urlare: «Aiutatemi, chiamate i gendarmi! Mi hanno chiusa dentro come un animale!»

Di gendarmi non se ne videro, ma la famiglia si ritrovò sotto casa un gruppo di paesani che, bocca aperta e naso all’insù, assistevano allo spettacolo di quella scellerata.

I genitori, a quel punto, decisero che dovevano allontanare Edvige da Stellata. Sarebbe andata a vivere dai figli di Alfonso e di Ada, sulle colline dopo Bologna, nella speranza che il distacco curasse quella passione malsana. L’avrebbero lasciata là per mesi o addirittura per anni, se necessario.

«Nemmeno con la forza!» inveì la ragazza quando venne informata della decisione.

«O fai le valigie e te ne vai buona buona dai tuoi cugini, o vendiamo casa ed emigriamo tutti. In America, o in Argentina. Anche in Africa con i beduini, purché sia lontano da quel disgraziato», le rispose Achille senza scomporsi.

Edvige capì di non avere scelta e, una settimana dopo, lasciava il paese, singhiozzando di rabbia e d’amore.

Per mesi, la ragazza ignorò le lettere dei suoi, chiudendosi in un silenzio risentito. Passò un anno intero in quel modo. Poi, da un giorno all’altro, iniziò a scrivere ai genitori lettere piene di affetto. Raccontava di aver trovato lavoro presso una sarta, di sentire la mancanza della famiglia e di aver ritrovato dentro di sé un po’ di pace.

«Sembra sincera», azzardava Angelica.

«No, troppo calma. Non mi fido», ribatteva Achille, arricciandosi i baffi con l’unica mano che gli era rimasta.

Dubitavano. Ma infine Edvige spedì una lettera dove, con molta umiltà, chiedeva scusa per i suoi eccessi e pregava il padre d’intercedere con Marta affinché la perdonasse. A quel punto, Achille lasciò cadere le ultime riserve e si disse disposto ad accoglierla di nuovo in seno alla famiglia.

Dopo sedici, lunghi mesi di lontananza, Edvige rifece le valigie, prese la corriera, poi il treno, poi un altro treno e finalmente si ripresentò a Stellata. Nemmeno ventiquattro ore dopo, la relazione con Umberto era ricominciata, più scandalosa che mai.

La giovane sopportò le punizioni del padre, le minacce del confessore, le scenate di Marta e i rimorsi della propria coscienza. E, mentre la cugina passava da una gravidanza all’altra, lei sacrificava ogni speranza di matrimonio e figli per amore di Umberto. La relazione doveva continuare per anni, finendo per stancare pettegoli e preti. Si trasformò, forse per pura noia, in un fatto accettato da tutti, compresa la moglie tradita.

 

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Un pomeriggio di luglio, Umberto era uscito dopo il pranzo con la scusa di una passeggiata portandosi appresso due dei suoi bambini. Li aveva poi lasciati a giocare su una spiaggetta del fiume per correre dall’amante che lo aspettava nel bosco di pioppi. Prima di andare, aveva ordinato ai figli di non entrare in acqua.

«Nel Po non si va finché non torno. Avete capito?»

Ma era un giorno di gran caldo e, vinti dalla canicola, dopo aver fatto l’amore, i due amanti si erano addormentati l’uno nelle braccia dell’altra. L’afa galleggiava sul fiume, le pecore riposavano nell’ombra e il frinire delle cicale riempiva l’aria. La pace del pomeriggio era stata rotta dalle grida di Marta. Umberto aveva spalancato gli occhi. «I bambini...» Aveva detto solo quello. Poi si era rivestito alla meglio e si era precipitato verso la spiaggetta dove li aveva lasciati. Correva con la camicia aperta e senza scarpe, incurante dei rovi e delle spine. In cuor suo, sentiva che la sua vita era finita.

I due fratellini avevano aspettato a lungo l’arrivo del papà. Il più piccolo insisteva per fare il bagno, il maggiore non voleva, ma faceva troppo caldo e alla fine aveva vinto il richiamo del fiume. Si erano tolti i vestiti ed erano corsi in acqua. Ridevano, battevano mani e piedi, si tuffavano a testa in giù. Riempivano la bocca d’acqua poi risalivano, spruzzandola fuori. Di colpo il più piccolo era stato risucchiato da un mulinello traditore. Il fratello di otto anni lo aveva raggiunto ed era riuscito ad afferrarlo per i capelli. Aveva lottato contro la corrente, ma poi anche lui aveva finito per sparire nel gorgo.

Verso le quattro, insospettita dall’assenza dei figli e del marito, Marta era uscita a cercarli. Stava per prendere il sentiero dell’argine quando aveva notato un uomo che avanzava in senso contrario. Non appena si era avvicinato, la donna aveva sentito le gambe cedere, un sudore freddo imperlarle la fronte: appesi al collo del contadino c’erano due serpenti con la pancia bianca, entrambi con la testa mozzata.

«Dove li avete presi?» gli aveva chiesto Marta.

«Là, proprio dietro il vostro orto. Erano attorcigliati l’uno con l’altro.»

Marta si era messa a correre a perdifiato verso il fiume. Giunta alla spiaggetta, aveva trovato i sandali, le camiciole, il cappellino di paglia del più piccolo. Aveva chiamato a lungo i bambini, gridando i loro nomi, ma già sapeva cos’era successo.

Ritrovarono i corpi tre giorni dopo a quasi dieci chilometri dal paese. Galleggiavano, gonfi e bluastri come certi pesci tropicali.

Marta perse la ragione. Si rifiutava di mangiare e passava le notti chiamando tra i singhiozzi i figli morti. Una sera di ottobre, due pescatori la videro scendere dall’argine. Avanzava a passi lenti, gli occhi da zingara fissi sull’acqua del Po. Indossava una camicia da notte lunga fino ai piedi, la grossa treccia era sciolta e una cascata di capelli neri le copriva i fianchi. I due uomini la chiamarono, ma lei continuò a camminare verso il fiume senza voltarsi. Entrò nell’acqua e si confuse subito con la corrente.

I pescatori la riportarono a terra svenuta e con l’acqua nei polmoni. La adagiarono sulla riva melmosa. I lunghi capelli galleggiavano ancora nel fiume, formando intorno al suo viso un’enorme raggiera, come una grande coda di pavone. I due uomini la fissavano spaventati e intanto premevano le mani sul torace: su e giù, su e giù, con forza, finché dalla sua bocca non uscì un fiotto d’acqua.

Quando rinvenne, Marta fissò i pescatori come se stesse sognando. Poi disse: «Che Dio vi maledica, tutti e due». Chiuse gli occhi, e la bocca le si trasformò in una smorfia che l’avrebbe accompagnata fino al suo ultimo giorno.

La donna non rivolse più la parola a nessuno. Si rifugiò in un suo mondo costruito sull’odio e sul rancore. Si esprimeva solo annuendo o scuotendo la testa, ma ancora la si sentiva di notte, mentre chiamava a gran voce i figli morti. Dopo quei fatti, la famiglia si trasferì con i tre figli ancora in vita da parenti nel Novarese e di loro non si seppe più nulla.

Dal giorno della tragedia, Edvige si chiuse in un silenzio tanto profondo quanto la pazzia di sua cugina. Da ribelle e battagliera, si trasformò in una creatura dal temperamento schivo e dallo sguardo spento. Diede via tutti i suoi abiti, e da allora si vestì unicamente di nero.

La famiglia accettò quella tragedia con rassegnazione, come un debito che prima o poi bisognava pagare. Quell’evento era il frutto del loro essere diversi, sempre propensi ai sogni e alle sciagure. Era il passato che si ripeteva, il risultato di quel mischiare il loro sangue contadino con un sangue selvatico e straniero. Rientrarono a casa dal funerale dei due bimbi con i cuori gonfi, ma nutrendo la speranza che perlomeno i morti ora si sarebbero messi tranquilli. In fondo, i timori di Viollca si erano avverati: il matrimonio infelice c’era stato, come pure il gorgo d’acqua e i bambini morti annegati. Però lo spettro di Viollca non smise di tormentare i loro sogni e ben presto i Casadio compresero che la profezia della zingara avrebbe continuato a perseguitarli.

Nel tempo, la famiglia si abituò al silenzio di Edvige al punto di dimenticarsi quasi di lei. Quando si ammalò di morbillo e non scese in cucina, nessuno sembrò notarlo, nemmeno sua madre. Quand’era piccola, l’aveva amata con un’intensità che non aveva riservato agli altri figli, ma quella relazione illecita l’aveva provata e, alla fine, pure Angelica aveva perso la pazienza. Edvige fu lasciata senza cibo per tre giorni. Quando la febbre diminuì, riuscì a trascinarsi giù dal letto e a dirigersi barcollando lungo il corridoio, ma cadde svenuta davanti alla dispensa, sopraffatta dall’odore dei salami all’aglio appesi a dozzine alle travi del soffitto.

Dopo la disgrazia, la stessa Edvige giunse alla conclusione che i libri d’amore le avevano offuscato il cervello e giurò che in vita sua non avrebbe più letto un romanzo. Visto che per lei un matrimonio era ormai impossibile, pensò che doveva trovare un modo per mantenersi. Una cosa che aveva imparato a fare nel suo periodo di esilio bolognese era cucire, così mise la vecchia Singer di famiglia sotto la finestra della cucina e, per più di mezzo secolo, divenne la sarta di Stellata, confezionando vestiti da sposa per tutte le donne del paese.

I primi tempi la si vedeva ancora nei giorni di mercato. Passava lungo la strada per Bondeno in piedi sul carro, magnifica e terribile nel suo abito nero, gli occhi azzurri fissi all’orizzonte e quella straordinaria massa di capelli ramati lasciati liberi sulle spalle. Con una mano impugnava le briglie, con l’altra frustava il cavallo. Il suo sguardo era impenetrabile e aveva sulla bocca una smorfia di disprezzo. Poi, con il passare degli anni, iniziò a uscire sempre meno. La si vedeva solo se si recava in chiesa, o nelle sere d’estate, quando cercava un po’ di fresco sull’argine. Con l’avvicinarsi della vecchiaia, abbandonò anche le messe domenicali e le passeggiate lungo il fiume, finché il paese non si dimenticò di lei.

Edvige Casadio smise di vivere di sogni e iniziò a vivere unicamente di ricordi. Nella sua lunghissima vita, vide morire l’uno dopo l’altro tutti i parenti con i quali era cresciuta. La bisnonna Viollca se n’era andata nel 1862, prima della sua nascita, ma suo padre Achille e il nonno Dollaro parlavano così spesso di lei che, negli anni, Edvige si convinse di averla conosciuta. Quand’era piccola, il suo babbo soleva mostrarle un dagherrotipo che la ritraeva. Le raccontava che quel ritratto glielo avevano fatto quand’era già morta, per poterla ricordare per sempre. Avevano preso il cadavere e lo avevano sistemato alla meglio su una sedia con i braccioli. Dollaro e Domenica avevano preso posto da un lato; lui e Angelica dall’altro. Davanti alla zingara, sedevano tutti i nipoti.

«Mia nonna quel giorno pareva una regina sul trono», le raccontava Achille. «Avevamo sistemato con cura le balze dei sottanoni. Vedi? I suoi capelli erano ancora nerissimi e le penne di fagiano formavano sulla testa una grande corona. Era magnifica, addobbata come una Madonna, con le file di collane e gli anelli su tutte le dita.»

«Il suo sguardo fa paura», aveva osservato Edvige.

«Perché lei sapeva vedere al di là delle cose, anche oltre la propria morte.»

Quel giorno, Ugo era stato scelto come fotografo. Non appena impressa la lastra di rame, Angelica era corsa a svilupparla. Dopo venti minuti era tornata. Sembrava confusa. Aveva dato la lastra al marito, muta, e Achille era sbiancato: in piedi, dietro la sedia di Viollca, s’intravedeva un uomo magro e spigoloso. Aveva lo sguardo sconsolato e un cappio gli pendeva intorno al collo.

Dopo la bisnonna Viollca, era toccato a Dollaro. Quando morì, Edvige aveva diciassette anni e se lo ricordava bene. Aveva uno sguardo tenebroso, da gitano, e capelli sempre arruffati, neri fin nella vecchiaia. La gente però diceva che, nel tempo, il suo carattere aveva iniziato a somigliare sempre più a quello del padre Giacomo, morto suicida. Negli anni, pure Dollaro era diventato cupo e silenzioso e, come il suo babbo, aveva preso l’abitudine di passeggiare lungo le rive del Po, portandosi appresso qualche nipote. Edvige lo aveva accompagnato spesso. Da piccola, camminava svelta per tenere il suo passo. Se uscivano dopo un temporale, la bambina correva davanti al nonno per portare in salvo le lumache, ché lui era sempre sovrappensiero e si rischiava che finissero sotto i suoi passi distratti.

Poi, all’età di novantun anni, anche Dollaro Casadio disse addio al mondo, vedovo da molti anni ma circondato dall’affetto della sua famiglia. Durante i giorni dell’agonia, i figli e i nipoti più grandi gli stettero accanto, vegliandolo e stringendogli la mano. Poco prima di spirare, lui spalancò gli occhi.

«Che avete, nonno?» chiese Edvige, che in quel momento gli sedeva vicino.

«Che stran insoni... Che sogno strano», disse lui. E si mise a piangere.

«Cos’avete sognato?»

«C’erano tutti i parenti della nostra famiglia, anche quelli non ancora nati...»

«... Quelli non ancora nati?»

«Sì, a io vist tuti, a io vist bén. Anche i vostri figli, e i figli dei vostri figli...» rispose Dollaro faticando a trovare la voce.

«Nonno, ma perché piangete?»

«Troppi di loro non erano felici, tutti persi dietro qualche sogno impossibile... e poi... Dio santo, quello che ho visto è stato terribile...»

«Era la febbre, non ci pensate.»

«No, non capisci!... Mia madre non era riuscita a comprendere cosa sarebbe successo, non era riuscita a vedere bene. Invece io... adesso so cosa succederà... Edvige, ascoltami, è importante che...»

Spirò a metà della frase. Morì piangendo e alla ragazzina parve che continuasse a piangere anche da morto, parecchio tempo dopo che l’ultimo respiro lo aveva lasciato.

Lo seppellirono nella cappella di famiglia. Spostarono la pesante lastra di marmo per deporre il feretro nella tomba centrale dove c’erano i genitori e fu allora che si resero conto con stupore che la bara di Viollca era stata aperta: qualcuno aveva spostato il coperchio e aveva rubato le collane e gli anelli. Tutti pensarono a una vendetta degli zingari, forse della stessa famiglia di Viollca, che mai aveva accettato il suo matrimonio con un gagé. Ma nessuno ebbe il coraggio di dare voce a quel pensiero. Anche perché c’era un’altra cosa, ancor più sorprendente: mentre Giacomo era ridotto a un mucchietto d’ossa, Viollca era intatta. I suoi capelli, nerissimi, non avevano smesso di crescere e ormai le arrivavano ai piedi. Pure le penne di fagiano c’erano ancora. Deposero Dollaro in mezzo ai due e, mentre rimettevano a posto il coperchio della bara di Viollca, uno dei presenti ebbe l’impressione che il cadavere della donna avesse un fremito. Giurò di averla vista addirittura muovere gli occhi verso quel suo unico figlio e, per un attimo, sembrò sorridergli.

1909

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La famiglia Casadio continuava a vivere nella casa della Fossa, nell’esatto punto di confine tra la provincia di Ferrara e quella di Mantova. I pavimenti di cotto consumato, che prima erano stati lucidati da Viollca, poi da Domenica, e infine da Angelica, ora venivano strofinati con tenacia dall’Armida, la moglie dell’ultimo figlio maschio di Achille. Li lucidava in ginocchio, con il panno, l’olio rosso, braccia forti e due mani che pareva un uomo. La trovavi sempre indaffarata con i lavori di casa, perché per lei l’amore non era fatto di baci o di carezze, ma di azioni concrete: accertarsi che i bambini andassero a scuola con le orecchie pulite e i grembiuli stirati; invasare la marmellata di albicocche; tirar fuori le maglie di lana quando arrivava l’autunno, e riporle nei cassetti con la canfora quando giungeva il primo caldo. Per l’Armida, erano quelle le cose che restavano nel cuore. Ne era convinta, com’era convinta di essere stata fortunata prendendosi per marito Beppe Casadio: un uomo sì burbero, ma onesto, in più aveva tante bestie e parecchie biolche di terra. Nella stalla, c’erano due mucche e il cavallo; nel porcile, un maiale e tre scrofe. In paese, la famiglia Casadio era considerata benestante, anche se i figli erano tanti e i soldi che entravano servivano più che altro per mandarli in giro vestiti con decenza e con le scarpe ai piedi. Ma almeno loro il pane e il companatico l’avevano.

In quei tempi grami, erano molte le famiglie di Stellata che facevano la fame. Ogni anno, nei giorni di San Martino e terminato l’ultimo lavoro nei campi, quelli che non possedevano un pezzo di terra si preparavano a fare trasloco. Caricavano sul carretto le loro quattro cose e iniziavano a vagabondare di podere in podere in cerca di lavoro per la nuova stagione. Avanzavano nella nebbia, le ossa deboli e una fame mai saziata, che rendeva i figli rachitici e le donne senza denti prima dei quarant’anni.

In quegli anni, dal paese emigrano a centinaia. Seguono parenti e compaesani che se ne sono già andati a cercar fortuna dall’altra parte dell’oceano. E ora scrivono che là, in America, lavoro ce n’è da vendere. Basta avere braccia forti e voglia di fare, poi i soldi arrivano: moni, tanti moni, e città con strade grandi come i fiumi, e palazzi alti come torri, e tram scintillanti, treni velocissimi, viali pieni di automobili! Scrivono che, la sera, le città si accendono con così tante luci che ogni volta sembra la notte di Natale.

Mese dopo mese, più gente sogna di partire. Vendono la vacca, o il mulo, e se ne vanno con le toppe ai pantaloni e l’anemia nel sangue. Dalla piccola stazione di Stellata prendono il treno per Poggio Rusco, poi da lì quello per Milano. Hanno paura di perdersi, paura che gli rubino le poche lire cucite dentro il risvolto delle mutande. E se poi non trovano il treno giusto? E se non capiscono i nomi e gli orari che il prete gli ha scritto sul foglio? Da Milano cambiano per Genova e lì s’imbarcano su qualche piroscafo della Regia Marina per cercar fortuna in terra d’America. Hanno nella valigia le fotografie dei genitori, perché loro sono vecchi e preferiscono morir di fame piuttosto che partire, almeno la loro miseria la conoscono e non fa tanta paura come quella terra persa in mezzo all’oceano, che solo a pensarla li lascia sgomenti. Chi rimane resta a lottare contro le invasioni degli insetti, le malattie del frumento, la paura di una grandinata d’estate o delle inondazioni del fiume a novembre. Tutte disgrazie che, in un sol colpo, potevano rovinare l’intero raccolto.

 

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Nel 1909 a Stellata non morì nessuno. In compenso il parroco fu tenuto occupato da un numero spettacolare di battesimi e soprattutto di benedizioni, perché quell’anno in paese successero stranezze come mai prima. Nel giro di pochi mesi, nacquero cinque coppie di gemelli; il giorno di Pasqua, la campana della chiesa si fracassò al suolo, e la notte di San Lorenzo la giumenta del Marietti diede alla luce un puledro con due teste.

In giro correvano strane voci. «Hanno ammazzato troppi serpenti buoni. È per quello che il mondo adesso gira al contrario», sussurravano molti.

«Quali serpenti?» chiedeva l’Armida, che veniva dal Mantovano e nulla sapeva di quella superstizione.

In effetti, quell’anno, ben sette serpenti con la pancia bianca erano stati trovati morti in paese. Qualche contadino che non sapeva di quella leggenda, o non ci credeva, li aveva uccisi tagliando loro la testa. In ansia per l’accumularsi di tante stramberie, la gente adesso non dimenticava mai di mettere una ciotola di latte sulla soglia di casa.

Fu in quell’anno rigoglioso di nascite e di mostruosità che venne al mondo la sesta figlia di Beppe Casadio. Nacque in agosto, nacque di piedi e, quando la portarono alla finestra, la prima cosa che si trovò davanti fu un mondo alla rovescia: un paesaggio polare nel bel mezzo dell’estate padana.

 

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Quando le si ruppero le acque, l’Armida si trovava nei campi a tagliare bietole. Chiamò Nellusco e Pasquino, i figli dispersi fra le zolle, e liberò il piedino di Amelia, la bambina più piccola, dall’olmo cui la teneva legata affinché non si allontanasse. Se la caricò sul fianco e, barcollando, si diresse verso casa.

Faceva un caldo da bruciare le farfalle. L’aria fumava sui campi, l’afa cuoceva i polmoni. Di colpo, un’ombra grande metà del cielo coprì di nero il mondo. Si alzò il vento. L’Armida vide gli alberi piegarsi dentro un buio che pareva già notte e le camicie stese ad asciugare volar via come fantasmi sopra le teste degli uomini. Le anatre e le chiocce dei cortili fuggirono starnazzando, mentre dai campi mietuti si alzarono turbini di pagliuzze d’oro.

Armida arrivò a casa, ansimando sotto il peso del figlio nel ventre e quello della bambina sull’anca. I dolori si erano fatti più intensi.

La prima persona che incontrò fu sua cognata Edvige.

«Metti a bollire dell’acqua, ché il bambino ha deciso di nascere», le disse, madida di sudore, le labbra color della cenere. Poi abbassò lo sguardo: un rivolo di sangue le scendeva lungo le gambe e correva sul pavimento. «Erasmo, va’ a chiamare l’Angelina», gridò al primogenito. «Dille di venire subito, in fretta!» Poi, rivolgendosi a un altro figlio: «Nellusco, cerca tuo padre. Dev’essere andato dal fabbro».

I due ragazzini corsero via, spaventati dal tono allarmato della madre e dalla vista del sangue.

«Meglio se ti metti a letto. Se vuoi, do un’occhiata per vedere a che punto sei», le disse Edvige che, con la madre ostetrica, aveva imparato un po’ di cose.

«Non fa niente, aspetto l’Angelina. Tu cerca di tenere a freno i bambini», le chiese l’Armida. Con la cognata lei non era mai andata molto d’accordo. Quando si presentava in cucina, tutta vestita di nero, e con quell’aria da Maria Addolorata sul viso, le pareva fosse entrata una folata d’inverno, pure se erano in piena estate.

 

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In quel momento, ignaro di ciò che avveniva in casa sua, Beppe Casadio si trovava sullo stradone dell’argine. Avvolto da una nuvola di polvere, si tappava il naso al passaggio di un’automobile. La Fiat Tipo 1 Fiacre si allontanava scoppiettando con a bordo il signorotto del paese, Samuele Modena, e la sua famiglia. I Modena erano ebrei, si diceva che fossero i più ricchi di Stellata, e che avevano fatto soldi sfruttando i prestiti che davano alla povera gente, anche se niente di tutto quello era vero. Semplicemente, lavoravano sodo importando lana e tessuti pregiati. Tenevano all’eleganza: lui era vestito all’inglese, la moglie indossava i guanti e la veletta; i bambini vestivano alla marinara, mentre le femminucce sfoggiavano vestiti di pizzo e un fiocco di raso sui boccoli.

«Dannate macchine! Buone solo a sputar olio e fumo puzzolente!» borbottava Beppe. Si passò la mano tra i capelli, così folti e selvaggi che non c’era verso di farli stare a posto. Erano in molti a giurare che quei marchingegni presto avrebbero sostituito cavalli e calessi. Primo fra tutti quel pazzo di suo padre Achille, sempre entusiasta delle nuove scoperte e fervente sostenitore del progresso. Balle! Beppe Casadio non avrebbe scommesso un centesimo su quegli aggeggi ridicoli. Erano vizi, cose da ricchi senza futuro.

Era immerso in quei pensieri quando si sentì chiamare: «Papà! Venite, la mamma sta male».

«È il bambino nuovo?» chiese Beppe, allarmato, gli occhi neri da zingaro fissi sul figlio.

«Non so, ma le esce tanto sangue...» rispose Nellusco, il terrore nello sguardo.

I due s’incamminarono svelti verso casa. Il vento soffiava forte e avevano iniziato a cadere le prime, grosse gocce di pioggia.

 

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Intanto l’Armida si era lavata alla bell’e meglio fra una doglia e l’altra, poi si era messa a letto raccomandandosi alla Madonna. Fuori, il vento faceva tremare i vetri e il cancello sbatteva in continuazione, innervosendo ancor di più la partoriente.

Presto il dolore si fece insopportabile. Le urla dell’Armida si mischiavano alle raffiche della tormenta facendo fuggire di casa topi, ragni e galline. I bicchierini da vermouth ballavano come indemoniati dietro la vetrina della credenza.

In cucina, Edvige aveva messo sul fuoco un pentolone pieno d’acqua e preparato gli asciugamani freschi e le fasce per il bambino. A ogni urlo della cognata, Edvige sentiva qualcosa di amaro crescerle nel sangue. Avrebbe voluto sentirli lei, quei dolori. Li avrebbe sopportati tutti senza un lamento. Invece eccola lì, ormai vecchia, ad assistere ancora una volta al parto di un’altra donna.

Adele, la figlia più grande dell’Armida, intanto cercava di calmare i fratellini, ma continuava a piangere e loro, spaventati, non la smettevano di litigare e far baccano. L’unica tranquilla pareva l’Amelia che, seduta sotto il tavolo della cucina, mangiava gli avanzi della cena buttati lì la sera prima per i gatti.

Beppe Casadio rientrò, ormai bagnato dalla testa ai piedi. Corse dalla moglie. «Avete già chiamato la levatrice?» le chiese, preoccupato.

«Sì, ci ha pensato Erasmo. Tu porta i bambini nella stalla se no si spaventano», replicò l’Armida. Avrebbe voluto la suocera accanto a lei, a farle nascere quel figlio come aveva fatto con tutti gli altri, ma l’Angelica era morta un anno prima di nefrite e mai come in quel momento l’Armida ne aveva sentito la mancanza.

Beppe Casadio tornò in cucina e chiese all’Adele di portare nella stalla i bambini più piccoli. Poi si sedette al tavolo e, con la mano che tremava, si versò un bicchiere di vino e ne versò uno anche alla sorella. «Non l’ho mai sentita soffrire in quel modo», si rammaricò.

«Quei dolori portano solo fortuna», gli rispose Edvige, la voce secca.

Ma Beppe, agitato, iniziò a tormentarsi i baffi.

I bambini, dalla stalla, avevano ripreso a schiamazzare. «Qui è tutto pronto per l’Angelina. Meglio se vado a dare una mano a Adele», disse Edvige. E si alzò per raggiungerli.

L’Armida vomitò e poi si distese di nuovo, più bianca del lenzuolo, in attesa della levatrice. Ma Erasmo non tornava e, dell’Angelina, nemmeno l’odore. Finalmente, la porta si aprì, e il ragazzino corse dalla madre. «Non è voluta venire, ma ha detto che prima di sera arriva.»

«Come, non è voluta venire?» strillò l’Armida.

L’Angelina quel giorno si stava già barcamenando tra due parti difficili che la malasorte aveva programmato per lo stesso cambio di luna. «Quando sono cominciati i dolori?» aveva chiesto al ragazzo.

«Saranno un paio d’ore, ma non l’ho mai vista stare così male.»

«Di’ a tua madre che ho un parto gemellare e un’altra donna con il bambino di traverso nella pancia. Deve stare calma, che di tempo ce n’è.»

Di tempo, invece, non ce n’era. L’Armida di figli ne aveva avuti cinque e di quelle cose sapeva. Si coprì il viso con le mani. «Oddio, mi sento morire!» gridò, trafitta da una doglia più violenta.

Beppe afferrò tabarro e cappello. «Cerca di star calma, vado a chiamare il dottore.»

Uscì di corsa. Attaccò il cavallo al biroccio e sparì nella bufera.

L’Armida pregava Dio che non la prendesse con sé. Non per lei, giurava, ma per i figli che erano ancora così piccoli. L’Adele aveva quattordici anni e l’Erasmo quindici, ma gli altri andavano ancora a scuola e l’Amelia nemmeno camminava.

Il travaglio continuò tra le grida dell’Armida e la furia del temporale. Finalmente, tra il rimbombare dei tuoni e i bagliori dei lampi, si sentirono prima un galoppo, poi un lungo nitrito e infine una serie di passi concitati.

La porta si aprì e Beppe entrò con il dottor Negrini.

L’Armida sbarrò gli occhi. «Non sarete mica matti! Cosa ci fa lui, qui?»

«La levatrice non c’è e il dottor Sarti ha un febbrone. Dobbiamo ringraziare il Cielo che il dottor Negrini si è prestato...»

«Dov’è l’Angelina?» ripeteva l’Armida, gli occhi sbarrati, il viso sconvolto.

«Ascolta, devi ragionare...» insistette Beppe.

«No e poi no! Non sono mica una vacca o una cavalla. Voglio un dottore, non un veterinario!»

«Le creature di Dio nascono tutte nello stesso modo», si affrettò a dire il Negrini.

Una nuova doglia impedì ad Armida di replicare. Sentì qualcosa scivolare fuori dal corpo; allungando una mano, si ritrovò tra le dita qualcosa di liscio che tutto poteva essere, tranne una testa. «Oh, Madonna santa... Mi sta nascendo per i piedi.»

Il dottor Negrini nemmeno si tolse la giacca. Si lanciò verso la donna, ordinando che uscissero tutti. La porta si chiuse con un tonfo.

Grondante di pioggia, Beppe Casadio tornò in cucina. Fuori, il vento infuriava e il cielo era talmente nero che avevano dovuto accendere la lampada.

Poi il vento cessò e un silenzio irreale scese sulla casa. In quel momento, la grandine cominciò a cadere, chicchi grossi come noci che, nel giro di pochi minuti, coprirono i campi, le strade, i cortili, l’argine del Po, i carri nell’aia.

Un vagito si alzò nell’aria. Beppe Casadio scattò in piedi e corse dalla moglie: l’Armida aveva le labbra bianche e i capelli bagnati di sudore, ma sorrideva. Il dottor Negrini porse a Beppe un asciugamano con dentro una creaturina rossa e rugosa che strillava. «Un’altra femmina, vispa come una rana.»

Aveva smesso di grandinare. Il sole adesso filtrava attraverso le fessure delle persiane e tingeva le pareti di strisce luminose. Beppe Casadio prese fra le braccia la figlia nuova e la osservò. Come lui, aveva preso dal ramo degli zingari, scura com’era e con tutti quei capelli neri. Poi portò la bambina alla finestra, per farle conoscere il mondo.

Spalancò le persiane e rimase lì, con la figlia tra le braccia e la bocca aperta. Dopo tutta quella grandine, il mondo luccicava sotto un mantello candido. Più che agosto, sembrava Natale.

«Piena estate, e guarda un po’. Pare neve. Come la chiamerete?» chiese il dottor Negrini.

Beppe Casadio ci pensò solo un momento. «Neve. Si chiamerà Neve. Le porterà fortuna.»

 

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«Neve? Che nome è?» chiese l’Armida.

Fu la stessa domanda di don Gregorio quando giunse il momento di battezzare la neonata. Il vecchio parroco si asciugò con il fazzoletto la testa calva, luccicante di sudore. «Non se ne parla. Ci vuole il nome di una santa. Una santa conosciuta e con un bel nome italiano.» E continuò, dicendo basta con i vari Dollaro, Menotti, Nellusco, e le altre eresie che i Casadio tiravano fuori ogni volta che gli nasceva un figlio. La famiglia stava esagerando. Neve... addirittura! E come avrebbero chiamato i prossimi figli? Tempesta, Temporale... Diluvio Universale? Il sacerdote si fece il segno della croce. Del resto, rifletté, doveva avere pazienza, era la virtù dei santi. I Casadio, nonostante le loro stranezze, erano gente onesta, gran lavoratori e tutti rispettosi della religione, non come quei socialisti mangiapreti che crescevano lì intorno più dei funghi.

Quando giunse il giorno del battesimo, prete e genitori si accordarono per Natalia ma, proprio com’era successo con Dollaro, nessuno la chiamò mai con il nome ufficiale. Per tutti, lei rimase «Neve».

 

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La bambina passò i primi anni gattonando intorno alle gambe della madre, o giocando sotto il tavolo della cucina, tra le sottane delle donne e gli stivali fangosi degli uomini. Nelle sere d’inverno, uno dei momenti che aspettava di più era quando la madre la portava a dormire nel letto appena riscaldato dal «prete», un trabiccolo di legno con all’interno una padella di braci che l’Armida infilava sotto le lenzuola. La stanza era gelida ma, quando sua mamma toglieva il prete, il letto era caldo, una tana invitante. La Neve si raggomitolava sotto le coperte, si metteva il pollice in bocca, e si addormentava felice.

Ogni tanto la bambina vedeva la madre o l’Adele che toglievano le lenzuola e ne mettevano altre e si chiedeva che fine facessero quelle vecchie. Il mistero delle lenzuola scomparse fu chiarito solo la primavera seguente, quando le vide riapparire tutte insieme dentro un calderone che sua mamma e l’Adele avevano sistemato su un grosso fuoco al centro del cortile. Scoprì così che le lenzuola si tenevano per un mese, poi si giravano dall’altra parte e, quando venivano sostituite, quelle sporche finivano in solaio in attesa della primavera e della bugada grosa. Le lenzuola si facevano bollire con la cenere, e diventavano più bianche e profumate che usando dei saponi costosi, commentava con orgoglio l’Armida.

Fu mentre portava delle lenzuola sporche in solaio, che la moglie di Beppe scoprì un’antica scatola di legno intarsiato. Stava in un angolo ed era coperta da un dito di polvere e strati di ragnatele. La donna, incuriosita, la prese in mano: sembrava molto vecchia e aveva un bordo di metallo. Iniziò a strofinare. Pare proprio argento, pensò. Incuriosita, cercò di aprirla, ma non ci fu verso.

Scese le scale con la scatola sotto il braccio e andò a cercare il marito. Lo trovò nella stalla.

«Beppe, guarda cos’ho trovato. Hai per caso la chiave?»

«Saranno vent’anni che la cerco. Dov’era finita?»

«In solaio, ma non riesco ad aprirla. Sembra molto vecchia...»

«Era di mia nonna Domenica. Diceva che l’aveva ereditata da mia bisnonna Viollca. Dammela... E questa non si tocca.»

L’Armida pensò che aveva perso il conto di tutte le stranezze del marito. «Ma cosa c’è dentro?»

«Ricordi, un mazzo di carte... roba da niente», tagliò corto Beppe. Prese la scatola di Viollca, l’avvolse con cura in una pezza di cotone, e la nascose in un angolo in fondo all’armadio della sua stanza, così che i bambini non potessero trovarla. E là sarebbe rimasta, generazione dopo generazione.

 

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D’estate, Neve andava nei campi con la madre. Anche per lei venne il momento di essere legata per un piede sotto l’olmo. I seggiolini con gli elastici inventati da Achille erano stati abbandonati da tempo, dopo che alcuni bambini erano ruzzolati per terra.

Lì, all’ombra, circondata da neonati che puzzavano d’urina e sgambettavano dentro le ceste di vimini o punzecchiata dai più grandicelli, che correvano in giro seminudi e coperti di polvere, Neve cercava con gli occhi l’Armida, che vedeva curva sull’immensa distesa di frumento. Invidiava i più piccoli perché, se si mettevano a strillare, venivano subito consolati dalle madri, che accorrevano, la camicetta bagnata, i seni che già sprizzavano latte.

Ogni tanto la bambina si assopiva sulla terra calda, il pollice in bocca. Si svegliava se le donne intonavano qualche canzone o quando, sollevandosi per un attimo dal mare di spighe, si lanciavano in battute maliziose, che lei ascoltava senza capire: «Ma di’ ben, Marisa, cosa fai te la notte? Guarda le occhiaie che c’hai! Meglio se cercate di darvi una calmata voi due, che qui c’è da lavorare. Sior padrón, venga un po’ a vedere le occhiaie che c’ha oggi la Marisa. Bisogna che la teniamo a dormire con noi, puvreta, se no lui là ce la rovina!» E tutte scoppiavano a ridere di gusto.

Quando doveva fare la pipì, Neve chiamava a gran voce l’Adele. Era lei la sorella che amava di più: le aveva insegnato a parlare, l’aveva aiutata a fare i primi passi e a tenere in mano il cucchiaio. Adele si sollevava di scatto e la raggiungeva sotto l’olmo. Poi le tirava su il vestito, la girava e, sollevandola per le gambe, la teneva a penzoloni a mezz’aria.

«Dai, falla.»

«Non mi scappa più.»

«Muoviti, se no la fai da sola.»

«Se faccio da sola poi mi bagno la sottana.»

«Falla, altrimenti ti arrangi!»

Neve allora si concentrava. Le cosce sostenute dall’Adele, i piedi che ciondolavano, vedeva il filo di pipì scendere, scavare un piccolo buco nella polvere, correre in un rivolo lucente sul campo.

Al tramonto, l’Armida scioglieva il piedino di Neve e se la caricava sulle spalle come un agnello. Poi radunava gli altri figli e, rientrati a casa, li lavava uno alla volta nel catino di stagno, con l’acqua del pozzo e un sapone che facevano a novembre, quando si ammazzavano i maiali.

 

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Quando aveva quattro anni, la Neve si ammalò gravemente. L’Armida si accorse che aveva la febbre, ma credette non fosse niente di serio, visto che ai suoi figli succedeva spesso. Giunta la sera, però, la bambina iniziò a rovesciare gli occhi. Erasmo andò a chiamare il medico.

«Bisogna ricoverarla subito», disse quest’ultimo, serio, dopo averla visitata.

Beppe e l’Armida avvolsero la bambina in una coperta, salirono sul carro e, nel pieno della notte, la portarono all’ospedale di Bondeno. Neve ancora reagiva, ma dopo poche ore cadde in coma. Al mattino non dava più segni di vita.

Un medico prese da parte i genitori. «Non c’è nulla che possiamo fare; è nelle mani del Signore.»

«Ma cos’ha?» insisteva Beppe.

«Non lo sappiamo. Le abbiamo preso il sangue e le urine, ma ci vuole del tempo per analizzarli e purtroppo la bambina sta peggiorando molto rapidamente. Il battito cardiaco è debolissimo e ha difficoltà a respirare. Dovete prepararvi.»

«Mia figlia non è ancora morta», disse l’Armida, risoluta. «Io non mi muovo da qui finché non la salvate.» E, con un’occhiata di sfida, si sedette accanto al letto.

Per un’intera settimana, la Neve non accennò a migliorare. Beppe e l’Armida non la lasciarono sola nemmeno un minuto. Arrivò persino il momento in cui chiamarono un sacerdote per darle l’estrema unzione. Poi, la mattina del settimo giorno, Neve aprì gli occhi, guardò la madre e disse con fare tranquillo: «Ho fame».

L’Armida scattò in piedi e abbracciò la figlia sin quasi a soffocarla. Quindi, tremando, corse a chiamare i medici.

Sbalorditi, questi iniziarono a tempestare la bambina di domande. Le chiesero come si chiamava, quanti anni aveva, chi era la donna accanto a lei. Poi le esaminarono le pupille e le fecero seguire con lo sguardo il movimento di una matita.

«Incredibile!» esclamò uno di loro, e ordinò a Neve di mettersi in piedi. Lei fece per alzarsi, ma le gambe cedettero e cadde per terra. All’inizio, pensarono si trattasse solo di debolezza, ma si sbagliavano: Neve era rimasta paralizzata dalla vita in giù.

I genitori la riportarono a casa, cercando di consolarsi con il fatto che, se non altro, era ancora viva. Presero dalla soffitta un carrellino che suo nonno Achille aveva costruito prima che lei nascesse. Aveva due ruote laterali che la bambina era in grado di manovrare. Una volta che si fosse abituata a usarlo, Neve avrebbe potuto muoversi in autonomia.

Beppe si stava rassegnando a quella situazione, ma non l’Armida: lei decise che, se la scienza era stata incapace di guarire del tutto la Neve, allora avrebbe chiesto l’intercessione della Madonna, o di qualche santo, perché il miracolo non poteva essere lasciato a metà.

Andò dal parroco, gli confidò le sue speranze e lui le suggerì di recarsi subito a Bologna. «Chiedi la grazia a santa Caterina. Lei sì che può aiutarti.»

E le raccontò la storia di Caterina de’ Vigri e della sua miracolosa sepoltura. «Era monaca clarissa e, dopo aver condotto una vita santa in parole e in opere, anche per lei era giunto il momento di ricongiungersi con il Signore. Come si usava presso le monache a quei tempi, Caterina era stata sepolta nell’orto del suo convento, quello in via Tagliapietre, avvolta in un semplice lenzuolo. Ma il misterioso splendore che si diffondeva da quella modesta tomba aveva convinto le monache a riesumare il corpo. Dopo diciotto giorni, avevano trovato il cadavere miracolosamente intatto, a parte il viso, segnato dalle vanghe e dai badili. Caterina era stata messa allora in una bara, in attesa di darle una sepoltura più dignitosa, ma il mattino dopo lei era bella, bianca e pastosa», spiegò il prete, ispirato, e continuò: «In più, emanava un odore ora di zucchero caramellato, ora di narcisi, o di rose. Per questo alla fine le monache avevano deciso di non sotterrarla e, qualche anno dopo, stabilirono di esporla nella loro chiesa, seduta su una sedia intarsiata d’oro. E c’era voluto l’ordine della badessa perché Caterina, tutta rigida, accettasse di accomodarsi sul trono. Da allora, è sempre lì e dicono che, quando le sorelle le devono cambiare l’abito, la Santa le aiuti, alzando braccia e gambe per facilitargli il compito. Non si contano i miracoli che ha fatto», concluse don Gregorio con un sorriso benevolo.

La storia colpì molto l’Armida. La donna decise che doveva assolutamente andare dalla Santa e chiederle d’intercedere per Neve.

Così, il giorno dopo, si presentò al convento di via Tagliapietre con tanto di carrellino e bambina paralitica. Le monache le fecero entrare nella cappella dove, nella penombra, seduta su un imponente trono dorato e illuminata solo da varie file di candele, stava la Santa.

«Rimanete tutto il tempo di cui avete bisogno», le dissero, congedandosi.

L’Armida si ritrovò sola di fronte alla mummia. Per fortuna, Neve dormiva; sarà pur stata miracolosa, ma a lei la Santa faceva impressione, seduta su quel trono, la testa piegata in avanti e la pelle tanto scura e appassita da sembrare cuoio. Al posto degli occhi, c’erano due buchi e la bocca era piegata in una smorfia, come se lei fosse infastidita. Armida però si fece coraggio e si mise a pregare.

A tratti le sembrò che l’espressione sul volto della Santa cambiasse e ci fu un momento in cui le parve persino di udire un sospiro. Fu sul punto di prendere la bambina e scappar via, ma poi guardò Neve che dormiva nel carrellino e sentì una gran pena. Così chiuse gli occhi e riprese a pregare. Al secondo rosario, iniziò a biascicare le parole. Prima di giungere alla fine, dormiva, il mento abbassato sul petto.

Quando Neve si svegliò, la madre russava. La bambina si stropicciò gli occhi poi, piena di meraviglia, fissò il trono d’oro e la strana figura vestita di nero, il viso color della vinaccia. Le sembrò una bambola, solo più grande. A un tratto le parve di vedere una mano muoversi, poi sentì una voce.

«Vieni, mò vieni... Avanti, camina. Mè a la to età a saltaa i fòs par la longa! Io alla tua età saltavo i fossi per il lungo!»

Neve scese dal carrellino e, senza nessuno sforzo, si avvicinò alla Santa. Rimase a fissarla, più incantata che timorosa, infine superò le file di candele accese, le salì in braccio e iniziò a tempestarla di domande. Chiese quanti anni aveva, come mai la sua pelle era così scura, perché aveva tante rughe, e come faceva a parlare se era morta, e perché stava sul trono e...

«Mochè, mochè! Lasa po lì ad bacajàr, c’at mè bèla fat gnir al mal ad testa! Smettila di cianciare, che già mi hai fatto venire il mal di testa!» la interruppe la Santa.

Neve tacque di colpo, ma poi continuò a ispezionare la mummia, osservandola a destra e poi a sinistra, e infilando l’indice prima dentro le orbite, poi nel naso.

«Ahi!» gridò la bambina. La Santa le aveva morso un dito.

«E atenti che la prósima volta at riva un scupazón!» l’avvertì.

Al grido della Neve, sua madre aprì gli occhi. «Ma... ma come sei finita lì?» riuscì a malapena a balbettare.

«Mi ha morsicato!» replicò Neve, scendendo dalle ginocchia della Santa e correndo incontro alla madre.

Accorsero prima la badessa e poi un prete. Tanto stupefatti quanto l’Armida, s’inginocchiarono a ringraziare la Santa. Poi, il sacerdote prese da parte la donna e le raccomandò di non raccontare niente in giro: in fatto di miracoli, le spiegò, ci volevano esami medici, bisognava prima parlarne con il vescovo.

Senza capire bene perché una cosa così bella dovesse essere tenuta segreta, e pensando che comunque, a Stellata, sarebbe stato difficile nasconderla, l’Armida annuì. Ma la voce finì per diffondersi e non ci fu verso di arginarla. Giornalisti, curiosi e fedeli in cerca di miracoli iniziarono a presentarsi alla casa della Fossa, chiedendo di vedere la Neve, di parlare con lei e di poterla toccare. Una fotografia della bimba finì persino sul giornale di Ferrara con la didascalia: Miracolo! Bambina paralitica torna a camminare per grazia ricevuta.

Poi, a poco a poco, la gente finì per dimenticare e la vita della famiglia tornò alla normalità. L’Armida si limitava ad andare una volta all’anno in pellegrinaggio dalla Santa, per portarle cuffie di lino ricamate con le sue mani. Non poteva però ignorare che, dal giorno del miracolo, Neve era cambiata. Da lei ora emanava un profumo delizioso che, nei momenti di grande gioia, diventava più intenso. D’estate, poi, non era raro vederla correre cantando per i campi seguita da uno sciame di api. Molte le cadevano ai piedi ubriache, perduta la via del ritorno e sopraffatte dal suo dolcissimo aroma.